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L'industria alimentare italiana nel mercato globale
tra tipicità locali e multinazionali di settore*
Francesco Chiapparino
(Dises - Università Politecnica delle Marche, Ancona)
Affrontare il tema del rapporto tra la moderna industria
alimentare italiana e le tipicità regionali - o più propriamente
locali, poiché è le dimensione provinciale e cittadina quella che
storicamente definisce queste ultime - può apparire, e in parte
effettivamente è come si vedrà, il tentativo di mettere in relazione
i due termini di una dicotomia. La spinta alla realizzazione di
economie di scala attraverso produzioni standardizzate e
omogenee per il ricorso ai processi meccanici o l'uniformità
richiesta dalla distribuzione su mercati anonimi attraverso
marchi, sono infatti elementi dei procedimenti industriali
(soprattutto nella loro versione fordista dominante nel Novecento
e ancora in buona misura prevalente) che inevitabilmente
cozzano con i piccoli volumi, i metodi tradizionali di
lavorazione, i significati e le conoscenze legati ad ambiti culturali
* Il presente testo è una prima versione provvisoria del saggio omonimo pubblicato
nel volume L'Italia e le sue regioni, L'età repubblicana. vol. II, Territori, a
cura di M. Salvati e L. Sciolla, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana
Treccani, 2015, pp. 467-486
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definiti e a realtà territoriali limitate che normalmente si
associano alle specialità alimentari e alla loro caratterizzazione
locale. A fronte della complessità di questo rapporto tra industria
e tipicità, a prima vista antitetico o comunque non lineare, sta
tuttavia l'evidenza degli ultimi decenni, che hanno visto
l'industria agro-alimentare italiana contribuire in maniera
significativa all'export del paese proprio attraverso il successo
riscosso sui mercati internazionali dai prodotti tipici e dalle
specialità della multiforme tradizione produttiva nazionale in
questo campo. Il rilievo economico di questi ultimi impone
perciò di analizzare più nel dettaglio questa relazione, il ruolo
che le produzioni tipiche hanno, e hanno avuto, nell'evoluzione
del settore alimentare della penisola, il modo e i tempi in cui
quest'ultimo le ha valorizzate, facendone uno strumento di
penetrazione dei mercati esteri. Ciò che ci si ripropone in questa
sede, in altri termini, è il tentativo di gettare uno sguardo
all'evoluzione di questo non facile rapporto tra specialità
tradizionali del patrimonio agro-alimentare nazionale e
produzione industriale, alle dinamiche e alle tappe che ne hanno
segnato il percorso fino agli assetti attuali.
Prima di entrare nel merito, tuttavia, è opportuno chiarire alcune
delle limitazioni con cui vanno intesi i termini di questa
relazione. Anzitutto ci si riferisce qui alle sole produzioni
alimentari con una vasta diffusione commerciale, e non anche al
complesso di minute attività artigianali e soprattutto agricole che
pure possono definirsi tipiche, ma che non hanno un
riconoscimento in questo senso da parte del mercato, almeno al
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di fuori di quello strettamente locale. Ancorché, come pure si
vedrà, il discrimine tra questi diversi ambiti non sempre sia facile
da mantenere, concentrare l'attenzione sulle lavorazioni che
hanno una proiezione su mercati vasti, nazionali o internazionali
- anche della piccola industria, ma comunque legate a tecnologie
moderne e alla distribuzione a un clientela anonima - permette di
focalizzare le tipicità con un significato economico rilevante, sia
nell'attuale mercato globale che in epoche passate.
Quanto poi al concetto stesso di prodotto tipico, l'accezione che
se ne utilizzerà è anch'essa limitata, basandosi essenzialmente sul
riconoscimento di questa tipicità da parte del consumatore, più
che sulle componenti intrinseche dei prodotti. La tipicità verrà
considerata, in altri termini, per il suo aspetto sociale, culturale
ed economico, e non per le sue qualità oggettive, organolettiche o
nutrizionali, che pure probabilmente esistono in molti casi, ma la
cui trattazione esula evidentemente dalle competenze di chi
scrive. Del resto, dal punto di vista del gusto e della sua
fisiologia, il carattere culturale di ciò che viene percepito come
buono (o tipico) rispetto a ciò che non lo è, è ampiamente
riconosciuto dalla letteratura antropologica, al punto che, non
solo il "buono", ma gli stessi sapori per come vengono designati
sono costruzioni culturali in certa misura sganciate dalle loro basi
fisiologiche - che ne prevedono ulteriori rispetto a quelli
comunemente percepiti, cioè il dolce, l'amaro, l'acido e il salato
(Niola, 2009, pp.10-12).
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I. Il ciclo dell'industria alimentare italiana nella seconda
metà del Novecento
Nei primi anni Cinquanta: redditi, consumi alimentari e prodotti
tipici
Un buon punto di partenza per osservare il rapporto tra tipicità e
industria alimentare in Italia può essere costituito dagli anni
attorno alla metà del secolo scorso. Superata ormai la fase di
emergenza legata alla guerra, il paese agli inizi degli anni
Cinquanta sta completando la sua ricostruzione e rientrando
nell'alveo della normalità. Con oltre 2/5 della sua popolazione
attiva - dieci volte il dato percentuale odierno - impegnato nel
settore agricolo, più di 11 dei suoi 47,5 milioni di abitanti che
vive in piccoli nuclei abitati e case sparse, ben il 13% di coloro
con più di sei anni di età analfabeti e solo poco più del 10% con
titoli di studio superiore a quello elementare (nel 2001 secondo
l'Istat queste cifre saranno rispettivamente dell'1,5 e del 63,5),
quella italiana è ancora piuttosto distante dal potersi definire una
società compiutamente modernizzata. Il livello di sviluppo
parziale che comunque la caratterizza è frutto di un lungo
percorso di avanzamenti, lenti e discontinui, con cui la penisola,
o quanto meno sue porzioni, sono rimaste in qualche modo
agganciate ai centri più dinamici della modernizzazione
economica e sociale conosciuta dall'Occidente tra Sette ed
Ottocento. Su questo progresso "a pendenza lieve" si è poi
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innestata l'azione dello Stato unitario che, specialmente a partire
dal protezionismo della Sinistra storica dell'ultimo quarto del
secolo XIX, ha attivamente promosso l'industrializzazione del
paese (Zamagni, 1993, pp. 295ss.; Fenoaltea, 2006, pp. 153ss.).
Se questa accelerazione impressa dalle politiche pubbliche ha da
un lato contribuito in maniera determinante alla formazione di
una prima base industriale, dall’altra essa ha accentuato
sperequazioni preesistenti e fatto emergere profondi squilibri –
settoriali, territoriali e sociali – che alla metà del Novecento sono
particolarmente evidenti e che lo stesso successivo miracolo
economico sanerà in vari casi solo parzialmente.
I consumi privati costituiscono uno degli ambiti in cui le
contraddizioni e i limiti del percorso di crescita economica
intrapreso dal paese sono più evidenti e marcati. La loro
penalizzazione a favore degli investimenti, tipica del resto dei
paesi in via di sviluppo, nel concreto comporta in primo luogo
che i massicci investimenti realizzati nei comparti dell'industria
di beni strumentali, capital intensive e a comparativamente basso
assorbimento di forza lavoro, generino un monte-salari
complessivo limitato, il quale, anche a prescindere dal livello
relativamente basso delle retribuzioni nell'industria italiana
(inclusi i settori tecnologicamente avanzati), ha modeste ricadute
sul tenore di consumi diffusi e non stimola avanzamenti dei
settori leggeri. Ad un simile meccanismo, si aggiunge poi
l'azione fiscale diretta dello Stato, che drena risorse per
finanziare la propria politica industriale appunto colpendo i
consumi privati, secondo un modello inaugurato già nel
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ventennio dopo l'Unità, allorché con la tassa sul macinato si
risana il bilancio pubblico. Mentre, per un altro verso, gli alti
dazi sulle importazioni di beni di consumo costituiscono quasi un
assioma per un paese che tra gli anni Ottanta del secolo XIX e i
Sessanta di quello successivo deve costantemente preoccuparsi di
contenere i deficit provocati dal fabbisogno dei propri settori
pesanti di materie prime e di tecnologie provenienti dall'estero.
Ogni qual volta questo freno sull'import di generi di consumo si
attenua, come avviene all'avvio dell'espansione dell’età
giolittiana agli inizi del Novecento, nella caotica situazione di
crisi politica, sociale e valutaria del primo dopoguerra o negli
anni Sessanta, in seguito all'aumento dei redditi e alle limitazione
poste dal contesto internazionale alla politica tariffaria, si aprono
vere e proprie voragini nella bilancia commerciale, che rischiano
di mettere in crisi - e di fatto nell'ultimo dei casi citati concorrono
a mettere in crisi - il meccanismo di accumulazione su cui si
regge lo sviluppo della penisola (Somogy, 1966, p. 55ss.).
Se si guarda alla dinamica dei consumi privati, solo negli anni
Venti la quota di quelli di prima necessità inizia a mostrare una
qualche anelasticità rispetto agli aumenti del reddito, a
testimonianza di come solo in quella fase i modesti aumenti della
capacità di spesa dei bilanci familiari comincino a non essere più
integralmente assorbiti dall'acquisto di generi primari (Pettenati,
1978), mentre parallelamente il consumo diffuso di calorie segna
i primi scostamenti dai minimi di sussistenza tipici delle società
preindustriali (Grigg, 1989, pp. 46-49). Dopo i rigori della crisi
degli anni Trenta e il disastro della guerra, è così negli anni
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Cinquanta che il paniere dei consumi degli italiani imbocca la via
di quella trasformazione che tuttavia solo negli ultimi due
decenni del secolo lo porterà ad allinearsi ai modelli dei paesi
occidentali sviluppati.
Nonostante l'avvio di qualche cambiamento, insomma, alla metà
del secolo XX l'alimentazione del paese è ancora pesantemente
influenzata gli equilibri del passato, come testimoniano, pur con
tutta l'approssimazione dei dati Istat al riguardo, la centralità dei
carboidrati di origine vegetale, il basso tenore del consumo di
proteine e grassi, specie quelli di provenienza animale, la
modesta disponibilità di calorie pro capite. Tradotto in termini
gastronomici tutto ciò vuol dire che, almeno la massa degli
italiani, ovvero i ceti popolari, continuano ad avere una dieta
incentrata su prodotti derivanti da cereali - pane, paste, minestre,
polente, sfarinate, ecc. -, mangiano poca carne, e quel poco per lo
più di tipo non pregiato, integrano il proprio apporto proteico con
un vasto ricorso ai legumi, usano con parsimonia i grassi, hanno
un elevato (almeno in confronto a oggi) consumo di vino, pure di
qualità corrente e nondimeno utile a fornire calorie di pronto
assorbimento, o infine fanno un ampio ricorso a verdure e frutta
fresca, com'è nella tradizione di lungo periodo della penisola.
Certamente, rispetto all'alimentazione di sussistenza classica
delle società agrarie di antico regime si registrano alcune novità e
qualche avanzamento, modesto ma significativo: la pasta, che
fino alla fine dell'Ottocento al di fuori delle aree di più antica
diffusione resta un prodotto pregiato, comincia ad essere
largamente usata presso i ceti popolari urbani, e con essa tende
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anche a crescere, ad esempio, il consumo di insaccati; la
colazione mattutina a base di vino resiste ormai solo nel mondo
rurale, mentre tra gli artigiani e le classi lavoratrici viene
sostituita dal caffè o spesso ancora dai suoi surrogati, a maggior
ragione diffusisi durante il periodo autarchico; il consumo di
zucchero fa registrare qualche timido miglioramento, dopo essere
venuto quasi completamente meno durante il conflitto. A ben
vedere, tuttavia, si tratta di tutte trasformazioni avviatesi già nel
tardo Ottocento, con il sia pure parziale ingresso del paese nel
più generale processo di modernizzazione occidentale, e che alla
metà del secolo successivo, pur costituendo ormai elementi
acquisiti, non alterano strutturalmente i modelli tradizionali del
consumo alimentare diffuso (Sorcinelli, 1993).
Un discorso analogo si può fare per un altro aspetto saliente di
questo equilibrio, quello relativo all'alta quota di produzione
domestica su cui esso riposa. Anche in questo caso, il livello di
autoconsumo, cioè di produzione e trasformazione degli alimenti
all'interno del nucleo familiare escludendo monetizzazione e
rapporti di mercato, non è più così elevato come nel passato
preindustriale, o almeno tende ad essere tale solo nel mondo
contadino, che pure, come si visto, è agli inizi degli anni
Cinquanta ancora largamente diffuso. L'urbanizzazione
registratasi durante tutta la prima metà del secolo, per quanto
modesta se confrontata a quella dei decenni successivi, ha
assottigliato in parte i margini e la possibilità di queste pratiche,
che comunque rimangono massicciamente diffuse - un po' per
attaccamento ad abitudini e tradizioni, un po' per necessità -
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anche nel mondo cittadino, tanto tra i ceti popolari che tra quelli
medi e medio-bassi.
Con tutto ciò, d'altra parte, non si vuole intendere che l'Italia non
abbia attraversato alcune delle grandi esperienze che hanno
portato l'Occidente nel suo complesso a conoscere una
modernizzazione dei suoi modelli di consumo, alimentari e non,
tra il tardo XIX e la prima metà del XX secolo (Montanari, 1983,
pp. 189ss.). Il fatto è che tali passaggi si sono inseriti, non senza
alimentare frustrazioni e tensioni per altro, in quell'"equilibrio dei
bassi consumi", per usare la terminologia di Franco Bonelli
(1978, pp. 1236ss.), caratteristico della traiettoria di crescita
economica del paese di cui si è detto. Così, ad esempio, le masse
contadine sperimentano nelle trincee della Grande Guerra,
accanto a ben più tragici accadimenti, il consumo di sigarette,
gallette e scatolette (incluse quelle di carne), mentre nel periodo
interbellico i figli degli operai conoscono l'alimentazione
razionale delle colonie estive. O ancora, anche in Italia si
diffondono forme nuove di distribuzione, come dagli inizi del
secolo le cooperative di consumo ovvero, specie dopo il conflitto,
i grandi magazzini. Se non che questi elementi di
modernizzazione o riguardano ristrette elite di ceti medi e medio-
alti dei grandi centri urbani, come avviene per grandi magazzini e
vacanze estive, oppure, quando toccano gruppi sociali più vasti,
rimangono all'interno di un contesto di perdurante scarsità. In
quest'ultimo caso, insomma, compare la dimensione di massa, ma
manca completamente il carattere affluente, di abbondanza, che
al contrario comincia ad essere presente nell'esperienza delle
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società occidentali più sviluppate, quella statunitense in primo
luogo, ma in certa misura anche in paesi come l'Inghiterra, la
Francia o più parzialmente la Germania tra Belle époque e
Goldene Zwanziger. E quando, con un curioso ma significativo
corto circuito, la potenza dei nuovi mezzi di comunicazione di
massa applicata alla pubblicità genera anche nella penisola una
piccola febbre consumistica, come avviene nel corso degli anni
Trenta con il sorprendente successo del concorso delle figurine
dei Quattro Moschettieri della Perugina e della Buitoni, il tutto
collassa tra interventi censori del regime e saturazione della
capacità produttiva delle due imprese, che paradossalmente
giungono ad un passo dal fallimento (Chiapparino, Covino, 2008,
pp. 169-188).
