sicilia e mediterraneo in giorgio la pira

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Laicato e Vaticano II: problematiche aperte Concilio, una Pentecoste ancora aperta La comunione come radice della sinodalità ecclesiale Giorgio La Pira araldo francescano del Gran Re Sicilia e Mediterraneo in Giorgio La Pira Sei lettere inedite di Agostino Gemelli a Giorgio La Pira Padre Antonio Garra, apostolo della Regola francescana Recensioni . i ■ . *” UMC * 'Convento Santa Maria di Gesù - Ispica (Rg)

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Laicato e Vaticano II: problematiche aperte

Concilio, una Pentecoste ancora aperta

La comunione come radice della sinodalità ecclesiale

Giorgio La Pira araldo francescano del Gran Re

Sicilia e Mediterraneo in Giorgio La Pira

Sei lettere inedite di Agostino Gemelli a Giorgio La Pira

Padre Antonio Garra, apostolo della Regola francescana

Recensioni

. i ■ . *” U M C *

'Convento Santa Maria di Gesù - Ispica (Rg)

S o m m a r i o

Introdu zion e 7

StudiLaicato e Vaticano II: problematiche aperte Giorgio Campanini 11

Concilio, una Pentecoste ancora aperta Salvatore Nicolosi 17

La comunione come radice della sinodalità ecclesiale Giuseppe Ruggieri 29

Giorgio La Piraaraldo francescano del Gran Re Marcello Badalamenti 41

Scaffale

Sicilia e Mediterraneo in Giorgio La Pira Michelangelo Lorefice 71

Profili FrancescaniPadre Antonio Garra, apostolo della Regola francescana Marco Cottone 101

IneditiSei lettere inedite di Agostino Gemelli a Giorgio La Pira Marcello Badalamenti 119

B iblioteca 147

R ecensioni 153

Scaffale

Sicilia e Mediterraneo in Giorgio La Pira

M ichelangelo Lorefice*

Il centenario della nascita di La Pira è stato celebrato l'8 gennaio 2004 a Messina e nei due giorni seguenti nella natia Pozzallo con un convegno* 1 i cui atti sono stati pubblicati, a cura di Marcello Sai] a, nel volume Giorgio La Pira dalla Sicilia al Mediterraneo2. In esso risultano omessi interventi tenuti in quell'occasione e ne vengono presentati di estranei ad essa3.

L'intento dichiarato del curatore è quello di «indagare quanto dell'"Isola" La Pira si porta dentro quando diventa cittadino del mondo» e di «rendersi conto di quanto quel grande laboratorio di cultura che è il Mediterraneo, di cui la Sicilia è al centro, ha influito sulle scelte portanti della vicenda umana del celebrato» (7).

Nella prima sezione del volume («Gli anni siciliani») gli interventi risultano disposti secondo un ordine cronologico crescente, dagli anni pozzallesi fino alla partecipazione di La Pira al giubileo del 1925, che, in un certo senso, costituisce l'evento conclusivo di questa originaria fase della sua esistenza.

Nella seconda («I valori cristiani e la visione politica») vengono

'Docente di Filosofia e Storia nei Licei.1 II titolo del convegno era «Dalla Sicilia al Mediterraneo Giorgio La Pira profeta di pace nel mondo».2 Trisform, Messina 2005, s.i.p., pp. 332.1 riferimenti al testo sono indicati con il numero di pagina posto tra parentesi.3 Ad esempio, non compare la relazione tenuta l'8 gennaio da Francesco Mercadante («Giorgio La Pira e il genio cristiano della politica») e gli interventi della tavola rotonda del 10 gennaio. Gli studi non previsti dal programma sono invece quelli di Luigia Fur- nari, Annamaria Manetti Piccinini, Giuseppe Campione, Luciano Tosi, Angela Villani, Bruna Bagnato. La loro presenza non costituisce di per sé titolo di demerito; soltanto, notiamo, sarebbe bastato esplicitare tale scelta. Il volume, inoltre, non contiene l'indice dei nomi, fatto che accusa ima certa fretta editoriale. In appendice vengono presentate sette tavole che riproducono la mostra fotografico-documentaria sul periodo siciliano della vita di La Pira, allestita in occasione del convegno a cura di Grazia Dormiente, Giuseppe Miligi e Marcello Saija.

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affrontati i temi della politica, della pace e della solidarietà, della famiglia nei suoi rapporti con la società e con la storia, del ruolo della fede in La Pira.

Nella terza («L'impegno politico nel Mediterraneo») vengono analizzate la politica estera italiana nell'epoca di La Pira, l'incidenza su di essa, specie tramite i Colloqui Mediterranei, delle concezioni del Sindaco santo, le consonanze politiche tra Italia e Marocco.

La Pira uomo del Sud

L'intervento di Grazia Dormiente («Giorgio La Pira a Pozzallo») costituisce un essenziale affresco delle caratteristiche ambientali e storico-economiche di Pozzallo, cittadina «profondamente legata alle stagioni storiche del Mediterraneo» (56): nel Trecento fu "Caricatojo granario della Contea di Modica, nel Cinquecento e nel Seicento risentì dell'essere il Mediterraneo un mare di conflitti (guerra di corsa, pirateria ecc.), nel Settecento conobbe l'attivismo della borghesia agraria e della marineria locale, che nei primi decenni del secolo successivo la condurranno all'autonomia comunale.

Dallenotestorichel'Autricepassaalladelucidazionedialcunevicende della vita di La Pira, a cominciare dal suo trasferimento da Pozzallo a Messina. In effetti, il soggiorno presso lo zio Luigi Occhipinti non fu determinato da ristrettezze economiche, quanto, più verosimilmente, dalla sensibilità di una famiglia piccolo borghese che mostra non solo di avere coscienza delle potenzialità di Giorgio, ma anche una chiara volontà di portarle a compimento. Il contributo della Dormiente è, tra l'altro, assai utile in quanto concorre a sfatare il luogo comune di un presunto disinteresse di La Pira per la sua città natale. L'imputazione è quella di non aver egli fatto niente di rilevante per essa (la sistemazione di persone, qualche opera pubblica e così via)4. In realtà, il contributo

4 Per me non è un caso raro sentire, da parte di studenti pozzallesi, affermazioni orien­tate in tal senso. Certo, dietro le loro parole si intravedono i giudizi di adulti avvezzi a considerare come effetto principale dell'azione dei politici il concreto "vedere qualco­sa", cioè l'"ottenere" (talvolta, anche, l'ancor più concreto "afferrare"). Tale mentalità - purtroppo particolarmente difficile da ristrutturare nel Sud - va analizzata senza atteggiamenti di sdegno morale. Infatti la dice lunga su esigenze che rappresentano l'altra faccia delle negatività evidenziate: le aspettative per un'occupazione che, dando qualche certezza (in una terra dove, specie in ambito economico, ne ihancano mol­

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della Dormiente prova una cura "individualizzata" del Professore per gli amici, i parenti5 e numerosi personaggi pubblici pozzallesi (il preside Giuseppe D'Angelo, i sacerdoti Francesco Gugliotta e Rosario Canonico - dai tempi dell'infanzia ininterrottamente chiamati Don Ciccino e Don Sariddu - , gli amici del Circolo "S. Tarcisio"), nei confronti dei quali mostra quei fremiti di nostalgia e d'affetto che ciascuno riserva a persone e ricordi degli albori della propria storia personale. Pretendere gesti troppo particolaristici da una personalità come quella lapiriana significa non averne colto alcuni tratti essenziali, come, ad esempio, quello della compresenza in essa di due dimensioni che potremmo definire "idiografica" e "nomotetica". Voglio dire che una conoscenza anche non approfondita della figura del Professore rivela subito come in lui l'attenzione al concreto, al particolare, a chiunque

te), renda dignitosa l'esistenza; il bisogno di essere parte di un ambiente (a partire da quello urbano) che sia vivibile, e così via. E in ogni caso, che tale mentalità continui a sopravvivere nelle giovani generazioni dovrebbe sollecitare a un'azione formativa più chiara negli obiettivi e più incisiva nei metodi. Riguardo a La Pira, le numerose testi­monianze raccolte, provenienti da persone appartenenti a diverse categorie sociali, dicono che non si sottrasse mai alle richieste che gli pervenivano in tema di assistenza e aiuto materiale, intervenendo egli di persona e con opportune segnalazioni al fine di sollevare i postulanti dalle situazioni critiche in cui si trovavano (cf. EQ. SIGONA, Giorgio La Pira e i pozzallesi, Edi, Pozzallo 1989, 45ss). È anche da sfatare la leggenda secondo cui La Pira non fece niente per la sua Pozzallo. Tra i suoi interventi più signi­ficativi sono da ricordare: i finanziamenti di £ 100.000.000 per l'impianto della luce elettrica (Pozzallo fu il primo comune d'Italia ad ottenere dall'Enel i fondi per l'im­pianto urbano dell'illuminazione), di £ 30.000.000 per l'ampliamento del cimitero e di £ 3.500.000 per la realizzazione della canonica della chiesa di Porto Salvo; la promessa di far finanziare le opere per l'isolamento della Torre Cabrerà a condizione che gli am­ministratori ne presentassero il progetto. E se La Pira non potè andare oltre fu perché «i democristiani responsabili e i sacerdoti consideravano Giorgio La Pira un cristiano di idee rivoluzionarie, un comunista» (ibid., 62-63).5 A tal proposito, riflettendo sull'aspetto particolare del rapporto con i familiari, Ange­lo Scivoletto fornisce i dovuti chiarimenti riguardo a un presunto distacco (in senso ne­gativo) di Giorgio dalla famiglia: «[...] era il risvolto della sua scelta "monastica", pur vissuta nel mondo, amando evangelicamente il mondo; era il suo "voto di povertà", diventato suo gioioso stile di vita e motivo di libertà che, in certo modo lo "tagliava" dagli interessi e dagli assilli privatistici. [...] Appartenenza, dunque ancora più pura e autentica, anche se non conforme al "familistico" con cui ordinariamente si è presi e si corre dietro agli onesti affetti familiari! In questo spirito si può affermare che Giorgio La Pira era "dentro la parentela" più di tutti e più di tutti ne era fuori, come si convie­ne a chi "ha scelto la parte migliore"» (introduzione a G. LA PIRA, Lettere alla sorella Peppina, a cura di L. Rogasi, Vita e Pensiero, Milano 1993, X-XI).

