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1 I rapporti fra i genitori migranti e le istituzioni scolastiche e para-scolastiche Massimo Modesti Introduzione Per compiere un’analisi dei percorsi delle famiglie consultate nel corso della ricerca, è bene avere sullo sfondo i cambiamenti avvenuti in Italia, in particolar modo a Verona e nel Nord Est del paese, nel corso degli ultimi venticinque anni. Si pensi alla caduta dei regimi comunisti dell’Est Europa, alle guerre globali compiute in nome della lotta al terrorismo, alla più recente crisi finanziaria internazionale, all’Europa unita, all’avvento di internet e delle nuove tecnologie; per il nostro Paese a fenomeni politici come l’ascesa della Lega Nord, al succedersi dei governi di centro-destra legati alla leadership di Berlusconi, all’aumento dei flussi migratori e dei ricongiungimenti familiari che ne hanno mutato il panorama sociale. In generale i genitori intervistati si sono stabiliti in Italia in un periodo in cui l’immigrazione era un fenomeno ancora piuttosto contenuto e, quindi, la presenza di stranieri molto ridotta. Fenomeni di rigetto e intolleranza, infatti, se non di violenza culturale, non erano ancora diffusi fra la popolazione autoctona la quale guardava allo straniero magari in modo paternalistico, ma in fondo come ad un uomo o donna provenienti da paesi “poveri” e quindi bisognosi d’aiuto. Anche la tipologia di insediamento abitativo degli stranieri è cambiata nel corso degli anni e differisce da quella dei primi migranti giunti in Italia: in particolare è cresciuta la tendenza ad aggregarsi nei medesimi quartieri o condomini in base alla regione di provenienza 1 . Il tema del mutamento di atteggiamento avvenuto nel corso di questi anni nei confronti degli stranieri da parte della popolazione locale ricorre anche nelle conversazioni con i genitori coinvolti nella ricerca 2 . Costoro si sono dimostrati sensibili, in alcuni casi, anche al clima politico italiano attuale e al ritardo istituzionale nel riconoscimento di una presenza – quella degli stranieri di origine immigrata – che non può più essere ignorata. Il presente capitolo riguarda specificamente il rapporto tra i genitori stranieri e l’istituzione scolastica, in particolar modo la scuola secondaria. Anche la scuola italiana è notevolmente mutata negli ultimi venticinque anni così come il suo “indotto”, potremmo dire, ovvero tutte le associazioni che hanno promosso doposcuola o servizi educativi che contemplano anche un appoggio nello studio fra le loro attività. È mutata l’offerta di servizi e l’expertise degli insegnanti nel lavoro con le classi multiculturali, la mediazione linguistico-culturale si è diffusa e ha consolidato le sue pratiche, i laboratori di italiano come lingua seconda sono stati dotati di tecniche più efficaci. È cambiato anche il panorama sociale della scuola che, dai primi inserimenti avvenuti negli anni Novanta di bambini ricongiunti dall’estero, oggi conta sempre più, fra gli alunni figli di migranti, i nati in Italia ovvero le cosiddette seconde generazioni 3 . 1 La ricerca di Maurice Crul (2000) sul successo-insuccesso scolastico dei figli di marocchini e turchi in Olanda descrive dinamiche di insediamento abitativo analoghe. 2 Si veda a tal proposito l’intervista a Amina, in particolar modo il passaggio riportato al par. 2.2. 3 Per dare un’idea delle dimensioni di tale mutamento, basti osservare alcuni dati statistici. In Veneto gli alunni figli di immigrati nati in Italia sono il 77,2 per cento nella scuola dell’infanzia, il 48,6 per cento nella scuola primaria, il 18,9 per cento nella scuola secondaria inferiore e il 7,6 per cento nella scuola secondaria superiore (percentuale sul totale dei figli di migranti iscritti) (Servizio Statistico del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, dicembre 2009). È evidente il trend positivo dei nativi rispetto ai nati all’estero. Il dato non comprende gli iscritti ai Centri di Formazione Professionale (fino all’ultima riforma questi non erano

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I rapporti fra i genitori migranti e le istituzioni scolastiche e para-scolastiche

Massimo Modesti Introduzione Per compiere un’analisi dei percorsi delle famiglie consultate nel corso della ricerca, è bene avere sullo sfondo i cambiamenti avvenuti in Italia, in particolar modo a Verona e nel Nord Est del paese, nel corso degli ultimi venticinque anni. Si pensi alla caduta dei regimi comunisti dell’Est Europa, alle guerre globali compiute in nome della lotta al terrorismo, alla più recente crisi finanziaria internazionale, all’Europa unita, all’avvento di internet e delle nuove tecnologie; per il nostro Paese a fenomeni politici come l’ascesa della Lega Nord, al succedersi dei governi di centro-destra legati alla leadership di Berlusconi, all’aumento dei flussi migratori e dei ricongiungimenti familiari che ne hanno mutato il panorama sociale. In generale i genitori intervistati si sono stabiliti in Italia in un periodo in cui l’immigrazione era un fenomeno ancora piuttosto contenuto e, quindi, la presenza di stranieri molto ridotta. Fenomeni di rigetto e intolleranza, infatti, se non di violenza culturale, non erano ancora diffusi fra la popolazione autoctona la quale guardava allo straniero magari in modo paternalistico, ma in fondo come ad un uomo o donna provenienti da paesi “poveri” e quindi bisognosi d’aiuto. Anche la tipologia di insediamento abitativo degli stranieri è cambiata nel corso degli anni e differisce da quella dei primi migranti giunti in Italia: in particolare è cresciuta la tendenza ad aggregarsi nei medesimi quartieri o condomini in base alla regione di provenienza1. Il tema del mutamento di atteggiamento avvenuto nel corso di questi anni nei confronti degli stranieri da parte della popolazione locale ricorre anche nelle conversazioni con i genitori coinvolti nella ricerca2. Costoro si sono dimostrati sensibili, in alcuni casi, anche al clima politico italiano attuale e al ritardo istituzionale nel riconoscimento di una presenza – quella degli stranieri di origine immigrata – che non può più essere ignorata. Il presente capitolo riguarda specificamente il rapporto tra i genitori stranieri e l’istituzione scolastica, in particolar modo la scuola secondaria. Anche la scuola italiana è notevolmente mutata negli ultimi venticinque anni così come il suo “indotto”, potremmo dire, ovvero tutte le associazioni che hanno promosso doposcuola o servizi educativi che contemplano anche un appoggio nello studio fra le loro attività. È mutata l’offerta di servizi e l’expertise degli insegnanti nel lavoro con le classi multiculturali, la mediazione linguistico-culturale si è diffusa e ha consolidato le sue pratiche, i laboratori di italiano come lingua seconda sono stati dotati di tecniche più efficaci. È cambiato anche il panorama sociale della scuola che, dai primi inserimenti avvenuti negli anni Novanta di bambini ricongiunti dall’estero, oggi conta sempre più, fra gli alunni figli di migranti, i nati in Italia ovvero le cosiddette seconde generazioni3.

1 La ricerca di Maurice Crul (2000) sul successo-insuccesso scolastico dei figli di marocchini e turchi in Olanda descrive dinamiche di insediamento abitativo analoghe. 2 Si veda a tal proposito l’intervista a Amina, in particolar modo il passaggio riportato al par. 2.2. 3 Per dare un’idea delle dimensioni di tale mutamento, basti osservare alcuni dati statistici. In Veneto gli alunni figli di immigrati nati in Italia sono il 77,2 per cento nella scuola dell’infanzia, il 48,6 per cento nella scuola primaria, il 18,9 per cento nella scuola secondaria inferiore e il 7,6 per cento nella scuola secondaria superiore (percentuale sul totale dei figli di migranti iscritti) (Servizio Statistico del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, dicembre 2009). È evidente il trend positivo dei nativi rispetto ai nati all’estero. Il dato non comprende gli iscritti ai Centri di Formazione Professionale (fino all’ultima riforma questi non erano

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D’altra parte si tratta di una scuola che, soprattutto nell’ultimo decennio, ha visto ridotte le risorse a sua disposizione e che attualmente sta subendo una riforma che penalizza gli alunni più bisognosi di un aiuto competente (Tosolini 2008: 20).In taluni casi sembra che la scuola d’oggi muova verso una deriva autoreferenziale e tenda ad allontanarsi dal territorio che, al contrario, dovrebbe diventare lo sfondo integratore della sua azione: «La scuola deve guardare quanto accade fuori dalle proprie mura. Per esempio, non è possibile una piena integrazione scolastica degli alunni stranieri senza una contemporanea integrazione abitativa, sanitaria, lavorativa, culturale e via dicendo. E la scuola, per garantire la prima, deve provare a contaminare positivamente i contesti entro i quali avvengono le altre» (Morselli, 2008: 46). Altri analisti della riforma in atto hanno speso parole più lusinghiere a proposito, ma su un punto hanno espresso un giudizio critico, un punto che interessa da vicino il tema che stiamo affrontando: la disattenzione nei confronti dell’educazione interculturale (Malizia, Nanni 2010: 199)4. Nell’insieme i dirigenti scolastici da me consultati nel corso della ricerca, indipendentemente dalla tipologia di scuola cui appartenevano, hanno espresso parole di biasimo soprattutto nei confronti di una riforma che rende la scuola assai più teorica di quanto già non sia, a scapito dell’esercizio di abilità pratiche e manuali: una scuola, dunque, che rischia di indurre alla demotivazione gli studenti e ad una precoce dispersione scolastica tra gli adolescenti più in difficoltà. Nel corso del capitolo prenderò in esame alcuni dei temi emergenti dalle conversazioni avute con un gruppo di genitori provenienti dal Marocco, dal Ghana e dall’Albania. Tranne in un caso, tutti costoro hanno uno o più figli che frequentano la scuola superiore. Una delle famiglie ha anche due figlie che studiano all’Università, una in Italia e una all’estero. L’esperienza della scuola superiore, per molti genitori, ha come tratti caratterizzanti l’assenza di quella prossimità tipica della scuola primaria, che offriva una continuità maggiore tra contesto scolastico e famigliare, fatta di conoscenze personali e frequentazione quotidiana, e l’aumento dell’investimento economico ovvero le spese per i libri e le spese di trasporto che molti di loro considerano eccessive per le loro possibilità. L’esperienza dell’avere figli alle scuole secondarie superiori, in particolar modo, mette a confronto i genitori stranieri con il limite di non poter offrire loro alcun aiuto nello studio anche quando, durante la scuola primaria, erano stati in grado di farlo, sebbene i casi siano rari. Nel corso del capitolo affronterò i seguenti temi: le esperienze e le rappresentazioni che i genitori hanno del proprio percorso scolastico e di quello dei figli; le aspettative che nutrono nei confronti della scuola che frequentano i figli; il rapporto che essi intrattengono con la scuola e le criticità che ne rilevano; la possibilità di empowerment che il contatto con la scuola offre alle madri straniere; il peso economico dell’istruzione e la possibilità di usufruire di aiuti informali e formali per il sostegno allo studio domestico dei figli; le occasioni di promozione sociale offerte dalle attività sportive e del tempo libero, il controllo delle amicizie dei figli, gli episodi di discriminazione a loro danno; la percezione e l’argomentazione del mutamento di pratiche educative familiari avvenuto nel contesto di immigrazione; infine, le attese riferite al futuro percorso dei figli.

compresi nel sistema di istruzione) e coloro che hanno acquisito la cittadinanza italiana (nella legislazione e nella statistica si parla di “alunni con cittadinanza non italiana” e di “alunni stranieri”). 4 “Una presa di posizione più chiara si sarebbe voluta da parte del Ministro a favore della educazione interculturale. A fronte della globalizzazione (e delle sue provocazioni culturali e vitali, oltre che economiche e politiche), ma anche a fronte delle reazioni antitetiche ad essa, qualcuno ha prospettato la necessità di un ripensamento “globale” del sistema educativo di istruzione e di formazione in una chiave veramente interculturale (Bindi 2005). culturale» (Bindi 2005: 121).

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La scuola secondo i genitori migranti: esperienze e rappresentazioni Quali funzioni riconoscono i genitori migranti alla scuola? Che tipo di esperienza ne hanno avuto quando l’hanno frequentata? E che cosa pensano della scuola che frequentano i loro figli? Quale distanza percepiscono tra la loro esperienza e quella dei figli? Come si avvicinano all’esperienza scolastica di questi ultimi? Le esperienze raccolte nei focus group e nelle interviste non presentano caratteri di omogeneità rispetto a tali questioni: tuttavia, per taluni aspetti, è possibile tracciare dei paralleli e delle analogie tra i discorsi dagli interlocutori. Tenterò quindi di attraversare le narrazioni cogliendone le particolarità più che le generalità. Anzitutto è bene offrire uno sguardo sul livello di scolarità dei genitori intervistati: nonostante il dato non sia necessariamente correlato alle ambizioni di costoro, sia proprie che riferite ai figli, certamente fornisce un quadro delle diverse esperienze di scuola che essi hanno avuto, pur in contesti istituzionali differenti da quello italiano. Di quattro genitori su diciotto non abbiamo notizie a riguardo; due sono analfabeti; uno ha l’equivalente della licenza media; due hanno frequentato i primi anni della secondaria superiore; sei hanno il diploma di scuola superiore; uno ha frequentato i primi anni di università. Un primo aspetto saliente è la funzione che i genitori riconoscono alla scuola. Una coppia di genitori si è espressa nel modo seguente in risposta alla domanda «cosa vi ha lasciato la scuola? cosa vi ha dato di importante?»: Quello che siamo oggi. La testa, il cervello, diciamo. Siamo cresciuti là. Le materie sono uguali a qua. La scuola è sempre la scuola: comunista, fascista è la scuola che ti insegna tutte le cose, secondo me (Erblin, albanese, padre di due figlie) La vita a scuola è bella. Io ho fatto scuola come la fanno mie figlie adesso. Lui [il marito] invece ha fatto le serali. Non era uguale. Se vai al lavoro e poi vai a scuola, è un’altra cosa (Flora, albanese, moglie di Erblin, madre di due figlie) Yassin, padre marocchino, recupera il valore degli studi universitari compiuti, con i quali il lavoro esercitato in Italia non è affatto in linea, nella vita sociale e nell’attivismo politico: Ho studiato letteratura inglese. Ho fatto due, tre anni di studi. Avrei potuto fare il professore d’inglese, tuttavia non sono pentito perché vivo lo stesso. Lo studio mi aiuta sempre quando devo parlare con gente un po’ intellettuale, mi aiuta ad esprimere i miei problemi [R: vuoi dire che l’esperienza dell’università ti aiuta a relazionarti con le istituzioni?] sì a relazionarmi. Sono riuscito a farmi degli amici un po’ intellettuali. Poi leggo i giornali e seguo la radio. Sono molto informato sull’attualità, sui problemi politici anche se non appartengo a nessun gruppo politico (Yassin, marocchino, padre di quattro figli) La ricerca che fa da sfondo e dà avvio al presente studio metteva in luce, nelle sue conclusioni, che gran parte dei genitori stranieri hanno«una buona opinione della scuola e degli insegnanti, hanno grandi ambizioni per i figli e vogliono che si impegnino». D’altra parte, essa notava che «molti genitori si lamentano che i figli non ricevono un sostegno adeguato nell’apprendimento dell’italiano, altri di non essere informati sui contenuti scolastici, di non capire le consegne (scritte) oppure di non riuscire a seguire i figli nei compiti». Inoltre «temono che le conoscenze specifiche già acquisite dai loro figli non siano valorizzate a scuola, che è poco aperta ad orizzonti internazionali e multietnici» (Maher, 2009).

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Tutti i genitori intervistati nel nostro studio considerano la scuola come un contesto e uno strumento fondamentale di affermazione dei propri figli in quanto professionisti competenti. Inoltre, molti di loro ne sottolineano l’aspetto di riscatto dalla condizione di integrazione subalterna che hanno dovuto subire ed accettare in quanto primi migranti: Noi sogniamo che i nostri figli non facciano la vita che facciamo noi. Perché è duro questo sacrificio, adesso è dura fare l’operaio con tutte le lotte che ci sono. Per loro vorrei almeno un lavoro un po’ intellettuale, non so: l’attore, il commercialista, l’avvocato… Un lavoro più rispettabile (Yassin, marocchino, padre di quattro figli) Noi vogliamo che i nostri figli abbiano un futuro migliore del nostro. I sacrifici sono per i nostri figli. Io non voglio che Hamid faccia il lavoro di autista come il papà (Leyla, marocchina, madre di tre figli) Il lavoro: questa è la cosa più importante. Adesso stanno frequentando la scuola, ma domani la mia preoccupazione sarà se trovano o non trovano il lavoro. Nel caso non lo trovassero, spero di riuscire a mantenerle io. Queste sono le mie preoccupazioni. Spero che dopo la scuola trovino il lavoro e quindi che facciano la loro vita (Erblin, albanese, padre di due figlie) Alcuni addirittura precisano che la scuola dovrebbe occuparsi solamente delle conoscenze e delle competenze strettamente legate ai contenuti della materie studiate, senza occuparsi dell’educazione morale che avocano a sé in quanto compito strettamente riservato ai genitori5. A questo proposito, mentre si discuteva del ruolo educativo della scuola e degli insegnanti nei confronti degli alunni adolescenti, Leyla intervenne dicendo: Sì è importante: ogni tanto [ndr. gli insegnanti] devono parlare con questi ragazzi, secondo me, e cercare di aiutarli. Ogni tanto fanno una conversazione, parlano del fumo ad esempio e del perché non bisogna fumare. Comunque basta che insegnino le loro materie: per noi è sufficiente. Il resto lo facciamo noi (Leyla, marocchina, madre di tre figli) Il titolo di studio dei figli, in particolare, si carica di valore simbolico sia per quanti hanno dovuto interrompere gli studi per vari motivi, anche dettati dalle vicende occorse durante il percorso migratorio, sia per quanti sperano così di poter dimostrare che lo straniero è pari, in capacità e valore, ai nativi. Almeno tre dei genitori intervistati, una madre e due padri, hanno narrato di aver interrotto i loro progetti di studio: Avevo 23 anni quando sono arrivato a Napoli. Avevo intenzione di continuare gli studi, ma non qui: volevo guadagnare un po’ di soldi per andare in Inghilterra e continuare a studiare (Williams, ghanese, padre di quattro figli) Non dovevo venire in Italia. Sono venuto nell’estate del 1988 e dovevo ritornare in Marocco: volevo lavorare qui solamente durante l’estate, raccogliere le fragole e le mele per poi ritornare in Marocco a settembre per continuare gli studi. Un po’ come fanno gli studenti in Italia: vanno a fare i camerieri. Sentivo che qui si lavorava e magari si portava giù un milione di vecchie lire per poi fare l’anno. Però sono rimasto qua, con gli amici che erano arrivati prima di me e mi sono impegnato a sistemare casa mia qui (Yassin, marocchino, padre di quattro figli) Ho studiato fino alle scuole superiori. Poi non sono riuscita a finire perché ho avuto dei problemi familiari [più avanti rivelò che si trattava della morte della madre e della convivenza con la matrigna]. Sono l’unica a non aver finito la

5 Ho ritrovato una prospettiva simile a quella esposta da Leyla nella ricerca svolta da Franca Balsamo con alcune madri provenienti dall’Africa sub-sahariana. Costei scrive: “Alcune mamme dicono: «La scuola al nostro paese insegnava solo a leggere e a scrivere. La scuola invece adesso entra nella famiglia» (…). A volte i genitori africani immigrati percepiscono lo Stato con i suoi rappresentanti – gli insegnanti della scuola pubblica, gli assistenti sociali – come invadente, intrusivo. Lo Stato in Africa «non entra mai nella famiglia in questo modo», attraverso la scuola e gli altri servizi” (Balsamo 2003: 64). Tra i nostri intervistati, una percezione analoga del rapporto scuola-famiglia e dei rispettivi compiti educativi è emersa nelle parole del marito di Mirabella, in particolare riguardo al tema della correzione dei figli mediante punizioni fisiche. Tale pratica, a suo dire comunemente accettata e condivisa in Ghana, in Italia è passibile di denuncia e quindi pone il genitore in una situazione di sospetto nei confronti delle istituzioni.

