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Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 1 L'industria alimentare italiana nel mercato globale tra tipicità locali e multinazionali di settore * Francesco Chiapparino (Dises - Università Politecnica delle Marche, Ancona) [email protected] Affrontare il tema del rapporto tra la moderna industria alimentare italiana e le tipicità regionali - o più propriamente locali, poiché è le dimensione provinciale e cittadina quella che storicamente definisce queste ultime - può apparire, e in parte effettivamente è come si vedrà, il tentativo di mettere in relazione i due termini di una dicotomia. La spinta alla realizzazione di economie di scala attraverso produzioni standardizzate e omogenee per il ricorso ai processi meccanici o l'uniformità richiesta dalla distribuzione su mercati anonimi attraverso marchi, sono infatti elementi dei procedimenti industriali (soprattutto nella loro versione fordista dominante nel Novecento e ancora in buona misura prevalente) che inevitabilmente cozzano con i piccoli volumi, i metodi tradizionali di lavorazione, i significati e le conoscenze legati ad ambiti culturali * Il presente testo è una prima versione provvisoria del saggio omonimo pubblicato nel volume L'Italia e le sue regioni, L'età repubblicana. vol. II, Territori, a cura di M. Salvati e L. Sciolla, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani, 2015, pp. 467-486

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Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 1

L'industria alimentare italiana nel mercato globale

tra tipicità locali e multinazionali di settore*

Francesco Chiapparino

(Dises - Università Politecnica delle Marche, Ancona)

[email protected]

Affrontare il tema del rapporto tra la moderna industria

alimentare italiana e le tipicità regionali - o più propriamente

locali, poiché è le dimensione provinciale e cittadina quella che

storicamente definisce queste ultime - può apparire, e in parte

effettivamente è come si vedrà, il tentativo di mettere in relazione

i due termini di una dicotomia. La spinta alla realizzazione di

economie di scala attraverso produzioni standardizzate e

omogenee per il ricorso ai processi meccanici o l'uniformità

richiesta dalla distribuzione su mercati anonimi attraverso

marchi, sono infatti elementi dei procedimenti industriali

(soprattutto nella loro versione fordista dominante nel Novecento

e ancora in buona misura prevalente) che inevitabilmente

cozzano con i piccoli volumi, i metodi tradizionali di

lavorazione, i significati e le conoscenze legati ad ambiti culturali

* Il presente testo è una prima versione provvisoria del saggio omonimo pubblicato

nel volume L'Italia e le sue regioni, L'età repubblicana. vol. II, Territori, a

cura di M. Salvati e L. Sciolla, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana

Treccani, 2015, pp. 467-486

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definiti e a realtà territoriali limitate che normalmente si

associano alle specialità alimentari e alla loro caratterizzazione

locale. A fronte della complessità di questo rapporto tra industria

e tipicità, a prima vista antitetico o comunque non lineare, sta

tuttavia l'evidenza degli ultimi decenni, che hanno visto

l'industria agro-alimentare italiana contribuire in maniera

significativa all'export del paese proprio attraverso il successo

riscosso sui mercati internazionali dai prodotti tipici e dalle

specialità della multiforme tradizione produttiva nazionale in

questo campo. Il rilievo economico di questi ultimi impone

perciò di analizzare più nel dettaglio questa relazione, il ruolo

che le produzioni tipiche hanno, e hanno avuto, nell'evoluzione

del settore alimentare della penisola, il modo e i tempi in cui

quest'ultimo le ha valorizzate, facendone uno strumento di

penetrazione dei mercati esteri. Ciò che ci si ripropone in questa

sede, in altri termini, è il tentativo di gettare uno sguardo

all'evoluzione di questo non facile rapporto tra specialità

tradizionali del patrimonio agro-alimentare nazionale e

produzione industriale, alle dinamiche e alle tappe che ne hanno

segnato il percorso fino agli assetti attuali.

Prima di entrare nel merito, tuttavia, è opportuno chiarire alcune

delle limitazioni con cui vanno intesi i termini di questa

relazione. Anzitutto ci si riferisce qui alle sole produzioni

alimentari con una vasta diffusione commerciale, e non anche al

complesso di minute attività artigianali e soprattutto agricole che

pure possono definirsi tipiche, ma che non hanno un

riconoscimento in questo senso da parte del mercato, almeno al

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di fuori di quello strettamente locale. Ancorché, come pure si

vedrà, il discrimine tra questi diversi ambiti non sempre sia facile

da mantenere, concentrare l'attenzione sulle lavorazioni che

hanno una proiezione su mercati vasti, nazionali o internazionali

- anche della piccola industria, ma comunque legate a tecnologie

moderne e alla distribuzione a un clientela anonima - permette di

focalizzare le tipicità con un significato economico rilevante, sia

nell'attuale mercato globale che in epoche passate.

Quanto poi al concetto stesso di prodotto tipico, l'accezione che

se ne utilizzerà è anch'essa limitata, basandosi essenzialmente sul

riconoscimento di questa tipicità da parte del consumatore, più

che sulle componenti intrinseche dei prodotti. La tipicità verrà

considerata, in altri termini, per il suo aspetto sociale, culturale

ed economico, e non per le sue qualità oggettive, organolettiche o

nutrizionali, che pure probabilmente esistono in molti casi, ma la

cui trattazione esula evidentemente dalle competenze di chi

scrive. Del resto, dal punto di vista del gusto e della sua

fisiologia, il carattere culturale di ciò che viene percepito come

buono (o tipico) rispetto a ciò che non lo è, è ampiamente

riconosciuto dalla letteratura antropologica, al punto che, non

solo il "buono", ma gli stessi sapori per come vengono designati

sono costruzioni culturali in certa misura sganciate dalle loro basi

fisiologiche - che ne prevedono ulteriori rispetto a quelli

comunemente percepiti, cioè il dolce, l'amaro, l'acido e il salato

(Niola, 2009, pp.10-12).

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I. Il ciclo dell'industria alimentare italiana nella seconda

metà del Novecento

Nei primi anni Cinquanta: redditi, consumi alimentari e prodotti

tipici

Un buon punto di partenza per osservare il rapporto tra tipicità e

industria alimentare in Italia può essere costituito dagli anni

attorno alla metà del secolo scorso. Superata ormai la fase di

emergenza legata alla guerra, il paese agli inizi degli anni

Cinquanta sta completando la sua ricostruzione e rientrando

nell'alveo della normalità. Con oltre 2/5 della sua popolazione

attiva - dieci volte il dato percentuale odierno - impegnato nel

settore agricolo, più di 11 dei suoi 47,5 milioni di abitanti che

vive in piccoli nuclei abitati e case sparse, ben il 13% di coloro

con più di sei anni di età analfabeti e solo poco più del 10% con

titoli di studio superiore a quello elementare (nel 2001 secondo

l'Istat queste cifre saranno rispettivamente dell'1,5 e del 63,5),

quella italiana è ancora piuttosto distante dal potersi definire una

società compiutamente modernizzata. Il livello di sviluppo

parziale che comunque la caratterizza è frutto di un lungo

percorso di avanzamenti, lenti e discontinui, con cui la penisola,

o quanto meno sue porzioni, sono rimaste in qualche modo

agganciate ai centri più dinamici della modernizzazione

economica e sociale conosciuta dall'Occidente tra Sette ed

Ottocento. Su questo progresso "a pendenza lieve" si è poi

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innestata l'azione dello Stato unitario che, specialmente a partire

dal protezionismo della Sinistra storica dell'ultimo quarto del

secolo XIX, ha attivamente promosso l'industrializzazione del

paese (Zamagni, 1993, pp. 295ss.; Fenoaltea, 2006, pp. 153ss.).

Se questa accelerazione impressa dalle politiche pubbliche ha da

un lato contribuito in maniera determinante alla formazione di

una prima base industriale, dall’altra essa ha accentuato

sperequazioni preesistenti e fatto emergere profondi squilibri –

settoriali, territoriali e sociali – che alla metà del Novecento sono

particolarmente evidenti e che lo stesso successivo miracolo

economico sanerà in vari casi solo parzialmente.

I consumi privati costituiscono uno degli ambiti in cui le

contraddizioni e i limiti del percorso di crescita economica

intrapreso dal paese sono più evidenti e marcati. La loro

penalizzazione a favore degli investimenti, tipica del resto dei

paesi in via di sviluppo, nel concreto comporta in primo luogo

che i massicci investimenti realizzati nei comparti dell'industria

di beni strumentali, capital intensive e a comparativamente basso

assorbimento di forza lavoro, generino un monte-salari

complessivo limitato, il quale, anche a prescindere dal livello

relativamente basso delle retribuzioni nell'industria italiana

(inclusi i settori tecnologicamente avanzati), ha modeste ricadute

sul tenore di consumi diffusi e non stimola avanzamenti dei

settori leggeri. Ad un simile meccanismo, si aggiunge poi

l'azione fiscale diretta dello Stato, che drena risorse per

finanziare la propria politica industriale appunto colpendo i

consumi privati, secondo un modello inaugurato già nel

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ventennio dopo l'Unità, allorché con la tassa sul macinato si

risana il bilancio pubblico. Mentre, per un altro verso, gli alti

dazi sulle importazioni di beni di consumo costituiscono quasi un

assioma per un paese che tra gli anni Ottanta del secolo XIX e i

Sessanta di quello successivo deve costantemente preoccuparsi di

contenere i deficit provocati dal fabbisogno dei propri settori

pesanti di materie prime e di tecnologie provenienti dall'estero.

Ogni qual volta questo freno sull'import di generi di consumo si

attenua, come avviene all'avvio dell'espansione dell’età

giolittiana agli inizi del Novecento, nella caotica situazione di

crisi politica, sociale e valutaria del primo dopoguerra o negli

anni Sessanta, in seguito all'aumento dei redditi e alle limitazione

poste dal contesto internazionale alla politica tariffaria, si aprono

vere e proprie voragini nella bilancia commerciale, che rischiano

di mettere in crisi - e di fatto nell'ultimo dei casi citati concorrono

a mettere in crisi - il meccanismo di accumulazione su cui si

regge lo sviluppo della penisola (Somogy, 1966, p. 55ss.).

Se si guarda alla dinamica dei consumi privati, solo negli anni

Venti la quota di quelli di prima necessità inizia a mostrare una

qualche anelasticità rispetto agli aumenti del reddito, a

testimonianza di come solo in quella fase i modesti aumenti della

capacità di spesa dei bilanci familiari comincino a non essere più

integralmente assorbiti dall'acquisto di generi primari (Pettenati,

1978), mentre parallelamente il consumo diffuso di calorie segna

i primi scostamenti dai minimi di sussistenza tipici delle società

preindustriali (Grigg, 1989, pp. 46-49). Dopo i rigori della crisi

degli anni Trenta e il disastro della guerra, è così negli anni

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Cinquanta che il paniere dei consumi degli italiani imbocca la via

di quella trasformazione che tuttavia solo negli ultimi due

decenni del secolo lo porterà ad allinearsi ai modelli dei paesi

occidentali sviluppati.

Nonostante l'avvio di qualche cambiamento, insomma, alla metà

del secolo XX l'alimentazione del paese è ancora pesantemente

influenzata gli equilibri del passato, come testimoniano, pur con

tutta l'approssimazione dei dati Istat al riguardo, la centralità dei

carboidrati di origine vegetale, il basso tenore del consumo di

proteine e grassi, specie quelli di provenienza animale, la

modesta disponibilità di calorie pro capite. Tradotto in termini

gastronomici tutto ciò vuol dire che, almeno la massa degli

italiani, ovvero i ceti popolari, continuano ad avere una dieta

incentrata su prodotti derivanti da cereali - pane, paste, minestre,

polente, sfarinate, ecc. -, mangiano poca carne, e quel poco per lo

più di tipo non pregiato, integrano il proprio apporto proteico con

un vasto ricorso ai legumi, usano con parsimonia i grassi, hanno

un elevato (almeno in confronto a oggi) consumo di vino, pure di

qualità corrente e nondimeno utile a fornire calorie di pronto

assorbimento, o infine fanno un ampio ricorso a verdure e frutta

fresca, com'è nella tradizione di lungo periodo della penisola.

Certamente, rispetto all'alimentazione di sussistenza classica

delle società agrarie di antico regime si registrano alcune novità e

qualche avanzamento, modesto ma significativo: la pasta, che

fino alla fine dell'Ottocento al di fuori delle aree di più antica

diffusione resta un prodotto pregiato, comincia ad essere

largamente usata presso i ceti popolari urbani, e con essa tende

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anche a crescere, ad esempio, il consumo di insaccati; la

colazione mattutina a base di vino resiste ormai solo nel mondo

rurale, mentre tra gli artigiani e le classi lavoratrici viene

sostituita dal caffè o spesso ancora dai suoi surrogati, a maggior

ragione diffusisi durante il periodo autarchico; il consumo di

zucchero fa registrare qualche timido miglioramento, dopo essere

venuto quasi completamente meno durante il conflitto. A ben

vedere, tuttavia, si tratta di tutte trasformazioni avviatesi già nel

tardo Ottocento, con il sia pure parziale ingresso del paese nel

più generale processo di modernizzazione occidentale, e che alla

metà del secolo successivo, pur costituendo ormai elementi

acquisiti, non alterano strutturalmente i modelli tradizionali del

consumo alimentare diffuso (Sorcinelli, 1993).

Un discorso analogo si può fare per un altro aspetto saliente di

questo equilibrio, quello relativo all'alta quota di produzione

domestica su cui esso riposa. Anche in questo caso, il livello di

autoconsumo, cioè di produzione e trasformazione degli alimenti

all'interno del nucleo familiare escludendo monetizzazione e

rapporti di mercato, non è più così elevato come nel passato

preindustriale, o almeno tende ad essere tale solo nel mondo

contadino, che pure, come si visto, è agli inizi degli anni

Cinquanta ancora largamente diffuso. L'urbanizzazione

registratasi durante tutta la prima metà del secolo, per quanto

modesta se confrontata a quella dei decenni successivi, ha

assottigliato in parte i margini e la possibilità di queste pratiche,

che comunque rimangono massicciamente diffuse - un po' per

attaccamento ad abitudini e tradizioni, un po' per necessità -

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anche nel mondo cittadino, tanto tra i ceti popolari che tra quelli

medi e medio-bassi.