Anche sotto questo punto di vista, insomma, quella italiana è
negli anni Cinquanta un realtà "parzialmente" moderna, che ha
conosciuto alcuni aspetti delle nuove forme della società di
massa senza tuttavia sperimentarne l'alto tenore di consumo, e
che anzi esce proprio allora dall'opposta esperienza della fame e
dell'indigenza più profonda della guerra e degli anni
immediatamente successivi.
Così, alla metà del secolo XX i consumi alimentari del paese
sono ancora sostanzialmente legati a quelli tradizionali, con tutte
le - pure tradizionali - forti differenze tra città e campagna e tra
ceti sociali diversi e con le parziali eccezioni rappresentate dalle
classi più abbienti o dalle aree metropolitane più dinamiche.
All'interno di queste coordinate comuni, tuttavia, essi si
declinano in una grande varietà di tradizioni gastronomiche e
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produttive locali, frutto della convergenza di fattori ambientali e
culturali, e differenziate su base essenzialmente cittadina, a
partire da quelle cellule sociali fondamentali di organizzazione
del territorio che nel contesto italiano sono rappresentate sin dal
Medioevo dalle città con i loro rispettivi contadi - e perciò, come
si accennava all'inizio di questo testo, su quelle che oggi possono
essere definite partizioni provinciali o spesso anche sub-
provinciali. E' in simili contesti che vanno inquadrate le
produzioni tipiche, o quanto meno la loro origine: specialità e
tradizioni alimentari caratteristiche di città, del loro territorio o di
parti di esso, che almeno inizialmente trovano appunto il loro
primo riconoscimento e la prima valorizzazione in rapporto ai
rispettivi mercati urbani di riferimento. Agli inizi degli anni
Cinquanta, per altro, tali specialità sono organicamente inserite,
come si è detto, in modelli di consumo ancora sostanzialmente
tradizionali e di carattere fortemente locale per la limitatezza
geografica dei circuiti commerciali, l'alta incidenza delle
lavorazioni strettamente rurali o artigianali quando non
dell'autoproduzione, i vincoli anche tecnici e di conservabilità
che ostano all'integrazione dei mercati di generi agroalimentari,
ecc. Nei casi in cui sono già riconosciute come produzioni
tipiche, riferibili a contesti e identità territoriali definiti, esse nel
complesso non emergono particolarmente come tali, tendendo
piuttosto ad integrarsi con la normalità della abitudini alimentari
quotidiane. Non solo, ma capita anche che la loro identificazione
con i regimi dietetici tradizionali, e con il basso tenore di vita e le
carenze nutrizionali a cui questi sono associati per ampi settori
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della popolazione, non le rendano particolarmente ambite né le
facciano apparire degne di essere valorizzate in ambiti di mercato
più vasti.
Sotto il profilo delle tendenze dei consumi, in altri termini, ciò
che ancora prevale in quella fase è la spinta alla costruzione di
una cultura alimentare nazionale: un processo avviatosi con tutta
probabilità già molto prima dell'Unità e comunque operativo
durante tutto l'Ottocento, che subisce poi un'accelerazione con la
creazione dello Stato unitario - si pensi alla circolazione del
ricettario dell'Artusi presso i ceti medi (Camporesi, 1995) - e nel
periodo tra le due guerre, e che giungerà a compimento negli
anni del boom economico, con i massicci processi migratori e di
urbanizzazione, lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa
e, non da ultimo, l'affermazione nel paese di una moderna
industria alimentare.
Negli anni del miracolo
Dal punto di vista delle produzioni alimentari, la situazione
italiana nei primi anni Cinquanta è ancora nella sostanza quella
venuta maturando a partire dal tardo Ottocento. Generalizzando,
il settore può essere suddiviso essenzialmente in tre sezioni
(Chiapparino, 1997). La prima, ancora largamente prevalente, è
quella rappresentata dalle lavorazioni di carattere tradizionale,
prive di connotati industriali moderni e piuttosto di natura agraria
o artigianale - quando non realizzate direttamente all'interno
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dell'ambiente domestico, si è detto, nella forma
dell'autoproduzione -, che riforniscono la gran parte dei mercati
locali attraverso circuiti commerciali ristretti e ancora
relativamente segmentati. Accanto ad esse stanno poi alcune
attività industriali, condotte da imprese meccanizzate,
tendenzialmente specializzate e di medie dimensioni. Questo
nucleo di aziende manifatturiere, spesso attivo in sezioni
particolari degli stessi comparti di prevalente carattere agrario o
artigianale, opera su mercati interregionali o nazionali, più vasti
cioè di quelli strettamente locali dei generi comuni, utilizzando
marchi commerciali e rivolgendosi a limitati ambiti di consumo
di lusso o anche più semplicemente, visti i prezzi unitari spesso
contenuti dei prodotti alimentari, di consumi voluttuari e
d'occasione. Un altro tipico sbocco di questo genere di
lavorazioni, che seppure in lenta espansione a partire dal tardo
Ottocento restano comunque minoritarie tra quelle alimentari, è
poi rappresentato dai mercati esteri, con particolare riferimento,
come si vedrà più avanti, a quelli aperti dall'emigrazione italiana.
Da ultimo ci sono poi singoli comparti ove è presente la grande
industria integrata e l'intervento del capitale finanziario, che
tuttavia si limita fino alla metà del secolo a pochissimi ambiti
produttivi. Tra di essi spicca il settore saccarifero, che
rappresenta uno degli investimenti speculativi più caratteristici
del capitalismo italiano dell'epoca, dal momento che le alte
protezioni doganali e l'assetto fortemente cartellizzato che lo
contraddistinguono, da un lato garantiscono alti utili a industriali
e agrari e, dall'altro, fanno della penisola uno dei paesi col
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consumo procapite di zucchero più basso tra quelli occidentali.
Sviluppi significativi, tuttavia, si registrano anche nel comparto
di base dell'industria alimentare italiana, quello molitorio, che
almeno in corrispondenza delle aree di mercato più rilevanti e
dinamiche, come nel Nord Italia e nei centri urbani maggiori,
vede sin dal tardo Ottocento sorgere alcuni grandi impianti
industriali e cospicue concentrazioni produttive, con interessi
anche nel comparto pastario o in quello del commercio dei grani
e, nel caso dei gruppi genovesi, persino con proiezioni di tipo
multinazionale.
Nel complesso, tuttavia, la parte più consistente delle produzioni
propriamente industriali del settore alimentare italiano, quella
con connotati manifatturieri moderni, rimane fino alla metà del
secolo vincolata alla ristrettezza del mercato interno,
rivolgendosi di fatto ai consumi di lusso (o comunque episodici e
legati a occasioni particolari) o, quando ci riesce, ai mercati
esteri. Questo quadro comincia a mutare sostanzialmente nel
corso degli anni Cinquanta, per effetto della modernizzazione
complessiva che investe in quella fase l'economia e la società
italiana. Il miracolo economico, come è noto, viene innescato da
un processo export led trainato dall'industria di beni di consumo
durevoli, che beneficia della congiuntura eccezionalmente
favorevole del commercio internazionale del terzo quarto del
secolo. La crescita economica, che raggiunge il suo apice tra il
1958 e 1963, investe dapprima i settori più pesanti, come la
metalmeccanica, la chimica, i comparti energetici e
infrastrutturali, quello delle costruzioni, ecc., e solo
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successivamente, con l'aumento dei salari - sia complessivo che
unitario per l'approssimarsi della piena occupazione -, si riversa
sul mercato interno e sul tenore di vita diffuso degli italiani.
Benché sin dal decennio precedente si mettano in moto massicci
processi di migrazione interna, urbanizzazione, cambiamento
della condizione occupazionale, è soprattutto negli anni Sessanta,
così, che le profonde trasformazioni del reddito, degli stili di vita
e dei modelli di consumo del paese diventano evidenti (Ciocca,
2007, IX-X).
Sotto il profilo strettamente produttivo, d'altro canto, merita di
essere ricordato che l'accelerazione del boom proprio in quella
fase comincia a dare segni di rallentamento, per effetto della crisi
del 1964, del montare delle tensioni che porteranno all'autunno
caldo del 1969 e infine dello shock petrolifero del 1973, che apre
definitivamente la tormentata stagione degli anni Settanta. Il
miracolo economico, in altri termini, fu breve, soprattutto per i
settori leggeri e dei beni di consumo. E anche se nei decenni
successivi, tra il 1973 e il 1992, la crescita economica è
continuata, accompagnata da trasformazioni forse anche più
marcate sotto il profilo sociale e degli stili di vita, questa seconda
fase è stata molto più contrastata, intervallata da crisi ricorrenti
(non solo economiche) e molto meno lineare della precedente.
La modernizzazione degli anni Sessanta porta a trasformazioni
radicali dell'industria alimentare italiana, ben al di là di quanto le
cifre aggregate riguardanti il settore stiano a testimoniare. Interi
comparti di base, come quello molitorio, quello oleario o lo
stesso settore della vinificazione, composti da miriadi di piccoli
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mulini, frantoi rurali e cantine dislocati nelle zone più impervie,
vengono drasticamente ridimensionati. Sorgono settori nuovi,
come quelli dei gelati, dei surgelati, degli alimenti per l'infanzia.
Mentre altre produzioni, legate al consumo urbano - dai prodotti
da forno al caffè, agli estratti e concentrati, alle bevande,
alcoliche e non - vedono crescere le proprie dimensioni, sia per
numero di aziende che per la loro consistenza occupazionale.
Spettacolare, poi, è l'ascesa del settore della lavorazione delle
carni, che inseguendo il boom dei consumi, aumenta di due volte
e mezzo i propri addetti tra i censimenti del 1951 e del 1971, per
triplicarli poi entro il decennio successivo, passando da 2.235
aziende a 5.185 e da circa 16.500 a 50.100 addetti. Anche
industrie il cui peso complessivo rimane più o meno costante
conoscono profondi cambiamenti nella loro composizione
interna, nel senso della concentrazione, della localizzazione, nella
natura stessa della loro attività produttiva e di mercato.
Generalizzato, infine, è l'aumento della dotazione meccanica ed
energetica delle lavorazioni, con i cavalli vapore che aumentano
da 4,9 a 6,6 per addetto tra 1951 e 1971 per poi raddoppiare quasi
(11,4) entro il 1981, sulla scia degli intensi processi di
ristrutturazione degli anni Settanta.
La profonda trasformazione che vede nel corso degli anni
Sessanta la nascita di un'industria alimentare di tipo moderno,
legata al consumo di massa, presenta alcuni aspetti caratteristici
che influenzeranno largamente, fino ad oggi, l'evoluzione futura
del settore, e che è opportuno sottolineare.
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In primo luogo, l'emergere di moderne lavorazioni industriali di
tipo alimentare si accompagna con una crisi del mondo rurale, o
quanto meno di ampie sue porzioni, e più in generale con uno
scarso raccordo con le retrostanti produzioni agricole.
L'ampiezza e la varietà del settore impedisce ovviamente di fare
eccessive generalizzazioni, mentre per altro verso esistono
sicuramente aree, prevalentemente al Nord più pianeggiante ed
avanzato anche sotto il profilo agricolo, e comparti, come quello
conserviero o quello caseario, in cui la modernizzazione
dell'industria avviene in continuità con l'evoluzione del settore
primario cui questa è collegata. Nondimeno, nel complesso
l'abbandono delle campagne, i ritardi che queste hanno
accumulato nei periodi precedenti e la natura stessa del territorio
italiano, in larga misura collinare e montagnoso, pesano
gravemente sul processo di modernizzazione del paese e sullo
sviluppo della sua industria alimentare. Prova ne è il profondo
passivo della bilancia del commercio con l'estero di alimenti che
si apre appunto negli anni Sessanta e Settanta (Pieri, Rizzi, 1986)
per perdurare poi in tutti i decenni successivi fino ad oggi. Si
genera così in quegli anni il paradosso, per cui un paese fino a
poco prima profondamente agricolo - e ancora in larga misura
tale per aspetti come la mentalità e tanti comportamenti - si trova
a importare generi primari da nazioni vicine, come la Francia o la
Germania, di ben più antica industrializzazione. Questa
situazione appare meno incongruente, tuttavia, se si analizza il
deficit agroalimentare e si vede come questo sia largamente
generato dalla vera e propria voragine aperta dalle importazioni
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di prodotti animali, cioè da quella atavica "fame di carne" - per
dirla con Marvin Harris (1990) - che da sempre contraddistingue
le masse delle società agrarie preindustriali e la cui
soddisfazione, con la "fettina" a pranzo e a cena, è la prova
tangibile dell'emancipazione dalla miseria del passato. Mentre
per altro verso, la scarsa dotazione di bestiame e la debolezza
dell'allevamento sono appunto gli indicatori più ricorrenti e
significativi dei limiti tradizionali di tanta parte dell'agricoltura
italiana, fatta esclusione naturalmente per le limitate aree che
invece eccellono da questo punto di vista, come ad esempio la
Bassa padana. Ma anche al di là dello specifico del settore delle
carni, la scarsa integrazione tra agricoltura e industria costituisce
uno dei nodi problematici della nuova situazione apertasi col
miracolo economico, aggravata dalla rapidità con cui si verifica
l'esodo rurale e l'abbandono delle campagne.
