prefazione a sandra vatrella, penitenti educati migranti in un'etnografia carceraria

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FRANCOANGELI LABORATORIO S OCIOLOGICO Penitenti educati Migranti in un’etnografia carceraria Prefazione di Mario Cardano Sandra Vatrella Diritto, sicurezza e processi di vittimizzazione

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FRANCOANGELI

LABORATORIO SOCIOLOGICO

Penitenti educati

Migranti in un’etnografia carceraria

Prefazione di Mario Cardano

Sandra Vatrella

Diritto, sicurezzae processi di vittimizzazione

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Prefazione Quello di essere un immigrato è un reato latente, camuffato, di cui il soggetto in

questione non ha alcuna responsabilità ma che il reato commesso, oggettivato, e su cui la giustizia deve indagare, permette di portare alla luce. Ogni processo a un immigrato delinquente è un processo all’immigrazione, concepita essenzialmente come delinquenza in sé e secondariamente come fonte di delinquenza (A. Sayad, 1999, trad. it. 2002: 372).

La galera non è politica, la galera è solo sofferenza. È un inverno: nessuno do-

vrebbe entrare in galera: non è un posto per esseri umani! (Atlante, detenuto a Se-condigliano)

La citazione, in epigrafe, tratta dal volume di Abdelmalek Sayad, La

doppia assenza, guida l’individuazione della specificità del volume di San-dra Vatrella, un testo che – forse anche al di là delle intenzioni dell’autrice – lega due settori di ricerca solitamente separati, gli studi sulla migrazione e quelli sul carcere. Penitenti educati è un’etnografia del carcere che mette a tema l’esperienza della detenzione vissuta dagli immigrati, ma, soprattut-to, lo fa legando l’esperienza del carcere con quanto la precede, con il «naufragio del progetto migratorio», incagliatosi nelle secche del lavoro precario prima, della disoccupazione e della marginalità poi1. Vatrella, co-me meglio dirò più oltre, costruisce questo specifico sguardo a partire da una ridefinizione della categoria di «prigionizzazione» elaborata da Donald Clemmer (1941) negli anni Quaranta del secolo scorso. Questo processo, nella lettura dell’autrice, ha le proprie radici in quanto precede il crimine (la «vicenda predetentiva»), in quella condizione di «doppia assenza» – dalla propria patria e nel Paese di approdo – descritta da Sayad, che le poli-tiche di regolazione degli ingressi – definite, senza indugi, «criminogeneti-che» – rendono ancora più aspre.

In questo registro, Penitenti educati combina due linee argomentative: la ricostruzione delle vicende biografiche degli immigrati-detenuti, nei loro diversi esiti in termini di assimilazione alla subcultura del carcere; la detta-gliata descrizione della loro vita quotidiana, sospesa fra la coercizione e il trattamento. L’attenzione cade su due carceri, che l’autrice colloca agli estremi di un continuum ideale, definito dalle peculiarità strutturali e dalla posizione giuridica dei ristretti: la casa circondariale di Poggioreale e la ca-

1 Ove non indicato altrimenti, le parole o le frasi poste fra virgolette sono tratte dalle pa-gine del testo che qui viene presentato.

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sa di reclusione di Secondigliano. I materiali empirici sui cui poggiano le conclusioni di questo studio sono compositi: interviste discorsive ai detenu-ti e al personale dei due penitenziari, note di campo, redatte, ora in coda al-le sessioni di osservazione partecipante nelle aule scolastiche dei due carce-ri, ora seguendo come un’ombra nelle sue attività quotidiane un’educatrice (in gergo tecnico shadowing). Questi materiali vengono messi, per così di-re, in tensione con le disposizioni giuridiche che dovrebbero regolare la vi-ta in carcere, mostrandone lo scarto.

