l’autore nel gioco digitale: estetiche, poetiche nell’enunciazione videoludica

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1 UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI BOLOGNA FACOLTA' DI LETTERE E FILOSOFIA Corso di laurea in SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE “L’Autore nel Gioco Digitale: Estetiche, Poetiche nell’Enunciazione Videoludica” Tesi di laurea in Semiotica dei Nuovi Media Relatore: Presentata da Prof.ssa Giovanna Cosenza Marco Benoît Carbone Correlatore: Prof.ssa Maria Pia Pozzato Sessione III Anno accademico 2006-2007

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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI BOLOGNA

FACOLTA' DI LETTERE E FILOSOFIA

Corso di laurea in SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE

“L’Autore nel Gioco Digitale: Estetiche, Poetiche nell’Enunciazione Videoludica”

Tesi di laurea in Semiotica dei Nuovi Media

Relatore: Presentata da

Prof.ssa Giovanna Cosenza Marco Benoît Carbone

Correlatore:

Prof.ssa Maria Pia Pozzato

Sessione III Anno accademico 2006-2007

2

L’Autore nel Gioco Digitale Estetiche, poetiche nell’enunciazione videoludica

3

Ringraziamenti A Isabella, per il supporto totale e incondizionato a ogni livello. Alla professoressa Cosenza, per aver tollerato le mie inefficienze burocratiche. Al gruppo di L U D I C A, per l’equilibrio generale tra esaltazioni e scetticismo. Ai miei genitori, per essersi presi il ruolo executive producers a tutti gli effetti.

4

Indice Ringraziamenti……………………………………………………………………...03 Introduzione: il senso dell’autore………………………………………………….07 Cap. 1 - Dentro al Monstrum Digitale…………………………………………….15 1.1 - Il videogioco tra pratiche e teoria……………………………………… 15 1.2 - State of the game………………………………………………………. 15 1.3 - State of the theory………………………………………………………. 21 1.4 - Un approccio semiotico al videogioco………………………………… 24 1.5 - Nuovi media e ri-mediazioni…………………………...……………… 26 1.6 - Una definizione strumentale all’autore………………………………… 30 1.7 - Testo, paratesto, enunciazione………………………………………….. 31 1.8 - Alla ricerca del testo videoludico ……………………………………… 34 Cap. 2 - Dall’Autore all’Inventore………………………………………………...36 2.1 - Inventori Videoludici………………………………………………………. 36 2.2 - OXO, Tennis for Two, Spacewar: il testo-bricolage………………………….39 2.2.1– Oxo………………………………………………………………….…39 2.2.2 – Tennis For Two……………………………………………………….41 2.2.3 – Space War……………………………………………………………. 42 2.3 - Il testo videoludico tra forma e sostanza…………………………………….. 45 2.4 - Dal codice all’entertainment……………………………………………...... ..49 2.4.1 – Computer Space…………………………………………………….…50 2.4.2 – Baer e gli Home TV Games ………………………………………… 53 2.4.3 – Pong……………………………………………………………………….…57 2.5 – Dalla creazione al bricolage………………………………………………… 58 2.6 - L’Adamo Videoludico……………………………………………………… 60 2.7 - L’enunciazione tra immanentismo e apertura alla prassi convidivisa………...64 2.8 - L’autore tra creazionismo ludico e tessuto sociosemiotico……………….…..69 2.9 - Uno, nessuno, centomila autori ………………………………………….……71 Cap. 3 - La Politique Videoludica …………………………………………………73 3.1 - Autore videoludico e orizzonte commerciale……………………………..……73 3.2 - Il videogioco di massa…………………………………………………….…....76 3.3 - Il programmatore da creativo a dipendente……………………………….……78 3.4 – Adventure…………………………………………………………………...…83

5

3.4.1 - L’Autore-Traduttore………………………………………………….………83 3.4.2 - Una passeggiata tra i boschi interattivi………………………………………84 3.4.3 - Dal creatore modello al creatore reale………………………………………..85 3.5 - La Politique des programmateurs………………………………………….…..92 3.5.1 - Autori, manager e avvocati…………………………………………………..93 3.5.2 - Dalla tecnica ai brevetti, dai brevetti all’autore………………………….…..96 3.5.3 - Le veneziane di Bob Whitehead……………………………………………..98 3.5.4 - La dama di Alan Miller…………………………………………..…………100 3.5.5 - David Crane’s Pitfall……………………………………………….……….104 3.6 - La via originaria all’autore videoludico………………………………………108 Cap. 4 - Una Parentesi Cinematografica………………………………………...113 4.1 – In principio era l’Autore…………………………………...…………………113 4.2 – La regia cinematografica……………………………………..………………116

4.2.1 - Specifico registico e ruoli d’autore…………………..………………119 4.2.2 – Il regista all’interno del sistema…………………….……………….122

4.3 – La mitopoiesi autoriale………………………………………..……………...127 4.4 – Critiche dell’autore cinematografico…………………………………………131

4.4.1 – L’autore da nozione a etichetta …………………………..…………132 4.4.2 – Il pubblico, la critica e la cifra d’autore……………….…………….133 4.4.3 – L’autore e la prospettiva testuale………………………….…………137 4.4.4 – L’autore, il genere e la terza via………………………….………….141

4.5 – Dal cinema al gioco elettronico……………………………..….…………….144 Cap. 5 – Auteurs Videoludici……………………………………………………..148 5.1 - Autori di videogiochi…………………………………………………………148 5.2 - Jeff Minter: psichedelia videoludica……………….……………………..…..149 5.2.1 - Robotron vs. Llamatron…………………………….…………150 5.2.2 - Dal bedroom coding all’industria…………….…….…………155 5.2.3 - Autore di luci………………………………………………….159 5.3 - Shigeru Miyamoto: da creativo a producer………………………..………….160 5.3.1 - Dalle carte da gioco all’eldorado videoludico………..……………...162 5.3.2 - Super Mario 64, il testo totale……………………………….…….…166 5.3.3 - Il creativo nell’industria …………………………………..…………171 5.4 - John Carmack: lo scienziato del codice………………………………………173 5.4.1 - Carmack e Romero………………………………………….......……175 5.4.2 – Il codice Doom………………………………………………………178 5.5 - Percorsi per l’autore…………………………………………………..………181

6

Cap. 6 – Oltre L’Autore…………………………………………………………..185 6.1 - Tutte le strade portano all’autore……………………………………….…….185 6.2 - Second Life: l’autore collettivo…….….….….……………..….….…...…..…187 6.3 - Verso una koiné digitale ………………………………….….……….………189 6.4 - L’autore è morto………………………………………………………………192 6.5 - Strategie, marche, etichette autoriali…………………………...………..……194 6.5.1 - Mizuguchi: del ritmo videoludico……………………………………196 6.5.2 - Kojima: meta-gioco e cinefilia………………………………….……200 6.5.3 - Tom Clancy’s Ghost Writing…………………………………….…..204 6.6 - eXistenZ: del regista videoludico………………………………….……….…207 6.7 - Cinema videoludico / videogioco cinematografico…………………….…..…213 6.7.1 - Shinji Mikami e l’horror videoludico………………….………….…214 6.7.2 - Il cinema-videogioco……………………………….….…….…….…215 6.7.3 - Peter Jackson’s King Kong………………………………….…….…216 6.7.4 - Cinema, gioco e critiche………………………………….……….…218 6.8 - Semiotica vs. Ludologia……………………………………………..……….222 Conclusioni ……….……………….………………………………………………226 Bibliografia………...……………….……………………………………………...235

7

INTRODUZIONE

IL SENSO DELL’AUTORE

“Quando un discorso è condotto dalla sua stessa forza a derivare nell’inattuale, si sottrae a

ogni forma di gregarietà e può diventare il luogo, per quanto esiguo, di una affermazione”

(Roland Barthes)

La diffusione delle forme di gioco digitale nella cultura di massa e nella vita

quotidiana è vasta e profonda. Sempre più complessa è, poi, l’interrelazione

a più vie tra videogioco e altre forme espressive, in particolar modo cinema

e animazione. È quasi superfluo affermare che il vasto insieme di pratiche

che riuniamo sotto il termine “videogioco” non è una moda più o meno

passeggera o di ritorno, né una forma di espressione marginale, né - come

molta teoria ha implicitamente decretato - semplicemente un campo delle

sperimentazioni laterali nel campo digitale. Il videogioco è al contrario,

nella varietà dei supporti tecnologici, dei testi, delle pratiche in cui è fruito,

una delle forme ludiche ed espressive in cui maggiormente si sostanziano la

nostra cultura e l’industria dell’intrattenimento di oggi.

La necessità teorica di un approccio totale al videogioco da parte

della ricerca semiotica è data per scontata da questo lavoro, che si

concentrerà su un aspetto particolare: l’autore nel gioco elettronico. È

questo una cartina di tornasole per comprendere il passato e la situazione

attuale del mezzo e cercare di comprenderne le future evoluzioni, il suo

linguaggio, la sua estetica.

Questo lavoro, pur essendo “attuale” nel porre il proprio

interrogativo, cerca tuttavia di essere inattuale nello spirito. La sua

inattualità discende da una mancata adesione al clima entusiastico creatosi

intorno al riconoscimento estetico del gioco digitale o, ancora, in un

atteggiamento scettico rispetto all’ottimismo nei confronti dell’estetica e

8

significanza dei testi derivante dalla recente, riscattata attrattiva accademica

dei videogiochi. C’è piuttosto il tentativo di inquadrare la questione

autoriale e artistica del gioco elettronico in termini problematici invece che

apologetici, anche qualora una risoluzione di tali questioni apparisse

impossibile o improbabile.

Per molti versi, la cifra stessa del problema dell’autore (videoludico,

ma non solo) sta proprio nell’impossibilità - sia dal lato di chi fa che da

quello di chi critica - di non ricorrere a questa nozione, anche nel momento

in cui essa viene giustamente problematizzata1.

A guardare il sistema di produzione videoludico, il suo pubblico, la

critica specializzata e alcuni teorici del gioco digitale, la nozione appare

sulla strada di un forte rafforzamento. Il pubblico, con logiche diverse

rispondenti a una sua ormai notevole stratificazione, è ben incline ad

accettare il testo videoludico come opera di un Autore. Persino l’audience

più generalista, attratta dai temi e dai generi dei giochi più che da una

ricerca personale sui testi come forme di gioco predilette, priva di

valutazioni di natura strutturale o di volontà critica nei confronti dei

prodotti, si è abituata a vedere campeggiare una firma sulla confezione

accanto al titolo. La serie di Splinter Cell, di cui si dirà, è presentata con la

dicitura “Tom Clancy’s”. La presentazione dei creatori del gioco, prima a

volte del tutto assente o relegata in zone laterali del testo2 come il finale, i

titoli di coda o menu sotto forma di accessorio, ha iniziato a spostarsi sui

titoli di testa alla maniera cinematografica, di pari passo alla celebrazione

del game designer o del producer, di volta in volta “autori di”. Il pubblico

degli appassionati e delle comunità videoludiche, del resto, non è passivo

rispetto alle proposte dell’industria, e produce un discorso fortemente

epitestuale sui testi videoludici che è ormai incline alla nozione autoriale.

Così al programmatore e il designer, a capo o meno di team più o meno

ristretti, è sempre più spesso riconosciuta responsabilità e paternità delle

“opere” videoludiche. Non è più cosa rara, ma la norma, leggere discussioni 1 Confronta, per lo specifico cinematografico, il cap. 4. 2 Sul rapporto tra nucleo e “periferia” del testo e tra testo e paratesto si tornerà più estesamente, in particolar modo nel corso dei capitoli 1, par. 7, e 2, par. 5.

9

su forum online sulle date di uscita dell’“ultimo Wright” o sulle impressioni

sul “nuovo Zelda di Miyamoto”, oppure vedere approfondimenti su “Sid

Meier’s Railroads”.

Siamo, insomma, sulla strada di una mitologia dell’autore nel gioco

digitale, ben diversa dal caso delle conversioni videoludiche di film di

successo o cult, in cui il testo filmico o la star di riferimento precedono in

quanto ad attrattiva la qualità del testo ludico3. Si tratta di un processo che,

anche se naturale e necessario, rischia di far dimenticare la vera natura

dell’autorialità nel gioco: complessa, non semplificabile nella firma sopra la

confezione, da integrare con la riflessione sull’autore in altri ambiti.

Riferendoci ai videogiochi abbiamo usato il termine “opera”

utilizzando le virgolette. Facendo così non intendiamo allontanare a priori

una idea di opera videoludica come frutto di lavoro creativo e artistico,

magari per affermarvi come unico statuto possibile quello del disprezzato

“prodotto di massa”. Non interessa riesumare le ormai trite polemiche

intorno al problema di una culture “alta” o “bassa”, ma si sente la necessità

di problematizzare la questione avendo constatato la proliferazione, nel

discorso di molti tra i teorizzatori sul gioco digitale, della nozione autoriale

e artistica4.

L’esplosione dei cosiddetti game studies ha generato un clima di

entusiastica attenzione allo statuto artistico del gioco. E non ha solo

sollecitato contributi da discipline affermate, ma ha spinto addirittura verso

la credenza da parte di molti nella necessità di discipline ad hoc5. Tra

l’entusiasmo dei folk theorist e dei ludofili, l’associazione tra testo/mezzo

videoludico e idea artistica e autoriale è stata posta su basi diverse. A volte

sul piano dei contenuti estetici, sotto forma delle “arti” confluenti nel

videogioco: e in questo modo si è bypassato il problema della specificità di

3 Nel corso degli ultimi anni questo rapporto ha assunto le caratteristiche più complesse e a più direzioni. Cfr. il cap. 4, in particolare par. 4.5. 4 Le comunità online di studi sui videogiochi pullulano di discorsi più o meno fondati, qualificati o giustificabili intorno alla artisticità di questo o quel videogioco. 5 È il caso della ludologia, che sarà discusso nel dettaglio in 6.8.

10

questa forma espressiva, la si è ridotta a contenitore di altra arte6. In altri

casi, l’attenzione alla “specificità” del mezzo videoludico ha preso il

sopravvento: il raro momento di arte videoludica è stato visto

nell’identificazione tra game designer-regista e opera giocabile,

contrapposta al gioco “qualunque” o “industriale”. La “poetica” dell’autore

sarebbe allora rintracciabile, nei migliori tra i casi di critica, sotto forma di

precisi e rinvenibili stilemi. Ma in altri casi, prerogativa perlopiù della

pubblicistica commerciale specializzata a valle del percorso produttivo, il

fascino dell’autore-superstar è stato assorbito come una mitologia

promossa, a monte, da etichette e distributori.

Si darebbe allora, anche per certi videogiochi, il ritorno del

romantico, misterioso, unico, difficilmente definibile, ma indubbiamente

percepibile “tocco” dell’autore. Per quanto non ancora di centrale evidenza

(al contrario del caso del cinema), quella dell’autore videoludico è

sicuramente una strategia rampante.

Pubblicistica commerciale a parte, il problema dell’autorialità appare

in primo piano in molti contributi teorici. L’assunto autoriale,

problematizzato o meno, è riuscito a conquistare la logica di collana

editoriale, il filo conduttore di una ricerca che proceda per binari paralleli su

gioco, design e game designer. È il caso della prima collana di libri dedicata

esclusivamente ai videogiochi in Italia, in cui ogni volume era

accompagnato dalla dicitura “videogames d’autore” con tanto di ritratto in

copertina7. Ben al di là della portata dei singoli contributi, è d’altronde

centrale la logica di questa collana, che trova un filo conduttore molto forte

nelle prefazioni scritte dal curatore. C’è, nell’atto di produrre questi volumi

e contributi prima che nei loro contenuti, un forte, ludico interesse ad

affermare la dignità accademica, espressiva, artistica, comunicativa del

videogioco, medium prima d’oggi fortemente ai margini della comunità

6 Maietti (2004) ha fatto del resto notare come i ragionamenti di questo tipo, che assegnano al videogioco lo statuto di arte in quanto “contenente arte”, agiscano sulla considerazione del piano testuale ed espressivo del gioco come veri e propri “falsi sillogismi”. 7 Ci riferiamo alla ben nota serie Ludologica – Videogames d’Autore, curata da Matteo Bittanti, poi confluita nella nuova serie Videoludica (dove il ricorso all’Autore in copertina è stato abbandonato). Cfr. www.videoludica.com e www.ludologica.com.

11

accademica ed estetica. Questa affermazione culturale, professionale,

accademica e di immagine pubblica del gioco e dei suoi critici, a tratti

polemica e provocatoria, passa anche attraverso l’autore.

Dall’altro lato della barricata gli apocalittici anti-videoludici sono

una razza in rapida estinzione, perché poco inclini alla scoperta, al

confronto e all’autocritica. Ora, la ricerca semiotica ha dalla sua un’apertura

genetica al significato in ogni sua forma, senza giudizi sulla sua

“importanza”. Il tentativo di questo contributo è allora quello di contribuire

a consolidare il terreno teorico e critico sul quale in questi anni si da luogo

alla consacrazione del videogioco come arte e come opera, evitando i

riduzionismi degli (ormai pochi) scettici a priori e apocalittici mediatici

come anche l’entusiasmo frenetico di certi acritici sostenitori

dell’incorporazione del gioco elettronico nel pantheon delle Arti.

Questo lavoro è, d’altronde, agli antipodi dell’apologia del

videogioco e del suo essere arte, e non salta sul carrozzone dei profili

biografico-autoriali che attraversano la mitologia videoludica

contemporanea. Gli sforzi di questa ricerca si concentrano sul tentativo di

azzerare il discorso e ripartire su basi problematiche, lavorando umilmente

“al pian terreno” dei testi. Un terreno assai dissestato e poco attraente sotto

il profilo del blasone artistico che evoca, su cui sarà necessario lavorare

parecchio per piantare un giorno i piedi in saldo, rischiando nel frattempo di

invischiarsi perennemente in un pantano problematico; e, al contempo, un

terreno più concreto delle fumose costruzioni di artistica elevazione del

mezzo che troppi entusiasti agitano per aria8.

Sospendere il giudizio sull’accettazione della artisticità degli “autori”

di giochi (ma non solo) non è pessimismo fine a se stesso o snobistica presa

di distanza dalle possibilità del gioco, ma equivale ad aggiornarle e

correlare il problema al dibattito più ampio sull’autore in altri settori della

ricerca e, di conseguenza, nell’elevarlo come problema teorico. Nel trarre

per analogie e differenze una serie di considerazioni sul rapporto tra

8 In questo senso non ci iscriviamo neppure nell’evento-polemica barthesiano della Morte dell’Autore, che ha caratterizzato una fase decisiva del periodo post-strutturalista. Cfr. Barthes (1968)

12

videogioco e forme espressive come il cinema sarà anche possibile

considerare i mezzi e le pratiche di comunicazione non più come

compartimenti distinti e separati da barricate, ma come manifestazioni

specifiche di un più vasto panorama espressivo e mediale9.

Il lavoro procederà secondo una prospettiva semiotica, avvalendosi

di una pluralità di strumenti e approcci e partendo dall’analisi dei testi.

Questi, come il loro paratesto ed epiteto, saranno visti al tempo stesso come

luoghi di produzione di senso e come precipitati di processi che lasciano

tracce dalle quali rilevare il problema dell’autore.

Nel corso del primo capitolo, dopo aver preso in rassegna lo stato

della ricerca odierna sul gioco digitale, illustreremo la metodologia e gli

strumenti teorici adottati e terremo conto dei progressi della ricerca

videoludica in campo semiotico. Offriremo una definizione elastica,

operativa del videogioco, che consenta di fare chiarezza sul nostro modo di

considerare questa forma espressiva senza brancolare nel buio ma, allo

stesso tempo, di evitare irrigidimenti teorici, rimandando eventuali

definizioni “normative” a un momento successivo.