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scuola, le mie altre tre sorelle hanno finito, hanno il loro posto diciamo, sono diventate quello che vogliono, invece io no, non ce l’ho fatta. Allora mi sono sposata e sono rimasta in casa con mia suocera per quattro anni (Leyla, marocchina, madre di tre figli). Williams sottolinea con particolare veemenza il valore di riscatto attribuito allo studio, sia per i figli che per la famiglia più in generale: Se studi bene e sei qualificato, nessuno può… cioè possono anche discriminarti perché la discriminazione è dappertutto, però se hai un buon voto, puoi andare dappertutto. Abbiamo visto che quelli nati qua, le seconde generazioni, sono entrati nelle università a Milano, lavorano e altri loro connazionali che conosciamo personalmente, hanno trovato un impiego grazie allo stage. Quindi bisogna studiare, studiare, studiare! Nessuno ti dà qualcosa solo perché sei straniero: devi qualificarti di più rispetto agli indigeni, così puoi entrare dappertutto (Williams, ghanese, padre di quattro figli) L’intervistato ritiene dunque necessario che i figli ottengano titoli di studio elevati e dal valore incontrovertibile in quanto essi possono garantire pari opportunità di accesso al mondo del lavoro. In materia di pari opportunità, l’Italia è percepita come un paese carente e non in grado di assicurare tale obiettivo grazie a politiche anti-discriminatorie, tanto che l’emigrazione in altri paesi europei è considerata da Williams una possibile via di salvezza: Spero che le cose cambino per i nostri figli. Se non cambieranno, cambieremo noi. Siccome dovranno studiare bene, se non troveranno lavoro qui, potranno essere meglio qualificati in Inghilterra. Siamo in Italia, ma se non troviamo in Italia, troveremo in qualche altro posto (Williams, ghanese, padre di quattro figli) In termini di aspettative, ci parve interessante la posizione di un altro padre ghanese nei confronti dell’unico figlio maschio, l’ultimogenito per la precisione. Il ragazzo frequentava all’epoca la terza liceo classico e i suoi risultati scolastici, che erano stati decisamente eccellenti nei primi due anni, avevano iniziato a declinare. Le sue parole sembravano celare una viva preoccupazione per il profilo morale e sociale del figlio che – ci riferì l’uomo – era diventato “italiano” e voleva essere “padrone della sua vita”. Gran parte della conversazione fu peraltro punteggiata da indicazioni normative che il padre, che aveva concluso recentemente la formazione come pastore di una chiesa pentecostale, si sentiva in dovere di offrire in virtù del suo ruolo. Nell’occasione, parlando dell’impegno scolastico del figlio, il quale probabilmente stava boicottando più o meno scientemente la scuola per rivendicare la sua individualità, l’uomo ci raccontò che un giorno trovò il ragazzo leggere dei quotidiani in internet e altre riviste. Costui venne rimproverato in quanto il tempo dedicato alla lettura doveva avvenire unicamente sui libri scolastici. Il rimprovero aprì un conflitto che, secondo il padre, non sarebbe potuto accadere in Ghana dove la vicenda si sarebbe conclusa con una dura punizione, anche fisica. Tratterò più ampiamente dei temi educativi nel sesto paragrafo.. Nell’insieme i genitori consultati hanno espresso un giudizio positivo sulla scuola che i figli frequentano, ma non hanno mancato di puntualizzare alcune questioni controverse e di additare alcune carenze. Anzitutto, un aspetto di natura politica – dunque non legato alle singole esperienze di scuola – che Williams ha sottolineato in apertura di conversazione è stato quello relativo ai tagli finanziari all’istruzione:

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Sinceramente vorrei che i miei figli restassero qui. Per cultura e per presenza di famiglie la zona in cui abbiamo cresciuto i nostri figli è molto quieta. Sono stato anche in Germania e in Svizzera oltre che in altri posti e abbiamo visto che qui è meglio. Però ti mettono nelle condizioni di voler andarsene via. Per il costo dello studio ad esempio. Più andiamo avanti e più tagliano le spese. Mentre in altri paesi investono nell’educazione, qui in Italia tagliano (Williams, ghanese, padre di quattro figli) Un altro degli elementi critici che i genitori hanno segnalato è la mancanza di flessibilità negli orari delle assemblee e dei colloqui a scuola: generalmente tutti avvengono in concomitanza con gli impegni lavorativi. Durante uno dei focus group realizzati, i genitori presenti si trovarono immediatamente d’accordo su questo punto: Non andiamo ai colloqui individuali a scuola. Adesso riesco ad andare ad ogni riunione perché sono a casa dal lavoro. A volte i miei figli mi chiedono: perché non sei venuto? E io dico loro: se io vado a lavorare alle 7 e mettono l’incontro alle 11, magari posso andarci una volta al mese, ma non due o tre! Non va bene mettere l’incontro a quell’ora, oppure alletre del pomeriggio: come si fa? (Williams, ghanese, padre di quattro figli) Quando vai dal tuo padrone a chiedere ti dice: ma va! Ogni volta ci va mio marito, è lui a chiedere il permesso perché io sono sempre al lavoro (Mirabella, ghanese, madre di quattro figli) Anch’io sono sempre al lavoro (Mary, ghanese, madre di quattro figli) Mettere insieme esigenze del lavoro ed esigenze dei figli è difficile. Perché non c’è flessibilità a scuola. Gli insegnanti vogliono andare via presto quindi o vai all’ora indicata oppure niente (Williams, ghanese, padre di quattro figli) Analogamente, nel caso della famiglia albanese intervistata, durante la scuola primaria era la moglie casalinga ad incontrare gli insegnanti nei colloqui individuali, dal momento che avvenivano nel primo pomeriggio. Una recente esperienza accaduta ad una mamma marocchina offre uno spunto interessante per quanto riguarda un’ulteriore criticità della scuola da lei sperimentata: il pregiudizio nei confronti dei genitori stranieri, giudicati inadeguati e negligenti. La nostra intervista si aprì proprio con il racconto di due episodi accaduti di recente: uno relativo ai rapporti con la segreteria scolastica e l’altro con il personale docente e non docente.: Ieri mi aveva detto di portare tutti i documenti del pronto soccorso a scuola. Oggi mi ha chiesto di scrivere una dichiarazione a mano. L’ho fatto, ma lei ha iniziato a scaldarsi: ma no, cos’hai scritto? Allora le ho detto: guarda che è tutto scritto sui documenti. Non gliel’ho detto in modo cattivo: è scritto in italiano dal vigile, se non lo capisce lei che è italiana! Allora lei ha sbottato: rispondimi bene! E io ho replicato: guarda, non ti ho mancato di rispetto, ti ho solo detto: lei è italiana, meglio di lei chi può leggere la scrittura del vigile? Se fosse in arabo, leggerei io. Lei si è arrabbiata tantissimo e allora ho chiamato la bidella a testimoniare perché non posso parlare e spiegare cose mie senza un testimone. La segretaria era capace di farmi passare per maleducata mentre io non le avevo mancato di rispetto. Poi è venuta la vicedirettrice e le ho raccontato la vicenda. (Amina, marocchina, madre di 1 figlia) Nella medesima occasione, alla donna venne fatto presente che lo zaino della figlia era troppo pesante: la vicedirettrice e la bidella sospettavano che la ragazzina portasse a scuola più libri del dovuto. Il fatto era balzato agli occhi della scuola nel lungo periodo durante il quale la ragazzina aveva dovuto usare le stampelle per un problema al ginocchio e lo zaino le veniva trasportato dalla bidella. Ci riferì un episodio in cui la bidella, davanti ai compagni di scuola, costrinse sua figlia a svuotare lo zaino e a controllare i libri che peraltro si rivelarono essere corretti: la donna visse questo episodio come un’umiliazione inflitta a lei e alla ragazzina. Le capitò dunque una seconda occasione di umiliazione. Il suo racconto fu molto animato. Chiamò anche la figlia a raccontarci i

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dettagli dell’accaduto e le chiese di mostrarci i libri presenti nello zaino, chiedendo conferma della loro correttezza alla sua assistente allo studio. La donna aggiunse altri particolari della sua esperienza scolastica in quanto mamma, per i quali si sentiva discriminata e giudicata, anche da parte dei genitori italiani. Ciò che traspare dal suo racconto è la percezione di un clima di sospetto e di prevenzione nei suoi confronti e nei confronti dei genitori stranieri in generale. Inoltre, riferisce una serie di stereotipi degli insegnanti che trova piuttosto grossolani, ad esempio la loro convinzione erronea che la figlia abbia difficoltà nella lingua italiana, nonostante sia nata in Italia. In ultima analisi, la madre trova particolarmente sconfortante far valere le sue ragioni senza “passare per aggressiva”6. Gli insegnanti sono severi con noi genitori stranieri e basta. Ho fatto caso che se mia figlia risponde male, passa per la straniera maleducata. Non è che dicono: i ragazzi sono tutti uguali. Danno la colpa a noi perché veniamo da un’altra cultura, da un’altra mentalità (…). Mia figlia va ad una scuola normale, va vestita normale: non è che cambi qualcosa fra lei e una ragazza italiana. Poi ha una ragazza che viene ad aiutarla a studiare: non credo che tutti i ragazzi italiani abbiano una ragazza a pagamento. Vivo con mille euro al mese, sono separata, non ho schei (ndr. soldi) da buttare via. E poi lei si ritrova ad essere valutata meno degli altri e noi genitori siamo giudicati come chi non ha fatto il proprio lavoro! (ibidem). In Marocco la scuola rappresenta la “seconda casa”. In tal senso la donna supponeva che vi fosse una fiducia reciproca tra genitori e operatori della scuola. Umiliazione e sospetto nei confronti dei genitori sono atteggiamenti del tutto inattesi. Tuttavia, c’è una ragione che lei ha additato e posto a causa di tanta diffidenza: il pregiudizio verso lo straniero7. Il genitore straniero, dunque, diviene facilmente oggetto di discriminazione e, quindi, di trattamento iniquo rispetto ai genitori italiani (Modesti 2011). La narrazione di Amina, inoltre, ci permette di osservare come agisce un genitore che si auto-percepisce disempowered e che desidera sfidare gli stereotipi correnti relativi alla categoria cui appartiene. La donna, grazie al dialogo, tenta di guadagnare un ri-posizionamento che le ottenga un riconoscimento agli occhi del personale scolastico in quanto genitore competente e partner alla pari nell’educazione della figlia. Sembra che la sua azione ricalchi ciò che i genitori appartenenti alla working-class raccontano nella ricerca realizzata da Melissa Freeman. (Freeman 2010 vedi sopra nota 6). L’episodio narrato ci permette di entrare nello specifico del paragrafo successivo, dedicato alla relazione tra i genitori migranti e la scuola. La relazione dei genitori migranti con la scuola

La relazione dei genitori migranti con la scuola italiana è un topos da ricostruire pazientemente a partire dalle testimonianze dei genitori stessi in quanto il loro punto di vista risulta ancora scarsamente esplorato. A tal proposito risultano assai utili le ricerche realizzate da Jane Davies e 6 Melissa Freeman, nella sua ricerca sugli intentional acts of positioning dei genitori della working-class, fa notare che la lotta contro gli stereotipi comporta una competenza comunicativa non indifferente e scrive: For them, fixing the problem occurs by enabling a change in the teachers or necessary party’s overall perception of the child and/or situation” (Freeman 2010: 187-188). Quando la proprietà del linguaggio è piuttosto debole, diviene più difficile affermare la propria posizione e ottenere un riconoscimento in quanto interlocutore alla pari. 7 Al focus group cui partecipò, Amina affermò in modo lapidario, quasi a mo’ di sfogo: “Anche mia figlia è nata in Italia. Il problema non è nostro, il problema è della maestre. Ormai siamo integrati bene, come gli italiani sono integrati in Germania. Adesso anche all’ospedale mettono le donne straniere insieme, perché dicono: siete straniere. Secondo me si sta tornando indietro. Ci guardano perché siamo straniere”.

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Gill Crozier riguardo i rapporti tra scuola e famiglie di origine straniera o di minoranza etnica nel contesto britannico: le due studiose approfondiscono questa complessa relazione mettendo in luce preconcetti, percezioni e aspettative della scuola da una parte e percezioni, difficoltà ed esperienza dei genitori di background culturale diverso dall’altra (Crozier, 2001; Crozier, Davies, 2006; Crozier, Davies. 2007). Nel nostro contesto, più nota, invece, è l’esperienza degli insegnanti e dei dirigenti scolastici i quali generalmente manifestano difficoltà e smarrimento nei confronti di talune famiglie straniere che non rispondono alle attese della scuola ovvero che non si conformano a certi modelli di comportamento: quello del genitore che sa come funziona la scuola, che ne conosce il sistema di comunicazione, che segue passo a passo la carriera scolastica del figlio, che controlla che studi e che lo assiste in questo compito, che decide di andare a colloquio con gli insegnanti anche se non viene convocato; che collabora attivamente, dunque, agli obiettivi della scuola stessa. Si tratta di un impegno oneroso che carica di grande responsabilità il genitore rispetto al successo negli studi del figlio. Inoltre, rappresenta un impegno che, in molti sistemi scolastici da cui provengono i genitori stranieri, non è affatto previsto (Balsamo 2003: 63-64)8. Tuttavia anche da questo punto di vista – quello della scuola – le esperienze sono piuttosto variegate. L’esperienza dei dirigenti scolastici Ho raccolto, in poche interviste, le testimonianze di alcuni dirigenti scolastici di scuole secondarie superiori di diverso indirizzo9. Il dirigente di un noto istituto tecnico della città di Verona mi ha offerto un quadro nell’insieme positivo del rapporto che le famiglie straniere intrattengono con la sua scuola: se ci sono state difficoltà a tale livello, la sua tendenza era quella a minimizzare la portata della questione oppure a considerarla nell’ottica della più ampia condizione del migrante. In particolare egli attribuiva agli impegni lavorativi e alla precarietà del lavoro che colpisce soprattutto i migranti, la difficoltà nel seguire i figli nel loro percorso scolastico. Tuttavia il problema del lavoro che impedisce ai genitori di partecipare appieno alla vita scolastica dei figli è considerato dal dirigente un problema trasversale alle famiglie, italiane o straniere che siano, con una punta di svantaggio in più per queste ultime, messe ulteriormente in difficoltà dalla precarietà della condizione migrante. Il dirigente proseguì tracciando le differenze tra famiglie nel coinvolgimento nella vita scolastica a seconda della loro provenienza nazionale. Accennò ad un apprezzamento generalizzato verso la scuola da parte loro e concluse precisando che gli sbandamenti di molti ragazzi sono legati alla fase dell’adolescenza e alla disattenzione di alcuni genitori. Più avanti nell’intervista accennò ad occasioni di incontro tra la scuola e i genitori stranieri: le assemblee poste all’inizio dell’anno scolastico, i consigli di classe e i colloqui ordinari. Considerai degna di nota l’attenzione che costui rivolse alla condizione famigliare intesa soprattutto nella sua dimensione strutturale e socio-economica. «Il problema mi sembra quello del ceto sociale: chi ha soldi e chi no. Per cui abbiamo avuto problemi

8 Nelfocus group con i genitori ghanesi, costoro fecero presente che in Ghana, nei primi cicli scolastici, lo studio domestico non era affatto previsto tanto che i libri venivano lasciati a scuola. 9 I dirigenti intervistati sono: Dino Poli (Istituto Tecnico “G. Ferraris”), Marcello Schiavo (Liceo “G. Fracastoro”), Andrea Sivero (Istituto Professionale “G. Giorgi”), Luca Manferdini (Centro di Formazione Professionale “Canossiane”). Tutti gli istituti scolastici sono situati nella città di Verona.