Con tutto ciò, d'altra parte, non si vuole intendere che l'Italia non

abbia attraversato alcune delle grandi esperienze che hanno

portato l'Occidente nel suo complesso a conoscere una

modernizzazione dei suoi modelli di consumo, alimentari e non,

tra il tardo XIX e la prima metà del XX secolo (Montanari, 1983,

pp. 189ss.). Il fatto è che tali passaggi si sono inseriti, non senza

alimentare frustrazioni e tensioni per altro, in quell'"equilibrio dei

bassi consumi", per usare la terminologia di Franco Bonelli

(1978, pp. 1236ss.), caratteristico della traiettoria di crescita

economica del paese di cui si è detto. Così, ad esempio, le masse

contadine sperimentano nelle trincee della Grande Guerra,

accanto a ben più tragici accadimenti, il consumo di sigarette,

gallette e scatolette (incluse quelle di carne), mentre nel periodo

interbellico i figli degli operai conoscono l'alimentazione

razionale delle colonie estive. O ancora, anche in Italia si

diffondono forme nuove di distribuzione, come dagli inizi del

secolo le cooperative di consumo ovvero, specie dopo il conflitto,

i grandi magazzini. Se non che questi elementi di

modernizzazione o riguardano ristrette elite di ceti medi e medio-

alti dei grandi centri urbani, come avviene per grandi magazzini e

vacanze estive, oppure, quando toccano gruppi sociali più vasti,

rimangono all'interno di un contesto di perdurante scarsità. In

quest'ultimo caso, insomma, compare la dimensione di massa, ma

manca completamente il carattere affluente, di abbondanza, che

al contrario comincia ad essere presente nell'esperienza delle

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società occidentali più sviluppate, quella statunitense in primo

luogo, ma in certa misura anche in paesi come l'Inghiterra, la

Francia o più parzialmente la Germania tra Belle époque e

Goldene Zwanziger. E quando, con un curioso ma significativo

corto circuito, la potenza dei nuovi mezzi di comunicazione di

massa applicata alla pubblicità genera anche nella penisola una

piccola febbre consumistica, come avviene nel corso degli anni

Trenta con il sorprendente successo del concorso delle figurine

dei Quattro Moschettieri della Perugina e della Buitoni, il tutto

collassa tra interventi censori del regime e saturazione della

capacità produttiva delle due imprese, che paradossalmente

giungono ad un passo dal fallimento (Chiapparino, Covino, 2008,

pp. 169-188).

Anche sotto questo punto di vista, insomma, quella italiana è

negli anni Cinquanta un realtà "parzialmente" moderna, che ha

conosciuto alcuni aspetti delle nuove forme della società di

massa senza tuttavia sperimentarne l'alto tenore di consumo, e

che anzi esce proprio allora dall'opposta esperienza della fame e

dell'indigenza più profonda della guerra e degli anni

immediatamente successivi.

Così, alla metà del secolo XX i consumi alimentari del paese

sono ancora sostanzialmente legati a quelli tradizionali, con tutte

le - pure tradizionali - forti differenze tra città e campagna e tra

ceti sociali diversi e con le parziali eccezioni rappresentate dalle

classi più abbienti o dalle aree metropolitane più dinamiche.

All'interno di queste coordinate comuni, tuttavia, essi si

declinano in una grande varietà di tradizioni gastronomiche e

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produttive locali, frutto della convergenza di fattori ambientali e

culturali, e differenziate su base essenzialmente cittadina, a

partire da quelle cellule sociali fondamentali di organizzazione

del territorio che nel contesto italiano sono rappresentate sin dal

Medioevo dalle città con i loro rispettivi contadi - e perciò, come

si accennava all'inizio di questo testo, su quelle che oggi possono

essere definite partizioni provinciali o spesso anche sub-

provinciali. E' in simili contesti che vanno inquadrate le

produzioni tipiche, o quanto meno la loro origine: specialità e

tradizioni alimentari caratteristiche di città, del loro territorio o di

parti di esso, che almeno inizialmente trovano appunto il loro

primo riconoscimento e la prima valorizzazione in rapporto ai

rispettivi mercati urbani di riferimento. Agli inizi degli anni

Cinquanta, per altro, tali specialità sono organicamente inserite,

come si è detto, in modelli di consumo ancora sostanzialmente

tradizionali e di carattere fortemente locale per la limitatezza

geografica dei circuiti commerciali, l'alta incidenza delle

lavorazioni strettamente rurali o artigianali quando non

dell'autoproduzione, i vincoli anche tecnici e di conservabilità

che ostano all'integrazione dei mercati di generi agroalimentari,

ecc. Nei casi in cui sono già riconosciute come produzioni

tipiche, riferibili a contesti e identità territoriali definiti, esse nel

complesso non emergono particolarmente come tali, tendendo

piuttosto ad integrarsi con la normalità della abitudini alimentari

quotidiane. Non solo, ma capita anche che la loro identificazione

con i regimi dietetici tradizionali, e con il basso tenore di vita e le

carenze nutrizionali a cui questi sono associati per ampi settori

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della popolazione, non le rendano particolarmente ambite né le

facciano apparire degne di essere valorizzate in ambiti di mercato

più vasti.

Sotto il profilo delle tendenze dei consumi, in altri termini, ciò

che ancora prevale in quella fase è la spinta alla costruzione di

una cultura alimentare nazionale: un processo avviatosi con tutta

probabilità già molto prima dell'Unità e comunque operativo

durante tutto l'Ottocento, che subisce poi un'accelerazione con la

creazione dello Stato unitario - si pensi alla circolazione del

ricettario dell'Artusi presso i ceti medi (Camporesi, 1995) - e nel

periodo tra le due guerre, e che giungerà a compimento negli

anni del boom economico, con i massicci processi migratori e di

urbanizzazione, lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa

e, non da ultimo, l'affermazione nel paese di una moderna

industria alimentare.

Negli anni del miracolo

Dal punto di vista delle produzioni alimentari, la situazione

italiana nei primi anni Cinquanta è ancora nella sostanza quella

venuta maturando a partire dal tardo Ottocento. Generalizzando,

il settore può essere suddiviso essenzialmente in tre sezioni

(Chiapparino, 1997). La prima, ancora largamente prevalente, è

quella rappresentata dalle lavorazioni di carattere tradizionale,

prive di connotati industriali moderni e piuttosto di natura agraria

o artigianale - quando non realizzate direttamente all'interno

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dell'ambiente domestico, si è detto, nella forma

dell'autoproduzione -, che riforniscono la gran parte dei mercati

locali attraverso circuiti commerciali ristretti e ancora

relativamente segmentati. Accanto ad esse stanno poi alcune

attività industriali, condotte da imprese meccanizzate,

tendenzialmente specializzate e di medie dimensioni. Questo

nucleo di aziende manifatturiere, spesso attivo in sezioni

particolari degli stessi comparti di prevalente carattere agrario o

artigianale, opera su mercati interregionali o nazionali, più vasti

cioè di quelli strettamente locali dei generi comuni, utilizzando

marchi commerciali e rivolgendosi a limitati ambiti di consumo

di lusso o anche più semplicemente, visti i prezzi unitari spesso

contenuti dei prodotti alimentari, di consumi voluttuari e

d'occasione. Un altro tipico sbocco di questo genere di

lavorazioni, che seppure in lenta espansione a partire dal tardo

Ottocento restano comunque minoritarie tra quelle alimentari, è

poi rappresentato dai mercati esteri, con particolare riferimento,

come si vedrà più avanti, a quelli aperti dall'emigrazione italiana.

Da ultimo ci sono poi singoli comparti ove è presente la grande

industria integrata e l'intervento del capitale finanziario, che

tuttavia si limita fino alla metà del secolo a pochissimi ambiti

produttivi. Tra di essi spicca il settore saccarifero, che

rappresenta uno degli investimenti speculativi più caratteristici

del capitalismo italiano dell'epoca, dal momento che le alte

protezioni doganali e l'assetto fortemente cartellizzato che lo

contraddistinguono, da un lato garantiscono alti utili a industriali

e agrari e, dall'altro, fanno della penisola uno dei paesi col

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consumo procapite di zucchero più basso tra quelli occidentali.

Sviluppi significativi, tuttavia, si registrano anche nel comparto

di base dell'industria alimentare italiana, quello molitorio, che

almeno in corrispondenza delle aree di mercato più rilevanti e

dinamiche, come nel Nord Italia e nei centri urbani maggiori,

vede sin dal tardo Ottocento sorgere alcuni grandi impianti

industriali e cospicue concentrazioni produttive, con interessi

anche nel comparto pastario o in quello del commercio dei grani

e, nel caso dei gruppi genovesi, persino con proiezioni di tipo

multinazionale.

Nel complesso, tuttavia, la parte più consistente delle produzioni

propriamente industriali del settore alimentare italiano, quella

con connotati manifatturieri moderni, rimane fino alla metà del

secolo vincolata alla ristrettezza del mercato interno,

rivolgendosi di fatto ai consumi di lusso (o comunque episodici e

legati a occasioni particolari) o, quando ci riesce, ai mercati

esteri. Questo quadro comincia a mutare sostanzialmente nel

corso degli anni Cinquanta, per effetto della modernizzazione

complessiva che investe in quella fase l'economia e la società

italiana. Il miracolo economico, come è noto, viene innescato da

un processo export led trainato dall'industria di beni di consumo

durevoli, che beneficia della congiuntura eccezionalmente

favorevole del commercio internazionale del terzo quarto del

secolo. La crescita economica, che raggiunge il suo apice tra il

1958 e 1963, investe dapprima i settori più pesanti, come la

metalmeccanica, la chimica, i comparti energetici e

infrastrutturali, quello delle costruzioni, ecc., e solo

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successivamente, con l'aumento dei salari - sia complessivo che

unitario per l'approssimarsi della piena occupazione -, si riversa

sul mercato interno e sul tenore di vita diffuso degli italiani.

Benché sin dal decennio precedente si mettano in moto massicci

processi di migrazione interna, urbanizzazione, cambiamento

della condizione occupazionale, è soprattutto negli anni Sessanta,

così, che le profonde trasformazioni del reddito, degli stili di vita

e dei modelli di consumo del paese diventano evidenti (Ciocca,

2007, IX-X).

Sotto il profilo strettamente produttivo, d'altro canto, merita di

essere ricordato che l'accelerazione del boom proprio in quella

fase comincia a dare segni di rallentamento, per effetto della crisi

del 1964, del montare delle tensioni che porteranno all'autunno

caldo del 1969 e infine dello shock petrolifero del 1973, che apre

definitivamente la tormentata stagione degli anni Settanta. Il

miracolo economico, in altri termini, fu breve, soprattutto per i

settori leggeri e dei beni di consumo. E anche se nei decenni

successivi, tra il 1973 e il 1992, la crescita economica è

continuata, accompagnata da trasformazioni forse anche più

marcate sotto il profilo sociale e degli stili di vita, questa seconda

fase è stata molto più contrastata, intervallata da crisi ricorrenti

(non solo economiche) e molto meno lineare della precedente.

La modernizzazione degli anni Sessanta porta a trasformazioni

radicali dell'industria alimentare italiana, ben al di là di quanto le

cifre aggregate riguardanti il settore stiano a testimoniare. Interi

comparti di base, come quello molitorio, quello oleario o lo

stesso settore della vinificazione, composti da miriadi di piccoli

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mulini, frantoi rurali e cantine dislocati nelle zone più impervie,

vengono drasticamente ridimensionati. Sorgono settori nuovi,

come quelli dei gelati, dei surgelati, degli alimenti per l'infanzia.

Mentre altre produzioni, legate al consumo urbano - dai prodotti

da forno al caffè, agli estratti e concentrati, alle bevande,

alcoliche e non - vedono crescere le proprie dimensioni, sia per

numero di aziende che per la loro consistenza occupazionale.

Spettacolare, poi, è l'ascesa del settore della lavorazione delle

carni, che inseguendo il boom dei consumi, aumenta di due volte

e mezzo i propri addetti tra i censimenti del 1951 e del 1971, per

triplicarli poi entro il decennio successivo, passando da 2.235

aziende a 5.185 e da circa 16.500 a 50.100 addetti. Anche

industrie il cui peso complessivo rimane più o meno costante

conoscono profondi cambiamenti nella loro composizione

interna, nel senso della concentrazione, della localizzazione, nella

natura stessa della loro attività produttiva e di mercato.

Generalizzato, infine, è l'aumento della dotazione meccanica ed

energetica delle lavorazioni, con i cavalli vapore che aumentano

da 4,9 a 6,6 per addetto tra 1951 e 1971 per poi raddoppiare quasi

(11,4) entro il 1981, sulla scia degli intensi processi di

ristrutturazione degli anni Settanta.

La profonda trasformazione che vede nel corso degli anni

Sessanta la nascita di un'industria alimentare di tipo moderno,

legata al consumo di massa, presenta alcuni aspetti caratteristici

che influenzeranno largamente, fino ad oggi, l'evoluzione futura

del settore, e che è opportuno sottolineare.

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In primo luogo, l'emergere di moderne lavorazioni industriali di

tipo alimentare si accompagna con una crisi del mondo rurale, o

quanto meno di ampie sue porzioni, e più in generale con uno

scarso raccordo con le retrostanti produzioni agricole.

L'ampiezza e la varietà del settore impedisce ovviamente di fare

eccessive generalizzazioni, mentre per altro verso esistono

sicuramente aree, prevalentemente al Nord più pianeggiante ed

avanzato anche sotto il profilo agricolo, e comparti, come quello

conserviero o quello caseario, in cui la modernizzazione

dell'industria avviene in continuità con l'evoluzione del settore

primario cui questa è collegata. Nondimeno, nel complesso

l'abbandono delle campagne, i ritardi che queste hanno

accumulato nei periodi precedenti e la natura stessa del territorio

italiano, in larga misura collinare e montagnoso, pesano

gravemente sul processo di modernizzazione del paese e sullo

sviluppo della sua industria alimentare. Prova ne è il profondo

passivo della bilancia del commercio con l'estero di alimenti che

si apre appunto negli anni Sessanta e Settanta (Pieri, Rizzi, 1986)

per perdurare poi in tutti i decenni successivi fino ad oggi. Si

genera così in quegli anni il paradosso, per cui un paese fino a

poco prima profondamente agricolo - e ancora in larga misura

tale per aspetti come la mentalità e tanti comportamenti - si trova

a importare generi primari da nazioni vicine, come la Francia o la

Germania, di ben più antica industrializzazione. Questa

situazione appare meno incongruente, tuttavia, se si analizza il

deficit agroalimentare e si vede come questo sia largamente

generato dalla vera e propria voragine aperta dalle importazioni

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di prodotti animali, cioè da quella atavica "fame di carne" - per

dirla con Marvin Harris (1990) - che da sempre contraddistingue

le masse delle società agrarie preindustriali e la cui

soddisfazione, con la "fettina" a pranzo e a cena, è la prova

tangibile dell'emancipazione dalla miseria del passato. Mentre

per altro verso, la scarsa dotazione di bestiame e la debolezza

dell'allevamento sono appunto gli indicatori più ricorrenti e

significativi dei limiti tradizionali di tanta parte dell'agricoltura

italiana, fatta esclusione naturalmente per le limitate aree che

invece eccellono da questo punto di vista, come ad esempio la

Bassa padana. Ma anche al di là dello specifico del settore delle

carni, la scarsa integrazione tra agricoltura e industria costituisce

uno dei nodi problematici della nuova situazione apertasi col

miracolo economico, aggravata dalla rapidità con cui si verifica

l'esodo rurale e l'abbandono delle campagne.