La ricostruzione delle traiettorie biografiche dei detenuti viene inscritta all’interno di una cornice teorica che articola il concetto di prigionizzazione elaborato da Clemmer. Con questo termine – fastidiosamente cacofonico – Clemmer intende «l’assunzione, in grado variabile, del folklore, dei modi di vita, dei costumi e della cultura generale del penitenziario». L’articola-zione di questa nozione muove in due direzioni. La prima vede l’integra-zione dell’apparato teorico originario con le nozioni di adattamento elabo-rate da Ervin Goffman nel suo noto studio sulle istituzioni totali, Asylum

(1961). La seconda direzione vede l’estensione, nel tempo e nello spazio sociali, della prigionizzazione. L’estensione nel tempo porta – si è detto – a riconoscere le radici di questo processo nella vicenda predetentiva, nelle esperienze di marginalità ed esclusione che preludono il crimine. L’esten-sione nello spazio sociale estende ai congiunti del detenuto, ai suoi familia-ri e alla sua cerchia più stretta, il processo di prigionizzazione, colto nella costrizione ad adattare i ritmi della propria vita a quelli della burocrazia carceraria, che disciplina i tempi e i modi delle relazioni sociali esterne dei detenuti. Vatrella identifica così quattro tappe del processo di prigionizza-zione, incarnate in tre figure della detenzione, tre gruppi omogenei di dete-nuti, designati in modo evocativo come Cocito, Pira dell’Er e Lete2.

Cruciale, in quest’analisi, soprattutto in ragione della chiave di lettura proposta, è il punto di svolta, l’evento che, nelle narrazioni autobiografiche dei detenuti, segna il passaggio dal «reato latente» dell’immigrazione (Say-ad, 2002: 372, ed orig. 1999), al reato ascritto loro dalle autorità. La linea rossa che accomuna – pur con importanti differenze che Vatrella mette a tema – tutte queste narrazioni compone, in una successione concitata di immagini, l’arrivo in Italia, la precarietà delle condizioni di vita e di lavoro, la caduta in povertà, l’esclusione e, buon ultimo il crimine. L’ultima stazio-ne del processo, il crimine, si configura ora come una necessità, ora come un incidente fortuito, una trappola, dunque come il caso. Il registro della

2 Le tappe, descritte nel terzo capitolo sono: la vicenda predetentiva; la separazione dal mondo della vita e l’ingresso in carcere; la socializzazione con la dimensione detentiva e la stabilizzazione; le prospettive di uscita.

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necessità descrive il crimine come un male, ma un male reso necessario dalle privazioni economiche, dalla povertà. Due narrazioni, tratte da Peni-

tenti educati, illustrano con particolare efficacia questa forma narrativa. La prima ci viene raccontata da Ceo, immigrato dalla Nigeria, in carcere per detenzione e spaccio di stupefacenti (nella narrazione «la cosa»)3.

Finita la scuola è iniziato il viaggio fino a Cotonou in Benin e ho lavorato lì per

6 anni, al porto di Cotonou perché facevo l’operaio. Poi nel ‘96 ho preso una nave per l’Italia. Ho viaggiato dentro un container. Sono arrivato a Napoli dopo 21 gior-ni. Ero senza documenti, poi miei paesani mi hanno portato a Napoli Centrale e siamo andati a vivere insieme [...] Abbiamo iniziato a cercare documenti… per cominciare a vivere! Lavoravamo per un autolavaggio, abbiamo pure pagato il pa-drone per i documenti, lui diceva sempre: “Sì ora, sì ora”, ma poi si è preso i soldi e i documenti non li ha fatti. Un giorno è venuta la Polizia Municipale e il padrone ci ha fatto andare via. […] Mi servono i soldi! Io sono l’unico che può mantenere la famiglia, noi siamo quasi 14… […] Siamo stati per un po’ fermi un po’ a casa, un po’ alla Caritas così… alla fine abbiamo organizzato per fare vendita di fazzo-lettini: abbiamo comprato tutto a Secondigliano e così piano piano, piano piano… ma poi la Guardia di Finanza ci ha bloccato così alla fine siamo entrati nella cosa che non è legale proprio…

Nella seconda narrazione, resa da Bronte, si profila un tratto che si mo-

stra con maggior nitore nelle narrazioni modellate sul registro del caso, quello della involontaria contiguità con ambienti criminali.