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egli incontrasse sulla sua strada si accompagni sempre a visioni ampie, a considerazioni generali condotte dal punto di vista dei principi.

Anche lo scritto di Luigi Rogasi («I legami familiari di Giorgio La Pira») affronta il tema del rapporto con l'ambiente d'origine. Mentre Firenze venne «da lui considerata come prestigiosa "terrazza che si affaccia sul mondo"», divenendo persino una sorta di metafora-pregustazione del Paradiso, Pozzallo rimase «la città della famiglia, dove forti erano i ricordi legati all'infanzia lontana» (158). Sia la Dormiente che Rogasi affermano l'idea di una relazione mai recisa, anzi alimentata dalla corrispondenza epistolare6 e dai ritorni estivi: «La sua permanenza estiva a Pozzallo era la gioia comune di una famiglia che gli si stringeva attorno, permettendogli così di respirare quell'atmosfera del passato che tuttora continua a echeggiare fra i parenti anziani e i giovani» (160).

I due interventi, pur soffermandosi sul rapporto con Pozzallo, non indulgono minimamente al tentativo di delineare un "La Pira pozzallese", ma contribuiscono a far luce su un più probabile La Pira uomo del Sud. Si tratta quindi di caratterizzare in senso sociologico e storico, oltre che biografico, la sua appartenenza a questo territorio della Sicilia sud-orientale, evitando il pericolo di enfatizzare evidenze (non esiste uomo la cui esistenza non abbia assai precisi legami storico-temporali) e, nel contempo, quello di trasformare l'essere uomo del Sud in una categoria metafisica o, peggio, di appartenenza.

Un preciso apporto in tale direzione viene fornito dal lavoro di Piero Antonio Camemolla7 («La spiritualità siciliana di Giorgio La Pira»). L'intenzione dello studioso, ovviamente, non è quella di condurre a un parossistico regionalismo (che rivendica ad ogni costo primazie cronologiche e anticipazioni del La Pira maturo) la nota affermazione

6 Riferendosi all'intero arco della vita di La Pira, Rogasi ipotizza una produzione che oscilla tra le 40 e le 50 mila lettere. In verità, tale cifra, se non proprio mitologica, appare poco realistica. C'è da dire, comunque, che il genere epistolare fu largamente impiegato dal Professore, sbocco a una germinazione spirituale senza sosta e, al tempo stesso, ausilio maieutico nei confronti dell’interlocutore.7 Di Camemolla si veda Un cristiano siciliano. Rassegna degli studi su Giorgio La Pira (1978-1998), Sciascia, Caltanissetta-Roma 1999, che costituisce una lucida esposizione del suo pensiero e della sua attività. Il titolo del volume si riferisce al fatto che La Pira, essendo stato definito «profeta» da Ho Chi Minh, si rivolse a questi dicendo: «non chiamarmi profeta per favore, chiamami "cristiano siciliano"» (ibid., 369)!

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di Dossetti secondo la quale La Pira «non rinnegò mai le sue origini siciliane e, nonostante il suo matrimonio d'amore con Firenze, non indulse mai a nessun ibridismo, ma si mostrò sempre semplicemente fiero della sua terra e del suo popolo, e ne conservò sino alla fine le valenze più positive, come l'attitudine metafisica e insieme quella sua immediatezza innocente e intuitiva, che faceva il fascino della sua personalità»8. Si tratta piuttosto di seguire passo a passo le maturazioni vissute da Giorgio, scandite da vicende ed esperienze storiche concrete, a partire da quelle della fase siciliana.

Le puntuali notazioni psicologiche di Camemolla, indubbiamente avvantaggiato dal fatto di essere radicato, come il Professore, nello stesso lembo di Sicilia, ci restituiscono un'immagine oggettivamente delineata. Segnato dal terribile evento sismico che nel 1908 stravolse Messina, La Pira rivive a Firenze, tra la folla di derelitti che si riuniva alla messa di S. Procolo, l'attenzione per gli ultimi maturata in quell'occasione, facendola diventare segno di contraddizione in un ambiente un po' troppo chiuso nella coscienza del proprio splendore.

Camemolla opera un'interessante analisi dei registri linguistici adoperati da La Pira. La sua parola, semplice ed efficace nella portata comunicativa, rivelava in realtà contenuti complessi, quasi nell'ostinazione di voler partecipare a tutti, anche ai più deboli, il valore di fondamentali eventi e personaggi dell'epoca contemporanea (si veda il racconto della conversione di Costantino, la cui portata La Pira paragona a ciò che nella contemporaneità sarebbe avvenuto se Kruscev si fosse convertito). Lo studioso individua nella parlata lapiriana «la maniera in cui i nostri avi nelle lunghe sere invernali, dopo averci raccontato le gesta dei Paladini di Francia o le luminose storie di S. Rosalia o S. Genoveffa, ci invitavano a dormire bene. Era la prima educazione familiare e cristiana che veniva impartita ai fanciulli attraverso un linguaggio popolare. [...] Ma non mancava l'arguzia e la battuta tipicamente siciliane, oltre al tono canzonatorio di cui la nostra brava gente è maestra e che non ha niente da spartire con la fiorentinesca mordacità che spesso sconfina nella denigrazione» (173).

Camemolla chiarisce anche l'influenza su La Pira dei fratelli messinesi Federico e Mariano Rampolla del Tindaro. Il primo fu suo

8 Prefazione a G. LA PIRA, Il fondamento e il progetto di ogni speranza, Ave, Roma 1992, V i l i .

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professore di lettere all'Istituto "Jaci" di Messina; il secondo, sacerdote, colpì Giorgio per il suo «cristianesimo signorile, pensoso, interiore»(175) , fatto «di cose piane, di verità semplici, di comprensioni umane»(176) , come lo stesso La Pira ricorda.

Con Miligi9, lo studioso sostiene che fu Messina, più che Pozzallo, la terra che nutrì le radici siciliane di La Pira, «vir mediterraneus per l'animo e la mente che segnarono il suo modo di pensare e di agire e per la fierezza con cui si impose in ambienti a lui estranei e, per certi versi ostili» (165). Un uomo mediterraneo che ha contribuito alla redazione della Carta Costituzionale italiana: «senza volere sminuire l'apporto degli altri Padri della Costituzione, si deve riconoscere che la rifondazione dello Stato italiano attraverso la sua carta fondamentale ha radici mediterranee» (182).

L'ambiente messinese degli anni della permanenza lapiriana è l'oggetto dell'intervento di Marcello Saija («Politica e società a Messina negli anni di Giorgio La Pira»), che illustra l'evoluzione di Giorgio dal momento dell'adesione al fascismo fino al distacco da esso. Al fascismo egli era pervenuto attraverso il futurismo e il dannunzianesimo, «per la giovane matricola di giurisprudenza, soglia del massimo sentire» (76), mentre il fascismo per il diciottenne Giorgio La Pira «era un contenitore nel quale riponeva tutta l'ansia di rinnovamento e di modernità che aveva plasmato la sua anima negli anni della vita baraccata; nelle prime esperienze letterarie e politiche, nel contrasto ideologico con lo zio massone, e, persino, nelle tensioni religiose che avevano governato la sua inquieta adolescenza intellettuale» (76-77). L'affresco della società messinese (sulla quale l'Autore mostra conoscenze particolareggiate) è condotto tramite una carrellata di personaggi dalle concezioni tra loro più distanti e disparate. La Pira avverte il valore di uomini come il senatore Ludovico Fulci, docente di Procedura penale e Storia del Diritto italiano, ammiratissimo dallo zio Occhipinti, massone come lui, sicuramente critico nei confronti di Mussolini, che stava cercando di disfarsi del tradizionale blocco di potere massonico. Obiettivo, questo, perseguito (in sintonia col duce) anche dal catanese Gabriello Carnazza, ministro dei Lavori Pubblici, e da mons. Angelo Paino, neoarcivescovo di Messina. Ma si pensi anche al sodalizio di La Pira con Guido Ghersi, giovane filosofo che alla fine della guerra aveva

9 Cf. ibid., 23.

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abbracciato la fede cristiana, autore di La città e la selva, romanzo che influenzò notevolmente La Pira. È a Ghersi che Giorgio deve l'interesse per Vico, ed è grazie all'amicizia con lui che conosce un personaggio come Francesco Paolo Fulci, cugino di Ludovico, avvocato e filosofo di formazione positivista, che poco ha da spartire con le concezioni di Guido, ma che esercita su di lui il fascino dell'uomo di scienza. I due amici, «nelle discussioni con i cugini Fulci, sono certamente un fronte unico. Dissentono profondamente dalla matrice positivista e massonica che accomuna gli interlocutori, ma probabilmente non rinunciano al confronto delle idee che pur restando distantissime sul piano filosofico (con la sola eccezione di Vico) e religioso, finiscono per trovare inaspettate convergenze su quello letterario e politico» (84). La tesi di Saija è che nel rapporto tra La Pira e Ghersi «vi sia la sintesi conclusiva delle esperienze culturali, politiche e religiose maturate da La Pira. Una sintesi che, alla fine del periodo messinese, gli consentirà di distinguere dentro gli schieramenti e di portare con sé lo splendore e la vitalità della grande Chiesa messinese del primo quindicennio posterremoto e contemporaneamente la neoacquisita passione per la libertà, la tolleranza ed il confronto» (85).

Un approfondimento del clima messinese viene operato nel saggio di Luigia Fumari («Percorsi politici e letterari. Giorgio La Pira a Messina»), ricostruzione puntuale dell'evoluzione ideale di La Pira, ma anche del «gruppo di ragazzi "in calzoncini corti"» (88) al quale il dodicenne Giorgio si lega. La studiosa ne illustra le reciproche influenze: «Giuseppe Raneri, Salvatore Pugliatti, Rinaldo Denti, Salvatore Quasimodo, Giorgio La Pira lasciano molto presto i giochi sulle strade polverose per iniziative ed interessi di certo non usuali alla loro giovane età» (/. c.). Tale sodalizio, concretizzatosi nella Società Letteraria Peloro, diventa comunicazione e condivisione delle rispettive esperienze culturali. Le letture che si facevano riguardavano le opere di Dante, Platone, Moro, Campanella, Erasmo, «ma si occhieggiava anche al populismo russo e al simbolismo francese, al complesso della letteratura d'avanguardia, rappresentata, sul fronte italiano, da futurismo e dannunzianesimo» (89). La Pira fu in contatto con i più accesi sostenitori del futurismo messinese: Giuseppe Rino, Guglielmo Jannelli, Francesco Carrozza, Luciano Nicastro.