Un ulteriore aspetto di tale modernizzazione, in parte collegato

con il precedente e particolarmente rilevante nella ricostruzione

che si sta proponendo in questa sede, è rappresentato poi dal fatto

che in essa il riferimento ai prodotti tipici e alla tradizione

alimentare locale passa del tutto in secondo piano, quando non

viene addirittura (più o meno esplicitamente) negato. E' questo,

ovviamente, un tratto ricorrente di tutte le fasi di intensa crescita

economica. Nel caso italiano, tuttavia, questa spinta si carica di

una forza particolare per la velocità con cui avvengono le

trasformazioni, la percezione del loro ritardo, le attese

accumulate rispetto ai modelli di consumo affluente, che in altre

società occidentali sono venuti affermandosi assai più

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 19

gradualmente già dagli inizi del secolo, e altri complessi fattori

materiali e culturali che meriterebbero indagini specifiche. Sta di

fatto che la modernizzazione degli anni Sessanta segna nella

penisola un rifiuto netto del passato e della tradizione, che, come

in tanti altri ambiti - a cominciare dalla distruzione del paesaggio

- si riflette pesantemente nei consumi, alimentari e non. Quanto

questa ondata di entusiasmo per la modernità sia stata

superficiale e a tratti contraddittoria è testimoniato dal permanere

ancora oggi, mezzo secolo dopo e a modernizzazione avvenuta,

della marcata originalità della dieta degli italiani rispetto a quella

di altri paesi sviluppati - dall'uso massiccio di pasta e farinacei a

quello delle verdure fresche. Nondimeno, essa influenza

pesantemente la nuova produzione industriale nel settore. Gli

esempi al riguardo potrebbero sprecarsi, dal latte in polvere al

pane bianco (e al parallelo rifiuto di quello "nero",

materializzazione di un passato di fame e privazioni), ai già

ricordati consumi di carne. Il settore dolciario, che per la sua

caratterizzazione voluttuaria e il basso costo unitario dei prodotti

è strutturalmente molto sensibile alle tendenze e alle variazioni

del consumo diffuso, è al riguardo molto significativo. Il mercato

italiano si riempie in quegli anni di articoli privi di qualunque

riferimento alla tradizione o a connotazioni tipiche locali, dal

Carrarmato agli sticks di caramelle, ai chewing gum, alla

Nutella, tutti, ad onta di molte delle loro stesse denominazioni, di

fabbricazione strettamente nazionale. E il caso della Ferrero

presenta tratti ancora più esemplari: l'azienda piemontese si

afferma dapprima, dalla fine degli anni Cinquanta, in Germania, i

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 20

cui Wunderjahren precedono e superano quelli italiani, con la

linea di prodotti Kinder, che il consumatore locale considera a

prima vista tedesca, e a cui poco dopo (e fino ad oggi) anche il

consumatore italiano tributa un vasto successo, senza fare troppo

caso al nome (tedesco) che la designa, e spesso ignorandone

anche il significato. Nel complesso, inoltre, se si guarda alla

produzione dell'impresa di Alba, ove pure le specialità

tradizionali non mancano, essa si concentra su pochi prodotti

realizzati su larghissima scala e con un forte supporto

pubblicitario, privi comunque di qualunque riferimento a tipicità

locali e persino a caratteri nazionali, anche nei tempi recenti in

cui il "made in Italy" ha un largo successo internazionale.

Un'ulteriore caratteristica della fase di crescita del boom

economico è infine quella della sua brevità, a maggior ragione

per un settore, come quello alimentare, che ne avverte le ricadute

solo con qualche ritardo rispetto all'accelerazione iniziale della

seconda metà degli anni Cinquanta. Un simile aspetto,

annoverabile tra i limiti del miracolo economico italiano che la

storiografia ha recentemente sottolineato, si è tradotto nel ritardo

con cui una parte cospicua dell'imprenditoria italiana ha colto i

cambiamenti che si andavano prospettando, tanto più nei casi in

cui era in qualche modo memore delle false partenze di inizio

secolo e soprattutto del primo dopoguerra, allorché ad un'iniziale

effervescenza dei consumi non avevano poi fatto seguito

modificazioni strutturali degli assetti del mercato nazionale.

Sicuramente alcuni ebbero il coraggio di puntare su queste

modificazioni sin dagli anni Cinquanta, come testimonia il lancio

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 21

di prodotti nuovi come i gelati confezionati Algida e Motta agli

inizi di quel decennio o, ancora una volta, il massiccio

investimento con cui la Ferrero realizza sin dal 1957 il grande

impianto di Hildesheim, vicino Francoforte, inseguendo il boom

dove questo per primo si manifesta. Tuttavia, il grosso degli

sforzi di modernizzazione del comparto si verifica solo negli anni

Sessanta, quando il ciclo economico rallenta e infine, col volgere

del decennio successivo, inverte il suo corso, sorprendendo molte

imprese nel mezzo della transizione, spesso fortemente indebitate

e incapaci di assorbire gli aumenti del costo del lavoro e dei

prodotti energetici che si verificano in quella fase.

La vicenda della Buitoni è paradigmatica al riguardo. Sin dal

1953 Giovanni Buitoni, l'artefice dello sviluppo del gruppo nel

periodo tra le guerre, trasferitosi negli Stati Uniti nel 1939 e lì

alla guida della filiale americana, fa pressione sui fratelli rimasti

alla guida delle aziende italiane e della Buitoni France perché

ristrutturino radicalmente l'impresa e lancino un massiccio

programma di investimenti che ne faccia una grande

multinazionale alimentare. Dall'America Giovanni, che pure

nell'Italia degli anni Venti ha teorizzato la necessità di limitarsi

alle produzioni di lusso, ha una chiara percezione delle

trasformazioni che vengono preparandosi nel nuovo scenario del

secondo dopoguerra (Gallo, 1991). Significativamente, tuttavia,

un po' per prudenza, un po' per quieto vivere, concentrati come

sono sulle singole aziende che dirigono e sulla loro trasmissione

ai rispettivi successori, i fratelli resistono: l'International Buitoni

Organization, che alla fine viene creata nel 1956, resta per loro

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 22

sostanzialmente l'occasione per concedersi una gita annuale nella

capitale francese, dove la struttura ha sede. La Perugina,

l'impresa più vivace del gruppo, rinnoverà così le sue strutture

produttive con la costruzione di un grande stabilimento moderno

solo nel 1962, mentre la prospettiva strategica indicata da

Giovanni verrà percorsa solo nel 1967, dopo il passaggio alla

successiva quinta generazione della dinastia imprenditoriale. A

quel punto, le nuove Industrie Buitoni Perugina (Ibp) avvieranno

un grande sforzo per gestire in maniera integrata e manageriale le

attività tradizionali del gruppo (dolciumi, con annessa una grande

catena di negozi, pasta, sughi precotti in Francia e Stati Uniti),

per entrare nei nuovi settori produttivi apertisi col boom, come

quello degli alimenti per l'infanzia (Nipiol) e penetrare nuovi

mercati, sia sul versante centro e nord-europeo che su quello

mediterraneo. Il progetto di creare una grande multinazionale

globale - sul modello Nestlè o Unilever - si infrange però con il

cambiamento della congiuntura che si verifica in quella fase: con

l'appesantimento degli oneri finanziari che il forte indebitamento

dell'azienda comporta, con i rialzi dei costi dell'energia e del

lavoro, e anche naturalmente con ingenuità ed errori di

valutazione, che nella nuova situazione diventano difficilmente

recuperabili.

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 23

Ristrutturazione e crisi tra anni Settanta e prima anni Novanta

Pur legata a contingenze e accadimenti specifici, la vicenda ora

ricordata dell'Ibp è piuttosto generalizzabile, nel senso almeno

che una parte rilevante dell'industria alimentare italiana giunge

impreparata all'appuntamento con la crisi dopo la fase di crescita

degli anni del miracolo. Così ad esempio la Barilla, dopo aver

avviato il suo sviluppo negli anni Cinquanta, acquisisce una

decisa fisionomia industriale solo tra il 1964 e il 1968, quando

realizza i consistenti investimenti nei nuovi stabilimenti per pasta

e prodotti da forno). Nel 1971 però il forte indebitamento che ne

consegue assieme all'impennata della conflittualità sindacale

costringono la famiglia parmense a cedere l'impresa alla

multinazionale americana Grace (Mannucci, 1990, pp. 118ss.).

Solo otto anni più tardi, con caparbia non comune, Pietro Barilla

riuscirà a riacquistare l'impresa dal gruppo statunitense, non

prima di aver però consolidato la propria posizione finanziaria

con il concorso di Cariparma, la Comit e vari altri partner

svizzeri e olandesi. Analogamente la Star della famiglia Fossati,

un'altra tipica azienda degli anni del boom economico, sorta in

Brianza nel 1948 con appena una trentina di operai introducendo

in Italia prodotti diffusi nel Nord Europa come dadi per brodo ed

estratti di carne, conosce la sua espansione negli anni Sessanta

con la costruzione di quattro grandi impianti e l'avvio di una

vasta gamma di produzioni principalmente nel settore

conserviero. All'inizio del decennio successivo, tuttavia, è

costretta a entrare nell'orbita della finanza pubblica, cui cede la

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 24

metà del proprio capitale azionario, salvo poi recuperare la

propria autonomia nel 1982 e collegarsi a fine decennio con la

francese Danone e la sua (temporanea) alleata Ifil della famiglia

Agnelli (Piluso, 1990). Quanto al settore dolciario, la Talmone,

già Venchi-Unica, la maggiore e più famosa fabbrica di

cioccolato nazionale, naufraga nella bancarotta Sindona nel 1974,

mentre la Motta e l'Alemagna, al pari dell'Algida e della Tanara,

vengono rilevate dallo Stato attraverso la Sme tra il 1969 e il

1972.

Nel quadro della precoce, e a volte dolorosa, ristrutturazione cui

il settore alimentare va incontro negli anni Settanta e Ottanta

emergono di fatto due ipotesi prevalenti. La prima è quella già

abbozzata nel progetto Ibp della creazione di una grande impresa

multidivisionale che, a seconda delle varie formulazioni,

costituisca il perno della politica industriale nazionale

nell'agroalimentare ovvero (ma i due obbiettivi non sono in

contraddizione) sia in grado di competere sui mercati globali con

i grandi gruppi multinazionali del comparto - dalla Nestlè

all'Unilever alla Danone o alla Philip Morris, che proprio in

quegli anni avvia una diversificazione dalla manifattura del

tabacco (Sicca, 1977, pp. 5-32). La seconda opzione, che alla fine

prevarrà, è invece quella, più limitata e maggiormente in

continuità col passato, della specializzazione settoriale e del

consolidamento di alcune aziende medie e medio-grandi, capaci

pure di affrontare la concorrenza straniera, ma su segmenti

limitati del mercato e priva sostanzialmente di implicazioni sul

rapporto complessivo agricoltura-industria nel paese

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 25

Dopo l'eclissi dell'Ibp il programma della creazione di un grande

gruppo nazionale viene ripreso dalla finanziaria pubblica del

settore alimentare. La Sme nasce in realtà agli inizi degli anni

Sessanta, in seguito alla nazionalizzazione dell'energia elettrica,

sulla base degli indennizzi della precedente Società meridionale

di elettricità. Originariamente la finanziaria, in cui lo Stato ha

una quota di controllo ancorché minoritaria, colloca la sua

attività all'interno degli indirizzi con cui le Partecipazioni statali,

dopo aver gettato le basi per il miracolo economico, concentrano

in quella fase i loro sforzi sull'industrializzazione del

Mezzogiorno. Pur essendo già in precedenza presente nella Cirio

(Napolitano, 1992) e detenendo la proprietà di imprese

conserviere sorte per l'intervento della Cassa del Mezzogiorno

nell'Ascolano, la sua vocazione agroalimentare si definisce solo

attorno al 1968, quando prende il via una politica di acquisizione

di partecipazioni azionarie a sostegno delle aziende del settore -

non solo né necessariamente meridionali -, che conoscono in

quella fase crescenti difficoltà. Sin dall'inizio la Sme si dà

formalmente obbiettivi generali di tipo politico-economico, di

intervento a favore dell'agricoltura nazionale, raccordo di questa

con le attività industriali e di distribuzione e realizzazione di

un'organica programmazione nel comparto agroalimentare

(Sicca, 1987). E di fatto nel caso ad esempio della Surgela si

realizza attorno alla metà degli anni Sessanta un polo di moderni

impianti di surgelazione integrati, da un lato, con l'attività

peschereccia d'altura sanbenedettese e, dall'altro, con il dinamico

settore ortofrutticolo dell'area picena e teramana. Per tutti gli anni

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 26

Settanta tuttavia il gruppo svolge l'attività di una conglomerata

finanziaria, che nel migliore dei casi interviene a supporto di

operazioni di ristrutturazione, come per la Star, e più spesso

acquisisce aziende in gravi difficoltà, come la Motta e

l'Alemagna, che rischieranno di provocarne addirittura il

fallimento (Parenze, Sicca, 1991). Di fatto un piano organico di

crescita viene varato solo dal 1982, una volta riassestato il

bilancio del gruppo. Da allora questo opera in vista della

creazione di una grande impresa multidivisionale attiva nel

comparto conserviero (con la Cirio, la Bertolli e la De Rica), nel

dolciario (Motta, Alemagna e Pavesi), in quello collegato dei

surgelati (Surgela e gelati) e poi ancora nella grande

distribuzione (SGS, Sico) e nella ristorazione (Autogrill, Pavesi,

ecc.).