Sono nato in Sierra Leone ma quando è scoppiata la guerra siamo fuggiti in

Ghana con la mia famiglia. Ma in Ghana non c’è lavoro e, così, sono venuto in Ita-lia. Prima in Tunisia, e dalla Tunisia in Italia. Inizialmente vivevo a Varcaturo, so-no rimasto lì dal 2001 al 2006. Ho lavorato per due anni in una ditta di ferramenta. Poi nel 2002 quando c’è stata la sanatoria, il responsabile non mi ha voluto mettere in regola: io ho chiesto, ho anche detto: “Pago io tutto”, ma lui niente. Da quel momento ho cominciato a frequentare amici, ho conosciuto un amico marocchino e facevamo documenti falsi. Io sto dentro per questo.

Le narrazioni improntate al registro del caso qualificano la caduta nel

crimine con il medesimo antefatto – immigrazione, precarietà, povertà ed esclusione – ma legano l’ultima stazione del tragitto al crimine sottolinean-

3 Le persone di cui, in Penitenti educati, ascoltiamo le voci sono identificate ricorrendo – come da consuetudine – a nomi di fantasia che, in questo caso, l’autrice trae dalla mitolo-gia classica. Devo riconoscere che – complice la mia formazione non proprio classica – ho avuto qualche difficoltà a riconoscere gli “attori»” in scena. Questo, almeno, sino a quando ho imparato a servirmi del Dizionario degli attori, che chiude il volume, che aiuta il lettore ad orientarsi fra Achille, Dedalo, Tantalo e altri ancora.

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do come la contiguità con ambienti criminali abbia configurato, ora un’oc-casione impropria per rimettersi in carreggiata, ora una trappola nella quale sono caduti.

Quello che accade dopo il punto di svolta documenta la drammatica specificità dell’esperienza della detenzione vissuta dagli stranieri; mostra come, per questa popolazione – pari a poco meno di un terzo dei detenuti – a parità di reato, «la galera» sia decisamente più dura rispetto alla popola-zione italiana4. Per questa popolazione, viene meno, dunque il cosiddetto «principio retributivo», alla base del diritto penale moderno, che stabilisce una necessaria proporzionalità fra la pena e il danno che deriva dal reato commesso (Vianello, 2012, p. 38-41). Vatrella allinea un insieme compatto di fattori che rendono la pena di un detenuto straniero particolarmente af-flittiva, dalle difficoltà linguistiche che ostacolano la difesa delle proprie ragioni, all’assenza di documenti, di una residenza legale e di un reddito che impediscono, prima, di scontare la pena in forma non detentiva, e poi, una volta in carcere, di fruire di forme alternative di detenzione. Il «surplus afflittivo» imposto ai detenuti stranieri si mostra, innanzitutto, nella quoti-dianità della vita in carcere, nelle difficoltà di mantenere i rapporti con i propri familiari, di ricevere da loro un sostegno economico; e ancora nelle visibili discriminazioni operate a loro danno dai volontari e dalle guardie carcerarie, nella costrizione a un’alimentazione spesso inadeguata ai loro precetti religiosi, come efficacemente documenta Eutenia, educatrice a Se-condigliano.

I detenuti stranieri hanno una pena afflittiva maggiore, cioè hanno la pena edit-

tale da scontare però in più stanno lontani dalle famiglie, spesso non vengono capi-ti per problemi linguistici, hanno dei problemi di religione […] Io ho dei detenuti che nel mese di luglio e agosto fanno il Ramadan e io ogni volta il mese di luglio e agosto gli do esattamente il calendario perché quello dipende dalla zona, molti problemi, ecco del mangiare. Vogliono fare il Ramadan e invece gli danno il cibo normale, gli danno pure il maiale per dire.