Un ulteriore aspetto di tale modernizzazione, in parte collegato
con il precedente e particolarmente rilevante nella ricostruzione
che si sta proponendo in questa sede, è rappresentato poi dal fatto
che in essa il riferimento ai prodotti tipici e alla tradizione
alimentare locale passa del tutto in secondo piano, quando non
viene addirittura (più o meno esplicitamente) negato. E' questo,
ovviamente, un tratto ricorrente di tutte le fasi di intensa crescita
economica. Nel caso italiano, tuttavia, questa spinta si carica di
una forza particolare per la velocità con cui avvengono le
trasformazioni, la percezione del loro ritardo, le attese
accumulate rispetto ai modelli di consumo affluente, che in altre
società occidentali sono venuti affermandosi assai più
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gradualmente già dagli inizi del secolo, e altri complessi fattori
materiali e culturali che meriterebbero indagini specifiche. Sta di
fatto che la modernizzazione degli anni Sessanta segna nella
penisola un rifiuto netto del passato e della tradizione, che, come
in tanti altri ambiti - a cominciare dalla distruzione del paesaggio
- si riflette pesantemente nei consumi, alimentari e non. Quanto
questa ondata di entusiasmo per la modernità sia stata
superficiale e a tratti contraddittoria è testimoniato dal permanere
ancora oggi, mezzo secolo dopo e a modernizzazione avvenuta,
della marcata originalità della dieta degli italiani rispetto a quella
di altri paesi sviluppati - dall'uso massiccio di pasta e farinacei a
quello delle verdure fresche. Nondimeno, essa influenza
pesantemente la nuova produzione industriale nel settore. Gli
esempi al riguardo potrebbero sprecarsi, dal latte in polvere al
pane bianco (e al parallelo rifiuto di quello "nero",
materializzazione di un passato di fame e privazioni), ai già
ricordati consumi di carne. Il settore dolciario, che per la sua
caratterizzazione voluttuaria e il basso costo unitario dei prodotti
è strutturalmente molto sensibile alle tendenze e alle variazioni
del consumo diffuso, è al riguardo molto significativo. Il mercato
italiano si riempie in quegli anni di articoli privi di qualunque
riferimento alla tradizione o a connotazioni tipiche locali, dal
Carrarmato agli sticks di caramelle, ai chewing gum, alla
Nutella, tutti, ad onta di molte delle loro stesse denominazioni, di
fabbricazione strettamente nazionale. E il caso della Ferrero
presenta tratti ancora più esemplari: l'azienda piemontese si
afferma dapprima, dalla fine degli anni Cinquanta, in Germania, i
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cui Wunderjahren precedono e superano quelli italiani, con la
linea di prodotti Kinder, che il consumatore locale considera a
prima vista tedesca, e a cui poco dopo (e fino ad oggi) anche il
consumatore italiano tributa un vasto successo, senza fare troppo
caso al nome (tedesco) che la designa, e spesso ignorandone
anche il significato. Nel complesso, inoltre, se si guarda alla
produzione dell'impresa di Alba, ove pure le specialità
tradizionali non mancano, essa si concentra su pochi prodotti
realizzati su larghissima scala e con un forte supporto
pubblicitario, privi comunque di qualunque riferimento a tipicità
locali e persino a caratteri nazionali, anche nei tempi recenti in
cui il "made in Italy" ha un largo successo internazionale.
Un'ulteriore caratteristica della fase di crescita del boom
economico è infine quella della sua brevità, a maggior ragione
per un settore, come quello alimentare, che ne avverte le ricadute
solo con qualche ritardo rispetto all'accelerazione iniziale della
seconda metà degli anni Cinquanta. Un simile aspetto,
annoverabile tra i limiti del miracolo economico italiano che la
storiografia ha recentemente sottolineato, si è tradotto nel ritardo
con cui una parte cospicua dell'imprenditoria italiana ha colto i
cambiamenti che si andavano prospettando, tanto più nei casi in
cui era in qualche modo memore delle false partenze di inizio
secolo e soprattutto del primo dopoguerra, allorché ad un'iniziale
effervescenza dei consumi non avevano poi fatto seguito
modificazioni strutturali degli assetti del mercato nazionale.
Sicuramente alcuni ebbero il coraggio di puntare su queste
modificazioni sin dagli anni Cinquanta, come testimonia il lancio
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 21
di prodotti nuovi come i gelati confezionati Algida e Motta agli
inizi di quel decennio o, ancora una volta, il massiccio
investimento con cui la Ferrero realizza sin dal 1957 il grande
impianto di Hildesheim, vicino Francoforte, inseguendo il boom
dove questo per primo si manifesta. Tuttavia, il grosso degli
sforzi di modernizzazione del comparto si verifica solo negli anni
Sessanta, quando il ciclo economico rallenta e infine, col volgere
del decennio successivo, inverte il suo corso, sorprendendo molte
imprese nel mezzo della transizione, spesso fortemente indebitate
e incapaci di assorbire gli aumenti del costo del lavoro e dei
prodotti energetici che si verificano in quella fase.
La vicenda della Buitoni è paradigmatica al riguardo. Sin dal
1953 Giovanni Buitoni, l'artefice dello sviluppo del gruppo nel
periodo tra le guerre, trasferitosi negli Stati Uniti nel 1939 e lì
alla guida della filiale americana, fa pressione sui fratelli rimasti
alla guida delle aziende italiane e della Buitoni France perché
ristrutturino radicalmente l'impresa e lancino un massiccio
programma di investimenti che ne faccia una grande
multinazionale alimentare. Dall'America Giovanni, che pure
nell'Italia degli anni Venti ha teorizzato la necessità di limitarsi
alle produzioni di lusso, ha una chiara percezione delle
trasformazioni che vengono preparandosi nel nuovo scenario del
secondo dopoguerra (Gallo, 1991). Significativamente, tuttavia,
un po' per prudenza, un po' per quieto vivere, concentrati come
sono sulle singole aziende che dirigono e sulla loro trasmissione
ai rispettivi successori, i fratelli resistono: l'International Buitoni
Organization, che alla fine viene creata nel 1956, resta per loro
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 22
sostanzialmente l'occasione per concedersi una gita annuale nella
capitale francese, dove la struttura ha sede. La Perugina,
l'impresa più vivace del gruppo, rinnoverà così le sue strutture
produttive con la costruzione di un grande stabilimento moderno
solo nel 1962, mentre la prospettiva strategica indicata da
Giovanni verrà percorsa solo nel 1967, dopo il passaggio alla
successiva quinta generazione della dinastia imprenditoriale. A
quel punto, le nuove Industrie Buitoni Perugina (Ibp) avvieranno
un grande sforzo per gestire in maniera integrata e manageriale le
attività tradizionali del gruppo (dolciumi, con annessa una grande
catena di negozi, pasta, sughi precotti in Francia e Stati Uniti),
per entrare nei nuovi settori produttivi apertisi col boom, come
quello degli alimenti per l'infanzia (Nipiol) e penetrare nuovi
mercati, sia sul versante centro e nord-europeo che su quello
mediterraneo. Il progetto di creare una grande multinazionale
globale - sul modello Nestlè o Unilever - si infrange però con il
cambiamento della congiuntura che si verifica in quella fase: con
l'appesantimento degli oneri finanziari che il forte indebitamento
dell'azienda comporta, con i rialzi dei costi dell'energia e del
lavoro, e anche naturalmente con ingenuità ed errori di
valutazione, che nella nuova situazione diventano difficilmente
recuperabili.
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 23
Ristrutturazione e crisi tra anni Settanta e prima anni Novanta
Pur legata a contingenze e accadimenti specifici, la vicenda ora
ricordata dell'Ibp è piuttosto generalizzabile, nel senso almeno
che una parte rilevante dell'industria alimentare italiana giunge
impreparata all'appuntamento con la crisi dopo la fase di crescita
degli anni del miracolo. Così ad esempio la Barilla, dopo aver
avviato il suo sviluppo negli anni Cinquanta, acquisisce una
decisa fisionomia industriale solo tra il 1964 e il 1968, quando
realizza i consistenti investimenti nei nuovi stabilimenti per pasta
e prodotti da forno). Nel 1971 però il forte indebitamento che ne
consegue assieme all'impennata della conflittualità sindacale
costringono la famiglia parmense a cedere l'impresa alla
multinazionale americana Grace (Mannucci, 1990, pp. 118ss.).
Solo otto anni più tardi, con caparbia non comune, Pietro Barilla
riuscirà a riacquistare l'impresa dal gruppo statunitense, non
prima di aver però consolidato la propria posizione finanziaria
con il concorso di Cariparma, la Comit e vari altri partner
svizzeri e olandesi. Analogamente la Star della famiglia Fossati,
un'altra tipica azienda degli anni del boom economico, sorta in
Brianza nel 1948 con appena una trentina di operai introducendo
in Italia prodotti diffusi nel Nord Europa come dadi per brodo ed
estratti di carne, conosce la sua espansione negli anni Sessanta
con la costruzione di quattro grandi impianti e l'avvio di una
vasta gamma di produzioni principalmente nel settore
conserviero. All'inizio del decennio successivo, tuttavia, è
costretta a entrare nell'orbita della finanza pubblica, cui cede la
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 24
metà del proprio capitale azionario, salvo poi recuperare la
propria autonomia nel 1982 e collegarsi a fine decennio con la
francese Danone e la sua (temporanea) alleata Ifil della famiglia
Agnelli (Piluso, 1990). Quanto al settore dolciario, la Talmone,
già Venchi-Unica, la maggiore e più famosa fabbrica di
cioccolato nazionale, naufraga nella bancarotta Sindona nel 1974,
mentre la Motta e l'Alemagna, al pari dell'Algida e della Tanara,
vengono rilevate dallo Stato attraverso la Sme tra il 1969 e il
1972.
Nel quadro della precoce, e a volte dolorosa, ristrutturazione cui
il settore alimentare va incontro negli anni Settanta e Ottanta
emergono di fatto due ipotesi prevalenti. La prima è quella già
abbozzata nel progetto Ibp della creazione di una grande impresa
multidivisionale che, a seconda delle varie formulazioni,
costituisca il perno della politica industriale nazionale
nell'agroalimentare ovvero (ma i due obbiettivi non sono in
contraddizione) sia in grado di competere sui mercati globali con
i grandi gruppi multinazionali del comparto - dalla Nestlè
all'Unilever alla Danone o alla Philip Morris, che proprio in
quegli anni avvia una diversificazione dalla manifattura del
tabacco (Sicca, 1977, pp. 5-32). La seconda opzione, che alla fine
prevarrà, è invece quella, più limitata e maggiormente in
continuità col passato, della specializzazione settoriale e del
consolidamento di alcune aziende medie e medio-grandi, capaci
pure di affrontare la concorrenza straniera, ma su segmenti
limitati del mercato e priva sostanzialmente di implicazioni sul
rapporto complessivo agricoltura-industria nel paese
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 25
Dopo l'eclissi dell'Ibp il programma della creazione di un grande
gruppo nazionale viene ripreso dalla finanziaria pubblica del
settore alimentare. La Sme nasce in realtà agli inizi degli anni
Sessanta, in seguito alla nazionalizzazione dell'energia elettrica,
sulla base degli indennizzi della precedente Società meridionale
di elettricità. Originariamente la finanziaria, in cui lo Stato ha
una quota di controllo ancorché minoritaria, colloca la sua
attività all'interno degli indirizzi con cui le Partecipazioni statali,
dopo aver gettato le basi per il miracolo economico, concentrano
in quella fase i loro sforzi sull'industrializzazione del
Mezzogiorno. Pur essendo già in precedenza presente nella Cirio
(Napolitano, 1992) e detenendo la proprietà di imprese
conserviere sorte per l'intervento della Cassa del Mezzogiorno
nell'Ascolano, la sua vocazione agroalimentare si definisce solo
attorno al 1968, quando prende il via una politica di acquisizione
di partecipazioni azionarie a sostegno delle aziende del settore -
non solo né necessariamente meridionali -, che conoscono in
quella fase crescenti difficoltà. Sin dall'inizio la Sme si dà
formalmente obbiettivi generali di tipo politico-economico, di
intervento a favore dell'agricoltura nazionale, raccordo di questa
con le attività industriali e di distribuzione e realizzazione di
un'organica programmazione nel comparto agroalimentare
(Sicca, 1987). E di fatto nel caso ad esempio della Surgela si
realizza attorno alla metà degli anni Sessanta un polo di moderni
impianti di surgelazione integrati, da un lato, con l'attività
peschereccia d'altura sanbenedettese e, dall'altro, con il dinamico
settore ortofrutticolo dell'area picena e teramana. Per tutti gli anni
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 26
Settanta tuttavia il gruppo svolge l'attività di una conglomerata
finanziaria, che nel migliore dei casi interviene a supporto di
operazioni di ristrutturazione, come per la Star, e più spesso
acquisisce aziende in gravi difficoltà, come la Motta e
l'Alemagna, che rischieranno di provocarne addirittura il
fallimento (Parenze, Sicca, 1991). Di fatto un piano organico di
crescita viene varato solo dal 1982, una volta riassestato il
bilancio del gruppo. Da allora questo opera in vista della
creazione di una grande impresa multidivisionale attiva nel
comparto conserviero (con la Cirio, la Bertolli e la De Rica), nel
dolciario (Motta, Alemagna e Pavesi), in quello collegato dei
surgelati (Surgela e gelati) e poi ancora nella grande
distribuzione (SGS, Sico) e nella ristorazione (Autogrill, Pavesi,
ecc.).
All'incirca negli stessi anni, viene tentata anche un variante di
questo programma, che pure trova sostanzialmente l'appoggio
della Partecipazioni statali nella prospettiva neomercantilista
della creazione di un'impresa "campione nazionale" sul modello
della francese Bsn Danone. La Cir di Franco De Benedetti,
infatti, sin dal 1982 rileva ciò che resta dell'Ibp dalla famiglia
Buitoni e giunge tre anni dopo ad un accordo per l'acquisizione
della stessa Sme e la creazione di un grande gruppo
polisettoriale. L'intesa trova tuttavia vaste opposizioni sia sul
versante imprenditoriale, con la comparsa di una contro-cordata
che fa perno su Barilla e Ferrero, preoccupate della concorrenza
che deriverebbe loro dall'operazione, sia su quello politico, con
l'intervento contrario di Craxi allora al governo. Tutta la vicenda
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 27
si conclude con un nulla di fatto ed ha, com'è noto, un lungo
strascico giudiziario, che si intreccia con quello del lodo
Mondadori e vede coinvolto lo stesso Silvio Berlusconi,
intervenuto a supporto della cordata contraria alla fusione Sme-
Buitoni (Covino et al., 1998, pp. 310-312).