Il secondo capitolo darà il via alla nostra ricognizione sui testi

interrogando alcuni videogiochi delle origini: faremo arretrare il problema

dell’autore videoludico fino a farlo coincidere con quello della creazione

del gioco elettronico. La “nascita” del mezzo videoludico tra contesto

tecnologico e pratica di gioco è, infatti, un luogo storico-teorico al riparo

dall’inquinamento del metatesto contemporaneo e la sua analisi può

prendere atto in maniera rilevante dello statuto testuale delle forme

videogiocabili sotto il profilo tecnologico, tecnico-ingegneristico,

enunciativo dei soggetti coinvolti e delle pratiche ludiche presupposte dai

nuovi testi.

Il terzo capitolo prenderà atto del primo caso storico di riconosciuta

affermazione di autorialità videoludica, risultato di una scissione industriale

che segnerà una tappa nei modelli di produzione a venire. Oscillanti in

futuro tra la grossa corporation e la piccola azienda quasi-artigianale, i 9 Cfr. in questo lavoro 1.1 e 5.4

13

modi di produzione dei videogiochi di questo periodo segnano

l’affermazione del lavoro individuale, prima negato dalla logica del

marchio d’azienda. Concentrandosi sulle motivazioni industriali ed

economiche, sulla tecnica condivisa all’opera e sui processi enunciativi, il

capitolo offrirà una lettura dei primi testi videoludici “d’autore”.

Avendo presentato le caratteristiche peculiari della testualizzazione

del mezzo e introdotto il problema autoriale nell’epoca della sua iniziale

affermazione pubblica, saremo giunti al quarto capitolo senza potere più

rimandare il discorso sull’autorialità in ambiti espressivi altri rispetto al

videogioco, in particolar modo per quanto riguarda la critica

cinematografica. Questo capitolo sarà l’occasione per aggiornare al

progresso ottenuto in questo campo il senso del discorso sull’autore fatto

fino a questo punto. Si farà tesoro dei risultati metodologici e teorici

ottenuti recuperando il progresso nel campo cinematografico per interrogare

più tardi, forti di questo aggiornamento, forme di autorialità videoludica che

si manifestano con solo al livello enunciativo, ma anche in una “idea”

autoriale che va a farsi apparato paratestuale ed epitestuale.

Nel corso del quinto capitolo presenteremo degli “autori videoludici”

ripercorrendone le carriere, analizzando testi significativi e gettando luce

sulla loro considerazione pubblica e critica. Parlando del ‘Bedroom Coder’

Jeff Minter, del ‘Game Designer, Creative e Producer’ Shigeru Miyamoto e

dello ‘Scienziato del Codice’ John Carmack non terremo conto solo dei testi

e condizioni enunciative, ma anche del relativo epitesto critico, biografico e

commerciale e gli eventuali metatesti teorici. L’autorialità si estrinseca

infatti come processo, testo, nozione e finanche etichetta: consapevoli

dell’ampiezza del problema, rinunceremo in partenza a un obiettivo di

completezza, limitandoci a fornire dei casi significativi e indicare delle

direzioni fondamentali.

Nel sesto capitolo delineeremo brevemente le “vie di fuga”

dell’autorialità videoludica contemporanea, casi in cui si riscontrano

l’aspetto meta-autoriale e citazionistico del game designer, il transito

dall’autore da soggetto a etichetta, le strategie mitopoietiche dell’autore

14

dell’industria, l’orizzonte intermediale tra cinema e gioco, la con-fusione tra

produttore e consumatore nella figura del prosumer. Citeremo a tale

proposito il progetto Second Life della Linden Lab, il lavoro di Hideo

Kojima, Tetsuya Mizuguchi e Shinji Mikami, il testo

videoludico/cinematografico Peter Jackson’s King Kong, l’interesse di

registi come Lynch e Cronenberg per la rappresentazione videoludica.

A essere considerate saranno in particolare la dimensione corale

della tecnica, quella intertestuale e intermediale dei testi, quella

comunicativa e mitopoietica dell’enunciazione industriale, quella

metatestuale della critica e della teoria videoludica, nonché il problema

delle specificità, delle diversità come pure dei tratti comuni tra il

videogioco, il cinema e le altre arti, sullo sfondo della evidente

radicalizzazione dell’intermedialità e intertestualità contemporanea. Sarà

questa anche l’occasione per criticare certi approcci dalla nascita recente,

che vorrebbero la creazione di discipline ad hoc per il gioco elettronico

erigendo barriere mediali gratuite sulla scorta di definizioni inadeguate.

Nel capitolo conclusivo si tenterà infine di offrire un breve

contributo all’interrogativo sull’artisticità del gioco elettronico, che è

presupposto dalle nostre considerazioni sull’autore videoludico,

inquadrando la questione in un panorama filosofico leggermente più ampio.

Sarà questa l’occasione per evidenziare la necessità, per la teoria

videoludica, di aggiornarsi ai progressi ottenuti nella più ampia ricerca

accademica, evitando un gap teorico che la condanna a una precoce,

genetica obsolescenza. È nostra convinzione che il videogioco, lungamente

e con notevole miopia considerato come una forma espressiva marginale

nel campo del digitale, o semplicemente misconosciuto da molta,

importante teoria semiotica e non solo, sia invece il terreno principale su cui

si gioca la posta in gioco dei fenomeni di ri-mediazione e intermedialità

contemporanei, e che questi e la ricerca non possano più procedere su binari

separati.

15

CAPITOLO 1

STATO DELL’ARTE

1.1 – Il gioco digitale tra pratiche e teoria

Abbiamo sostenuto l’evidenza della diffusione capillare, della

stratificazione e del carattere intermediale delle pratiche ludiche digitali nel

panorama contemporaneo. Non possiamo, però, sottrarci del tutto a una

rassegna sull’industria e della pratica videoludica che metta in luce i temi

oggetto di questo lavoro.

Non siamo alla ricerca di un affresco onnicomprensivo del videogioco

contemporaneo, né affronteremo una compilazione completa e organica

sulla ricerca teorica. Il fine di questo lavoro non è quello di pervenire a una

Grande Teoria Unificata del VideoGioco, ma quello di comprendere i testi

nel loro vissuto semiotico, in quanto macchine di significato

tecnologicamente fondato, condiviso, previsto, negoziato (ed eventualmente

frainteso), che trova luogo in numerose e diverse pratiche mediali,

espressive, ludiche.

Una definizione operativa del videogioco da una prospettiva

semiotica, quella che intendiamo adottare, si rivela necessaria. Partiremo

quindi da una definizione non-normativa, elastica, dal carattere ipotetico,

finalizzata alla nozione autoriale in questo dominio espressivo.

Contestualmente, ci limiteremo a offrire degli scorci che ci consentano di

chiarire l’idea di videogioco alla base della nostra ricerca sull’autore.

1.2 – State of the game

Il videogioco è al suo quarto decennio di vita come forma testuale e

prodotto commerciale. Il suo consumo è in una fase nuova, caratterizzata da

una maggiore diffusione e diversificazione. La tecnica e tecnologia

16

produttiva, l’industria ed economia del gioco elettronico, il suo

posizionamento commerciale e i modi di consumo del videogioco

presentano un quadro dalle dimensioni più ampie del passato, e con aspetti

nuovi.

La diversificazione del consumo appare uno dei tratti in parte inediti.

In realtà sulla popolarità del videogioco come pratica non vi sono mai stati

dubbi: una storia socioeconomica ben conosciuta e dettagliata attesta come,

ben prima che fosse scoperto dalla teoria, il videogioco fosse già business

miliardario, industria, campo di sperimentazione ed espressione e vita

quotidiana, pubblica e professionale, per molte persone, al pari di cinema,

letteratura e musica10.

Pur medium di massa, il videogioco ha mantenuto a lungo in passato

un carattere di consumo legato ai soli appassionati o, al massimo, a un

amorfo pubblico casuale, convinto della sostanziale unità dell’esperienza

videoludica. Quest’ultima, oggi, si presenta con caratteri maggiormente

polimorfi, distribuita su una quantità di supporti senza precedenti storici

(cellulari, console dedicate, personal computer, web, apparecchi portatili), e

non più rivolta a un pubblico indifferenziato ma a un insieme di svariate

tipologie di consumatori. Fino agli anni novanta il videogioco era una

pratica e un mercato rivolto prevalentemente a bambini e adolescenti e

polarizzato tra la sala giochi, il salotto di casa e la console da gioco

portatile11. Oggi, più che mai, si sono venute a creare le premesse per una

stratificazione completa del prodotto e delle opere videoludiche, declinate

secondo una vasta pluralità di tipologie e approcci, dedicate a utenze più o

meno mature e alla ricerca di contenuti adulti, e distribuite su un sistema di

comunicazione mediale caratterizzato dalla crescente integrazione di

cellulare, personal computer, dispositivi di riproduzione portatile e

macchine da gioco. Effetto, questo, del procedere combinato di vari fattori:

10 Casi eclatanti, ben mitologizzati dalla critica videoludica ma effettive prove storiche della popolarità del mezzo, includono una coin shortage su scala nazionale causata in Giappone da Space Invaders e il sorpasso di Mickey Mouse da parte di Super Mario in termini di popolarità negli Stati Uniti. Per questi e altri aneddoti storici Cfr. Kent (2001) 11 Non è un caso che Bittanti, interessato al procedere parallelo delle forme ludiche sui binari della tecnologia da gioco, parta nella sua presentazione della storia “technoludica” proprio da una suddivisione metodologica tra dispositivi da casa, da sala giochi e portatili. Cfr. Bittanti (1999)

17

l’evoluzione e moltiplicazione dell’offerta videoludica in termini di

esperienza per il giocatore; la moltiplicazione dei supporti tecnologici;

l’imporsi di una cultura pop del digitale su scala capillare, avvenuta a

partire dalla fine degli anni novanta; la conquista da parte dei videogiochi di

ogni spazio tecnologico e ricreativo, inclusi i telefonini e la loro immensa

base installata. Il videogioco assume molte forme e temi, abita ogni

supporto e intrattiene ogni tipo di utente: dal PC custom del tech geek al

codice in Flash clicca-e-spegni del surfista occasionale; dagli armadi pieni

di vecchio hardware dei collezionisti fino ai cellulari dello svogliato

pubblico di massa; dalle mani dei bambini alla ricerca dei giochi più “cool”

a quella degli adulti prima totalmente a digiuno di videogiochi, incuriositi

per la prima volta da approcci intuitivi e attraenti come quelli offerti dalle

possibilità di console come Nintendo DS o Wii.

La tendenza a conquistare un vero e proprio mercato di massa è uno

dei tratti su cui si registra un notevole cambio di ampiezza nel ruolo del

gioco elettronico contemporaneo rispetto al passato. La strategia

commerciale di una compagnia come Nintendo, incentrata sulla semplicità

delle interfacce, sulla interattività tattile e sull’appeal di giochi dedicati a

nuove fasce di consumatori non appassionati, illustra pienamente le

scommesse per il futuro di un’industria che investe non soltanto e non certo

sui suoi soli “appassionati”. L’alto tasso di frenesia associata all’interfaccia

do Nintendo Wii, pensata per rendere il controllo del gioco elettronico più

intuitivo e naturale per i consumatori avversi agli usuali controller e nel

contempo ripensare l’interfaccia nel videogioco, conferma il carattere di

massa del videogioco12.

12 Il touch-screen di Nintendo DS e il Nintendo Wii, console la cui interfaccia crea un ponte immediato e intuitivo tra i movimenti del controller davanti allo schermo e quelli dell’avatar su schermo, hanno contribuito ad allargare ulteriormente la fascia di utenti videoludici, attirando un mass-market di consumatori prima intimiditi dai videogiochi per appassionati. ). I videogiocatori “di passaggio” si sono mostrati ben più propensi a muovere un personaggio su schermo semplicemente puntando un telecomando con un sensore che trasmette il movimento relativo del braccio al programma, trasferendolo all’interno del gioco e quindi sullo schermo, piuttosto che con un museo con un controller tradizionali. Cfr. http://www.gamasutra.com/php-bin/news_index.php?story=12533 (su Gamasutra: the Art and Science of Making Games).

18

Del resto, il consumo videoludico sul mercato delle console da

salotto, da sempre settore centrale e preponderante dell’industria

videoludica e termometro dello stato della grande industria, si è

diversificato notevolmente, come ben rappresenta la convivenza sul

mercato di almeno tre giganti dell’entertainment: Nintendo, Sony,

Microsoft, ogni compagnia con la sua filosofia commerciale e uno stile di

produzione di giochi ben riconoscibili13. Nintendo punta all’innovazione

tecnologica e alla qualità dell’esperienza di gioco e divertimento, offrendo

giochi che possano coinvolgere ogni tipo di consumatore. Sony, reduce da

quasi un decennio di leadership commerciale grazie alla sua politica

tecnologica, distributiva e pubblicitaria, punta con PlayStation3 sullo stato

dell’arte della tecnica estetica e riproduttiva dei mondi virtuali di gioco e su

un marketing la cui retorica raggiunge il massimo nel Playstation Dome, al

contempo blog prezzolato e casa d’intenditore d’arte con alloggio a

sorteggio in cui giocare con la console in un contesto museale, con quadri e

opere d’arte14 [immagini 29-30]. L’avanzamento dello stato dell’arte

figurativa e dello stile cinematografico nel gioco è prioritario nelle

intenzioni commerciali e tecniche di, che favorisce l’evoluzione di tecniche

estetiche e figurative ormai capaci di una complessità nella

rappresentazione interattiva in tempo reale a volte paragonabile

all’animazione digitale pre-calcolata. Il mezzo videoludico è quindi mai

come prima al crocevia estetico di tutte le forme espressive passate e future

e ha parentele sempre più profonde con il cinema: le ibridazioni e i prestiti

hanno raggiunto un grado di complessità testuale tale da rendere

imperdonabile un approccio miope rispetto alla fluidità delle forme testuali,

o deterministicamente ricalcato sul mezzo. Il futuro delle sorti del gioco

elettronico come macchina espressiva, a ben vedere, dipenderà proprio dal

combinato di questi due fattori, al momento appannaggio di Nintendo e di

Sony: da un lato, interfaccia immersiva, trasparente, dall’altro la

13 I produttori di software, data la natura intimamente fondata sulla tecnologia del gioco elettronico e delle interfacce, producono i programmi pensandolo per sistemi hardware di proprietà di grossi produttori come Nintendo, Sega, Sony. 14 Confronta le conclusioni di questo lavoro.

19

descrizione verosimile e complessa dei mondi possibili di cui varcare le

soglie15.

Il videogioco è però anche componente integrata del sistema mediale

e comunicativo: qui alla logica della trasparenza immersiva16 si sostituisce

quella della visibilità e della comunicazione legate alla socializzazione

online. Microsoft si concentra sull’integrazione tra mercato della propria

console X360, sistemi di comunicazione messenger, gioco online e mercato

dei personal computer. Le politiche di produzione dei giochi e i servizi

online offerti da console come Wii e XBox 360 dimostrano come,

nonostante la specificità delle politiche delle compagnie, il videogioco sia

una componente centrale, insieme al consumo di cinema, musica e alla

socializzazione a mezzo chat, instant messaging programs e spazi personali

sul web, di quelli che i responsabili di marketing chiamano lifestyles.

L’integrazione orizzontale tra consumo mediale in senso lato, scelte di vita

e di consumo e socializzazione tecnologicamente mediata confluiscono

nella politica commerciale di Microsoft, che segue la pista del lavoro su

pratiche semiotiche già condivise a livello popolare, partendo nel settore in

pole position complice la diffusione ormai pienamente di massa dei pc17.

Fenomeni di natura sociale e comunicativa in parte nuovi, come il successo

imponente dei giochi multiplayer online di massa come World of Warcraft,

che riunisce milioni di giocatori in comunità e gilde online, sono solo

l’ultima faccia di una cultura del gioco in rete ormai antica, imparentata per

linea direttissima con le pratiche di role play ma mai popolare e capillare

come oggi.

Anche il settore del gioco portatile ha conosciuto una notevole

espansione, con la discesa in campo di Sony e del suo brand Playstation in

versione portatile, per la diffusione sui telefoni cellulari e, soprattutto, per

15 Cfr. “Mimesi Digitali”, in E/C, Rivista dell’Associazione Semiotica Italiana, all’URL http://www.associazionesemiotica.it/ec/contributi/carbone_21_03_05.html 16 Cfr. 6.7. 17 Microsoft ha saputo bene osservare l’evoluzione dei programmi di messaggistica: oggi, il messenger della compagnia detiene un vero e proprio monopolio rispetto alle altre applicazioni. Tra videogiochi e messaggistica lo scambio appare come un feedback reciproco: i programmi di messaggistica offrono giochi peer to peer, mentre i giochi online multiplayer si presentano con caratteristiche di comunicazione tra utenti incorporate.

20

l’enorme successo di Nintendo DS. Questo e la diffusione del gioco sui

telefonini sono segnale di conferma di un consumo che cresce non solo per

numeri, ma per composizione sociale, che rappresenta per molti investitori

la più grande fetta dell’entertainment interattivo del prossimo futuro.

Nel complesso, appaiono chiari il carattere di massa e la

compenetrazione, convergenza, moltiplicazione e sovrapposizione dei

supporti mediali, come il fatto che la varietà di pratiche condivise del gioco

digitale è in parte inedita, almeno in termini di pervasività e capillarità della

sua diffusione e della sua vita economica, sociale e semiotica.

Questa ipermigrazione, stratificazione e diversificazione del testo

videoludico, liquido e cangiante, si accompagna poi a un momento meta-

ludico e postmoderno del gioco (evidente nelle compilation, negli archivi di

classici, nei testi citazionisti). Una fase, per così dire, postmoderna del

videogioco, storicamente, criticamente e teoricamente cruciale per la

definizione, la circoscrizione, lo studio del fenomeno da parte dei suoi

osservatori. Si assiste al procedere parallelo di una cultura del videogioco

“forte”, dedicata e a volte storicamente consapevole - quella degli

appassionati e che comprende anche i cosiddetti hardcore gamer e gli

addetti ai lavori – e di un consumo videoludico casuale, leggero, distratto,

da parte di un pubblico a tutti gli effetti di massa.

Dapprima esplosa sui personal computer, la pratica del cosiddetto

retrogaming, che si sostanzia nell’emulazione fedele dei supporti e dei

giochi del passato sui più potenti computer contemporanei, ha raggiunto lo

status di culto popolare. Consacrata nel gusto figurativo e incorporata nella

narrativa d’animazione, nello spettacolo contemporaneo e nei linguaggi

pubblicitari, la pratica del gioco retrò, sottratto alla sindrome di Blade

Runner dai pochi critici non esclusivamente interessati allo stato dell’arte

riproduttiva, si è re-innestata a tutti gli effetti nelle politiche commerciali

dei detentori dei copyright dei più apprezzati classici del gioco. I giochi

classici, sottratti all’oblio commerciale, rivivono sotto forma di digital

21

distribution sulle console di nuova generazione18. Sia Nintendo che

Microsoft si sono dotate, recuperando repertorio proprio nel primo caso e

comprandolo nel secondo, di un sistema di digital distribution per le proprie

console che mette a disposizione i classici del passato a fianco dei nuovi

titoli: cosa che, per la prima volta nella storia del mezzo, pone le premesse

per un superamento del paradigma critico ricalcato deterministicamente

sulla performance tecnologica dell’hardware. Una storia e una critica

videoludica capaci di osservare il testo videoludico in una prospettiva non

solo nostalgica ma anche storiografica, slegata dalla performance tecnica e

dello showcase tecnologico e di novità, sono ora possibili, nello stesso

momento in cui la ricerca teorica reagisce a questa una forma di

intrattenimento ed espressione con l’ossessivo interesse di chi l’ha troppo a

lungo e suo malgrado ignorata.