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con alcuni ragazzi: abbiamo dovuto esonerarli da certi pagamenti perché la famiglia era povera». Poi aggiunse un particolare curioso: Vengono, partecipano, sono molto interessati. Le famiglie degli stranieri spesso vengono con tutta la famiglia. Anche i nostri a volte vengono con tutta la famiglia: di figli ne hanno soltanto i poveri, il proletariato è tornato… Non hanno nessuno a cui portare i figli, quindi vengono con loro. È divertente, loro di solito vengono all’assemblea che dura un’ora o due. Per cui vengono con questi bambini piccoli che devono sorbirsi tutto il mio discorso su come funziona la scuola e l’altro insegnante che dice altre cose: loro se ne stanno silenziosissimi. Questi sono abituati a partecipare coi genitori. C’è una bella dinamica familiare che da noi è stata un po’ persa, anche se c’è una ripresa interessante. La numerosità dei figli, l’assenza di familiari che possano accudire i più piccoli in occasioni come quella dell’assemblea a scuola e l’eventuale svantaggio economico sono elementi di cui tenere conto quando si prendono in considerazione le famiglie degli studenti e si vuole avere uno sguardo più ampio sul loro percorso scolastico. Che un dirigente scolastico presti attenzione a tali aspetti è un pregio se consideriamo che nella ricerca iniziale era emerso che «alcuni genitori parlano delle loro difficoltà economiche come pregiudiziali per i figli, elementi non rilevati dagli insegnanti, che tendono a concentrarsi sulle difficoltà linguistiche e di comunicazione» (Maher, 2009)10. Per quanto riguarda i licei, dove la presenza di figli di immigrati è minore che in altre tipologie di scuola11, ho intervistato un dirigente che, come nel caso del precedente, si trova a fine carriera professionale e, quindi, ha vissuto per intero il periodo dell’ingresso dei primi alunni di seconda generazione. Costui nell’intervista distinse, in quanto a rapporto con la scuola, tra genitori di antica immigrazione, che possiedono lo strumento linguistico e conoscono il sistema scolastico italiano, e quelli di più recente immigrazione che spesso sono carenti sotto il profilo linguistico e hanno un’ “idea di scuola” differente da quella praticata in Italia. Anche costui si distinse per l’attenzione alla classe sociale ritenuta non tanto pregiudiziale per il successo scolastico12, quanto distintiva della tipologia di rapporto intrattenuto dai genitori con la scuola: più deferente da parte dei genitori appartenenti alla classe operaia, più paritario o, talvolta, di sfida da parte di quelli appartenenti alla classe della media e alta borghesia professionale e imprenditoriale. In particolare fece presente che, in generale, nell’iscrizione al liceo avviene un auto-selezione per i figli di stranieri in quanto i genitori «più modestamente accolgono l’orientamento della scuola media» verso le scuole professionali. Non fece riferimento a particolari problemi di comunicazione o relazione e accennò all’utilizzo dei mediatori linguistico-culturali per facilitare l’interazione con i genitori stranieri in caso di necessità. Inoltre mi disse:

10 A confermare quanto mi disse il dirigente in merito agli impedimenti che i genitori stranieri trovano nell’adesione alle iniziative di incontro con la scuola, c’è la testimonianza di Williams e degli altri genitori convenuti ad unfocus group, i quali mostravano continuamente cenni di approvazione per le sue parole: “Adesso riesco ad andare a tutte le riunioni perché sono a casa dal lavoro [ndr. causa disoccupazione]. A volte i miei figli mi chiedono: come mai non sei venuto? Ho detto agli insegnanti: se io vado a lavorare alle 7 del mattino e mettete l’incontro alle 11, forse una volta al mese posso chiedere un permesso, ma non due o tre. Non va bene che mettiate l’incontro a quell’ora perché non sono un lavoratore autonomo. Oppure alle tre del pomeriggio: come faccio?” (Williams, ghanese, padre di 4 figli) 11 Nel Veneto sono il 13,3per cento sul totale degli alunni con cittadinanza non italiana presenti nelle scuole secondarie superiori; a Verona il 14,7per cento (Servizio Statistico, Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, 2009). Nel liceo qui considerato rappresentano il 2,8per cento sul totale della popolazione scolastica. 12 Il dirigente tenne a precisare che, dalle osservazioni effettuate, la selezione effettuata nell’arco del quinquennio non era avvenuta in base all’appartenenza di classe.

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I genitori stranieri ci tengono molto alla scuola in quanto sanno che essa è l’unica via di promozione sociale dei figli. I ragazzi, quindi, si sentono responsabilizzati e devono dare dei risultati alle famiglie. Nel caso di questi ragazzi, parlare di famiglia significa anche allargarla: su di essi investe tutta la parentela, non solo i genitori, ma anche gli zii e così via. La sensibilità del dirigente per una forma famigliare diversa da quella nucleare, cui si riferiscono solitamente le istituzioni italiane, rappresentò una sorpresa per me. Al di là dei dettagli e delle singole storie personali, trovai interessante la sua modalità di guardare al contesto di vita extra-scolastico degli alunni di seconda generazione13. In generale trovai l’interlocutore attento alle sfumature del linguaggio e orientato ad un atteggiamento di non discriminazione. Un terzo dirigente che consultai è a capo di un istituto professionale per l’artigianato e l’industria. Nella sua scuola gli alunni con cittadinanza non italiana sul totale degli iscritti rappresentano il 18per cento, una percentuale notevolmente superiore a quella degli istituti tecnici e dei licei. Anch’egli, come il collega dell’istituto tecnico, citò la scarsa disponibilità di tempo a causa delle attività lavorative come uno degli impedimenti principali all’incontro dei genitori migranti con la scuola. Costui mi disse che, nonostante si rendesse disponibile in orari non consueti – ad esempio anche il sabato – , i genitori spesso non riuscivano ad incontrarlo14. Accanto a questo limite egli nominò la scarsa competenza linguistica. Tra le altre difficoltà, fece riferimento anche alla recente innovazione tecnologica che permette ai genitori di vedere i risultati dei figli online (il cosiddetto “registro elettronico”): chi non possiede computer e connessione internet non vi ha accesso. Tuttavia, anche quando questi strumenti sono presenti, nel caso degli alunni figli di migranti egli afferma: «Si guardano bene dal riferire ai genitori questa possibilità». Questo aspetto di scarsa trasparenza nei rapporti tra figli e genitori riguardo le valutazioni scolastiche è noto come dato generale, soprattutto nel caso di coloro che hanno performance negative a scuola. A tal proposito Crozier e Davies parlano di tipico teenage behaviour, quindi di un comportamento trasversale agli alunni e indipendente dall’etnicità15. La scarsa dimestichezza con i mezzi informatici, d’altra parte, è piuttosto propria di un’appartenenza di classe o del possesso di un certo livello di istruzione che dell’appartenenza etnica. Insieme a casi di alunni eccellenti, il dirigente mi fece presente alcune circostanze in cui la scuola si era trovata in difficoltà, ad esempio: la stanchezza degli alunni di religione musulmana che digiunavano nel mese di Ramadan, l’interruzione della frequenza scolastica da parte di coloro che anticipano le vacanze per rientrare nel paese d’origine, l’affidamento degli alunni a conoscenti o parenti nel caso di assenza temporanea dei genitori. Un cenno interessante venne fatto a quelle famiglie che erano giunte in Italia dopo la permanenza in altri paesi europei e quindi al plurilinguismo di questi alunni. Un’ultima testimonianza mi venne offerta dal dirigente di un centro di formazione professionale promosso da un noto istituto religioso della città di Verona. Dal punto di vista istituzionale,

13 Si veda a tal proposito il capitolo “La famiglia immigrata come costrutto culturale” nel volume curato da Antonio Marazzi, Voci di famiglie immigrate (2005). 14 Nella ricerca da cui prende spunto il presente studio (Maher 2009), era riportata la testimonianza di un genitore il quale diceva: “C’è poco coinvolgimento dei genitori stranieri, si dà per scontato che il genitore straniero non ha tempo”. 15 Al di là delle informazioni non trasferite o filtrate da parte degli alunni, Crozier e Davies, nel loro studio, fanno un discorso più ampio riguardo il ruolo dei figli nell’esclusione dei genitori di minoranza etnica dalla vita scolastica e accennano ai motivi per cui essi risultano complici in tale processo. In particolare tra i motivi, gli alunni citano: il basso livello di istruzione dei genitori e la sensazione che essi non comprendano a sufficienza ciò che comporta lo studio; la scarsa competenza della lingua inglese, in particolare della madri e, quindi, il fatto di sentirsi imbarazzati di fronte a genitori linguisticamente non competenti (Crozier, Davies 2007: 304).

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l’apporto volontario di adulti esperti costituisce una risorsa chiave che, in caso contrario, sarebbe impossibile da reperire dati i costi che comporta16. A questo proposito fu interessante l’accostamento che fece alla sua esperienza di migrazione interna e alla sensazione di estraneità e non-appartenenza che sperimentò quando la sua famiglia si trasferì a Verona. Tale riferimento non fu soltanto dettato dal pensiero alla questione della lingua («i miei genitori parlavano il dialetto bolognese tra di loro, ma con noi parlavano l’italiano»), ma anche dal vissuto identitario. Un particolare degno di nota mi venne riferito quale motivo per cui i genitori stranieri si rivolgono alla scuola per chiedere aiuto: il caso di difficoltà nella gestione delle condotte dei figli adolescenti che sfuggono al loro controllo. Mi disse che, a suo avviso, le dinamiche tipiche dell’adolescenza “come viene vissuta in Italia” erano estranee a molti genitori migranti e li lasciavano spiazzati. La scuola a suo avviso viene percepita da questi genitori come il partner istituzionale con cui hanno maggiore confidenza tanto da prenderla come “punto di riferimento” nel caso di emergenze come questa e di altre necessità. L’esperienza dei genitori migranti Per quanto concerne i rapporti che i genitori stranieri intrattengono con la scuola dei figli, le famiglie consultate presentano una varietà di situazioni che vanno da un rapporto amichevole con dirigenti ed insegnanti, magari consolidatosi negli anni, ad un rapporto più formale. Quando la madre ci raccontò dei primi anni di scuola, emerse un’immagine di familiarità con i servizi scolastici e il vicinato, dettata anche dal fatto che in paese fossero l’unica famiglia straniera a quel tempo: Con tutti gli insegnanti dei miei figli, ho sempre avuto un bel rapporto perché quando c’erano i colloqui io e mio marito siamo sempre stati presenti. Quindi quando gli insegnanti ci vedevano, erano contenti e ci raccontavano tutto.! Io arrivo e mi dicono: signora noi non abbiamo problemi con Geoffrey: è un ragazzo educato e molto inquadrato in quello che fa …Ho parlato con la suora e siccome il nostro era un paesino e tutti ci conoscevano, lei mi ha detto: «va bene, proviamo mezza giornata». Quindi gliel’ho portato. Gli altri bambini avevano tre anni e non portavano il pannolino mentre Geoffrey sì. Lui ci stava volentieri. Poi ha smesso di portare il pannolino e andava in bagno da solo. Faceva tutto quello che facevano gli altri bambini più grandi (Lilian, ghanese, madre di due figli) In altri passaggi dell’intervista la stessa interlocutrice ha citato occasioni nelle quali si è instaurato un ottimo rapporto con gli insegnanti dei propri figli e altre in cui addirittura è nata un’amicizia. Analogamente, altri genitori hanno raccontato esperienze di buone relazioni con alcuni insegnanti e dirigenti scolastici. Yassin, padre di origine marocchina, ci riferì l’intervento di un dirigente nei confronti della famiglia di un compagno di scuola del figlio il quale – presumibilmente sollecitato dagli stessi genitori – aveva compiuto un grave gesto di razzismo nei confronti del bambino17. Costui commentò come segue il rapporto che intratteneva e che intrattiene tuttora con il capo d’istituto:

16 Il dirigente mi confidò anche le preoccupazioni relative alla grave situazione finanziaria della formazione professionale in Veneto. Negli ultimi anni, il trasferimento di fondi dalla regione si è fatto sempre più scarso e molte istituzioni che gestiscono questi centri sono state costrette a stipulare dei fidi con le banche per poter pagare gli insegnanti. Alcune, addirittura, hanno chiuso degli interi settori e stanno smantellando di fatto le loro strutture. 17 La vicenda verrà narrata per intero nel paragrafo n. 5.

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Il dirigente scolastico mi conosce. Per quello ho sempre lasciato in quella scuola i miei figli anche se ci siamo trasferiti in un altro quartiere. Il maggiore va a scuola per conto suo in autobus mentre gli altri li portiamo sempre lì. Questo dirigente mi ha detto: “Non preoccuparti, mi arrangio io: questo qua lo mandiamo da un’altra parte” [riferito al padre dell’alunno che ha offeso il figlio] (Yassin, marocchino, padre di quattro figli) Un’ulteriore testimonianza mise in luce una particolare sollecitudine da parte delle insegnanti a colmare il deficit di informazione e di servizi dedicati agli stranieri: Una delle signore che mi hanno aiutato fa ancora la maestra. Mi hanno dato una mano in tante cose. Andavano in comune e facevano le cose che avrei dovuto fare io. Io non sapevo cosa dovevo fare e loro mi dicevano: ho fatto questo e ho fatto quest’altro. Anche a scuola tutte le maestre erano disponibili. Sia alla scuola elementare che alle medie (Flora, albanese, madre di due figlie) L’intervento di un’altra madre ghanese, oltre a sottolineare l’esperienza personale positiva di rapporto con gli insegnanti, identificò alcuni dei motivi per cui altre madri straniere non si presentano ai colloqui con le insegnanti: Io vado a tutti i colloqui. Ho un rapporto bellissimo con gli insegnanti: quando li saluto, mi parlano sempre bene di mio figlio. Ma altre mie vicine di casa non ci vanno perché dicono che non capiscono quello che dicono gli insegnanti (Mirabella, ghanese, madre di quattro figli) Le parole di Mirabella mi permettono di introdurre un tema centrale nel rapporto tra scuola e famiglia ovvero la questione delle aspettative reciproche. Spesso quelle degli insegnanti nei riguardi dei genitori stranieri vengono disattese da quest’ultimi. Gli insegnanti si aspettano inconsciamente, dunque, che la condotta di tutti i genitori sia in linea con la ‘nostra’, ovvero quella della classe media e di ‘etnia europea’ (white) (Crozier e Davies 2007:300). In termini più generali, essa costituisce un gruppo sociale alfabetizzato al sistema scolastico italiano e ai suoi valori. Nella quotidianità della vita scolastica, la questione delle aspettative disattese è oggetto di grossolane semplificazioni a carico dei genitori migranti stessi, giudicati nel migliore dei casi deleganti e, nel peggiore, indifferenti all’esperienza scolastica dei figli. La ricerca da cui prende avvio il nostro studio metteva in rilievo il radicato monolinguismo dell’istituzione scolastica italiana a fronte del plurilinguismo dei genitori stranieri (Maher 2009). Anche altre ricerche sottolineano tale aspetto (Pérez Correón et al. 2005). Ciò costituisce un evidente limite della scuola e una barriera all’accesso da parte dei genitori. Lilian, che da alcuni anni esercita anche la professione di mediatrice linguistico-culturale, afferma a tal proposito: Gli insegnanti si chiedono sempre perché i genitori ghanesi non vanno alle riunioni. Secondo loro, i genitori ghanesi trascurano i figli, non si interessano di loro perché quando li convocano non si presenta nessuno. Ma bisogna insistere perché si facciano presenti (Lilian, ghanese, madre di due figli). Le aspettative verso i figli di migranti in termini di performance scolastica e linguistica sono questioni nelle quali vengono chiamati in causa anche i genitori, in quanto ne sono considerati in qualche modo corresponsabili. Alcune testimonianze dei nostri informanti mettono a fuoco un fenomeno che, in un’altra ricerca, ho definito patologizzazione della differenza culturale (Modesti

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2008)18. Ciò che si discosta dalla norma e dalle aspettative implicite dell’istituzione scolastica in termini di performance e di condotta, sia verso gli alunni, sia verso i genitori, attiva reazioni allarmate e valutazioni screditanti o ancora patologizzanti. Un esempio lampante è stato portato in un focus group dalla mediatrice linguistico-culturale marocchina: Mio figlio ha avuto questo problema. Aveva tre anni e ha iniziato ad andare all’asilo [ndr. scuola dell’infanzia]. Aveva il problema che non parlava. Mi hanno chiamato e mi hanno detto che il bambino aveva un problema grosso: lo psicologo ha mandato una lettera alle maestre dicendo che il bambino non aveva niente. Dopo due mesi il bambino ha iniziato a parlare più degli altri. Certe volte fanno di un problema piccolo, una questione grande (Jamila, marocchina, madre di due figli) Se le maestre fossero state informate del fatto che un bambino bilingue (Jamila ha sposato un uomo italiano) in genere necessita di tempi più lunghi per riorganizzare la lingua a livello cerebrale e, quindi, presenta generalmente un ritardo fisiologico nella produzione della lingua orale, probabilmente avrebbero moderato le loro preoccupazioni nei confronti del bambino. In ogni caso, le reazioni allarmate verso ciò che si discosta dalla “norma” appartengono alla dinamica tipica del controllo sociale agito tramite le istituzioni. La testimonianza di Amina fornisce anche una dimensione storica alla vicenda dei migranti in Italia: Anni fa era più facile la situazione tra stranieri e italiani, anche a scuola: era migliore. Cinque anni fa lavoravo alla mensa scolastica, ci ho lavorato per tre-quattro anni. Ho visto i ragazzi stranieri che arrivavano e che non dicevano una parola di italiano. C’era un aiuto reciproco fra maestre, tra le professoresse. Ora il rapporto tra noi e la scuola è peggiorato. Forse perché è cresciuto il numero di stranieri. Quando la mia bambina era piccola, ha avuto tanti problemi, ma non ho mai sentito tanti problemi come oggi. La scuola guarda gli stranieri un po’ male. (Amina, marocchina, madre di 1 figlia). Questa percezione sembra rispecchiare un sentire più ampio che attraversa varie fasce di popolazione immigrata in Italia. Esso, in un certo senso, fa pendant con la percezione generalizzata condivisa da molti italiani – e amplificata dal mondo dell’informazione – di un’invasione straniera. A tale percezione fanno seguito reazioni di paura, intolleranza e rifiuto o quantomeno di ridotta disponibilità a rivedere gli assetti istituzionali per renderli maggiormente inclusivi. Una delle domande che ci ponemmo al principio della ricerca riguardava la partecipazione dei padri e delle madri ai momenti di contatto tra scuola e famiglia. Ci chiedemmo, in particolare, se con il passaggio dei figli alle superiori e, quindi, ad una minore prossimità tra famiglia e scuola, fosse mutata la divisione dei ruoli tra coniugi nell’occuparsi dei rapporti con la scuola e soprattutto se la barriera linguistica rappresentasse un deterrente. In realtà, nelle esperienze raccolte, ci parve che gli elementi determinanti a questo riguardo fossero quasi esclusivamente di natura contingente. In particolare l’elemento principale sembrava rappresentato dalla disponibilità di tempo dei genitori: colui e colei che è più presente a scuola è anche il genitore più libero da impegni lavorativi. In alcuni casi, tuttavia, i rapporti con la scuola sono stati mantenuti dal genitore che possedeva capacità linguistiche più elevate (spesso il padre a motivo di una maggiore anzianità migratoria e esposizione al lavoro con italiani) e una più ampia esperienza di agency in campo istituzionale.