Successivamente egli aderisce, assieme a Quasimodo e Pugliatti, alla

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Lega Latina, associazione italo-francese sorta nel 1916 per corroborare la relazione tra Italia e Francia, coinvolgendo la gioventù di entrambe le nazioni a una conoscenza-collaborazione in nome delle cornimi radici latine.

L'affresco della intellighenzia messinese risulta davvero variegato e i personaggi che ne fanno parte appaiono collegati, anche per antitesi, gli uni agli altri. Interessante è il parallelo istituito tra gli eventi nazionali o intemazionali e i riflessi che essi hanno nella società messinese. Si veda, ad esempio, il racconto dello sfaldamento della Lega latina, al termine della guerra, in seguito alla delusione per ciò che nella Conferenza di Parigi (non) viene riservato all'Italia (nulla delle colonie tedesche e la mancata cessione della città di Fiume), con il conseguente spostamento del gruppo verso posizioni nazionalistico- dannunziane; oppure la narrazione della risonanza che a Messina ebbe la nascita del Partito Popolare Italiano, con la descrizione di un'intensa attività editoriale non solo cattolica, ma anche nazionalista, socialista e democratico-radicale.

La Fumari indica i testi salienti della formazione lapiriana. Il Sudario di Eugenio Donadoni affronta problemi che La Pira doveva avvertire parecchio in quegli anni: per dirla con l'autore, il «contrasto tra lo spirito e il senso, tra la fede e la ragione», e la riflessione sul senso della chiesa e del cattolicesimo nella storia. E poi, i testi della letteratura russa, in particolare Dostojevskij, tramite il quale Giorgio intravede «le contraddizioni del mondo russo: il materialismo e il fondamento spirituale, il bolscevismo ed una religione fortemente intrisa di umanità» (99). E, ancora, D'Annunzio, in particolare la sua lirica, nella quale «c'è anche la coscienza di una gioventù scossa dal torpore della pedanteria passata, in cerca di nuove forme e di forme migliori pel pensiero e per la vita: nel grido di D'Annunzio c'è il bisogno di tutto un popolo che risorge» (101).

La studiosa conclude che La Pira «attraverso Dostoevskij e D'Annunzio, congiunge il piano letterario e quello sociale. Dal movente narrativo si distacca con forza la sua ansia di qualcosa che, sul piano della politica e della storia, sia radicale, forte, nuovo, universale» (Z. c.).

Con la lettura della Storia di Cristo di Papini si determina in Giorgio, a parere di Giuseppe Raneri, «quel processo interiore da cui scaturì quel misticismo che era allo stato latente e che doveva essere alla base

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della sua vita». La vicenda di Papini assurge a simbolo della vicenda dell'uomo contemporaneo. E' l'iter di quanti hanno percorso la via del nichilismo, ma che trovano ancora uno spazio per l'invocazione. Giustamente la Fumari fa emergere come Giorgio comprenda che il senso dell'esperienza papiniana non è quello di una conversione improvvisa, ma quello di costituire un punto d'approdo nel quale il bagaglio intellettuale e umano dello scrittore si mantiene integro. La sua è, dunque, un'adesione non "immediata" alla fede, bensì graduale, mediata da tutta una serie di esperienze e maturazioni che alla fine si compongono, non senza sofferenza, in una concezione pensata della fede cristiana. In questo senso, quella di Papini è forse una vicenda molto simile alla sua.

Ampiamente circostanziate risultano poi la visione del fascismo di La Pira e le motivazioni di un'adesione ideale, in un primo momento, ad alcune sue istanze (non certo agli aspetti violenti, né a quelli beceri), e del successivo distacco da esso. I punti salienti della simpatia verso la nuova realtà politica possono così essere enucleati: 1) la situazione travagliata del presente, cioè l'uscita dall'incertezza politica e dal partitismo, entrambi risolti dall'affermazione di Mussolini (è da notare come in questa fase il giovane La Pira osservi con diffidenza l'iniziativa del Partito Popolare; 2) l'attenzione di Mussolini per il Vaticano, fatto non secondario, in quanto, sostiene la studiosa, è «questo, lo sposalizio Chiesa cattolica-Fascismo, l'unico elemento che discosta la percezione di La Pira dalla corrente visione ambientale e generazionale del fascismo» (112); 3) l'entusiasmo per i valori politici universali che l'Italia avrebbe dovuto proclamare e diffondere nell'Occidente. Quindi, «Giorgio La Pira riempie il fascismo di contenuti arbitrari e proietta nel movimento mussoliniano i suoi desideri, così come fanno molti giovani presi dall'esigenza del cambiamento a tutti i costi» (114).

Il saggio continua con l'analisi di imo scritto del 1923, Il principio di Autorità, nel quale YAuctoritas viene vita come «principio teleologico e divino che si riverbera nell'organizzazione umana e nella sua storia», evento che si concretizza particolarmente nel popolo romano. Lo scritto mostra chiaramente l'influsso di Vico, la cui conoscenza è mediata da Michele Bariilari, docente di filosofia del diritto, il quale fa propria l'interpretazione crociana del filosofo napoletano (ma La Pira rimane estraneo al crocianesimo).

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Del sodalizio con Guido Ghersi, sorto in casa dell'avvocato Francesco Paolo Fulci, la Fumari sottolinea la comunanza di esperienze che partono dalla crisi religiosa e «l'azione di propaganda» (124). Quella di Ghersi si concretizza nell'adesione al Partito Popolare, quella di La Pira (che resta fuori dal partito di Sturzo e fa proprie, forse sotto la spinta di mons. Mariano Rampolla del Tindaro, le direttive astensionistiche dettate dal Vaticano) in un apostolato laico. Entrambi entrano a far parte del Terz'Ordine domenicano (è Ghersi che convince La Pira a farlo). Intanto la visione del fascismo comincia a essere ridimensionata, anche se non ancora ribaltata. Nota l'Autrice che per La Pira «la deficienza del fascismo [...] è quella di essere una costruzione politica che non poggia su una coscienza comune»; inoltre, «il fascismo ha perso lo slancio utopico, non rappresenta più di per sé, la via verso il rinnovamento» (128). La stessa cosa accade con il Futurismo, del quale storicizza il significato, considerandolo un fenomeno che ha saputo interessare e rianimare una generazione in crisi, anche se ne critica «la dichiarazione di definitività del pensiero e l'aver interrotto un percorso di rinnovamento al "primo atto di resurrezione"» (127), cioè il fatto di non aver portato a compimento le originarie e condivisibili istanze di svecchiamento politico-ideale.

Il lavoro della Fumari si chiude con la partenza di La Pira da Messina e il suo approdo a Firenze. Esso convince per l'intenzione di fornire una visione organica del periodo indagato.

A un'ulteriore messa a fuoco degli interessi poetici e letterari del La Pira messinese e del loro mutamento coincidente con il trasferimento a Firenze, è dedicato lo scritto di Annamaria Manetti Piccinini («Giorgio La Pira fra letterati e artisti»). I personaggi messinesi già incontrati negli altri saggi del volume, da Federico Rampolla del Tindaro a Quasimodo, compaiono anche in questo scritto. Di La Pira risulta comunque posto in risalto lo spostamento verso interessi più direttamente spirituali e, di conseguenza, verso un'intensa azione caritativo-sociale. Come nel caso della "San Vincenzo degli artisti" e della ripresa della "Messa dei Poveri" nella chiesa della Badia Fiorentina, dalle quali scaturisce un rapporto di collaborazione con letterati e artisti. Questi ultimi collaboravano, dopo la seconda guerra mondiale, una settimana per uno al 'Foglio' di lettura domenicale con un disegno che illustrava la tematica principale del vangelo, della festività del giorno o di problematiche

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morali. Si tratta di scrittori e poeti anche noti, che vi scrivevano nell'anonimato. L'intervento della Manetti Piccinini fa emergere come gli interessi artistico-letterari lapiriani, pur non esprimendosi più come produzione e militanza, continuino a costituire un sostrato attivo che permette al Sindaco santo di stabilire legami significativi con un numero considerevole di artisti. Mario Moschi, Quinto Martini, Ottone Rosai, Baccio Maria Bacci, Giovanni Colacicchi, Pietro Annigoni su incarico di Giorgio La Pira (il cui primo mandato di sindaco dura al '51 al '56) e di Piero Bargellini, assessore alla cultura, produrranno tabernacoli da porre, secondo un'antica tradizione, agli angoli delle strade, nell'intento, «tipicamente lapiriano, di rendere più quotidiana la presenza del divino nella città» (155).

L'esperienza del giubileo del 1925 viene messa a fuoco da Giuseppe Miligi («Giorgio La Pira al Giubileo del 1925»), che delucida il senso dell'evento della conversione di La Pira. In una pagina bianca del testo delle Pandette nella quale aveva elencato le tappe fondamentali della sua vita, egli apre con la Pasqua del 1924, indicandola come «La mia prima Santa Pasqua». Su di essa ritornerà dopo parecchio tempo in una lettera a Salvatore Pugliatti: «Io non dimenticherò mai quella Pasqua del '24 in cui ricevetti Gesù eucaristico; risentii nelle vene circolare un'innocenza così piena da non potere trattenere il canto e la felicità smisurata» (186). Eppure già nell'agosto del 1923, in una lettera allo stesso, si era definito «cattolico sincerissimo che fa della fede la vita» (185), e nel dicembre successivo, in ima lettera a mons. Rampolla del Tindaro, oltre a espressioni di ardente pietà nei confronti del Crocifisso, affermava: «prego o Signore per tutti gli uomini che non ti conoscono e come me prima, non sanno ove sia il luogo della Tua Cena perpetua» (186). A parere di Miligi, non si tratta solo di un'esaltazione dell'esperienza eucaristica, come ben chiarisce don Giuseppe Dossetti quando paragona l'esperienza del giovane La Pira a quello che San Damiano significò per Francesco d'Assisi o Manresa per Ignazio di Loyola, cioè una risolutiva esperienza mistica nella quale una «nuova identità» che era «stata sì, da almeno due anni cercata ma non acquisita, gli fu donata e donata in pienezza» (187). E mentre nella primavera del '23 in una lettera a Quasimodo La Pira affermava di pregare spesso «ma senza cuore ovvero senza contemplazione», nella lettera allo zio Luigi Occhipinti del 14 settembre 1925, di poco posteriore al ritorno

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dal giubileo romano dello stesso anno, si manifesta un uomo che di quest'esperienza sa cogliere, se si vuole, anche i limiti, ma ugualmente riesce a individuarne i più profondi nuclei di significato. Miligi fa notare che in questa lettera Giorgio non accenna agli adempimenti formali previsti dal pellegrinaggio giubilare (lo zio, fermamente anticlericale, non ne avrebbe compreso il valore simbolico), ma insiste «sui valori del messaggio evangelico che si rivolge a tutti gli uomini di buona volontà. Il Giubileo è così per La Pira, anche ma indissolubilmente, una presa di coscienza di detti valori per un rilancio - nei modi e nei termini del concreto momento storico - della Buona Novella» (191), i cui cardini possono essere individuati nella fratellanza e nella pace. Con Dossetti lo studioso condivide la tesi secondo la quale «Tutto La Pira è già qui: cioè è già dato - per un dono di grazia - persino nelle strutture principali di pensiero (quelle veramente costanti) e persino nei suoi atteggiamenti più tipici»10.