1.3 - State of the theory

L’altra novità di questa fase di vita del gioco digitale è il fatto che

esso abbia raggiunto e conquistato rilevanza in sede accademica, generando

una prima fase, effervescente e per certi versi caotica, di studi teorici. La

teoria contemporanea ha la tendenza e predilezione per i testi ludici digitali

al suo sguardo concettualmente significativi, che tenterebbero di evadere

dal novero dell’intrattenimento ideologicamente e culturalmente neutro o

puramente evasivo per farsi veicolo, commercialmente marginale come di

grande successo, di contenuto culturale, polemico, creativo, o persino

ideologico. Così, è fenomeno degli ultimi anni parlare di un Wright

demiurgo di visioni del mondo19, di un Miyamoto portatore di

un’inesprimibile poetica personale, di un Kojima-auteur che continua a

riprovare lo stesso genere20, dell’artisticità di Ico, o ancora additare

18 Ci voleva forse la voce potente del distributore, del produttore, e non certo quella del marginalizzato critico non disposto a cedere alla grottesca esaltazione del videogioco solo nel momento in cui esso è ancora prodigio tecnologico, per convincere il recensore videoludico medio della validità di un gioco anche oltre il suo periodo di freschezza tecnologica. 19 Cfr. Bittanti (2004) 20 Cfr. Fraschini (2003)

22

l’evidente e arrogante propaganda militaristica di America’s Army21 e

interessarsi a progetti di edutainment / critica sociale come quello dei

cosiddetti “games with an agenda”22.

La questione del “contenuto” del videogioco oltre il suo essere un

puro mezzo di evasione è cruciale. Tuttavia, proprio in virtù di questa

particolare attenzione del momento, va scansata sin da ora un’ideale

identificazione storica tra l’emergere del videogioco “serio”, portatore di

messaggi e di un livello meta, esteticamente ambizioso o politicamente e

ideologicamente schierato, e quello della sua critica, vale a dire l’odierna

schiera di difensori delle possibilità del videogioco di farsi mezzo di

comunicazione ed espressione a tutti gli effetti. Mentre l’attenzione

accademica nei confronti del gioco elettronico appare come un fenomeno

nuovo, il fatto che i testi videoludici siano stati veicolo di estetiche,

assiologie, ideologie e autoriflessione linguistica non è affatto una novità. È

la contemporanea diversificazione del videogioco, con il moltiplicarsi delle

sue occorrenze testuali e del pubblico, uniti alla sperimentazione continua, a

contribuire all’equivoco per cui il videogioco starebbe solo iniziando a

“maturare”, mentre è proprio il sorgere stesso di una critica attenta a questi

aspetti che finisce per ampliare eccessivamente, fino a distorcere, il giudizio

di novità di cui sopra.

In realtà, nel corso della sua lunga e ancora largamente

misconosciuta storia il gioco digitale ha conosciuto occorrenze di

sperimentazione estetica, autoriflessione teorica e linguistica, estremismo

ideologico, strumentalizzazione commerciale, edutainment, polemiche sulla

visibilità. Accanto alla letteratura videoludica d’evasione, di puro svago, o

disinteressata ai ragionamenti sul mezzo o a finalità estetiche, comunicative

e ideologiche (come se queste non si realizzassero comunque in qualche

misura, nonostante l’assenza di un carattere di riflessione del testo su se

stesso) si è prodotta una marginale ma pur sempre presente schiera di titoli

che hanno intrapreso questa strada. Per non parlare dei videogiochi – e sono

21 Cfr. http://www.videoludica.com/news.php?news=221 22 Cfr. il progetto Water-Cooler Games su http://www.watercoolergames.org/

23

molti di più questi ultimi - che hanno coniugato con successo una ricerca

dei tipi esposti sopra con le necessità commerciali, economiche e del puro

svago che il gioco digitale ha da offrire al suo giocatore in termini di mezzo

di intrattenimento.

Così, la storia videoludica è fatta di pure evasioni come Pacman ma

anche di elaborate ricostruzioni storiche giocabili strategicamente come

quelle della serie di Age of Empires23. Di videogiochi come puro “sport

cognitivo” come Space Invaders, e di rip-off di pubblicità comparativa

come Pepsi Invaders. Di riproposte di concept di gioco originali con

universi estetici differenti, come nel rapporto che intercorre tra Robotron e

Smash TV, oppure di veri e propri cloni a livello strutturale e esteticamente

depauperati, come è Balloon Fight rispetto a Joust. Di momenti di

edutainment, come Mario is Missing, e altri di razzismo, sessismo e

ideologia, come nel singolare Custer’s Revenge, o ancora di violenza che

spinge il limite del rappresentabile nel mezzo, come quella di Death Race,

Mortal Kombat o Carmageddon24. Di eroine alla Ripley come Samus e di

stereotipi iperdotati come Lara Croft. Di produzione indipendente di

videogiochi anti-governativi di satira politica in flash games su internet da

un lato e, dall’altro, di loghi “winners don’t use drugs” a gettone inserito, in

videogiochi da sala di ultraviolenza repubblicana e manichea dove gli

spacciatori sono malvagi e saltano a pezzi in aria. Giochi come N.A.R.C.,

per esempio, si dimostrano capaci di aderire sottilmente alla peggiore

polarizzazione assiologia della retorica della tolleranza zero e, al contempo,

inserire nel testo momenti di satirico distacco e cinismo degni del miglior

Verhoeven.

L’elenco potrebbe continuare all’infinito, dimostrando come il gioco

elettronico abbia intrapreso le innumerevoli strade creative – individuali e

corali - che fanno della tecnica un mezzo di intrattenimento, espressivo,

estetico, ideologico, assiologico ben prima che la retorica progressista della

23 cfr. Molina (2003) 24 Cfr. “Death Race, a Clockwork Arcade” su http://www.associazionesemiotica.it/ec/contributi/benoit_25_10_06.html

24

sua ricerca “di avanguardia” pretendesse di metterla sotto la luce dei

riflettori o sventolasse la bandiera dell’autore videoludico.

L’autore videoludico marcia parallelamente a una critica il cui fine è

quello di imporre una rispettabilita’ espressiva al videogioco, come una

delle strade attraverso cui il videogioco e la sua critica tentano di attuare la

scalata verso l’Empireo delle Arti. Ma è parimenti evidente come la

questione autoriale sia il terreno su cui considerare la questione

comunicativa ed estetica del videogioco: una questione che questo lavoro

vuole posticipare rispetto all’analisi dei testi dal punto di vista della loro

enunciazione.

1.4 – Un approccio semiotico al gioco digitale

Gettare luce sull’autore in rapporto alla testualità videoludica non

può avvenire senza una definizione preliminare del gioco digitale. Ma per

rendere conto del gioco digitale, non sarà una cattiva idea fornire una specie

di “premessa alla premessa”, che recita: una definizione o una teoria del

videogioco non sono rintracciabili in senso assoluto o normativo, e non

potranno emergere che sotto forma di un set flessibile di strumenti.

A una definizione univoca del gioco digitale è necessario sostituire la

considerazione di una complessa famiglia di forme e pratiche ludiche. Tale

è la varietà di queste che ogni definizione di un testo ludico-elettronico

rischia di apparire inadatta agli obiettivi dell’analisi, non applicabile a testi

diversi e difficilmente generalizzabile. La ragione non va vista nella

mancanza di validità degli strumenti teorici e metodologici, ma nel rischio

di insensatezza delle domande poste da questi strumenti ai singoli testi e

alle loro precise istanze: definire l’esemplare per la famiglia

corrisponderebbe al tentativo, fallito in partenza, di rapportarsi con alla

totalità dei fenomeni semiotici che si possono far confluire sotto l’ombrello

25

del termine “videogioco” come se questa fosse schematizzabile in un solo

tipo di testo25.

Il gioco digitale rappresenta nulla di meno che la macro istanza del

gioco all’interno delle possibilità offerte dal campo digitale. Queste

appaiono così vaste da istigare quasi a estendere questo modo di ragionare

allo stesso termine “videogioco”, il quale si rivelerebbe limitato per

spiegare molte delle forme assunte dal gioco elettronico e delle sue

parentele testuali. Si sarebbe tentati di sostenere che non esiste un testo

videoludico tipico, e che esistono tipi disparati di video-giochi, e riflettere

su termini diversi come “gioco digitale”, “gioco elettronico”, “videogioco”

potrebbe far focalizzare caratteristiche per certi versi non omogenee di

questi testi.

La questione va quindi ben inquadrata. All’estremo applicativo,

creare un sistema per ogni singola istanza testuale svuoterebbe la teoria

della propria eleganza e del proprio potere esplicativo. Ma anche nella

direzione opposta è evidente che, allargata e interpretata in maniera

assoluta, la nozione di gioco sarebbe puramente teorica, eccederebbe in

generalità e si offrirebbe come un primitivo teorico, risultando inservibile

sul piano dell’analisi delle diverse istanze testuali e sull’aspetto prescrittivo

della disciplina26.

Sarà allora necessario tentare di avvicinarsi al problema della

definizione del videogioco – e di conseguenza dell’autore nel gioco digitale

- tenendo conto di due diverse focalizzazioni dello sguardo: quella che evita

la generalizzazione eccessiva, ma anche quella che porterebbe a un

approccio eccessivamente microteorico, incline alla specializzazione sul

singolo testo. Le proposte teoriche sulla definizione del videogioco

andrebbero considerate tenendo conto di questa ambivalenza semiotica, o

25 In accordo a una concezione preliminare e allargata di “testo” in senso semiotico, lo intendiamo come qualsiasi oggetto semiotico “potenzialmente interpretabile” o “significativo per qualcuno” (Pozzato, 2001). Nel riferirci al testo come “oggetto testuale” simpatizziamo con Geninasca (1997), nel solco di uno spostamento della semiotica verso l’aspetto dell’enunciazione per cui “la questione del senso o della mancanza di senso non si pone evidentemente allo stesso modo per discorsi di diverso tipo” (ivi). 26 Concentrarsi sulla definizione del “gioco” è un’impresa dalla portata filosofica che eccede di gran lunga gli obiettivi di questo lavoro. Gli abusati Huizinga (1943) e Caillois (1958) costituiscono i testi di partenza classici sul tema.

26

rischiano di rivelarsi non funzionali; mentre quelle relative all’autore

videoludico rischiano di sconfinare sul terreno della pura mitologia.

Non è affatto escluso che la nostra definizione, priva della benché

minima volontà strutturante o di fondazione di massimi sistemi, possa

rivelarsi, al momento delle conclusioni, non più esauriente, o configgente

con i risultati ai quali potrebbero portarci i testi. Ma se la proposta di

considerare sempre provvisoria e limitata ogni definizione operativa del

gioco digitale potrebbe apparire collocata all’esatto opposto di un’esigenza

di pertinentizzazione dell’oggetto di studio, essa è in realtà interamente

funzionale a quest’ultima.

1.5 – Nuovi media e ri-mediazioni

A premessa, quella sull’impossibilità di una definizione unica del

videogioco, segue ulteriore premessa: la varietà delle forme videoludiche

richiede una teoria capace di scansare del tutto la tentazione di considerarle

come manifestazioni di un medium definito, deterministicamente ricalcato

su una tecnologia. I testi giocabili devono essere definiti a seconda dei

contesti e dalle pratiche d’uso concrete, con la presa d’atto che il campo

digitale costituisce un territorio di elaborazione delle informazioni in cui si

innesta il gioco in tutte le sue forme e accezioni: espressive, interattive,

comunicative. La capacità del videogioco di ri-mediare virtualmente ogni

mezzo di comunicazione esistente, tanto al livello di organizzazione logico-

formale che di “presa” sulle sostanze in cui si attualizza (vista, udito, tatto),

è il motivo principale del successo del videogioco nel rielaborare e

cannibalizzare forme di gioco e medium “tradizionali”27. La potenzialità di

rielaborazione delle informazioni e della loro traduzione in stimoli e

tecnologie strumentali al fine immersivo e interattivo è alla base della

capacità di “ponte” del videogioco: le interfacce creano intersezioni più o

meno ideali, complesse o verosimili, tra il piano del reale e quello del

digitale, e operano come ambienti mediati/medianti tra mondo della CPU e 27 Per il concetto di ri-mediazione cfr. Bolter/Grusin (2002)

27

soggetto umano28. In questo senso, oltre che crocevia di rimediazione, il

gioco digitale può trovare forse una sua definizione distintiva di medium

nella potenzialità immersiva in luoghi altri raggiunti a mezzo interfaccia29.

Il novero di possibilità formali e di ri-mediazioni fa quindi rifuggire

la visione vieta ed esclusivista del singolo medium. Ogni istanza ludica è un

“crocevia”, un precipitato di caratteristiche e usi sensoriali e mediali. Il

singolo gioco digitale è un sistema formale che, attraverso un’interfaccia,

dialoga a livello segnico e performativo con il giocatore in maniera multi-

mediale e multi-planare: vale a dire, attraverso interazioni sensoriali,

cognitive e con un rapporto pragmatico che interessano più piani espressivi,

della forma e del contenuto30.

Un approccio semiotico che “smonti” e ricomponga i testi in

elementi più intelligibili e differenziati, andando alla ricerca di

articolazioni, combinatorie e modi di esistenza semiotici, può evitare il

descrittivismo e le correlazioni deterministiche tra piano tecnologico ed

esito semantico. In questo modo, dal testo risulterà osservabile la

negoziazione tra testo e tecnologia, il rapporto tra gioco e giocatore, il

parallelo tra industria del gioco elettronico e cinematografica, o ancora

ripensare la definizione del testo videoludico rispetto alle sue appendici

paratestuali ed epitestuali.

La stessa definizione di “nuovo medium” per il videogioco appare

poi contraddittoria, come conseguenza della sua natura liquida, ed

altrettanto necessario è dimostrarsi immuni alla tentazione di iscriverlo in

tale nozione. L’affermazione potrebbe apparire paradossale e

contraddittoria rispetto ai fini dell’analisi, ma si rivela importante per

28 La nuova console Nintendo Wii costituisce oggi il passo decisivo verso lo sfumare tra realtà e oltre-schermo grazie a un controller che abbatte l’opacità tra interfaccia e giocatore [immagine 1]. Singstar è un gioco che sfrutta la periferica EyeToy, grazie alla quale il giocatore viene ripreso da una telecamera, elaborato dalla console e riportato sullo schermo come protagonista, e la integra con il karaoke per fare cantare e vedere sullo schermo i giocatori. 29 Un’analisi delle interfacce nel campo videoludico è operata in Diamanti, “L’interfaccia come ambiente”, in Versus – Quaderni di Studi semiotici, n. 94-95-96, Semiotica dei Nuovi Media (a cura di Cosenza, G.), Bompiani, Milano-Bologna. 30 Per l’approfondimento sui concetti di forma e sostanza dell’espressione in semiotica si rimanda a Hjemslev (1987). Una presentazione del pensiero di Hjelmslev è presente in Fabbri/Marrone (1999), pagg. 68 e ss. Si rimanda inoltre a Versus – Quaderni di studi semiotici, n. 43, Linguistica Strutturale e semiotica (a cura di Zinna, A.), Bompiani, Milano-Bologna.

28

ribadire la capacità dei testi videoludici di dimostrarsi in continuità con

forme testuali “vecchie”. La semiotica è già provvista di anticorpi in tal

senso: una lettura dei “nuovi” media poco sensibile alla mitologia della

novità consente di illuminare da un lato la capacità del videogioco di offrire

testualità inedite e, dall’altro, quella di incorporare, emulare, rinnovare

tipologie testuali afferenti a domini come quello dell’animazione, del gioco

di ruolo, del cinema, delle arti visive, della musica.

La definizione del campo dei “nuovi media” è precisata da

Cosenza31, che mette in guardia rispetto alle definizioni frettolose o

modaiole: il “nuovo” va ritenuto tale sulla scorta delle pratiche semiotiche

reali in cui esso trova manifestazione effettiva. È nell’uso delle tecnologie,

e non nelle tecnologie stesse, che si trovano le pratiche, il consumo dei testi

e del loro significato. Si capisce allora come riferirsi continuamente al

videogioco come un “nuovo medium” sia davvero arduo. In primo luogo, al

livello testuale, si aderisce a una visione del mezzo che trascura la

complessità delle sue forme e la varietà delle sue continuità mediali. In

secondo luogo, al livello puramente storiografico, si accetta di trascurare

una storia del mezzo che è in realtà già molto lunga, accogliendone una

definizione che si rivela pratica sul piano comunicativo e trova riscontro

nell’attuale interesse intorno a questi testi, ma che è in definitiva fuorviante.

È invece proprio dalla considerazione del variegato campo di ri-

mediazioni e ibridazioni che il videogioco ha effettuato e effettua

costantemente nei confronti di media meno “nuovi”, dalle caratteristiche

più compiutamente esaminate o che hanno già guadagnato una percezione

socio-semiotica relativamente coerente ed omogenea, che è possibile

ricavare il maggior numero di indizi sulla testualità videoludica, e che ci si

vede costretti a interrogarsi sulla capacità del gioco digitale di offrirsi come

una camera di ri-mediazione centrale. Il videogioco emula il gioco da

tavolo, oppure diventa il territorio su cui la cultura del gioco da tavolo si

impianta in maniera stabile, come nel caso dei giochi strategici di guerra o

di ricostruzione storica. Incorpora la narrazione ed emula il linguaggio 31 cfr. Cosenza (2004)

29

cinematografico, ma al contempo ispira il cinema che riscontra, ora nella

sua cifra stilistica “tematizzata”, ora nel suo linguaggio, ora nella sua

filosofia, elementi per riflettere su se stesso32. Dona interattività co-

discorsiva al fumetto e al suo giocatore, operando come un ponte tra

l’universo estetico e narrativo e l’identificazione con la storia e i

personaggi. Integrando la musica, o proponendosi come un mezzo per fare

musica a vari livelli e con varie finalità, il videogioco si offre come un

approccio ludico alla musica anche per i non musicisti: ne offre una facile

emulazione. Il videogioco si offre allora allo sguardo del teorico come un

enorme monstrum testuale a mille teste, che non può essere inquadrato in

singole definizioni o liquidato sulla scorta della tecnologia o degli schermi

su cui trova supporto33.

Resta pur sempre il fatto, allora, che il videogioco, stando a quanto

detto, potrebbe anche essere considerato a tutti gli effetti come un medium

“perennemente nuovo” nei suoi esiti specifici, quasi per vocazione genetica.

Il discorso sul mezzo e sulla sua perenne “novità” spiegherebbe bene il suo

rimanere imbrigliato in un crocevia interdisciplinare caotico, che ne

impedisce un’inquadratura teorica univoca. Negli anni, il videogioco ha

continuato a prosperare in maniera esponenziale nello spazio di

molteplicità, convergenza e sovrapposizione mediale consentito

dall’informazione digitale. Ma pensare che esso abbia solo assorbito dagli

altri media, senza che questi ne risultassero cambiati, equivarrebbe a

sottovalutare la tendenza contemporanea alla compenetrazione di mezzi

diversi nel sistema dell’intrattenimento.

Come il Web è stato definito un campo di applicazioni disparate più

che un vero e proprio medium, anche il videogioco non ha caratteristiche

d’uso definite e univoche ma è piuttosto uno sfuggevole crocevia di

rielaborazione mediale, diventato un tassello-jolly nell’enunciazione

verticale e orizzontale dei sistemi di produzione. Il gioco digitale è un testo

semiotico liquido, per il quale appaiono particolarmente importanti la 32 cfr. http://www.videoludica.com/news.php?news=289 33 Bolter e Grusin (2002), del resto, parlano di ri-mediazione non esclusivamente in merito al campo del digitale, ma come se questa fosse una caratteristica endemica alla testualità e alle forme in cui essa si sostanzia.

30

configurazione testuale e paratestuale, il ruolo dell’interfaccia,

l’articolazione segnica e i programmi di uso e narrativi che il testo istituisce

debrayando ed embrayando il giocatore, la natura di ipertesti densi e di

mondi possibili di molti di questi testi.

1.6 Una definizione strumentale all’autore

Dopo una lunga serie di premesse, possiamo presentare la nostra

definizione per il videogioco. Ci troviamo di fronte a una famiglia variegata

di forme testuali, caratterizzate da un progetto espressivo e comunicativo

fortemente interattivo non solo sul piano semantico-segnico ma anche su

quello delle interfacce: queste costituiscono il tramite tra il giocatore e il

mondo possibile, con una forte tendenza alla rimediazione che deriva

direttamente dalle possibilità e dalla natura del campo digitale il quale, del

videogioco, costituisce la base logico-formale prima ancora che

tecnologica.