All'incirca negli stessi anni, viene tentata anche un variante di

questo programma, che pure trova sostanzialmente l'appoggio

della Partecipazioni statali nella prospettiva neomercantilista

della creazione di un'impresa "campione nazionale" sul modello

della francese Bsn Danone. La Cir di Franco De Benedetti,

infatti, sin dal 1982 rileva ciò che resta dell'Ibp dalla famiglia

Buitoni e giunge tre anni dopo ad un accordo per l'acquisizione

della stessa Sme e la creazione di un grande gruppo

polisettoriale. L'intesa trova tuttavia vaste opposizioni sia sul

versante imprenditoriale, con la comparsa di una contro-cordata

che fa perno su Barilla e Ferrero, preoccupate della concorrenza

che deriverebbe loro dall'operazione, sia su quello politico, con

l'intervento contrario di Craxi allora al governo. Tutta la vicenda

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 27

si conclude con un nulla di fatto ed ha, com'è noto, un lungo

strascico giudiziario, che si intreccia con quello del lodo

Mondadori e vede coinvolto lo stesso Silvio Berlusconi,

intervenuto a supporto della cordata contraria alla fusione Sme-

Buitoni (Covino et al., 1998, pp. 310-312).

Il fallimento della fusione del 1985, d'altra parte, apre la strada al

massiccio ingresso del capitale straniero nel settore: la cessione

di poco successiva da parte di De Benedetti della Buitoni alla

Nestlè segna l'assorbimento da parte di quest'ultima del gruppo

che una ventina di anni prima aveva ambito a divenire uno dei

concorrenti globali della multinazionale svizzera. La presenza di

capitale straniero è già cresciuta in modo significativo per effetto

delle difficoltà dal settore negli anni Settanta e nei primi Ottanta,

con la ricordata vicenda Barilla-Grace, il controllo acquisito dalla

Danone sulla Galbani e sulla Star o la posizione di forza della

Findus nel comparto del freddo. Certamente però è con

l'assorbimento della Buitoni che il peso delle multinazionali nel

comparto fa un salto di qualità. Un simile avanzamento si

completa poi nella prima metà degli anni Novanta, quando, in

omaggio al principio per cui non è necessario che lo Stato si

preoccupi di "produrre panettoni", ma abbandonando per

converso anche le precedenti ipotesi di una politica industriale di

promozione dell'agricoltura nazionale, si consuma la stagione

delle privatizzazioni. Nel settore alimentare esse, in particolare,

si concretizzano nel passaggio a gruppi multinazionali (Nestlè e

Unilever in testa) di gran parte della Sme, di fatto poco dopo che

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 28

questa ha completato la ristrutturazione delle sue partecipate

attraverso il programma delle divisioni di comparto del 1982.

Il processo di multinazionalizzazione del settore alimentare,

infine, compie un passo ulteriore attraverso la penetrazione dei

gruppi stranieri, soprattutto francesi, nel comparto della grande

distribuzione. Oltre alla forte influenza che esercitano sui propri

fornitori, infatti, le grandi catene di supermercati creano marchi

propri - anche se spesso privi strutture produttive di proprietà -,

acquisendo così un ruolo determinante per ampie sezioni delle

stesse attività produttive, agricole ma soprattutto manifatturiere

(Sicca, 2002). Del resto, il ruolo determinante di selezione delle

produzioni e di indirizzo degli investimenti è evidente per tutti i

detentori di grandi marchi, non solo appartenenti alla grande

distribuzione ma anche quando si tratta di aziende industriali, che

in parecchi casi delegano parti delle loro produzioni ad imprese

terze.

Accanto a queste linee di sviluppo, poi, a seguito della

ristrutturazione degli anni Settanta e Ottanta il settore alimentare

italiano ne conosce altre, il cui esito è la formazione di alcuni

grossi gruppi industriali specializzati a proprietà familiare. Essi

si differenziano sostanzialmente dalle multinazionali globali

menzionate finora sia per le dimensioni più contenute (e dunque

medie o al più medio-grandi in una scala internazionale assoluta)

sia per il fatto di essere operativi su singoli comparti

merceologici o su un novero di limitato di comparti interrelati,

oltre che su mercati geograficamente meno onnicomprensivi. Tra

queste multinazionali di settore stanno anzitutto imprese già

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 29

citate come la Barilla, che si consolida attraverso una vasta serie

di acquisizioni nel comparto pastario e in quello dei prodotti da

forno negli anni Ottanta, e soprattutto la Ferrero, che prosegue la

sua espansione prevalentemente per crescita interna secondo le

linee già in parte delineatesi nei decenni precedenti e basate su di

un limitato numero di prodotti realizzati su larghissima scala,

forti investimenti pubblicitari, solidità finanziaria, ecc (Subbrero,

2007). Ad esse si può aggiungere poi la Parmalat, che pure segue

una traiettoria di sviluppo nel settore del latte e dei suoi derivati

con significative proiezioni in quello dei prodotti da forno,

naufragando poi sugli scogli dell'eccessivo indebitamento e delle

malversazioni con il sistema finanziario (Franzini, 2004; Sapelli,

2004). Così come un caso in parte simile è quello della Ferruzzi,

con un carattere più propriamente versato nei comparti "pesanti"

delle lavorazioni di processo di tipo agroindustriale, eredi della

tradizione dell'industria zuccheriera e molitoria. Anch'essa nel

corso degli anni Ottanta crea un grosso gruppo multinazionale

relativamente specializzato, salvo poi incagliarsi nel tentativo di

integrazione con la chimica e nel coinvolgimento nell'intreccio di

corruzione e malaffare politico sfociato in Tangentopoli.

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 30

II. Industria alimentare e produzioni tipiche

Accanto ai processi sinora descritti, e in certa misura per effetto

di essi, nel corso degli anni Ottanta si avviano a compimento

anche dinamiche più strutturali, che vedono da un lato l'industria

alimentare italiana e dall'altro la dieta del paese completare il

processo di modernizzazione avviatosi negli anni Sessanta e

allinearsi con quelli dei paesi sviluppati. Come si è già

accennato, questa convergenza non cancella alcuni caratteri di

fondo dei modelli di consumo italiani, che in alcuni casi sono

elementi di originalità e che, anche quando rappresentano invece

debolezze o punti di forza specifici, rientrano comunque nelle

differenze riscontrabili all'interno dei paesi avanzati. Sul versante

dell'offerta, poi, la penisola viene a dotarsi di un'industria

alimentare comparabile nel complesso a quella delle altre nazioni

sviluppate, con un'articolata serie di imprese medie e medio-

grandi, in alcuni casi, si è visto, anche multinazionali. Anche da

questo punto di vista, tuttavia, non mancano le particolarità, quali

una larga presenza di piccoli produttori, coerente del resto con la

forte incidenza che nell'industria italiana ha la piccola e media

impresa. Significativo, e piuttosto inedito, è poi il peso del

capitale straniero, cui per converso non corrisponde l'esistenza di

grandi gruppi "globali" italiani. Restano, infine, i limiti cui pure

si è accennato dal punto di vista dell'integrazione industria-

agricoltura e della bilancia commerciale.

E' in un quadro siffatto che a partire dagli anni Novanta vengono

sempre più a specificarsi e ad affermarsi sui mercati europei e

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 31

internazionali le produzioni tipiche locali italiane. Si tratta di un

fenomeno nuovo, non tanto in sé quanto per la rilevanza che

negli ultimi due decenni è venuto acquisendo, delineando una

prospettiva di rilancio del settore agroalimentare ulteriore rispetto

a quella imperniata sulla grande industria, proprio nel momento

in cui quest'ultima ipotesi segnava il passo.

In realtà i prodotti tipici italiani preesistono largamente a questa

fase recente, ed hanno anzi giocato un ruolo importante, come si

vedrà, nell'affermazione delle produzioni nazionali in ambito

internazionale. Tuttavia, a partire dagli anni Ottanta essi

conoscono un nuovo rilievo - non da ultimo nella percezione

degli stessi italiani - e in parte anche una ridefinizione per effetto

di un'articolata serie di fattori. Tra questi ultimi si può annoverare

il revival di elementi della cultura tradizionale che, affermatosi

nelle società più avanzate sin dagli anni Sessanta, coinvolge

infine la penisola quando anche questa, un ventennio più tardi,

raggiunge un livello maturo di sviluppo. Ma accanto a ciò stanno

elementi ulteriori, legati al recupero delle identità locali nel

contesto dei processi di integrazione internazionale avviatisi

negli anni Novanta, alle preoccupazioni ambientali o alla ricerca

di genuinità e autenticità, alla reazione alla massificazione e alle

manipolazioni tecnologiche di produzioni industriali anonime

realizzate ormai su scala mondiale. Gli stessi orientamenti

legislativi europei, e più in generale quella "piccola

globalizzazione" nella più grande globalizzazione che il processo

di integrazione del Vecchio Continente ha rappresentato, aprono

una nuova stagione per le specialità locali, che da un lato si

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 32

sovrappone a fasi precedenti di affermazione di questa tipologia

di produzioni alimentari, dall'altro ne amplifica l'efficacia

commerciale sia all'interno che all'esterno del paese.

Nelle pagine che seguono si ripercorreranno le linee attraverso

cui le produzioni tipiche italiane sono venute acquisendo una

dimensione commerciale rilevante. Lungi dall'aspirare ad essere

esaustiva, una tale ricostruzione si baserà su alcuni casi

significativi e tenterà di individuare i meccanismi e le modalità

che hanno condotto al riconoscimento di tali specialità come

tipiche, decretandone successo commerciale e rilevanza

economica sia all'estero che - per quanto le due cose non sempre

coincidano - all'interno del paese. Per questa via ci si sforzerà

anche di offrire spunti per una migliore definizione del concetto

di prodotto tipico, almeno dal punto di vista storico e

commerciale.

La precoce affermazione di grana e parmigiano

Secondo i dati Ismea nel 2003, dieci anni dopo l'istituzione dei

marchi Dop e Igp, oltre il 42% del fatturato alla produzione (e del

35% di quello al consumo) del totale dei prodotti tipici italiani

era rappresentato da parmigiano reggiano e grana padano, più o

meno a pari merito. Nel 2010 questi due prodotti hanno

continuato a rappresentare il 38,7 dell'export caseario nazionale

e circa il 2,3% di quello agroalimentare totale italiano. Questa

rilevanza delle produzioni di formaggio duro e la rapidità con cui

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 33

si impongono tra i nuovi marchi a certificazione comunitaria, del

resto, non devono stupire. Anche se la crescita in valori assoluti

della loro esportazione data, come per altre specialità tradizionali

italiane, soprattutto dagli inizi del Novecento, parmigiano e grana

sono tra i più antichi prodotti tipici del paese, riconosciuti come

tali in Europa almeno dal Sei-Settecento, se non probabilmente

anche in precedenza. Basta una ricognizione anche superficiale

delle fonti d'epoca per scoprire come già durante il grande

incendio di Londra, il 4 settembre del 1666, Samuel Pepys si

premurasse di mettere al riparo in una fossa scavata sotto terra le

sue scorte di "Parmezan", assieme a vini pregiati e ad altri oggetti

di valore. Nel 1778 la fregata da corsa britannica Westmorland,

intercettata al largo di Livorno da quattro vascelli francesi, venne

depredata, oltre che di preziosi dipinti, seta e altre merci preziose,

anche di 32 forme di parmigiano. E ancora, studi recenti sulla

Royal Navy attestano come i suoi ufficiali durante il periodo

napoleonico, e lo stesso Nelson pare, non disdegnassero di

imbarcarne alcune forme per il proprio consumo personale

(Macdonald, 2002, pp. 128-130). Come del resto faceva il loro

avversario Napoleone, che ne richiedeva non senza una certa

insistenza, pare, scorte adeguate al primo ministro del Regno

d'Italia Melzi (Lavati, 2002, pp. 81-87). La lista di riferimenti

potrebbe continuare e lascia intendere come grana e parmigiano -

menzionati insieme ad esempio da Casanova, che nelle sue

memorie (VIII, 9) si premura di specificare come il secondo

venga in realtà dal Lodigiano - siano ben noti e apprezzati nei

secoli XVII-XVIII tanto nel mondo anglosassone che in Francia,

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 34

da dove origina il termine inglese che li designa. Benché

soprattutto il parmigiano venga citato già nel Decameron e se ne

trovino riferimenti sin dal Trecento, è soprattutto il

riconoscimento esterno, internazionale, dei secoli successivi a

sottendere alla sua rilevanza economica, implicando volumi di

produzione relativamente consistenti, vettori commerciali e,

insomma, tutta un'economia locale che ne sostiene l'affermazione

di mercato (Ceccarelli et al., 2010, p. 56). E' il riconoscimento

esterno, in altri termini, che ne determina la rilevanza come

tipicità. Ne', come si accennava, tutto questo deve stupire, se si

considera che grana e parmigiano sono sin dal Basso Medioevo i

principali prodotti di una delle economie più ricche e avanzate

del continente, uno dei pochi casi, assieme ai Paesi Bassi, di

agricoltura irrigua europea, frutto di un'accumulazione di

lunghissimo periodo in termini di canalizzazioni, sistemazione

dei terreni e conoscenze agrarie. Gli accenni fatti alla

predilezione britannica per questo formaggio e a Livorno, che del

commercio inglese diviene nel XVII secolo la principale base

mediterranea, rinviano probabilmente all'orientamento verso il

porto toscano di almeno una parte dei flussi di traffico con cui i

negozianti della Bassa emiliana e milanese alimentano i loro

affari. Come ha recentemente bene illustrato Claudio Besana

(2012), sono questi ultimi, cioè i grossi intermediari commerciali

che a Milano, Lodi, Codogno, Reggio e almeno a fino tutto il

Settecento soprattutto Parma curano la stagionatura - con gli

oneri di capitale circolante che comporta - oltre che la

distribuzione, a rappresentare il motore che sta alla base della

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 35

precoce affermazione di questa tipicità nazionale. Il settore

commerciale è in altri termini più importante degli stessi casari,

titolari della metodologie tradizionali di produzione, o degli

stessi grandi affittuari su cui poggia lo sviluppo dell'agricoltura di

questa porzione di pianura padana e di cui il caseificio è

un'appendice. La qualità intrinseca del prodotto, infatti, non va di

per sé eccessivamente enfatizzata. Se accanto all'intraprendenza

commerciale, le condizioni ambientali - i prati irrigui della Bassa,

l'utilizzo di bovini svizzeri o di quelli reggiani - e le tradizioni

produttive del caseificio padano hanno ovviamente un ruolo nel

successo di questo tipo di formaggi, non va tuttavia dimenticato

che fino al tardo Ottocento la loro qualità è tutt'altro che

omogenea, le "fallanze" sono frequenti e più in generale le

insufficienze dei metodi consuetudinari di lavorazione pesanti e

tali da compromettere la stessa tenuta commerciale del comparto.