Il fallimento della fusione del 1985, d'altra parte, apre la strada al
massiccio ingresso del capitale straniero nel settore: la cessione
di poco successiva da parte di De Benedetti della Buitoni alla
Nestlè segna l'assorbimento da parte di quest'ultima del gruppo
che una ventina di anni prima aveva ambito a divenire uno dei
concorrenti globali della multinazionale svizzera. La presenza di
capitale straniero è già cresciuta in modo significativo per effetto
delle difficoltà dal settore negli anni Settanta e nei primi Ottanta,
con la ricordata vicenda Barilla-Grace, il controllo acquisito dalla
Danone sulla Galbani e sulla Star o la posizione di forza della
Findus nel comparto del freddo. Certamente però è con
l'assorbimento della Buitoni che il peso delle multinazionali nel
comparto fa un salto di qualità. Un simile avanzamento si
completa poi nella prima metà degli anni Novanta, quando, in
omaggio al principio per cui non è necessario che lo Stato si
preoccupi di "produrre panettoni", ma abbandonando per
converso anche le precedenti ipotesi di una politica industriale di
promozione dell'agricoltura nazionale, si consuma la stagione
delle privatizzazioni. Nel settore alimentare esse, in particolare,
si concretizzano nel passaggio a gruppi multinazionali (Nestlè e
Unilever in testa) di gran parte della Sme, di fatto poco dopo che
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 28
questa ha completato la ristrutturazione delle sue partecipate
attraverso il programma delle divisioni di comparto del 1982.
Il processo di multinazionalizzazione del settore alimentare,
infine, compie un passo ulteriore attraverso la penetrazione dei
gruppi stranieri, soprattutto francesi, nel comparto della grande
distribuzione. Oltre alla forte influenza che esercitano sui propri
fornitori, infatti, le grandi catene di supermercati creano marchi
propri - anche se spesso privi strutture produttive di proprietà -,
acquisendo così un ruolo determinante per ampie sezioni delle
stesse attività produttive, agricole ma soprattutto manifatturiere
(Sicca, 2002). Del resto, il ruolo determinante di selezione delle
produzioni e di indirizzo degli investimenti è evidente per tutti i
detentori di grandi marchi, non solo appartenenti alla grande
distribuzione ma anche quando si tratta di aziende industriali, che
in parecchi casi delegano parti delle loro produzioni ad imprese
terze.
Accanto a queste linee di sviluppo, poi, a seguito della
ristrutturazione degli anni Settanta e Ottanta il settore alimentare
italiano ne conosce altre, il cui esito è la formazione di alcuni
grossi gruppi industriali specializzati a proprietà familiare. Essi
si differenziano sostanzialmente dalle multinazionali globali
menzionate finora sia per le dimensioni più contenute (e dunque
medie o al più medio-grandi in una scala internazionale assoluta)
sia per il fatto di essere operativi su singoli comparti
merceologici o su un novero di limitato di comparti interrelati,
oltre che su mercati geograficamente meno onnicomprensivi. Tra
queste multinazionali di settore stanno anzitutto imprese già
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 29
citate come la Barilla, che si consolida attraverso una vasta serie
di acquisizioni nel comparto pastario e in quello dei prodotti da
forno negli anni Ottanta, e soprattutto la Ferrero, che prosegue la
sua espansione prevalentemente per crescita interna secondo le
linee già in parte delineatesi nei decenni precedenti e basate su di
un limitato numero di prodotti realizzati su larghissima scala,
forti investimenti pubblicitari, solidità finanziaria, ecc (Subbrero,
2007). Ad esse si può aggiungere poi la Parmalat, che pure segue
una traiettoria di sviluppo nel settore del latte e dei suoi derivati
con significative proiezioni in quello dei prodotti da forno,
naufragando poi sugli scogli dell'eccessivo indebitamento e delle
malversazioni con il sistema finanziario (Franzini, 2004; Sapelli,
2004). Così come un caso in parte simile è quello della Ferruzzi,
con un carattere più propriamente versato nei comparti "pesanti"
delle lavorazioni di processo di tipo agroindustriale, eredi della
tradizione dell'industria zuccheriera e molitoria. Anch'essa nel
corso degli anni Ottanta crea un grosso gruppo multinazionale
relativamente specializzato, salvo poi incagliarsi nel tentativo di
integrazione con la chimica e nel coinvolgimento nell'intreccio di
corruzione e malaffare politico sfociato in Tangentopoli.
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 30
II. Industria alimentare e produzioni tipiche
Accanto ai processi sinora descritti, e in certa misura per effetto
di essi, nel corso degli anni Ottanta si avviano a compimento
anche dinamiche più strutturali, che vedono da un lato l'industria
alimentare italiana e dall'altro la dieta del paese completare il
processo di modernizzazione avviatosi negli anni Sessanta e
allinearsi con quelli dei paesi sviluppati. Come si è già
accennato, questa convergenza non cancella alcuni caratteri di
fondo dei modelli di consumo italiani, che in alcuni casi sono
elementi di originalità e che, anche quando rappresentano invece
debolezze o punti di forza specifici, rientrano comunque nelle
differenze riscontrabili all'interno dei paesi avanzati. Sul versante
dell'offerta, poi, la penisola viene a dotarsi di un'industria
alimentare comparabile nel complesso a quella delle altre nazioni
sviluppate, con un'articolata serie di imprese medie e medio-
grandi, in alcuni casi, si è visto, anche multinazionali. Anche da
questo punto di vista, tuttavia, non mancano le particolarità, quali
una larga presenza di piccoli produttori, coerente del resto con la
forte incidenza che nell'industria italiana ha la piccola e media
impresa. Significativo, e piuttosto inedito, è poi il peso del
capitale straniero, cui per converso non corrisponde l'esistenza di
grandi gruppi "globali" italiani. Restano, infine, i limiti cui pure
si è accennato dal punto di vista dell'integrazione industria-
agricoltura e della bilancia commerciale.
E' in un quadro siffatto che a partire dagli anni Novanta vengono
sempre più a specificarsi e ad affermarsi sui mercati europei e
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 31
internazionali le produzioni tipiche locali italiane. Si tratta di un
fenomeno nuovo, non tanto in sé quanto per la rilevanza che
negli ultimi due decenni è venuto acquisendo, delineando una
prospettiva di rilancio del settore agroalimentare ulteriore rispetto
a quella imperniata sulla grande industria, proprio nel momento
in cui quest'ultima ipotesi segnava il passo.
In realtà i prodotti tipici italiani preesistono largamente a questa
fase recente, ed hanno anzi giocato un ruolo importante, come si
vedrà, nell'affermazione delle produzioni nazionali in ambito
internazionale. Tuttavia, a partire dagli anni Ottanta essi
conoscono un nuovo rilievo - non da ultimo nella percezione
degli stessi italiani - e in parte anche una ridefinizione per effetto
di un'articolata serie di fattori. Tra questi ultimi si può annoverare
il revival di elementi della cultura tradizionale che, affermatosi
nelle società più avanzate sin dagli anni Sessanta, coinvolge
infine la penisola quando anche questa, un ventennio più tardi,
raggiunge un livello maturo di sviluppo. Ma accanto a ciò stanno
elementi ulteriori, legati al recupero delle identità locali nel
contesto dei processi di integrazione internazionale avviatisi
negli anni Novanta, alle preoccupazioni ambientali o alla ricerca
di genuinità e autenticità, alla reazione alla massificazione e alle
manipolazioni tecnologiche di produzioni industriali anonime
realizzate ormai su scala mondiale. Gli stessi orientamenti
legislativi europei, e più in generale quella "piccola
globalizzazione" nella più grande globalizzazione che il processo
di integrazione del Vecchio Continente ha rappresentato, aprono
una nuova stagione per le specialità locali, che da un lato si
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 32
sovrappone a fasi precedenti di affermazione di questa tipologia
di produzioni alimentari, dall'altro ne amplifica l'efficacia
commerciale sia all'interno che all'esterno del paese.
Nelle pagine che seguono si ripercorreranno le linee attraverso
cui le produzioni tipiche italiane sono venute acquisendo una
dimensione commerciale rilevante. Lungi dall'aspirare ad essere
esaustiva, una tale ricostruzione si baserà su alcuni casi
significativi e tenterà di individuare i meccanismi e le modalità
che hanno condotto al riconoscimento di tali specialità come
tipiche, decretandone successo commerciale e rilevanza
economica sia all'estero che - per quanto le due cose non sempre
coincidano - all'interno del paese. Per questa via ci si sforzerà
anche di offrire spunti per una migliore definizione del concetto
di prodotto tipico, almeno dal punto di vista storico e
commerciale.
La precoce affermazione di grana e parmigiano
Secondo i dati Ismea nel 2003, dieci anni dopo l'istituzione dei
marchi Dop e Igp, oltre il 42% del fatturato alla produzione (e del
35% di quello al consumo) del totale dei prodotti tipici italiani
era rappresentato da parmigiano reggiano e grana padano, più o
meno a pari merito. Nel 2010 questi due prodotti hanno
continuato a rappresentare il 38,7 dell'export caseario nazionale
e circa il 2,3% di quello agroalimentare totale italiano. Questa
rilevanza delle produzioni di formaggio duro e la rapidità con cui
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 33
si impongono tra i nuovi marchi a certificazione comunitaria, del
resto, non devono stupire. Anche se la crescita in valori assoluti
della loro esportazione data, come per altre specialità tradizionali
italiane, soprattutto dagli inizi del Novecento, parmigiano e grana
sono tra i più antichi prodotti tipici del paese, riconosciuti come
tali in Europa almeno dal Sei-Settecento, se non probabilmente
anche in precedenza. Basta una ricognizione anche superficiale
delle fonti d'epoca per scoprire come già durante il grande
incendio di Londra, il 4 settembre del 1666, Samuel Pepys si
premurasse di mettere al riparo in una fossa scavata sotto terra le
sue scorte di "Parmezan", assieme a vini pregiati e ad altri oggetti
di valore. Nel 1778 la fregata da corsa britannica Westmorland,
intercettata al largo di Livorno da quattro vascelli francesi, venne
depredata, oltre che di preziosi dipinti, seta e altre merci preziose,
anche di 32 forme di parmigiano. E ancora, studi recenti sulla
Royal Navy attestano come i suoi ufficiali durante il periodo
napoleonico, e lo stesso Nelson pare, non disdegnassero di
imbarcarne alcune forme per il proprio consumo personale
(Macdonald, 2002, pp. 128-130). Come del resto faceva il loro
avversario Napoleone, che ne richiedeva non senza una certa
insistenza, pare, scorte adeguate al primo ministro del Regno
d'Italia Melzi (Lavati, 2002, pp. 81-87). La lista di riferimenti
potrebbe continuare e lascia intendere come grana e parmigiano -
menzionati insieme ad esempio da Casanova, che nelle sue
memorie (VIII, 9) si premura di specificare come il secondo
venga in realtà dal Lodigiano - siano ben noti e apprezzati nei
secoli XVII-XVIII tanto nel mondo anglosassone che in Francia,
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 34
da dove origina il termine inglese che li designa. Benché
soprattutto il parmigiano venga citato già nel Decameron e se ne
trovino riferimenti sin dal Trecento, è soprattutto il
riconoscimento esterno, internazionale, dei secoli successivi a
sottendere alla sua rilevanza economica, implicando volumi di
produzione relativamente consistenti, vettori commerciali e,
insomma, tutta un'economia locale che ne sostiene l'affermazione
di mercato (Ceccarelli et al., 2010, p. 56). E' il riconoscimento
esterno, in altri termini, che ne determina la rilevanza come
tipicità. Ne', come si accennava, tutto questo deve stupire, se si
considera che grana e parmigiano sono sin dal Basso Medioevo i
principali prodotti di una delle economie più ricche e avanzate
del continente, uno dei pochi casi, assieme ai Paesi Bassi, di
agricoltura irrigua europea, frutto di un'accumulazione di
lunghissimo periodo in termini di canalizzazioni, sistemazione
dei terreni e conoscenze agrarie. Gli accenni fatti alla
predilezione britannica per questo formaggio e a Livorno, che del
commercio inglese diviene nel XVII secolo la principale base
mediterranea, rinviano probabilmente all'orientamento verso il
porto toscano di almeno una parte dei flussi di traffico con cui i
negozianti della Bassa emiliana e milanese alimentano i loro
affari. Come ha recentemente bene illustrato Claudio Besana
(2012), sono questi ultimi, cioè i grossi intermediari commerciali
che a Milano, Lodi, Codogno, Reggio e almeno a fino tutto il
Settecento soprattutto Parma curano la stagionatura - con gli
oneri di capitale circolante che comporta - oltre che la
distribuzione, a rappresentare il motore che sta alla base della
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 35
precoce affermazione di questa tipicità nazionale. Il settore
commerciale è in altri termini più importante degli stessi casari,
titolari della metodologie tradizionali di produzione, o degli
stessi grandi affittuari su cui poggia lo sviluppo dell'agricoltura di
questa porzione di pianura padana e di cui il caseificio è
un'appendice. La qualità intrinseca del prodotto, infatti, non va di
per sé eccessivamente enfatizzata. Se accanto all'intraprendenza
commerciale, le condizioni ambientali - i prati irrigui della Bassa,
l'utilizzo di bovini svizzeri o di quelli reggiani - e le tradizioni
produttive del caseificio padano hanno ovviamente un ruolo nel
successo di questo tipo di formaggi, non va tuttavia dimenticato
che fino al tardo Ottocento la loro qualità è tutt'altro che
omogenea, le "fallanze" sono frequenti e più in generale le
insufficienze dei metodi consuetudinari di lavorazione pesanti e
tali da compromettere la stessa tenuta commerciale del comparto.
E' così solo con l'istituzione negli anni Settanta da parte del
Ministero dell'agricoltura della Stazione sperimentale di
caseificio di Lodi o della Regia scuola zootecnica di Reggio che i
gravi limiti delle pratiche tradizionali proprio sul versante
qualitativo cominceranno ad essere superati, non da ultimo col
ricorso a tecniche e soluzioni imitate dall'estero. Nel caso
reggiano, ad esempio, ciò porterà al miglioramento, attraverso
incroci con specie nordiche, della stessa vacca rossa, reggiana
formentina, sino ad allora usata per le produzione casearia
(Paterlini, 2002).