Il dono da cercare e costruire tramite la politica: la pace

Il contributo di Angelo Scivoletto («Giorgio La Pira: la politica come arte della pace»)11 illustra i vari livelli di intervento del Sindaco santo come pacificatore: seminatore di segni e concreto mediatore di pace. Scivoletto esibisce una capacità di lettura davvero profonda delle motivazioni interiori di La Pira. Nella cui persona, in un certo senso, si realizzano le autentiche dinamiche della pace, che «è per il cristiano, il "dominio" di se stesso ed amorosa risposta al "volere di Dio" (fiatvoluntas Tua) nel costruire equilibri dentro il proprio io e con l'io degli altri; è una operazione relazionale in senso psicologico ed etico, da inventare, da perfezionare, da rinnovare. [...] La pace è così, semplicemente e, anche faticosamente, ricerca assidua di giustizia sociale, la cui indispensabilità tocca le fibre di ogni creatura e si sperimenta nei suoi effetti, sin nelle più nascoste giunture della convivenza umana: giustizia e pace - sia

10 G. DOSSETTI, Un testamento fatto di parole, in Quaderni della Fondazione La Pira, 1, dicembre 1987, 6.11 Dello stesso Autore si veda Giorgio La Pira. La politica come arte della pace, Studium,Roma 2003, che oltre a delineare una «biografia mediterranea» del Professore, presenta un'antologia di suoi testi sulla tematica della pace e ima bibliografia ragionata degli scritti di e su La Pira, sulla base della quale vengono indicate nuove prospettive di ricerca. .

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nel micro dei rapporti elementari, sia nel macro dei rapporti planetari - sono davvero simultanee, si incontrano e procedono insieme: iustitia et pax osculatae sunti» (200).

Nel terzo governo De Gasperi, tra il 1948 e il 1949, La Pira, sottosegretario al lavoro essendo ministro Fanfani, viene a trovarsi nel mezzo del conflitto tra capitale e lavoro. In questo periodo si volge agli studi di economia, avendo di mira l'obiettivo di dare risposta al grave problema della disoccupazione, e ciò all'interno del più ampio disegno della pace sociale. Il lavoro è per l'uomo «l'espressione della sua dignità e della sua socialità. Nelle proposte anti-disoccupazione mutuate dal liberalismo inglese, senza ombra di marxismo ed anzi sempre attente all'equilibrio tra privato e pubblico, i conservatori italiani si ostinano a vedere "sinistri" annunzi di statalismo, se non, addirittura, pericolose concessioni al social-comunismo! E sul ruolo non accademico del neo­economista, gli accademici del neo-capitalismo, alquanto provinciale, lanciano strali, senza poter, tuttavia, evitare le sue sostanziali e ben argomentate ragioni» (204).

Sull'attività di «sindaco della pace» è da notare la sua iniziativa, dal prestigioso "centro" mondiale di Firenze, mirante a persuadere sulla «guerra impossibile» e la conseguente «pace inevitabile»12. A ciò sono finalizzati i "Convegni per la pace e la civiltà cristiana" (1952-1956), il "Convegno dei Sindaci delle Capitali del mondo" (1955), i "Colloqui mediterranei (1958; 1960; 1961; 1964), nei quali si compiono «gesti di comprensione e di intelligenza che agevolano impensati avvicinamenti, sul piano della ufficialità diplomatica, come la pacificazione tra Francia e Algeria o l'indipendenza dell'Angola o del Mozambico o l'uscita della Spagna dal franchismo, oltre la costante esortazione ai "responsabili" del Medio Oriente perché siano capaci di una "volontà creatrice" che restituisca civiltà e pace a Israele e alla Palestina» (206)13. Si potrebbe

12 Su queste tematiche si veda P.A. CARNEMOLLA, Politica e città in Giorgio La Pira, in Vita Sociale 46 (1989) 393-404; ID., Ifondamenti teorici della "pace inevitabile" in Giorgio La Pira, in Quaderni Biblioteca Balestrieri 4 (2005) 53-74; V. PERI, Città e nazioni in Giorgio La Pira, ibid., 75-93.13 Sul carisma lapiriano di tessere relazioni umane significative, è stato scritto: «La sua singolare personalità siciliana caricava di un'impensabile valenza "politica" tali contatti privati e pubblici, sostenuti con relazioni agli incontri e con interventi su ogni tipo di rivista o pubblicazione cattolica, e soprattutto con una corrispondenza epi­stolare intensissima. Ogni apporto di idee era infatti immancabilmente preceduto o

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pensare che un sindaco talmente impegnato in questioni di carattere generale abbia trascurato l'attività amministrativa ordinaria. E invece «egli amministra con rigore, mobilitando, con competenza e indomita iniziativa, tutte le fonti locali e ministeriali dei contributi previsti, ottenendo l'ottenibile, oltre ogni indugio, e gestendo con progetti e piani di produttività sociale [...] La Pira, del resto, sa scegliere felicemente assessori di grande talento professionale e sociale, capaci di collaborazione e di collegialità, stimati amministratori e solerti progettisti, persone di trasparente onestà» (206-207).

L'obiettivo della pace sociale della città è ricercato proprio nelle questioni più scottanti, quale quella famosa dello stabilimento "Pignone". La Pira difende con tutti i mezzi il posto di lavoro di quei circa 2000 operai «dei quali la proprietà Snia Viscosa preannuncia il licenziamento all'insegna della "scienza economica" e della "logica di mercato". La difesa è svolta non proclamando a parole la "sacralità" del lavoro, ma agendo per trovare nuove commesse e per sollecitare gli imprenditori a una adeguata ricerca di collaborazione sul più largo mercato delle risorse e delle possibilità» (207). E che la pace a cui il La Pira politico guarda sia una «pace combattiva» e il Vangelo non un libro dalla valenza estetico-consolatoria ma «un compito da svolgere», è evidente nell'energia - che denota una visione non soltanto morale, ma anche escatologica della storia - profusa in occasione della polemica con Luigi Sturzo, che lo aveva accusato di statalismo di matrice socialista. Nella risposta il Professore mantiene congiunti l'ispirazione evangelica e la durezza della parresìa, l'altrettanto evangelico parlar chiaro. Se la carità non può essere lesa, quella durezza è richiesta dal fatto che dure e crude sono le questioni di fondo che hanno generato il dibattito: disoccupazione e diritto al lavoro, salari e alloggi per le famiglie14.

accompagnato dall'instaurazione previa di una stima e fiducia, di un'amicizia umana e "spirituale" individuale con le personalità più rilevanti di tali ambienti» (V. PERI, La Pira Lazzati Dossetti. Nel silenzio la speranza, Studium, Roma 1998, 90).14 La vicenda aveva avuto inizio con un articolo, da Sturzo intitolato Statalista La Pira? e comparso su II Giornale d'Italia del 13 maggio 1954. Il 21 maggio L'Avvenire d'Italia e il 23 maggio II Giornale del Mattino pubblicano la replica di La Pira, dal titolo Scendere da cavallo, nella quale, tra l'altro, si legge: «Le pare interclassismo cristiano quello che permette che il lavoro - epperciò il pane fisico ed anche, in certo modo, quello spiri­tuale del lavoratore e della famiglia del lavoratore - sia affidato alla instabilità della

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L'analisi di Scivoletto si sofferma sull'azione di La Pira (scandalosa per i tanti benpensanti che accettano di vivere adagiati nel corso degli eventi così come essi vengono a configurarsi; assai spesso semplicemente trasportati da essi) a favore dell'obiezione di coscienza, in quegli anni considerata reato, e della contestazione giovanile15. Arriva fino all'episodio della rottura di La Pira con la maggioranza uscita vincitrice dalle elezioni amministrative del 22 novembre 1964. I consiglieri comunali eletti e gli uomini dei partiti maneggiano sottobanco per la formazione della giunta, senza informare il primo degli eletti. Cosa consegue a tale decisione è noto. La Pira si congeda dalla politica amministrativa, ma tale distacco segna una intensificazione dell'attività in favore della pace. Da "cittadino del mondo" incontra i protagonisti della politica intemazionale e, da «homo viatori16 viaggia intensamente per convegni, in particolare quelli programmati nell'ambito della Federazione Mondiale delle Città Unite, da pluriconfermato presidente (a Parigi, Leningrado, Dakar), lanciando il tema che più sente: «Far convergere le città per far convergere le nazioni» (211). Tra i viaggi per la pace, uno dei più noti è quello del 1965 nel Vietnam del Nord, ad Hanoi, per incontrare Ho Chi Minh, primo presidente della Repubblica

"congiuntura" (quante cose e quanti arbitrii si nascondono sotto questa etichetta!)? [...] E torniamo al punto di partenza: mi dice che cosa deve rispondere il sindaco di una città agli sfrattati, ai licenziati, ai disoccupati, ai miseri che si presentano - e giu­stamente - da lui per chiedere casa, lavoro, assistenza? Deve forse dire: "Sa, non sono statalista, mi dispiace: ho poco da fare. Sa, non sono classista, mi dispiace; ho poco da fare. Sa, non posso violare le 'divine' leggi dell'iniziativa privata: si arrangi, vada in pace (rilegga San Giacomo, II, 15)"» (G. LA PIRA, Una testimonianza cristiana, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1955,141-142).15 La Pira interpreta il fenomeno della contestazione giovanile non a partire dagli aspet­ti più esacerbati e ambigui (prerogativa, ancora una volta, di benpensanti e pigri), ma «come ricerca di nuovi orizzonti». In ogni caso, a riprova del senso della realtà del Professore, Scivoletto chiarisce che questi «auspica che la contestazione stessa non si corrompa nel culto del "vitello d'oro", che cioè non scada in nuovi miti e fanatismi» (214).16 «I viaggi che fossero solo "contatti formali" si ridurrebbero a vana raccomandazione accademica, a ima "pia illusione", tutt'al più da tollerare e non certo da assumere come cogente progetto di azione. I viaggi di La Pira sono condotti con discernimento e intel­ligenza, adeguatamente alla complessità delle situazioni e delle relazioni in divenire: i viaggi sono, per lui, uno dei modi forti per esprimere il proprio pensiero politico, la propria visione umana e teologale della storia» (A. SCIVOLETTO, Giorgio La Pira. La politica..., cit., 65).

