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Narrando in Italiano Vincenzo Consolo Laura Pariani Tiziano Scarpa Emilio Tadini MODERANO: Paolo Di Stefano Ranieri Polese

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Narrando in Italiano

Vincenzo Consolo

Laura Pariani

Tiziano Scarpa

Emilio Tadini

MODERANO:

Paolo Di Stefano

Ranieri Polese

Quaderno madre lingua imp 1-10-2003 16:42 Pagina 7

Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:36 Pagina 8

Paolo Di Stefano Il ciclo di incontri che comincia oggi, a cura del-

la Fondazione Corriere della Sera, ha per tema la lingua madre. Che un

quotidiano abbia preso l’iniziativa di trattare questo argomento lasciando

parlare gli artisti, oggi i narratori, e poi, nelle prossime puntate, i poeti in

dialetto, i poeti in lingua e gli scrittori di canzoni, può sembrare un para-

dosso. In effetti il narratore e il poeta, tra i quali, in questo senso diciamo

‘linguistico’, non c’è una grande differenza, non fanno altro che opporsi,

quasi per partito preso, alla comunicazione quotidiana, che è il pane dei

giornali. Vi si oppongono anche quando fingono di accoglierla, la lingua

d’uso, e lo scrittore finisce per essere al contempo familiare ed estraneo

alla propria lingua. In questa tensione consiste la potenza creativa della

letteratura. Sappiamo bene quanto l’inquietudine rispetto alla norma lin-

guistica, a quella che Pasolini chiamava “omologazione”, finisca per esse-

re produttiva non solo in un’ottica di storia della letteratura, ma anche in

un’ottica di storia civile e culturale. Di qui l’esigenza di entrare nel vivo

dell’officina linguistica contemporanea, di chiamare a raccolta scrittori e

poeti, di valutare quasi dal vivo il grado di insofferenza o di ‘sofferenza’

verso la koiné media che avvolge la nostra quotidianità più o meno ‘tele-

visiva’. Insomma, le domande che poniamo ai nostri interlocutori po-

trebbero essere grosso modo le seguenti: fino a che punto, oggi più che in

passato, l’impegno creativo passa attraverso le opzioni linguistiche? Esiste

un italiano che possiamo considerare “madre lingua” a tutti gli effetti, op-

pure esiste soltanto un lingua “matrigna”, un idioma al quale, per forza di

cose, non ci si può sentire del tutto imparentati? Infine, quali escamotages

linguistici può mettere in atto uno scrittore, in una condizione magmati-

ca e avvolgente come quella attuale, per esprimere la propria ‘radicalità’?

Io comincerei con Vincenzo Consolo, uno degli scrittori più sensibili al-

la questione della lingua sin dai primi libri, La ferita dell’aprile e Il sorriso

dell’ignoto marinaio. A questa ossessione di ricerca linguistica e stilistica,

che si traduce in una polifonia, ha fatto seguito, direi, soprattutto nell’ul-

timo libro, Lo spasimo di Palermo, un atteggiamento lievemente diverso.

Vorrei chiedere a Vincenzo Consolo se negli ultimi tempi sente un’esigenza

di maggiore comunicabilità.

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Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:36 Pagina 9

Vincenzo Consolo Io non credo si tratti di una questione di co-

municabilità, credo che il mio processo di ricerca stilistica e formale, che

parte dal momento in cui ho cominciato a muovere i primi passi, sia

fondato sulla scelta di non accettare il codice stilistico dato, quello illu-

ministico, razionalistico o comunicativo che dir si voglia. Era la scelta

praticata dagli scrittori che mi avevano preceduto, quelli che avevano

vissuto il periodo del fascismo e della guerra: mi riferisco a scrittori co-

me Moravia, Calvino, la Morante, sino a Leonardo Sciascia, che era lo

scrittore a me più vicino come riferimento. Dal primo momento ho ca-

pito che non potevo adottare quel codice, che era l’utopia linguistica

manzoniana, non dimentichiamolo, quell’utopia dello “sciacquare i pan-

ni in Arno”.

Mi sono dunque posto lungo l’altra direttrice, dal momento che nella

letteratura italiana ci sono state due linee: la linea espressiva e la linea

comunicativa. Gli altri scrittori avevano sperato, così come aveva spe-

rato Manzoni, che, con la caduta del fascismo e con l’avvento della de-

mocrazia, si potesse finalmente, in questo Paese, comunicare con una

società. Quando io ho cominciato a scrivere, ho constatato il fatto che

non si era realizzata una società con la quale comunicare, non esisteva,

malgrado la democrazia, e quindi la mia scelta è stata in senso espres-

sivo. Ho portato fino alle estreme conseguenze questa mia scelta, attin-

gendo a un patrimonio lin-

guistico quanto mai

prezioso, che è quello

dei depositi linguisti-

ci della mia terra, do-

ve sono passate tutte le

civiltà. Ho creato quindi

innesti, nel codice lingui-

stico dato, di arcaismi, di lingue come il greco, l’arabo, lo spagnolo, il

francese, il latino e via discorrendo. Adesso, con Lo spasimo di Palermo,

che conclude il mio progetto narrativo, sono arrivato a una minore in-

cidenza del mistlinguismo, o della plurivocità, come la chiama Cesare

Segre, adottando un codice che può sembrare comunicativo, ma che è

al contempo ricco di citazioni e risonanze di tipo letterario, interne, vi-

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QUANDO IO HO COMINCIATO A SCRIVERE, HO CONSTATATO IL FATTO CHE NON SI ERA REALIZZATA

UNA SOCIETÀ CON LA QUALE COMUNICARE, NON ESISTEVA, MALGRADO LA DEMOCRAZIA

V. Consolo

Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:36 Pagina 10

sibili o invisibili che siano. Quindi c’è una diversa prospettiva, non più

sul piano dello stile: gli innesti da linguistici diventano letterari e si tra-

sformano in citazioni interne. Questo è stato l’esito mio ultimo.

Ranieri Polese Una scrittrice come Laura Pariani, che in soli nove

anni ha pubblicato otto libri - l’ultimo è in uscita in questi giorni, un ro-

manzo, Quando Dio ballava il tango - è molto attenta alle funzioni del lin-

guaggio e alle contaminazioni. Tipica della sua produzione è la mesco-

lanza: il dialetto lombardo della zona fra Busto Arsizio e Varese si va ad

aggiungere a parole dello spagnolo, del castellano, dei luoghi dell’emigra-

zione, dell’America Latina, dell’Argentina in particolare. Non è soltanto

l’uso di una lingua così polifonica, ma anche un modo di raccontare così

complesso ad avere i suoi inizi, nella produzione della Pariani, con un

esperimento molto interessante: negli anni Settanta, l’autrice scrive e di-

segna storie a fumetti, cosa che le permette in qualche modo di smonta-

re a rimontare la macchina narrativa e di arrivare a quell’uso della narra-

zione e del linguaggio di cui appunto, adesso, ci può parlare.