La vicenda di grana e parmigiano, così, è utile per delineare
alcuni dei meccanismi che soggiacciono all'affermazione di una
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 36
produzione tipica. Essa indica bene, anzitutto, come la sua
aderenza con i sapori, le materie prime e le stesse tecniche di
preparazione del passato siano tutt'altro che scontati (Capatti,
Montanari, 2002, pp. 95-98); ed in secondo luogo come la tipicità
per essere tale, o quanto meno per avere rilevanza economica e
commerciale, richieda necessariamente il suo riconoscimento
dall'esterno, che ne fa qualcosa di diverso da una semplice
produzione locale. Non solo, ma mostra anche come questa
affermazione esterna, extra-locale, riposi in larga misura su di
una struttura commerciale, di intermediazione - e più tardi, in
epoca industriale, anche manifatturiera e promozionale, di
marketing - ulteriore rispetto alle tecniche tradizionali e alle
condizioni ambientali territoriali a cui normalmente ci si
richiama per designare le specialità tipiche.
Grana e parmigiano hanno tuttavia anche un'altra caratteristica,
quella cioè di costituire un caso, se non forse del tutto isolato, per
lo meno raro e particolarmente precoce di affermazione di un
prodotto tipico italiano - fermi restando tutti i limiti che una
simile denotazione ha prima dell'unificazione della penisola e, a
ben vedere, anche successivamente ad essa, vista la molteplicità
di contesti sociali, culturali, territoriali di cui l'Italia continua a
comporsi. Se si guarda alle specialità tipiche che attualmente
sostengono l'export del nostro paese, pochissime sono quelle
precoci come i formaggi duri padani, il che probabilmente riflette
la crisi produttiva e commerciale che la penisola conosce tra
XVII e XIX secolo e la discontinuità con la precedente fioritura
rinascimentale e basso medievale, oltre che, naturalmente, i limiti
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 37
più generalizzati che le tecniche di conservazione ponevano
all'affermazione su mercati vasti di vari comparti alimentari fino
alla fine dell'Ottocento.
I frutti dell'imitazione
Una modalità decisamente più diffusa di affermazione delle
specialità nazionali, o quanto meno più rilevante per quella delle
attuali tipicità del paese, è costituita da processi di imitazione di
generi - almeno commercialmente - già affermati. Per quanto
paradossale ciò possa apparire parlando di prodotti tipici, in
realtà l'imitazione costituisce, in questo come in molti ambiti,
uno dei principali motori della crescita, specie nelle sue fasi
iniziali, e non va necessariamente concepita come opposta,
quanto piuttosto anche come complementare all'innovazione. Più
in concreto, molte delle tipicità italiane, nazionali o regionali che
siano, vengono affermandosi imitando, o comunque essendo
inizialmente associate, ad altre produzioni già apprezzate sui
mercati e successivamente poi guadagnando riconoscibilità e
spazi commerciali autonomi. Processi di questo genere datano
almeno dal tardo Settecento e storicamente costituiscono i casi di
specialità di rilievo più precoci dopo quelli visti in precedenza.
Esemplare è al riguardo la vicenda del vino marsala, "scoperto"
nel tardo Settecento dai mercanti inglesi che già da secoli
battevano le isole del Mediterraneo alla ricerca di
approvvigionamenti di uva passa, molto richiesta in patria come
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dessert digestivo. Tra costoro John Woodhouse nel 1773
comincia a preparare il vino siciliano con l'aggiunta di alcol, al
modo del madeira, per renderlo più facilmente trasportabile. La
sua vera affermazione si ha però durante le guerre napoleoniche.
Sin dal 1794 Woodhouse rileva una vecchia tonnara per
realizzarvi il primo "baglio", cui seguirà la costruzione, sempre a
sue spese, di un molo nel porto siciliano e l'avvio, nel 1798, delle
forniture alla base maltese della flotta inglese. In coincidenza con
le guerre con la Francia e con le difficoltà che queste comportano
nei tradizionali approvvigionamenti britannici di vini liquorosi
portoghesi, come appunto il porto e il madeira o dello stesso
sherry di cui pure si copieranno alcuni procedimenti produttivi,
prende così il via una vera e propria economia del marsala, che
nei primi decenni dell'Ottocento vede il moltiplicarsi degli
imprenditori inglesi (Jospeph Payne, Thomas Corlett, James
Hopps, Benjamin Ingham) e la diffusione dei centri di raccolta
del mosto (Mazara, Castelvetrano, e a nord, Castellammare,
Balestrate). Ne' il successo di questo vino si limita alla Gran
Bretagna, poiché già durante la Restaurazione i fratelli
Woodhouse e soprattutto il loro maggiore concorrente, Benjamin
Ingham, lo introducono negli Stati Uniti, forti anche del suo
minor costo rispetto ai concorrenti più blasonati e già affermati
come ancora una volta il madeira. Sotto la spinta iniziale dei
capitali britannici l'espandersi della viticoltura e il sorgere di una
vasta serie di impianti e infrastrutture produttive farà sì che verso
la fine del secolo alcuni osservatori giungano a parlare di un
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angolo dell'Inghilterra industriale trapiantato sul lembo estremo
della Sicilia (Cancila, pp.34ss).
Un ulteriore risvolto di questo processo di imitazione si
manifesterà poi a partire dagli anni trenta del secolo XIX, quando
sulla scorta degli inglesi cominciano ad emergere anche i
produttori italiani. Tra di essi in particolare i Florio crescono
rapidamente d'importanza fino a diventare nel primo
quarantennio unitario i maggiori esponenti del settore, nonché
una delle principali famiglie imprenditoriali italiane, centro di un
vasto impero che dallo zolfo e dal vino spazia fino al controllo
della Società generale di navigazione italiana e a molteplici
interessi industriali e finanziari (Candela, 2008).
Nonostante le difficoltà - i problemi doganali insorti negli Stati
Uniti già attorno alla metà dell'Ottocento, la crescente
concorrenza del vermouth verso la fine del secolo, il declino
della stessa fortuna dei Florio agli inizi di quello successivo - il
marsala emancipa la propria immagine dai vini portoghesi e si
costruisce progressivamente nel corso del XIX secolo una solida
presenza autonoma sui mercati internazionali, ed in particolare su
quelli anglosassoni. Questa affermazione ne fa una delle
specialità nazionali ante litteram, largamente precedente ai
marchi di tipicità e alle certificazioni di origine controllata.
Un caso, un po' più tardo, che pure illustra bene il ruolo avuto dai
processi imitativi - o se si preferisce dalla sostituzione di prodotti
già affermati con altri, almeno inizialmente, di minor prezzo, che
per questa via valorizzano le proprie caratteristiche ed acquistano
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poi una propria fisionomia commerciale autonoma - è poi quello
del gorgonzola.
Prodotto da decenni e probabilmente da secoli, questo stracchino
conobbe un'inattesa affermazione negli anni Settanta
dell'Ottocento, se non già in precedenza, tanto sui mercati
austriaci e centro europei, ove ne venivano apprezzate le varietà
meno forti e piccanti, quanto soprattutto su quelli francesi e
inglesi, ove si affermò sulla scia (e quale imitazione si potrebbe
affermare) di formaggi erborinati come il roquefort e lo stilton.
Rispetto a questi ultimi il gorgonzola aveva infatti il pregio di
avere un prezzo estremamente inferiore, che attorno al 1880
poteva essere all'incirca la metà del concorrente d'oltralpe, il
quale per altro, trattandosi di un cacio pecorino anziché vaccino,
ha un sapore molto marcato e pungente non sempre apprezzato al
di fuori della Francia. Il successo stimolò l'espansione delle
produzioni realizzate già in aree più vaste di quelle di
Gorgonzola, da cui si voleva provenissero gli stracchini migliori:
dal Milanese, (Besana, pp.231-241) esse si estesero ad una vasta
porzione della pianura padana che dal Piemonte arrivava fino al
Bergamasco e al Mantovano Alla base di questi sviluppi stava
anche la spinta dei gruppi legati al commercio di latticini
lombardi e agli interessi che ad essi apre la realizzazione dei
collegamenti attraverso le Alpi, a partire da quello del Gottardo
del 1882. Merita di essere ricordato, d'altra parte, che in quegli
stessi anni l'abbondanza di latte e le abilità mercantili e
produttive disponibili nell'area padana vengono utilizzate, oltre
che per lavorazioni locali come il grana di cui si è già detto,
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 41
anche per realizzare cospicue produzioni di formaggi stranieri,
largamente affermati dal punto di vista commerciale all'estero
come nella stessa penisola, quali in primo luogo l'emmenthal
svizzero. E proprio queste specializzazioni, non meno che il
gorgonzola, vedono sorgere nell'area lombarda le prime imprese
propriamente industriali del settore caseario italiano.
Tornando ai formaggi erborinati a pasta molle, un forte limite che
si riscontrò nella loro lavorazione fu quello della stagionatura
attraverso la refrigerazione artificiale, conveniente dal punto di
vista industriale ma da cui risultava un alto numero di forme di
cattiva qualità e di scarti, oltre che una significativa inferiorità
rispetto, ad esempio, al roquefort stagionato invece in grotte.
Proprio per ovviare a questi inconvenienti, numerosi produttori si
affidarono allora, per certi versi scoprendoli, ai metodi
tradizionali di stagionatura naturale - in grotte e poi in baracche
costruite a ridosso della montagna - degli stracchini propri della
Valsassina, nel Lecchese, che divenne rapidamente nello scorcio
dell'Ottocento il maggior centro di maturazione del gorgonzola
del paese. La grande maggioranza del prodotto veniva fabbricato
nelle pianure sottostanti e solamente fatto stagionare in valle da
grosse aziende produttrici, la principale delle quali era la
Polenghi Lombardo, o dai maggiori intermediari lombardi e
piemontesi del settore, che poi ne curavano l'esportazione su carri
ferroviari refrigerati nell'Europa settentrionale. Non mancarono,
tuttavia, piccole quote di produzioni locali o della Val Taleggio,
e soprattutto margini di affermazione per imprese minori anche
se non del luogo, quali la Locatelli e soprattutto la Galbani
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 42
(Mandressi, 1999). Significativamente, ancora nel 1896 Egidio
Galbani veniva premiato a Roma per i suoi prodotti "ad
imitazione dei formaggi francesi": già da qualche anno, per altro,
egli aveva trasferito la maggior parte delle sue attività a Melzo,
avviando la costituzione di uno dei maggiori complessi produttivi
nazionali del comparto e dedicandosi, coerentemente come si è
già accennato con lo spiccato carattere industriale di queste
attività, a prodotti originali ma spesso - si pensi al Belpaese -
scarsamente caratterizzati nel senso della tipicità. Per contro, la
sovrapposizione del gorgonzola con i formaggi francesi e inglesi,
perdura anche nel nuovo secolo, come testimonia ancora nel
1917 Pietro Lanino (III, p. 166) nel passare in rassegna le
esportazioni italiane del settore caseario. Le vicende di
quest'ultimo sinora ricordate rappresentano bene l'intreccio di
nessi e rapporti che intercorrono tra Otto e Novecento a livello
internazionale tra le varie produzioni alimentari e come le
dinamiche imitative si combinino con le spinte innovative nello
stesso ambito delle specialità tipiche, a dispetto dei loro caratteri
- spesso solo presunti - di originalità e aderenza nel tempo a
tradizioni stabili.
Un caso ulteriore è infine quello degli spumanti astigiani, utile
per indicare come i meccanismi imitativi non funzionino soltanto
nell'affermazione all'estero ma, almeno sul breve e medio
periodo, anche per guadagnare spazi sui mercati domestici. La
vicenda di questi vini speciali piemontesi, in particolare,
permette anche di cogliere il momento in cui un prodotto
acquista una fisionomia autonoma e le circostanze che a tale
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passaggio possono concorrere. Sin dall'indomani dell'Unità i
produttori di vini pregiati dell'ex Stato sabaudo, accanto alla
realizzazione di qualità originali, come il vermouth, si sforzano
di imitare il successo conseguito dagli champagne francesi.
Proprio attorno alla metà dell'Ottocento questi ultimi fanno
segnare un deciso salto di qualità, tanto nel miglioramento delle
tecniche di lavorazione - applicando le nuove conoscenze della
chimica in particolare al controllo della fermentazione -, quanto
in ulteriori ampliamenti della loro già solida posizione di
predominio commerciale a livello internazionale. Sin dal
decennio preunitario, nel quadro della più generale politica
cavouriana di valorizzazione delle risorse agricole e delle
"industrie naturali", emergono tutta una serie di produttori che
mirano a realizzare vini spumanti a partire dalle coltivazioni di
moscato del Monferrato e delle Langhe. Alcuni di essi
raggiungono verso la fine del XIX secolo buoni risultati, sia
adottando le metodologie francesi che ricorrendo alle tecniche
più avanzate messe loro a disposizione dall'enologia piemontese,
ed in particolare dalla Stazione sperimentale istituita ad Asti nel
1873. Nel caso di alcune aziende, come quelle dei Bosca o dei
Gancia, attive rispettivamente sin dal 1835 e dal 1850, tali
successi si traducono in un considerevole aumento delle quantità
prodotte e nell'attivazione di rilevanti circuiti commerciali, tanto
in Italia che all'estero. Nonostante questi sviluppi, tuttavia, i vini
spumanti astigiani restano sostanzialmente per tutti i primi due
decenni del Novecento delle imitazioni degli champagne
francesi, con i quali condividono, oltre alla buona qualità, il
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prezzo elevato. La situazione muta nel ventennio tra le due
guerre, quando queste produzioni acquistano progressivamente
una fisionomia autonoma, gettando le basi dell'affermazione di
quei spumanti piemontesi che non solo costituiranno poi, col
boom del secondo dopoguerra, dei prodotti tipici a tutti gli effetti,
ma che finiranno anche negli ultimi decenni del secolo per aprire
la strada a tutta una articolata serie di vini speciali appartenenti
anche ad altre regioni del Nord Italia, a cominciare dal prosecco.
All'individuazione di un prodotto italiano, distinto dagli
champagne d'oltralpe, concorrono negli anni tra le due guerre
tutta una serie di elementi in larga misura riconducibili alle
politiche commerciali - di marketing si direbbe oggi - poste in
essere da aziende quali in primo luogo la Gancia di Canelli.