E' così solo con l'istituzione negli anni Settanta da parte del

Ministero dell'agricoltura della Stazione sperimentale di

caseificio di Lodi o della Regia scuola zootecnica di Reggio che i

gravi limiti delle pratiche tradizionali proprio sul versante

qualitativo cominceranno ad essere superati, non da ultimo col

ricorso a tecniche e soluzioni imitate dall'estero. Nel caso

reggiano, ad esempio, ciò porterà al miglioramento, attraverso

incroci con specie nordiche, della stessa vacca rossa, reggiana

formentina, sino ad allora usata per le produzione casearia

(Paterlini, 2002).

La vicenda di grana e parmigiano, così, è utile per delineare

alcuni dei meccanismi che soggiacciono all'affermazione di una

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 36

produzione tipica. Essa indica bene, anzitutto, come la sua

aderenza con i sapori, le materie prime e le stesse tecniche di

preparazione del passato siano tutt'altro che scontati (Capatti,

Montanari, 2002, pp. 95-98); ed in secondo luogo come la tipicità

per essere tale, o quanto meno per avere rilevanza economica e

commerciale, richieda necessariamente il suo riconoscimento

dall'esterno, che ne fa qualcosa di diverso da una semplice

produzione locale. Non solo, ma mostra anche come questa

affermazione esterna, extra-locale, riposi in larga misura su di

una struttura commerciale, di intermediazione - e più tardi, in

epoca industriale, anche manifatturiera e promozionale, di

marketing - ulteriore rispetto alle tecniche tradizionali e alle

condizioni ambientali territoriali a cui normalmente ci si

richiama per designare le specialità tipiche.

Grana e parmigiano hanno tuttavia anche un'altra caratteristica,

quella cioè di costituire un caso, se non forse del tutto isolato, per

lo meno raro e particolarmente precoce di affermazione di un

prodotto tipico italiano - fermi restando tutti i limiti che una

simile denotazione ha prima dell'unificazione della penisola e, a

ben vedere, anche successivamente ad essa, vista la molteplicità

di contesti sociali, culturali, territoriali di cui l'Italia continua a

comporsi. Se si guarda alle specialità tipiche che attualmente

sostengono l'export del nostro paese, pochissime sono quelle

precoci come i formaggi duri padani, il che probabilmente riflette

la crisi produttiva e commerciale che la penisola conosce tra

XVII e XIX secolo e la discontinuità con la precedente fioritura

rinascimentale e basso medievale, oltre che, naturalmente, i limiti

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 37

più generalizzati che le tecniche di conservazione ponevano

all'affermazione su mercati vasti di vari comparti alimentari fino

alla fine dell'Ottocento.

I frutti dell'imitazione

Una modalità decisamente più diffusa di affermazione delle

specialità nazionali, o quanto meno più rilevante per quella delle

attuali tipicità del paese, è costituita da processi di imitazione di

generi - almeno commercialmente - già affermati. Per quanto

paradossale ciò possa apparire parlando di prodotti tipici, in

realtà l'imitazione costituisce, in questo come in molti ambiti,

uno dei principali motori della crescita, specie nelle sue fasi

iniziali, e non va necessariamente concepita come opposta,

quanto piuttosto anche come complementare all'innovazione. Più

in concreto, molte delle tipicità italiane, nazionali o regionali che

siano, vengono affermandosi imitando, o comunque essendo

inizialmente associate, ad altre produzioni già apprezzate sui

mercati e successivamente poi guadagnando riconoscibilità e

spazi commerciali autonomi. Processi di questo genere datano

almeno dal tardo Settecento e storicamente costituiscono i casi di

specialità di rilievo più precoci dopo quelli visti in precedenza.

Esemplare è al riguardo la vicenda del vino marsala, "scoperto"

nel tardo Settecento dai mercanti inglesi che già da secoli

battevano le isole del Mediterraneo alla ricerca di

approvvigionamenti di uva passa, molto richiesta in patria come

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 38

dessert digestivo. Tra costoro John Woodhouse nel 1773

comincia a preparare il vino siciliano con l'aggiunta di alcol, al

modo del madeira, per renderlo più facilmente trasportabile. La

sua vera affermazione si ha però durante le guerre napoleoniche.

Sin dal 1794 Woodhouse rileva una vecchia tonnara per

realizzarvi il primo "baglio", cui seguirà la costruzione, sempre a

sue spese, di un molo nel porto siciliano e l'avvio, nel 1798, delle

forniture alla base maltese della flotta inglese. In coincidenza con

le guerre con la Francia e con le difficoltà che queste comportano

nei tradizionali approvvigionamenti britannici di vini liquorosi

portoghesi, come appunto il porto e il madeira o dello stesso

sherry di cui pure si copieranno alcuni procedimenti produttivi,

prende così il via una vera e propria economia del marsala, che

nei primi decenni dell'Ottocento vede il moltiplicarsi degli

imprenditori inglesi (Jospeph Payne, Thomas Corlett, James

Hopps, Benjamin Ingham) e la diffusione dei centri di raccolta

del mosto (Mazara, Castelvetrano, e a nord, Castellammare,

Balestrate). Ne' il successo di questo vino si limita alla Gran

Bretagna, poiché già durante la Restaurazione i fratelli

Woodhouse e soprattutto il loro maggiore concorrente, Benjamin

Ingham, lo introducono negli Stati Uniti, forti anche del suo

minor costo rispetto ai concorrenti più blasonati e già affermati

come ancora una volta il madeira. Sotto la spinta iniziale dei

capitali britannici l'espandersi della viticoltura e il sorgere di una

vasta serie di impianti e infrastrutture produttive farà sì che verso

la fine del secolo alcuni osservatori giungano a parlare di un

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 39

angolo dell'Inghilterra industriale trapiantato sul lembo estremo

della Sicilia (Cancila, pp.34ss).

Un ulteriore risvolto di questo processo di imitazione si

manifesterà poi a partire dagli anni trenta del secolo XIX, quando

sulla scorta degli inglesi cominciano ad emergere anche i

produttori italiani. Tra di essi in particolare i Florio crescono

rapidamente d'importanza fino a diventare nel primo

quarantennio unitario i maggiori esponenti del settore, nonché

una delle principali famiglie imprenditoriali italiane, centro di un

vasto impero che dallo zolfo e dal vino spazia fino al controllo

della Società generale di navigazione italiana e a molteplici

interessi industriali e finanziari (Candela, 2008).

Nonostante le difficoltà - i problemi doganali insorti negli Stati

Uniti già attorno alla metà dell'Ottocento, la crescente

concorrenza del vermouth verso la fine del secolo, il declino

della stessa fortuna dei Florio agli inizi di quello successivo - il

marsala emancipa la propria immagine dai vini portoghesi e si

costruisce progressivamente nel corso del XIX secolo una solida

presenza autonoma sui mercati internazionali, ed in particolare su

quelli anglosassoni. Questa affermazione ne fa una delle

specialità nazionali ante litteram, largamente precedente ai

marchi di tipicità e alle certificazioni di origine controllata.

Un caso, un po' più tardo, che pure illustra bene il ruolo avuto dai

processi imitativi - o se si preferisce dalla sostituzione di prodotti

già affermati con altri, almeno inizialmente, di minor prezzo, che

per questa via valorizzano le proprie caratteristiche ed acquistano

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 40

poi una propria fisionomia commerciale autonoma - è poi quello

del gorgonzola.

Prodotto da decenni e probabilmente da secoli, questo stracchino

conobbe un'inattesa affermazione negli anni Settanta

dell'Ottocento, se non già in precedenza, tanto sui mercati

austriaci e centro europei, ove ne venivano apprezzate le varietà

meno forti e piccanti, quanto soprattutto su quelli francesi e

inglesi, ove si affermò sulla scia (e quale imitazione si potrebbe

affermare) di formaggi erborinati come il roquefort e lo stilton.

Rispetto a questi ultimi il gorgonzola aveva infatti il pregio di

avere un prezzo estremamente inferiore, che attorno al 1880

poteva essere all'incirca la metà del concorrente d'oltralpe, il

quale per altro, trattandosi di un cacio pecorino anziché vaccino,

ha un sapore molto marcato e pungente non sempre apprezzato al

di fuori della Francia. Il successo stimolò l'espansione delle

produzioni realizzate già in aree più vaste di quelle di

Gorgonzola, da cui si voleva provenissero gli stracchini migliori:

dal Milanese, (Besana, pp.231-241) esse si estesero ad una vasta

porzione della pianura padana che dal Piemonte arrivava fino al

Bergamasco e al Mantovano Alla base di questi sviluppi stava

anche la spinta dei gruppi legati al commercio di latticini

lombardi e agli interessi che ad essi apre la realizzazione dei

collegamenti attraverso le Alpi, a partire da quello del Gottardo

del 1882. Merita di essere ricordato, d'altra parte, che in quegli

stessi anni l'abbondanza di latte e le abilità mercantili e

produttive disponibili nell'area padana vengono utilizzate, oltre

che per lavorazioni locali come il grana di cui si è già detto,

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 41

anche per realizzare cospicue produzioni di formaggi stranieri,

largamente affermati dal punto di vista commerciale all'estero

come nella stessa penisola, quali in primo luogo l'emmenthal

svizzero. E proprio queste specializzazioni, non meno che il

gorgonzola, vedono sorgere nell'area lombarda le prime imprese

propriamente industriali del settore caseario italiano.

Tornando ai formaggi erborinati a pasta molle, un forte limite che

si riscontrò nella loro lavorazione fu quello della stagionatura

attraverso la refrigerazione artificiale, conveniente dal punto di

vista industriale ma da cui risultava un alto numero di forme di

cattiva qualità e di scarti, oltre che una significativa inferiorità

rispetto, ad esempio, al roquefort stagionato invece in grotte.

Proprio per ovviare a questi inconvenienti, numerosi produttori si

affidarono allora, per certi versi scoprendoli, ai metodi

tradizionali di stagionatura naturale - in grotte e poi in baracche

costruite a ridosso della montagna - degli stracchini propri della

Valsassina, nel Lecchese, che divenne rapidamente nello scorcio

dell'Ottocento il maggior centro di maturazione del gorgonzola

del paese. La grande maggioranza del prodotto veniva fabbricato

nelle pianure sottostanti e solamente fatto stagionare in valle da

grosse aziende produttrici, la principale delle quali era la

Polenghi Lombardo, o dai maggiori intermediari lombardi e

piemontesi del settore, che poi ne curavano l'esportazione su carri

ferroviari refrigerati nell'Europa settentrionale. Non mancarono,

tuttavia, piccole quote di produzioni locali o della Val Taleggio,

e soprattutto margini di affermazione per imprese minori anche

se non del luogo, quali la Locatelli e soprattutto la Galbani

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 42

(Mandressi, 1999). Significativamente, ancora nel 1896 Egidio

Galbani veniva premiato a Roma per i suoi prodotti "ad

imitazione dei formaggi francesi": già da qualche anno, per altro,

egli aveva trasferito la maggior parte delle sue attività a Melzo,

avviando la costituzione di uno dei maggiori complessi produttivi

nazionali del comparto e dedicandosi, coerentemente come si è

già accennato con lo spiccato carattere industriale di queste

attività, a prodotti originali ma spesso - si pensi al Belpaese -

scarsamente caratterizzati nel senso della tipicità. Per contro, la

sovrapposizione del gorgonzola con i formaggi francesi e inglesi,

perdura anche nel nuovo secolo, come testimonia ancora nel

1917 Pietro Lanino (III, p. 166) nel passare in rassegna le

esportazioni italiane del settore caseario. Le vicende di

quest'ultimo sinora ricordate rappresentano bene l'intreccio di

nessi e rapporti che intercorrono tra Otto e Novecento a livello

internazionale tra le varie produzioni alimentari e come le

dinamiche imitative si combinino con le spinte innovative nello

stesso ambito delle specialità tipiche, a dispetto dei loro caratteri

- spesso solo presunti - di originalità e aderenza nel tempo a

tradizioni stabili.

Un caso ulteriore è infine quello degli spumanti astigiani, utile

per indicare come i meccanismi imitativi non funzionino soltanto

nell'affermazione all'estero ma, almeno sul breve e medio

periodo, anche per guadagnare spazi sui mercati domestici. La

vicenda di questi vini speciali piemontesi, in particolare,

permette anche di cogliere il momento in cui un prodotto

acquista una fisionomia autonoma e le circostanze che a tale

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 43

passaggio possono concorrere. Sin dall'indomani dell'Unità i

produttori di vini pregiati dell'ex Stato sabaudo, accanto alla

realizzazione di qualità originali, come il vermouth, si sforzano

di imitare il successo conseguito dagli champagne francesi.

Proprio attorno alla metà dell'Ottocento questi ultimi fanno

segnare un deciso salto di qualità, tanto nel miglioramento delle

tecniche di lavorazione - applicando le nuove conoscenze della

chimica in particolare al controllo della fermentazione -, quanto

in ulteriori ampliamenti della loro già solida posizione di

predominio commerciale a livello internazionale. Sin dal

decennio preunitario, nel quadro della più generale politica

cavouriana di valorizzazione delle risorse agricole e delle

"industrie naturali", emergono tutta una serie di produttori che

mirano a realizzare vini spumanti a partire dalle coltivazioni di

moscato del Monferrato e delle Langhe. Alcuni di essi

raggiungono verso la fine del XIX secolo buoni risultati, sia

adottando le metodologie francesi che ricorrendo alle tecniche

più avanzate messe loro a disposizione dall'enologia piemontese,

ed in particolare dalla Stazione sperimentale istituita ad Asti nel

1873. Nel caso di alcune aziende, come quelle dei Bosca o dei

Gancia, attive rispettivamente sin dal 1835 e dal 1850, tali

successi si traducono in un considerevole aumento delle quantità

prodotte e nell'attivazione di rilevanti circuiti commerciali, tanto

in Italia che all'estero. Nonostante questi sviluppi, tuttavia, i vini

spumanti astigiani restano sostanzialmente per tutti i primi due

decenni del Novecento delle imitazioni degli champagne

francesi, con i quali condividono, oltre alla buona qualità, il

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 44

prezzo elevato. La situazione muta nel ventennio tra le due

guerre, quando queste produzioni acquistano progressivamente

una fisionomia autonoma, gettando le basi dell'affermazione di

quei spumanti piemontesi che non solo costituiranno poi, col

boom del secondo dopoguerra, dei prodotti tipici a tutti gli effetti,

ma che finiranno anche negli ultimi decenni del secolo per aprire

la strada a tutta una articolata serie di vini speciali appartenenti

anche ad altre regioni del Nord Italia, a cominciare dal prosecco.