Senza pensare di prendere in carico l’intera questione dello sviluppo

e della diversificazione delle teorie videoludiche, una prospettiva semiotica

come quella appena esposta costituisce un terreno su cui mettere i piedi in

saldo senza precludersi di utilizzare strumenti teorici e metodologici diversi

e adatti ai singoli testi in esame. La semiotica è dotata di strumenti che

opportunamente “tarati” su un contesto diverso - e utilizzati con il dovuto

senno - sono in grado di spiegare la semiosi videoludica, la complessità

delle configurazioni testuali, il rapporto tra interfaccia, ambiente di gioco e

giocatore, il modo in cui il testo significa, comunica e si matrice dotata di

aspetti enunciativi e co-enunciativi34.

I territori ancora inesplorati delle pratiche semiotiche “nuove” sono

quasi sempre il pretesto per “tirare” le teorie esistenti fino al punto di un

eventuale strappo, costituendo le zone epistemologicamente a rischio per il

valore euristico di ogni modello teorico. Questo strappo, in realtà, nel caso

del videogioco, può avvenire solo nel caso in cui degli strumenti si faccia

31

un uso normativo, scambiandoli per principi. Moltissimi strumenti semiotici

esistenti spiegano a fondo il gioco digitale come le sue parentele con altri

oggetti testuali su cui altri strumenti erano stati creati. È quindi non

necessario affrettarsi esageratamente per costruirne di nuovi, a meno che

non si voglia sostituire la vecchia e solida cassetta degli attrezzi e fare della

semiotica un unico, mostruoso, ingombrante coltellino multiuso. La

contrapposizione tra metodi e approcci diversi si rivela evitabile: appare

evidente come ciascuno tra questi risponda a diversi aspetti dell’oggetto di

analisi e come il loro uso in parallelo si riveli utile per illuminare aspetti

diversi e persino contrastanti della testualità.

In questa sede ci prefiggiamo la riflessione sul rapporto tra testo e

autore: è quindi importante adottare una forte considerazione riguardo a due

aspetti complementari della testualità. Il primo è il rapporto tra testo e

paratesto, il secondo è una nozione enunciativa aggiornata a un assunto di

non totale impersonalità. Se la prima prospettiva si mostra necessaria per la

questione della definizione della commutazione tra l’aspetto conclusivo del

testo e la sua apertura sociosemiotica, nonché per la sfuggevolezza del testo

videoludico in un continuum espressivo ampio, la seconda definizione del

registro enunciativo del gioco digitale è interamente funzionale al problema

di individuare, o eventualmente negare, la possibilità di relare l’autore in

carne ed ossa alla istanza enunciativa del testo.

1.7 Testo, paratesto, enunciazione

Avendo chiarito il nostro atteggiamento teorico e metodologico, non

ci rimane che precisare i due aspetti della testualità che abbiamo ritenuto

decisivi. Partiamo dunque dal rapporto tra testo e paratesto, mentre la

questione enunciativa troverà piena formulazione nel corso di un capitolo

successivo.

Se il testo si definisce come tale in base alla all’unità, alla coerenza e

alla discretezza del suo progetto semiotico, una prospettiva sociosemiotica

riconosce in esso anche una porzione ben definita della fitta e più ampia

32

trama intertestuale dell’universo semantico che non solo lo circonda, ma in

alcuni casi lo pervade e connota35. In questo lavoro accoglieremo questa

sfida, e tenteremo di lavorare all’interno della testualità per poi mettere alla

prova la sua relazione con i dati relativi ai soggetti che fanno i giochi.

Questi ultimi non possono essere considerati una fuoriuscita disciplinare dal

campo del testo a meno che non si abusi dell’atteggiamento storico: il testo

è infatti dotato di confini sfumati con la sfera intertestuale che lo circonda e

di cui fa parte, e si presenta come una ribalta testuale di un retroscena

enunciativo complesso, caratterizzato da una pluralità di attori. Non si

intende negare l’utilità di un approccio testualista, che ravvisi la salvezza

teorica nella chiusura del testo, ma sostenere la necessità di alternare una

focalizzazione sul testo a una sui presupposti co-testuali, sul continuum a

cui appartiene. La nostra considerazione del testo sarà allora accompagnata

proprio dalla consapevolezza che è la focalizzazione sul testo a definirlo

tale rispetto alla sua area limitrofa: il testo, insomma, è al centro, ma non si

da in natura perché esso, come il suo paratesto ed epitesto “in periferia”,

derivano dal nostro “ritaglio”.

Gerard Genette parla della cosiddetta transtestualità, o trascendenza

testuale del testo, come di “tutto ciò che lo mette in relazione, segreta o

manifesta, con altri testi”. Secondo Genette la transtestualità è una

precondizione del testo, e include anche l’architestualità, vale a dire

l’insieme delle categorie generali o trascendenti – tipi di discorso, modi

d’enunciazione, generi letterari, ecc. – cui appartiene ogni testo. La

transtestualità include anche altre declinazioni della testualità:

l’intertestualità, la paratestualità, la metatestualità, l’ipertestualità. La

prima, introdotta dalla semiologa Julia Kristeva36, viene presentata da

Genette, “nella sua forma più esplicita e letterale”, come enunciato “la cui

piena intelligenza presuppone la percezione di un rapporto con un altro

enunciato”37. La paratestualità è invece costituita dalla relazione che il

testo nel suo insieme mantiene con elementi, come, nel caso del libro, 35 Cfr. Pozzato (2002: capp. 18-19) 36 Cfr. Kristeva (1978) 37 cfr. Genette (1982)

33

“titolo, sottotitolo, intertitoli, prefazioni, postfazioni, avvertenze, premesse

[…] e molti altri tipi di segnali accessori, autografi o allografi, che

procurano al testo una cornice (variabile) e talvolta un commento, ufficiale

o ufficioso”. La metatestualità sarebbe invece una relazione di commento

che unisce un testo ad un altro testo ed è, “per eccellenza, la relazione

critica”, mentre l’ipertestualità indicherebbe “ogni relazione che unisca un

testo B (che chiamerò ipertesto) a un testo anteriore A (che chiamerò,

naturalmente, ipotesto), sul quale esso si innesta in una maniera che è

diversa da quella del commento”38.

Genette presenta questo apparato teorico per il testo letterario, ma non

esclude l’utilizzo di queste categorie per altre forme di testualità. A

rivelarsi particolarmente utile non è infatti il riferimento pedissequo

all’applicazione dell’apparato teorico di Genette sul libro, ma la

comprensione della nozione di testo che esso comporta: il suo uso ci

consente di non dovere varare nuovi strumenti per un “nuovo medium”, ma

di applicare quelli esistenti a nuove testualità39. Il paratesto è infatti così un

territorio indeciso che costituisce

“tra il testo e ciò che ne è al di fuori, una zona non solo di

transizione, ma anche di transazione: luogo privilegiato di una pragmatica e

di una strategia, di un’azione sul pubblico, con il compito, più o meno ben

compreso o realizzato di far meglio accogliere il testo e di sviluppare una

lettura più pertinente, agli occhi, si intende, dell’autore e dei suoi alleati”.

Definire un elemento del paratesto consiste nel determinare la sua

ubicazione, la data della sua apparizione o scomparsa, la sua modalità di

esistenza, le caratteristiche della sua istanza di comunicazione - del suo

destinatore e del suo destinatario - e lo scopo che anima il suo messaggio.

Gli aspetti spaziali, temporali, sostanziali, pragmatici e funzionali

concorrono così alla descrizione esauriente di un elemento ipertestuale nella 38 Cfr. Genette (1982), cit. 39 A mettere particolare in luce l’approccio del semiologo francese sono i testi audiovisivi: Cfr. Stam / Burgoyne / Flitterman-Lewis (1992)

34

considerazione della sua rilevanza ultima, il fatto che “il paratesto, in tutte

le sue forme” è al servizio “di qualcos’altro che costituisce la sua ragion

d’essere, e che è il testo”40.

La scomposizione del testo costituisce un’occasione per ragionare

sui criteri che lo rendono centrale, giustificano la sua “chiusura”, spiegano

la sua dimensione intertestuale, ci orientano nella sua definizione e

delimitazione.

1.8 Alla ricerca del testo videoludico

La nostra premessa è diventata una provvisoria conclusione: non c’è

la possibilità, ma neppure in fondo la necessità teorica, di una definizione

univoca del gioco digitale. La ricerca di una definizione normativa

esporrebbe a una sfida improduttiva in partenza contro una sfuggevole

coppia di macrocategorie: quella logico-formale dell’informazione digitale

e quella filosofica del gioco. Tentare di definire il gioco digitale partendo da

una definizione del gioco rischierebbe di farci dibattere in problemi

filosofici di eccessiva portata, o di utilizzare categorie in maniera poco

fruttuosa, snaturandone gli obiettivi originali.

Decisamente più utile si rivelerà la scelta di partire dai testi alla

ricerca delle loro caratteristiche specifiche. Tuttavia, non analizzeremo

minuziosamente e puntigliosamente i singoli testi da ogni prospettiva

possibile. Piuttosto, li interrogheremo a seconda del nostro stadio sulla

ricerca dell’autore, coerentemente all’intenzione di utilizzare un frame

teorico il più allargato rincorrendo il nostro obiettivo.

A questo proposito una riflessione sullo statuto dell’autore-inventore

del videogioco come quella del prossimo capitolo non è certo poco utile alla

ricerca di una definizione del gioco elettronico che tenga conto non solo

delle ragioni semiotiche ed enunciative, ma anche di quelle storiche e

tecnologiche in cui il mezzo ha assunto la forma con cui pensiamo di

riconoscerlo. In questo modo, si inseguirà la ricerca dell’autore senza 40 Cfr. Genette (1982), cit.

35

perdere completamente di vista i presupposti della definizione del mezzo

qui accennati.

È argomento da discutere se l’Adamo Videoludico, il Videogioco

Primigenio vada considerato esemplare puramente idealistico, o se esso sia

invece rintracciabile storicamente. D’altro canto, determinare quale sia stato

il primo videogioco appare un problema non scontato: è chiaro che, avendo

rifuggito una definizione normativa, per poter definire la prima comparsa di

un esemplare di una nuova “specie” sarà necessario definire le

caratteristiche di questa specie e le sue relazioni con quelle ad essa pre-

esistenti. Esiste allora un problema “tassonomico” del gioco elettronico che,

fuori dalla metafora naturalistica, consiste – come abbiamo messo in

evidenza - nella necessità di pertinentizzazione e delimitazione delle

famiglie testuali alle quali, sotto il termine di “videogioco”, le teorie

semiotiche dovrebbero offrire il proprio contributo analitico e i propri

strumenti. È quanto proveremo a fare concretamente nel prossimo capitolo.

36

CAPITOLO 2

INVENTORI VIDEOLUDICI

2.1 – Dall’Autore all’Inventore

In questo capitolo ci spostiamo volutamente su un terreno

accidentato: il nostro interrogativo sull’autore videoludico diventa quello

sull’inventore del videogioco. Questo espediente metodologico sarà

applicato a dei testi di importanza storica, ma il motivo di interesse

principale non è solo storiografico: la scelta di questi giochi è orientata da

un interrogativo semiotico, poiché essi sono rivelatori dal punto di vista

dell’analisi testuale. Questi “giochi dei primordi” sono infatti i primissimi

casi documentati storicamente nei quali si assista a una testualizzazione

vera e propria del gioco elettronico: testi interattivi che esulano dalla pura

esercitazione o dimostrazione tecnologico-visuale e si distinguono per le

caratteristiche di interattività e interfaccia tipiche della forma espressiva

videoludica.

Non è questo un territorio di analisi vergine: con una storia

videoludica già ampiamente “enciclopedizzata”41, la questione della

“creazione originaria” videoludica ha da sempre suscitato interesse. La

nascita dell’Adamo Videoludico è stata oggetto di dibattito, è stata

diversamente situata storicamente e logicamente, e si è discusso

sull’identità dei candidati al ruolo di “inventore” del mezzo. Con il

procedere della ricostruzione documentale, il momento della creazione del

41 Contrariamente alla ricerca teorica, sorta praticamente da un solo decennio, e alla riflessione critica, mai pervenuta finora a uno stadio di maturità tale da creare un discorso condiviso di livello elevato, la ricerca e la documentazione sul fenomeno videoludico sono ampiamente sviluppate. Pubblicazioni cartacee, volumi storici, database di pubblico dominio e il vasto epitesto videoludico online forniscono al videogioco una storia le cui direttive principali sono ben note, con un sommerso tutto sommato limitato. Un’ottima storia videoludica dei primordi è disponibile online all’URL http://www.emuunlim.com/doteaters/, mentre su cartaceo si rimanda a Kent (2001)

37

primo videogioco è stato costantemente retrodatato e ricondotto, come si

vedrà, a applicazioni di volta in volta precedenti.

Tornare a un interrogativo su questo fondamentale “big bang” nella

storia delle forme tecnologiche e videoludiche può sicuramente fornire

degli indizi al problema dell’autore. Non ci interessa prendere una

posizione nel dibattito sulle origini della specie videoludica. Piuttosto,

speriamo che partire dalle primissime manifestazioni testuali videoludiche e

dalle loro pratiche possa illuminare degli aspetti del rapporto tra tecnica e

soggetto enunciatore che, altrimenti, rientrerebbero nella domanda a

proposito dell’autore già “opacizzati” dalla direzione assunta da una forma

testuale nel frattempo diffusa e pressoché istituzionalizzata, oltre che in

corso di teorizzazione.

Osserveremo la questione del “primo videogioco” sotto una lente

semiotica che tenterà di porsi nel solco storiografico rispondendo in

parallelo a due urgenze. Da un lato, quella di “disincarnare” le istanze di

significazione, il senso complesso e negoziato del testo, dal rischio della

loro antropomorfizzazione frettolosa, della fin troppo facile credenza nel

ruolo di un unico autore, nella biografia, nello psicologismo creativo.

Dall’altro, quella del riconoscimento, compresente rispetto a queste istanze

del testo, dei reali “attori in gioco”, nella convinzione che la natura della

testualizzazione videoludica rimane pur sempre opera, “sotto” a tutte le

griglie interpretative, di persone.

Per condurre una analisi di questo tipo sul rapporto tra soggetto e

istanza del testo, evitando che il soggetto vada negato nell’istanza e che la

seconda venga semplificata dalla credenza cieca nella biografia e nell’atto

creativo “forte”, sarà necessario prendere in considerazione la nozione

semiotica dell’enunciazione: questo servirà per evitare di cadere al di fuori

dall’ambito disciplinare e far scadere la negoziazione del senso con il

lettore/giocatore e l’aggancio tra autorialità e processo enunciativo in una

superficiale cronaca sociologica o in una fumosa psicologia d’autore.

L’enunciazione sarà anche un’anticamera teoricamente preziosa per

interrogarsi sul rapporto tra tecnica ed espressione individuale nel processo

38

di scrittura dei testi videoludici. In ogni caso, si proverà a mantenere “in

tensione” il rapporto tra l’istanza enunciativa come strategia semiotica

immanente al testo e la sua estensione accorta ai relativi attori in gioco nel

mondo reale. Non presteremo fede, dunque, a una concezione rigida del

concetto di enunciazione, ma ci affideremo alla sua interpretazione più

elastica rispetto all’assunto di impersonalità di questa istanza42.

L’autore sarà inteso come un ipotetico punto di coincidenza tra il

soggetto e l’istanza enunciativa nel testo, mentre ci concentreremo,

partendo dai testi, sulla relazione tra il soggetto e un dominio tecnico inteso

come un “sapere/saper-fare/saper creare” condiviso. Nel frattempo,

confronteremo l’ipotesi autoriale con quanto osservato da questa

prospettiva.

Gli elementi venuti a galla dovrebbero, nelle intenzioni di questo

lavoro, contribuire a spiegare se una nozione autoriale “forte” risulti utile o

se, al contrario, non si possa che interpretare l’autore in maniera “debole”:

come, cioè, se esso fosse un travisamento, un’idealizzazione di istanze che

in forme testuali dalla scrittura corale sono inevitabilmente spersonalizzanti

o radicalmente collettive. Nel primo caso potremmo essere in grado di

formulare una teoria dell’autore; nel secondo caso questo si rivelerebbe

come un semplice tassello o esecutore, mai del tutto autonomo, talora

persino marginale, rispetto all’unità testuale e all’enunciazione.

Mentre scrutiamo nei testi la figura dell’autore/inventore non sarà né

il soggetto reale, storicamente determinato, né pura istanza enunciativa, ma

rimarrà una risorsa da usare euristicamente, una cartina di tornasole testuale

o ancora un grimaldello per fare retro-ingegneria sul processo enunciativo.

In questo senso, la prospettiva combinata di un non-determinismo

tecnologico e di un concetto di enunciazione non necessariamente

impersonale costituirà la base operativa dalla quale interrogare i testi per

cogliere i nessi tra tecnica, espressione e autorialità. È anche da questa

prospettiva che discende la domanda se, e in che senso, il videogioco possa

essere o meno considerato un insieme di testi dotato di una dimensione 42 Si rimanda a 2.7

39

“artistica” o se, al contrario, il “giochetto per computer” vada considerato

pura merce di consumo, prodotta in serie da un apparato

tecnico/tecnologico industrializzato43.

2.2 –OXO, Tennis for Two, Spacewar: il testo-bricolage

Per molti anni, il prototipo idealtipico del gioco elettronico è stato

rintracciato in Space War, un gioco di combattimento spaziale concepito nel

1962 da Steve Russell con l’ausilio di altri studenti del TMRC [immagine

5]. In seguito, questo primato è stato sottratto a Space War e attribuito a

Tennis for Two, concepito al Brookhaven National Laboratory da William

Higinbotham. Oggi, dopo un nuovo giro di approfondimento storico, il

titolo di primo gioco elettronico mai creato potrebbe essere nuovamente

retrodatato, e attribuito a OXO.

2.2.1 – OXO

OXO è il frutto del lavoro di A.S. Douglas, uno studente inglese

della Cambridge University che, nel 1952, si dedica alla sua tesi di laurea

concependo un programma di interazione tra uomo e macchina. OXO è una

versione digitale del Tris - che gli inglesi chiamano Noughts and Crosses - e

gira su EDSAC. EDSAC era un hardware ingrombrantissimo che esistette

in un solo esemplare, e dal quale il codice di OXO non migrò mai verso

alcun altro sistema di elaborazione. La visualizzazione a schermo

avveniva44 su un monitor CRT dell’elaboratore, e l’interfaccia di controllo

era stata implementata utilizzando il disco compositore di un comune

telefono meccanico: ogni numero da 1 a 9 avrebbe indicato alla macchina in

43 La questione, teoricamente più spinosa, rimarrà una domanda sullo sfondo del nostro intero lavoro. 44 Ci riferiamo a OXO nella sua configurazione testuale originale usando il verbo al passato perché il suo combinato di codice e interfaccia – il gioco originario, su un dato hardware - è storicamente situato, un unico esemplare non rintracciabile da parte del giocatore. Parliamo di OXO al presente quando ci riferiamo alla sua natura formale, che è emulabile e pertanto migratile e giocabile a prescindere dal suo supporto fisico. Tra le tante emulazioni del gioco, una delle migliori è disponibile all’URL http://www.northdevonuk.co.uk/NDUKoxo.html.

40

quale punto del quadrante sarebbe stata piazzata la propria mossa45. Di

OXO, per lungo tempo dimenticato e relegato nel novero di una

misconosciuta serie di sperimentazioni creative basate sulla tecnologia

elettronica delle origini, è oggi possibile visionare e giocare varie versioni

riprogrammate in ambiente digitale, che emulano l’architettura del

calcolatore.