All'interno del più generale clima autarchico, che pure
ovviamente concorre al risultato non fosse altro sul piano
linguistico e dell'enfasi posta sulle produzioni nazionali, la
Gancia o la Cinzano optano per esempio per massicce campagne
pubblicitarie, che ricorrono ai più innovativi cartellonisti del
periodo ed impongono presso un vasto pubblico i rispettivi
marchi. Unitamente a questa scelta, vengono lanciate linee di
prodotto di media qualità a prezzo contenuto e valorizzate le
varietà dolci di spumante, che bene si adattano alle possibilità di
spesa e al gusto stesso - più popolare - di fasce sociali più vaste
rispetto a quelle estremamente elitarie dedite al consumo di brut
francesi (Cirio, Repetti, 1986, pp. 118ss). A simili scelte e a
un'intensa opera di razionalizzazione ed anche di innovazione
sotto il profilo produttivo (ad esempio la fermentazione in
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autoclave per alcune varietà al posto di quella in bottiglia tipica
del metodo champenoise), si aggiunge infine l'attenzione alla
delimitazione delle produzioni, con l'approdo sin dal 1932
all'istituzione del Consorzio di tutela dell'Asti Spumante. Come
si è accennato, sarà nel secondo dopoguerra che tali sforzi
verranno ad essere maggiormente premiati, soprattutto per la
nascita di nuovi prodotti tipici a cui porta questo lungo processo
di imitazione e differenziazione produttiva.
Il volano dell'emigrazione
Ben più delle dinamiche viste sin ora, tuttavia, un ruolo decisivo
per l'affermazione delle tipicità italiane a livello internazionale è
da attribuirsi al massiccio fenomeno migratorio che ha
interessato la penisola tra il tardo Ottocento e la seconda metà del
secolo successivo. Nell'arco di circa un secolo si stima che circa
30 milioni di italiani siano emigrati, a fronte di una popolazione
nazionale che all'epoca dell'Unità era di 23 milioni. Si tratta
ovviamente di un processo piuttosto diversificato per le sue
modalità (emigrazione permanente, temporanea e addirittura a
volte stagionale anche su lunghe distanze) così come per la sua
provenienza regionale, le sue destinazioni e per gli stessi ritmi
con cui si dispiega (con il crescendo fino all'età giolittiana, la
pausa del fascismo e la ripresa nel dopoguerra), ma con
all'interno alcuni forti elementi di regolarità, che per altro trovano
riscontro anche in fenomeni migratori che interessano paesi e
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periodi diversi. Tra questi elementi costanti un ruolo di rilievo
occupano sicuramente il cibo e l'alimentazione, sia per il forte
valore identitario, di legame con il paese di provenienza e le
stesse comunità di emigranti (le Little Italy nel caso del nostro
paese) che i consumi di questo tipo assumono, sia per i processi
di ibridazione e di scambio con i contesti di immigrazione a cui
inevitabilmente vanno incontro, quanto meno (ma in realtà non
solo) sul medio e lungo periodo. Le comunità di emigranti
italiani divengono così già prima della fine dell'Ottocento
importanti sbocchi all'estero per le produzioni alimentari
nazionali, ad anzi svolgono in molti casi un ruolo decisivo, non
solo nel sostenere le esportazioni del settore, ma anche nel
favorire l'emergere all'interno di esso di imprese di tipo moderno,
con volumi di lavorazione, strutture commerciali e capacità
tecnico-organizzative sufficienti per misurarsi su mercati esteri -
per quanto facilmente praticabili date le preferenze di consumo
delle comunità di emigranti. Almeno sul medio periodo le
colonie di migranti diventano potenti strumenti di penetrazione
commerciale dei prodotti alimentari della madrepatria in ambiti
internazionali del tutto nuovi e spesso, in quanto mete di
immigrazione, con redditi elevati ed una domanda diffusa
cospicua. Un ruolo importante giocano in questo senso, non solo
gli emigranti stessi, con i punti appoggio, il personale
commerciale e a volte persino i capitali che forniscono alle
aziende esportatrici, ma anche gli stessi "luoghi della socialità"
delle comunità all'estero, vale a dire tutta quella serie di locali,
osterie, caffè, ristoranti, pizzerie che, più o meno rapidamente - e,
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a ben vedere, non solo nel caso italiano -, entrano a far parte
dell'ambiente culturale e delle abitudini alimentari e di consumo
dei paesi ospiti. Naturalmente simili processi non sono a senso
unico: piuttosto rapidamente, infatti, i prodotti nazionali trovano
imitatori locali all'estero, sia all'interno degli stessi ambienti
dell'emigrazione, sia, più spesso di quanto forse comunemente si
crede, tra gli stessi produttori dei paesi ospiti. In entrambi i casi
la concorrenza locale è avvantaggiata dai minori costi di
trasporto ed anche, sul piano della qualità, da materie prime e
modalità di lavorazione che spesso meglio si adattano ai gusti del
luogo. Tutto ciò compensa, almeno in parte, i caratteri di
originalità e tipicità dei prodotti importati, e crea non di rado per
questa via nuove specialità o quanto meno loro versioni, appunto,
locali (La Cecla, 1997; Levenstein, 1997). Senza arrivare negli
Stati Uniti, del resto, basta fare qualche centinaio di chilometri
dal capoluogo campano per trovare una pizza "napoletana"
piuttosto diversa da quella fatta a Napoli - ove peraltro essa non è
designata con questo aggettivo - e che però, magari, si adatta
meglio al gusto al locale.
Come racconta Franco La Cecla (1998), la pizza e la pasta sono
probabilmente le principali tra le specialità italiane affermatesi a
livello internazionale per effetto del grande processo di
emigrazione che ha interessato la penisola tra il tardo secolo XIX
e buona parte del XX, quelle con maggiore valore simbolico ed
identitario, che hanno finito per rappresentare in modo
immediato e diffuso l'italianità nel mondo. I tratti in comune tra
questi due preparati alimentari sono numerosi, a cominciare dal
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fatto che la loro affermazione come piatti nazionali è in realtà
pressoché parallela alla loro identificazione con l'immagine del
paese e dei suoi emigranti in ambito internazionale e viene da
quest'ultima in certa misura rafforzata e confermata. Dal punto di
vista che più interessa in questa sede, tuttavia, cioè della loro
valenza commerciale in quanto espressione dell'industria
alimentare italiana nel mondo, pizza e pasta divergono in misura
significativa e costituiscono casi piuttosto distinti.
Nel caso della pizza infatti si ha a che fare con un genere
strettamente artigianale - almeno fino alle evoluzioni recenti del
prodotto pronto surgelato - dalla preparazione piuttosto variabile
e largamente diffuso in tutta l'area mediterranea e oltre: una
focaccia di acqua e farina con vari tipi di guarnitura e in linea di
principio non differente dalla pita greca o dal lamachun turco.
Della sua produzione per il commercio ambulante cittadino si ha
notizia a Napoli sino almeno dalla fine del Seicento, mentre nel
corso del secolo successivo essa comincia ad essere consumabile
anche presso alcuni dei forni che la producono e che si dotano a
questo scopo di tavolini - attaccati alle pareti, ricorda Gabriele
Benincasa, per evitare che venissero portati via. E tuttavia è solo
alla fine dell'Ottocento che la pizza si cristallizza nella sua
versione di base e più diffusa, quella con pomodoro, mozzarella e
basilico, che, pure ampiamente preesistente, trova allora il suo
nome in omaggio alla regina Margherita. E non sfuggirà che la
sua assunzione per questa via tra le specialità nazionali avviene
attraverso una narrazione piena di significati simbolici, dalla
stanchezza per la cucina francese e dall'interesse della nuova
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Casa regnante per il cibo popolare della ex-capitale del
Meridione ai colori del condimento, che rimandano con evidenza
al tricolore del nuovo Stato unitario. Tutta la vicenda, inoltre,
avviene nel 1889, in parallelo cioè con l'avvio di quella vasta
affermazione che la pizza troverà nei paesi che ospitano
l'emigrazione italiana, primi fra tutti gli Stati Uniti, e che
rapidamente ne adotteranno diffusamente il consumo, sia come
fast food sia come prodotto take away. Addomesticata al gusto
locale e in molti casi per questa via rielaborata, essa verrà
riproiettata così sull'immagine che dell'Italia si ha nel mondo.
Nonostante la sua rilevanza simbolica, nella costruzione di una
dieta nazionale sia nel paese che all'estero, tuttavia, la pizza ha
un'importanza minore dal punto di vista che qui interessa, vale a
dire come prodotto tipico che favorisce la presenza dell'industria
alimentare della penisola in più vasti ambiti internazionali.
Troppo artigianale è infatti la sua realizzazione, troppo diffusi,
semplici e variabili i suoi ingredienti di base, troppo adattabile la
sua tipologia di prodotto, perché essa svolga in questo ruolo.
Naturalmente le pizzerie proliferano tra le comunità italiane
all'estero, ma rapidamente, sull'onda del loro stesso successo,
trovano imitatori anche in ambienti più vasti, facilitati dalla
diffusa presenza di prodotti analoghi in numerose altre tradizioni
alimentari, si è detto, mediterranee e non.
Diverso invece è il caso della pasta. Di origini probabilmente
mediorientali, ma diffusa anche nel mondo romano nella sua
versione di pasta stesa realizzata con grano tenero (lagana, da cui
poi lasagne, ravioli, tortellini, tagliatelle, ecc.), essa viene
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largamente prodotta in forma di maccheroni (trafilati e in grano
duro) nella Sicilia araba dell'alto medioevo (Serventi e Sabban,
2000). Seppure presente a partire da questi antecedenti in varie
altre aree europee durante i secoli successivi, la pasta ha la sua
prima affermazione di rilievo nella Napoli seicentesca, i cui strati
popolari, come racconta il celebre saggio di Emilio Sereni
(1981), diventano appunto da "mangiafoglia" a
"mangiamaccheroni" per reazione alla crisi del secolo XVII. Da
allora, questo genere di alimento avanza progressivamente nella
penisola, specie nel Meridione ove si coltiva il grano duro
indicato per la sua preparazione mediante trafilatura. E
nondimeno si tratta di una conquista lenta, se ancora durante la
Restaurazione i Buitoni, per avviare il proprio piccolo pastificio
nella provincia toscana, si vedono costretti a ricorrere ad un
artigiano genovese, proveniente cioè da uno dei centri già
medievali di diffusione di questo prodotto oltre a Napoli. Quasi
paradossalmente, poi, quando negli ultimi decenni dell'Ottocento
la pasta accelera la sua penetrazione nei costumi alimentari degli
italiani, assurgendo a cibo nazionale (anche in questo caso con la
sponda offerta dall'immagine internazionale dell'emigrazione), il
mercato che così si crea viene in larga misura rifornito da
produttori stranieri. E' infatti soprattutto l'industria marsigliese
che, anticipando quella napoletana e quella ligure nella
meccanizzazione, assume il primato nell'approvvigionamento di
prodotti pastari sia in Italia che all'estero. Né ad essa difetta la
materia prima, perché i maccheroni nella loro versione classica,
tra fine XIX e inizio XX secolo, vengono ormai prodotti in Italia
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 51
come in Francia con l'eccellente grano duro ucraino. E
quest'ultimo, il Taganrog, dal canto suo è tutt'altro che privo di
quarti di nobiltà nei confronti delle varietà di frumento della
penisola, provenendo da quel Chersoneso che era uno dei granai
dell'antichità mediterranea. E' solo negli anni attorno al volgere
del secolo che, infine, i produttori italiani recuperano terreno, con
il progressivo delinearsi di consistenti poli industriali, a
Gragnano, Torre Annunziata, Genova naturalmente, ma anche
altrove, da Roma all'area basso adriatica tra Puglia ed Abruzzo
(De Majo, 2001). Anche in questo caso l'emigrazione, o più
precisamente l'approvvigionamento a lunga distanza delle ormai
cospicue colonie di lavoratori italiani nelle Americhe e in
Europa, giocano un ruolo decisivo nell'emergere delle aziende
più moderne e strutturate, capaci di rifornire mercati lontani e
(relativamente) anonimi, dotandosi di capacità commerciali e
amministrative, di marchi riconoscibili, volumi di produzione
adeguati e articolate reti di supporto delle vendite. La pasta
diviene così probabilmente il più importante prodotto tipico
italiano all'estero, denso di valore identitario al pari della pizza.
Nondimeno, seppure in misura minore rispetto a quest'ultima, i
produttori italiani devono scontare l'avvio piuttosto precoce di
processi di imitazione. Essi inizialmente riguardano gli stessi
ambienti dell'emigrazione per poi coinvolgere abbastanza
rapidamente gli imprenditori autoctoni dei paesi di
immigrazione, complice anche il vasto successo che la pasta
conosce presso i consumatori locali. La Cecla (1998, p. 61)
descrive tra le altre la storia esemplare del piacentino Ettore
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Boiardi, che avvia la sua carriera come cuoco nel 1910 a New
York, divenendo poi ristoratore a Cleveland ed infine industriale
della pasta negli States, dove certo non mancano eccellenti grani
duri. Con il marchio Chef Boyardee i suoi spaghetti in scatola
con sugo e parmigiano entreranno a far parte delle razioni di
combattimento dell'esercito americano durante la seconda
mondiale, diventando uno dei prodotti più popolari del paese.
Sori (2011, pp. 38-39), dal canto suo, cita i casi dei pastifici
Cesaretto e Loretti in Argentina, entrambi con una cinquantina di
addetti rispettivamente nel 1898 e nel 1906, ma indica anche
come ad esempio nello Stato brasiliano del Paranà nel primo
trentennio del Novecento i produttori di pasta e lieviti fossero
solo per il 42% di origine italiana. Nel 1929 negli Stati Uniti
esistevano ormai circa 550 pastifici (Mariani, 2011, p. 35). Nella
stessa Svizzera, dotata di tradizioni alimentari assai più
consolidate di quelle americane, la pasta viene massicciamente
importata dal flusso di immigranti italiani attivatosi negli anni
Ottanta del secolo XIX in corrispondenza con la fase delle grandi
costruzioni infrastrutturali e urbane e dell'intensificarsi del
processo di industrializzazione del paese. E, come indica Jakob
Tanner (pp. 484-495), sin dai decenni immediatamente successivi
essa comincia, da un lato, a penetrare nella dieta diffusa degli
stessi ceti popolari urbani elvetici e, dall'altro, ad essere prodotta
in loco - portando nel 1891 alla prima associazione di fabbricanti
e nel 1913 ad un cartello di regolazione del comparto. Tra le due
guerre, poi, questi processi giungono a compimento facendo
della pasta un prodotto di consumo ampiamente diffuso e in larga
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misura fabbricato in Svizzera, ancorché in parte adattato alle
tradizioni culinarie locali e basato in alcuni casi sull'uso di grano
tenero, oltre che su importazioni di grani duri.