Accanto a questo aspetto – cruciale – Penitenti educati offre un quadro

particolarmente ricco dell’esperienza del carcere dei detenuti stranieri. Una sintesi del testo, oltre ad essere inopportuna, priverebbe il lettore del piace-re della sua lettura. Mi limiterò, pertanto, a puntare l’attenzione su due nodi tematici, che hanno sollecitato il mio interesse. Il primo attiene alla singola-re tensione che attraversa i discorsi dei detenuti sul carcere e che oppone la

4 Il rapporto dell’Associazione Antigone, redatto da Patrizio Gonella, Detenuti stranieri

in Italia. Norme, numeri e diritti, conta, al 31 dicembre, 2014 17.462 detenuti stranieri, un valore pari al 32,6% della popolazione detenuta.

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critica più accesa a modalità discorsive che rasentano il panegirico. Il se-condo riguarda le cosiddette «attività trattamentali», scuola e lavoro, con-cepite per promuovere la rieducazione dei detenuti.

Un luogo comune, ampiamente trattato nella letteratura specialistica e ripreso anche in quella popolare (penso in particolare ai Prison movies), rappresenta il carcere come il luogo di sopraffazioni e violenze, perpetrate sia dalle guardie sui detenuti, sia dai detenuti ai danni di altri detenuti. Que-sto aspetto – noto, ma non per questo meno penoso – trova una puntuale conferma in una parte consistente della narrazioni raccolte da Vatrella, in particolare fra i detenuti, per così dire, meno navigati, con una più limitata esperienza del carcere. In queste narrazioni la violenza assume, in alcuni casi, una chiara connotazione razzista. Ancora più sconcertanti risultano le ricostruzioni che indicano in un luogo specifico, la «stanza zero» il luogo, nascosto, segreto, nel quale i detenuti subiscono le aggressioni e le percosse arbitrarie delle guardie. La drammaticità della coercizione si mostra, da ul-timo, nei racconti che indicano nelle pratiche autolesionistiche la sola stra-tegia capace di richiamare l’attenzione e mettere in atto una paradossale pratica di resistenza. Così Sinone: «ho scritto 6, 8 domandine non mi ricor-do più: per la suora, per l’ispettore, niente, niente. Volevo chiedere di lavo-rare… sono cambiati tanti lavoranti, perché nessuno mi chiama?! Vuoi es-sere chiamato?! Ti devi tagliare!»5.

A queste narrazioni si contrappongono in modo stridente quelle rese dai detenuti con un’esperienza di detenzione superiore ai dieci anni che – in-nanzitutto – negano le aggressioni e le violenze di cui si è detto più sopra, per elaborare un’immagine del carcere e del personale che vi opera quasi stucchevole. In questi discorsi i compagni di cella diventano fratelli. Così Iperione a proposito del proprio compagno di sventura: «Penso che siamo più che amici io lo tratto come un fratello. Non solo lui, ci sono anche gli altri». Ancora più sorprendentemente, l’educatrice e l’ispettore diventano, rispettivamente, una madre e un padre; le guardie «sono di cuore» e la pri-vazione della libertà subita con il carcere diventa una sorta di benedizione. Chiamato a tracciare un bilancio della propria esperienza, Aristomene si esprime nei termini che seguono.

5 La pratica dell’autolesionismo viene denunciata anche dagli operatori penitenziari. In particolare Mentore, un educatore che l’autrice colloca fra i più illuminati, al riguardo si esprime nei termini riportati di seguito. «L’autolesionismo lo subiamo anche noi come ope-ratori. Io la definisco una forma di aggressione derivata, deviata, nel senso che comunque vedere una persona che si autolesiona non fa piacere! A me è capitato un po’ di tutto. Perso-ne che si sono cucite le labbra, tagliati, detenuti sieropositivi che come forma di protesta trattengono il sangue e poi te lo sputano addosso».