Laura Pariani La lingua che ho utilizzato è strettamente legata alle

cose che raccontavo; devo dire che – piccolo riferimento biografico - io

sono nata in un paese dove tutti parlavano il dialetto, quando ero bam-

bina, agli inizi degli anni Cinquanta, e sono cresciuta in questo strano bi-

linguismo: gli adulti parlavano in dialetto e noi bambini comprendevamo

il dialetto ma dovevamo parlare in italiano. Ho vissuto poi questa espe-

rienza di emigrazione di Argentina, con l’apprendimento di una lingua

nuova, e quindi il dover imparare a pensare e parlare in un’altra lingua.

Ho vissuto una situazione linguistica complessa, e questo sta alle spalle.

Quando ho cominciato a scrivere il mio primo libro, la prima stesura era

in italiano, o meglio in italiano con riferimenti letterari, sicuramente in-

fluenzato da tante cose che io avevo fatto, in primo luogo dal mio lavoro

sulle immagini, quindi con scelte di inquadrature, e di quel tipo di lin-

guaggio, quel tipo di narrazione che cerca la scena con maggior tensione,

per portarla al lettore. La stesura di Di corno o d’oro non mi piaceva, non

mi riconoscevo, era come una lingua estranea, perché io sono una perso-

na che ha diverse lingue alle spalle, e queste lingue inevitabilmente inter-

ferivano, affioravano. All’inizio ho cercato di censurarle, poi ho capito che

dovevo lasciarle venire in superficie. Infatti, nel primo racconto ci sono le

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mie tre lingue. Ho cercato di inventarmi una lingua che mi permettesse

di usare espressioni e parole di queste altre lingue, se vogliamo, per me

perdute, che poi sono proprie del mio modo di pensare. Chi ha un’espe-

rienza di più lingue sa bene che non è indifferente dire una cosa in una

lingua piuttosto che in un’altra, io mi accorgo che, quando parlo in ca-

stellano, cambio persino la mia maniera di parlare: è la bocca che emette

dei suoni differenti, ma è anche la testa che si muove in altro modo, se-

condo un altro ritmo e con strutture linguistiche che fanno riferimento a

un altro mondo. Ogni lingua è, secondo me, un mondo, una maniera di

pensare e di avvicinare l’e-

sperienza: ogni lingua

esalta certe forme di

esperienza e ne esclu-

de, forse, altre. Ho cer-

cato di lavorare su que-

ste cose, e devo dire che

ho avuto più difficoltà con

il dialetto che con lo spagnolo, probabilmente perché lì valeva la forte cen-

sura in epoca scolastica, che avevo interiorizzato assumendo il dialetto co-

me lingua che non si poteva scrivere. Negli anni Cinquanta, c’era fortissi-

ma questa distinzione fra il dialetto che si poteva al massimo parlare e poi

l’italiano, la lingua della scuola e della scrittura. Ci sono dei suoni in dia-

letto o in castellano, che non esistono in italiano: quest’attenzione alla so-

norità delle parole mi ha portato a ottenere anche nella pagina scritta so-

norità diverse. Per molto tempo ho lavorato su questo: La signora dei por-

ci è il libro in cui mi sono concentrata di più su questo aspetto, sul suo-

no scuro delle parole e della pagina, che per me era anche il modo di spro-

fondare in una materia tanto lontana e tanto difficile come quella della

stregheria del Cinquecento.

Polese Tiziano Scarpa, che anagraficamente è il più giovane degli scrit-

tori e che molto spesso, facendogli in qualche modo torto, è stato catalo-

gato tra i “giovani scrittori”, compagno di strada di varie esperienze degli

ultimi anni, come quella dei cannibali, che ha pubblicato alcuni libri ne-

gli ultimi anni in una collana come quella di Einaudi Stile libero, forte-

mente dedicata ai giovani, è al tempo stesso un narratore, un saggista e a

modo suo, anche un poeta, per via delle traduzioni di alcune canzoni del-

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OGNI LINGUA È, SECONDO ME, UN MONDO, UNA MANIERA DI PENSARE E DI AVVICINARE L’ESPERIENZA:

OGNI LINGUA ESALTA CERTE FORME DI ESPERIENZA

E NE ESCLUDE, FORSE, ALTREL. Pariani

Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:36 Pagina 12

la letteratura americana. Quello che noi vorremmo sapere da Tiziano, che

ha iniziato a pubblicare intorno alla prima metà degli anni Novanta, è se,

quando ha cominciato a pensare di uscire con un libro, si è posto il pro-

blema di quale lingua usare, sia per riuscire a comunicare con un pubbli-

co che sarebbe dovuto essere quello dei giovani, e dei suoi coetanei, sia

per riuscire a esprimere un proprio mondo di strani eccessi, di parados-

si ai limiti del grottesco, vale a dire gli elementi che hanno poi popolato

la sua produzione.

Tiziano Scarpa Ho pubblicato il primo libro nel ’96, vale a dire ho

cominciato a scrivere nel ’94, ma questo ha poco interesse. La lingua non

è il linguaggio, come la fotografia non è la luce, la grana della pellicola

non è il montaggio di un film. Adesso non lo so, ma quando ho comin-

ciato mi affascinava l’intemperanza della lingua, il suo essere eccessiva, il

suo essere impresentabile. Anche qui non è rilevante dove si è cresciuti per-

ché quando uno fa il suo ingresso nella pagina non ha nessuna importanza

da dove venga, secondo me. A ogni modo, mi sento molto un erede, in

quanto italiano, dell’atteggiamento da “funzione Alberto Sordi”. La funzio-

ne Alberto Sordi nella lingua è semplice: l’italiano è un’impostura, è una fal-

sità, è burocrazia, ipocrisia, fregatura, abbindolamento, mentre il dialetto è

sincerità, la verità di ciò che si pensa, però allo stesso tempo è impresenta-

bile, è un signore nudo, grasso con la panza pelosa e i calzini bucati che

puzzano, questo è il dialetto. Quindi questo è Alberto Sordi, che quando

parla, dice la sua, non può fare a meno di contenere certi strappi, certe eru-

zioni, che sono “che te devo dì” mentre sta parlando un italiano assoluta-

mente forbito e impeccabile. Queste eruzioni sarebbero la verità della lin-

gua, la verità della rappresentazione mentale che in quel momento sta ac-

cadendo nella testa dell’italiano. Quindi ha poca importanza che questo sia

il dialetto o sia qualcos’altro, quello che mi dà da pensare è che, quando ho

cominciato, non ha importanza, ripeto, che tipo di sottofondo o di altrove o

di a fianco l’italiano tenessi presente, quello che ha importanza è che tene-

vo presente un di fianco, un sottofondo, un altrove, un eccesso, un di più:

che questo fosse dialetto, fosse parola preziosa arcaica, fosse tecnicismo in-

glese, parola straniera, citazione, imprecisione o addirittura, perché no, pa-

rola crassa, parolaccia, questo mi affascinava e mi affascina tuttora (anche

se forse si cambia, ma questo non ha importanza).