18 Tale formulazione è analoga alla teoria della patologia culturale (cultural pathology) che ho recentemente riscontrato in altre ricerche, in particolare Derrington, Kendall 2007 e Crozier, Davies 2008.

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Interessante, invece, è osservare, di converso, quanto l’esperienza dell’uscire di casa per incontrare la scuola può aver influito sulle capacità linguistiche e di agency in particolare delle madri che, nella generalità delle famiglie migranti, vengono indicate come più deboli sotto questo profilo, in parte per una minore anzianità migratoria rispetto ai mariti19, in parte per un livello di istruzione più basso e in parte perché relegate a ruoli di accudimento dei figli e di lavoro domestico. Andare a scuola: occasione di empowerment per le madri straniere? Nella ricerca, la nostra attenzione si è concentrata spesso sui percorsi femminili in quanto ad evoluzione avvenuta nel corso della migrazione perché ci sembrava interessante mettere in relazione la molteplicità di ruoli ricoperti dalle donne nella vita famigliare ed extra-famigliare e i cambiamenti avvenuti nel corso degli anni. Nell’analisi che segue tento di mettere in luce l’intreccio tra l’esperienza femminile in famiglia e la relazione con l’istituzione scolastica e di cogliere nei racconti delle donne il ruolo che il contatto con la scuola dei figli ha avuto nello sviluppo della loro agency20 e delle loro competenze. Nei racconti di molte delle madri consultate l’interazione con la scuola, oltre a quella con l’ambiente lavorativo, è nominata come un’occasione di empowerment importante. Ciononostante essa non sembra favorire l’apprendimento linguistico, a giudicare dal livello raggiunto da alcune di queste pur dopo numerosi anni di permanenza sul territorio italiano. La domanda dunque è la seguente: quanto l’interazione con la scuola dei figli, intesa anche come occasione di incontro e amicizia con altre donne, contribuisce ad ampliare le competenze linguistiche e sociali delle madri immigrate intervistate? Ad uno sguardo generale, su nove donne appartenenti ai nuclei familiari consultati, sette sembrano aver acquisito un buon livello di competenze sociali e linguistiche, in linea con il grado di adattamento al contesto di immigrazione. In alcuni casi sembra essere stata l’esperienza lavorativa ad avere un ruolo propulsore, in altri casi altri fattori sembrano aver giocato un ruolo di primo piano nella promozione di un profilo sociale empowered, come la vita associativa oppure i rapporti con le istituzioni. Il fatto di andare a scuola è citato come un’occasione importante di socializzazione e di apprendimento fra pari soprattutto dalle madri casalinghe (Leyla, Flora) e dal padre marocchino (Yassin) in riferimento alla moglie, anch’ella casalinga. Il caso di Leyla, madre marocchina ricongiunta al marito a metà degli anni Novanta, è piuttosto significativa come esperienza di empowerment al femminile. Abbiamo notato in lei una personalità intraprendente che l’ha certamente aiutata a lanciarsi in nuove imprese. Alla domanda: “I tuoi figli ti hanno insegnato qualcosa sul modo di vivere qui?”, lei rispose: Per esempio, senza i miei figli non sarei andata a scuola, non avrei visto altri genitori e non avrei visto le maestre. Se non avessi i figli, non andrei sempre a scuola e non imparerei un po’ di italiano. Senza i miei figli, non andrei a cercare dei libri e tante altre cose. Avere dei figli ti porta fuori casa perché devi sistemare questa cosa, portarlo a calcio, ecc. Se non avessi figli, starei chiusa in casa. Forse imparerei se andassi a lavorare o se andassi in palestra.

19 Si tratta di una generalizzazione che può risultare piuttosto grossolana ad un primo sguardo. Infatti, esistono, per alcuni paesi, catene migratorie nelle quali è più diffuso che il primo migrante sia una donna e in cui la migrazione internazionale ha assunto un volto prevalentemente femminile.. 20 L’agentività (agency) è un concetto introdotto da Giddens negli anni Settanta e utilizzato da alcuni studiosi come strumento per elaborare visioni teoriche alternative in merito al rapporto fra riproduzione culturale e trasformazione socialeiferimento a pratiche che riflettono un coinvolgimento attivo nella costruzione della propria esistenza anche all’interno di sistemi di subordinazione (Giorgi 2009: 243-244).

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Occuparsi dei figli, dunque, è stata secondo la donna l’occasione principe per costruirsi un profilo sociale in terra d’immigrazione. Leyla raccontò di essere stata aiutata inizialmente dalla conoscenza della lingua francese e, dato lo spirito commerciale e la facilità di socializzazione che la contraddistinguono tuttora, nei primi tempi la usava comunemente come lingua franca in alcune situazioni sociali, come quando si trattò di andare alla ricerca di un’abitazione. Ci raccontò, per l’appunto, che si presentava alle agenzie immobiliari trattando con l’agente in lingua francese. Narrò anche un incidente relativo alla lingua avvenuto a scuola: Tu pensi che io abbia imparato a parlare? Io faccio tanti errori, le coniugazioni sono difficili. Quattro anni fa sono andata a parlare con il direttore della scuola di Amal e gli ho dato subito del tu. Amal è diventata tutta rossa! Poi mi ha detto “Mamma, mi hai fatto vergognare perché gli hai dato subito del tu!”. Sono andato da lui per parlare delle vacanze perché dovevamo partire prima del termine della scuola. Per me è difficile continuare a parlare dando del lei (…). La lingua è il muro fra due persone, fra due culture. Bisogna tirare via questo muro per arrivare dall’altra parte: se non lo fai, sei sempre lì. Io penso che la prima cosa da imparare sia la lingua. Per imparare altre cose, bisogna parlare con gli altri. Non serve solo il necessario per vivere, servono anche altre cose (Leyla, marocchina, madre di tre figli). Un secondo caso particolarmente significativo è quello della moglie di Yassin, che non abbiamo avuto modo di intervistare, ma che è stata nominata frequentemente dal marito durante l’intervista . Quando iniziò a parlarci di lei, una delle prime informazioni che riferì fu la sua competenza nella lingua italiana, quasi per scalzare la rappresentazione comune delle donne marocchine ricongiunte ai mariti, incapaci di interagire con i locali. “Parla bene l’italiano” ci disse e poi proseguì rispondendo alle nostre domande: Ha fatto le scuole medie e poi tre anni di superiori. Parla francese e italiano. Lei ha tante amiche italiane qui a Verona. Lei risolve tutti i problemi di amministrazione tipo bollette, problemi con il comune: va sempre lei. All’inizio seguiva tutto quello che facevo io. Sapeva che io andavo a manifestazioni e a feste con gli italiani e allora lei si è un po’ ambientata. Poi è attiva nella scuola dei miei bambini. Va anche agli incontri, ai colloqui e alle riunioni. Ha appreso un po’ anche nelle scuole serali di italiano organizzate dal Cestim21. Poi frequenta le istituzioni: va in comune e va in questura se manca qualcosa. Compila i documenti da sola, ha imparato bene. Fa la casalinga perché deve seguire quattro bambini. Qualche volta viene chiamata da qualche signora per stirare, ma poco. È dura perchè deve portare sempre i bambini a scuola e poi c’è il calcio… Si occupa lei della scuola: è una cosa che abbiamo deciso assieme. Io lavoro e mi occupo dei problemi grossi e lei della gestione della casa (Yassin, marocchino, padre di quattro figli) Le informazioni relative alla donna sono piuttosto essenziali, ma abbastanza significative per comprendere il grado di agency raggiunto da costei nel contesto d’immigrazione. Un ruolo notevole, a detta di Yassin, nel raggiungere competenze sociali e linguistiche sembra aver giocato, più che la scuola, la partecipazione alla vita associativa. Nonostante presenti un livello decisamente inferiore di agency, Flora nomina il contatto con la scuola come un’occasione importante per apprendere la lingua italiana e per ricevere informazioni e aiuto da parte di altri genitori. Riporto un brano d’intervista inerente questo tema: R1: dicevi che all’inizio avevi qualche problema con l’italiano. Alle udienze a scuola andavi da sola o veniva qualcuno con te?

21 Centro Studi Immigrazione. Si tratta di un’associazione veronese impegnata a vario titolo a favore dei migranti. Tra le altre iniziative, promuove attività di doposcuola, di supporto agli alunni stranieri nella scuola e corsi di lingua italiana per adulti. A questi ultimi fa riferimento il genitore intervistato.

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Flora: per capire, capivo; ma avevo tante difficoltà nel parlare. Dicevo poche parole alle maestre. Dicevo loro: voi parlate pure, ma io non posso rispondervi. E allora mi dicevano quello che dovevano dirmi. (…) Flora: il primo anno che sono venuta qua, portavo mie figlie a piedi a scuola e le altre mamme non si avvicinavano per niente a me. Io le salutavo, loro mi salutavano, ma non ero nessuno per loro. Alcune poi hanno iniziato ad avvicinarmi e mi dicevano: parla pure e noi ti diciamo se hai detto bene. Così ho imparato a parlare, ma se non si avvicinavano loro, non avrei mai imparato(…) R1: e le signore che avete nominato? Hanno aiutato i vostri figli nei compiti? Erblin: una fa ancora la maestra. Ci hanno dato una mano in tutto. Ci sono state tre o quattro famiglie le cui figlie studiavano con le nostre. Flora: andavano in comune e facevano le cose che dovevo fare io. Non sapevo cosa dovevo fare e andavano loro e mi dicevano: ho fatto questo e questo. Erblin: anche le maestre dopo piano piano ci hanno aiutato. Erano tutte disponibili. L’esperienza narrata definisce chiaramente il ruolo che ha assunto la scuola in quanto canale di socializzazione con gli altri genitori, di ampliamento di capitale sociale e di peer education.. Ciò che sorprende, in racconti come questo, è l’eccezionalità del ruolo di mediatori sociali svolto dalle insegnanti, un ruolo che sconfina da quello comunemente richiesto ed esercitato a scuola. Non sembra per nulla scontato, tuttavia, che gli spazi sociali privilegiati per incontrare altri adulti locali e interagire con loro attivino dei processi di empowerment. Il caso di Mary è significativo in questo senso: esso mette in luce altri fattori inibenti o facilitanti quei processi, in particolare il ruolo del livello di istruzione e quindi dell’acquisizione di un metodo per apprendere altre lingue. D’altra parte non sempre gli insegnanti sono in grado di comunicare in lingue diverse dall’italiano quando incontrano i genitori stranieri, neppure all’occorrenza, come rivela lo studio da cui prende le mosse la presente ricerca (Maher, 2009). I costi dell’istruzione e l’economia famigliare In Italia l’istruzione è gratuita e obbligatoria. Tuttavia, i costi della frequenza scolastica che gravano sulle famiglie non sono indifferenti e comprendono anzitutto: materiali scolastici – in primo luogo i libri, ma anche altri strumenti utili come, ad esempio, il computer – e i trasporti. Per alleviare il peso finanziario che la frequenza scolastica comporta esistono varie formule, non sempre note alle famiglie e non sempre adatte al caso. Esistono borse di studio erogate direttamente dal ministero oppure dai Comuni ed esiste la possibilità di avere i libri in comodato d’uso. Per quanto riguarda lo studio domestico, ci sono enti del privato sociale che organizzano doposcuola, quando non sono le stesse scuole a farlo, ma si tratta di iniziative diffuse a macchia di leopardo e quindi non accessibili a tutti gli alunni. Vedremo nel successivo paragrafo a quali risorse attingono le famiglie per poter offrire ai figli le facilitazioni necessarie a sostenere e ad accompagnare lo studio individuale. Quanto pesano, dunque, le questioni economiche sui percorsi scolastici dei figli di migranti e sul menage familiare? Uno dei focus group più illuminanti a tal proposito fu quello realizzato con i genitori ghanesi. Essi offrirono numerosi spunti per comprendere la natura dell’impatto delle difficoltà economiche – aggravate dell’attuale precarietà occupazionale – sulle necessità dettate dall’istruzione. Non appena furono enunciati i temi della conversazione, Williams intervenne esprimendo fin da subito le sue preoccupazioni per il futuro dei figli e il rammarico per i tagli del governo nel campo

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dell’istruzione. Tutti i presenti concordarono nel sostenere che nell’arco di vent’anni in Italia non è cambiato nulla per quanto concerne il sostegno alle famiglie e in particolare alle famiglie straniere. Il paragone con il trattamento che ricevono i loro connazionali in altri paesi come l’Inghilterra, la Germania e il Canada era frequente nella conversazione ed inevitabilmente risultava a svantaggio dell’Italia. Improvvisamente Mirabella pose un problema: I libri costano tantissimo. Noi compriamo quelli che ci indica la scuola, poi accade che andiamo dalla maestra la quale ci dice che quei libri non vanno bene. È una cosa che non capisco. L’ultimo figlio mio ha sedici anni e gli ho comprato libri per cinquecento euro e poi, quando li ha portati a scuola, non andavano bene. Sono loro che mi hanno dato la lista! (Mirabella, ghanese, madre di quattro figli) Con quattro figli l’anno scorso ho speso quasi mille euro! E poi dicono che ci sono le borse di studio. Tu devi pagare e solo parecchio tempo dopo arrivano i soldi. La borsa dello scorso anno non è ancora arrivata. E i miei figli chiedono: “Ma le borse di studio che ci hanno dato? Dove sono i soldi?”. Io ho pagato quindi quei soldi sono miei, non del governo. Ad esempio, c’è mia figlia Sekinah che fa religione. È andata via una maestra ed è arrivato un supplente che ha detto: “No, questo libro non va bene. Ne prendo un altro per religione”. Undici euro e novanta. Ne avevo comprato già uno (Williams, ghanese, padre di quattro figli). Seguì una discussione sul mercato dei libri di testo in Italia e un confronto con l’esperienza scolastica dei quattro genitori presenti. Essi raccontarono che, quando andavano a scuola, reperire i libri era assai più semplice. Durante la scuola primaria, i libri venivano lasciati a scuola e venivano dati in comodato d’uso gratuito. Invece, alle scuole superiori, quando i libri dovevano essere acquistati, potevano essere rivenduti agli alunni delle classi successive. L’ampia scelta di libri di testo per le varie materie che il mercato italiano mette a disposizione sembra essere una “truffa” ai danni delle famiglie in quanto rende più complesso il meccanismo del riutilizzo e della vendita dell’usato. Così concluse Williams, animato da uno spirito politico:«Finchè i genitori non si ribellano, continuerà così. Parlano, parlano, parlano, ma alla fine comprano» (Williams, ghanese, padre di quattro figli) Nella medesima occasione, altri due temi vennero citati e tenuti in considerazione sullo sfondo di questa discussione: il tema del lavoro e quello della casa. Tre degli otto padri considerati nella ricerca erano disoccupati nel periodo in cui realizzammo le interviste e uno svolgeva lavori agricoli saltuari. Nei primi tre casi fortunatamente erano le mogli a guadagnare uno stipendio fisso, ma date le dimensioni delle famiglie – tutte con quattro figli a carico – non potevano certamente essere sufficienti a coprirne le necessità. La questione dell’abitazione, e quindi di una casa che offra degli spazi adeguati alle esigenze della famiglia, è un tema altrettanto importante nella conversazione coi genitori stranieri22. Alcuni di loro non citano il problema in quanto sembrano averlo risolto (Lilian, Yassin, Amina, Leyla, Erblin): In alcuni casi (Mary, Williams) il problema sembra essere piuttosto urgente. Alla domanda “Quali pensi che possano essere le difficoltà dei tuoi figli in Italia?”, Mary risponde: «Maybe the house. È troppo piccola, ci sono tre letti in una stanza. Io dormo con Lilian [la figlia minore]. Vorrei una casa più bella e più grande» (Mary, ghanese, madre di quattro figli). Williams ha la fortuna, come dice lui, di non pagare l’affitto in quanto l’abitazione gli è stata data in comodato d’uso da una famiglia italiana di sua conoscenza. Tuttavia è evidente che gli spazi a disposizione non sono sufficienti per coprire le esigenze di tutta la famiglia. Quando veniamo

22 A tal proposito si veda il rapporto IREF/Acli del 2006 sulle famiglie migranti nel quale il problema della casa è indicato come la principale preoccupazione insieme a quella del lavoro (Simoni, Zucca 2006). Ne faccio cenno anche in un mio saggio sui diritti dei figli di migranti (Modesti 2011).