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Ho imparato a convivere, a sopportare. […] ho imparato tante cose, ho impara-to a rispettare gli altri… e allora questo mi fa piacere. A volte ci penso, no?! Dico: “Cioè questa è una scuola”. Io penso che mi sta aiutando il carcere anche se tu sof-fri no?! Però stesso nella sofferenza tu capisci. Questa cosa a volte mi fa stare male perché penso che se stavo fuori andava a finire male, andava male. Ora prima di fare una cosa ci penso tre volte. E se prima ci pensavo una volta, quando uscirò ci penserò diecimila volte! Perché ora so a cosa vado incontro. Mi ha fatto piacere che so stato arrestato, mi ha fatto piacere perché mi sono pentito. Se stavo fuori… non avrei mai capito.

In questa tensione fra rappresentazioni antitetiche dell’esperienza deten-

tiva si colgono – l’autrice lo fa – i segni evidenti del processo di prigioniz-zazione, ma che qui è – soprattutto – identificazione con la «subcultura le-gittima» (sensu Irwing e Cressey, 1962, citati in Vianello, 2012: 74-75). Leggendo e rileggendo questi discorsi, mi è parso di riconoscervi anche i tratti di un processo psicologico più profondo, comunemente etichettato come «riduzione della dissonanza cognitiva» (Festinger 1957, trad. it. 1973), che, nel caso in specie, assume i tratti della cosiddetta sindrome di Stoccolma, che porta la vittima a riconoscere l’autorità morale del carnefi-ce, per provare a tollerare gli abusi arbitrari che è costretto a subire. Quale che sia il processo sottostante, sorprende il suo esito, la costruzione di una peculiare docilità (nell’accezione foucaultiana), che cancella il carattere perturbante dello straniero, o meglio, del detenuto-straniero.

Le attività trattamentali costituiscono il secondo nodo tematico che ha attirato la mia attenzione. Penitenti educati analizza in modo puntuale la scuola e il lavoro nel carcere, comunemente intesi come i pilastri su cui poggia il processo di rieducazione del detenuto. Il quadro che emerge è quanto mai sconsolante, e illustra con particolare efficacia come – attraver-so i meccanismi che l’etnografia consente efficacemente di mettere a fuoco – le finalità rieducative che la Costituzione annette alla pena siano larga-mente disattese6.

Nelle due carceri in studio, trova conferma la tendenza che caratterizza il nostro Paese e, più in generale, i Paesi occidentali a investire ben poche risorse nelle politiche di rieducazione dei detenuti (vedi Vianello, 2012, p. 42-48). In entrambe le carceri, il numero degli educatori – delle figure cui competono in modo specifico gli interventi rieducativi – è largamente sot-todimensionato: ce n’è uno ogni cento detenuti a Secondigliano e uno ogni centocinquanta a Poggioreale. Le attività di formazione scolastica – quelle a Poggioreale sulle quali Vatrella ha appuntato l’attenzione – sono larga-