Direi che, se questo ha importanza per un noi, per una comunità - per-

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ché poi gli scrittori sono sempre idiosincratici, non rappresentano altro

che se stessi, quindi è un po’ imbarazzante parlare di sé e del proprio

rapporto con la lingua, è come parlare del proprio rapporto con l’at-

mosfera, è come se io ne avessi uno particolare, mio e soltanto mio: re-

spiro… Però, appunto, se devo parlare del mio rapporto con la lingua,

dico questo, forse può avere

qualche minimo interesse

per noi italiani. Io penso

che viviamo un momen-

to, che dura in realtà da

tantissimo, in cui abbia-

mo l’impressione che le co-

se accadano da un’altra parte,

e questo succede anche nella lingua: per la funzione Alberto Sordi, ap-

punto, si crede che la verità succeda nel dialetto o addirittura nei gesti.

Pensate a un americano, che non ha alcun bisogno di usare parole stra-

niere. È divertentissimo pensare a quello che succede adesso nell’eco-

nomia, nel mondo del linguaggio tecnico- aziendale, dove sono in uso

espressioni del tipo “per la situazione attuale e per la prospettiva futura”:

gli americani non usano “situazione attuale”, bensì il tecnicismo “as is”,

e per dire qual è la previsione futura, prospettive di vendita, allarga-

mento della clientela, dicono “to be”. Non delle parole assurde, o cer-

vellotiche: as is, come è, e to be, quello che sarà. Già la traduzione “aspet-

tativa” è troppo cervellotica rispetto alla semplicità di un to be.

L’americano parla dunque un linguaggio tecnico, sentendosi al contem-

po perfettamente a proprio agio, come in pantofole nella lingua. Noi,

quando parliamo, abbiamo, vuoi verso il basso della parolaccia o del

dialetto, vuoi verso l’alto del tecnicismo o della parola impomatata, una

sorta di terror panico che ci fa scappare altrove. Persino la letteratura

italiana del Novecento, nella sua funzione gaddiana, continiana, ha tro-

vato il valore dell’italiano non nell’italiano medio, semplice, ma nell’ar-

caismo, nel preziosismo, nel sinonimo ricercato. Ora, come bilancio su

me stesso (non è una palinodia, ma un’autocritica) questo disagio l’ho

patito anch’io, per quanto questo possa essere rappresentativo: si tratta

di un sintomo del non sentirsi mai veramente seduti col culo tutti sul-

la sedia dove si è, non sentirsi mai a proprio agio dove si è, sentire che

si sta dicendo qualcosa ma non abbastanza, sentire che la verità, o il

14VIVIAMO UN MOMENTO, CHE DURA IN REALTÀ

DA TANTISSIMO, IN CUI ABBIAMO L’IMPRESSIONE

CHE LE COSE ACCADANO DA UN’ALTRA PARTE, E QUESTO SUCCEDE ANCHE NELLA LINGUA

T. Scarpa

Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:36 Pagina 14

punto dove noi sentiamo che la nostra intensità è d’accordo con se stes-

sa, è altrove rispetto a quello che noi diciamo. Questo, volendo essere

un po’ spirituali o spiritualisti, penso possa significare l’uso che ho fat-

to finora della lingua.

Di Stefano Emilio Tadini è pittore, critico d’arte, narratore, poeta, ha

scritto testi teatrali, si trova quindi a usare linguaggi, codici, registri di-

versi. All’interno della sua produzione narrativa c’è, ad esempio, questa

escursione notevolissima dall’alto al basso: l’ultimo romanzo, La tempesta,

è una continua traduzione dal registro del protagonista Prospero, preso

dalla sua follia, in un registro sempre più basso, cronachistico, da gior-

nalista. Siamo sempre nella “funzione Gadda” o c’è qualcosa di diverso?

C’è un’alternativa alla funzione monolinguista petrarchesca italiana e alla

funzione espressiva, espressionista, espressivista, come dice Contini?

Emilio Tadini Mi piacerebbe inserire una citazione all’inizio delle

chiacchiere che mi accingo a fare, ed è una frase di Van Gogh, che peral-

tro vorrei mettere nel libro che sto finendo adesso, un libro scritto in mo-

do molto diverso dagli altri. La frase di Van Gogh è molto bella: il pitto-

re, rendendo conto del lavoro fatto soprattutto negli ultimi anni, quando

va al Sud, in Provenza, e comincia a dipingere in modo molto più acce-

so, dice: «Non me n’è importato assolutamente niente della verità del colore».

Si tratta di una frase molto semplice, ma bellissima, per la verità. Intanto

è interessante vedere come nessuno di noi si porrebbe davanti a un qua-

dro pensando di parlare di qualcosa che non sia esattamente il materiale

linguistico che lì entra in azione. Sì, si può parlare anche di iconografia;

ma davanti a un quadro di mele di Cézanne, nessuno di noi penserebbe

che il discorso potrebbe esaurirsi nel fatto che si tratti di mele e di una

natura morta: evidentemente la materia di cui è fatto è essenziale. A vol-

te sembra che non sia così per la letteratura: sembra che la lingua sia da-

ta, sia materiale a disposizione e ciascuno possa farne quello che vuole.

Invece non è così, naturalmente. Anche la lingua va letteralmente inven-

tata. Nessun pittore si trova davanti un codice che può portare avanti tran-

quillamente: sì, lo può fare, ma diventa imitatore di qualcuno, è iscritto

in una scuola e non innova. Se ha questo scrupolo di innovare, deve la-

vorare la lingua in modo da farne qualcosa di suo. Dov’è dunque quella

verità della lingua rispetto a quella verità del colore che Van Gogh diceva di

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aver disprezzato? Quella stanza non è più blu acceso ma un azzurro pa-

stello, e Van Gogh la fa diventare un oltremare profondo. Dov’è dunque

la verità della lingua? La verità è imprendibile, in realtà. Quando, per esem-

pio, Scarpa parla di dialetto, ne parla in modo completamente diverso da

come potrei fare io, perché - e lì ora conta, sì - Scarpa è nato a Venezia e

cresciuto a Venezia, dove il dialetto è del tutto naturale oggi; per me, mila-

nese nato a Milano da genitori milanesi, il dialetto è una innaturalità, qual-

cosa che io parlo perché mi diverte, qualcosa che tengo vivo artificialmen-

te, ma: chi lo parla, in una città in cui la lingua si è mescolata, sono inter-

venuti mille apporti diversi? Io penso che ogni scrittore, bene o male, nel-

la misura che gli è concessa, non può che tentare di inventare una lingua,

di creare uno strumento che gli consenta, se, fortuna sua, sarà grande, di

dare alla lingua comune qualcosa di nuovo.

Io ho cominciato a scrivere folgorato dalla pagina di Faulkner, che mi sem-

brava, e mi sembra ancora adesso, tra l’altro, una delle più grandi scritture

del secolo, e si tratta di una scrittura completamente inventata, Faulkner

scriveva con in una mano la Bibbia e nell’altra, probabilmente, Shakespeare,

riuscendo a trarne una lingua moderna e straordinaria. Ma non è che i

Quarantanove racconti di Hemingway siano scritti in una lingua più vera,

più simile alla verità della lingua di Faulkner. Céline diceva che rendere il

parlato nella scrittura è la cosa più difficile del mondo, perché bisogna ri-

costruirlo per farlo sembrare vero. A questo proposito, faceva un esempio

bellissimo: se mettete un bastone nell’acqua, il bastone sembra storto, per

farlo apparire dritto, bisogna romperlo. Così è con la verità della lingua: per

farla sembrare vera bisogna davvero spezzarla e cercare di rifabbricarla.