All'individuazione di un prodotto italiano, distinto dagli

champagne d'oltralpe, concorrono negli anni tra le due guerre

tutta una serie di elementi in larga misura riconducibili alle

politiche commerciali - di marketing si direbbe oggi - poste in

essere da aziende quali in primo luogo la Gancia di Canelli.

All'interno del più generale clima autarchico, che pure

ovviamente concorre al risultato non fosse altro sul piano

linguistico e dell'enfasi posta sulle produzioni nazionali, la

Gancia o la Cinzano optano per esempio per massicce campagne

pubblicitarie, che ricorrono ai più innovativi cartellonisti del

periodo ed impongono presso un vasto pubblico i rispettivi

marchi. Unitamente a questa scelta, vengono lanciate linee di

prodotto di media qualità a prezzo contenuto e valorizzate le

varietà dolci di spumante, che bene si adattano alle possibilità di

spesa e al gusto stesso - più popolare - di fasce sociali più vaste

rispetto a quelle estremamente elitarie dedite al consumo di brut

francesi (Cirio, Repetti, 1986, pp. 118ss). A simili scelte e a

un'intensa opera di razionalizzazione ed anche di innovazione

sotto il profilo produttivo (ad esempio la fermentazione in

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 45

autoclave per alcune varietà al posto di quella in bottiglia tipica

del metodo champenoise), si aggiunge infine l'attenzione alla

delimitazione delle produzioni, con l'approdo sin dal 1932

all'istituzione del Consorzio di tutela dell'Asti Spumante. Come

si è accennato, sarà nel secondo dopoguerra che tali sforzi

verranno ad essere maggiormente premiati, soprattutto per la

nascita di nuovi prodotti tipici a cui porta questo lungo processo

di imitazione e differenziazione produttiva.

Il volano dell'emigrazione

Ben più delle dinamiche viste sin ora, tuttavia, un ruolo decisivo

per l'affermazione delle tipicità italiane a livello internazionale è

da attribuirsi al massiccio fenomeno migratorio che ha

interessato la penisola tra il tardo Ottocento e la seconda metà del

secolo successivo. Nell'arco di circa un secolo si stima che circa

30 milioni di italiani siano emigrati, a fronte di una popolazione

nazionale che all'epoca dell'Unità era di 23 milioni. Si tratta

ovviamente di un processo piuttosto diversificato per le sue

modalità (emigrazione permanente, temporanea e addirittura a

volte stagionale anche su lunghe distanze) così come per la sua

provenienza regionale, le sue destinazioni e per gli stessi ritmi

con cui si dispiega (con il crescendo fino all'età giolittiana, la

pausa del fascismo e la ripresa nel dopoguerra), ma con

all'interno alcuni forti elementi di regolarità, che per altro trovano

riscontro anche in fenomeni migratori che interessano paesi e

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 46

periodi diversi. Tra questi elementi costanti un ruolo di rilievo

occupano sicuramente il cibo e l'alimentazione, sia per il forte

valore identitario, di legame con il paese di provenienza e le

stesse comunità di emigranti (le Little Italy nel caso del nostro

paese) che i consumi di questo tipo assumono, sia per i processi

di ibridazione e di scambio con i contesti di immigrazione a cui

inevitabilmente vanno incontro, quanto meno (ma in realtà non

solo) sul medio e lungo periodo. Le comunità di emigranti

italiani divengono così già prima della fine dell'Ottocento

importanti sbocchi all'estero per le produzioni alimentari

nazionali, ad anzi svolgono in molti casi un ruolo decisivo, non

solo nel sostenere le esportazioni del settore, ma anche nel

favorire l'emergere all'interno di esso di imprese di tipo moderno,

con volumi di lavorazione, strutture commerciali e capacità

tecnico-organizzative sufficienti per misurarsi su mercati esteri -

per quanto facilmente praticabili date le preferenze di consumo

delle comunità di emigranti. Almeno sul medio periodo le

colonie di migranti diventano potenti strumenti di penetrazione

commerciale dei prodotti alimentari della madrepatria in ambiti

internazionali del tutto nuovi e spesso, in quanto mete di

immigrazione, con redditi elevati ed una domanda diffusa

cospicua. Un ruolo importante giocano in questo senso, non solo

gli emigranti stessi, con i punti appoggio, il personale

commerciale e a volte persino i capitali che forniscono alle

aziende esportatrici, ma anche gli stessi "luoghi della socialità"

delle comunità all'estero, vale a dire tutta quella serie di locali,

osterie, caffè, ristoranti, pizzerie che, più o meno rapidamente - e,

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 47

a ben vedere, non solo nel caso italiano -, entrano a far parte

dell'ambiente culturale e delle abitudini alimentari e di consumo

dei paesi ospiti. Naturalmente simili processi non sono a senso

unico: piuttosto rapidamente, infatti, i prodotti nazionali trovano

imitatori locali all'estero, sia all'interno degli stessi ambienti

dell'emigrazione, sia, più spesso di quanto forse comunemente si

crede, tra gli stessi produttori dei paesi ospiti. In entrambi i casi

la concorrenza locale è avvantaggiata dai minori costi di

trasporto ed anche, sul piano della qualità, da materie prime e

modalità di lavorazione che spesso meglio si adattano ai gusti del

luogo. Tutto ciò compensa, almeno in parte, i caratteri di

originalità e tipicità dei prodotti importati, e crea non di rado per

questa via nuove specialità o quanto meno loro versioni, appunto,

locali (La Cecla, 1997; Levenstein, 1997). Senza arrivare negli

Stati Uniti, del resto, basta fare qualche centinaio di chilometri

dal capoluogo campano per trovare una pizza "napoletana"

piuttosto diversa da quella fatta a Napoli - ove peraltro essa non è

designata con questo aggettivo - e che però, magari, si adatta

meglio al gusto al locale.

Come racconta Franco La Cecla (1998), la pizza e la pasta sono

probabilmente le principali tra le specialità italiane affermatesi a

livello internazionale per effetto del grande processo di

emigrazione che ha interessato la penisola tra il tardo secolo XIX

e buona parte del XX, quelle con maggiore valore simbolico ed

identitario, che hanno finito per rappresentare in modo

immediato e diffuso l'italianità nel mondo. I tratti in comune tra

questi due preparati alimentari sono numerosi, a cominciare dal

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 48

fatto che la loro affermazione come piatti nazionali è in realtà

pressoché parallela alla loro identificazione con l'immagine del

paese e dei suoi emigranti in ambito internazionale e viene da

quest'ultima in certa misura rafforzata e confermata. Dal punto di

vista che più interessa in questa sede, tuttavia, cioè della loro

valenza commerciale in quanto espressione dell'industria

alimentare italiana nel mondo, pizza e pasta divergono in misura

significativa e costituiscono casi piuttosto distinti.

Nel caso della pizza infatti si ha a che fare con un genere

strettamente artigianale - almeno fino alle evoluzioni recenti del

prodotto pronto surgelato - dalla preparazione piuttosto variabile

e largamente diffuso in tutta l'area mediterranea e oltre: una

focaccia di acqua e farina con vari tipi di guarnitura e in linea di

principio non differente dalla pita greca o dal lamachun turco.

Della sua produzione per il commercio ambulante cittadino si ha

notizia a Napoli sino almeno dalla fine del Seicento, mentre nel

corso del secolo successivo essa comincia ad essere consumabile

anche presso alcuni dei forni che la producono e che si dotano a

questo scopo di tavolini - attaccati alle pareti, ricorda Gabriele

Benincasa, per evitare che venissero portati via. E tuttavia è solo

alla fine dell'Ottocento che la pizza si cristallizza nella sua

versione di base e più diffusa, quella con pomodoro, mozzarella e

basilico, che, pure ampiamente preesistente, trova allora il suo

nome in omaggio alla regina Margherita. E non sfuggirà che la

sua assunzione per questa via tra le specialità nazionali avviene

attraverso una narrazione piena di significati simbolici, dalla

stanchezza per la cucina francese e dall'interesse della nuova

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 49

Casa regnante per il cibo popolare della ex-capitale del

Meridione ai colori del condimento, che rimandano con evidenza

al tricolore del nuovo Stato unitario. Tutta la vicenda, inoltre,

avviene nel 1889, in parallelo cioè con l'avvio di quella vasta

affermazione che la pizza troverà nei paesi che ospitano

l'emigrazione italiana, primi fra tutti gli Stati Uniti, e che

rapidamente ne adotteranno diffusamente il consumo, sia come

fast food sia come prodotto take away. Addomesticata al gusto

locale e in molti casi per questa via rielaborata, essa verrà

riproiettata così sull'immagine che dell'Italia si ha nel mondo.

Nonostante la sua rilevanza simbolica, nella costruzione di una

dieta nazionale sia nel paese che all'estero, tuttavia, la pizza ha

un'importanza minore dal punto di vista che qui interessa, vale a

dire come prodotto tipico che favorisce la presenza dell'industria

alimentare della penisola in più vasti ambiti internazionali.

Troppo artigianale è infatti la sua realizzazione, troppo diffusi,

semplici e variabili i suoi ingredienti di base, troppo adattabile la

sua tipologia di prodotto, perché essa svolga in questo ruolo.

Naturalmente le pizzerie proliferano tra le comunità italiane

all'estero, ma rapidamente, sull'onda del loro stesso successo,

trovano imitatori anche in ambienti più vasti, facilitati dalla

diffusa presenza di prodotti analoghi in numerose altre tradizioni

alimentari, si è detto, mediterranee e non.

Diverso invece è il caso della pasta. Di origini probabilmente

mediorientali, ma diffusa anche nel mondo romano nella sua

versione di pasta stesa realizzata con grano tenero (lagana, da cui

poi lasagne, ravioli, tortellini, tagliatelle, ecc.), essa viene

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 50

largamente prodotta in forma di maccheroni (trafilati e in grano

duro) nella Sicilia araba dell'alto medioevo (Serventi e Sabban,

2000). Seppure presente a partire da questi antecedenti in varie

altre aree europee durante i secoli successivi, la pasta ha la sua

prima affermazione di rilievo nella Napoli seicentesca, i cui strati

popolari, come racconta il celebre saggio di Emilio Sereni

(1981), diventano appunto da "mangiafoglia" a

"mangiamaccheroni" per reazione alla crisi del secolo XVII. Da

allora, questo genere di alimento avanza progressivamente nella

penisola, specie nel Meridione ove si coltiva il grano duro

indicato per la sua preparazione mediante trafilatura. E

nondimeno si tratta di una conquista lenta, se ancora durante la

Restaurazione i Buitoni, per avviare il proprio piccolo pastificio

nella provincia toscana, si vedono costretti a ricorrere ad un

artigiano genovese, proveniente cioè da uno dei centri già

medievali di diffusione di questo prodotto oltre a Napoli. Quasi

paradossalmente, poi, quando negli ultimi decenni dell'Ottocento

la pasta accelera la sua penetrazione nei costumi alimentari degli

italiani, assurgendo a cibo nazionale (anche in questo caso con la

sponda offerta dall'immagine internazionale dell'emigrazione), il

mercato che così si crea viene in larga misura rifornito da

produttori stranieri. E' infatti soprattutto l'industria marsigliese

che, anticipando quella napoletana e quella ligure nella

meccanizzazione, assume il primato nell'approvvigionamento di

prodotti pastari sia in Italia che all'estero. Né ad essa difetta la

materia prima, perché i maccheroni nella loro versione classica,

tra fine XIX e inizio XX secolo, vengono ormai prodotti in Italia

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 51

come in Francia con l'eccellente grano duro ucraino. E

quest'ultimo, il Taganrog, dal canto suo è tutt'altro che privo di

quarti di nobiltà nei confronti delle varietà di frumento della

penisola, provenendo da quel Chersoneso che era uno dei granai

dell'antichità mediterranea. E' solo negli anni attorno al volgere

del secolo che, infine, i produttori italiani recuperano terreno, con

il progressivo delinearsi di consistenti poli industriali, a

Gragnano, Torre Annunziata, Genova naturalmente, ma anche

altrove, da Roma all'area basso adriatica tra Puglia ed Abruzzo

(De Majo, 2001). Anche in questo caso l'emigrazione, o più

precisamente l'approvvigionamento a lunga distanza delle ormai

cospicue colonie di lavoratori italiani nelle Americhe e in

Europa, giocano un ruolo decisivo nell'emergere delle aziende

più moderne e strutturate, capaci di rifornire mercati lontani e

(relativamente) anonimi, dotandosi di capacità commerciali e

amministrative, di marchi riconoscibili, volumi di produzione

adeguati e articolate reti di supporto delle vendite. La pasta

diviene così probabilmente il più importante prodotto tipico

italiano all'estero, denso di valore identitario al pari della pizza.

Nondimeno, seppure in misura minore rispetto a quest'ultima, i

produttori italiani devono scontare l'avvio piuttosto precoce di

processi di imitazione. Essi inizialmente riguardano gli stessi

ambienti dell'emigrazione per poi coinvolgere abbastanza

rapidamente gli imprenditori autoctoni dei paesi di

immigrazione, complice anche il vasto successo che la pasta

conosce presso i consumatori locali. La Cecla (1998, p. 61)

descrive tra le altre la storia esemplare del piacentino Ettore

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 52

Boiardi, che avvia la sua carriera come cuoco nel 1910 a New

York, divenendo poi ristoratore a Cleveland ed infine industriale

della pasta negli States, dove certo non mancano eccellenti grani

duri. Con il marchio Chef Boyardee i suoi spaghetti in scatola

con sugo e parmigiano entreranno a far parte delle razioni di

combattimento dell'esercito americano durante la seconda

mondiale, diventando uno dei prodotti più popolari del paese.

Sori (2011, pp. 38-39), dal canto suo, cita i casi dei pastifici

Cesaretto e Loretti in Argentina, entrambi con una cinquantina di

addetti rispettivamente nel 1898 e nel 1906, ma indica anche

come ad esempio nello Stato brasiliano del Paranà nel primo

trentennio del Novecento i produttori di pasta e lieviti fossero

solo per il 42% di origine italiana. Nel 1929 negli Stati Uniti

esistevano ormai circa 550 pastifici (Mariani, 2011, p. 35). Nella

stessa Svizzera, dotata di tradizioni alimentari assai più

consolidate di quelle americane, la pasta viene massicciamente

importata dal flusso di immigranti italiani attivatosi negli anni

Ottanta del secolo XIX in corrispondenza con la fase delle grandi

costruzioni infrastrutturali e urbane e dell'intensificarsi del

processo di industrializzazione del paese. E, come indica Jakob

Tanner (pp. 484-495), sin dai decenni immediatamente successivi

essa comincia, da un lato, a penetrare nella dieta diffusa degli

stessi ceti popolari urbani elvetici e, dall'altro, ad essere prodotta

in loco - portando nel 1891 alla prima associazione di fabbricanti

e nel 1913 ad un cartello di regolazione del comparto. Tra le due

guerre, poi, questi processi giungono a compimento facendo

della pasta un prodotto di consumo ampiamente diffuso e in larga

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 53

misura fabbricato in Svizzera, ancorché in parte adattato alle

tradizioni culinarie locali e basato in alcuni casi sull'uso di grano

tenero, oltre che su importazioni di grani duri.