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democratica del Vietnam. Al ritorno, si rivolgerà ad Amintore Fanfani, presidente di turno dell'Assemblea delle Nazioni Unite, in questi termini: «La mia impressione è che veramente, profondamente - senza tatticismo e senza riserve - il Vietnam desidera la pace: i dirigenti tutti (da O Ci Min [sic] e Van Dong sino a quelli di base) ripongono in noi - in te - una grande speranza cristiana ed umana! [...] sanno che noi siamo cristiani che non vogliono prescindere dall'Evangelo anche nelle più dure vertenze del mondo politico presente» (212).

È la lungimiranza del profeta che, per quanto materialmente disarmato, sa leggere la storia in maniera alternativa rispetto alle ovvietà presenti negli automatismi della forza, nell'ineluttabilità della potenza che non può non realizzarsi come violenza17. La Pira sa - dal suo punto di vista - che è «più conveniente andare dreto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa»18 e parla di un'«impressione» che sente sulla sua pelle come una realtà incontrovertibile. La sua analisi storica

17 Come si sa, l'iniziativa di La Pira, tanto pazientemente tessuta sul filo della spe­ranza, non ebbe successo e fu bollata come «ingenua» dalla Realpolitik americana. Egli se ne dorrà a lungo (cf. G. LA PIRA, Il sentiero di Isaia, Cultura Editrice, Firenze 1978, 543-548). «In particolare ai politici di formazione occidentale, spontaneamente assuefatti alla visione machiavelliana del potere e dei suoi fini, perfino professandosi pubblicamente cristiani, appariva un utopista, un esaltato, un integralista religioso. "Povera città in mano a dei poeti" si vuole abbia mormorato dal finestrino del treno in partenza De Gasperi dopo la visita a Firenze, amministrata da La Pira e dal vicesinda- co Piero Bargellini. Invece il suo era un ottimismo realistico, radicato nelle fede grani­tica neH'Incamazione "fisica e storica" di Cristo e nel fatto storico ed irreversibile della sua Resurrezione e in un'esperienza intuitiva e penetrante delle persone» (V. PERI, Giorgio La Pira. Spazi storici, frontiere evangeliche, Sciascia, Caltanissetta-Roma 2001,10). Tale precisazione chiarisce la consistenza e il senso (in verità per niente criptico, anzi 'rivelativo') delle affermazioni di taluni politici, i quali in occasioni ufficiali hanno par­lato con sbrigliatezza di un La Pira «cristiano integralista», talvolta corretto (a riprova del possesso di pudore metodologico e intellettuale) in «per certi aspetti integralista». Si perpetuano così, a circa tre decenni dalla sua morte, quelle incomprensioni della personalità di La Pira che ne costellarono la vita, in genere dovute a superficialità e al possesso, da parte di chi le semina, di uno scarnificato prontuario di categorie mentali. Si noti, invece, quanto evidenziato da Scivoletto a proposito della contrapposizione tra comunisti e cattolici seguita alla fine della dittatura fascista e sfociata, il 18 aprile 1948, nella vittoria della Democrazia Cristiana di De Gasperi: «Per La Pira è palese il dovere di non alimentare la cultura della "crociata" [...], ma di accrescere, nella diversità delle idee e dei ruoli, lo spirito di intesa che ha il suo momento qualificante nel periodo della Costituente» (op. cit., 28-29).18 MACHIAVELLI, Il principe (1513), cap. 15,1.

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esprime, quindi, la «fondatezza» e «il realismo della speranza»19.Ettore Bemabei («Dalla città al mondo: la solidarietà di Giorgio

La Pira») tratteggia con vivezza l'azione solidaristica di La Pira, sottolineandone alcuni presupposti di base che la dicono lunga sulla capacità del Professore di aderire alla storia, carpendone gli orientamenti di fondo. Assieme a Dossetti, Lazzati, Fanfani, Moro lavora nell'ambito della Commissione dei 75, nominata nel 1946 dall'Assemblea costituente per l'elaborazione della Costituzione italiana. Nell'abitazione di mons. Montini confronta le tesi prodotte dal gruppo con quelle social comuniste, su cui riferiva mons. Giuseppe De Luca dopo averle conosciute negli incontri con Togliatti. «In una visione nuova di solidarismo cristiano nacque, tra il 1946 e il 1947, la Carta costituzionale della Repubblica "fondata sul lavoro"» (218).

Bemabei afferma che «l'impegno solidaristico di La Pira non era un vago filantropismo populista, ma un impegno tecnico, scientifico per creare ricchezza e fonti di lavoro sicuro, come la rivelazione cristiana richiede ad ogni creatura sulla terra » (219). Tutto ciò può essere garantito agli individui e alle famiglie tramite l'azione politico-amministrativa nella città.

Essa è luogo di convivenza e di incessante umanizzazione. L'equilibrio sociale guadagnato e mantenuto ne fa ima collettività coesa e, per certi versi, felice. Appena eletto sindaco, applicando una legge del 1865, requisisce le dimore disabitate e le dona ai senza tetto. Con il piano INA-CASE in tre anni consegna 370.000 alloggi. E nella questione della Pignone20 si tratta di difendere, assieme alla concretezza di 2000 individui, un mondo di principi che non possono rimanere sulla carta21.

19 V. PERI, Giorgio La Pira. Spazi storici. .., cit., 319.20 Nel 1952, dinanzi alla prospettiva di circa 2000 licenziamenti, 1200 operai (molti dei quali armati) occuparono la fabbrica. La Pira si adoperò con il governo per evitare che la Pignone fosse sgomberata con la forza. Il commentatore Franco Marinotti, consiglie­re delegato della Snia-Viscosa, fu convocato a Roma dal ministro dell'interno Fanfani, il quale gli chiese di trattare con i sindacati. Marinotti non si presentò con il pretesto di essere impegnato all'estero, e il prefetto di Milano gli ritirò il passaporto. Il gover­no convocò il presidente dell'ENI Enrico Mattei, che acquistò la Pignone, salvando il posto di lavoro di tutti gli operai e trasformandola in una fabbrica di apparecchiature petrolifere.21 A tal proposito ebbe a scrivere: «Chiusura [...] senza nessuna trattativa preliminare: chiudo perché chiudo, il padrone sono io.'E la Costituzione? E i problemi del pane, del

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Il discorso dell'Autore si sposta, seguendo l'impostazione lapiriana, dal piano delle città a quello delle nazioni, nell'intento di mostrare l'apporto specifico del Professore alle questioni della convivenza internazionale. Egli potè andare a Mosca perché aveva organizzato a Firenze i convegni per la pace e la civiltà cristiana, nei quali era riuscito a coinvolgere alcuni sindaci di paesi comunisti. L'ENI potè penetrare nei paesi del Medio Oriente e nel Mediterraneo perché La Pira, dopo la crisi di Suez22, andò in Israele per costruire la pace in quelle regioni; ed è grazie a La Pira che potè attuare in Cina le prime ricerche petrolifere. Bernabei attribuisce alla sua influenza sull'amico fraterno Fanfani la dissociazione del governo italiano dalle scelte bellicose anglo-francesi nella vicenda di Suez e la politica di amicizia con i paesi arabi. «Dal sodalizio con La Pira trasse forza e incisività il governo presieduto da Fanfani - dal 1960 al 1963 - che portò l'Italia da paese povero e tecnologicamente arretrato - quale l'aveva lasciato il fascismo - al quarto posto tra i paesi più industrializzati del mondo» (222). Così nella crisi di Cuba23, afferma l'autore, Fanfani, secondo quanto suggerito da La Pira,

lavoro, della vita del paese? E le ripercussioni sociali, politiche, umane, economiche, religiose? Tutte ciance da idealisti, da visionari: la congiuntura economica ha le sue leggi: i professori, gli idealisti, i santi (questi autentici imbecilli!) non ci disturbino: ognuno faccia il proprio mestiere: l'economia ha una realtà propria che non ha niente a che fare con il Vangelo: il Vangelo e la morale sono per il piano celeste, l'economia e la produzione - la produttività - sono per il piano terrestre» (citato in P. A. CARNEMOL- LA, Un cristiano siciliano. .., cit., 295).22 II 26 luglio 1956 il presidente egiziano Nasser aveva nazionalizzato la Compagnia del Canale di Suez, scatenando la reazione di Francia e Inghilterra, che ne erano le princi­pali azioniste, e di Israele. Il primo ministro britannico Eden temeva per le risorse di petrolio inglesi nel golfo Persico e per le attività commerciali con l'Estremo Oriente. La Francia era anche preoccupata per il flusso di armi egiziane verso l'Algeria. L'at­tacco all'Egitto (29 ottobre) determinò la minaccia d'intervento delTUnione Sovietica a difesa di Nasser. Gli Stati Uniti, con l'unanimità delle Nazioni Unite, proposero ima soluzione diplomatica. Il mancato appoggio americano e ima grave crisi finanziaria costrinsero la Gran Bretagna, e con essa Francia e Israele, ad abbandonare l'impresa.23 Nel 1959 Fidel Castro tramite un'azione rivoluzionaria aveva instaurato a Cuba un governo di tendenze marxiste. I servizi segreti americani organizzarono una spedizio­ne nell'isola che avrebbe dovuto abbatterlo, ma essa fu respinta dall'esercito cubano (aprile 1961). Il conseguente avvicinamento tra Cuba e URSS portò all'impianto nel­l'isola di basi missilistiche sovietiche. Kennedy il 23 ottobre del '62 ne ordinò il blocco navale per impedire l'arrivo di altri missili. Si prospettò, allora, la possibilità di un conflitto. L'Unione Sovietica desistette e fece invertire la rotta alla proprie navi. La vi­cenda si concluse con lo smantellamento dei missili cubani, parallelo a quello di alcuni

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avanzò la proposta di ritirare i missili americani installati in Puglia. La proposta fu accettata dagli Stati Uniti a condizione che l'Unione Sovietica ritirasse i propri da Cuba. La conclusione dell'Autore è che «Giorgio La Pira, Amintore Fanfani e Enrico Mattei furono i pazienti tessitori di una lungimirante azione culturale, politica ed economica che portò l'Italia ad essere l'ago della bilancia tra i due blocchi e a stabilire buoni rapporti politici ed economici con Egitto, Libia, Algeria, Tunisia e Marocco» (220). Tale azione ebbe anche il merito di sottrarre tanti paesi in via di sviluppo dalTinfluenza del comuniSmo sovietico.