Questo naturalmente fa avanzare tutte le indispensabilità e i limiti di chi lo

fa, ma se qualcuno riesce a farlo bene, che lo faccia pure.

Di Stefano Tornerei a Vincenzo. Vincenzo, tu citavi tempo fa in un’in-

tervista una frase di Roland Barthes, piuttosto bella, in cui si leggeva che

la lingua non è regressiva e non è progressista, la lingua è fascista, punto

e basta. Oggi, secondo te, la lingua comune, con cui gli scrittori devono

fare i conti, è più fascista di prima, come direbbe forse Pasolini, o no?

Consolo La lingua italiana? Fascistissima. L’affermazione di Barthes

partiva da molto lontano. C’era una concatenazione che partiva da

François Fénelon, studioso della lingua francese. Questa lingua ha avuto

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un privilegio: è stata riformata fin dall’età di Luigi XIV, diventando così

lingua nazionale. Si era infatti formata una società, uno Stato, e di conse-

guenza una lingua di grande comunicabilità. Fénelon dice appunto che la

lingua francese, che Leopardi definisce “geometrizzata”, sembrava una

processione di collegiali. A Fénelon si oppone Jules Renard, il quale dice

che la lingua francese sarà incapace di assurdi, però è una lingua “demo-

cratica”. Barthes, nella lezione inaugurale al Collége de France, si oppone

a sua volta all’affermazione di Renard, sostenendo che il suo non è un er-

rore storico bensì un errore strutturale, in quanto la lingua in sé non è né

progressista né reazionaria, bensì per natura fascista. Il suo “fascismo” con-

siste non nel fatto che proibisce di dire, bensì nel fatto che impone di dire.

Nello Zibaldone di Leopardi è presente un continuo confronto tra la lin-

gua italiana e la lingua francese: anche Leopardi riprende questa frase di

Fénelon, sostenendo a questo riguardo che la lingua italiana non è una

lingua bensì tante lingue. Infatti, almeno fino all’analisi, condotta da

Pasolini nel ’64, della mutazione linguistica italiana, in Italia c’erano tan-

te lingue, insieme a un’aspirazione verso una lingua unica, che forse si era

raggiunta nel Rinascimento; in seguito, tuttavia, si era verificato il deflui-

re verso le periferie delle “tante lingue”.

Dopo l’analisi di Pasolini, abbiamo finalmente questa lingua italiana na-

zionale, imperniata su questo asse che si sposta dal centro-meridione al

centro-settentrione; la nostra diventa una lingua tecnologico-aziendale.

Sono passati da allora quasi quarant’anni e, con l’operazione compiuta sul-

la lingua dai mezzi di comunicazione di massa, la lingua, da essere ‘ma-

dre’, è diventata ‘matrigna’: è una madre libertina perché si dà a tutti, so-

prattutto agli americani, è una lingua fragilissima, continuamente invasa

da questo gergo anglosassone.

Anche sulla lingua americana,

di cui parlava Scarpa, c’è da

fare un’analisi: Giuseppe

Antonio Borghese, nel ’31

sosteneva che l’americano

non è più l’inglese, non è

più la lingua di Shakespeare,

ma è una lingua che tende al

monosillabico, perché è una lingua utilitaria, frutto di una società mer-

cantile, che ha bisogno di economizzare. Il nostro è un retroterra diverso,

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CON L’OPERAZIONE COMPIUTA SULLA LINGUA

DAI MEZZI DI COMUNICAZIONE DI MASSA, LA LINGUA, DA ESSERE ‘MADRE’, È DIVENTATA ‘MATRIGNA’: È UNA MADRE LIBERTINA PERCHÉ SI DÀ A TUTTI

V. Consolo

Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:36 Pagina 17

è un retroterra umanistico, noi per esprimere usiamo un’articolazione pro-

fonda, molto ampia, anche dal punto di vista del significante. Apro una

parentesi: c’è stato uno scrittore greco, Vassilis Vassilikos, che a proposi-

to del monosillabo diceva che anche i cognomi dei presidenti americani

partono da quattro sillabe di “Eisenhower” per arrivare oggi al monosilla-

bo di “Bush”. Non è più il caso di parlare di dialetto o di lingua: quando

si parla di dialetto bisogna capire bene a cosa si fa riferimento, se ancora

a ciò che Dante, nel De vulgari eloquentia, chiamava “lingua di primo gra-

do”. Ogni volta lo scrittore si chiede: in quale lingua devo scrivere? Noi

non abbiamo mai avuto una lingua nazionale, oggi abbiamo questa lin-

gua così rigida, così impoverita e superficiale… Quindi, in letteratura, co-

me si fa ad acquisire uno strumento linguistico nostro, se il dato è in sé

così inadeguato? I francesi hanno avuto questa lingua unica che era espres-

sione di una civiltà, ma al suo interno poeti e scrittori francesi hanno tro-

vato infinite modulazioni, che arrivano con Queneau al desiderio di rom-

pere questo codice. La nostra storia è diversa: l’unità d’Italia è del 1860,

abbiamo avuto la grande mutazione antropologica sul finire degli anni

Cinquanta e all’inizio degli anni Sessanta, quando questo Paese diviene,

da contadino che era, una della maggiori potenze economiche mondiali.

Per carità, tutto è ben arrivato, ma è un prezzo, dal punto di vista cultu-

rale e linguistico, che abbiamo pagato, un prezzo molto alto.

Scarpa Non sono per niente d’accordo, perché questo discorso lo sen-

to fare da quando andavo a scuola, però quando andavo a scuola aprivo

la Divina Commedia, leggevo una cosa che ha, se non sbaglio, sette seco-

li, e la capivo perfettamente. È curioso che gli scrittori e i letterati italiani

parlino di una lingua nazionale e si riferiscano a una letteratura che ha un

secolo, un secolo e mezzo come quella americana. Noi una lingua nazio-

nale ce l’abbiamo da circa duemila anni, con uno sforzo moderato capia-

mo il latino e comunque, con un minimo impegno, capiamo monumen-

ti letterari, ma anche documenti senza alcuna pretesa linguistica, che han-

no circa sei, sette, otto secoli. Questo discorso assolutamente mi è in-

comprensibile, è una curiosa e divertente proiezione, anche qui, della

propria insoddisfazione nello stare in una atmosfera linguistica, che non

si sente come propria. Ma forse è un modo di marcare a tutti i costi una

differenza, forse è una questione di individualismo, nel senso che ogni

epoca, ogni regione, ogni scrittore ci tiene, tutto sommato, a dire: “Ma io

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Quaderno madre lingua imp 29-08-2003 14:36 Pagina 18

non mi disciolgo né nel tempo, né nello spazio, io sono diverso, non so-

no soddisfatto della lingua del noi e mi ritrovo solo in una lingua dell’io

tutta da inventare di volta in volta”. Quando poi è evidente che la realtà

oggettiva dei fatti è smentibile, non servono nemmeno i manuali di lette-

ratura, è lì sotto gli occhi, se io recito sei versi di Dante ci capiamo tutti.