Benché, insomma, anche le produzioni pastarie si trasferiscano

abbastanza rapidamente nei paesi di immigrazione e acquistino

più che altro un significato identitario legato all'immagine della

penisola nel mondo, esse nondimeno mantengono più della pizza

una valenza commerciale di promozione delle tipicità nazionali.

Non solo le esportazioni sostengono, fino almeno alla metà del

Novecento, la crescita di molti dei più rinomati marchi storici

nazionali, da Agnesi a De Cecco (Pierucci, 2003, p. 446), ma

ancora tra gli anni Trenta e i primi Quaranta è appunto

producendo pasta e sughi in scatola che la Buitoni riesce a

realizzare uno dei (piuttosto rari) processi di

multinazionalizzazione dell'industria italiana. Nel 1934 infatti

l'azienda apre uno stabilimento nei pressi di Parigi, con i cui utili

aggirerà le limitazioni poste dall'autarchia agli acquisti di cacao

per l'alleata Perugina; mentre nel 1941-42 il principale artefice

del suo successo, Giovanni Buitoni, crea un impianto nei pressi

di New York, ove è rimasto dopo un viaggio nel 1939, riuscendo

per altro a reperire in loco, presso la comunità italiana e

finanziatori ebraici, i capitali necessari che lo stato di guerra con

gli Usa gli impedisce di ricevere dalla madrepatria.

Dinamiche analoghe riguardano d'altro canto molti altri settori,

oltre a rafforzare la presenza all'estero di produzioni tipiche già

affermatesi, come il parmigiano o il marsala. Un caso esemplare

è quello del vermouth piemontese, che pure si afferma presso le

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 54

comunità di emigranti italiani dalla fine dell'Ottocento e conosce

un vasto successo nei paesi che li ospitano. Nelle Americhe, in

particolare negli Stati Uniti e in Argentina, esso porterà una delle

sue principali aziende produttrici, la Cinzano, a costituire una

cospicua struttura produttiva semiautonoma, che permetterà

all'impresa di continuare a svilupparsi, aggirando i limiti in

questo senso posti in Italia dall'autarchia, e ad assumere nel

secondo dopoguerra le dimensioni di una grossa multinazionale

di settore. L'emigrazione ha un ruolo decisivo nell'affermazione

di prodotti nazionali all'estero anche in molti altri comparti del

settore alimentare, a cominciare da quello, strettamente legato a

occasioni sociali e al consumo in locali pubblici, dei liquori, con

ad esempio amari come il piemontese Cora, il beneventano

Strega (Ferrandino, pp.101-102 e 187) o il fernet dei milanesi

fratelli Branca, o ancora i vermouth Martini e Carpano e gli

aperitivi Campari o Aperol. Ma assolutamente rilevanti sono le

spedizioni alle comunità all'estero nel caso di formaggi come il

pecorino romano o il caciocavallo, che si affermano per questa

via come specialità riconosciute già agli inizi del Novecento, o in

quello del prosciutto San Daniele, che alla fine del secolo

precedente viene spedito oltre oceano in latte da uno o mezzo

chilo (Maic, 1890, p. 79). Persino in un comparto di consumo

diffuso quale quello dei pelati e delle conserve di pomodoro, le

prime aziende meccanizzate di tipo moderno, come anzitutto la

Cirio (Chiapparino, 1998, pp. 239ss.), nascono a fine Ottocento

sostanzialmente in rapporto agli sbocchi che riescono a procurasi

sui mercati esteri, e ad essi in larga misura restano legate anche

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 55

nella prima metà del secolo successivo, quando il settore vede

nascere una nuova leva di medie imprese emiliano-romagnole,

campane e più tardi anche pugliesi (Ostuni, 2003). In parallelo

gran parte della domanda interna continua ad essere soddisfatta

prevalentemente dai piccoli produttori locali, quando non

addirittura dalla autoproduzione domestica.

In sintesi, fino alle trasformazioni degli anni Sessanta le

esportazioni verso le comunità degli emigranti italiani, o da

queste favorite e indotte nei paesi che li ospitano, costituiscono

assieme alla domanda dei ceti medi delle grandi città e delle

maggiori aree urbane delle penisola il principale sbocco di

mercato per le imprese moderne del settore alimentare italiano.

Come si è visto in precedenza, se si escludono comparti "pesanti"

- come quello molitorio, di base, o quello speculativo dello

zucchero -, è quasi solo l'accesso a queste forme di domanda a

consentire alle aziende alimentari di aggirare le ristrettezze

strutturali del mercato interno della penisola e acquisire le

dimensioni, il grado di meccanizzazione e l'articolazione

organizzativa delle media, o più raramente medio-grande,

impresa industriale specializzata. In questo senso, non stupisce

che appunto all'export legato alla vicenda migratoria del paese si

leghino gran parte delle ditte e dei marchi storici dell'industria

alimentare nazionale, e con essi delle specialità affermatesi nella

prima metà del secolo XX.

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 56

Dal "made in Italy" alla certificazione di qualità europea

Nel corso degli anni Settanta la spinta migratoria, che per quasi

un secolo aveva visto defluire una parte cospicua della forza

lavoro italiana, viene definitivamente meno mentre si

intensificano i rientri o l'integrazione delle nuove generazioni di

oriundi. In parallelo all'esaurirsi di questa stagione, come si è

visto in precedenza, il paese conosce la profonda trasformazione

della sua struttura produttiva e dei suoi standard di vita, con la

modernizzazione, tra gli altri, degli stessi consumi alimentari. Sin

dai primissimi anni Sessanta, cioè dagli inizi di questi

cambiamenti, viene d'altra parte affermandosi - o meglio

riprendendo vigore - anche una nuova, diversa rappresentazione

della penisola.

L'Italia - afferma Rolf Petri (2007, p. 222) - era nella percezione

tedesca sempre più presente. "Gli italiani stanno rapidamente

avanzando. La concorrenza italiana è ogni anno più forte. Gli

italiani sono imbattibili nel buon gusto. In Italia si sa vivere!"

Queste sono soltanto alcune delle innumerevoli espressioni di

elogio, di entusiasmo e anche di preoccupazione che si

cominciavano a sentire sempre più spesso. Ai ricordi delle vacanze

di associavano ormai, nell'immaginario quotidiano di milioni di

tedeschi, le scarpe e le cravatte italiane, le macchine della Fiat, le

gelaterie e il caffè espresso.

Simili stereotipi, naturalmente, non sono solo tedeschi e si

mescolano, specie negli anni Settanta, con molti altri, più

negativi, di inaffidabilità, disorganizzazione, corruttela diffusa,

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 57

ecc. L'immagine della penisola come patria del gusto e del savoir

vivre, nondimeno, si rafforza col tempo e viene a maggior

ragione consolidandosi a livello internazionale durante la crescita

economica dei successivi anni Ottanta, allorché corrisponde ad

un preciso orientamento del tessuto produttivo nazionale verso i

settori maturi di generi di consumo. La crisi della grande impresa

fordista, particolarmente severa nel paese, trova infatti una

parziale (quanto per la verità inaspettata, sul momento) soluzione

con l'emergere di un diffuso tessuto di piccole e medie imprese,

spesso organizzate in sistemi produttivi locali decentrati e

flessibili, versati nelle produzioni di generi di abbigliamento e

accessori (scarpe, occhiali, ecc.), arredamento, articoli di design,

e capaci di una vasta affermazione sui mercati internazionali.

Una simile evoluzione non è priva di limiti, in quanto si

accompagna alle crescenti difficoltà dell'economia italiana nei

comparti avanzati ad alta tecnologia e, soprattutto, vede

quest'ultima concentrarsi in produzioni mature, che rischiano di

rivelarsi esposte alla concorrenza dei paesi a più basso reddito e

che le altri nazioni sviluppate abbandonano appunto in quella

fase temendo appunto una tale competizione. Dinamiche simili,

oltre che il "settore moda" e quello "casa", investono anche le

produzioni alimentari del paese. Per comprendere come ciò

avvenga, tuttavia, è necessario considerare un ulteriore elemento.

Sin dagli anni Sessanta, soprattutto nel mondo anglosassone, si

verifica una sorta di scoperta della "dieta mediterranea". Dalle

originarie osservazioni sull'alimentazione contadina dell'isola di

Creta e di piccoli comuni calabresi, la formula viene estesa a una

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 58

vasta serie di paesi europei e africani del bacino del Mediterraneo

occidentale (Keys, 1980) e si inserisce, oltre che nella nascente

percezione dei guasti provocati dalle diete ipercaloriche e

abbondanti di grassi animali tipiche dei paesi occidentali

avanzati, anche nel più generale rinnovato interesse per le culture

e i modi di vita tradizionali che prende piede in questi paesi al

vertice del loro sviluppo industriale. Paradossalmente però,

l'Italia rimane inizialmente estranea a queste tendenze: come si è

accennato, negli anni Sessanta e Settanta la penisola assiste ad

una modernizzazione dei consumi che, con l'urbanizzazione e

l'abbandono delle campagne, si caratterizzano spesso per un netto

rifiuto degli stili di vita tradizionali, al di là del fatto che questi

ultimi in larga misura permangano, o quanto meno influenzino

ancora significativamente i nuovi modelli di comportamento. In

questo senso, come si è visto, l'industria alimentare nazionale,

che in quella fase conosce la sua fase di espansione, propone

prodotti nuovi, tendenzialmente svincolati dalla tradizione o che

comunque mettono tra parentesi i loro caratteri di tipicità e i

riferimenti alle specialità locali. E' significativo in questo senso

che una delle campagne pubblicitarie più fortunate degli anni

Ottanta, quella legata al lancio del marchio del Mulino bianco,

tra le prime a recuperare elementi, sia pure trasfigurati ed assai

edulcorati, del mondo contadino e della tradizione, venga ideata

nel brevissimo periodo in cui la Barilla è controllata dal punto di

vista operativo dalla multinazionale americana Grace nel

decennio precedente. Così come pure è indicativo che nei primi

anni Ottanta la svizzera Nestlè nell'acquistare la Buitoni-Perugina

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 59

non si dichiari tanto interessata al secondo di questi marchi, che

pure è quello che realizza profitti nella vacillante posizione di

mercato del gruppo, quanto piuttosto appunto alla Buitoni, in

quanto titolare di specialità italiane ampiamente nota in ambito

internazionale. E coerentemente con una tale visione, la

multinazionale elvetica realizzerà negli anni successivi una parte

significativa dei suoi investimenti strategici appunto in

quest'ultimo ambito, tentando di coniugare i prodotti tipici della

tradizione italiana (e mediterranea) con gli elevati contenuti

tecnologici e di ricerca merceologica caratteristici in quella fase

della sua strategia aziendale. Il risultato sarà la realizzazione di

tutta una serie di nuovi articoli precotti, surgelati e simili.

Del resto, l'interesse internazionale per le tipicità della penisola -

collegate strettamente nell'immaginario alla dieta tradizionale

mediterranea e ai suoi benefici - è ben esemplificata dal rapido

successo della "ciabatta" nel mondo anglosassone.

Commercializzato dal 1985 dalla grande catena di distribuzione

Marks & Spencer, questo tipo di pane diventa rapidamente, al

pari del pesto, dei pomodori secchi o dell'olio extra vergine

d'oliva, una delle tipicità esotiche più popolari tra le classi medie

inglesi, pur trattandosi di un prodotto privo di particolari qualità

merceologiche e inventato ad Adria, nel Polesine, appena nel

1982 (Atkins e Bowler, 2001, p. 278).

Seppure in ritardo rispetto ai paesi sviluppatisi più precocemente,

e spesso per l'intervento di sensibilità provenienti da questi stessi

paesi, anche l'Italia infine partecipa dagli anni Ottanta del revival

del mondo tradizionale e della rinnovata attenzione per le

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 60

specialità del passato, le tipicità locali, le proprie radici rurali e

artigiane. E ciò avviene, dal punto di vista del comparto

alimentare, proprio nel momento in cui si consuma la crisi di

quel ciclo della media e grande industria di cui si è detto, che

porta le imprese maggiori e tecnologicamente avanzate superstiti

a ritirarsi in limitati e ben definiti, per quanto redditizi, ambiti

settoriali.

Uno dei comparti che maggiormente si inserisce nel processo di

valorizzazione delle specialità territoriali tipiche, beneficiandone

ma anche svolgendone un ruolo di promozione, è quello della

vinificazione. La storiografia che si è occupata del settore

(Pedrocco 1993; Panjek, 2003; Maffi 2010; Kovatz, 2013) è

piuttosto concorde nell'indicare come, nonostante i grossi volumi

della produzione complessiva e il consumo di massa, la grande

maggioranza del vino realizzato nel paese rimanga fino a tempi

piuttosto recenti di bassa qualità e con una distribuzione limitata

a mercati strettamente locali, quando non viene utilizzato - ed

anche esportato in questo caso - come varietà da taglio, ad

esempio nel caso della forte produzione pugliese largamente

richiesta a questo scopo dall'industria enologica francese

(Ritrovato, 2013). Ancora durante la prima metà del Novecento,

se si escludono i vini speciali come il marsala o il vermouth, solo

piccolissime porzioni della vitivinicoltura italiana,

prevalentemente in Piemonte o nell'area toscana, riescono ad

esprimere, sotto la spinta di singoli imprenditori agrari illuminati

- si pensi a Cavour per il barolo o Ricasoli per il chianti - e più

raramente di aggregazioni cooperative, prodotti di una qualità

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 61

elevata e relativamente stabile, dotati di un marchio e capaci di

essere esportati all'estero o comunque in ambiti sensibilmente più

vasti della loro zona di provenienza. E' solo tra gli anni Sessanta

e Settanta che una simile situazione comincia a far registrare

significativi cambiamenti e le produzioni iniziano a farsi più

diffuse, per generalizzarsi poi nei decenni successivi fino a far

diventare quello del vino di qualità uno dei comparti centrali del

made in Italy, all'estero come nello stesso mercato nazionale. Ad

un simile risultato, che per altro ha conciso con l'abbandono delle

campagne, il cambiamento degli stessi modelli di consumo e il

forte ridimensionamento dell'incidenza del vino nella dieta

quotidiana del paese, specie per le giovani generazioni, hanno

concorso vari fattori (Unwin, 1993, pp. 352ss.). Tra di essi, un

ruolo decisivo ha sicuramente giocato il larghissimo ricorso ad

agronomi, pedologi ed enologi, che hanno radicalmente

trasformato su basi scientifiche le pratiche colturali e produttive,

mescolando i vitigni, introducendone di nuovi (non di rado dalla

Francia, che resta all'avanguardia in tutto il settore), riscoprendo,

valorizzando e spesso semplicemente reinventando le varietà

tipiche dei singoli territori. Un peso importante hanno poi avuto

le infrastrutture istituzionali locali, a cominciare da Regioni e

Camere di commercio, ma anche poi le Province e gli altri enti

territoriali, che hanno rapidamente colto, specie dagli anni

Ottanta in poi, il rilievo che la vitivinicoltura poteva avere, non

solo nel rilancio di alcune esportazioni locali e nella salvaguardia

delle aree rurali, ma anche più in generale nella promozione

complessiva dell'immagine del territorio e nella sua

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 62

valorizzazione turistica. Analogamente, del resto, non sono

mancati gruppi e imprese private che - sul modello dei

Rothschild in Francia - si sono dedicate al settore vinicolo per

l'immagine e il prestigio che questo rendeva loro in termini più

generali. Oltre a tutto ciò, merita almeno di essere menzionato

infine l'interesse diffuso, non solo ed anzi tutt'altro che solo

italiano, per le identità locali e le loro tipicità: un'attenzione che è

letteralmente esplosa con la percezione della globalizzazione

negli anni Novanta e che ha trovato appunto nel vino (e ben

presto anche per le altre specialità alimentari) uno dei suoi

momenti di ricaduta nella cultura di massa a livello si potrebbe

dire mondiale, alimentando associazioni, pubblicazioni

specializzate e non, corsi di formazione, circuiti turistici e

massicce campagne pubblicitarie e di marketing.