Benché, insomma, anche le produzioni pastarie si trasferiscano
abbastanza rapidamente nei paesi di immigrazione e acquistino
più che altro un significato identitario legato all'immagine della
penisola nel mondo, esse nondimeno mantengono più della pizza
una valenza commerciale di promozione delle tipicità nazionali.
Non solo le esportazioni sostengono, fino almeno alla metà del
Novecento, la crescita di molti dei più rinomati marchi storici
nazionali, da Agnesi a De Cecco (Pierucci, 2003, p. 446), ma
ancora tra gli anni Trenta e i primi Quaranta è appunto
producendo pasta e sughi in scatola che la Buitoni riesce a
realizzare uno dei (piuttosto rari) processi di
multinazionalizzazione dell'industria italiana. Nel 1934 infatti
l'azienda apre uno stabilimento nei pressi di Parigi, con i cui utili
aggirerà le limitazioni poste dall'autarchia agli acquisti di cacao
per l'alleata Perugina; mentre nel 1941-42 il principale artefice
del suo successo, Giovanni Buitoni, crea un impianto nei pressi
di New York, ove è rimasto dopo un viaggio nel 1939, riuscendo
per altro a reperire in loco, presso la comunità italiana e
finanziatori ebraici, i capitali necessari che lo stato di guerra con
gli Usa gli impedisce di ricevere dalla madrepatria.
Dinamiche analoghe riguardano d'altro canto molti altri settori,
oltre a rafforzare la presenza all'estero di produzioni tipiche già
affermatesi, come il parmigiano o il marsala. Un caso esemplare
è quello del vermouth piemontese, che pure si afferma presso le
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 54
comunità di emigranti italiani dalla fine dell'Ottocento e conosce
un vasto successo nei paesi che li ospitano. Nelle Americhe, in
particolare negli Stati Uniti e in Argentina, esso porterà una delle
sue principali aziende produttrici, la Cinzano, a costituire una
cospicua struttura produttiva semiautonoma, che permetterà
all'impresa di continuare a svilupparsi, aggirando i limiti in
questo senso posti in Italia dall'autarchia, e ad assumere nel
secondo dopoguerra le dimensioni di una grossa multinazionale
di settore. L'emigrazione ha un ruolo decisivo nell'affermazione
di prodotti nazionali all'estero anche in molti altri comparti del
settore alimentare, a cominciare da quello, strettamente legato a
occasioni sociali e al consumo in locali pubblici, dei liquori, con
ad esempio amari come il piemontese Cora, il beneventano
Strega (Ferrandino, pp.101-102 e 187) o il fernet dei milanesi
fratelli Branca, o ancora i vermouth Martini e Carpano e gli
aperitivi Campari o Aperol. Ma assolutamente rilevanti sono le
spedizioni alle comunità all'estero nel caso di formaggi come il
pecorino romano o il caciocavallo, che si affermano per questa
via come specialità riconosciute già agli inizi del Novecento, o in
quello del prosciutto San Daniele, che alla fine del secolo
precedente viene spedito oltre oceano in latte da uno o mezzo
chilo (Maic, 1890, p. 79). Persino in un comparto di consumo
diffuso quale quello dei pelati e delle conserve di pomodoro, le
prime aziende meccanizzate di tipo moderno, come anzitutto la
Cirio (Chiapparino, 1998, pp. 239ss.), nascono a fine Ottocento
sostanzialmente in rapporto agli sbocchi che riescono a procurasi
sui mercati esteri, e ad essi in larga misura restano legate anche
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nella prima metà del secolo successivo, quando il settore vede
nascere una nuova leva di medie imprese emiliano-romagnole,
campane e più tardi anche pugliesi (Ostuni, 2003). In parallelo
gran parte della domanda interna continua ad essere soddisfatta
prevalentemente dai piccoli produttori locali, quando non
addirittura dalla autoproduzione domestica.
In sintesi, fino alle trasformazioni degli anni Sessanta le
esportazioni verso le comunità degli emigranti italiani, o da
queste favorite e indotte nei paesi che li ospitano, costituiscono
assieme alla domanda dei ceti medi delle grandi città e delle
maggiori aree urbane delle penisola il principale sbocco di
mercato per le imprese moderne del settore alimentare italiano.
Come si è visto in precedenza, se si escludono comparti "pesanti"
- come quello molitorio, di base, o quello speculativo dello
zucchero -, è quasi solo l'accesso a queste forme di domanda a
consentire alle aziende alimentari di aggirare le ristrettezze
strutturali del mercato interno della penisola e acquisire le
dimensioni, il grado di meccanizzazione e l'articolazione
organizzativa delle media, o più raramente medio-grande,
impresa industriale specializzata. In questo senso, non stupisce
che appunto all'export legato alla vicenda migratoria del paese si
leghino gran parte delle ditte e dei marchi storici dell'industria
alimentare nazionale, e con essi delle specialità affermatesi nella
prima metà del secolo XX.
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 56
Dal "made in Italy" alla certificazione di qualità europea
Nel corso degli anni Settanta la spinta migratoria, che per quasi
un secolo aveva visto defluire una parte cospicua della forza
lavoro italiana, viene definitivamente meno mentre si
intensificano i rientri o l'integrazione delle nuove generazioni di
oriundi. In parallelo all'esaurirsi di questa stagione, come si è
visto in precedenza, il paese conosce la profonda trasformazione
della sua struttura produttiva e dei suoi standard di vita, con la
modernizzazione, tra gli altri, degli stessi consumi alimentari. Sin
dai primissimi anni Sessanta, cioè dagli inizi di questi
cambiamenti, viene d'altra parte affermandosi - o meglio
riprendendo vigore - anche una nuova, diversa rappresentazione
della penisola.
L'Italia - afferma Rolf Petri (2007, p. 222) - era nella percezione
tedesca sempre più presente. "Gli italiani stanno rapidamente
avanzando. La concorrenza italiana è ogni anno più forte. Gli
italiani sono imbattibili nel buon gusto. In Italia si sa vivere!"
Queste sono soltanto alcune delle innumerevoli espressioni di
elogio, di entusiasmo e anche di preoccupazione che si
cominciavano a sentire sempre più spesso. Ai ricordi delle vacanze
di associavano ormai, nell'immaginario quotidiano di milioni di
tedeschi, le scarpe e le cravatte italiane, le macchine della Fiat, le
gelaterie e il caffè espresso.
Simili stereotipi, naturalmente, non sono solo tedeschi e si
mescolano, specie negli anni Settanta, con molti altri, più
negativi, di inaffidabilità, disorganizzazione, corruttela diffusa,
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 57
ecc. L'immagine della penisola come patria del gusto e del savoir
vivre, nondimeno, si rafforza col tempo e viene a maggior
ragione consolidandosi a livello internazionale durante la crescita
economica dei successivi anni Ottanta, allorché corrisponde ad
un preciso orientamento del tessuto produttivo nazionale verso i
settori maturi di generi di consumo. La crisi della grande impresa
fordista, particolarmente severa nel paese, trova infatti una
parziale (quanto per la verità inaspettata, sul momento) soluzione
con l'emergere di un diffuso tessuto di piccole e medie imprese,
spesso organizzate in sistemi produttivi locali decentrati e
flessibili, versati nelle produzioni di generi di abbigliamento e
accessori (scarpe, occhiali, ecc.), arredamento, articoli di design,
e capaci di una vasta affermazione sui mercati internazionali.
Una simile evoluzione non è priva di limiti, in quanto si
accompagna alle crescenti difficoltà dell'economia italiana nei
comparti avanzati ad alta tecnologia e, soprattutto, vede
quest'ultima concentrarsi in produzioni mature, che rischiano di
rivelarsi esposte alla concorrenza dei paesi a più basso reddito e
che le altri nazioni sviluppate abbandonano appunto in quella
fase temendo appunto una tale competizione. Dinamiche simili,
oltre che il "settore moda" e quello "casa", investono anche le
produzioni alimentari del paese. Per comprendere come ciò
avvenga, tuttavia, è necessario considerare un ulteriore elemento.
Sin dagli anni Sessanta, soprattutto nel mondo anglosassone, si
verifica una sorta di scoperta della "dieta mediterranea". Dalle
originarie osservazioni sull'alimentazione contadina dell'isola di
Creta e di piccoli comuni calabresi, la formula viene estesa a una
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 58
vasta serie di paesi europei e africani del bacino del Mediterraneo
occidentale (Keys, 1980) e si inserisce, oltre che nella nascente
percezione dei guasti provocati dalle diete ipercaloriche e
abbondanti di grassi animali tipiche dei paesi occidentali
avanzati, anche nel più generale rinnovato interesse per le culture
e i modi di vita tradizionali che prende piede in questi paesi al
vertice del loro sviluppo industriale. Paradossalmente però,
l'Italia rimane inizialmente estranea a queste tendenze: come si è
accennato, negli anni Sessanta e Settanta la penisola assiste ad
una modernizzazione dei consumi che, con l'urbanizzazione e
l'abbandono delle campagne, si caratterizzano spesso per un netto
rifiuto degli stili di vita tradizionali, al di là del fatto che questi
ultimi in larga misura permangano, o quanto meno influenzino
ancora significativamente i nuovi modelli di comportamento. In
questo senso, come si è visto, l'industria alimentare nazionale,
che in quella fase conosce la sua fase di espansione, propone
prodotti nuovi, tendenzialmente svincolati dalla tradizione o che
comunque mettono tra parentesi i loro caratteri di tipicità e i
riferimenti alle specialità locali. E' significativo in questo senso
che una delle campagne pubblicitarie più fortunate degli anni
Ottanta, quella legata al lancio del marchio del Mulino bianco,
tra le prime a recuperare elementi, sia pure trasfigurati ed assai
edulcorati, del mondo contadino e della tradizione, venga ideata
nel brevissimo periodo in cui la Barilla è controllata dal punto di
vista operativo dalla multinazionale americana Grace nel
decennio precedente. Così come pure è indicativo che nei primi
anni Ottanta la svizzera Nestlè nell'acquistare la Buitoni-Perugina
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 59
non si dichiari tanto interessata al secondo di questi marchi, che
pure è quello che realizza profitti nella vacillante posizione di
mercato del gruppo, quanto piuttosto appunto alla Buitoni, in
quanto titolare di specialità italiane ampiamente nota in ambito
internazionale. E coerentemente con una tale visione, la
multinazionale elvetica realizzerà negli anni successivi una parte
significativa dei suoi investimenti strategici appunto in
quest'ultimo ambito, tentando di coniugare i prodotti tipici della
tradizione italiana (e mediterranea) con gli elevati contenuti
tecnologici e di ricerca merceologica caratteristici in quella fase
della sua strategia aziendale. Il risultato sarà la realizzazione di
tutta una serie di nuovi articoli precotti, surgelati e simili.
Del resto, l'interesse internazionale per le tipicità della penisola -
collegate strettamente nell'immaginario alla dieta tradizionale
mediterranea e ai suoi benefici - è ben esemplificata dal rapido
successo della "ciabatta" nel mondo anglosassone.
Commercializzato dal 1985 dalla grande catena di distribuzione
Marks & Spencer, questo tipo di pane diventa rapidamente, al
pari del pesto, dei pomodori secchi o dell'olio extra vergine
d'oliva, una delle tipicità esotiche più popolari tra le classi medie
inglesi, pur trattandosi di un prodotto privo di particolari qualità
merceologiche e inventato ad Adria, nel Polesine, appena nel
1982 (Atkins e Bowler, 2001, p. 278).
Seppure in ritardo rispetto ai paesi sviluppatisi più precocemente,
e spesso per l'intervento di sensibilità provenienti da questi stessi
paesi, anche l'Italia infine partecipa dagli anni Ottanta del revival
del mondo tradizionale e della rinnovata attenzione per le
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 60
specialità del passato, le tipicità locali, le proprie radici rurali e
artigiane. E ciò avviene, dal punto di vista del comparto
alimentare, proprio nel momento in cui si consuma la crisi di
quel ciclo della media e grande industria di cui si è detto, che
porta le imprese maggiori e tecnologicamente avanzate superstiti
a ritirarsi in limitati e ben definiti, per quanto redditizi, ambiti
settoriali.
Uno dei comparti che maggiormente si inserisce nel processo di
valorizzazione delle specialità territoriali tipiche, beneficiandone
ma anche svolgendone un ruolo di promozione, è quello della
vinificazione. La storiografia che si è occupata del settore
(Pedrocco 1993; Panjek, 2003; Maffi 2010; Kovatz, 2013) è
piuttosto concorde nell'indicare come, nonostante i grossi volumi
della produzione complessiva e il consumo di massa, la grande
maggioranza del vino realizzato nel paese rimanga fino a tempi
piuttosto recenti di bassa qualità e con una distribuzione limitata
a mercati strettamente locali, quando non viene utilizzato - ed
anche esportato in questo caso - come varietà da taglio, ad
esempio nel caso della forte produzione pugliese largamente
richiesta a questo scopo dall'industria enologica francese
(Ritrovato, 2013). Ancora durante la prima metà del Novecento,
se si escludono i vini speciali come il marsala o il vermouth, solo
piccolissime porzioni della vitivinicoltura italiana,
prevalentemente in Piemonte o nell'area toscana, riescono ad
esprimere, sotto la spinta di singoli imprenditori agrari illuminati
- si pensi a Cavour per il barolo o Ricasoli per il chianti - e più
raramente di aggregazioni cooperative, prodotti di una qualità
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 61
elevata e relativamente stabile, dotati di un marchio e capaci di
essere esportati all'estero o comunque in ambiti sensibilmente più
vasti della loro zona di provenienza. E' solo tra gli anni Sessanta
e Settanta che una simile situazione comincia a far registrare
significativi cambiamenti e le produzioni iniziano a farsi più
diffuse, per generalizzarsi poi nei decenni successivi fino a far
diventare quello del vino di qualità uno dei comparti centrali del
made in Italy, all'estero come nello stesso mercato nazionale. Ad
un simile risultato, che per altro ha conciso con l'abbandono delle
campagne, il cambiamento degli stessi modelli di consumo e il
forte ridimensionamento dell'incidenza del vino nella dieta
quotidiana del paese, specie per le giovani generazioni, hanno
concorso vari fattori (Unwin, 1993, pp. 352ss.). Tra di essi, un
ruolo decisivo ha sicuramente giocato il larghissimo ricorso ad
agronomi, pedologi ed enologi, che hanno radicalmente
trasformato su basi scientifiche le pratiche colturali e produttive,
mescolando i vitigni, introducendone di nuovi (non di rado dalla
Francia, che resta all'avanguardia in tutto il settore), riscoprendo,
valorizzando e spesso semplicemente reinventando le varietà
tipiche dei singoli territori. Un peso importante hanno poi avuto
le infrastrutture istituzionali locali, a cominciare da Regioni e
Camere di commercio, ma anche poi le Province e gli altri enti
territoriali, che hanno rapidamente colto, specie dagli anni
Ottanta in poi, il rilievo che la vitivinicoltura poteva avere, non
solo nel rilancio di alcune esportazioni locali e nella salvaguardia
delle aree rurali, ma anche più in generale nella promozione
complessiva dell'immagine del territorio e nella sua
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 62
valorizzazione turistica. Analogamente, del resto, non sono
mancati gruppi e imprese private che - sul modello dei
Rothschild in Francia - si sono dedicate al settore vinicolo per
l'immagine e il prestigio che questo rendeva loro in termini più
generali. Oltre a tutto ciò, merita almeno di essere menzionato
infine l'interesse diffuso, non solo ed anzi tutt'altro che solo
italiano, per le identità locali e le loro tipicità: un'attenzione che è
letteralmente esplosa con la percezione della globalizzazione
negli anni Novanta e che ha trovato appunto nel vino (e ben
presto anche per le altre specialità alimentari) uno dei suoi
momenti di ricaduta nella cultura di massa a livello si potrebbe
dire mondiale, alimentando associazioni, pubblicazioni
specializzate e non, corsi di formazione, circuiti turistici e
massicce campagne pubblicitarie e di marketing.