6 L’articolo 27 della Costituzione recita, al riguardo: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

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mente inadeguate per la popolazione cui si rivolgono (per lo più stranieri). Le aule sono arredate con banchi e sedie per bambini, inadatti ad accogliere il corpo di un adulto. Le lezioni hanno una durata limitata, sotto le due ore, e si tengono non più di tre volte a settimana. Il modello didattico – in parti-colare nella scuola elementare – mostra i tratti di un paternalismo infanti-lizzante, che ben difficilmente può promuovere lo sviluppo delle virtù civi-che che attestano il successo della rieducazione. Quanto al lavoro, la fun-zione principale che viene a svolgere è quella di contrarre il tempo vuoto della detenzione, senza, tuttavia, riempirlo di attività capaci di una reale rieducazione. Il lavoro offerto è – innanzitutto – un lavoro da carcere, che poco o nulla riproduce i modelli organizzativi e i contenuti del lavoro esterno. Le mansioni sono del tutto specifiche del contesto penitenziario: scopino, spesino, porta vitto, piantone, porta pacchi, incapaci di arrestare il processo di «disculturazione» (sensu Goffman 1961, trad. it. 2001), di in-terrompere l’apprendimento di un’inettitudine che rende difficile, a fine pe-na, svolgere un lavoro che non sia da galera. Il lavoro, inoltre, è governato da regole specifiche, sia sul piano della retribuzione, sia su quello dell’organizzazione. Le ore di lavoro vengono pagate meno del dovuto, e, inoltre, vengono pagate meno ore di quelle effettivamente svolte. A ciò si aggiunge il particolare rapporto di subordinazione che si istituisce fra «il lavorante» e coloro – le guardie carcerarie – che presiedono alla supervi-sione delle attività lavorative svolte, con le parole di Ceo:

Le guardie trattano i lavoranti come schiavi, fanno intimidazioni di continuo

dicono: “Fai questo, prendi, porta, sposta questo, sposta quest’altro qui. Guarda che se non lo fai lo dico al giudice, ti faccio ritirare dal lavoro!” Se non obbedisci fanno rapporto e ti chiudono il lavoro.

Penitenti educati, offre dunque utili spunti a una riflessione critica sul

carcere per gli stranieri (e forse non solo per loro), sull’equità delle pene inflitte e sulla sua efficacia nel promuovere la rieducazione dei detenuti.

Concludo con alcune notazioni sul metodo adottato in questo lavoro, l’etnografia. Le etnografie difficili, condotte in contesti nei quali è difficile accedere o restare, che coinvolgono persone abitate da forme radicali di al-terità mostrano – magnificati – tratti distintivi del lavoro etnografico. Que-sto sicuramente è il caso della ricerca di Sandra Vatrella che mostra, con estrema chiarezza, come l’etnografia sia innanzitutto, con le parole di Leo-nardo Piasere, un «esperimento di esperienza». Tale è stato il viaggio di Vatrella all’interno dell’universo penitenziario, un viaggio nel quale ha sot-toposto il proprio corpo, la propria persona alla disciplina del carcere, che l’ha seguita insistentemente, fino all’ultimo giorno della sua permanenza fra quelle mura con la pressione delle domande delle guardie che presidia-

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vano ogni soglia: «Chi siete? Dove dovete andare? Perché siete qui?» (Gof-fman 1989; trad. it. 2006, p. 109). Vatrella ha messo nitidamente a fuoco questo aspetto del suo lavoro, per cercare di imparare a conoscere il carcere attraverso l’esperienza di irrimediabile estraneità che le veniva imposta, consapevole di aver introdotto fra quelle mura «un’eccezione che, in quan-to tale costituisce una minaccia». «Cosa era in grado di dirmi il carcere – si chiede Vatrella – con i suoi reiterati tentativi di sottrarsi alle mie istanze di ricerca?». La valorizzazione della persona del ricercatore, proprio di questo stile di ricerca, si mostra anche nel lavorio di costruzione della relazione di fiducia con i gatekeeper («un pulviscolo di gatekeeper»), nell’impiego astuto di trucchi relazionali, come la scelta, nel corso della negoziazione dell’accesso, di assumere un profilo basso, di mostrare ad arte un’inettitu-dine che non può costituire una minaccia (il cosiddetto «playing the boob» di Jack Douglas7).

L’altro tratto del lavoro etnografico che Penitenti educati mostra in mo-do esemplare è la flessibilità, l’armonizzazione delle procedure di costru-zione del materiale empirico alle caratteristiche del contesto8. Questa fles-sibilità, in questo lavoro, si mostra innanzitutto nella definizione del dise-gno della ricerca. Lo studio, come il lettore avrà modo di constatare, nasce come un’indagine sulle relazioni inter-etniche nel carcere. Tuttavia, le dif-ficoltà di accesso e, soprattutto, le astute misure di contrasto inventate da Vatrella l’hanno condotta a conquistare l’accesso, non a uno, ma a due car-ceri. Da qui la ridefinizione intelligente del disegno della propria ricerca, uno scarto dal disegno della ricerca originale, che – a conti fatti – rende il lavoro dell’autrice ben più rilevante.