Non altrettanto accade per tutte le letterature mondiali, dalla prima al-

l’ultima. Quindi la cosa mi è un po’ incomprensibile. Se, per esempio, io

leggo questa prefazione, cinque righe, scritti da B. M. Quartu, non so

neanche chi sia, uomo, donna, ma non ha importanza, ciò che è impor-

tante è che l’autore si opacizza come individuo per fondare l’autorevolez-

za di un Dizionario dei sinonimi, in questo caso, pubblicato dalla BUR, dif-

fusissimo, alla seconda edizione dopo numerosissime ristampe. Nella pre-

fazione alla seconda edizione, scrive una cosa che a me ha fatto saltare sul-

la sedia: «Non ho comunque trascurato di inserire importazioni linguistiche a

mio avviso sensate, o a volte mio malgrado, troppo accreditate perché le igno-

rassi. Quanto ai neologismi, con prudenza, a denti stretti posso tollerare un “au-

dioleso” per definire un sordo, ma non ci sarà barba di ministro che mi farà ac-

cettare un “preverbale” per un muto». Già qui c’è una situazione di conflit-

to, perché la lingua è conflitto, è darwinismo, è inutile che parliamo, è

lotta feroce di una parola contro l’al-

tra. Sentite questa: «A parte le mie

personali manie di purezza nei con-

fronti di una lingua che, benché po-

co diffusa, è tra le più mature e per-

fezionate al mondo, - e qui sono

completamente d’accordo - non a

caso suscita da sempre le ricerche l’inte-

resse degli studiosi, so bene che il mio libro – notate, un dizionario - ha un ta-

glio talmente classico da sembrare vecchio, però, non me ne importa niente, è

così che va fatto, e, in fin dei conti, è mio». Questo è un dizionario, come

può essere ‘tuo’ ?!? Ma la lingua non è tua. Se persino un autore o autri-

ce di dizionario si comporta in maniera così individualistica, idiosincrati-

ca nel porsi nei confronti di una lingua, che lo facciano gli scrittori non

mi stupisce.

Consolo Ma non puoi portare come esempio un peregrino come que-

sto qui.

19

LA LINGUA È CONFLITTO, È DARWINISMO, È INUTILE CHE PARLIAMO, È LOTTA FEROCE

DI UNA PAROLA CONTRO L’ALTRAT. Scarpa

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Scarpa Ma come?! Un peregrino?! Questo è il più bel dizionario dei si-

nonimi che esista, io ho portato questa edizione nuova perché l’altra è tut-

ta sfasciata e consumata, tanto l’ho usata.

Consolo Il dizionario dei sinonimi non esiste, ci ha provato anche il

Tommaseo a comporne uno, senza riuscirvi.

Scarpa Non esisterà per Lei, io lo uso eccome.

Consolo I sinonimi si reperiscono attraverso le radici filologiche, non at-

traverso i dizionari, non si possono codificare i sinonimi. I sinonimi del

Tommaseo non sono consultabili perché sono assolutamente inattendibili.

Scarpa Infatti io non uso i sinonimi del Tommaseo. Non si tratta di at-

tendibilità. Conflitto non è sinonimo di ecumenismo.

Tadini Io non capisco bene la tua posizione, non è un artifizio retorico

dire che non la capisco davvero: tu sei partito parlando dell’estraneità di

noi che usiamo la lingua italiana rispetto a qualcosa che succede spesso

altrove, e adesso mi sembra che invece rifiuti la posizione di chiunque vo-

glia innovare perché sostieni che c’è uno strumento perfetto che è lì e ci

rende persino comprensibile la poesia scritta secoli e secoli fa, cosa vera-

mente unica nel mondo, ed è vero. E allora non capisco bene come le due

posizioni vadano insieme, non capisco questo tuo insorgere contro la pre-

tesa dello scrittore di non usare uno strumento che gli viene dato e di rein-

ventare qualcosa. Tolta ogni presunzione all’atto di inventare, non soltan-

to tutti i poeti, gli scrittori e i musicisti hanno sempre tentato di farlo, ma

addirittura, i fabbriferrai o i falegnami. L’innovazione nella fabbricazione

di qualcosa non è un atto di presunzione individualistica, ma è l’adeguarsi

a una norma del fare che investe tutti

i campi. Come si fa a parlare in que-

sto modo in un momento in cui si

denuncia sempre più forte – ma

in fondo è sempre stato così - il

mutare delle lingue? Noi poi sia-

mo sempre pronti a piangere sulle

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SIAMO SEMPRE PRONTI A PIANGERE

SULLE LINGUE CHE MUOIONO E NESSUNO

SI RALLEGRA PER LE LINGUE CHE NASCONO, E NE NASCONO CONTINUAMENTE

E. Tadini

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lingue che muoiono e nessuno si rallegra per le lingue che nascono, e

ne nascono continuamente. Anche questa storia dell’americano che è fat-

to solo per i monosillabi, ma insomma, se guardiamo alla letteratura ame-

ricana contemporanea dalla fine dell’Ottocento a oggi, troviamo testi

straordinari che non sono pensati affatto per la lingua degli affari, ma ela-

borano creativamente una lingua. La lingua che dai Quarantanove racconti

passa a Carver non ha niente a che fare con l’americano utilitaristico, e

ha dato all’inglese una vitalità straordinaria e portentosa. Certo è sgra-

devole che uno dica : “Io sono lo scrittore e prendo questo strumento

amorfo che è la lingua e la creo demiurgicamente secondo la mia volon-

tà”. No, certo, però che la lingua sia mobile e fluida, che a questa mo-

bilità e fluidità possa contribuire qualcuno che scrive una mezza pagi-

netta, non vedo perché no.

Scarpa Ah, è una domanda a me… Io non dico questo assolutamen-

te, io dico soltanto che la posizione di lamentazione sulla lingua italiana

è ormai un cliché, è cerimonia che nasconde una quantità o di impensa-

to o di cattiva coscienza, non di cattiva fede, perché una lingua italiana

c’è, mobilissima, che è stata unificata nelle sue linee principali - se poi par-

liamo di dettagli lessicali, o lessicografici, possiamo anche discutere - pe-

rò, di fatto, una lingua c’è. Io dico semplicemente che esiste la condivi-

sione di una lingua, da moltissimo tempo, e non è lì il problema, non è lì

la ferita, non è lì l’impossibilità, non è lì la chiusura. Se mai, trovo nell’i-

taliano, nella sua ricchezza, nella sua profondità e nella sua inquietudine

plurisecolare un’apertura, non una chiusura. Non vedo perché dire, e con-

tinuare a dire: noi non abbiamo questo a differenza degli altri. Quanto al-

l’innovazione, dire che c’è sempre stata non è vero, l’ha inventata l’arte

moderna, l’innovazione, fino a un certo secolo, ma non voglio essere ma-

nualistico, il valore stava nell’imitazione e non nell’innovazione.