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ospitati per l’intervista, troviamo il figlio minore che fa i compiti nella medesima sala dove noi conversiamo. Nel frattempo, abbiamo occasione di parlare con una delle figlie che frequentano la scuola superiore la quale ci racconta: Studio la mattina presto oppure nel pomeriggio, ma di solito non riesco a studiare nel pomeriggio. A volte mi alzo alle due del mattino quando ci sono verifiche o interrogazioni. Mi metto a studiare quando in casa c’è silenzio e tutti dormono..Anche i miei genitori mi spingono a studiare per ottenere risultati sempre migliori: per avere un lavoro in futuro e per andare all’università. Mi spronano ad ottenere voti sempre migliori (Priscilla, 18 anni, figlia di Williams) (Priscilla, 18 anni, figlia di Williams) È evidente che la scelta di Priscilla si inscrive in un contesto familiare e in uno spazio abitativo che, per questioni di natura strutturale, non facilitano affatto lo studio.D’altra parte il suo impegno risulta premiato da una performance scolastica eccellente, come ci racconta: ha una valutazione media di 8/10 al liceo classico. Tuttavia la medesima esperienza sottolinea come tali limitazioni dovute all’ambiente domestico e al menage familiare possano, nel caso di ragazzi più fragili, minare il successo scolastico e, d’altra parte, come il fatto di avere un’abitazione adatta allo studio comporti dei costi non indifferenti per una famiglia, sia che essa viva in affitto, sia che essa sia proprietaria dell’immobile. I genitori albanesi intervistati alla domanda sull’eventuale prosecuzione degli studi da parte delle figlie oltre la scuola superiore, risposero aprendo una conversazione sulla situazione lavorativa: Flora: le piacerebbe, ma vedremo Erblin: vediamo come vanno le cose, come va il lavoro. Anzitutto bisogna vedere se hanno voglia di proseguire e poi se io conservo il lavoro. Come potrei altrimenti mantenere gli studi di mia figlia? Flora: (rivolta al marito) speriamo che lavori almeno fino a quando avranno finito le superiori. Poi vedremo. Se non c’è lavoro, dobbiamo tornare in Albania. Erblin: beh, aspetta a dirlo. Flora: qui non puoi restare: c’è l’affitto della casa e tutto il resto. Una recente conversazione con il dirigente di un centro di formazione professionale dell’estrema provincia orientale di Verona mi ha offerto ulteriori dati sulle difficoltà economiche che comporta lo studio per le famiglie migranti23. Costui mi disse che sempre più frequentemente i genitori stranieri si rivolgevano alla scuola per ricevere un aiuto nell’acquisto di libri e materiali scolastici. Tutt’al più si dichiaravano disposti a pagare il trasporto e dichiaravano: «Noi non ce la facciamo: se non potete pagare voi, terremo a casa i nostri figli»Yassin sottolinea, in un suo intervento, un particolare di cui tenere conto: Noi abbiamo già dei problemi, non solo quello dell’inclusione, ma anche problemi interni. Ad esempio, non abbiamo le nonne come voi in Italia. Come altra gente che ha il nonno che va a prendere il bambino all’asilo, lo tiene per qualche ora mentre si va a fare la spesa. Perché si sa che con i bambini andare a fare la spesa è una guerra! Noi abbiamo questo problema: il bambino va seguito (Yassin, marocchino, padre di quattro figli) Le parole del padre marocchino mettono in luce il ruolo che le risorse informali rivestono per l’economia famigliare: la vicinanza e la disponibilità dei nonni è una risorsa preziosa per i genitori 23 Ringrazio Gabriele Poletti, direttore del Centro di Formazione Professionale S. Gaetano (S. Bonifacio – Verona), per questa comunicazione.

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in quanto li sgrava di costi e di fatiche importanti e contribuisce ad una condivisione dei compiti di accudimento. I genitori italiani, quando lavorano entrambi, se non ricorrono all’aiuto dei nonni, in genere accedono a servizi monetarizzati come nidi d’infanzia, quando i figli sono piccoli, o baby sitter. Nel caso della famiglie migranti, come in quelle delle classi operaie, il capitale sociale contribuisce a ridurre sensibilmente il peso della situazione socio-economica nelle traiettorie scolastiche e professionali delle seconde generazioni (Ravecca 2009). Risorse formali e informali per il sostegno allo studio Il sostegno e l’accompagnamento nello studio rappresentano, in linea di massima, una novità per il genitore straniero immigrato in quanto, nelle scuole dei paesi d’origine, non è previsto che i genitori abbiano un ruolo di responsabilità nello studio domestico dei figli. Come osserva Franca Balsamo, ciò rappresenta un fattore di discriminazione nella misura in cui i genitori non sono in grado di poter offrire l’aiuto che la scuola si aspetta: «La scuola chiede ai genitori di essere “bravi genitori” e le insegnanti si aspettano che i genitori assistano i figli, studiando con loro. Le maestre non si rendono conto che i genitori lavorano e che, soprattutto, i genitori immigrati non possono seguire i figli negli studi perché generalmente conoscono la lingua italiana molto peggio dei figli. La dipendenza scuola-famiglia discrimina perciò in modo particolare le famiglie immigrate» (Balsamo, 2003: 63-64)24. Ne consegue che il tema delle risorse a disposizione delle famiglie migranti per sostenere e accompagnare i figli nello studio domestico risulta centrale nel discorso sul successo scolastico.25. Anche la capacità di agency, cioè di iniziativa volta al cambiamento della situazione personale e sociale, è un elemento che contribuisce a fare la differenza in termini di reperimento di risorse per lo studio: la capacità di creare legami di fiducia, in particolar modo con i locali, aumenta le possibilità di accedere a risorse non monetarizzate per le famiglie migranti, anche per l’accompagnamento nello studio dei figli. Per risorse formali intendo tutte le iniziative ad opera di scuole o associazioni volte ad offrire un appoggio agli alunni nello studio individuale pomeridiano. Per risorse informali, invece, intendo quelle forme di aiuto fornite da fratelli e sorelle maggiori, vicini di casa, figli di amici o amici di famiglia, a titolo gratuito, oppure da persone incaricate sotto compenso per iniziativa del genitore stesso. I genitori che abbiamo intervistato hanno citato in quattro casi l’utilizzo di risorse formali, nel passato o nel presente, per sostenere i loro figli nello studio domestico. Un caso, invece, ha riguardato piuttosto la negazione di tale servizio: ne farò cenno più avanti. Tali risorse sono rappresentate perlopiù da doposcuola organizzati da parrocchie, scuole e associazioni del privato sociale.Per quanto riguarda, invece, le risorse informali, possiamo identificare sei famiglie che ne

24 L’autrice prosegue scrivendo: “Gli insegnanti dovrebbero allora riflettere in maniera più critica sui loro orientamenti a un universalismo che diventa di fatto diseguale. Le madri straniere, dalla loro posizione ai margini, si accorgono pure delle discriminazioni che avvengono nella scuola anche verso bambini italiani, con forme sottili di classismo, di emarginazione dei più deboli. Come accade pure in altri servizi, l’esperienza dell’immigrazione funziona da specchio e fa apparire situazioni critiche delle istituzioni e dei servizi e discriminazioni presenti anche nei confronti degli autoctoni” (Balsamo, 2003: 64). 25 Si veda a tal proposito lo studio di Andrea Ravecca sul ruolo del capitale sociale nel successo scolastico degli alunni di scuola superiore figli di ecuadoriani, in relazione ad un gruppo di controllo di figli di italiani. Egli scrive nelle conclusioni del volume: “Il risultato più interessante è la conferma che il processo migratorio interviene nel determinare il successo o l’insuccesso scolastico non solo direttamente, ma attraverso una molteplicità di fattori, primo fra tutti il suo ruolo nella costruzione del capitale sociale (…). la qualità delle relazioni all’interno della famiglia e le capacità che questa ha di promuovere relazioni al di là dei suoi immediati confini” (Ravecca 2009: 154).

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hanno fatto uso. Per le loro particolarità , ritengo opportuno soffermarmi dettagliatamente su ciascuna di esse. Il figlio minore di Mirabella, nato in Italia e iscritto alla terza classe del liceo classico, nomina un vicino di casa – “ragioniere in pensione” – al quale si rivolge in caso di necessità nello studio, soprattutto della matematica. Yassin racconta che il penultimo figlio, che frequenta la seconda classe elementare, e che è considerato la promessa della famiglia, gode dell’aiuto di un’amica della madre che, tra l’altro, lo tratta come se fosse un nipote. Lo stesso padre fa riferimento a figli di amici che ha interpellato in altre occasioni e alla moglie che è intervenuta, pur nel limite della sua capacità, soprattutto coi figli maggiori quando frequentavano le elementari. L’unico figlio maschio di Mary, che sta ripetendo la prima classe superiore, riferisce di essere intervenuto ancora in aiuto della sorella più giovane per aiutarla nello studio (entrambi tuttavia frequentano anche servizi di doposcuola organizzati dal privato sociale). Infine, Amina ha optato per una soluzione diversa: paga una ragazza ventenne affinché svolga il ruolo sia di baby sitter mentre lei è al lavoro, sia di tutoraggio nello studio domestico della figlia. Di particolare interesse è il racconto di Leyla, mamma marocchina, relativo all’importanza da lei attribuita al fatto di essere presente durante lo studio dei figli, per sottolineare la sua attenzione nei confronti del loro impegno scolastico.: Io per esempio se ho difficoltà ad aiutare i miei figli, faccio finta. Apro i libri per vedere quali compiti devono fare e chiedo: quali compiti hai da fare? Se si tratta di matematica, posso aiutarli un pochino, ma fino a un certo punto però. Però alle medie e alle superiori non sono stata capace. Guardo sempre che cosa devono fare, apro il libro e chiedo loro: “Dimmi, cos’hai fatto oggi a scuola? Cosa devi fare per domani?”. Faccio sempre così. Se non faccio così, il piccolo, cui piace giocare, lascia tutto da fare (Leyla, marocchina, madre ditre figli). Ho trovato una testimonianza analoga in una ricerca realizzata in Texas sul coinvolgimento dei genitori immigrati dai paesi dell’America Centrale nella vita scolastica dei figli. Un padre di origine messicana coinvolto nella ricerca raccontò di sedersi accanto ai figli durante lo studio e di porre loro delle domande per sapere che cosa stavano facendo. Benché non fosse in grado di aiutarli, era convinto in tal modo di motivare i figli a svolgere un buon lavoro e di valorizzare il loro impegno nello studio. Egli definì tale pratica «insegnamento tramite l’esempio» (Pérez Carreón et al. 2005: 482). Un caso di difficoltà di accesso gratuito ai servizi di doposcuola offerti da un importante comune della bassa veronese, invece, è stato narrato dai genitori albanesi durante uno deifocus group. Un numero assai limitato di alunni veniva selezionato dai servizi sociali per godere gratuitamente del servizio organizzato da un’associazione del privato sociale e a loro sarebbe toccato pagare per poterne usufruire in quanto non erano rientrati nella selezione: Flora: Sono andata a scuola quando le mie figlie erano alle elementari. Poi non ci sono più andata. In quell’occasione mi hanno detto: sì ti aiutiamo, ma prima vai a scuola tu ad imparare l’italiano così aiuti tu i tuoi figli. Certo, quello lo faccio per me, ma non per i miei figli. Erblin: lo riferiva a me: mi hanno detto così e così. Vuoi fare la guerra contro di loro? è inutile. Chiamano questura e carabinieri e dicono: la signora mi sta disturbando. E ti mandano da un’altra parte. Enrico (marito di Jamila, mediatrice linguistico-culturale): mio figlio è sempre andato al doposcuola, ma ho dovuto pagarlo tutti i mesi. Erblin: vedi, io non avevo i soldi per farlo!

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La vicenda rivela un elemento per niente scontato: il supporto agli alunni nello studio domestico individuale comporta dei costi. Il richiamo alle critiche che fece don Lorenzo Milani alla scuola classista sono fin troppo evidenti ed attuali (La Scuola di Barbiana, 1967). Laddove la spesa non è sostenuta dai servizi pubblici, o si ricorre agli aiuti informali – non sempre disponibili o accessibili – o il problema rimane a carico della famiglia. Il fatto che l’appartenenza di classe comporti l’esclusione da alcuni diritti fondamentali, o da parte di essi, è un aspetto spesso dimenticato nelle analisi sociali odierne. Com’è stato sottolineato dalla corrente dei cultural studies, “l’assenza” delle classi sociali è un effetto ideologico, un’illusione creata dalla società dei consumi (Procter 2007: 18). La categoria del migrante economico ha assunto inevitabilmente una connotazione di classe e, in Italia, ciò è vero nella stragrande maggioranza dei casi di uomini e donne venuti da altrove. In più i migranti devono scontare degli handicap rispetto ai nativi appartenenti alla classe operaia e lavoratrice ovvero svantaggi derivanti dal gap linguistico, dalla scarsa conoscenza del funzionamento delle istituzioni e dalle resistenze derivanti dai pregiudizi e dal razzismo. Tutto ciò può risultare ulteriormente penalizzante per le famiglie migranti, in particolare dove il livello di istruzione è basso e la presenza di capitale sociale e culturale nonché di agency risulta essere piuttosto debole. Nel caso della nostra ricerca, abbiamo riscontrato queste caratteristiche nella famiglia di Anass26. C’è un secondo elemento di analisi strutturale ed istituzionale che interessa questo studio e che emerge in particolare dall’esperienza dei genitori albanesi. Spesso nel veronese, e forse anche in altri territori italiani, l’accesso ai doposcuola gratuiti comunali passa attraverso l’istituto dei servizi sociali. Ciò comporta che solamente le famiglie considerate in una situazione di disagio vengano selezionate per accedere a tali aiuti, mentre un doposcuola dovrebbe essere esteso in quanto servizio di base rivolto a chiunque ne faccia richiesta. Il risvolto perverso di questa procedura è la produzione di un effetto di patologizzazione delle famiglie migranti – e quindi surrettiziamente della differenza culturale – esattamente come avviene nei confronti della classe operaia. In quest’ottica, solo la certificazione di uno “stato di minorità”, ovvero di disagio, di vulnerabilità, di povertà, consente l’accesso a risorse pubbliche gratuite. Ciò rischia di produrre istituzionalmente un fenomeno di etichettamento che autorizza, in un certo senso, la diffusione dello stereotipo del migrante straniero disagiato e disadattato (Modesti, 2008). La ricerca ha rivelato che in otto casi su nove il coinvolgimento dei genitori nel percorso scolastico dei figli sembra essere una componente importante del successo negli studi, nonostante sia difficile quantificare il peso che essa assume nell’insieme dei fattori che hanno giocato a suo favore. Altre esperienze offrono uno sguardo diverso sulla questione. Ad esempio, lo studio condotto in Olanda da Maurice Crul sui figli di immigrati marocchini e turchi che riportano notevole successo a scuola ha rivelato che i genitori non sembrano avere un ruolo determinante nello stimolare e sostenere l’impegno dei figli nello studio. Piuttosto sembrano essere i figli ad avere un ruolo fondamentale nello stimolare il coinvolgimento dei propri genitori nel loro percorso scolastico. Inoltre, emerge che i figli riconoscono un supporto determinante al gruppo dei pari che condividono le stesse origini, dei quali parlano in termini quasi familistici (fictive kin); oppure, in particolare gli alunni già orientati verso studi più impegnativi riconoscono un ruolo cruciale ad alcuni insegnanti che li hanno incoraggiati ad impegnarsi per realizzare obiettivi di formazione elevati; infine, un terzo 26 Non siamo riusciti ad esplorare ulteriormente il percorso e la situazione di tale famiglia per difficoltà a prendere appuntamento, forse a motivo di un certo pudore che ha mosso una sorta di resistenza a concederci l’intervista.

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gruppo riconosce un ruolo determinante al supporto emotivo e all’aiuto concreto di fratelli e sorelle maggiori, che sovente intercedono a nome loro presso i genitori (Crul 2000). Un altro studio condotto a Bradford sulle aspirazioni negli studi dei figli di genitori di origine pakistana, ha osservato che laddove i genitori non sono in grado di offrire assistenza pratica e consigli riguardo il percorso scolastico, spesso intervengono fratelli e sorelle maggiori oppure i pari appartenenti alla medesima rete etnica (co-ethnic peers). I primi svolgono il ruolo di modello negli studi, contribuiscono a controllare se lo studio domestico è appropriato, si occupano delle comunicazioni scritte con la scuola, intervengono nella mediazione e nella negoziazione delle scelte presso i genitori. I secondi, invece, forniscono senso di appartenenza, mutuo supporto, influenzano le decisioni che riguardano il corso degli studi, offrono consigli sulle modalità di interagire coi genitori in circostanze critiche (Thapar-Bjorkert, Sanghera 2010). Scuola e tempo libero: amicizie, promozione sociale e discriminazione Per alcuni genitori risultano cruciali le frequentazioni dei figli a scuola e nel tempo libero al fine dell’inclusione negli ambienti sociali comuni: essi si preoccupano che frequentino ragazzi italiani e che possano eccellere in abilità e discipline sportive. Nella precedente ricerca era emerso che “molti genitori temono che i loro figli non abbiano amici italiani e che anche quelli che si considerano «italiani» siano oggetto di atteggiamenti xenofobi e visti come diversi” (Maher, 2009). Tralasciando per ora la questione del razzismo – che tratterò più avanti – desidero riportare quanto ha espresso Yassin in merito a tale questione: Lo dico anche ai figli degli immigrati tante volte: non frequentatevi solo tra di voi, non bisogna ghettizzarsi tra immigrati perché si rimane sempre isolati. Dico: porta qualche veronese a casa, non è un problema. Per non stare ai margini della città. Anche quando andate ai giardini pubblici, cercate di essere tutti... Lui ha capito questo discorso però tante volte va con tunisini, senegalesi… [R: secondo te perché questa preferenza?] Ha paura del disagio che potrebbe provare con gli altri. Sente che dall’altra parte c’è qualcosa che non… [R: sente un pregiudizio da parte dei ragazzi italiani?] Sì (Yassin, marocchino, padre di quattro figli) Il medesimo padre, in una precedente occasione di conversazione, aveva già mostrato la sua preoccupazione per una possibile deriva ghettizzante nelle frequentazioni dei propri figli. Nessun altro genitore intervistato, tuttavia, ha espresso analoghi timori. Forse Leyla ha inteso riferirsi a qualcosa di analogo quando affermò di voler offrire ai figli uno stile di vita qualitativamente ed economicamente pari a quello delle famiglie italiane affinché i figli non debbano sentirsi diversi e, quindi, esclusi dal gruppo degli amici italiani27. Tuttavia la discriminazione temuta, in questo caso, non è di natura etnica quanto piuttosto socio-economica. Riguardo all’eccellenza nelle discipline sportive, in alcuni casi l’iniziativa e la spinta sono partite dalla stessa scuola: sono stati gli insegnanti di educazione fisica a notare una predisposizione nello studente e ad indirizzarlo verso una determinata attività. Il figlio di Mary, col quale ci siamo intrattenuti a lungo in attesa che tornasse a casa dal lavoro la madre, ci raccontò che aveva iniziato a

27 Ci disse: “I miei figli non devono sentirsi diversi dagli altri, in vari aspetti. Non parlo in termini di educazione ora. Devo fare ai miei figli quello che fanno tutti gli altri. Per esempio, non posso mettere da parte i soldi e vivere in povertà, non posso rinunciare a comprarmi le cose che mi servono, non posso rinunciare ad uscire a cena qualche volta con loro (…). Devi adattarti all’ambiente, devi fare amicizia e lasciare i tuoi figli con gli altri, ad esempio. Magari preparargli una bella casa, una bella camera” (Leyla, marocchina, madre di 3 figli).