L’ultimo aspetto su cui intendo attirare l’attenzione è la scrittura etno-grafica, che in Penitenti educati si mostra con drammatica chiarezza. I testi che porgono al lettore i risultati di una ricerca etnografica – con poche ec-cezioni – si caratterizzano per la combinazione della voce del ricercatore con quelle delle persone che hanno partecipato allo studio. Le loro voci en-trano nel testo – ancorché filtrate dalle scelte dell’autore – sottoforma di e-stratti, espunti dalle trascrizioni delle interviste, dalle note di campo, o ai documenti naturali raccolti nel corso del proprio lavoro9. Questo, forse non è neppure il caso di dirlo, non accade per i testi che restituiscono i risultati

7 Douglas J.D. (1976), Investigative Social Research. Individual and Team Field Re-

search, Sage, Beverly Hills. 8 Su questo aspetto, mi permetto di rinviare alle riflessioni contenute nel mio volume

sulla ricerca qualitativa (Cardano, 2011, pp. 15-19). 9 Il fatto che le voci che punteggiano un’etnografia siano, comunque, scelte dal suo autore,

separa questo stile di scrittura dalla cosiddetta antropologia dialogica, nella quale è la scrittura del testo che impegna sia l’autore sia i partecipanti (Czarniawska, 2004, pp. 122ss.).

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di una ricerca quantitativa. Questa peculiarità della scrittura etnografica trova un’efficace valorizzazione nella nozione di “descrizione doppia” ela-borata da Gregory Bateson (1979, trad. it. 2008). Bateson, attraverso un re-pertorio di esempi che includono la visione binoculare, la sommazione si-naptica, la combinazione del linguaggio algebrico e geometrico e altro an-cora, approda alla conclusione solo apparentemente banale per la quale «due descrizioni sono meglio di una» (ivi, p. 184). L’idea di fondo alla base delle riflessioni di Bateson è espressa con particolare efficacia a proposito della visione binoculare, propria della nostra specie.

In linea di principio, ogni volta che l’informazione relativa alle due descrizioni

viene raccolta oppure codificata in modo diverso ci si deve aspettare quella che metaforicamente potremmo definire una maggior “profondità” (ivi, p. 99).

Nella scrittura etnografica, questa maggior profondità viene ottenuta

combinando la descrizione resa dall’etnografo e quella che emerge dalle voci dei partecipanti. Ciò che viene combinato non sono solo due sguardi, ma anche due registri discorsivi, argomentativo, quello dell’autore del te-sto, emotivo, quello dei partecipanti. Da qui, la capacità della scrittura et-nografica di evocare – con tutti i limiti del caso – le emozioni, in questo ca-so, il dramma, che ha attraversato l’esperimento di esperienza del ricercato-re. Ebbene, la combinazione dei due tipi di descrizione e dei due registri espressivi che le contraddistinguono si mostra con particolare nitore in Pe-

nitenti educati. Penso, in particolare all’efficace combinazione del registro analitico dell’autrice con le voci dei detenuti, alle prese con la ricostruzione del primo impatto con il carcere, di cui riporto qui la ricostruzione di At-lante (la voce in epigrafe in questa Prefazione).

Ma il primo giorno vedo che è tutto nero... è una cosa, non so come posso spie-

garti. Vedo che non ho potere! Già l’agente che mi diceva: “Guarda che non sei niente”. L’agente mi chiama quando vuole: mi alzo quando loro vogliono, mi sve-glio quando loro vogliono. Per qualunque cosa devi dipendere da un’altra persona [sospira e contrae i muscoli del volto]. Male, male, male. Anche adesso male.