L'intervento di Giuseppe Campione («La fede come forza sovvertitrice nella testimonianza di Giorgio La Pira») conduce una lettura in chiave valoriale dell'attività che La Pira intraprese come amministratore di Firenze, incarico condotto «nella luce della grazia e con la scandalosa disinvoltura del santo» (237). Egli, un po' come Savonarola, vede in Firenze, specchio terreno della Città Celeste, un centro di irradiamento dei valori della pace. Più concretamente, per la città questa consiste in «un'armonia che sostanzi famiglie e lavoro e cultura» (238). Da essa bisogna partire per ricomporre le crisi registrate nella vicenda umana contemporanea.

Da Firenze può prendere vita l'iniziativa di un'unificazione religiosa nel nome della fede nel Dio di Abramo. Essa non consiste nella fusione delle tre grandi religioni monoteiste, ma nella loro comune condivisione delle sfide dell'epoca contemporanea. Infatti, tutte le culture che riconoscono Dio come fondamento non possono non farsi interpellare dal diffondersi della civiltà e della cultura atea. Il loro reciproco incontro deve essere generato da ima consapevolezza: ebrei-cristiani-musulmani sono una civiltà sola, la civiltà delle nazioni.

La cifra della lettura di Firenze operata da Campione è quella del «dissenso creativo», rappresentato, oltre che da La Pira, anche da Lorenzo Milani ed Ernesto Balducci. Le loro persone sono unite dal rifiuto del potere della violenza e l'alternativa da esse sbocciata si pone in un fecondo antagonismo rispetto a quella: «Una ricerca, invece, di liberazione dell'uomo per imprimere altre coordinate alla storia» (240). I tre «si muovono da Firenze per dialogare, annunciare, narrare, non imporre o illudersi tout court di proporre; senza ridurre il Vangelo ad etica, ma lavorando alla costruzione di un'etica mondiale che fecondi

missili americani che in Turchia e in Italia erano puntati verso il territorio sovietico.

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un organato diritto intemazionale valido, vigente ed effettivo per tutte le tribù della terra» (241). Tutto ciò è possibile riconoscendo, assumendo e lasciando l'altro come altro. Anzi, il riconoscimento delTalterità delle fedi, riflesso dell'esistenza di mondi plurali, interpella il credente - di qualunque fede - a ima testimonianza totale e verace della propria: «Il dialogo interreligioso così non punterà soltanto ad una mutua comprensione e a rapporti amichevoli, ma dovrà sostanziarsi in una mutua testimonianza del proprio credo, proprio perché da un lato si postula l'accettazione delle differenze e dall'altro il rispetto della "libera decisione secondo coscienza", per determinare forme di reciproco apprezzamento: il Concilio Vaticano II, anni dopo La Pira, riconoscerà infatti che tutti gli uomini, pur da varie religioni, in fondo non fanno che attendere la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell'uomo» (243).

Ed è davvero sorprendente constatare le consonanze ante litteram della visione lapiriana con le elaborazioni del Vaticano II: «La carica di rinnovamento, l'ansia di ricerca, la disponibilità al confronto con la storia, l'attenzione fraterna verso tutti gli uomini»24 caratterizzano tutto l'operato di La Pira. La fede autenticamente vissuta assume come propria ogni situazione che riguarda l'ambito umano, scompaginando gli stantii assetti ideologici, sociali, politici (o anche religiosi).

Lo scritto di Michele Palazzolo («Fede, Persona, Famiglia: le basi della società nella visione di La Pira») chiarisce come la concezione del matrimonio di La Pira si fosse delineata non solo sulla base delTinsegnamento della Chiesa, ma, in ugual misura, anche su quella degli studi romanistici25. In esso, l'Autore, riferendosi al caso storico del referendum abrogativo della legge sul divorzio, fa vedere

24 GIUSEPPE ALBERIGO, Breve storia del concilio Vaticano II (1959-1965), Il Mulino, Bo­logna 2005,12.25 A proposito di La Pira studioso di diritto romano, P. A. Carnemolla ha significativa­mente osservato: «Elemento qualificante nella visione della storia del diritto romano è l'aver intravisto in esso non lo svolgersi di fatti nel loro semplice accadimento, ma l'aver intuito come nella sequenza temporale dei medesimi vi sia ima precisa orienta­zione: la salvezza. In questa visione metastorica sta l'originalità del pensiero di La Pira che, applicata al diritto, lo qualifica più che uno storico formalistico, un teologo della storia. In sostanza La Pira usò il diritto come cifra di lettura del mondo esterno perché i vari istituti esaminati non rimangono inerti, ma vengono proiettati nella società civile per vivificarla e portarla su un piano superiore, quello della tutela e della dignità della persona» (Un cristiano siciliano. .., cit., 318).

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concretamente in cosa consistesse quello che è stato definito «eclettismo apologetico»26 lapiriano.

La difesa del matrimonio prende le mosse dalla riflessione sulla sua natura e sulla sua indissolubilità operata dal diritto romano e dal diritto naturale. «Ripudiando la definizione tecnica del matrimonio come di negozio giuridico bilaterale, rifiutata a suo dire dagli stessi giuristi romani, sostenne - in quell'occasione - che il matrimonio costituisce un atto bilaterale consensuale costitutivo di una nuova entità, di un organismo nuovo, di una unità ontologica ed è, per questo motivo, indissolubile» (228). Il punto di partenza di La Pira non è la Sacra Scrittura ma il Digesto e le Istituzioni, al fine di provare l'esistenza di principi anteriori al cristianesimo che, di conseguenza, conferirebbero all'insegnamento della Chiesa un inappellabile valore di universalità. I giuristi romani avevano visto il matrimonio «come strutturale comunione di due persone di sesso diverso, che fa diventare costoro un solo essere e una vita sola [...]. La conseguenza di tale concezione del matrimonio è la sua indissolubilità, perché se il matrimonio è una fondazione, un ente, un corpus distinto dai suoi fondatori, esso, diceva, ha in sé la legge del suo essere» (/. c.); la ragion d'essere di tale fondazione, quindi, ha un'indipendenza propria, non essendo riducibile alla volontà dei contraenti.

L'analisi di Palazzolo prosegue ponendo in parallelo il discorso sulla famiglia e riflessioni che riguardano l'ambito più ampio del significato della storia. Per il Professore non si dà nessuna separazione tra storia sacra e storia profana: entrambe si intrecciano nel comune movimento verso Dio. Prosegue lo studioso: «Ora, dalla famiglia nascono le grandi personalità, nascono le persone che, assecondando ed attuando il Disegno Divino, hanno guidato e guidano la Storia in questa direzione. "Pensa" scriveva nella citata lettera a Pino Arpioni, sempre per sostenere l'indissolubilità del matrimonio e la funzione storica della famiglia: "E se chi nascerà fosse Abramo? Se fosse il Battista? Se fosse Augusto, Virgilio o Seneca? Se fosse Aristotele, Dante o Socrate? Se fosse Paolo, Francesco, Benedetto o Giovanni XXIII? Inutile continuare questa esemplificazione: l'incidenza del matrimonio sul corso della storia universale è davvero il fatto più chiaro (e misterioso) e più condizionante dell'intiera creazione storica» (233). Quindi, se da un

26 A. SCIVOLETTO, Giorgio La Pira. La politica..., cit., 20.

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lato la famiglia costituisce la struttura basilare del movimene della storia, dall'altro rappresenta la possibilità prima per la realizzaz* ne dell'individuo, che in essa trova l'alimento per realizzare la sua missione nel mondo. E infine l'ultimo passaggio, esemplificato dalle stesse parole di La Pira: «Il progetto della storia, che è il piano stesso di Dio, è questo: edificare - attraverso tutte le unità intermedie - l'unità totale del mondo». Le unità intermedie, chiarisce Palazzolo, sono le famiglie, le associazioni, le città, le nazioni.

Una nuova politica per il Mediterraneo e per il mondo

Il contributo di Luciano Tosi («La politica italiana di cooperazione nel Mediterraneo negli anni di Giorgio La Pira») chiarisce la prospettiva della politica estera italiana dopo il secondo conflitto mondiale. Lo scritto presenta una particolare utilità anche per la ricchezza di indicazioni bibliografiche sull'argomento che permettono, a quanti fossero interessati, una convincente ricostruzione degli anni in esame. L'Italia dal 1949 «si convertì all'anticolonialismo e cercò di accreditarsi presso i paesi mediterranei come una nazione che proprio in virtù di tale scelta avrebbe potuto, meglio di altre potenze occidentali, valorizzare le loro aspirazioni di indipendenza e sviluppo economico» (247-248). Il nuovo corso italiano fu determinato anche dal convincimento che Italia e Paesi mediterranei condividessero orizzonti culturali comuni (Paolo Emilio Taviani nel 1954 li identificava nell'impegno delle fedi musulmana e cristiana in favore della dignità della persona umana).