OXO sembra quasi l’opera di un bricoleur levi-straussiano, capace di

rileggere una forma ludica pre-esistente utilizzando sostanze tecnologiche

diverse, offrendo l’interazione tramite un’interfaccia il cui programma

d’uso è adattato a nuove esigenze testuali. OXO non crea affatto un nuovo

tipo di gioco: Nought and Crosses è una forma ludica molto semplice e

potente, un gioco talmente economico e “portatile” da poter essere giocato

da chiunque persino con un dito o un rametto sulla sabbia. L’opera di

Douglas appare piuttosto, allora, come la prima dimostrata capacità di

emulazione e ri-mediazione di una forma ludica esistente nel dominio

dell’elaborazione informatica, nella fattispecie un elaboratore valvolare. Se

OXO debba essere considerato o meno il primo videogioco mai creato è

una decisione da sottoscrivere con cautela. Il primato temporale e il primo

caso di interattività ne fanno probabilmente, fino ad eventuali, prossime

smentite e retrodatazioni, il primo gioco a essere programmato per un

elaboratore informatico. Non è escluso, tuttavia, che OXO non sia ri-

elaborazione elettronica di una forma ludica quanto, semplicemente, la

prima che si conosca46. Una possibile obiezione, tuttavia, è questa: OXO

non inventa una nuova forma ludica, ne porta in nuove direzioni la pratica

tipica di quella forma: la portabilità e rapidità di consumo del gioco del

Tris. Saranno altri i testi a intraprendere le dirompenti strade delle

propriamente nuove forme videoludiche.

45 Cfr. Kent (2001) 46 La storia di dimostrazioni tecniche della scienza informatica si dimostrerebbe piena zeppa di casi interessanti per chi volesse andare alla ricerca, probabilmente anche interattivi e capaci di “rubare” il primato temporale a OXO.

41

2.2.2 – Tennis For Two

Otto anni dopo OXO, è il turno di Tennis for Two. Questo

“simulatore di tennis” nasce per mano di William Higinbotham nel 1958 al

Brookhaven National Laboratory, un laboratorio dedicato allo studio di un

sistema di reattori nucleari e acceleratori di particelle destinati alla ricerca

sull'energia nucleare. Higinbotham era uno scienziato che aveva preso parte

al celebre Manhattan Project, ed aveva assistito al primo test nucleare

storicamente registrato. Un curriculum di questo calibro sarebbe bastato a

molti ma, sembrerebbe, non a Higinbotham: inconsapevolmente deciso a

entrare con il proprio nome nel guinness dei primati, mise a punto, con

David Potter, quello che la maggior parte degli storici ritiene il primo

videogioco mai creato. Tennis for Two era un video-gioco nel senso che la

sua sostanza espressiva era il display di un oscilloscopio, mentre la sua

struttura ludica consisteva nel controllo del movimento orizzontale di una

pallina, che passava al di sopra di una stanghetta. Nelle intenzioni dei

creatori, questi formanti figurativi metaforizzavano il tema e le figure di

una partita di Tennis, da cui il nome dato al frutto del loro lavoro.

L'interfaccia di Tennis for Two, totalmente “bricolata” da materiali già

esistenti, consisteva in una coppia di potenziometri a manopola, con

l’aggiunta di due pulsanti che venivano utilizzati per orientare la direzione

della palla e lanciarla successivamente. [immagini 2, 3] Qualcosa di simile

al ben più celebre Pong, ma in anticipo di svariati anni e privo di un

hardware dedicato.

Questa applicazione ludica della tecnologia era un puro e semplice

divertissement da ingegneri rispetto ai fini precipui per i quali Higinbotham

e Potter erano impiegati al Brookhaven Lab. Quella che oggi verrebbe

definita una minimale simulazione di tennis funzionava, similmente a OXO,

su un hardware valvolare, un elaboratore analogico il cui impiego regolare

era finalizzato alla crittografia e ai calcoli balistici per applicazioni militari.

Eppure, la storia procede per vie complesse: l’ormai obsoleto elaboratore e

42

quelli che lo utilizzavano sarebbero stati ricordati più che altro per

applicazioni molto diverse da quelle belliche.

Anche Tennis for Two, come OXO, è una sperimentazione ludica, il

cui codice di programmazione adopera tecnologica pre-esistente e sostanze

espressive già date per offrire un testo che sottende a una pratica diversa, di

gioco. La sua enunciazione, come quella di Nought and Crosses, è opera

non di uno solo, ma di un paio di bricoleur, decisi a innestare sulle

interfacce esistenti dei nuovi programmi d’uso, più divertenti di quelli già

in corso e soprattutto interattivi. In Tennis for Two, che nasce oltretutto per

essere giocato in contemporanea da due giocatori, il tema del gioco viene

visivamente metaforizzato verso la descrizione di uno sport esistente, a

partire dal paratesto-metatesto esplicativo fornito dal nome del gioco:

tuttavia, il testo prodotto da questa enunciazione è una forma ludica nuova,

che non era mai stata giocata prima. Tennis for Two, semplicemente, non è

Tennis, e neppure Ping Pong. Non è una conversione su elaboratore

elettronico di una forma ludica già esistente che si offre secondo le stesse

caratteristiche, perché quello del tennis è a tutti gli effetti, a confronto con il

testo prodotto, un mero spunto. Del tennis, della sua struttura logica e della

sua componente fisica, fisiologica, Tennis for Two recupera sì una lettura

altamente stilizzata, resa formalmente più asciutta e idealizzata: ma, di

fatto, il tennis è un rivestimento che si offre per un gioco sostanzialmente

nuovo, che si gioca su uno schermo attraverso un’interfaccia e al quale non

è possibile trovare un’alternativa. Di conseguenza Tennis for Two crea, a

differenza di OXO, una nuova pratica ludica, o quantomeno tenta di

suggerirla in quanto testo giocabile da due persone che interagiscono con

una macchina.

2.2.3 – Space War

Come Tennis for Two, anche SpaceWar continua a trovare dei

sostenitori per la causa che lo vorrebbe come il primo videogioco della

storia. Spacewar è un gioco concepito metaforicamente come un

43

combattimento spaziale, fattosi interattivo e messo in scena su un

elaboratore mainframe costruito in una serie limitata, che occupava lo

stesso volume di un’automobile ed era provvisto di un monitor in bianco e

nero a tubo catodico. Sullo schermo due navette, ciascuna controllata da un

giocatore, si affrontano a colpi di missili, spostandosi su uno sfondo

composto di pianeti e costellazioni. La creatura è di Steve Russell e un'altra

manciata di programmatori, i quali stavano gettando le basi di un nuovo

modo di intendere i calcolatori elettronici e la tecnologia informatica. Space

War nasce infatti anche grazie alla tecnologia confluita nel programma

Three Position Display, che gli hacker del MIT rinominarono Minskytron in

onore del suo programmatore. La testualizzazione di SpaceWar è esito,

come del resto anche nel caso di OXO e di Tennis for Two, non certo di un

momento creativo puro, quanto di un processo applicativo, tecnico e

creativo in cui una collettività che condivide un sapere organizza forme

testuali e pratiche ludiche a partire dai mezzi tecnologici disponibili, in

questo caso “sfondando” il programma d’uso della tecnologia e delle

interfacce per pervenire a una nuova testualità interattiva. Nel caso di Space

War, la tecnologia visuale e di elaborazione disponibile consiste in

macchine più sofisticate di quelle su cui avevano già lavorato Douglas e

Higinbotham, e su uno schermo a tubo catodico. Nel corso delle numerose

revisioni del codice, il gioco assunse caratteristiche nuove e un gradiente di

interazione più ampio e raffinato. La reale differenza di Space War rispetto

agli altri videogiochi “prototipici” sta però nel lavoro effettuato

sull’interfaccia. Gli hacker del MIT non si accontentarono, come Douglas,

di una rondella da telefono, che mal si sarebbe prestata al compito di

muovere i formanti che metaforizzavano le navicelle. Né si trovavano di

fronte a una macchina provvista di potenziometri a manopola, visto che il

PDP-1 non era provvisto di oscilloscopio. I controlli base dell’hardware,

peraltro, non si prestavano al compito. I tasti esistenti vicino al piccolo

schermo dell’elaboratore erano scomodi da usare, e il loro posizionamento

invalidava le sfide tra i giocatori, visto che quello più vicino al display CTR

avrebbe sempre avuto una posizione avvantaggiata. Pertanto, il sestetto si

44

ingegnò nel costruire da zero un controller specifico, a tutti gli effetti

antesignano di una forma di interfaccia dedicata divenuta componente

essenziale del gioco elettronico. La prima coppia di rudimentali, identici

joystick venne creata assemblando componentistica “ottenuta” dalle

regolari classi di lavoro (di qui la barzelletta sul “vero” acronimo del

gruppo: “Midnight Requisition Club”). Due interruttori di metallo

controllavano la navicella, mentre un tasto rosso serviva a lanciare i missili.

Il gruppo avrebbe voluto utilizzare una vera cloche, ma non riuscì a

procurarsene una coppia (NOTA sull’etimo di joystick). L’iniziale logica

“da bricoleur” di Douglas e di Higinbotham, che avevano utilizzato

strumenti già esistenti per nuovi programmi d’uso, era stata in parte

ribaltata: il programma d’uso, il gioco, era divenuto preponderante e

fondamentale per il testo, il quale avrebbe risentito nel suo rapporto con il

giocatore di un’interfaccia non ideale, e quindi re-implementata da zero

(seppur prendendo spunto da una interfaccia già esistente, la cloche). I

giocatori, con i nuovi controller, avrebbero potuto sedere alla stessa

distanza dallo schermo, e sfruttare alla pari le caratteristiche dell’ambiente

interattivo senza che uno dei due subisse le limitazioni dell’interfaccia.

Per Space War Steve Russell e gli altri programmatori del fittizio

Railroads Club operano, come i loro predecessori, all’interno di un

paradigma condiviso tecnico-scientifico, ri-utilizzando tecnologia per la

medesima applicazione di tipo ludico. Tuttavia, non si limitano a convertire

il tris su un elaboratore, ne si accontentano di un’interfaccia assemblata a

partire da oggetti dai programmi d’uso riconvertiti. Space War è un testo

elettronico interattivo per il quale l’enunciazione ha preso in carico la

componente formale e l’interfaccia fino alle conseguenze estreme, virando

verso l’effettiva creazione di una nuova pratica ludica. La forma, nata da un

atto di bricolage tecnologico, ben presto assume preponderanza, e spinge la

tecnologia verso un aspetto nuovo e specializzato: il programma d’uso

dell’interfaccia spinge quest’ultima, invece che sia la seconda a suggerire il

45

primo47. Il successo di Space War fu tale che il programma diventò il

tormentone dei programmatori dell’epoca, e iniziò ad essere usato anche

come showcase della tecnologia di calcolo, pre-caricato sulla memoria del

PDP-1 come dimostrazione tecnica delle capacità dell’hardware. Computer

Space, la versione di Space War con la quale Bushnell tentò di portare i

videogiochi negli spazi pubblici, si sarebbe presentato con un apparato

paratestuale visivamente preponderante e con una maggiore fascinazione

estetica, ma avrebbe fallito, come vedremo nei prossimi paragrafi, proprio

per i limiti di una interfaccia macchinosa.

2.3 – Il testo videoludico tra forma e sostanza

A ciascuno di questi giochi è toccata la definizione di “primo

videogioco mai creato”: le cronache hanno di volta in volta aggiornato il

primato temporale, oggi assegnato a OXO. Non tutti, però, si sono mostrati

d’accordo, così come non tutti assegnerebbero al medesimo soggetto il

titolo “creatore del gioco elettronico”. La precedenza temporale non è la

sola variabile: contano anche le considerazioni sullo statuto testuale dei

giochi in esame per i quali, anche se tutti sono diversi da semplici

sperimentazioni visive, valgono gradienti diversi di “videogioco” a seconda

che si guardi l’aspetto formale, estetico o della pratica di gioco. Il quadro di

testualità videoludica in formazione a cui appartengono OXO, Tennis for

Two e Space War è decisamente complesso: forma del codice, tecnologia,

interfacce e pratiche ludiche si configurano in modo da rendere

problematica una definizione univoca di ciò che delimita la nascita del

videogioco rispetto a ciò che ne costituisce il brodo evolutivo.

Un assunto fondamentale di questo lavoro è la convinzione che siano

in definitiva le pratiche e le forme testuali ad esse legate a costituire,

seppure in costante negoziazione, i mezzi espressivi, e che questi non siano

47 Cfr. Cosenza (2003)

46

affatto determinati dalla tecnologia48. È questa una precisazione necessaria

per l’analisi di un ambito di sperimentazione tecnologica come quello in cui

si sviluppano i primi videogiochi, con il passaggio da macchine valvolari e

a transistor a elaboratori digitali e l’enorme lavorio in atto sulle interfacce

uomo-macchina e i loro fini. Anche se la il contesto tecnologico e sociale

della ricerca informatica in cui si definiscono le pratiche d’uso videoludiche

dei primordi costituisce la premessa e non il fine di questo lavoro, esso è in

ogni caso destinato a incidere profondamente sulla natura dei testi e della

loro fruizione. Anche senza uscire dalla massima testualista per cui “fuor

dal testo non v’è salvezza” ed evitando il tranello di un’ottica

tecnologicamente deterministica appare quindi arduo negare come la

dimensione co-testuale, il continuum e lo stesso contesto storico rivelino dei

testi ancora di più di quanto essi stessi mostrino direttamente. Il rapporto

tra testualità “interna” e contesto sociosemiotico e tecnologico è qui in

formazione e frastagliato, dotato di una genealogia delle forme

problematica. Riconoscere questo non equivale a naufragare fuori dal testo

o fare determinismo tecnologico. Il testo, in questo caso il gioco, è un

tessuto di senso la cui forma è prodotta dalla mente umana. La tecnologia e

la sostanza su cui il senso di fonda, qualunque esse siano, rimangono una

base non eliminabile. Tuttavia, sostanza espressiva e forma non sono

univocamente determinate l’una con l’altra. L’analisi del testo videoludico

dovrebbe quindi considerare questo come un sistema formale che,

attraverso metaforizzazione e interfacce, articoli l’interazione tra uomo e

macchina multi-planarmente, su vari livelli di interazione sensoriale, in

contesti e pratiche d’uso49.

Tutto questo è confermato dall’osservazione di questi testi (all’epoca

all’avanguardia), la cui scrittura si muovono all’incrocio tra padronanza

tecnologica e ispirazione ludica. L’esito, infatti, pur essendo

tecnologicamente fondato, non è determinato dalle caratteristiche

dell’hardware, chè tutti in tutti casi presi in esame si assiste a veri e propri 48 Una presentazione del problema del determinismo tecnologico in rapporto ai nuovi media è contenuta in Cosenza (2004) 49 Cfr. Hjemslev (1943).

47

aggiramenti dei limiti dell’interfaccia, a revisioni, integrazioni e sostituzioni

dei suoi programmi d’uso. In alcuni casi, la tecnologia viene ri-costruita per

integrare lacune originarie che limiterebbero la riuscita del testo interattivo.

Qual è, allora, il primo videogioco? Pensare che sia OXO cui

porterebbe a una contraddizione, visto questo testo non inventa alcuna

forma ludica, ma si limita a portarla su un ambiente digitale sostenuto da un

ingombrante guscio tecnologico che annulla la portabilità e quindi la pratica

ludica del tris. Si tratta allora di Tennis for Two? Ma allora il videogioco si

definirebbe per la sola centralità della forma ludica, a scapito della

componente informatica e interattiva in senso lato che è a tutti gli effetti

preceduta da OXO. Torniamo a Space War, per il ruolo preponderante e

l’originalità dell’interfaccia, focalizzandoci su una traccia enunciativa che

è sintomo ingombrante di una rivendicata autonomia della forma rispetto

alla tecnologia? In questo caso rischieremmo di operare un inverso

determinismo formale-enunciativo a senso unico: l’auto-consapevolezza e

completezza del programma interattivo avrebbe il primato, a scapito di testi

similmente performanti anche senza un’interfaccia dedicata e a tutti gli

effetti storicamente precedenti50. Il momento zero videoludico, quindi, non

è identificabile con un autore e un istante, ma è un’idea da distribuire su

vari attori e momenti del continuum cronologico.

La testualità videoludica, osservata secondo la concezione di

Genette, si presenta anche, sin dalle sue prime manifestazioni, con

oscillazioni costanti tra il piano testuale e quello paratestuale51.

L’applicazione radicale della nozione genettiana di paratesto al gioco

elettronico, anche se indispensabile per pertinentizzare l’oggetto di studio,

senza la dovuta cautela sul piano teorico potrebbe portare a pensare che in

un testo in formato digitale tutta la sua manifestazione debba essere

assegnata alla dimensione paratestuale. Il testo semiotico in esame

consisterebbe allora nel solo livello del linguaggio macchina, nel puro 50 Anche ritenere che il primo, vero videogioco sia Space War per via di ragioni tecnologiche relative al suo hardware processante sarebbe fuori luogo. Le caratteristiche di un computer sono quelle di elaborare: il funzionare a valvole, transistor o microprocessori non definisce diversamente un computer sul piano logico, ma solo su quello delle prestazioni e dell’architettura. 51 Cfr. Genette (1982)

48

codice binario: e questo sistema di notazione astratto verrebbe solo in

seguito “tradotto” per via paratestuale, in quanto il paratesto è proprio tutto

ciò che rende il testo presente, essendo i due “strati” testuali definiti dalla

mente che li separa.

Tuttavia, come ha già notato Maietti, il limite di un ragionamento

genettiano radicale applicato al videogioco appare nel riconoscimento che

“anche situare il testo nei meandri logici di una macchina rappresenterebbe

una semplificazione”, per cui “lo stesso codice binario sarebbe un

rivestimento metaforico a detrimento dell’astrazione della testualità come

pura forma”52. Sul piano metodologico, oltre tutto, una applicazione così

radicale rischierebbe di mettersi in conflitto con il momento applicativo

della teoria: del testo non rimarrebbe nulla. Rimuovendo dal nucleo testuale

tutto ciò che c’è di sostanziale e considerando il rimosso sotto la sola sfera

fluttuante del paratesto, si rischierebbe di disarticolare, pur per la buona

causa della pertinentizzazione dell’oggetto di studio, un’articolazione

testuale in cui questi livelli appaiono così inestricabilmente solidali da

rendere quantomeno problematico il tentativo di reciderli sul piano delle

effettive pratiche ludiche e produttive.

Il medium, insomma, è in parte, ma solo in parte, il messaggio: OXO

è stato sviluppato su un elaboratore a valvole per ri-mediare il Tris; Tennis

for Two sfrutta la sostanza espressiva di un oscilloscopio per ordire un testo

interattivo sceneggiato dietro la suggestione di una partita di tennis;

Spacewar è il prodotto di codice programmato su un mainframe computer,

dotato di un’interfaccia appositamente costruita e di una disambiguazione

paratestuale dedicata a una narrazione fantascientifica. Ciò che i testi

condividono, nel diverso rapporto tra codice, interfaccia e elaborazione

digitale, sono la visualizzazione su schermo, l’interfaccia di controllo, la

natura interattiva sulla matrice di eventi del testo e il sottendere di questa a

le pratiche d’uso fortemente dedicate alla dimensione paratestuale ed

estetica del gioco.

52 cfr. Maietti (2004)

49

Sul piano dell’unità testuale va notato come questa non appaia

separabile, in certi casi, dal paratesto e dall’interfaccia. In alcuni casi le

escrescenze paratestuali e le appendici peritestuali diventano parte

integrante, se non fondativa e discriminante, rispetto alle caratteristiche del

puro codice, e costringono a ripensare contestualmente l’idea del nucleo

testuale videoludico53.

Non si può fare a meno di ricordare, a tal proposito, che l’analisi di

questi testi è debitrice della capacità del codice di migrare oltre i supporti

originali in quanto organizzazione formale: ma al contempo, il deperimento

della tecnologica originale si è posto come ostacolo per il ricercatore. Quasi

tutti i testi videoludici citati in questo capitolo sono oggi giocabili soltanto

grazie al processo di emulazione, ma giochi come OXO, Space War e

Tennis for Two sono anche esempi di come il senso del gioco originario

appaia più che mai saldata al supporto tecnologico. Per ragioni

fondamentalmente storiche e di preservazione degli artefatti originali,

l’emulazione del solo codice, che potrebbe apparire bastevole ai fini

dell’analisi, si sarebbe del resto rivelata incompleta, priva di una

rinsaldatura tra l’emulazione delle forme ludiche e il loro paratesto

originario (valvola, telefono usato come un controller, etc). Le nostre

considerazioni su questi testi, oltre che nell’emulazione degli originali e

nelle analisi di altri ricercatori, trovano del resto uno strumento decisivo

nelle descrizioni e documentazioni storiche54.