Tadini Ma no, se guardi la storia dell’arte come fai a dire così? Il corpo

dell’uomo è sempre stato quello che è, eppure è stato raffigurato in modi

talmente diversi, opposti….

Scarpa Ma non è sempre nato da un desiderio di superamento.

Quando si parla di innovazione nel nostro secolo, si intende una deli-

berata posizione di volere differenziarsi e identificarsi, fondare la pro-

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pria identità attraverso uno scarto. Io trovo che linguisticamente que-

sto rappresenti una partita persa, e che gli scrittori italiani che punta-

no sulla differenziazione nella lingua, giochino una partita persa, per-

ché è altrove la partita da giocare, non è l’identità nella lingua quella

da giocare, nella differenza stilistica, significa dare e trovare nella let-

teratura una debolezza, un depotenziamento che brucia e divampa ed

esibisce se stesso solamente nella qualità e nello scarto linguistico.

Giocare questa partita puramente nella lingua secondo me è perdente,

perché significa che non si ha altro da esibire e da giocare come scrit-

tore e come artista.

Polese A questo punto, accogliendo le frasi giustamente provocatorie

di Tiziano…

Scarpa Ma no, non sono provocatorie, dire così sembra che uno lo fa

apposta…

Consolo L’impero economico ha schiacciato questa lingua riducendo-

la a un pattume tale per cui voi giovani accettate questa società e la lin-

gua che viene da questa società, perché accettate il potere economico che

sta alle spalle, il potere economico che viene da fuori.

Voce dal pubblico Scarpa detesta gli intellettuali che vanno a sciac-

quare i panni nella Senna.

Scarpa Cosa vuol dire questo, non colgo l’allusione.

Voce dal pubblico Vuol dire che tiene alla sua lingua e che non va

cercando apporti a destra e a sinistra, tiene alla sua lingua e al suo modo

di esprimersi e basta…

Consolo Io dico che da ora in poi, in questa lingua dove i gerghi ven-

gono a rompere il codice dato, noi dovremo fare i conti con i migranti lin-

guistici. La Pariani ha parlato della sua avventura linguistica proprio per-

ché ha vissuto una vicenda di emigrazione. I nuovi emigranti linguistici

che vengono nel nostro Paese vengono a cambiare la nostra lingua final-

mente non schiacciandola dall’alto, ma attraverso un meticciato linguisti-

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co che è su un piano di parità. Nuove memorie linguistiche verranno, for-

se, a salvare questa nostra lingua.

Scarpa Ma perché salvare, cosa c’è da salvare?

Consolo Ma perché è una lingua che sta morendo!

Scarpa Ma se finalmente la parliamo! L’unica cosa buona che ci ha

dato la TV è che ci ha fatto imparare l’italiano: ma perché allora spu-

tare sull’unica cosa buona, e perché considerarlo un potere imposto,

fascista! Salvare da che, da quale catastrofe? Siamo qui, ci capiamo….

Voce dal pubblico Salvare dall’appiattimento!

Scarpa Ma quale appiattimento?

Voce dal pubblico Quello televisivo, per esempio!!! Un conto è

andare indietro fino agli anni Cinquanta, quando c’era il maestro che an-

cora insegnava l’italiano, ma mi sembra un po’ poco accontentarsi di que-

sto per affermare che la televisione abbia avuto un ruolo positivo.

Scarpa Non c’è dubbio. Il costo è stato altissimo, però, voglio dire, se

io compro un panino a dieci milioni, non è che, perché l’ho pagato dieci

milioni, lo butto via: almeno questo panino, l’unica cosa buona che mi è

venuta da questi dieci milioni, lo mangio, no? Mi sembrerebbe altrimen-

ti autolesionistico. Siamo d’accordissimo sul fatto che la televisione abbia

compiuto disastri sociali, disastri dell’anima, fino alla catastrofe politica,

e non credo di dire nulla di strano o di estremistico in questo, però c’è

una cosa, fra le centomila, che ha dato, cioè l’unificazione linguistica, per-

ché su quest’unica cosa, perché sputarci sopra?

Seconda cosa: la lingua della Tv non sempre è una lingua appiattita. Gli

eroi televisivi nonostante tutto, sono retori, sono cavalieri della parlanti-

na: presentatori, moderatori, agitatori, provocatori, cos’altro sono se non

detentori della lingua, straordinari emittenti di sinonimi, di complessifi-

cazione, di screziature, di varietà linguistiche? Arrivo a dire, anche i pre-

sentatori di varietà, cos’altro sono, cos’altro hanno se non una forma di

reattività alla Demostene o di facondia ciceroniana? È la facondia quella

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che fa guadagnare i miliardi in TV, la parlantina ha un valore spettacola-

re, la lingua non è affatto morta da questo punto di vista.

Voce dal pubblico Credo che la televisione abbia avuto un ruolo

importante, all’inizio certamente, e non è possibile disconoscerlo. Ciò che,

secondo me, la lingua italiana dovrebbe recuperare, è quell’emotività del-

la trasmissione della parola, che non ha solo una funzione di comunica-

zione immediata e basta. Se la parola è un mezzo per produrre emozio-

ne, questo è un ruolo che spetta non solo alla parola poetica letteraria, ma

anche alla parola di comunicazione. Ciò che si potrebbe fare è attingere

dal dialetto questa immediatezza, cosicché la bella immagine che Lei ci ha

dato del dialetto come uomo grasso e puzzolente, si trasformerebbe im-

mediatamente nel volto di una dea bellissima.

Di Stefano Scusi signora, vorrei fare una domanda a Laura Pariani.

Non per aggiungere elementi polemici a ciò che si diceva prima, ma io

apprendo stasera - e non sono assolutamente d’accordo - che la lingua ita-

liana sia stata un lingua immobile da Dante ad oggi. Ma se noi abbiamo

bisogno di apparati, per leggerla, abbiamo bisogno di traduzioni, mentre

i francesi non hanno bisogno di nulla per leggere Villon! Credo proprio

che sia questo elemento di sostrato molto ricco, storico, che porti ancora

oggi, nel Duemila, molti scrittori italiani a fare lavori di scavo e di ar-

cheologia. Laura Pariani, che ne pensa?

Pariani Io penso prima di tutto che la questione della lingua non esi-

sta soltanto in Italia: anche negli altri Paesi, ogni scrittore si pone il pro-

blema della lingua in cui scrivere. Inoltre, ci troviamo in un momento in

cui si parlano tante lingue, e tante lingue si arricchiscono, io sono molto

positiva su questo cambiamento che sta avvenendo nella lingua italiana,

anche a opera degli scrittori:

anche, voglio dire, ma non

solo. Gli autori usano la

lingua scritta, ma noi di-

mentichiamo che l’italia-

no è anche la lingua del-

la comunicazione parlata.