Certo, non mancavano interessi nelle scelte estere italiane: oltre a garantirsi possibilità e vantaggi economici (ad es. approvigionamenti energetici), disinnescare atteggiamenti di nazionalismo che maturavano in quei paesi e impedire l'allargamento sino ad essi dell'egemonia comunista. Il disegno dell'Italia è quello di «sostituire la declinante influenza delle potenze coloniali e proporsi come una potenza regionale di riferimento, favorire lo sviluppo economico dell'area, anche in funzione di una sua maggiore stabilità» (253).

Tosi mette a fuoco la pluralità di direzioni della politica estera italiana, evidenziandone anche le ambiguità. Verso la metà degli anni Cinquanta nella Democrazia Cristiana matura la scelta della politica neoatlantica, attenta non solo agli interessi italiani ma

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anche al risveglio e alla presa di coscienza dei paesi africani e arabi. Il Patto Atlantico27 veniva visto come strumento atto a favorire la cooperazione internazionale e come possibilità per il superamento della «dicotomia da sempre insita nella politica estera italiana, divisa tra la vocazione europea e quella mediterranea», e ciò anche se la politica neoatlantica italiana «si sviluppò attraverso un'azione non troppo lineare e a volte velleitaria» (250). Da un lato, i politici italiani nutrivano molta fiducia nell'azione dell'ONU, ma tale stato d'animo appare in verità determinato da motivazioni non esclusive: a quelle ideali se ne affiancano altre molto più pragmatiche, come quella di acquistare spazi d'azione e d'autonomia nei confronti di alleati ben più consistenti quali gli Stati Uniti. Inoltre la mediazione dell'ONU consentiva all'Italia di non schierarsi in modo netto con l'uno o l'altro dei paesi coinvolti nelle crisi, e di esercitare un ruolo attivo, e non di secondo piano, rispetto a quello delle grandi potenze. Così accadde nel '56 durante la crisi di Suez (pur tra le divisioni, interne alle forze di governo, tra filoatlantici e sostenitori della linea anglo-francese), nel '58 di fronte alla crisi generata dal colpo di stato in Iraq, nel '67 durante la guerra dei sei giorni. Diversamente, invece, accadde per la crisi algerina (1954-1962)28, in occasione della quale l'Italia mostra di privilegiare i legami atlantici, non invocando l'intervento dell'ONU e

27 L'articolo 9 del trattato dell'Atlantico del Nord, più noto come Patto Atlantico, diede luogo, il 4 aprile del 1949, alla NATO, alleanza militare a difesa del «mondo libero» tra Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo e Stati Uniti. Nel 1952 vi furono ammesse la Grecia e la Turchia, nel 1954 la Germania Federale.28 La guerra ebbe luogo tra il 1954 e il 1962. Integrata nel territorio metropolitano fran­cese, l'Algeria contava un milione di residenti francesi che godevano della pienezza dei diritti, a fronte di otto milioni di autoctoni che si vedevano discriminati. L'insurre­zione fu proclamata dal Fronte di liberazione nazionale algerino il 1° novembre 1954. Il governo francese presieduto da Mendès-France potenziò l'impegno militare. La crisi si accentuò quando, nel maggio 1958, i coloni francesi chiesero che il dominio francese in Algeria fosse mantenuto, minacciando un colpo di stato in caso contrario. Per un mo­mento la Francia rischiò l'anarchia. La formazione di un nuovo governo da parte di De Gaulle diede vita alla Quinta Repubblica. Egli l'8 gennaio 1961 indisse un referendum per il riconoscimento delTindipendenza all'Algeria. Il 75% dei francesi fu favorevole, ma l'OAS, un'organizzazione terroristica che vi si opponeva, continuò la pratica degli attentati. La repressione del movimento fu dura. Le trattative con il FLN sfociarono negli accordi di Evian (marzo 1962), che consentirono la nascita di ima nazione alge­rina indipendente. *

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abbracciando di fatto la linea francese (risolvere il problema attraverso trattative tra i due contendenti).

Nonostante i riferimenti a La Pira e la sua relazione con i fatti in esame risultino appena accennati, l'intervento così com'è concepito risulta costituire uno sfondo imprescindibile per la comprensione di questo densissimo periodo storico.

In tale contesto si pone l'idea e l'azione di La Pira, da sempre sostenitore del dialogo tra l'Europa e il mondo arabo, ma anche «della pace tra arabi e palestinesi, chiave della questione mediorientale e della più generale cooperazione tra i paesi rivieraschi del Mediterraneo. Di tale cooperazione, a suo avviso, doveva farsi promotrice in particolare l'Italia, paese con una forte dimensione sociale e portatore di un modello di civiltà cristiana che poteva essere attraente per il Terzo Mondo, più che non quelli capitalista e comunista» (251-252).

Su una linea parallela a quella di Tosi si pone il saggio di Angela Villani («Fra profezia e politica: Giorgio La Pira e i Colloqui mediterranei [1958-1964]»), che nella propria analisi cerca di far emergere le convergenze tra le tematiche affrontate nei Colloqui e le scelte di politica estera del governo italiano. Nell'ambito della corrente del "neoatlantismo"29 matura un interesse per l'area mediterranea, per il mondo arabo e per il Terzo Mondo in genere, e con esso la volontà della classe dirigente italiana «di acquisire definitivamente uno status paritario rispetto agli alleati atlantici e, nel contempo, l'ambizione di ampliare e propri orizzonti diplomatici» (273). La Pira condivise con il gruppo di "Iniziativa democratica" (corrente nata nell'ambito della sinistra democristiana e facente capo a personaggi come Fanfani, Rumor e Taviani) «un attivismo e uno slancio internazionalista in parte mutuato dalla propria esperienza politica e religiosa» (275).

Il primo colloquio (1958) vide coinvolto il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi (1955-1962), da sempre sostenitore di un ruolo stabilizzatore dell'Italia nei confronti delle regioni del Mediterraneo e del Medio Oriente, e Fanfani, al quale La Pira chiese di intraprendere una concreta iniziativa politica che facesse dell'Italia il ponte fra l'Occidente cristiano e il mondo musulmano. Lo slittamento

29 Con tale termine la storiografia ha denominato la politica italiana compresa tra la seconda metà degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, periodo coincidente con il reintegro dell'Italia nella comunità intemazionale.

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dell'iniziativa da giugno a settembre e, ancora, a ottobre vide l'ascesa di Fanfani al governo. Secondo la studiosa, per La Pira Fanfani «era dotato di una particolare vocazione geografica che lo portava naturalmente ad assumere il ruolo di guida della nazione» (287). Nel discorso di insediamento, lo statista aretino proclamò a chiare lettere le linee di politica estera di cui s'è parlato. (C'è da dire che l'iniziativa italiana nel Mediterraneo aveva visto ima concretizzazione già nel '57 a Teheran, dove fu firmato l'accordo tra l'ENI e l'Iran per l'estrazione del petrolio in quel territorio).

Il colloquio ebbe un andamento tormentato. La tematica principale riguardò la guerra d'Algeria e la presenza di membri del Fronte di liberazione nazionale fece abbandonare l'incontro ai delegati francesi, mentre quelli israeliani si allontanarono per la presenza di rappresentanti della RAU30. A Palazzo Chigi, invece, visto che «rispondeva a molte delle tendenze fanfaniane in politica estera», viene valutato in modo positivo, nonostante ufficialmente (sulla rivista Esteri) venga indicato come «la meritoria iniziativa di un privato cittadino» (286). Tale presa di distanza del governo non convinse gli ambienti diplomatici francesi, essendo sin troppo evidente la sintonia ideale tra La Pira e Fanfani.

Da parte americana, invece, si coglie l'importanza politica dei Colloqui: «L'amministrazione Eisenhower, in buona sostanza, dopo la crisi di Suez e l'impegno assunto a garanzia della stabilità dell'area mediterranea e mediorientale, intravedeva negli uomini della corrente fanfaniana, dalla quale aveva temuto una deriva neutralista per l'Italia, alcuni "tra i massimi fautori dell'intesa particolare con Washington negli affari mediterranei"» (287).

Il secondo colloquio (1960) vede ancora l'intervento del governo italiano, in un primo momento nelle persone del presidente del consiglio Tambroni e del ministro degli esteri Segni, e dal luglio dello stesso anno nuovamente con Fanfani. I temi furono ancora una volta la questione algerina e il conflitto arabo-israeliano.

Nel terzo colloquio (1961), intitolato «Idea del Mediterraneo e Africa nera», l'ingresso in scena delle problematiche africane rientra «nel clima di più generale interesse mostrato dal cattolicesimo italiano per

30 La Repubblica Araba Unita ebbe vita nel 1958 in seguito all'unione tra Siria ed Egitto, favorita dall'ideologia panarabista diffusa in quei paesi. Guidata da Nasser, si dissolse nel 1961.

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il Terzo Mondo» e nella presa di coscienza (bisognosa oggi di essere rinverdita e ampliata) di una nuova realtà: «Gli stati africani erano ormai entrati nel palcoscenico della storia e condividevano ormai lo spazio geografico e storico del Mediterraneo con i paesi del nord Africa e del Vicino Oriente» (291).

Stringate e precise considerazioni l'Autrice compie sul significato del quarto colloquio, riguardante le tematiche della pace e della guerra e delle minoranze. Fatti reali e fecondi - laddove esista, anche solo come spiraglio, la volontà di concretizzarli e siano sopite l'ebbrezza del dominio e la foia vacua della violenza - sono il dialogo e la cooperazione, «non utopie ma valutazioni storiche concrete» (294). Grande e concreta fu la forza di La Pira a rendere credibili, e quindi condivisibili, i propri convincimenti se «i governi italiani stavano dando il proprio contributo, nelle sedi preposte, alle questioni della limitazione degli armamenti e della non proliferazione» e se gli appelli di Paolo VI «apparivano per molti aspetti vicini alle riflessioni lapiriane sulla necessità della pace nel Mediterraneo» (Z. c.). Diversamente da quanti hanno etichettato (mostrando di non sapersi spingere oltre la corteccia dei fenomeni) le concezioni di La Pira come «idealismo misticheggiante e irenico»31, la Villani fa risaltare l'originalità del suo programma e «la capacità profetica di cogliere in anticipo elementi e percorsi della storia» (295).