In un ambito diverso, quello dell'aceto balsamico, Magagnoli
(2005) ha bene illustrato gli articolati meccanismi attraverso cui è
emersa nel Modenese una delle specialità tipiche degli ultimi
decenni.
A partire dagli anni Sessanta l'autore mostra l'avvio di un lento
processo di recupero di una produzione tradizionale,
originariamente priva di proiezioni di mercato, in quanto
strettamente legata alla produzione domestica (anche delle élite
proprietarie e di qualità), e soprattutto molto variabile, con ricette
che spaziano dall'aceto di mosto cotto a lungo e lunghissimo
invecchiamento a quello meno pregiato che fa un largo ricorso
all'aceto di vino. Nel 1965 una prima vaga definizione
ministeriale stimola un'operazione di recupero - o meglio di
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 63
preservazione nel contesto di radicali cambiamenti di quegli anni
- di questa specialità da parte di limitati gruppi di appassionati e
cultori delle tradizioni locali di un piccolo comune del
Modenese, raccolti in un'associazione all'inizio essenzialmente
priva di finalità commerciali. La Consorteria di Spilambergo
fisserà la ricetta dell'aceto balsamico, sottraendolo alle incertezze
e alla ampia variabilità (anche sotto il profilo dei risultati
qualitativi) delle preparazioni tradizionali. Con ciò in pratica essa
reinventerà questo prodotto, affinandolo poi nel tempo, tanto da
licenziarne, tra il 1967 e il 1994, ben otto diverse schede di
degustazione, che definiscono caratteri anche piuttosto differenti
del risultato finale. Si tratta, come giustamente sottolinea
Magagnoli, di una intensa e complessa operazione di ciò che
Hobsbawm e Ranger hanno definito "invenzione della
tradizione", seppure basata su ricerche approfondite e anche in
buona misura filologiche di pratiche del passato spesso
dimenticate o confuse. La tipicità è per molti aspetti così
l'immagine ricostruita che evoca prodotti tradizionali di cui si è
persa in larga misura nozione (Ceccarelli et. al., 2013). Un
secondo passaggio, altrettanto esemplare, è poi rappresentato
dall'innesto nella vicenda di cospicui interessi commerciali alla
fine degli anni Settanta, nella fase in cui cioè, come si è detto,
cresce l'appeal dei prodotti tipici, e in particolare di quelli
italiani, sui mercati internazionali. Nello specifico il nuovo
equilibrio è caratterizzato dalla individuazione di due prodotti,
definiti progressivamente dalla normativa della doc degli anni
Ottanta: il primo, l'"aceto balsamico tradizionale", basato su
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 64
mosti cotti e lungo invecchiamento, gelosamente custodito dai
rigidi disciplinari della Consorteria (che nel 1979 genera un
Consorzio di tutela) e destinato ad alimentare un'offerta di poche
migliaia di litri l'anno; l'altro, "l'aceto balsamico modenese",
collocato in una fascia inferiore di qualità, con un largo o
esclusivo apporto di aceto di vino, prodotto dalla grande industria
in decine di milioni di litri l'anno, il cui marchio è trainato - e in
parte volutamente confuso agli occhi del consumatore - dal
prestigio del primo. Ciò che più interessa tuttavia in questa sede è
che l'affermazione di una tipicità come l'aceto modenese passi
attraverso strategie di marketing complesse e in larga misura
innovative (Di Stefano, 2000; Canevari et al., 2009), a
cominciare dal fatto di non essere solo elaborate da singole
grandi imprese, ma, accanto ad esse, da un pluralità di altri
soggetti, come piccoli produttori, consorzi titolari di marchi
collettivi e amministrazioni locali di vario livello, molto attive
sin dai momenti iniziali della valorizzazione di questo prodotto.
Estremamente significativo, infine, è anche il terzo passaggio di
tutta la vicenda, quello legato all'introduzione delle certificazioni
di qualità europee alla metà degli anni Novanta. Le prospettive
che queste aprono sui mercati internazionali hanno il prevedibile
effetto di alterare gli equilibri precedenti, inducendo alcuni
produttori a tentare di sfruttare su larga scala anche il prodotto di
maggior qualità, il balsamico tradizionale "nobile", tentando di
ottenere un allentamento dei disciplinari. Il conflitto che ne
consegue, che coinvolge tutti i vari soggetti già richiamati, dal
consorzio di tutela agli enti locali, si conclude con un nulla di
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 65
fatto ma esemplifica bene il nuovo scenario aperto dalla
normativa comunitaria.
Il passo ulteriore che qui si intende infine richiamare è appunto
quello della nuova stagione inauguratasi, a partire dagli anni
Novanta, con l'avvento della certificazione europea di tipicità.
Per quanto una legislazione nazionale della denominazione di
origine controllata esista sin dagli anni Cinquanta e soprattutto
dal decennio successivo abbia avuto un certo rilievo in comparti
come quello del vino, e benché per singole produzioni, come
quella degli spumanti astigiani, marchi consortili di qualità
esistessero anche in precedenza, è la normativa comunitaria sulla
denominazione di origine protetta (dop) e sull'indicazione
geografica protetta (igp) che a partire dal 1992 apre - o sembra
aprire - significative nuove prospettive sui mercati internazionali
per le produzioni tipiche (Weber, 2000).
La protezione e il prestigio garantiti dalla nuova
regolamentazione, infatti, si sommano allora con l'apertura del
commercio mondiale, l'interesse rinnovato per le identità e le
specialità locali a fronte della montante globalizzazione, le
inedite possibilità di comunicazione offerte dalla diffusione
pervasiva delle reti informatiche, che permettono di veicolare
informazioni, campagne promozionali, contatti commerciali
anche senza disporre di grandi strutture amministrative e
propagandistiche. E tutte queste novità interagiscono a loro volta
con gli elementi ricordati poc'anzi: il successo dello stile italiano,
il buon posizionamento del paese nei settori di beni di consumo
maturi, l'interesse per la dieta mediterranea, ecc. Il risultato di
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 66
tutto ciò è che l'Italia è assieme alla Francia e ai paesi dell'Europa
mediterranea tra le nazioni che maggiormente hanno aderito alla
nuova normativa e fanno registrare un più alto numero di prodotti
certificati. Una decina di anni dopo l'introduzione della
regolamentazione, la penisola contava circa un quinto dei Dop e
Igp europei, e questo primato si è rafforzato nel decennio
successivo, allorché il paese ha superato la stessa Francia
giungendo ad avere quasi un quarto dei prodotti tipici
riconosciuti dall'Unione.
Prodotti Dop e Igp
Numero dei prodotti
2004 2013
Francia 140 193
Italia 139 249
Portogallo 92 118
Spagna 84 159
Grecia 83 97
Germania 67 90
Regno Unito 29 44
Rep. Ceca 3 28
Polonia 0 26
Altri 35 104
Totale 672 1108
Ismea su dati Ue
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 67
Differente tuttavia è il quadro che emerge se dal numero di
specialità si passa a considerare il loro significato economico. Se
si guarda ai dati del fatturato emerge infatti che i primi cinque
prodotti certificati nel 2003 rappresentavano oltre il 72% del
totale alla produzione Dop e Igp italiana e i primi dieci oltre
l'88%, mentre ancora nel 2011 questi valori erano rispettivamente
superiori al 66 e dell'83% (Ismea, 2004 e 2012). Ciò è indicativo
di come, salvo poche eccezioni, la via della certificazione di
qualità abbia finora in sostanza premiato le specialità già
affermate sul mercato e resti in larga misura ancora una
potenzialità da sfruttare per la promozione e la valorizzazione
della grande varietà di prodotti tipici nazionali che la penisola si
è vista riconosciuti.
Se si guarda al contributo che i prodotti tipici danno alla bilancia
agroalimentare del paese, simili considerazioni trovano alcune
conferme. La quota dei prodotti Dop e Igp rimane comunque
piuttosto limitata sul complesso delle esportazioni agroalimentari
italiane. Secondo i dati Ismea nel 2010 essi assommavano a poco
meno del 7% dei 28 miliardi circa dell'attivo della bilancia
alimentare e al 12,5% circa con l'aggiunta dei vini Doc e Docg.
Esistono tuttavia stime più ampie del "made in Italy"
agroalimentare, che comprendono tutta la vasta serie di prodotti
riconducibili all'italianità o in qualche modo tipici della penisola
- inclusi prodotti di consolidata tradizione industriale come la
pasta. L'Ismea ne indica un peso, sempre nel 2010, pari a circa i
due terzi delle esportazioni nazionali del comparto alimentare.
Ciò che più conta in questa sede è però che valutazioni
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 68
diacroniche, quali quelle riportate da Carbone et al. (2012,
pp.128-129), segnalano la crescita di una tale quota dal 67-68%
della seconda metà degli anni Novanta al 71% degli anni recenti,
con un'espansione di qualche peso ma in definitiva non
particolarmente rilevante.
Il potenziamento delle produzioni tipiche lascia ovviamente
intravedere notevoli potenzialità. In primo luogo esso potrebbe
contribuire a sanare la falla apertasi con lo sviluppo degli anni
Sessanta nella bilancia alimentare del paese, che come si è visto
dal sostanziale pareggio del 1960 ha fatto registrare un deficit
crescente, stabilizzatosi nel corso degli anni Ottanta attorno ai
10-15 miliardi di euro annui, e fino ad oggi non più riassorbitosi.
Per quanto un tale deficit sia principalmente ascrivibile a generi
agricoli di base e le produzioni tipiche (prevalentemente
realizzate dall'industria, ancorché piccola e media) abbiano nel
complesso concorso ad attenuarlo, il contributo di queste ultime è
tuttavia a tutt'oggi ancora ben lontano dal riassestare la bilancia
alimentare del paese. Inoltre, benché l'industria alimentare nel
suo complesso (produttrice di specialità o meno) costituisca uno
dei pochi comparti dell'economia italiana che si sono dimostrati
in grado di reggere sui mercati esteri anche durante gli ultimi
anni di crisi, le sue esportazioni stentano ancora a compensare le
corrispondenti importazioni.
Un discorso in parte analogo vale per l'altro versante in cui lo
sviluppo delle produzioni tipiche potrebbe dare un contributo di
notevole rilievo, quello del rapporto tra industria e agricoltura e
del recupero delle vaste aree rurali di un paese largamente
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 69
montuoso e collinare, che in molte sue parti male si addice a
colture estensive e altamente meccanizzate. In questo ambito
come in quello del deficit commerciale con l'estero, l'ipotesi che
la crescita di una moderna industria alimentare potesse sanare gli
squilibri emersi durante il miracolo economico è, come si è
accennato, sostanzialmente tramontata negli anni Ottanta. La
strada alternativa che ha piuttosto inaspettatamente preso corpo
nel decennio successivo si basa su piccole e medie imprese non
marginali, capaci di valorizzare di concerto con enti intermedi e
comunità locali le vocazioni produttive del territorio (autentiche
o "reinventate" che siano), dando uno sbocco al ricco patrimonio
culturale italiano in campo agricolo e alimentare e alle
multiformi tradizioni culinarie e gastronomiche del paese -
nonché alla stessa creatività che un tale patrimonio può
supportare e che l'individuazione delle tipicità, come si è visto,
richiede. L'alto numero dei marchi Dop o Igp riconosciuti, al pari
dei vini Doc o Docg, che per altro sono evidentemente solo una
parte dei prodotti tipici effettivamente esistenti nel paese, è
indicativo di come uno sviluppo in questa direzione possa essere
pervasivo e rilevante per la stessa economia nazionale. E tuttavia,
se si escludono le specialità "storiche", i limiti della circolazione
commerciale attuale di gran parte di queste tipicità indicano bene
quanta strada, sia sul versante dell'export che su quello agricolo,
resti ancora da fare per raggiungere simili obiettivi.
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 70
Fatturato alla produzione dei prodotti Dop e Igp
italiani
2003 2011
mil.€ % mil.€ %
Totale 4.478 100,0 6.537 100,0
primi 10 prodotti 3.973 88,7 5.452 83,4
Parmigiano reggiano
987
22,0
1.357
20,8
Grana padano 922 20,6 1.395 21,3
Prosciutto di Parma 766 17,1 992 15,2
Prosciutto San Daniele 361 8,1 302 4,6
Mozzarella di Bufala
campana 200 4,5 288 4,4
Gorgonzola 194 4,3 249 3,8
Mortadella di Bologna 157 3,5 224 3,4
Pecorino romano 170 3,8
-
Bresaola Valtellina 132 2,9 215 3,3
Speck Alto Adige 84 1,9
-
Aceto balsamico Modena
260 4,0
Mela Alto Adige 170 2,6
Ismea
Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 71
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