2.4 – Dal codice all’entertainment

Il podio del primo videogioco in quanto testo interattivo, come

abbiamo visto, è conteso tra OXO, Tennis for Two e Space War, ma questo

primato appare inquadrabile da prospettive diverse ed è, in definitiva, una

53 Questo appare in accordo con quanto abbiamo sostenuto durante il primo capitolo, parlando della non-utilità di definizioni schematiche della testualità videoludica. Questa è da considerare fluida e rispondente diversamente ai solleciti di sguardi diversi, all’incrocio com’è tra media diversi e specificità con tratti comuni ad ambiti ludici ed espressivi svariati. 54 Tanto il “fantasma” che il “guscio” della storia videoludica sono oggi sottoposti a una opera di recupero storico. Cfr. il progetto MAME su www.mame.net

50

falsa necessità. Rimane tuttavia un ulteriore elemento da esaminare,

decisivo per definire una nuova famiglia di testi, un nuovo medium o una

nuova pratica semiotica. Si tratta del trapianto del gioco elettronico nella

sfera del divertimento pubblico e privato: un fenomeno che è dovuto ad altri

soggetti creativi e tecnici, e che segna l’avvento della prima, vera fase del

videogioco come medium di massa.

Le sperimentazioni di Douglas, Higinbotham e Russell avevano

prodotto le prime, chiare manifestazioni di una forma testuale interattiva

nuova: ma questa forma testuale non aveva mai lasciato i luoghi, fisici

quanto tecnologici, in cui si erano sviluppati i suoi testi. Questo avviene con

Computer Space e Odissey: all’interno del nostro percorso questi giochi,

prima ancora che singoli testi giocabili, sono veri e propri dei progetti di ri-

posizionamento del codice ludico, di innesto del codice su nuove pratiche,

attuati sulla scorta di un lavoro in cui la dimensione paratestuale gioca un

ruolo fondamentale. Sono opere di “demiurghi videoludici” i quali, più che

creare nuove forme testuali, deviano l’uso ludico della tecnologia verso

nuove pratiche, rivendicando per queste una identità nuova e una

dimensione commerciale.

Anche per questi giochi, si tratterà di re-immettere il momento

creativo della scrittura o del progetto enunciativo in un processo che

comprenda la mediazione tra tecnica condivisa e fine individuale. Il gioco-

testo organico, concepito per una pratica e capace di conseguire il successo

commerciale nell’affermarla, è in questo caso Pong, il secondo,

rivoluzionario tentativo di Bushnell.

2.4.1 – Computer Space

Nolan Bushnell, studente di computer science, rimase letteralmente

folgorato nel vedere Space War, la creatura di codice e interruttori di Steve

Russell, girare sul mainframe PDP-1 del MIT. Nottetempo, gli studenti

delle tre università allora dotate della macchina – MIT, Stanford e Utah – si

impadronivano degli elaboratori normalmente appannaggio dei soli

51

insegnanti e ricercatori, e li usavano per la loro vera e propria killer

application: Space War. Il gioco di Russell non era semplicemente

diventato una dimostrazione aggiuntiva dell’hardware per i potenziali

acquirenti in sede accademica, ma un vero fenomeno di culto dell’ambiente

dei giovani programmatori informatici, che lo scaricavano e giocavano

nottetempo utilizzando la rete di elaboratori che in futuro sarebbe diventata

Internet55. Nel 1969, una volta ottenuta la laurea, Nolan Bushnell aveva in

mente soltanto una cosa: riconvertire Space War dalla pratica

semiclandestina dei laboratori notturni delle tre aule dotate di PDP-1 negli

USA, portandolo all’attenzione della gente, dentro la sfera pubblica del

divertimento. E, nel processo, guadagnandone un surplus economico. Al

contrario di Space War, che Russell e soci svilupperanno a partire da una

tecnologia esistente e in parte piegata al nuovo uso, la conversione di

Bushnell avrebbe mosso i suoi passi da una forma ludica già esistente, per

la quale rintracciare una tecnologia che prendesse in carico la ri-

conversione del gioco in un conglomerato di codice e hardware passibile di

una produzione commerciale in scala. Dopo vari tentativi con schermi

multipli e un lavorio tecnologico da garage, Bushnell e l’amico ingegnere

Ted Dabney concepiscono, grazie al supporto ottenuto da parte della

Ampex di Bill Nutting, una macchina dotata di uno schermo dedicato,

incassata in un box dotato di controlli all’altezza giusta: il prototipo del

cabinato arcade. Nolan Bushnell, nel proposito di realizzare una versione

per le arcade del leggendario di Space War, che girava su un computer

mainframe, intuì che avrebbe potuto fare a meno di una CPU, dai costi

allora proibitivi, e utilizzare un più economico design a Transistor-

Transistor Logic. Nel frutto del lavoro di porting, l’output del circuito

deriva da due transistor56 secondo una logica discreta, precedente

all’implementazione di un’unità di calcolo centrale, in cui i processi sono

decentralizzati sotto forma di gate logici disseminati sulla Printed Circuit

55 Cfr. Blasi (1999) 56 Cfr. http://www.webopedia.com/TERM/T/TTL.html

52

Board57. Computer Space, questo il nome del gioco riconvertito, è pronto.

Bushnell ne produce millecinquecento esemplari, effettuando un lavoro di

conversione tecnologica e di programmazione interamente votato a una ri-

contestualizzazione del testo videoludico come prodotto di intrattenimento.

In Computer Space il codice di Space War si salda alla componente

paratestuale di un’interfaccia collocata su un cabinato in fibra di vetro

colorata, dall’estetica avveniristica e dal design elegante. Al progetto di

impiantare il testo ludico su una nuova pratica sociale, il paratesto si

sviluppa in una direzione estetica che trova una compensazione alla povertà

e ambiguità figurativa di formanti a schermo essenziali. Nelle brochure

promozionali, Computer Space è raffigurato con accanto una donna

affascinante, vestita in un abito dallo stile minimale quanto glamour. In

questa nuova configurazione comunicativa, lo sviluppo della presentazione

paratestuale si aggancia a mutamenti nel modo in cui il testo videoludico

viene fruito, e il codice scritto. In primo luogo, Computer Space poteva

funzionare soltanto dopo l’inserimento di una moneta all’interno di uno slot

posto frontalmente sul cabinato. La pratica del video-giocare veniva istituita

dall’enunciazione di Computer Space come una prestazione di

intrattenimento a tempo determinato: esaurito il tempo concesso per

interagire con il gioco, questo si sarebbe fermato fino all’inserimento di una

nuova moneta. In secondo luogo, il testo si articola con un nuovo gradiente

rispetto al potenziale giocatore, secondo una logica non interattiva ma

spettacolare e seduttiva. Se non viene inserito alcun gettone per potervi

interagire, il codice anima sullo schermo dei rudimentali dischi volanti che

volano in formazione, istigando il potenziale giocatore a iniziare una nuova

partita.

Il programma enunciativo di Computer Space prevede la

rielaborazione di un testo esistente, e soprattutto della sua componente

paratestuale e della sua caratterizzazione estetica, per ri-posizionarlo come

nuova pratica. Il videogioco entra così nelle sale giochi, assumendo un

posto come novità in prima fila in una tradizione di congegni 57 Cfr. http://www.webopedia.com/TERM/p/printed_circuit_board.html

53

elettromeccanici e giochi di intrattenimento tipici di spazi di divertimento

pubblico come le fiere, i luna park, le arcade. La conquista da parte del

testo ludico dell’ambiente sociale non avviene per caso: Bushnell è un

giovane studente di informatica che si paga la retta lavorando d’estate come

manager di un parco di divertimenti. Qui assorbe una concezione

dell’intrattenimento che non può non suggerirgli una mediazione tra un

luogo esistente e una nuova pratica. Nutting Associates, la compagnia nella

quale entra in qualità di ingegnere capo per il progetto Computer Space,

produceva quiz elettromeccanici per le sale, che funzionavano con un

meccanismo a risposte multiple. Il codice elaborato nelle aule di

informatica venne così innestato su un guscio comunicativo e seduttivo, e

diventò un dispensatore a tempo di meraviglie tecnologiche. Era quello un

gioco di interazione elettronica che, nonostante la forte identità testuale e il

preludio a un futuro di imprevedibile ramificazione, con tutta probabilità

non veniva percepito dagli avventori come qualcosa di molto diverso

rispetto ai giochi tradizionali delle arcade dell’epoca. Computer Space,

tuttavia, fallì: non diventò il mostro mangia-gettoni che Bushnell sognava, e

non entusiasmò i giocatori sotto il profilo interattivo. Il motivo risiede

prevalentemente in una implementazione poco accorta dei comandi di

gioco. L’interfaccia, infatti, era eccessivamente complessa: quattro bottoni,

un tasto per accelerare e uno per sparare e la rotazione della navicella si

presentavano richiedendo un investimento temporale eccessivo per essere

padroneggiati, specialmente in vista del periodo limitato di gioco consentito

dal gettone. Computer Space era un ottimo clone di Space War e un

progetto estetico ed economico per l’epoca pionieristico, ma l’aspetto

ingegneristico di implementazione dell’interfaccia che aveva spinto Russell

e soci ad approntare i primi controller a cloche era stato dimenticato. Una

nuova pratica ludica per lo stesso gioco richiedeva anche una interfaccia

migliore, nuova, diversa. Quella, per esempio, che sarebbe stata di Pong.

2.4.2 – Baer e gli Home TV Games

54

Come Steve Russell, Ralph Baer era stato folgorato dal primo videogioco

che avesse mai visto: nel suo caso, il fulmine era Tennis for Two. Baer era

un tecnico radio tedesco specializzatosi in Ingegneria Televisiva in

America. Durante una visita al Brookhaven National Laboratory, rimase

particolarmente colpito dal lavoro di William Higinbotham: dalla

prospettiva del suo contesto professionale, infatti, aveva da tempo

accarezzato l’idea di utilizzi interattivi della tecnologia televisiva per

sfruttarne le potenzialità e il bacino di utenza.

Le sue idee sul trasformare un medium “passivo” come la televisione

in uno più interattivo risalgono al suo lavoro su un nuovo ricevitore

televisivo per la Loral Electronics, che non suscitano entusiasmi. Assumono

una forma compiuta solo del 1967, anno in cui Baer porta a compimento il

primo stadio del suo progetto, dal titolo di Home TV Games. Sfruttando i

mezzi tecnologici a disposizione in quanto Capo Ingegnere della Sanders

Electronics e servendosi della collaborazione di tecnici come Robert

Tremblay e Bob Solomon, Baer riesce a muovere un punto bianco su

schermo nero con un prototipo a transistor. Quel prototipo sarebbe

diventato il primo apparecchio concepito per collegarsi ai televisori e

portare il gioco elettronico nelle case degli utenti: la prima console.

Mentre sviluppa il prototipo dell’hardware, Baer si occupa in

parallelo della prima applicazione ludica che dovrà girare su quel sistema,

realizzando una versione di Tennis for Two identica in tutto e per tutto, ma

in cui il movimento del simulacro della pallina appare perfezionato. La

prima versione della futura console destinata al pubblico sarebbe chiamata

“the brown box”. Su questa, Baer e collaboratori realizzano varianti dello

stesso gioco di base che differiscono in termini minimali sul piano dei

formanti figurativi, e i cui diversi titoli suggeriscono temi sportivi

differenti: esaltando per la prima volta nella storia la tendenza, poi tipica del

videogioco delle origini, a essere testualizzato secondo una logica figurativa

in cui è la scarsa sofisticazione dei formanti figurativi a schermo viene

integrata da un lavoro di disambiguamento di natura eminentemente

55

paratestuale. Baer e soci realizzano persino la prima pistola a puntamento

luminoso dello schermo, con la quale interagire con i giochi.

L’aspetto più rilevante del lavoro di Baer, Tremblay e Solomon, in

realtà, non consiste soltanto nell’applicazione e innovazione tecnologica, in

accordo alla quale il videogioco era impiantato su un piccolo elaboratore a

transistor e concepito per essere collegato a un comune televisore invece

che risiedere nel guscio di un ingombrante mainframe. L’adattamento del

videogioco al televisore era importante soprattutto perché rientrava nella

logica di istituire una nuova pratica per il videogioco, immettendolo nella

sfera commerciale del divertimento e trapiantandone il potenziale ludico

dalle aule isolate degli specialisti di informatica ai salotti di tutto il

pubblico.

Nel 1968, una volta perfezionato il prototipo, Sanders registra il

brevetto dell’apparecchio messo a punto da Baer. Con questa mossa, Baer e

Sanders marcano un’importante punto di passaggio nella definizione del

mezzo videoludico, gettando le basi per una parziale ridefinizione della sua

pratica. Se la tecnologia e il codice giocabile vengono brevettati e

riconosciuti come frutto del lavoro creativo di un’azienda o di un individuo,

infatti, si ha l’avvio di un processo di definizione del testo secondo una

logica autoriale, creativa, che non ha più a che vedere con la mera

applicazione della tecnica ma anche con uno o più soggetti, con il prodotto

di un lavoro riconoscibile e univocamente attribuibile. Anche senza aura di

artisticità, si da il ruolo del soggetto: e il brevetto è un po’ per il tecnico il

marchio di autorialità del cosiddetto “artista”. Dopo trattative con

TelePrompter e RCA, Baer entra in trattativa con Magnavox, una divisione

della Philips, dando inizio a un’operazione che si concluderà, nel 1972, con

il lancio della prima console collegabile al televisore da parte del colosso

dell’elettronica: la Odissey, una macchina in cui nome, codice e hardware

coincidono in un solo progetto testuale58. La caratteristica che differenzia

Odissey dalle forme precedentemente assunte del testo videoludico è che

58 Come fa notare Bittanti, è con il VES che si attua una decisa radicalizzazione della distinzione tra hardware e software. Cfr. Bittanti (1999)

56

l’apparecchio, che ospita il codice della versione rimaneggiata del gioco di

Higinbotham, può collegarsi direttamente al televisore per offrire ai

giocatori una sfida alla novità tecnologica nella propria casa. La tecnologia,

tuttavia, non può che mettere su schermo dei formanti assai essenziali, ne

esiste la possibilità di un rivestimento paratestuale come nel caso del

cabinato di Computer Space. La soluzione escogitata da Baer è quella di

offrire non solo titoli diversi per le diverse modalità di gioco, così da

sfruttare le minimali variazioni a schermo per suggerire contesti figurativi

differenti, ma anche dei fogli di plastica colorata, inseriti nella confezione e

applicabili sullo schermo del televisore. L’apparecchio non può neppure

elaborare il punteggio della partita, di conseguenza il set di gioco include,

un po’ come in un gioco da tavolo, l’occorrente per segnare l’andamento

della partita, e in aggiunta dei dadi, delle fiches e un mazzo di carte.

Il distinguo tra l’opera di Higinbotham e quella di Baer, a guardar

bene, appare ben più macroscopico da una prospettiva enunciazionali o

“autoriale” che non tecnologica. Higinbotham e il suo collega Potter, un

appassionato di flipper, non brevettano mai la loro “invenzione”, perchè

questa per loro non rappresenta altro che un’applicazione ludico-

pedagogica dell’hardware, concepita per divertire i visitatori del

laboratorio. Higinbotham ha sostenuto di non aver mai brevettato il

videogioco perché non vi vedeva alcuna ragione, in quanto convinto di non

avere inventato nulla di nuovo. La forma testuale, però, che agli occhi di

Higinbotham e Potter non esiste come “artefatto” se non in maniera non

dissimile da un progetto di edutainment tecnologico per un museo

interattivo, sembrò a Baer una vera e propria nuova opportunità, una forma

espressiva la cui realizzazione può essere frutto di un lavoro tecnologico

quanto creativo e fonte di guadagno commerciale.

Questa bivalenza enunciativa del medesimo testo in quanto forma

ludica tecnologicamente fondata, che conduce il problema della definizione

di un nuovo mezzo espressivo e comunicativo a doversi riallacciare alla

nozione di pratica, ha una conferma ulteriore in un aneddoto significativo.

Anni dopo, Higinbotham sarebbe stato portato in tribunale in qualità di

57

testimone da alcuni rappresentanti di Nintendo. Nel 1982 quest’ultima era

decisa a dimostrare, per evitare di pagare dei diritti alla Sanders and

Associates di Baer, che i videogiochi fossero stati inventati ben prima, e che

la loro paternità spettasse a Higinbotham. Nintendo perse la causa.

Il progetto Odissey, nel frattempo, non riuscì ad imporre un nuovo

modo di video-giocare, nonostante un battage pubblicitario non indifferente

e la buona realizzazione del prodotto. Scelte poco accorte in sede di

marketing e di produzione industriale impressero una presentazione da

costoso gingillo per appassionati di tecnologia. L’enunciazione “autoriale”

di Baer, riconosciuto come il padre dei videogiochi già nel 1973 in una

conferenza ideata da Gametronics e prolifico quanto scaltro creatore di oltre

centocinquanta brevetti depositati, era stata malamente concertata dalla

compagnia. La console veniva messa in vendita solo nei centri Magnavox,

mentre l’epitesto pubblicitario dava ad intendere che il gioco si potesse

utilizzare solo con i televisori di questa marca: questo confliggeva

pesantemente con la principale caratteristica del programma d’uso, che era

quella di consentire all’apparecchio di collegarsi a qualsiasi televisore.

2.4.3 - Pong

Pong, il gioco successivo della compagnia di Bushnell, dimostrò che la

lezione riguardante l’importanza dell’interfaccia era stata imparata. Invece

di proporre un’altra versione di Space War, Bushnell si concentrò a sua

volta sul modello di Tennis for Two e sul remake di Baer per la Odissey, su

proposta del suo collaboratore Harold Lee. Il controllo di Pong sarebbe

stato notevolmente migliorato: le funzioni di spostamento della racchetta e

dello spostamento della pallina, che erano separate nel controller di

Odissey, furono accorpate in un sistema di controllo decisamente più

immediato, che trasmetteva una sensazione di maggiore verosimiglianza del

rapporto tra il movimento delle mani e lo sport tematizzato. Non il tennis,

ma il Ping Pong, era il tema a cui Pong prestava la sua metafora figurativa,

rinunciando alle dodici varianti figurative e ai relativi arredi paratestuali di

58

Odissey. Pong, rispetto a Odissey, beneficiava di una tecnologia più

avanzata: invece di utilizzare decine di transistor, ricorreva a un unico

microprocessore. Come risultato, si aveva una maggiore snellezza

dell’hardware, un controllo più preciso dell’interfaccia, la possibilità di

visualizzare grafica a colori sui televisori. Il discorso su Pong riporta in

primo piano l’importanza della base tecnologica per l’enunciazione

videoludica: la tecnologia, pur non fondando in maniera determinante la

pratica e la testualità delle istanze videoludiche, rimane una componente

fondamentale del mezzo, ben più legato a una base di continua evoluzione

delle possibilità tecniche che non all’idea di un uso prettamente espressivo-

autoriale delle stesse.

2.5 – Dalla creazione al bricolage

Ognuno dei progetti esposti corrisponde alla diversa progettualità di

più attori che, assistendo alla nascita del videogioco come forma testuale

scaturita dalla sperimentazione informatica, tentano strade diverse per

innestarlo su nuove pratiche e di trapiantarlo in modalità di consumo

distinte e precise. Così, il lavoro principale dell’opera di Baer, Bushnell e

collaboratori non è tanto quello sul codice e sulla programmazione, quanto

la rielaborazione di una formula hardware e una presentazione che rendano

possibile la migrazione del testo videoludico in nuovi contesti. Più che

sotto il profilo testuale, dunque, è sotto quello enunciativo che Odissey e

Computer Space si presentano come prodotti sperimentali e storicamente

fondamentali, anche se non privi di aspetti lacunosi. La nostra

considerazione del testo videoludico è allora costretta a spostarsi

nuovamente dal nucleo del codice alla tecnologia, all’interfaccia e alla

componente estetica e paratestuale.