Il ruolo mediterraneo del Professore conosce un ulteriore approfondimento nel saggio conclusivo del volume, che si deve a Bruna Bagnato («Una fraterna amicizia: Giorgio La Pira e il Marocco»). I legami di La Pira con Maometto V32 erano finalizzati alla costruzione di un futuro che, risolti i principali problemi delle regioni mediorientali (la guerra d'Algeria e il conflitto arabo-israeliano), si concretizzasse come futuro di pacifica convivenza. «Si trattava di un proposito solo all'apparenza utopico e visionario, né era intenzione di La Pira lasciarlo decantare tra nobili aspirazioni e wishful thinking» (299). Quelli di La Pira non erano "pii desideri" e la Bagnato lo prova effettuando una

31 G. CALCHI NOVATI, Mediterraneo e questione araba nella politica estera italiana, in Sto­ria d'Italia Einaudi [CD-ROM] 8: 1945-1968 L'Italia repubblicana, Einaudi-Mondadori, Torino-Milano 2002, 26.32 Mohammed ibn Yusuf (1909-1961) fu prima sultano e poi, dopo il riconoscimento francese dell'indipendenza (marzo 1956), re del Marocco fino al 1961, anno della sua morte.

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significativa ricostruzione dello scenario geopolitico nel quale si situa l'azione dei due protagonisti. Dal contributo emergono le loro concordanze di natura politica, ma anche psicologica e di metodo. La Pira con le proprie idee «nobilitava e conduceva a unitarietà le intuizioni "neo-atlantiche" dell'Italia», interrogandosi «sui passaggi necessari per rendere possibile, la trasformazione del Mediterraneo da luogo geografico quasi condannato dalla storia a essere teatro di crisi in un nuovo "lago di Tiberiade"; dal canto suo, Maometto V aveva elaborato un disegno di «comunità mediterranea, che inizialmente a tre (Marocco, Italia e Spagna), avrebbe dovuto in seguito allargarsi a molti altri paesi dell'area» (Z. c.); comunità nel cui ambito il conflitto algerino avrebbe dovuto trovare soluzione. Se il progetto non ebbe compimento, la corte di Rabat continuò a inseguire il ruolo di cerniera di congiunzione tra il Nord e il Sud del Mediterraneo e si mostrò costantemente «interessato agli equilibri mediterranei, e ciò era fatale dati una posizione geografica di cerniera tra il bacino e l'Atlantico, le ambizioni dei suoi governi di contendere all'Egitto nasseriano le simpatie delle folle arabe, la necessità di fare appello alle risorse del mondo occidentale per avviarsi e mantenersi sulla via dello sviluppo» (300).

Maometto V incontrò il sindaco di Firenze nel gennaio 1957. Fu questo il primo viaggio in suolo straniero del sovrano del Marocco indipendente. Già nel novembre del '56 Renato Bova Scoppa, primo ambasciatore italiano a Rabat, aveva manifestato la volontà dell'Italia di stabilire una partnership mediterranea. Tra l'altro la situazione intemazionale (crisi di Suez e conflitto franco-algerino) sembrava favorire tali disegni, con la crescita dell'intesa italo-marocchina a scapito della Francia. Il sovrano arriva a Genova il 20 gennaio 1957 e dopo le tappe torinese, milanese e fiorentina, il 29 gennaio «giunse a Roma con l'inedita formula di "ospite privato del governo italiano"» (304). Forse a Firenze conosce Enrico Mattei, che invita in Marocco per discutere su una possibile collaborazione tra i due paesi, concretizzatasi Tanno successivo con la firma di un accordo per la ricerca petrolifera tra l'ENI e il Marocco. Attratto dalla personalità di La Pira, lo invita addirittura alle cerimonie d'investitura del principe ereditario Moulay E1 Hassan, conferendogli un'alta onorificenza marocchina.

Anche la Bagnato mette in evidenza l'influsso di La Pira su Fanfani

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e Gronchi, che assieme a Mattei, sono i protagonisti principali del disegno del Professore: fare dell'Italia, «nazione emblema dei valori cristiani», «la guida di un moto di rinnovamento mediterraneo che avrebbe portato pace e prosperità alla turbolenta regione - almeno fino a quando la Francia non si fosse liberata dai lacci di una tradizione coloniale in aperta contraddizione con lo spirito dei tempi e con i disegni della Provvidenza» (310).

Il rapporto con il Marocco si consolida proprio in occasione del primo colloquio mediterraneo, ispirato da Maometto V nell'incontro fiorentino con La Pira. A causa della sua assenza per motivi di salute, la presidenza viene assunta dal principe Hassan, la cui capacità di chairman era stata elogiata dall'ambasciatore italiano a Rabat. Questi dichiarò che il governo italiano considerava utile il convegno in quanto in esso era stata promossa l'idea mediterranea condivisa dalle due nazioni. Nel 1959 La Pira invitava Maometto V a un "affratellamento" tra le due nazioni. A tale invito, nel 1961 seguiva il gemellaggio tra Firenze e Fès, atto dal valore chiaramente politico più che simbolico, se si pensa che vi parteciparono le più alte cariche dello stato italiano e di quello marocchino: «la traslazione dal piano locale al piano nazionale non è affatto una forzatura se si tengono presenti [...] da un lato la funzione che i progetti di La Pira assegnavano alle municipalità, dall'altro la solidità dei legami che intercorrevano tra Palazzo Vecchio e i centri della politica italiana» (316). Le città, quindi, nella concezione di La Pira, non rappresentano un sottoinsieme del più vasto mondo della politica nazionale e sovranazionale, perché da esse possono sprigionarsi iniziative e percorsi che imprimono virate radicali al corso della storia.

La Bagnato mette in rilievo la mutata situazione politica fiorentina nel 1961, anno nel quale nasce una giunta di centro-sinistra, il cui vicesindaco era il socialista Enzo Enriques Agnoletti. A lui La Pira scriverà a proposito di questa collaborazione tra socialisti e cattolici: «Potrebbe mostrare ai paesi del Terzo mondo cosa comporti una società nuova (chiamiamola pure socialista) che si basa su antichi valori cristiani. E così socialismo e cristianesimo si mescolano in avanti come i convegni della pace, dei Sindaci, dei colloqui mediterranei» (320). Quella collaborazione acquistava dunque un significato ampio: «non un piccolo fatto tattico e provinciale ma un fatto di immenso valore e

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portata mondiale» (Z. c.).Al termine del suo saggio, la Bagnato riporta un brano che Giovanni

Pallanti scrisse su Avvenire al ritorno di un viaggio a Fès compiuto poco dopo la morte di La Pira. Mi sembra essere la conclusione che tutti gli interventi del volume concorrono a costruire: «In Marocco ho trovato tracce visibili del Suo lavoro e ho potuto constatare che la costruzione della nuova società (unità, pace, disarmo, lavoro) Lei non la fondava solo sui discorsi, ma su atti concreti che solo gli stupidi hanno pensato possibili solo ai tecnici e non soprattutto per gli architetti della fede, della speranza e della carità» (332).

Conclusione

Sarebbe interessante conoscere il reale grado di diffusione del libro, visto che circola all'incirca come un dattiloscritto, non essendo richiedibile tramite i canali consueti33. Non è limite da poco per un lavoro che dovrebbe rappresentare l'apporto della terra di La Pira, edito con il contributo del Comitato nazionale per le celebrazioni del centenario della nascita (anche se non promosso da esso)34.

Qualcosa va detto sul mancato inserimento dei testi della giornata conclusiva del convegno. Dal programma apprendiamo che il tema «Cristiani, ebrei, musulmani: dal Medio Oriente un'alleanza essenziale per la pace nel mondo», coordinato da Claudio Mario Betti, della Comunità di Sant'Egidio, veniva trattato da: p. Ibrahim Faltas, Custode della Basilica della Natività di Betlemme; Israel Meir Lau, ex Rabbino capo d'Israele; Ahmad At Tayyib, Rettore dell'Università di Al-Azhar. Per tale omissione si potrebbero immaginare motivazioni legate a un modesto interesse della discussione, anche se l'ipotesi appare poco verosimile, vista la valenza delle personalità coinvolte. Sarebbe stato interessante invece poter constatare come la visione lapiriana

33 Le pubblicazioni dell'editrice Trisform (Messina, via Fata Morgana, 4, tei. 090 344293) non hanno ISBN.34 Le pubblicazioni promosse dal Comitato, tutte edite dalla Giunti di Firenze nel 2005, sono: Giorgio La Pira: le radici iberiche della teologia della storia, a cura della Comunità di S. Leolino; Giorgio La Pira e la Francia. Temi e percorsi di ricerca da Maritain a De Gaulle, a cura di P.L. Ballini; Giorgio La Pira e la Russia, a cura di M. Garzaniti e L. Tonini; Giorgio La Pira e la vocazione di Israele, a cura di L. Martini; L’attesa della povera gente. Giorgio La Pira e la cultura economica anglosassone, a cura di P. Roggi.

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sull'argomento trovi oggi attuazione, forse anche a un livello più alto di consapevolezza (vantaggio che, proprio in virtù del loro stare nella contemporaneità, gli "epigoni" possono vantare nei confronti dei grandi "segnalatori" assenti), seppure in una situazione intemazionale non meno complessa ed esagitata rispetto a quella del tempo del Sindaco santo. Avremmo, quindi, potuto guadagnare un'ulteriore tessera nel mirabile mosaico della Wirkungsgeschichte - la cosiddetta «storia degli effetti»35 - della sua persona e del suo impegno.

Richiedeva una superiore perizia editoriale il soggetto d'indagine, il cristiano siciliano Giorgio La Pira, a dimostrazione di un impegno sostanziale nei suoi confronti. E non meritava una pubblicazione così in sordina l'indubbio interesse del libro, del quale non vanno taciuti i pregi, visto che al suo interno le mancanze si incrociano con positive eccedenze. Tra essi indichiamo quello di aver fatto nuova luce sugli anni giovanili del Sindaco santo, in particolare su alcune componenti della sua formazione. Inoltre, gli interventi relativi al suo impegno mediterraneo delineano con incisività lo sfondo dell'epoca nella quale egli visse.

In essa seppe collocarsi in maniera incredibilmente e, per certi aspetti, misteriosamente inedita, con la risolutezza e il realismo che connotano l'agire dei costruttori di pace, testimone e sintesi vivente dell'Evangelo che libera.

35 Cf. H.G. GADAMER, Verità e metodo (19 3), traci. it. di G. Vattimo, Bompiani, Mila­no 1983,350-358. .

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