In un ambito diverso, quello dell'aceto balsamico, Magagnoli

(2005) ha bene illustrato gli articolati meccanismi attraverso cui è

emersa nel Modenese una delle specialità tipiche degli ultimi

decenni.

A partire dagli anni Sessanta l'autore mostra l'avvio di un lento

processo di recupero di una produzione tradizionale,

originariamente priva di proiezioni di mercato, in quanto

strettamente legata alla produzione domestica (anche delle élite

proprietarie e di qualità), e soprattutto molto variabile, con ricette

che spaziano dall'aceto di mosto cotto a lungo e lunghissimo

invecchiamento a quello meno pregiato che fa un largo ricorso

all'aceto di vino. Nel 1965 una prima vaga definizione

ministeriale stimola un'operazione di recupero - o meglio di

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 63

preservazione nel contesto di radicali cambiamenti di quegli anni

- di questa specialità da parte di limitati gruppi di appassionati e

cultori delle tradizioni locali di un piccolo comune del

Modenese, raccolti in un'associazione all'inizio essenzialmente

priva di finalità commerciali. La Consorteria di Spilambergo

fisserà la ricetta dell'aceto balsamico, sottraendolo alle incertezze

e alla ampia variabilità (anche sotto il profilo dei risultati

qualitativi) delle preparazioni tradizionali. Con ciò in pratica essa

reinventerà questo prodotto, affinandolo poi nel tempo, tanto da

licenziarne, tra il 1967 e il 1994, ben otto diverse schede di

degustazione, che definiscono caratteri anche piuttosto differenti

del risultato finale. Si tratta, come giustamente sottolinea

Magagnoli, di una intensa e complessa operazione di ciò che

Hobsbawm e Ranger hanno definito "invenzione della

tradizione", seppure basata su ricerche approfondite e anche in

buona misura filologiche di pratiche del passato spesso

dimenticate o confuse. La tipicità è per molti aspetti così

l'immagine ricostruita che evoca prodotti tradizionali di cui si è

persa in larga misura nozione (Ceccarelli et. al., 2013). Un

secondo passaggio, altrettanto esemplare, è poi rappresentato

dall'innesto nella vicenda di cospicui interessi commerciali alla

fine degli anni Settanta, nella fase in cui cioè, come si è detto,

cresce l'appeal dei prodotti tipici, e in particolare di quelli

italiani, sui mercati internazionali. Nello specifico il nuovo

equilibrio è caratterizzato dalla individuazione di due prodotti,

definiti progressivamente dalla normativa della doc degli anni

Ottanta: il primo, l'"aceto balsamico tradizionale", basato su

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 64

mosti cotti e lungo invecchiamento, gelosamente custodito dai

rigidi disciplinari della Consorteria (che nel 1979 genera un

Consorzio di tutela) e destinato ad alimentare un'offerta di poche

migliaia di litri l'anno; l'altro, "l'aceto balsamico modenese",

collocato in una fascia inferiore di qualità, con un largo o

esclusivo apporto di aceto di vino, prodotto dalla grande industria

in decine di milioni di litri l'anno, il cui marchio è trainato - e in

parte volutamente confuso agli occhi del consumatore - dal

prestigio del primo. Ciò che più interessa tuttavia in questa sede è

che l'affermazione di una tipicità come l'aceto modenese passi

attraverso strategie di marketing complesse e in larga misura

innovative (Di Stefano, 2000; Canevari et al., 2009), a

cominciare dal fatto di non essere solo elaborate da singole

grandi imprese, ma, accanto ad esse, da un pluralità di altri

soggetti, come piccoli produttori, consorzi titolari di marchi

collettivi e amministrazioni locali di vario livello, molto attive

sin dai momenti iniziali della valorizzazione di questo prodotto.

Estremamente significativo, infine, è anche il terzo passaggio di

tutta la vicenda, quello legato all'introduzione delle certificazioni

di qualità europee alla metà degli anni Novanta. Le prospettive

che queste aprono sui mercati internazionali hanno il prevedibile

effetto di alterare gli equilibri precedenti, inducendo alcuni

produttori a tentare di sfruttare su larga scala anche il prodotto di

maggior qualità, il balsamico tradizionale "nobile", tentando di

ottenere un allentamento dei disciplinari. Il conflitto che ne

consegue, che coinvolge tutti i vari soggetti già richiamati, dal

consorzio di tutela agli enti locali, si conclude con un nulla di

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 65

fatto ma esemplifica bene il nuovo scenario aperto dalla

normativa comunitaria.

Il passo ulteriore che qui si intende infine richiamare è appunto

quello della nuova stagione inauguratasi, a partire dagli anni

Novanta, con l'avvento della certificazione europea di tipicità.

Per quanto una legislazione nazionale della denominazione di

origine controllata esista sin dagli anni Cinquanta e soprattutto

dal decennio successivo abbia avuto un certo rilievo in comparti

come quello del vino, e benché per singole produzioni, come

quella degli spumanti astigiani, marchi consortili di qualità

esistessero anche in precedenza, è la normativa comunitaria sulla

denominazione di origine protetta (dop) e sull'indicazione

geografica protetta (igp) che a partire dal 1992 apre - o sembra

aprire - significative nuove prospettive sui mercati internazionali

per le produzioni tipiche (Weber, 2000).

La protezione e il prestigio garantiti dalla nuova

regolamentazione, infatti, si sommano allora con l'apertura del

commercio mondiale, l'interesse rinnovato per le identità e le

specialità locali a fronte della montante globalizzazione, le

inedite possibilità di comunicazione offerte dalla diffusione

pervasiva delle reti informatiche, che permettono di veicolare

informazioni, campagne promozionali, contatti commerciali

anche senza disporre di grandi strutture amministrative e

propagandistiche. E tutte queste novità interagiscono a loro volta

con gli elementi ricordati poc'anzi: il successo dello stile italiano,

il buon posizionamento del paese nei settori di beni di consumo

maturi, l'interesse per la dieta mediterranea, ecc. Il risultato di

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 66

tutto ciò è che l'Italia è assieme alla Francia e ai paesi dell'Europa

mediterranea tra le nazioni che maggiormente hanno aderito alla

nuova normativa e fanno registrare un più alto numero di prodotti

certificati. Una decina di anni dopo l'introduzione della

regolamentazione, la penisola contava circa un quinto dei Dop e

Igp europei, e questo primato si è rafforzato nel decennio

successivo, allorché il paese ha superato la stessa Francia

giungendo ad avere quasi un quarto dei prodotti tipici

riconosciuti dall'Unione.

Prodotti Dop e Igp

Numero dei prodotti

2004 2013

Francia 140 193

Italia 139 249

Portogallo 92 118

Spagna 84 159

Grecia 83 97

Germania 67 90

Regno Unito 29 44

Rep. Ceca 3 28

Polonia 0 26

Altri 35 104

Totale 672 1108

Ismea su dati Ue

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 67

Differente tuttavia è il quadro che emerge se dal numero di

specialità si passa a considerare il loro significato economico. Se

si guarda ai dati del fatturato emerge infatti che i primi cinque

prodotti certificati nel 2003 rappresentavano oltre il 72% del

totale alla produzione Dop e Igp italiana e i primi dieci oltre

l'88%, mentre ancora nel 2011 questi valori erano rispettivamente

superiori al 66 e dell'83% (Ismea, 2004 e 2012). Ciò è indicativo

di come, salvo poche eccezioni, la via della certificazione di

qualità abbia finora in sostanza premiato le specialità già

affermate sul mercato e resti in larga misura ancora una

potenzialità da sfruttare per la promozione e la valorizzazione

della grande varietà di prodotti tipici nazionali che la penisola si

è vista riconosciuti.

Se si guarda al contributo che i prodotti tipici danno alla bilancia

agroalimentare del paese, simili considerazioni trovano alcune

conferme. La quota dei prodotti Dop e Igp rimane comunque

piuttosto limitata sul complesso delle esportazioni agroalimentari

italiane. Secondo i dati Ismea nel 2010 essi assommavano a poco

meno del 7% dei 28 miliardi circa dell'attivo della bilancia

alimentare e al 12,5% circa con l'aggiunta dei vini Doc e Docg.

Esistono tuttavia stime più ampie del "made in Italy"

agroalimentare, che comprendono tutta la vasta serie di prodotti

riconducibili all'italianità o in qualche modo tipici della penisola

- inclusi prodotti di consolidata tradizione industriale come la

pasta. L'Ismea ne indica un peso, sempre nel 2010, pari a circa i

due terzi delle esportazioni nazionali del comparto alimentare.

Ciò che più conta in questa sede è però che valutazioni

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 68

diacroniche, quali quelle riportate da Carbone et al. (2012,

pp.128-129), segnalano la crescita di una tale quota dal 67-68%

della seconda metà degli anni Novanta al 71% degli anni recenti,

con un'espansione di qualche peso ma in definitiva non

particolarmente rilevante.

Il potenziamento delle produzioni tipiche lascia ovviamente

intravedere notevoli potenzialità. In primo luogo esso potrebbe

contribuire a sanare la falla apertasi con lo sviluppo degli anni

Sessanta nella bilancia alimentare del paese, che come si è visto

dal sostanziale pareggio del 1960 ha fatto registrare un deficit

crescente, stabilizzatosi nel corso degli anni Ottanta attorno ai

10-15 miliardi di euro annui, e fino ad oggi non più riassorbitosi.

Per quanto un tale deficit sia principalmente ascrivibile a generi

agricoli di base e le produzioni tipiche (prevalentemente

realizzate dall'industria, ancorché piccola e media) abbiano nel

complesso concorso ad attenuarlo, il contributo di queste ultime è

tuttavia a tutt'oggi ancora ben lontano dal riassestare la bilancia

alimentare del paese. Inoltre, benché l'industria alimentare nel

suo complesso (produttrice di specialità o meno) costituisca uno

dei pochi comparti dell'economia italiana che si sono dimostrati

in grado di reggere sui mercati esteri anche durante gli ultimi

anni di crisi, le sue esportazioni stentano ancora a compensare le

corrispondenti importazioni.

Un discorso in parte analogo vale per l'altro versante in cui lo

sviluppo delle produzioni tipiche potrebbe dare un contributo di

notevole rilievo, quello del rapporto tra industria e agricoltura e

del recupero delle vaste aree rurali di un paese largamente

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 69

montuoso e collinare, che in molte sue parti male si addice a

colture estensive e altamente meccanizzate. In questo ambito

come in quello del deficit commerciale con l'estero, l'ipotesi che

la crescita di una moderna industria alimentare potesse sanare gli

squilibri emersi durante il miracolo economico è, come si è

accennato, sostanzialmente tramontata negli anni Ottanta. La

strada alternativa che ha piuttosto inaspettatamente preso corpo

nel decennio successivo si basa su piccole e medie imprese non

marginali, capaci di valorizzare di concerto con enti intermedi e

comunità locali le vocazioni produttive del territorio (autentiche

o "reinventate" che siano), dando uno sbocco al ricco patrimonio

culturale italiano in campo agricolo e alimentare e alle

multiformi tradizioni culinarie e gastronomiche del paese -

nonché alla stessa creatività che un tale patrimonio può

supportare e che l'individuazione delle tipicità, come si è visto,

richiede. L'alto numero dei marchi Dop o Igp riconosciuti, al pari

dei vini Doc o Docg, che per altro sono evidentemente solo una

parte dei prodotti tipici effettivamente esistenti nel paese, è

indicativo di come uno sviluppo in questa direzione possa essere

pervasivo e rilevante per la stessa economia nazionale. E tuttavia,

se si escludono le specialità "storiche", i limiti della circolazione

commerciale attuale di gran parte di queste tipicità indicano bene

quanta strada, sia sul versante dell'export che su quello agricolo,

resti ancora da fare per raggiungere simili obiettivi.

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 70

Fatturato alla produzione dei prodotti Dop e Igp

italiani

2003 2011

mil.€ % mil.€ %

Totale 4.478 100,0 6.537 100,0

primi 10 prodotti 3.973 88,7 5.452 83,4

Parmigiano reggiano

987

22,0

1.357

20,8

Grana padano 922 20,6 1.395 21,3

Prosciutto di Parma 766 17,1 992 15,2

Prosciutto San Daniele 361 8,1 302 4,6

Mozzarella di Bufala

campana 200 4,5 288 4,4

Gorgonzola 194 4,3 249 3,8

Mortadella di Bologna 157 3,5 224 3,4

Pecorino romano 170 3,8

-

Bresaola Valtellina 132 2,9 215 3,3

Speck Alto Adige 84 1,9

-

Aceto balsamico Modena

260 4,0

Mela Alto Adige 170 2,6

Ismea

Chiapparino - L'industria alimentare (Draft 2014) Pagina 71

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