L’enunciazione di Computer Space si concentra su paratesto e

presentazione estetica, ma trascura un aspetto ingegneristico che tradisce la

maggiore ossessione sul piano del commercio che su quello del design:

l’usabilità dell’interfaccia. Le interfacce videoludiche assumono al massimo

59

grado la valenza fondamentale del trasporto dell’utente dentro un mondo

altro da controllare: quello, appunto, di un gioco. È attraverso l’interfaccia,

infatti, che i confini tra schermo e realtà fisica tendono a sfumare,

consentendo l’illusione partecipativa al gioco. Computer Space sbaglia

giocatore modello e fornisce al giocatore reale un’interfaccia

eccessivamente ingombrante, incapace di svolgere il suo compito senza

scomparire adeguatamente per consentire all’illusione di compresenza tra

testo e giocatore di occupare interamente il piano interattivo.

Nel caso di Odissey, la rielaborazione del medesimo codice di

Tennis for Two avviene con il suggerimento, attuato in larga parte per

mezzi esterni alla rappresentazione su schermo, di nuove sceneggiature

funzionali sul tema della ri-mediazione sportiva. Le minimali modifiche

della grafica a schermo devono moltissimo alla componente extra-codice

del paratesto pubblicitario, del titolo delle varianti di gioco, degli arredi da

applicare allo schermo, funzionali al trapianto della pratica ludica nel

contesto domestico. Tuttavia, anche se l’enunciazione di Odissey produce

un testo interattivamente felice ed esteticamente accattivante quanto

coraggiosa, il prodotto sconta condizioni di produzione industriale e lavoro

di marketing che falliscono nell’attualizzare sul piano concreatamene

commerciale la potenzialità del prodotto.

In entrambi i casi è comunque il paratesto a sopperire a una

presentazione estetica in vista del ricollocamento nelle sceneggiature

funzionali alle quali alludere nella pratica di gioco. Codici che erano gia

strutturalmente sviluppati, quelli di Tennis for Two e Space War, vengono

ora dotati di una piu coesa patina paratestuale, che connota esteticamente e

completa il progetto testuale. Nel caso di Computer Space, in particolare, la

connotazione paratestuale del cabinato suggerisce il tema e la natura

estetica e sensoriale dell’interazione, spostando il gioco verso una

fascinazione tecnologica cool e avveniristica.

Il paratesto lavora anche in Pong, ma nel secondo progetto di

Bushnell il maggiore successo non deriva che in parte dal corredo

paratestuale: più che altro, dal fatto che il gioco si presenti come un tout di

60

signification privo delle manchevolezze strutturali e degli errori di

presentazione di Space War e Tennis for Two rispettivamente. Pong è un

unicum, compiuto e riuscito, di giocabilità, presentazione e

commerciabilità. La tecnologia più sofisticata, inoltre, determina la

superiorità del programma d’uso dell’interfaccia e una presentazione

grafica più ricca rispetto a quelle di Odissey.

Il ruolo esteticamente centrale del paratesto nella definizione

tematica complessiva in presenza di una visualizzazione a schermo

poverissima non è da sottovalutare. Anche Pong, del resto, genererà con il

suo successo una vasta serie di progetti paralleli e prodotti derivati, per non

parlare della miriade di imitazioni e cloni che fonderanno la propria unicità

e novità su modifiche quasi sempre irrilevanti del codice e della struttura

interattiva, ricorrendo in prima battuta a processi di ri-figurativizzazione del

tema dell’interazione attraverso l’usuale metodo della copertina, del titolo e

dei formanti estetici paratestuali.

Pochi fenomeni possono quindi gettare luce sulla complessità e

difficoltà nell’accettare sbrigativamente il concetto di autore per il

videogioco quanto la costante opera di riciclaggio, clonazione, uso ed abuso

della tecnologia, della tecnica di programmazione, dei temi figurali che

concorrono nella frastagliata natura testuale del videogioco delle origini e

sono registrate nella storia di questo periodo storico dell’informatica. In

questo contesto le corse al brevetto, le cause legali e l’ansia da innovazione

e imitazione sono sintomatiche di un lavorio collettivo sulla formazione e

ridefinizione delle forme espressive e ludiche consentite dal progresso

tecnologico. Gli attori creano ben poco e rimaneggiano come bricoleur gli

elementi in gioco, muovendosi con urgenze, competenze e finalità

differenti.

2.6 - L’Adamo videoludico

Siamo giunti a una provvisoria certezza analitica, alla conferma dell’ipotesi

di partenza: la determinazione del primo videogioco, come quella del primo

61

inventore del videogioco, è un fine ideale, euristico, che è utile per la

ricerca nella misura in cui spinga a sciogliere la complessità delle proprietà

testuali che caratterizzano il primo videogioco e le finalità e proprietà delle

enunciazioni prodotte dagli attori in gioco; ma diventerebbe un falso

imperativo, un obiettivo di analisi illogico se dovesse essere condotto

secondo una logica unilateralmente attenta al dato tecnologico, testuale o

persino delle pratiche.

Il discorso sulla pratica videoludica genera a sua volta problemi.

Bisogna infatti distinguere la potenzialità di un singolo testo di presupporre

una pratica ludica e interattiva dalla effettiva trasformazione della sua

istanza testuale in una vera e propria pratica condivisa. È necessario che

questa pratica d’uso divenga collettiva, condivisa e di successo scaturendo

da un testo giocabile informatico, o questa può rimanere una potenzialità

storicamente inespressa ma di fatto iscritta e presupposta nel testo? Si

impone la domanda riguardante la competenza testuale delle comunità di

soggetti che insieme danno corpo a un nuovo medium. Se la differenza in

termini testuali tra Tennis for Two, Odissey e Pong non è affatto così

evidente quanto la sua migrazione su configurazioni tecnologiche e

paratestuali tali da sottendere usi diversi, a quali tra i creatori di questi testi

delle origini dovremmo essere propensi ad assegnare la paternità del

videogioco come medium piuttosto che come singolo testo?

In alcuni casi, a questi programmatori non interessava l’applicazione

delle loro sperimentazioni. I videogiochi sono inestricabilmente legati alla

storia dell'informatica al paradigma evolutivo dei calcolatori elettronici, e al

perfezionamento del software che gira sull’hardware. L’atteggiamento degli

utilizzatori tecnici degli elaboratori era in genere (ed è ancora oggi) quello

di spingere l'hardware al suo limite, e di perfezionare un software fino a che

questo non rasentava la perfezione nella scrittura. I videogiochi hanno

spesso portato al limite questo spirito, rappresentando la costante officina di

rodaggio più estrema dell’avanzamento della tecnologia.

Non vi è, dunque, un problema di natura per così dire formale, che

interessa la novità della forma di gioco o l’uso della tecnologia, ma relativo

62

allo spostamento dei criteri di attribuzione di paternità del primo videogioco

dal piano della manipolazione della tecnologia a quello della intenzionalità

e/o consapevolezza enunciazionali rispetto alla nuova forma testuale. Anche

così, il fatto che Baer e Bushnell abbiano tentato di impiantare il videogioco

su una nuova pratica intesa dal punto di vista del contesto di fruizione e

della presentazione estetica non deve essere confuso con la capacità del

testo videoludico di esserne alla base, dal potenziale del testo di creare le

condizioni per una serie di proprie interpretazioni o persino per il suo abuso

interpretativo. Il primato di una nuova pratica ludica andrebbe ancora una

volta assegnato a Space War e Tennis for Two. Il gioco di Higinbotham

potrà essere stato testualizzato senza che l’autore pensasse a un brevetto,

senza che ritenesse originale l’esperimento, e senza che intendesse far

pagare un pubblico di avventori per farlo giocare: ma, esposto, funzionava,

e i ragazzi che ogni settimana visitavano il Brookhaven Lab con le proprie

classi risultavano più affascinati da questa sperimentazione laterale priva di

progetto che non dai macchinari altamente funzionali ai progetti del

laboratorio. Lo stesso discorso è valido per Space War, che Russell e gli

altri ragazzi del MIT sviluppano senza la minima ambizione commerciale o

pretesa di farlo piacere al di fuori della cerchia degli appassionati, mentre il

gioco sarebbe presto diventato un fenomeno cult dell’ambiente informatico

dell’epoca, istituendo la pratica del multiplayer locale come quella del

gioco da scaricare [immagine 4]. Come se tutto ciò non bastasse c’è altro a

gravare sulle pretese di paternità del videogioco di Computer Space e

Odissey: nel tentare di innestare queste forme testuali in nuovi contesti,

questi progetti commettono errori proprio rispetto alla componente

originale del progetto di smerciabilità nelle case (Odissey), oppure riescono

a inficiare l’aspetto interattivo del videogioco, sbilanciando l’enunciazione

sul corredo paratestuale per la sfera pubblica (Computer Space).

Se si definisce il videogioco con le pratiche ludiche condivise a cui

ci si riferisce con quel termine, in cui i giocatori interagiscono e negoziano

la significazione, o nelle quali un tipo di testualità diventa un modello

paradigmatico su cui si fondano quelle a venire, il brevetto di Baer o il

63

successo di Bushnell nel portare i videogiochi nelle sale e nel vendere Pong

per le case possono diventare prove a sostegno da non ignorare; mentre

Computer Space e Odissey, che hanno l’intenzionalità progettuale ma

falliscono il loro obiettivo di creare nuovi modi di giocare, hanno

comunque il primato nel tentativo di gettarne le basi.

Catena59 fa notare, d’altro canto, come un approccio che assegni il

primato del mezzo videoludico a Baer e al suo tentativo di portare il

videogioco nelle case, pur esponendosi come l’ipotesi della derivazione dai

laboratori informatici alla paventata accusa di determinismo tecnologico (lì

il televisore, qui il mainframe), si presenti come un approccio “collettivista”

al mezzo “intriso di un determinismo tutto sommato perdonabile”. Il motivo

sarebbe per questa sua attenzione dichiarata al pubblico televisivo e per il

legame stretto con la logica del commercio”, in quanto la percezione della

figura del programmatore “è stata per anni […] qualcosa di

spersonalizzante, artificiale e al tempo stesso artificioso, lontana dalle

esigenze della gente”, cosa che non può certo dirsi della “immediatezza e

della chiarezza ontologica della cara vecchia televisione, emblema per

eccellenza della tecnologia democratica, posseduta e utilizzata da milioni di

americani già a metà degli anni Cinquanta”60.

Resta il fatto che una concezione del videogioco sotto la specie di un

mezzo di comunicazione è solo uno dei modi per avvicinarlo analiticamente

e, sicuramente, non quello ideale. Quella del videogioco è infatti una

famiglia testuale dagli esiti ibridi e versatili, che non pretende di sostituirsi

ai mezzi tecnologici o espressivi di comunicazione e neppure alle loro

pratiche, ma si innesta costantemente, su vari livelli, a ciò che gli preesiste

in termini di interattività, estetica, significazione, rapporto pragmatico con

il giocatore. Spostarsi sul discorso della pratica videoludica, leggendovi il

momento di condivisione di un mezzo di comunicazione nuovo, ha allora il

vantaggio di escludere quello tecnologico, ricordando che è l’uso della

59 Cfr. Catena, M., Dall’etica hacker ai Massive Multiplayer Online Games. Ipercomunicazione nella società delle reti., Tesi di Laurea in Semiotica dei Nuovi Media, A.A. 2004-2005 60 cfr. Catena, cit.

64

tecnologia a rendersi significativo e non un suo preesistere alla pratica, ma

presenta i suoi limiti nello spiegare le istanze dei singoli testi61.

La nostra assegnazione della medaglia di “primo videogioco”

dipenderà allora da quali saranno le priorità dell’analisi. Il vantaggio di una

prospettiva semiotica è proprio quello che deriva dalla capacità degli

strumenti della disciplina di non negare il ruolo della tecnologia nel fondare

il testo digitale e, al contempo, ragionare sul suo livello testuale senza

sacrificare il discorso sulla pratica a cui sottende. Questi tre sguardi non

devono essere intesi come momenti stagni o come punti di un percorso

cronologico, ma come punti di vista complementari dai quali affrontare i

testi, interrogandone la complessità semiotica.

In ogni caso, riflessione sulla dimensione commerciale del gioco

elettronico. I tentativi di Baer e Bushnell non sono, sotto questa prospettiva,

che la prima serie di eventi che prelude alla svolta industriale del

videogioco, la quale si presenterà come natura fondativa, da quel momento

in poi, per la comprensione dell’enunciazione videoludica. Diramare il

problema dell’autore rispetto all’orizzonte commerciale costituisce

l’imperativo analitico prioritario per un approccio al gioco digitale che

voglia spiegarne l’aspetto industriale quanto il potenziale espressivo,

riflettere sulle sue condizioni di produzione e fruizione e sulla dimensione

pragmatica e comunicativa del processo enunciativo rispetto al gioco come

testo che semplicemente “si da” come esito della programmazione-

sperimentazione o della pura fantasia creatrice dell’utilizzatore della

tecnologia.

2.7 - L’enunciazione tra immanentismo e apertura alla prassi convidivisa

Abbiamo tentato di mettere in luce i limiti della azzardata impresa di

rintracciare il primo videogioco mai creato conducendo la ricerca secondo

una prospettiva esclusivamente tecnologica, radicalmente testualista o

incline al rischio di scambiare una nuova pratica condivisa con le effettive 61 cfr. Cosenza (2004)

65

istanze comunicative del determinato testo videoludico. È tempo di

occuparci del modo in cui intendiamo servirci dell’enunciazione per

spiegare il rapporto tra soggetto e istanza del testo.

La nozione dell'enunciazione in senso strutturalista è stata guidata

dal principio di immanenza del testo, che si è rivelato centrale perché la

disciplina semiotica si costituisse secondo una episteme fortemente

riconoscibile. Evitando di uscire dalle strategie testuali istituite dal testo, e

affondando nella struttura profonda di questo, una certa semiotica

strutturalista ha scansato le possibili derive di una prospettiva analitica

psico-sociale. Da un lato, un contesto impressionisticamente descritto, che

si sostituisce alle istanze profonde di significazione a detrimento di una

comprensione scientifica elegante e dotata di un eventuale momento

prescrittivo. Dall’altro, il criterio della psicologia dell’autore, che istituisce

una presunta frattura tra il “comune sentire” e quello di un “autore”,

nascondendo nei fumi di questo sentire i veri processi di senso in atto nei

testi e nel momento pragmatico. La psicologia dell’autore istituisce una

frattura concettualmente non diversa da quella romantica tra il genio e

l’orizzonte comune, focalizza sul “sentire” dell’autore: ma non è nella

psicologia, quanto nell’utilizzo del mezzo e nelle isotopie tematiche,

figurali e stilistiche che va eventualmente trovata la cosiddetta “cifra” di un

autore62.

Rifacendoci a una posizione classica sull’enunciazione, quella della

cosiddetta Scuola di Parigi, abbiamo ritenuto l’enunciatore un mero

soggetto logico, una posizione enunciativa ricostruibile a partire dalle tracce

dell'enunciato e rintracciabile nella cosiddetta enunciazione enunciata.

L’enunciazione come istanza di mediazione e conversione essenziale tra

strutture profonde virtuali e strutture superficiali è quindi accettata come

premessa insostituibile di questo lavoro63.

62 La questione dello psicologismo nella nozione autoriale ritornerà evidente nel momento in cui ci interesseremo all’autore nel cinema. Cfr. Cap. 4. 63 Sull’enunciazione cfr. Floch, J. M., “Concetti della semiotica generale”, ora in Fabbri/Marrone (1999); e Pozzato (2001).

66

Tuttavia, una simile prospettiva non sarebbe bastata ai nostri fini,

perché il principio di immanenza nel testo ci avrebbe costretto a non

poterne fuoriuscire per indagare sulla genealogia tecnica e sulla cultura

condivisa che, oltre a essere rintracciabili nel testo, sono alla base della sua

capacità di testualizzarsi così come lo percepiamo in quanto dotato di

un’unità di senso. Per questo motivo abbiamo tentato di adottare una

metodologia attenta al concetto di prassi enunciativa introdotta da Greimas-

Fontanille: questa concezione del momento enunciativo riprende il concetto

hjelmsleviano di uso e, senza negare minimamente il precetto di immanenza

del testo, considera appunto le pratiche in cui si sedimentano le strutture

significanti depositate nelle enciclopedie delle comunità semiosiche.

L’enunciazione come attualizzazione delle virtualità, secondo questa

accezione, è anche una enunciazione di come le virtualità vengono

ricondotte al loro debito nei confronti della cultura condivisa: ed è uno

strumento fondamentale, che sarebbe possibile accompagnare, criticamente

e con accortezza, all’interno di un paradigma di tipo fenomenologico o

gombrichiano, volto a sottolineare la continuità tecnica e del sapere nel

campo espressivo, per rischiarare così la portata dell’enciclopedia condivisa

degli artisti.

Seguire questa nozione di enunciazione e passeggiare sui territori

rischiosi in cui la parole ribolle e si va saldando con la langue corrisponde

alla domanda di un progetto sociosemiotico. Ma questo atteggiamento

metodologico, attuato senza ansia descrittiva e con la dovuta cautela

analitica, non si espone affatto al rischio di rientrare in una pragmatica

reale, o di sconfinare drammaticamente in una sociologia della ricezione. Se

non si può credere che il progetto semiotico debba trasformarsi

immediatamente in una socio-semiotica, non si può credere neppure che

questo progetto condiviso negli anni si cristallizzi e non lo faccia mai, e non

arrivi mai a interrogarsi sulle stesse condizioni di cultura condivisa su cui si

forma, che a loro volta vivono e migrano tra persone reali. È forse, allora,

paradossale che una visione radicalizzata del precetto greimasiano per cui

“fuor dal testo non v’è salvezza” possa essere usata per negare il soggetto e

67

i soggetti che l’hanno fondata e applicata proprio rimaneggiando e

innestando sulla cultura esistente, e applicando a questo momento analitico

il proprio nome. Ma sarebbe anche improduttivo se questa massima venisse

cristallizzata e rallentasse l’applicazione dell’analisi semiotica sulla cultura

nel modo complesso e profondo in cui essa viene condivisa, negoziata,

creata, fatta funzionare da, tra, per soggetti. Non si capirebbe allora

l’atteggiamento di chi volesse utilizzare questo strumento in maniera

normativa, più come una gabbia in cui imbrigliare il testo che, appunto, un

valido strumento. Nel caso della nostra analisi, senza lo strumento/nozione

enunciativa greimasiana salda in mente avremmo confuso tutto a proposito

del testo videoludico primigenio, cedendo al richiamo di un descrittivismo

storico, del semplicismo analitico e della romanticistica creazione di un

improbabile unico inventore del videogioco. Tuttavia, senza integrare la

forma mentis che deriva dall’applicazione di questo strumento

fondamentale con quella che discende da un uso socio-semiotico dello

stesso, non saremmo riusciti a capire come quei diversi testi videoludici

presi in esame funzionassero, e neppure come si fossero formati come

forme testuali in quanto il lavorio tecnico, semiotico, culturale del periodo

non è estirpabile dagli attori in gioco, anche se essi non “funzionano” nel

testo in quanto se stessi ma sono il presupposto creativo dell’istanza

enunciativa. Al creazionismo videoludico in senso psicologico, allora,

scansato con gli strumenti della semiotica, si sarebbe forse sostituito un

creazionismo tutto semiotico, in cui il testo si da come dato e non v’è

salvezza, ma senza la spiegazione di come esso sia arrivato a comandarci.

Quello che i testi, la loro derivazione tecnologica e la loro pratica

condivisa hanno dimostrato è la necessità centrale di una nozione

dell’enunciazione più allargata e aggiornata possibile, capace di arginare la

tendenza testualmente centrifuga dei testi ludici elettronici e la non

uniformità del modo in cui vengono giocati. Una nozione aggiornata di

enunciazione potrebbe anche rischiarare il ruolo dei veri attori in gioco, che

rientrano in un discorso storico e largamente extra-semiotico ma non

dovrebbero essere totalmente eliminati nel corso dell’analisi testuale. In

68

questo lavoro, questa necessità di correlazione tra istanze testuali e soggetti

appare obbligata dalle premesse operative e dagli obiettivi scelti.