Io sento molto forte la que-

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IO PENSO PRIMA DI TUTTO CHE LA QUESTIONE

DELLA LINGUA NON ESISTA SOLTANTO IN ITALIA:ANCHE NEGLI ALTRI PAESI, OGNI SCRITTORE SI PONE

IL PROBLEMA DELLA LINGUA IN CUI SCRIVEREL. Pariani

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stione del dialetto, sento il dialetto come lingua dell’appartenenza, lingua

materna, a cui sono molto legata per motivi affettivi, ma amo moltissimo

l’italiano, sento come lingua mia, come posso sentire mie altre lingue che

parlo abbastanza bene e con cui mi trovo a parlare e pensare. All’interno

delle nostre esperienze linguistiche ci sono tuttavia delle preferenze, che

vengono fuori in alcuni momenti. Borges, grande scrittore argentino, rac-

contava che il primo libro che aveva letto era stato il Don Chisciotte in in-

glese, perché nella sua esperienza, come lingua materna, aveva l’inglese.

Poi gli capitò, anni dopo, di leggere il Don Chisciotte in castellano ed ebbe

l’impressione che si trattasse di una brutta traduzione. È un aneddoto che

mi sembra condensi la tensione fra la lingua in cui siamo stati allevati e

la lingua che poi leggiamo e in cui magari scriviamo: Borges ha inventa-

to poi il miglior castellano. È un’esperienza che io vedo anche nella lette-

ratura europea, molti scrittori hanno scritto in un’altra lingua, penso a

Kafka, Conrad, Nabokov: è una bella esperienza questa, io non la vedo

legata solo a questa nostra storia italiana di tante lingue, del volgare fio-

rentino e delle sue vicende, anche se sicuramente dal punto di vista sto-

rico la questione della lingua è la questione che nella scuola accompagna

tutto il nostro studiare letteratura. Tutto qui.

Consolo Volevo fare una postilla a quello che ha detto Laura a propo-

sito di Borges. C’è stata una polemica fra Borges e uno scrittore spagnolo

che per ragioni di antifascismo era andato a finire in Argentina, Castro, il

quale in un saggio sosteneva che l’argentino è un castigliano corrotto.

Borges si è risentito e nelle Nuove Inquisizioni ha scritto proprio una

Risposta al Dottor Américo Castro, sostenendo che l’argentino era un casti-

gliano purissimo e non un castigliano corrotto. Quindi la questione della

lingua esiste dappertutto. Tuttavia, la lingua italiana ha alcuni svantaggi,

come per esempio il fatto che non ha molti parlanti: se si pensa allo spa-

gnolo, al francese e all’inglese, che hanno dei bacini di parlanti enormi…

La nostra lingua si parla solo in questa stretta penisola che si chiama Italia,

forse la nostra debolezza dipende anche da questo.

Tadini Io vorrei però tirare in ballo ancora una volta Tiziano, perché

quando io leggo le sue pagine, leggo una creazione linguistica! Non c’è

niente da fare, è inutile che tu ora venga qui a fare il frate francescano che

“accetta uno strumento che gli si dà”, tu sei uno che innova la lingua che

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trova intorno a sé, te ne servi come un materiale, la cambi. La muti. Tu

parlavi di “scarto”: ma perché scarto? Scarto da che cosa? Colpevolizzavi

questo scarto da una lingua che c’è, nobilissima, oltretutto adesso diffusa

e unificata dalla televisione, dunque indicavi un po’ come un peccato mor-

tale questo individualismo dello scrittore, il quale si permetterebbe di vio-

lentare questo strumento perfetto che gli è dato. Ma io, quando leggo le

tue pagine, avverto proprio questo scarto da tutto ciò che ho intorno, sen-

to che ti servi della lingua come di un materiale. Ecco perché ti ho tirato

in ballo, perché leggo le tue pagine.

Scarpa Non vorrei giocare un ruolo che non è il mio… C’era un’in-

surrezione di interventi…

Voce dal pubblico A difesa di Scarpa, e mi scusi Consolo, che ri-

spetto molto, la nostra lingua affonda le sue radici non solo in Dante: non

dimentichiamoci la commedia dell’arte, che ha portato in giro per l’Europa

il nostro italiano, non dimentichiamoci Goldoni, non dimentichiamoci Da

Ponte con tutti i suoi libretti. La musica parlava italiano, Stendhal è ve-

nuto in Italia, tutta l’Europa colta parlava italiano. Si tratta di una lingua

bellissima…

Tadini Ma credo che l’oggetto del contendere non sia la bellezza della

nostra lingua, o la sua nobiltà, si sta parlando della lingua oggi, in Italia,

che cos’è, come la si usa e cosa fa uno scrittore con l’italiano! Il punto è

cosa fa uno scrittore oggi in Italia avendo a disposizione questa lingua. Io

credo che non sia molto diverso da quello che fa chiunque, perché an-

che uno scrittore americano compie lo stesso lavoro di rielaborazione lin-

guistica. Anche la nazione più potente, più ricca, più forte, non offre agli

scrittori uno strumento dato da prendere e usare. Non ti danno un kit in

cui sono disposte tutte le particelle elementari e tu le metti insieme: sono

lì! Pensa alla dialettica profondissima che c’è nella letteratura americana.

Dov’è, qual è il letterato americano? Chi? Ma se sono così diversi! Tu pen-

sa che forsennato tentativo di regolare una lingua che si dà come stru-

mento ovvio di chi oggi ha in mano il mondo!

Scarpa Grazie per l’intervento, che non credo fosse soltanto un’enu-

merazione di glorie letterarie, ma mi sembra che individuasse soltanto una

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prospettiva storica meno angusta di quello che siamo abituati a fare og-

gi quando giochiamo questo gioco a chiudere: ma l’italiano è parlato

da pochi, è parlato da troppo poco tempo, e così via, è tutto un gioco

a chiudere, che a mio avviso porta a piccoli tunnel e cantucci: allora

godiamoci il dialetto, allora aspettiamo il sangue barbaro linguistico,

che venga a rivitalizzare… è ancora un gioco a chiudere. Il discorso,

secondo me, è questo, anche se non vorrei personalizzare: nei miei pri-

mi libri ho accolto, come, non a caso, tutti gli scrittori qui presenti, la

vertigine, una lingua «con tante voglie quante una donna incinta», dice

Tadini ne La tempesta. Credo che, nel mio piccolo e nell’efflorescenza

e nello stile lussureggiante degli autori qui presenti, le lingue che usia-

mo o abbiamo usato nutrissero tutte quest’inquietudine, patissero que-

st’ansia di incorporamento di linguaggi diversi, di andare altrove, di

scappare dall’italiano, in varie direzioni, giovanilistiche che le si voglia

chiamare, o arcaicizzanti. Secondo me, tutto il Novecento ha detto, e

anche prima: attenzione, la lingua è pensiero, linguaggio, la lingua non

è uno strumento, non si usa la lingua, la lingua è un mondo, è una di-

rezione della mente, è un’ideologia, fascismo, al limite. È in ogni caso

un’ipoteca: se tu parli, guardi a ovest, a nord, alle spalle ti lasci qual-

cosa, chiudi un orizzonte. Bene. Questo l’abbiamo imparato, lo sap-

piamo. Vogliamo adesso, diamine,

che finalmente abbiamo una

lingua con la quale ci ca-

piamo tutti, USARLA,

fare questa enorme hybris,

infrangere il tabù del

Novecento, quando tutto

quello che hanno proclama-

to le estetiche e le linguistiche

del Novecento è che la lingua non si può USARE. Non può essere un’inno-

vazione paradossale, artistica, quella di, finalmente, USARE l’italiano, e non

semplicemente goderlo nella sua letterarietà stilistica? Altrimenti secondo me,

godere l’italiano letterariamente, è una partita persa, perché significa chiu-

dersi nel cantuccio…

Tadini Nessuno pensa che lavorare la lingua sia questo godimento che

tu adesso caricaturavi.