La ricchezza delle citazioni che contraddistingue Penitenti educati con-

sente di mettere pienamente a profitto il plus della scrittura etnografica, do-vuto alla sua capacità di comporre due descrizioni e il lettore avrà modo di riconoscerne il valore nel corso della lettura, che – chiudendo qui – non vo-glio più ritardare.

Mario Cardano

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Dizionario degli attori

ACHILLE è funzionario dell’Organizzazione e delle Relazioni a Poggioreale. Nella ricerca ha svolto un ruolo centrale in qualità di gatekeeper e informatore.

Eroe mitologico, cantato nell’Iliade, fu figlio di Peleo e di Teti che lo avrebbe

immerso nel fuoco, o nelle acque del fiume Stige, per renderlo invulnerabile, ma

poiché era stato sorretto per il tallone, questa parte del corpo sarebbe rimasta

vulnerabile. A. fu poi consegnato al centauro Chirone perché lo educasse. AGAMENNONE è detenuto a Secondigliano, ha all’incirca 30 anni, è nato in

Italia. Figlio di Atreo e fratello di Menelao, tradisce la più sacra delle leggi parentali,

macchiandosi di un crimine orrendo: sacrifica la figlia Ifigenia per ingraziarsi il

favore di Artemide. La leggenda, trattata anche da Stesicoro e da Pindaro, è ar-

gomento dell’Agamennone di Eschilo.

ARGE “lo splendore” è detenuto a Poggioreale, ha 29 anni, è nato in Ucraina. Nella mitologia è uno dei Ciclopi Uranii, i tre giganteschi figli di Urano e Gea.

Essi si rivoltarono contro il padre Urano, il quale li imprigionò nel Tartaro.

Quando Crono detronizza Urano libera i Ciclopi ma, poi, sentendosi minacciato

dalla presenza di questi giganti, li richiude nuovamente nel Tartaro. Saranno libe-

rati definitivamente da Zeus.

ARISTOMENE è detenuto a Secondigliano, ha 21 anni, è nato in Marocco. Eroe tradizionale della resistenza messenica a Sparta, generalmente assegnato

alla seconda guerra (650 a.C.), fu sconfitto nella battaglia della Grande Trincea,

catturato dai nemici, riuscì a resistere per undici anni, fuggendo due volte, dopo la

cattura.

ATLANTE è detenuto a Secondigliano, ha 34 anni, è nato in Mali. Secondo alcune versioni, era figlio di Urano e quindi fratello di Crono, della

generazione divina degli uomini smisurati e mostruosi di cui fanno parte anche i

Ciclopi partecipò alla lotta tra i Giganti e gli dei. Per questo fu punito da Zeus,

che lo condannò a sorreggere per l’eternità la volta del cielo.

BRIAREO è detenuto a Poggioreale, ha 32 anni, è nato in Ghana. Gigante mitologico. Secondo Esiodo (Teogonia 147 ss., 617-734) fu figlio di

Urano e della Terra, e uno dei tre Centimani (B., Cotto e Gia), giganti con cento

braccia e cinquanta teste. Per la ribellione al padre furono incatenati nelle viscere

della terra.

BRONTE, IL TUONO è detenuto a Poggioreale, ha 37 anni, è nato in Sierra Leone.

Uno dei Ciclopi, figure favolose della mitologia greca di statura gigantesca.

Nell’Odissea sono una collettività di giganti spregiatori degli dei, che vivono in

caverne allo stato di natura, sono pastori e il loro capo è Polifemo, figlio di Posi-

done, (v. Arge).

BUSIRIDE è agente di custodia presso le scuole medie di Poggioreale. Gigante mostruoso, figlio di Poseidone e di Lisianassa, re di Egitto, posto sul

trono da Osiride, quando questi partì per la spedizione attorno alla terra. Tiranno