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praticare l’atletica leggera proprio grazie al consiglio di una sua insegnante. Il padre poi si appassionò all’attività del figlio tanto da seguirlo assiduamente nelle sue gare.Anche in altri casi lo sport è stato citato quale attività di promozione sociale per i propri figli. Lilian ci riferì il seguente racconto: Avevo scelto la scuola a tempo pieno per tutti e due fino alle medie. Quindi prendevo loro direttamente in piscina o a basket (quando mi sono stufata a calcio l’avevo scritto a basket). Andrew l’avevo scritto a rugby. Ha cambiato idea e poi ha giocato un po’ a basket. Poi un professore gli ha detto: questi qua sono bravi anche a correre quindi è meglio iscriverli ad atletica leggera. I due sono sempre riusciti a fare tutto: sono riusciti a diventare campioni provinciali tutti e due (Lilian, ghanese, madre di due figli) Oltre all’auspicio espresso da alcuni che i figli frequentino amici italiani, nelle conversazioni altri genitori hanno parlato del controllo sulle loro frequentazioni nel tempo libero e delle preoccupazioni che queste possono sollevare. Tale tema venne da costoro messo in relazione all’educazione morale, come avrò modo di illustrare nel paragrafo successivo. Williams si espresse come segue a riguardo: Con quattro figli ho avuto modo di vedere come si comportano. Le mie figlie più grandi avevano degli amici e all’inizio ho imparato a conoscere gli amici che le mie figlie frequentavano. Non posso andare a dormire senza sapere con quali amici sono uscite le mie figlie. A volte i bambini pensano che sei un po’ invadente qua, però io devo sapere da chi ti porto. Se poi sono le una o le due del mattino, vengo a prenderti io così so dove vai e cosa fai. Non è stato facile, non volevano, però alla fine hanno capito che le proteggevo. Le lascio andare però almeno so che vanno in un certo posto con certe persone. Negli anni ho visto che quelli che sono usciti da soli [ndr. senza il controllo dei genitori], hanno abbandonato la scuola, una è rimasta incinta, l’altra non ha terminato gli studi. Io ho detto loro: se scegli delle amiche o degli amici, scegli quelli che magari hanno valori che abbiamo in casa, non puoi prendere uno a caso! (Williams, ghanese, padre di quattro figli) Alla parole di Williams, fece eco Mirabella la quale raccontò quanto segue: Io conosco i genitori dei ragazzi che mio figlio frequenta perché non posso lasciare mio figlio o mia figlia andare da qualcuno che non conosco. Mio marito lo accompagna sempre. Poi va a riprenderlo in macchina perché non voglio che mio figlio frequenti qualcuno che fuma (Mirabella, ghanese, madre ditre figli). La mediatrice linguistico-culturale presente al focus group, anche lei ghanese, fece riferimento alla comune appartenenza religiosa (“siamo tutti culturalmente cristiani”) per giustificare l’attenzione dei genitori nei confronti dell’educazione morale dei figli e quindi della loro condotta. Anche nel caso di Leyla, la questione delle frequentazioni dei figli venne messa in relazione all’educazione morale e quindi alla questione della maggiore o minore libertà concessa ai figli, al rischio di bruciare le tappe («divertirsi non significa fare le cose prima del tempo») e ai pericoli dettati da alcuni comportamenti illeciti (vestire succinte, avere il fidanzato, fumare e bere alcolici). L’adozione di condotte illecite è da lei considerata una conseguenza della disattenzione dei genitori e dell’eccessiva libertà concessa ai figli. I medesimi genitori che hanno espresso la necessità di tale controllo furono i medesimi a prendere maggiormente le distanze dallo stile di vita dei ragazzi italiani e dallo stile educativo attribuito ai loro genitori (Williams, Leyla). Altri genitori, invece, non sembrano manifestare particolare preoccupazioni in merito al controllo delle frequentazioni dei figli (Lilian, Mary, Amina, Yassin).

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Un aspetto particolare che rientra nelle preoccupazioni taciute o espresse da parte dei genitori sono gli episodi di discriminazione e di razzismo a danno dei figli. Nel corso delle interviste rimasi piuttosto meravigliato del fatto che, in particolare le famiglie provenienti da paesi dell’Africa sub-sahariana, non citassero alcun episodio di razzismo avvenuto a scuola, nonostante venisse loro domandato esplicitamente. Leyla a tal proposito disse: «No, non ci sono problemi riguardo al modo in cui gli italiani si comportano con i nostri figli perché i nostri figli sono nati e cresciuti qui»28. Non fu così, tuttavia, per Yassin che, animato da un particolare vena politica, mise in più occasioni l’accento sulla discriminazione strutturale a danno degli stranieri in Italia, a partire dal confronto tra la nostra situazione e quella dei paesi nordeuropei: Perché io qui devo andare in questura a fare la fila, sottoponendomi allo sguardo di tutti quelli che passano? È una vergogna. Ho un documento di identità, perché devo avere il permesso di soggiorno? Mi devi dare solo la carta d’identità. Perché tutta questa burocrazia? Sembra fatta apposta perché la gente si stufi. Ma tanto la gente non si stufa: peggio della burocrazia in Marocco o in Tunisia, non esiste! […] Mettono uno sportello per gli immigrati, ma tanto gli uffici sono chiusi. Anzi, non li chiamo neanche immigrati, ma nuovi cittadini. Perché do dell’immigrato a uno che è di passaggio. Ma uno che lavora, paga le tasse, ha i bambini nati qui… eppure si continua a dargli dell’immigrato. Non è accettabile, significa che c’è razzismo. Il primo giorno che sono venuto in Italia, ho sentito dire “terrone”: vuol dire che c’è razzismo. Spariamo sopra gli italiani, figuriamoci se viene un extra-terrestre! (Yassin, marocchino, padre di quattro figli) Proseguì riferendo i commenti di un “collega veronese” su un parco pubblico di recente apertura. Costui dichiarò di non voler più portarci i suoi figli in quanto secondo lui il parco era frequentato solo da “immigrati e zingari”. A quel punto gli chiesi se i figli avessero subito episodi di razzismo e narrò il seguente fatto: Il mio secondogenito alle medie è stato vittima di un episodio razzista. A causa di questo fatto è stata trasferita una guardia penitenziaria da Verona ad un’altra sede. Nel periodo in cui si parlava di Saddam Hussein e dell’Iraq, il figlio della guardia è venuto a scuola con un articolo dove si diceva che una donna musulmana aveva ucciso un israeliano, non ricordo i particolari. Questo articolo era ritagliato bene: il bambino lo ha portato a scuola e messo sul banco di mio figlio. E gli ha detto: “voi siete solo capaci di fare questo lavoro”. Un bambino di dieci anni non può dire una cosa del genere! Sono andato a colloquio con il dirigente della scuola il quale mi ha detto: “È successo un episodio grave” e mi ha raccontato. Gli ho detto anzitutto che un bambino di sua iniziativa non poteva fare una cosa simile: i suoi genitori devono avergli dato questo articolo. Ha chiamato i genitori del bambino. Il padre ha addirittura minacciato mia moglie davanti alla scuola. Il dirigente ha chiamato i suoi superiori che poi l’hanno trasferito. Mi ha detto: “Non preoccuparti, mi arrangio io: questo qua lo mandiamo da un’altra parte” (ibidem). La vicenda fu significativa soprattutto per le modalità di intervento del dirigente scolastico. A fronte di casi nei quali c’è un’assenza di intervento da parte della scuola anche nei confronti di episodi di razzismo piuttosto gravi, o magari nei quali si lascia risolvere il problema agli interessati, mi colpì che nell’evento narrato fosse stato adottato un intervento d’autorità che rivelava anche un certo potere da parte della scuola. Anche i genitori albanesi misero in luce aspetti di razzismo strutturale a danno degli stranieri, benché non in riferimento specifico alla scuola, dove tra l’altro le figlie – soprattutto una volta

28 Proseguì citando un particolare curioso, in riferimento alla figlia maggiore: “Solo in una cosa ha trovato difficoltà: dicono che è una secchiona”. E la mediatrice linguistico-culturale presente alfocus group commentò: “I secchioni stranieri non vanno bene: non li accettano”.

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giunte alle superiori, come ci raccontarono – si mimetizzavano facilmente con i compagni e le compagne italiani29. Il tema della discriminazione fu l’incipit dell’intervista a Amina. Costei narrò un episodio di umiliazione subito dalla figlia ad opera del personale scolastico non docente, episodio cui ho accennato in precedenza parlando nello specifico del rapporto con la scuola. Nonostante lei viva in Italia da circa vent’anni e si consideri ben accettata nella località dove risiede, in numerosi passaggi dell’intervista ci ha fatto presente di aver riscontrato il medesimo sospetto anche da parte di colleghi e da parte di genitori dei compagni di classe della figlia: sul lavoro, nei suoi confronti quando le è capitato di ricevere una promozione contrattuale30; a scuola, nei confronti di altri genitori stranieri meno integrati nel tessuto sociale. Verso la fine della conversazione ci disse quasi a mo’ di chiosa: Le vostre ricerche sono troppo importanti per noi. Penso che grazie a voi un domani le scuole potranno guardare a nostre figlie come gente normale. In Francia non c’è questo problema (Amina, marocchina, madre di 1 figlia). Nel corso di altre interviste non fu facile far emergere episodi di razzismo. Nell’intervista ad Lilian, madre ghanese, insistetti in particolare sulle difficoltà che aveva incontrato nel rapporto con la scuola. Dalla sua testimonianza non emergevano problemi di sorta. Tuttavia ella spostò la questione sulle difficoltà che avevano incontrato i figli nel rapporto coi compagni di classe: Non ho mai avuto difficoltà con gli insegnanti, neppure loro [i figli], assolutamente. All’inizio Geoffrey ha avuto un po’ di problemi nel senso che qualcuno ha fatto un po’ lo stupido, parole riferite da un suo amico che gli ha detto: guarda che quello ti ha chiamato nero! Non un compagno di classe, un ragazzo di un’altra classe. Ma poi tutto si è risolto. Siccome Geoffrey si era arrabbiato e aveva litigato con quel ragazzo, ero stata chiamata dal preside. Sono andata subito, abbiamo parlato, anche col ragazzo. Prima che io arrivassi a scuola, il ragazzo si è avvicinato e mi ha detto: abbiamo già fatto pace [R: qual era il motivo per cui il preside ti aveva chiamata?]. Perché Geoffrey aveva perso la pazienza e aveva dato un pugno a quel ragazzo (Lilian, ghanese, madre di due figli) Dalla narrazione successiva emerse che il preside aveva interpellato la donna in quanto c’era stato da parte del figlio un gesto violento e non perché fosse stato offeso da parte del compagno di scuola come mi sarei aspettato. Mi parve significativo annotare che gli insulti razzisti o la vessazione a sfondo razzista spesso non rappresentavano un motivo di intervento da parte della scuola. Seguì il racconto di altri due episodi, di cui tuttavia il primo fu il più eclatante. Il giovane aggiunse altri particolari sulla vicenda: È successo all’incirca due anni fa. Non era la prima volta che succedeva. Quel ragazzo ritornava spesso con discorsi in cui diceva: negro qua e negro là. Io non sono uno che se la prende subito. Tu puoi dire quello che vuoi, io trattengo, trattengo fino a che ad un certo momento scoppio. Poi gli ho chiesto anche scusa e oggi siamo persino amici, ci vediamo anche in giro (Geoffrey, 19 anni, figlio secondogenito di Lilian) Fu interessante anche venire a conoscenza di come la madre intervenne in un’altra delle occasioni narrate in cui il figlio si sentì ferito per le considerazioni fatte nei confronti degli africani:

29 Come rivelano altre ricerche, la strategia mimetica viene adottata da molti ragazzi di famiglie provenienti da paesi dell’Est Europa proprio per eludere una serie di rappresentazioni negative e pregiudizi rivolti alle popolazioni che giungono da quelle aree. 30 L’atteggiamento messo in luce da Amina è indicativo della crescente sensazione secondo cui l’avanzamento nel lavoro da parte degli stranieri costituirebbe una minaccia per la posizione professionale dei locali. Tale timore è divenuto tanto più diffuso in circostanze come quelle attuali in cui l’Italia, come il resto del “primo mondo”, è attraversata dalla crisi economica.

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Quando Geoffrey frequentava il Marconi, è successo che è stata uccisa a Capo Verde quella giovane di Marzana, se vi ricordate. Allora sull’autobus qualcuno ha cominciato a fare lo stupido dicendo: adesso uccidiamo tutti i neri! Non ricordo quanti anni lui avesse, ma è venuto a casa piangendo. Mi disse: io non prendo più l’autobus perché ci sono persone che mi fanno schifo e che fanno gli stupidi. In quell’occasione gli ho detto che ci sono alcune persone maleducate e che lui deve sentirsi fiero di com’è. Anche se sei di colore, non vuol dire che non sei una persona. Tu riesci ad andare a scuola al pari di una persona bianca quindi quando uno ti dice così, vuol dire che è ignorante e basta. Perché non è sei andato tu a Capo Verde ad uccidere la ragazza. Allora lui ha capito e non ha più detto niente ed ha continuato a prendere l’autobus normalmente (Lilian, ghanese, madre di due figli) Nel prosieguo dell’intervista fece anche delle considerazioni di rilievo nelle quali si delineavano i tratti di una pedagogia famigliare di tipo narrativo, potremmo dire: I miei figli arrivano a casa e cominciano a raccontare. Bisogna avere tempo per loro. Iniziavano a parlare insieme quando andavano a scuola e io dicevo: parlate uno alla volta. C’è da ascoltarli tutti e due. Quando hanno voglia, ti raccontano: gli episodi che capitano in autobus, in stazione, a scuola e noi li ascoltiamo durante la cena di solito o a pranzo se sono qui con loro. Ed io ogni tanto racconto quello che succedeva a scuola da me […]. Parliamo di tutto e di più: dei nostri genitori, di cosa facevamo da piccoli, dei nostri cugini e fratelli. Noi parliamo e anche loro ci raccontano. Anche i nostri genitori ci raccontavano o no? Quindi anche noi facciamo lo stesso (Lilian, ghanese, madre di due figli) Le parole di Lilian mi permettono di introdurre il tema dell’educazione famigliare che sarà oggetto del prossimo paragrafo. Come cambia l’educazione dei figli nella migrazione? Con quali argomenti i genitori stranieri giustificano i cambiamenti nelle loro scelte educative? Con quali argomentazioni sostengono la continuità o la discontinuità di determinate pratiche educative? In quali circostanze definiscono un distanziamento o un avvicinamento alle pratiche percepite come “italiane”? Le interviste effettuate hanno fornito ricchezza di particolari intorno a tali questioni. Una nuova pedagogia familiare: come cambia l’educazione dei figli nella migrazione Nelle conversazioni coi genitori migranti vi sono stati numerosi cenni a pensieri e pratiche inerenti l’educazione dei figli. Le riflessioni e le scelte di madri e padri si muovono lungo alcune traiettorie di senso tra cui spiccano: il distanziamento/avvicinamento alle pratiche educative percepite come “italiane”, il distanziamento dalle pratiche di alcuni connazionali e, infine, cosa lasciare e cosa conservare dei “modelli” educativi dei propri genitori. Nelle interviste alle famiglie ghanesi, è stata più volte citata la consuetudine da parte di alcuni genitori migranti di far crescere i figli in Ghana fino all’adolescenza oppure di affidarli ai nonni dopo i primi anni di convivenza coi genitori in terra straniera: ciò per permettere in particolar modo alla madre di svolgere un’attività lavorativa31. Va tuttavia precisato che non si tratta di una soluzione adottata esclusivamente dalle famiglie ghanesi o africane: tale pratica si inserisce nell’ambito della visione della famiglia-lignaggio nella quale l’affidamento dei figli a fratelli, sorelle o genitori costituisce una pratica comune e talora definitiva (Balsamo 2003)32. Nel contesto

31 Si veda a tal proposito anche il lavoro di Paolo Boccagni (2009) sui rapporti transnazionali dei migranti ecuadoriani, in particolare il quarto paragrafo «I legami transnazionali nella vita familiare: potenzialità e limiti delle relazioni di prossimità a distanza». Egli conclude con le seguenti osservazioni: « questa facilità comunicativa non andrebbe data affatto per scontata. Non c’è dubbio, nemmeno nel caso ecuadoriano, che gran parte dei genitori emigrati faccia ogni sforzo possibile per «mantenere con i figli un intimo legame, comunicando costantemente con loro». Più dubbio è che, nonostante l’impegno profuso, vi riesca davvero» (p. 165). 32 La possibilità di un affidamento definitivo del figlio ad una famiglia di consanguinei è confermato anche dalle parole pronunciate da Williams durante la sua intervista e riportate più avanti nel corso del paragrafo.