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NON PUÒ ESSERE UN’INNOVAZIONE PARADOSSALE,ARTISTICA, QUELLA DI, FINALMENTE, USARE

L’ITALIANO, E NON SEMPLICEMENTE GODERLO

NELLA SUA LETTERARIETÀ STILISTICA?T. Scarpa

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Scarpa Io dico soltanto che puntare su questo è costoso. Ecco: è co-

stoso.

Tadini Quando dici usiamo l’italiano, io vorrei sapere qual è, come te

lo chiederei se fosse francese, o inglese. Qual è questo riferimento così

preciso che ti fa dire: usiamolo. Chi può dire: usiamo QUESTO inglese.

Ma chi? Quale scrittore può dirlo, dovunque? Le lingue sono così com-

plesse, articolate, alte basse, gergali, letterarie. Io stento a individuare que-

sto modello che tu indichi e di cui dici: USIAMOLO.

Di Stefano Emilio, puoi dirci che tipo di opzione linguistica ci sarà

nel tuo prossimo romanzo?

Tadini È sull’assoluta contemporaneità, mette in scena dei giovani. Cito

per questo Van Gogh: ho cercato di creare un linguaggio basso quotidiano,

che non esiste in realtà... Ma, per l’amor di Dio, se io leggo una pagina di

Céline, non sto mica sentendo echeggiare i discorsi delle strade di Parigi.

Sento una creazione letteraria straordinaria, che mi dà l’analogo, simbolico

o immaginario, esattamente di un certo mondo. E Céline, cosa fa? Usa un

francese DATO? Grazie al cielo no. E poi dove sarebbe? Se Valery è il fran-

cese, allora Gide non può esserlo. È così multipla, multiforme una lingua,

oggi soprattutto, quando a determinarla intervengono tanti mezzi; la tele-

visione non ha definito l’italiano una volta per tutte. È vero, ha contribuito

a far capire una koiné molto

elementare, indirizzandola

a tutti, e questo è molto

importante. È uno degli

elementi che entrano

nella lingua italiana. Ma

tu pensa alla lingua dei

giornali: dal 1945 a oggi è

cambiata in modi sorprendenti. La lingua si continua a fare, va dove vuo-

le, le corri dietro faticosamente, ma è tutto tranne che un modello stabile,

un set da costruzione.

Scarpa Sì, ma la lingua è anche il luogo del conflitto. Nessuno sta di-

cendo che bisogna scrivere con la lingua della televisione, Dio mio, anche

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LA LINGUA SI CONTINUA A FARE, VA DOVE VUOLE, LE CORRI DIETRO FATICOSAMENTE, MA È TUTTO TRANNE

CHE UN MODELLO STABILE, UN SET DA COSTRUZIONEE. Tadini

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perché sarebbe come incitare a un uso super-espressionista della lingua;

infatti, mi risulta che la televisione italiana, con i suoi mille canali locali,

è soprattutto analfabetismo, errori sintattici, venditori, cartomanti e quan-

t’altro: è quanto di più gaddiano, “pasticciaccesco di via merulanesco” si

possa pensare. È chiaro che io mi butto nella mischia quando parlo della

lingua, mi butto nel darwinismo puro, è chiaro, anche quando parlo un

italiano planus, semplice, ma io prediligo questo tipo di mischia, dove io

per l’appunto, quando dico una frase, e dico “Il cielo è verde”, il conflit-

to che mi viene addebitato appunto non è di tipo stilistico cruscante les-

sicografico…

Tadini Trovi qualcuno qui dentro che abbia asserito questo?

Scarpa No, io non lo sto addebitando a questi autori o alle provoca-

zioni dei moderatori, bensì a una lettura depotenziante della letteratura

come pura lingua celibataria, come espressione celibataria della lingua, e

secondo me l’opzione espressionistica o espressivistica è diventata la nuo-

va macchina celibe, inerte, della letteratura di oggi. Secondo me. E lo di-

co, mio malgrado, anche voglio dire, facendo ammenda, tra virgolette, del-

le mie stesse opzioni linguistiche recenti.

Consolo Se stabiliamo che la letteratura è memoria - e la letteratura è

memoria altrimenti sarebbe soltanto comunicazione cronachistica, gior-

nalismo - allora diventa anche memoria

linguistica. Io credo che l’impegno di

chi scrive sia quello di far emergere

continuamente la memoria. La no-

stra è una società che viene dal

Rinascimento, dall’Umanesimo, vie-

ne da lontano, dalla triade toscana e

così via, bisogna dunque conservare

questa memoria, che non sia una memoria di tipo americano, di una so-

cietà nuova e mercantile. La nostra non è stata una società mercantile, è

stata una società umanistica.

Tadini Scusa se io intervengo, ma continuare a dire che la società ame-

ricana è una società mercantile vuol dire dimenticare alcuni fatti fonda-

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IO CREDO CHE L’IMPEGNO DI CHI SCRIVE

SIA QUELLO DI FAR EMERGERE

CONTINUAMENTE LA MEMORIAV. Consolo

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mentali: per la prima volta nella storia, nel secolo scorso si è dato il fatto

che la potenza mondiale più forte di tutte in assoluto non ha vinto una

guerra che poteva vincere con una mano, quella del Vietnam, perché al

suo interno si è sviluppata un’opposizione così violenta, così forte, che

non si è potuto proseguire il conflitto. In quale Paese duecentomila per-

sone fanno i disertori?

Consolo Emilio, stai spostando il problema…

Tadini Certo che c’è Bush, ma c’è Ginsberg, c’è Kerouac, c’è Faulkner,

Hemingway, c’è una cultura della contraddizione… come si fa dire che la

lingua è mercantile, è una lingua viva, che cambia, che muta, che vive di

eccessi. La lingua mercantile è quella dei giornali, o del presidente Bush,

ma la lingua della totalità dell’America è un complesso contraddittorio di

una ricchezza straordinaria. Ma come facciamo a non vederlo? Cosa ha si-

gnificato la letteratura americana per i giovani di tutto il mondo? Ha si-

gnificato un’apertura straordinaria, che qui non hanno trovato, che in

Europa non avrebbero trovato.

Di Stefano Abbiamo capito stasera che la lingua è il luogo del con-

flitto: questo è poco, ma è sicuro!

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