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migratorio tale pratica assume anche un significato secondario di radicamento dei figli nell’ambiente socio-culturale di origine e quindi di rafforzamento dell’identità etnica e linguistica33. Una delle tre famiglie consultate nella ricerca ha adottato tale soluzione per le due figlie maggiori. Le altre due famiglie, invece, hanno scelto deliberatamente di dare continuità al rapporto coi figli e, nel corso delle interviste, ci hanno dato ampiamente ragione della loro scelta: Sono nati tutti e due qua [ndr. i miei figli]. Non hanno mai smesso di andare a scuola. So che alcuni di noi portano i figli in Ghana o nel paese da dove provengono, per via del lavoro. Noi non abbiamo fatto questo. Loro sono rimasti qui, sono vissuti con noi come noi abbiamo vissuto con i nostri genitori: noi abbiamo pensato di fare la stessa cosa (…). Una sola persona mi aveva chiesto: «non affidi i figli a tua mamma?». Non avevamo alcuna idea di lasciare i figli con nessuno (…). C’è stata una cugina che mi ha chiesto: «Se tu avessi qualche difficoltà a tenere i bambini, sono disponibile ad aiutarvi». Anzitutto difficoltà non ne abbiamo avute. Quando è nato Geoffrey, sono stata a casa dal lavoro per dieci anni (Lilian, ghanese, madre di due figli) È interessante l’accostamento che Lilian fa all’esperienza famigliare d’origine: questa rappresenta l’esempio cui si ispira nella decisione di non dividere la famiglia, di non separare i genitori dai figli. In tal senso, dunque, è difficile definire le sue scelte come in linea o in controtendenza rispetto ad un modello generalizzabile: esse risultano in continuità con l’esperienza famigliare e in discontinuità con le soluzioni di molti connazionali. Quale sia la “tradizione” in questo ambito è difficilmente definibile, se non come tradizione contestuale a determinate circostanze storiche, sociali e di classe: nel caso di Lilian, quelle di una famiglia dell’alta borghesia imprenditoriale ghanese.. Williams fu ancora più esplicito nell’esprimere le ragioni che lo hanno spinto a non dividere la famiglia: R1: in tutto questo periodo i tuoi figli sono rimasti sempre qui con voi o per qualche ragione sono rimasti coi nonni? Williams: quella è una scelta che abbiamo fatto ormai diciotto anni fa. C’era il rischio che mia moglie dovesse lavorare. In Ghana lavorava come poliziotta dello Stato e ha dovuto licenziarsi per venire qui. Una volta arrivata qui era gravida e quindi non ha più lavorato. Quando ha partorito la nostra prima figlia, sua mamma avrebbe voluto che noi la portassimo a lei. R1: così lei poteva lavorare. Williams: sì esatto. R2: sei stato tu ad opporti a questa decisione? Hai detto: voglio tenere qui i figli? Williams: sì. Sarebbe stato anche comodo, però io ho visto che… Non so da dove ho preso lo spunto, ma ho visto che non è una cosa giusta. R2: qual era la tua preoccupazione? Williams: la mia preoccupazione era che c’è un’età della formazione, un periodo che va daitre ai 6 anni, in cui il bambino e il genitore formano un rapporto e quindi se passa quel tempo, non puoi recuperarlo. R2: cioè un legame dici? Si crea un legame? Williams: sì e pensa che avevo delle zie benestanti, però mio papà non ha mai voluto che io andassi a vivere da loro; magari solo una o due settimane per le vacanze. Perché da noi è un problema. R2: è un’abitudine quella di affidare i bambini allo zio o alla zia? Williams: sì, anche per sempre. Se mia zia ad esempio non avesse avuto bambini, mio figlio avrebbe potuto andare a stare con lei per tutta la vita.

33 Mi è capitato di ascoltare tale tipo di interpretazione della pratica dell’affidamento ai famigliari rimasti in patria in alcune comunicazioni informali con genitori migranti avvenute in passato.

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R2: tu dici che erano benestanti quindi si trattava di un peso economico per te e lei avrebbe potuto dargli quello di cui aveva bisogno. Williams: sì però non andava bene, quindi io e mia moglie abbiamo deciso. I miei connazionali dicevano a mia moglie: “Insomma, tua mamma è libera, tu sei figlia unica, perché non gliela porti per sempre?”. Tutti gli amici e i parenti ci hanno fatto pressione. Poi abbiamo visto che avevamo ragione. Mandi giù i figli perché pensi di guadagnare, ma alla fine non guadagni niente. Non è che il costo della vita sia più alto qua e minore là. Qua hai il medico alle due di mattina e anche se non hai l’auto puoi chiamare qualcuno che ti accompagni, là non è così e un genitore qui dorme e non sa che cosa succede ai suoi figli: se hanno mangiato, se stanno male. Magari ti chiamano e ti dicono: “Tuo figlio non ha dormito”. Perché non è come se fosse a Milano, è a 6000 chilometri di distanza! R2: cioè tu dici che questa è stata un’intuizione che poi si è rivelata sensata perché hai visto altre famiglie che hanno avuto esperienze difficili. Williams: la stessa persona con cui mia moglie ha quasi litigato per via della questione, ho visto che fine hanno fatto i suoi figli. Tutti facevano così, soprattutto nel periodo tra il ’90 e il ’98 perché le gente non aveva deciso di rimanere. Qualcuno poteva decidere di restare per un po’ e dopo andarsene. Quindi eri con un piede qua e un piede là. Se a quel tempo avessimo deciso di restare, oggi avremmo le nostre case di proprietà (…). Ho visto famiglie rovinate perché hanno portato giù i figli e quando ritornano perdono un anno per inserirsi a scuola. A che cosa giova? Risulta interessante l’accenno che Williams fa ai mutamenti che nel corso del tempo ha subito quello che in letteratura è denominato “progetto migratorio”, ma che in realtà risulta spesso essere un percorso fatto di scelte non sempre libere e di occasioni inattese che inducono ad aggiustamenti progressivi. Egli sottolinea che per molti la scelta di affidare i figli ai familiari nel paese d’origine era anche dettata dal desiderio di rientro che molti dei suoi connazionali coltivavano negli anni Novanta del secolo scorso. Tale desiderio ha poi lasciato il passo alla decisione di restare e, quindi, di riunire la famiglia, con conseguenze talora penalizzanti per il percorso scolastico dei figli (si veda anche l’esperienza delle figlie maggiori di Mirabella che non hanno potuto inserirsi in un percorso scolastico o universitario). Anche Leyla, madre marocchina, ha accennato al problema dell’intreccio tra percorsi migratori e percorsi scolastici ed educativi. Nei suoi discorsi, connette tale tema alle priorità che i genitori migranti si pongono nell’esperienza migratoria: chi solamente all’accumulo di denaro e chi, invece, anche alla qualità della vita per sé e per i propri figli. In tal senso la donna prende le distanze dalle abitudini di molti connazionali – che lei dice provenire da località come Fqih Ben Salah34 – i quali «vengono qui solo per i soldi: non hanno altro pensiero. Non sono venuti qua per vivere la vita, per imparare altre culture, per sapere altre cose». E narra un episodio di cui è venuta a conoscenza: Io conosco un uomo che qui ha fatto tanti soldi. È venuto tanti anni fa, adesso avrà 68 anni. Ha portato la sua famiglia qui e i figli hanno iniziato la scuola. Ad un certo punto, quando erano alle scuole medie, lui aveva raggiunto la somma di denaro che desiderava ed è tornato in Marocco con tutta la famiglia. i figli sono stati iscritti a scuola, ma non sapevano l’arabo e il francese. Non sapevano comunicare perché cresciuti qui in Italia. Questo padre non ha pensato ai propri figli? Hanno raggiunto la scuola media e poi hanno dovuto ricominciare da zero. Qual è la loro colpa per dover subire questa brutta esperienza? Lui dice: “I miei figli piangono tutto il tempo e vogliono tornare in Italia”. Sono tornati in Italia, ma lui dice che vuole provare altre scuole private in Marocco, più costose. E dice: “Provo ancora quest’anno e se non ce la faccio li riporto in Italia”. Guarda, per me questo non è il modo di fare, è un modo sbagliato. O rimani in Italia o rimani in Marocco, non puoi stare male in mezzo (Leyla, marocchina, madre ditre figli).

34 Fqih Ben Salah è una località situata pressappoco nella zona centrale del Marocco, a 200 km da Casablanca. Si trova in provincia di Beni-Mellal e la popolazione è principalmente dedita all’agricoltura.

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Leyla, grazie a questa narrazione, avvalora la scelta della continuità nel percorso migratorio e scolastico e la giustifica con l’adesione a un determinato orizzonte di senso che spinge un adulto con famiglia a migrare. Nel momento in cui i genitori stranieri decidono di tenere con sé i figli, sorge la necessità di gestire la vita domestica e lavorativa in modo da non lasciarli soli. Lilian ci racconta a tal proposito: Quando erano piccoli, erano sempre in mano ai nostri amici italiani qui e poi da giugno a settembre andavano in Inghilterra dagli zii perché noi non avevamo la possibilità di badare a loro, eravamo al lavoro tutti e due (Lilian, ghanese, madre di due figli) In quanto ad autonomia raggiunta, la stessa racconta come i due figli avessero imparato, già da molto giovani, a scaldare il cibo preparato dalla madre per il pranzo, in modo da cavarsela da soli una volta giunti a casa da scuola. Tale dettaglio venne citato da Lilian mentre parlava dell’autonomia dei figli e dei ruoli che ciascuno ha assunto nella gestione dei lavori domestici: Andrew a nove anni sapeva cucinare la pastasciutta e ne preparava anche per suo fratello. Non accendeva il fornello: avevamo il rice cooker che funziona a corrente elettrica. Metteva l’acqua dentro e quando bolliva ci metteva la pasta e quando la pasta era cotta, si spegneva da solo. Quindi non dovevano usare il fuoco. Poi ci mettevano il sugo, anche se fino alle scuole medie mangiavano pasta in bianco, non so perché (ibidem). Ho già fatto precedentemente riferimento al caso di Amina la quale, essendo separata dal marito e non potendo contare sul suo aiuto, ha scelto di pagare una ragazza come baby sitter per la figlia, oltre che come tutor nello studio domestico, sebbene questo le comporti una spesa importante. In altri casi, ci sono madri casalinghe che hanno svolto solo lavori saltuari (Leyla, Flora) o madri che hanno scelto di rinunciare al lavoro perlomeno finché i figli erano piccoli (Patricia, moglie di Williams). Altre ancora si danno il cambio col marito se gli orari di lavoro lo permettono (Mary). Una delle questioni educative importanti nelle famiglie migranti è certamente quella delle lingue parlate in casa e dell’atteggiamento da assumere nei confronti della lingua seconda, ovvero l’italiano.Williams ha scelto di parlare l’inglese in famiglia anziché il fanti. Tale decisione gli è stata ispirata dalla frequentazione di un connazionale, pastore di una chiesa pentecostale. Il padre ghanese spiega che la decisione è stata presa per proporre un duplice ancoraggio ai figli o, meglio, una duplice facilitazione: avrebbe permesso loro di comunicare con i locali una volta tornati in Ghana e, inoltre, li avrebbe facilitati nello studio di una lingua straniera a scuola. Inoltre, in altri passaggi dell’intervista, ci disse che la conoscenza dell’inglese avrebbe offerto ai figli una possibilità di mobilità internazionale nel futuro percorso formativo e lavorativo. Alla domanda «che lingue parlate in casa?», Lilian risponde: Lilian: Io e mio marito parliamo fanti. Invece i miei figli parlano in italiano. Adesso cominciano a parlare un po’ anche il fanti, anche lui [Geoffrey] perché a lui piaceva giocare, viveva nel suo mondo, non capiva niente, non ci ascoltava (…). Invece Andrew ascoltava, quindi lui parla anche il fanti. R2: e avete mai usato l’inglese in casa? Lilian: sì Andrew all’inizio sì, però poi ho visto che si vergognava a rispondere e quindi ho lasciato perdere. R1: perciò hanno imparato a scuola l’inglese? Lilian: sì l’hanno imparato a scuola e poi quando andavano in Inghilterra. Poi quando vanno in Ghana ovviamente sono costretti a parlare in inglese.

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Con Erblin discutiamo della trasmissione della lingua materna e dell’ipotesi che la scuola italiana possa dare l’opportunità di apprenderla. Egli afferma a tal proposito: Sì perché no? Ormai mie figlie sono grandi però. Sarebbe meglio per quelli che vanno alle elementari. Quelli che sono nati in Italia non sanno nemmeno una parola di albanese. A scuola parlano sempre in italiano e di albanese non sanno nulla. Mie figlie quando vanno in Albania parlano in albanese con i nonni, anche se ci sono delle parole che non sanno (Erblin, albanese, padre di due figlie) Durante l’intervista ci raggiunsero anche le figlie alle quali rivolgemmo domande sulla loro esperienza scolastica. Al momento in cui venne introdotto il tema della lingua, ci fu un vivace scambio di battute tra il padre e la figlia maggiore: Figlia: alle medie c’era una ragazza albanese che poi ha cambiato scuola. Mi ha fatto piacere aiutarla, traducevo per lei. Padre: vedi che sai due lingue. Meglio saperne tre o quattro. Figlia: ho fatto la prima elementare in Albania, ma non so né scrivere né leggere. Padre: non è difficile, c’è solo qualche lettera che viene letta in modo diverso. Noi abbiamotre6 lettere. Tu dici che non sai leggere, ti faccio vedere io! Ma non hai volontà. Figlia: però posso parlarlo, è quello l’importante. R1: in casa avete libri in lingua albanese? Padre: no. Vogliono leggere? Problemi di libri non ce ne sono. Ma adesso devono occuparsi della scuola, poi se vorranno… R1: magari quando saranno più grandi riprenderanno a studiare l’albanese. Padre: dubito. È interessante notare l’ambivalenza del padre fra il desiderio che la figlia possa coltivare lo studio della lingua albanese da una parte e il “lutto” dall’altra, ovvero la consapevolezza che l’emigrazione porta con sé inevitabilmente la trasformazione di un elemento che lega alla terra d’origine. La figlia, d’altra parte, propone una mediazione nella conservazione della lingua parlata. Essa rimane viva nella quotidianità domestica e testimonia il legame con la famiglia estesa. Abbiamo fatto cenno alle lingue anche nelle conversazioni avvenute con altre famiglie, ma l’argomento non è stato posto apertamente e di conseguenza discusso nei dettagli. Ne parlammo con la figlia maggiore di Leyla, ad esempio, presente alla nostra intervista, la quale ci disse di parlare comunemente l’arabo-marocchino (derija) in famiglia e di riuscire a comprendere parte dell’arabo classico nei notiziari alla televisione. La madre concluse chiedendo: «Perché non fanno le scuole arabe per i nostri figli? Potrebbero fare un corso di arabo perché è molto importante per noi». L’orizzonte che potremmo denominare di filosofia educativa che i genitori hanno talora portato alla nostra attenzione è un tema interessante da sviluppare. Vorrei fare solamente cenno ad un principio ricorrente citato in ben tre occasioni dai genitori ghanesi: charity begins at home che potremmo tradurre in italiano con “la buona condotta si impara in famiglia”. In genere, l’espressione è stata pronunciata mentre veniva discusso il problema della continuità educativa tra famiglia e scuola, un problema molto sentito anche dagli stessi insegnanti e spesso sbrigativamente risolto indicando come responsabilità dei genitori la cattiva condotta dei figli a scuola. In uno dei focus group, i cui partecipanti erano nella totalità di origine ghanese, si era lungamente discusso il problema del rispetto dell’insegnante a scuola,. In particolare veniva osservata una differenza di rapporto insegnante-alunno: caratterizzata da una vicinanza affettiva e da maggiore libertà nel caso della

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scuola dei figli (“qua” ovvero nella scuola italiana), caratterizzata invece da un “gap” e dal “rispetto per l’autorità” nel caso della loro esperienza (“da noi” ovvero nella scuola ghanese). Di converso, Williams considerava come ingiustificate le pretese di alcuni genitori (italiani) che la scuola sopperisse alle presunte carenze educative – intese come cattiva condotta appresa – dei figli per una altrettanto presunta negligenza educativa dei genitori a casa. Una seconda occasione in cui venne citata l’espressione fu un altrofocus group. Lilian accennò al problema della discontinuità tra sistema scolastico ghanese, modellato su quello britannico, e sistema scolastico italiano. In quest’ultimo è prevista la collaborazione dei genitori allo studio domestico dei figli, al contrario del primo in cui essa non è richiesta. Nel sistema scolastico ghanese, infatti, avviene un “affidamento” – dice Lilian – dei figli alle maestre da parte dei genitori, soprattutto nella struttura dei college. Tuttavia la formazione di base è di pertinenza dei genitori in quanto, appunto, charity begins at home. Una terza occasione fu durante l’intervista a Williams. Alla domanda «quali valori ha insegnato la scuola ai vostri figli?» rispose dicendo: Come ho detto l’altra volta charity begins at home. La buona condotta inizia a casa. Uno magari è razzista, uno certi valori è difficile che li impari da un amico se non li ha prima imparati a casa. Se due bambini piccoli crescono insieme, sia africani che italiani, crescono senza sapere che uno è diverso di colore finchè qualcuno non gli dice: “Questo è di un altro colore”. Quindi certi valori si insegnano a casa e si perfezionano a scuola e viceversa. Quindi non possiamo dare la colpa all’insegnante se i nostri figli deviano. Ho testimonianza del fatto che i miei figli si comportano bene a scuola, ma altri alunni con lo stesso insegnante non lo fanno. Noi non pretendiamo che l’insegnante insegni ai nostri figli quello che noi non abbiamo insegnato perché passano poche ore a scuola (Williams, ghanese, padre di quattro figli) Un altro tema degno di interesse è quello della divisione dei ruoli assunti da madri e padri nell’ambito dell’educazione famigliare e dei cambiamenti sopraggiunti rispetto ai modelli proposti nelle famiglie di origine. Yassin ad esempio, parlando del ruolo della moglie nell’educazione famigliare, raccontò: Sono contento di avere una moglie così: fa tutto lei. In casa è difficile: si sa, con quattro maschi! Magari sporcano, litigano tra di loro (…) Io le do quattro baci e le dico: “porta pazienza che poi passa”. Però la capisco. Gran parte dell’educazione dei figli è in mano sua. Una volta si diceva che la mamma deve essere più vicina ai bambini, adesso invece è il contrario. In Marocco il papà e più duro mentre la mamma nasconde. È giusto così perché uno deve essere più morbido dell’altro, altrimenti tutti e due uguali non vanno bene. Fossimo stati in Marocco, lei sarebbe stata più vicina ai bambini, nel senso che nasconderebbe tutte le cose che non devono fare, invece qui sono io a nascondere molte volte. Questo dipende anche dal fatto che lavoro tanto e sono sempre via di casa. E poi è un aiuto che offre a me: se vengo a casa dal lavoro e mi carica dei problemi dei bambini, allora poi non riusciamo a essere… Però lei soffre più di me tante volte. Io la comprendo perché vedo che non è proprio a suo agio la sera (Yassin, marocchino, padre di quattro figli). L’inversione di ruoli fra padre e madre rispetto a quelli normalmente esperiti nella società di provenienza, è giustificata sia da motivazioni generazionali (“una volta”, “adesso invece”), sia da motivazioni dettate dalle contingenze (l’assenza del padre da casa per assolvere agli impegni lavorativi). Emerge una figura di madre che, oltre a dover svolgere svariati compiti domestici ed extra-domestici, assume un ruolo fortemente normativo in famiglia, un ruolo che in determinate circostanze si rivela pesante da sostenere, data anche la numerosità dei figli da accudire. Tutto questo è indicato dall’uomo come una novità dovuta alle caratteristiche tipiche del contesto d’immigrazione in cui è inserita una famiglia come la sua.

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Un altro tema portante delle conversazioni coi genitori migranti fu quello del distanziamento o dell’avvicinamento alle pratiche educative percepite come “italiane” Si tratta di un topos che è diventato quasi un luogo comune nei discorsi dei migranti e rischia, d’altra parte, di diventare uno stereotipo tanto quanto lo sono quelli che riguardano, ad esempio, la negligenza dei genitori stranieri verso il percorso scolastico dei figli, analizzata poco sopra. Ecco cosa ci disse Leyla non appena annunciammo il tema dell’educazione durante l’intervista: Io vedo che i ragazzi sono troppo liberi qui. Fanno quello che vogliono subito. Ad esempio, i genitori lasciano i propri figli andare in giro da soli: vanno con le loro compagnie. Dicono “vado con il mio ragazzo” e per noi non va bene, questo non è giusto per me e neppure per mio marito. Per loro, invece, si possono fare queste cose: al sabato vanno in discoteca! (Leyla, marocchina, madre ditre figli) Le chiesi se aveva mai avuto modo di parlare con i genitori italiani di questi problemi educativi e magari di scoprire di avere delle vedute comuni o delle preoccupazioni condivise. Lei rispose: No, non ho mai parlato con una donna italiana. Io vedo sempre ragazzi che fanno quello che vogliono, ma non so che cosa ne pensano i loro genitori. Ad esempio, qui vicino abita una ragazza, amica di mia figlia. Lei va sempre in giro con il suo ragazzo. Io non la trovo educata [ndr. ben educata] (…). Per fortuna ho una figlia educata così, brava. Lei è molto matura, lei sa quello che deve fare. Divertirsi non significa fare le cose prima del tempo. Non va bene. Truccarsi per andare a scuola, non va bene. Andare a scuola nude, con la minigonna, non va bene per me. Non vai ad una festa in cui ti devi truccare (ibidem). Se i termini di un distanziamento dalle pratiche educative degli italiani sono piuttosto evidenti nelle testimonianze dei genitori intervistati, e appartengono solitamente al piano dell’educazione morale, non sono invece così scontati gli aspetti in cui essi si sono avvicinati allo stile educativo degli autoctoni. Ciò che Williams mette in evidenza, ad esempio, è la necessità di un qualche adattamento alla dimensione sociale del paese d’immigrazione. Egli osserva come in Italia non esista, al contrario del paese di provenienza, una dimensione di responsabilità educativa verso i più giovani diffusa fra tutta la comunità. A meno che – aggiungo io – essa non sia autorizzata dai genitori e i ruoli di altri adulti non siano chiari: Certe cose noi dobbiamo impararle da qui perché in Ghana magari non le facciamo (…). Là si lasciano crescere da soli i bambini invece qui bisogna seguirli passo a passo. Quindi noi a volte tendiamo a sopravvalutare, cioè noi diamo per scontato. In ogni occasione [ndr. richiesta dalla scuola] per i miei figli andiamo o io o mia moglie, perché abbiamo deciso di non perdere… (Williams, ghanese, padre di quattro figli). Tale intervento è connesso anche al tema sopra trattato delle aspettative che la scuola rivolge ai genitori e della fatica che costoro spesso fanno ad adattarsi ad un sistema scolastico che richiede un impegno eccessivo rispetto alle loro possibilità. A conclusione di questo paragrafo, mi sembra interessante notare come la maggior parte degli intervistati, pur dimostrando un eloquio fluente nella lingua italiana e testimoniando di avere stabilito buone relazioni con il tessuto sociale in cui vive, affermi di non avere mai avuto occasione di confrontarsi coi genitori italiani su questioni educative. Immaginavo che la scuola potesse essere un luogo in cui avvicinare i genitori a tali temi, ma probabilmente le discussioni che avvengono nelle riunioni rimangono su un piano prettamente didattico oppure si sviluppano solamente nel caso

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di avvenimenti gravi e, dunque, rimangono su un piano emergenziale. A tal proposito Williams disse: “Ne parliamo quando ci vediamo in occasione di una riunione, ma tutto finisce lì”. Credo che la scuola possa farsi promotrice di un dialogo tra genitori sulle questioni importanti dell’educazione dei figli, soprattutto nei termini di uno scambio di esperienze. A tali momenti potrebbero partecipare gli stessi insegnanti, non più in quanto istituzionalmente investiti di un ruolo didattico, ma in quanto educatori e, nel caso lo fossero, essi stessi genitori con analoghe preoccupazioni e attese dei genitori dei loro alunni35. Il futuro dei figli: oltre le aspirazioni, attese e timori36 Per concludere, mi sembra significativo offrire una panoramica delle attese che i genitori intervistati hanno espresso sui propri figli e dei timori, non solo in termini formativi e occupazionali, ma più generalmente riferiti ai loro percorsi di vita.A tal proposito Lilian si esprime come segue: Io vedo che Geoffrey sta andando bene a scuola e Andrew sta cercando di finire quindi penso che un domani andrà bene insomma. Continuo anche a dirgli che, se lui vuole, può prendersi un anno per andare a perfezionare l’inglese in Inghilterra o in America perché è molto importante. Io ho fiducia che se non si troveranno bene qui, potranno trovarsi bene anche in Ghana. L’importante è possedere la capacità di parlare l’inglese. Quando hai il potere della lingua, ti si aprono più strade. Poi in Ghana stanno andando bene le cose. Anche lui è andato in Ghana quest’anno quindi ha visto. Non so se un domani preferiranno andare in Ghana, tutto dipende da loro: l’importante è possedere la lingua. Quindi speriamo che tutto vada bene comunque noi bene o male andiamo avanti: abbiamo una casa anche in Ghana, non abbiamo problemi (Lilian, ghanese, madre di due figli) Le parole della madre ghanese manifestano una particolare serenità in merito al futuro dei figli, rafforzata anche da alcuni elementi quali il fatto di conoscere la lingua inglese e di avere un’abitazione di proprietà in Ghana oltre che in Italia37. Traspare una solida fiducia dettata probabilmente dalla consapevolezza di aver gettato delle basi per i figli, indipendentemente dal percorso che essi vorranno intraprendere. Yassin esprime maggiori preoccupazioni in riferimento al futuro dei quattro figli maschi che sta crescendo e offre una visione maggiormente conflittuale del rapporto con il contesto di immigrazione, nonostante abbia stabilito buone relazioni con il tessuto sociale in cui vive. Avverte i rischi della discriminazione a danno dei figli e della “ghettizzazione”, la mancanza di opportunità dettate da politiche poco favorevoli alla famiglia e l’ombra di una possibile riproduzione di un’integrazione subalterna vissuta sulla propria pelle. Il suo impegno politico e associativo si esprime anche nei toni dell’indignazione durante la conversazione: la questione dei diritti degli immigrati e delle seconde generazioni in Italia gli sta molto a cuore. A conclusione di un discorso nel quale accennava ad alcune famiglie marocchine che si trasferiscono in altri paesi europei dove sono maggiormente tutelate, disse:

35 Con Claudio Manzati, responsabile dell’area multiculturale della cooperativa sociale Azalea (Verona), sto promuovendo un ampio progetto rivolto alle scuole superiori all’interno del quale è previsto anche un percorso di incontri tra genitori e insegnanti finalizzato allo scambio di esperienze educative, alla mutua comprensione di aspettative e percezioni e all’avvio di un dialogo che vada oltre la dimensione istituzionalizzata della vita scolastica. 36 Ho mutuato la distinzione tra aspirazioni e attese dai working papers della ricerca ILSEG (The New Second Generation Project in Spain). Lo staff della ricerca, diretta da Alejandro Portes, ha applicato al contesto spagnolo la medesima metodologia utilizzata nel progetto CILS sulle seconde generazioni negli Stati Uniti. Sito internet: http://www.princeton.edu/cmd/working-papers/ilseg-papers/ 37 Altin in un articolo sui ghanesi in Friuli Venezia Giulia osserva come per costoro la casa rappresenti “la realizzazione concreta delle relazioni sociali e della capacità finanziaria; costruire una casa è simbolo di potere che esige rispetto, considerazione sociale” (Altin, 2009: 583).

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Noi sogniamo che i nostri figli non facciano la vita che facciamo noi. È un sacrificio: è dura fare l’operaio con tutte le lotte che ci sono. Almeno che possano fare un lavoro un po’ intellettuale: l’attore, il commercialista, l’avvocato, non so… Un lavoro più rispettabile (Yassin, marocchino, padre di quattro figli). Entro questa visione futura, il padre marocchino nutre particolari aspettative nei confronti del terzo figlio che dimostra di avere ottime performance a scuola e che sembra promettere “qualcosa di grande”. Oltre alle doti personali del figlio, nel caso della sua famiglia emerge chiaramente quello che è definito dagli studiosi birth order effect ovvero l’associazione tra il successo scolastico e l’ordine di nascita dei figli (Crul 2000: 239).Williams, dal canto suo, concentra le sue aspettative intorno alla carriera negli studi e afferma: In futuro spero che riescano ad entrare all’università, qui o all’estero, perché al giorno d’oggi è molto importante lo studio, ci vuole una specializzazione. La concorrenza è così: tutti cercano le stesse cose però tu magari sei laureato. Qui non si vede tanto, ma in altri paesi la laurea vale di più (Williams, ghanese, padre di quattro figli). Proseguendo, egli dirà che negli studi è più conveniente assecondare le inclinazioni dei figli piuttosto che obbedire alle richieste del mercato: un’affermazione che esprime a partire dalla sua esperienza personale nella quale è stato costretto a soffocare le sue passioni per frequentare un corso di studi che non gli piaceva. Secondo Williams, assecondare le inclinazioni dei figli significa aumentare le loro possibilità di successo. Tuttavia, egli si rende conto che il mercato del lavoro non garantisce opportunità di accesso neppure a chi possiede una laurea. Inoltre, il fatto di avere origini straniere può dar luogo a discriminazioni. Ciononostante la qualità della formazione e l’evidenza offerta dalla performance accademica possono valere come antidoto alla discriminazione su base etnica. Williams, dunque, auspica un cambiamento importante per la generazione successiva: Abbiamo visto risultati positivi negli studi da parte di coloro che sono nati qua. La loro generazione sarà migliore della nostra perché loro hanno studiato qui e quindi sanno quanto valgono. Noi siamo arrivati già adulti, ma loro hanno iniziato qui la scuola, raggiungono l’università e possono testimoniare di avere studiato. Io porto il mio certificato dall’Africa e le cose sono diverse: prima bisogna qualificarsi, capire la lingua, invece per loro è diverso. Spero che per loro le cose cambino. Tuttavia se le cose non cambieranno, cambieremo noi. Se non troveranno lavoro qui, lo troveranno in Inghilterra. Se non troveremo qui, troveremo in un altro posto (ibidem). Erblin: Le preoccupazioni per i figli ci sono finchè non muoiono. In particolare ho la preoccupazione per il lavoro. Questo è l’aspetto più importante. Adesso frequentano la scuola, ma l’indomani? Se trovano il lavoro o non lo trovano. Nel caso non lo trovino, spero di riuscire a mantenerle io. Queste sono le preoccupazioni: spero che dopo la scuola trovino un lavoro e facciano la loro vita! Flora: e che non prendano la strada sbagliata( Erblin e Flora, genitori albanesi). Flora aggiunge un elemento di natura morale alle preoccupazioni elencate dal marito, centrate invece sulla questione occupazionale. In altri passaggi dell’intervista discutemmo di frequentazioni amicali e di matrimonio, temi nei quali le norme morali rappresentano una dimensione centrale per i genitori. Nei loro discorsi, tuttavia, non sembra emergere l’aspettativa di un mobilità sociale legata all’istruzione delle figlie e non è presente il tema dell’integrazione subalterna. È piuttosto il tema dell’incertezza occupazionale legata alla crisi economica e finanziaria corrente a destare preoccupazioni per il futuro: anche la stessa permanenza in Italia sembra segnata da una crescente instabilità. Ciononostante la loro fiducia sembra solida. Fu interessante conversare anche con le figlie, che ci hanno raggiunto verso la fine dell’intervista: la loro curiosità e le loro domande nei

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riguardi del nostro percorso di studi è stata indicativa nel sottolineare il loro sguardo rivolto al futuro. La preoccupazione economica e occupazionale è un tema cui fece cenno anche Mirabella parlando della sua condizione famigliare. Il suo intervento iniziale al focus group fu indicativo dei suoi timori, tanto che concluse affermando: «Quindi adesso non abbiamo futuro qui, ognuno pensa al suo. Dobbiamo andare via». La donna ci raccontò il caso emblematico della figlia maggiore di ventitrè anni la quale, ricongiunta in età adolescenziale, aveva frequentato e concluso il corso per operatore socio-sanitario. Per mancanza di lavoro, costei era costretta a fare la “badante” (l’assistente familiare) ad una donna anziana. Mirabella raccontò di dare il cambio alla figlia in alcune ore serali per permetterle di frequentare la scuola al fine di ottenere un diploma. Il suo intervento successivo diede ulteriormente conto del suo atteggiamento sfiduciato nei riguardi del futuro dei figli. Nella mia chiesa c’è pieno di ragazze. Sono tutte a casa: niente lavoro per loro. I genitori a casa e anche loro a casa. Se non prendono noi che siamo vecchi, che prendano almeno le ragazze. Invece niente. Tutti a casa (Mirabella, ghanese, madre di tre figlie) Io ho speranze per mia figlia. Noi siamo integrati bene qui. Quando dico “integrato”, sai cosa intendo? Pago le tasse quindi vedono che sono integrato, ma paghiamo le tasse quanto voi. Allora come posso essere integrato? (…) Ci sono delle donne con il fazzoletto [ndr. foulard, hijab] nelle riunioni e, poverine, sono guardate male (…). A volte isolano tanti genitori perché sono vestiti male o perché mettono il fazzoletto (Amina, marocchina, madre di 1 figlia) Episodi di discriminazione e di sospetto, come quelli narrati nei precedenti paragrafi, le avevano procurato una sensazione di cocente delusione. Rispetto all’autopercezione di essere ben adattata al contesto sociale d’immigrazione, tali eventi le hanno restituito una percezione sociale ancora intrisa di stereotipi e pregiudizi. La paura più grande dei genitori riguarda il fallimento degli sforzi e dei sacrifici che la migrazione ha comportato, vale a dire il timore che i figli debbano vivere le medesime esperienze di discriminazione subite dai genitori, nonostante siano nati in Italia e abbiano ottenuto titoli di studio riconosciuti nel nostro paese. Conclusioni A conclusione della mia analisi, desidero mettere in luce il contributo che la presente ricerca può portare all’attuale dibattito sul rapporto tra scuola e genitori migranti. Sia la ricerca di Crozier e Davies che quella di Peréz Correón e colleghi sottolineano l’assenza di riconoscimento da parte della scuola dello specifico punto di vista dei genitori di origine straniera: delle loro difficoltà, dei loro bisogni, delle loro speranze e aspettative. In particolare, tali studi osservano che, per quante energie le scuole investano nel sollecitare e sostenere il coinvolgimento dei genitori nella vita scolastica, i loro programmi sono destinati a fallire se non considerano la voce e la prospettiva dei genitori migranti stessi. Inoltre, la prima ricerca mette in rilievo che il coinvolgimento dei genitori tutt’al più avviene nei termini di un adattamento al ruolo atteso dalla scuola: ossia tale ruolo è pre-determinato e standardizzato e la possibilità di iniziative da parte dei genitori risulta pressoché nulla. Analoghe dinamiche mette in evidenza anche la seconda ricerca. Allo scopo di promuovere lo specifico punto di vista dei genitori stranieri, gli autori propongono di creare spazi di dialogo fra genitori e fra genitori e insegnanti.

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I dati emersi dalla nostra ricerca confermano non tanto l’assenza di riconoscimento delle difficoltà vissute dalle famiglie immigrate, presenti anche in molte interviste ai dirigenti scolastici, quanto piuttosto la mancanza di spazi e formule che consentano ai genitori di interagire in modo facilitato con la scuola, di esprimere le loro opinioni e di far conoscere la loro esperienza. I genitori che abbiamo intervistato portano all’attenzione questioni cruciali che, senza la creazione di occasioni di dialogo, rimangono del tutto sconosciute alla scuola e ai servizi. Ad esempio, esse offrono uno spaccato interessante sugli ostacoli strutturali che impediscono una efficace comunicazione tra scuola e famiglia. Quanto alle realtà associative che organizzano attività parascolastiche, come percorsi di appoggio allo studio domestico pomeridiano, la ricerca non offre dati di rilievo38. L’unico elemento degno di nota riguarda il fatto che tali servizi non sempre sono estesi a tutti e spesso non soddisfano le reali necessità. Già molte famiglie straniere – come tante famiglie della classe operaia – soffrono l’assenza di aiuti informali per accompagnare i loro figli nello studio: la mancanza di attività di doposcuola gratuiti penalizza ulteriormente i percorsi di studi di questi ragazzi e costituisce un elemento di pesante discriminazione. Nel momento in cui la scuola non tiene conto di queste forme di discriminazione, diventa classista. Infine, quanto ad estensione dei servizi in questione, ci sono molte esperienze positive nella città di Verona, ma vaste zone della provincia sono ancora prive di facilitazioni per le famiglie migranti e, in generale, per tutti coloro che non sono in grado di offrire aiuto ai figli nello studio domestico. Nell’insieme, dal nostro modesto studio emerge un panorama complesso sul rapporto tra famiglie migranti e scuola, dove i punti d’ombra sono ancora numerosi. Spesso le semplificazioni ingenue operate a partire dai pregiudizi reciproci non aiutano a promuovere uno scambio proficuo tra le parti: entrambe spesso riflettono un senso comune che appartiene alla realtà sociale più ampia fatto di razzismo, politichese e pensiero monoculturale. Se è vero che il mestiere di insegnante è sempre più appesantito da pratiche burocratiche e tagli ministeriali è responsabilità della scuola in quanto istituzione dello stato riflettere sui meccanismi di inclusione-esclusione e sulla sua vocazione ad essere interculturale (Hermann 2009: 225). Di conseguenza, sarà suo compito trasformare, nel limite delle possibilità offerte dall’autonomia, l’assetto istituzionale in modo da essere maggiormente inclusiva, anche nei confronti dei genitori stranieri. I benefici che potranno venire da una maggiore consapevolezza in questi termini saranno a favore non solo dei figli di migranti, ma di tutti gli alunni. 38 A tal proposito consiglio la lettura dell’articolo che ho scritto a partire dalla mia ricerca di dottorato, centrata sul lavoro educativo dei Centri Diurni per minori a Verona.

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