Anche se l’enunciazione deve essere usata come un’astrazione

analitica, non è affatto escluso, ed è anzi probabilmente fondamentale, che

questa astrazione possa operare a beneficio del rischiaramento del rapporto

tra la situazione enunciativa prodotta a partire dal testo e i veri attori in

gioco che hanno determinato o influenzato quest’istanza. Cambiare la

direzione di marcia, saltando dal processo agli attori e dagli attori al

processo così come si osserva nelle istanze del testo, insomma, è in fondo

una pratica giustificabile in questo preciso lavoro sulle origini di testi

tecnologici interattivi che nascono da un contesto umano e professionale

complesso. Oltretutto, questo modus operandi potrebbe rivelarsi un metodo

che spiega finalmente tanto come i testi producono effettivamente senso

quanto il modo in cui soggetti umani concreti hanno lavorato perché un

senso apparisse come lo intendevano. Il momento sincronico della

semiotica potrebbe così risultare fondamentale anche una volta trasferitisi

su un piano storico ed extra-testuale, fornendo al contempo ulteriore

smentita rispetto a certi pregiudizi sulle accuse di presunta, eccessiva

astrazione e schematismo della disciplina.

Il ruolo dei reali soggetti umani, d’altronde, è in fondo ineliminabile

nel contesto in cui l’abbiamo osservato anche per una comprensione

profonda dei testi che abbiamo preso in esame. Operatori tecnologici,

espressivi e commerciali come Douglas, Higinbotham, Russell, Bushnell o

Baer hanno fatto passeggiate inferenziali sulle possibilità della tecnica, dei

testi, della figuratività di quei testi, vedendoli come momenti di un processo

di formazione di una nuova testualità e “leggendo” in ognuno di questi non

solo una tappa conclusa, ma la possibilità ancora da realizzare di una nuova

direzione, da imprimere a proprio nome e vantaggio. Parlando nei termini

dei programmi narrativi d’uso, è chiaro come essi abbiano scorto nuovi

territori o applicazioni testuali nel divenire della forma videoludica,

offrendo il loro contributo a una causa che, persino loro malgrado, appare

69

una strada comune64.

Una visione ampia dell’enunciazione, applicata non solo nel senso di

un paradigma linguistico ma alla cultura condivisa rilevante per i tesi

esaminati, può dimostrare come l’autore non sia anche qui, a sua volta, che

un “giocatore”, un operatore di parole che innesta per primo una “mossa”

inedita (ludica, strategica internamente al gioco collettivo, e non certo

psicologica o intuizionista) nell’orizzonte condiviso della langue: in questo

caso, una langue tutta tecnologica.

2.8 - L’autore tra creazionismo ludico e tessuto sociosemiotico

Nel correlare la questione dell’autore a quella del primo videogioco

abbiamo dovuto fare ingresso nel problema delle origini di questa forma

testuale, rischiando di perdere il filo del nostro obiettivo nel labirinto della

questione tecno-ludica e dell’enunciazione. Ne sarà valsa la pena se,

mettendo in luce i processi originari di testualizzazione dei videogiochi,

saremo riusciti a creare una base metodologica e teorica sulla quale piantare

i piedi in saldo e, finalmente, muovere i primi passi per fondare

sensatamente l’interrogativo sull’inventore/autore.

La prima conclusione è relativa alla sola questione dell’inventore del

videogioco, che corrisponde largamente ma non può essere facilmente

identificata con la questione più generale dell’autore. L’inventore del

videogioco non esiste: esiste solo la varietà di forme testuali a cui ci

riferiamo con il termine videogioco e l’insieme dei soggetti che insieme,

nella varietà di ruoli, le producono e consumano. Ciascuno dei tecnici e

creativi che hanno più o meno intenzionalmente plasmato questi particolari

testi videoludici e l’idea generale che abbiamo di essi non può vantare

alcuna paternità di natura semiotica sul videogioco. Tuttavia, ciascuno di

questi soggetti, nessuno escluso (e anzi bisognerebbe integrare la lista),

64 I programmi d’uso possano essere considerati, almeno in questi casi, come configurazioni discorsive potenziali, intessute su sostanze espressive che sono subordinate a sistemi logici, i quali costituiscono e delimitano ambienti di interazione e pratiche d’uso: e questi operatori della testualità videoludica ne hanno costantemente esplorato i confini, aprendo a nuovi territori. Cfr. http://www.ocula.it/college/txt/carbone/manine_paffutelle.pdf

70

contribuisce all’invenzione del videogioco come “nuova” forma testuale o

pratica di gioco. Lavorando su sostanze e tecnologie differenti con finalità

di volta in volta ben distinte, tutti insieme formano un soggetto ideale,

situato in cima all’orizzonte condiviso di una data cultura, in questo caso

informatica: capacità e scopi diversi generano forme ludiche dai confini,

appendici, pratiche plurimi.

Siamo costretti a negare il concetto forte di autore, e pensare a un

rapporto non univoco tra tecnologia ed espressione, a intrecci inusuali tra

tecnici, designer, ingegneri, esteti, visionari delle forme ludiche, affaristi

dal fiuto lungo e dalla tecnica corta. È necessario ricorrere a una nozione

dell’autore meno normativa e più elastica, intesa nel senso di crocevia

tecnico-stilistico, in accordo con il modo di pensare di Gombrich, che

considera l’attività artistica sotto il profilo caratterizzante del discorso

espressivo come tecnicamente condiviso ai fini dell’uomo, e mette sempre

in priorità il discorso intorno al consumo collettivo e alla continuità dei

mezzi rispetto al momento in cui la cosiddetta riflessione dell’arte incorpora

all’aspetto tecnico anche un momento autoriflessivo più o meno ossessivo

rispetto all’idea del suo creatore65.

L’autorialità, d’altronde, anche sotto questa specie, è più che mai un

costrutto spesso fatto a posteriori, non emergente dalla coscienza del

soggetto autoriale, e questo ripropone come quanto mai attuale e necessaria

l’enunciazione come strumento per ogni ricerca socio-semiotica e della

semiotica dell’arte intorno al concetto della creazione dell’opera.

La nozione di autore e di artista radicale derivante da una tradizione

critico-estetica di impostazione romantica si è imposta gradualmente, a

partire da un preciso periodo storico: prima, la sua esistenza come soggetto

autoriale era negata e si presupponeva che esso fosse un mero esecutore di

una pratica artigianale66. Per il pittore la tecnica condivisa è situata nella

tecnologia della tela, del pennello e dei colori, e la tradizione sul lavoro di

bottega o sull’osservazione del lavoro altrui: su questo, il pittore lavora con

65 Cfr. Gombrich (1969) e De Micheli (1986) 66 Cfr. Gombrich (cit.)

71

mezzi per esprimere ma anche per modificare espressione, figurazione,

concetti e persino programmi d’uso del mezzo: immettendo, così, la propria

significazione con questa pratica nella porzione di tessuto di senso

condiviso e commerciato, così come sulla propria memoria visiva, e sulla

propria immaginazione in quanto artista e dunque “camera di risonanza

fenomenica”. Per il programmatore dei primi videogiochi, la tecnica

condivisa è situata nella tecnologia informatica, nel progresso dell’hardware

e della organizzazione logica degli I e degli O che ne stanno alla base. Ma

soprattutto nella propria capacità, in questi casi esaminati avanguardistica,

di subordinare il momento in cui la forma si cristallizza in queste sostanze,

operando non sui prodotti a valle della tecnica ma sulle radici a monte. In

questo senso chi volesse esaminare lo statuto dell’arte digitale come

bagaglio tecnico condiviso dovrebbe partire dalle capacità espressive che

discendono da questo brodo tecnologico primordiale di bit, arrivando ad

esaminare poi le estreme conseguenze di ri-mediazione e la sopraggiunta

complessità testuale del videogioco contemporaneo, le quali discendono

sempre e comunque dal progresso tecnico.

L’autore, allora, sarà un concetto utile e giustificabile solo con una

nozione debole di autorialità: dove la “debolezza” non si riferisce affatto

alla assenza di lucidità con cui si applica questo nozione, quanto nel grado

in cui questa viene utilizzata per riferirsi alla possibilità che essa si

identifichi profondamente con i soggetti: potrebbe allora essere insieme un

tecnico e un esteta, che negozia una propria inevitabile poetica personale (o,

persino, assenza della stessa) non potendo che collocarla in un orizzonte

condiviso. L’istanza autoriale, anche nel videogioco, assume allora

coordinate cangianti in un continuum in cui non è sostenibile una scissione

tra la tecnologia e la tecnica e le forme testuali che l’enunciatore – incarnato

o meno in un unico attore/autore – dispiega con un grado variabile di

intenzionalità.

2.9 - Uno, nessuno, centomila inventori

72

L’Adamo Videoludico – come il suo soggetto enunciatore - sarà

allora difficile da individuare quasi quanto l’Adamo che dovrebbe

confrontarsi con la teoria dell’evoluzione umana, e appare molto più

razionalmente come il risultato non univoco e in perenne evoluzione di una

lunga storia evolutiva. La pretesa di rintracciarlo in senso assoluto, e non

idealmente asintotico, rischia di degenerare in un poco lucido e molto

romantico creazionismo videoludico. Anche quello chi si potrebbe chiamare

con una metafora naturalistica il continuum filogenetico delle forme ludiche

è apparso sfumato, ibridato, confuso, e l’individuazione di queste “specie

semiotiche” videoludiche non può che risultare strettamente dipendente

dall’episteme che li individua, specialmente in una prospettiva che non

consideri l’espressione umana secondo compartimenti mediali stagni, ma

sia incline a superare l’apparenza dei mezzi e dei supporti per cogliere i

nessi tra le diverse forme espressive.

La questione solleva un rapporto problematico nella concezione della

tecnica e, a seguire, dell’arte e dell’estetica, nel cui novero non vediamo

contraddizioni particolari a inserire, dal punto di vista pragmatico, il mezzo

videoludico. Il videogioco, gettato nella mischia di problematiche estetiche

ormai consolidate sul piano della discussione teorica, si presenterebbe con

fardello del problema autoriale tutto suo ma in continuità con l’ orizzonte

filosofico dell’epoca. Rapporto tra tecnica e arte, tra autore singolo e

collettività della tecnica, tra riproducibilità e situazione dell’opera e della

pratica artistica, tra commercio e idea artistica “pura” sono contrapposizioni

formulate nell’ambito di ogni forma espressiva67.

Il bisogno di pervenire a una teoria dell’autore videoludico di questo

tipo, che potrebbe essere mosso da un eccesso di zelo positivista, non si

spiega tanto con la volontà di trovare una nozione critica in senso letterario

per l’autore, quanto con la necessità di trovare una teoria della testualità

videoludica (autore compreso) non-contraddittoria rispetto al panorama

mediale contemporaneo: all’interno di questo, il precetto romantico del

creatore dell’opera non si rivela sufficiente. Integrare la nozione di autore 67 Cfr. Colombo/Ruggero (2001)

73

del videogioco con quanto le critiche di altre forme espressive hanno già

elaborato in sede teorica, inserendo il videogioco in un contesto più ampio

ed esaminando le relativa affinità di diverse su campi distinti ma non

lontani, è un obiettivo che va rimandato rispetto al prossimo capitolo: in

questo esamineremo invece il primo caso di esplicita autorialità nel gioco

elettronico.

Capitolo 3

LA POLITIQUE VIDEOLUDICA

3.1 – Autore videoludico e orizzonte commerciale

Facendo arretrare il problema dell’autore fino a quello dell’inventore

del gioco elettronico abbiamo messo in luce i limiti di un ipotetico

“creazionismo videoludico”, senza negare a priori il ruolo dei soggetti

nell’impresa testuale del videogioco e pervenendo alla necessità di una

nozione debole di autore, che mediasse tra l’istanza enunciativa e il ruolo

dei soggetti. Rispetto allo sfondo della tecnica condivisa l’autore

videoludico è apparso mai del tutto solipsistico, e profondamente debitore

di un orizzonte enunciativo corale che rivela sempre uno scarto rispetto

all’opera personale del soggetto.

L’orizzonte commerciale del videogioco, con la connaturata

problematica estetica del prodotto di massa, è rimasto costantemente sullo

sfondo delle nostre argomentazioni, emergendo solo col parlare dell’aspetto

pragmatico, comunicativo e “commerciale” dell’enunciazione.

L’importante rapporto tra la dimensione industriale del gioco digitale e il

suo potenziale espressivo, inteso sia sul piano della ricerca linguistica sul

74

mezzo che su quello del problema della autorialità estetica, artistica e

intellettuale, viene toccato da questo capitolo, che presenta il primo caso di

autorialità esplicita dei testi videoludici.

Proveremo a suggerire una lettura dei “giochi d’autore” di

Activision, prodotti tra gli anni Settanta e gli Ottanta, attenta al rapporto tra

dimensione produttiva/industriale ed espressiva/estetica. La frattura artistica

e commerciale tra Atari e Activision è un territorio di scontro enunciativo,

di conflitto testuale privilegiato per indagare non solo le condizioni di

enunciazione di quei giochi (come di quelli di oggi), ma anche la riflessione

e la posizione dei soggetti rispetto al proprio fare tecnico e creativo. Tanto i

detrattori quanto i sostenitori di una visione autoriale e artistica del

videogioco dimostrano in quegli anni, con il loro agire, il sorgere di una

inevitabile riflessione intorno alla connotazione commerciale, estetica ed

autoriale del mezzo.

Si partirà, come sempre, dai testi e dalle loro condizioni di vita

storiche, nel solco di quanto già riscontrato nei capitoli precedenti, evitando

di pre-impostare l’analisi attraverso ben note ma ormai trite finte

contrapposizioni tra arte e prodotto o cultura alta e bassa. Lo sguardo al

prodotto culturale, infatti, ha spesso generato una mutua esclusione tra due

approcci (l’analisi della dimensione industriale e di quella estetica), con il

risultato di isterilire il dibattito intorno a categorie come quella dei

disinformati, degli apologeti, degli oltranzisti, degli apocalittici, degli

integrati, dei separatisti. Analizzare il prodotto culturale videoludico

partendo dal complesso discorso sull’estetica contemporanea rischierebbe, a

questo stadio del lavoro, di precostituire i risultati dell’osservazione

gettandoci direttamente nella mischia di dibattiti troppo ampi rispetto al

nostro obiettivo. Rimandando la riflessione specifica sulla natura artistica

del videogioco, interrogheremo alcuni testi le cui caratteristiche

enunciative, commerciali e di consumo si presentano emblematiche per

illustrare come l’inevitabile connotazione del videogioco come merce

75

prodotta a consumo di un target generi l’incontro e lo scontro tra logiche

commerciali e urgenze espressive e autoriali dei programmatori di giochi68.

Si inizierà illustrando sinteticamente il quadro commerciale, del

consumo e delle pratiche dell’industria videoludica nel periodo che segue

immediatamente a quello dei testi esaminati nel primo capitolo, in cui i testi

sono storicamente collocati. Si tratta degli anni a cavallo tra i Settanta e gli

Ottanta, durante i quali il sistema produttivo di Atari-Warner raggiunge

l’apice e, al contempo, crea i presupposti per la nascita delle case

indipendenti come Activision.

Dopo avere presentato il contesto economico in cui la forma

videoludica assume le sue prime coordinate di consumo di massa

presenteremo l’esempio di Adventure: qui, come in altri testi, si registra la

presenza a vari livelli testuali, dapprima in maniera occulta e

successivamente manifesta, del creatore del gioco. All’autore del gioco le

compagnie di produzione d’epoca negano infatti la presenza nei titoli

ufficiali, provocando in breve tempo la fuoriuscita di numerosi

programmatori, scontenti del mancato riconoscimento professionale, e la

nascita delle etichette indipendenti. Il caso di Adventure, come si vedrà,

non è che il preludio a una svolta importante nella concezione autoriale del

videogioco, la cui tappa esemplare è la frattura tra Atari, produttrice del più

importante sistema da gioco dell’epoca, e Activision, la prima software

house indipendente della storia. Sono proprio ex-programmatori di Atari a

fondare Activision, insoddisfatti del mancato riconoscimento come autori e

desiderosi di affermare la propria individualità espressiva e la paternità

delle proprie opere.

Nei testi seguenti si ritrova il senso della prima “politique des auteurs”

videoludica: il soggetto enunciativo desidera distinguersi dallo sfondo, si

articola in figure come quelle del bedroom coder, del game designer e del

produttore, utilizza categorie estetiche e intellettuali per definire il proprio

lavoro e non solo di natura tecnica. Il continuum soggetto/sapere condiviso

68 La questione rimarrà una domanda sullo sfondo nei capitoli di questo lavoro. Ci riserviamo, tuttavia, di esprimere alcune considerazioni nel corso del capitolo conclusivo.

76

che ha occupato il primo capitolo di questo lavoro sarà considerato nel

nuovo contesto industriale. Adotteremo una prospettiva attenta alla tecnica

sotto il profilo sociosemiotico per evitare di cadere nei semplicismi di una

prospettiva sociologica, di natura meramente descrittiva, che vedrebbe nel

contesto storico e geografico le condizioni per cui una data cultura

considera un videogioco un prodotto commerciale, perdendo di vista i reali

processi per cui il senso dei testi si esprime.

3.2 – Il videogioco di massa

Abbiamo lasciato Nolan Bushnell e Ralph Baer, “demiurghi” delle

pratiche videoludiche, sostenendo che essi, in fondo, non avrebbero fatto

altro che limitarsi a imitare l’opera di tecnici e ingegneri come Higinbotham

e Russell. Tuttavia, è proprio il loro tentativo di trapiantare la pratica del

videogioco nella sfera commerciale e nel contesto domestico e pubblico a

innescare il processo che porta all’inarrestabile successo della forma

videoludica, fino ad allora sperimentale, alla fruizione di massa. Se

l’impatto di Pong nella semiosfera è notevole Odissey, che non ha la stessa

fortuna commerciale, inaugura nondimeno il settore delle console da gioco

domestiche, destinato a diventare una delle direzioni fondamentali in cui si

articola l’insieme delle pratiche videoludiche. L’altra via al videogioco di

massa sarà quella delle sale giochi: ciò che Computer Space non era riuscito

a fare, avendo smarrito la via dell’interfaccia, riusciranno a fare i suoi

successori69.

I modi di giocare immaginati da Bushnell e Baer, insomma, si

propagano e affermano in poco tempo. Nasce un mercato nuovo

dell’intrattenimento, che trova nel gioco elettronico un segno dello spirito

69 Bittanti propone una distinzione per settori domestico, portatile e da sala giochi estremamente utile sul piano storiografico. Cfr. Bittanti (1999)

77

dei tempi e si dirama nelle direzioni delle arcades e dei salotti. Il

videogioco si afferma come medium di massa, inizia a ritagliarsi un settore

preciso e, al contempo, penetra fasce di consumo più ampie di quelle degli

acquirenti di ammennicoli per regali natalizi, entrando in contatto

sistematico con gli altri mezzi di comunicazione. Saremo costretti, per

motivi di ampiezza del fenomeno, a non concentrarci ulteriormente sui

rapporti tra videogioco e altri mezzi espressivi in questa fase della sua

storia70. Ci limiteremo a indicare come la transizione del videogioco

all’interno del contesto di produzione e di consumo pubblico in quanto

mezzo di intrattenimento di massa sia conseguenza dell’inevitabile

trapianto nella sfera pubblica di quella che era nata come una

sperimentazione tecnologica d’avanguardia.

Il videogioco cessa di essere sperimentazione informatica e diventa

vero e proprio prodotto perché, da un lato, la sperimentazione è ormai

compiuta, almeno nel senso in cui il nuovo mezzo ha effettivamente assunto

una forma propria e riconoscibile; e perché, dall’altro, nuovi soggetti

economici intraprendenti raccolgono il frutto di questa sperimentazione per

inserirla in contesti extra-scientifici. Secondo una prospettiva

sociosemiotica come quella che abbiamo adottato, sarebbe proprio la

differente applicazione di un bagaglio tecnico condiviso che consente al

nuovo mezzo di assumere pratiche nuove, trapiantandosi dai contesti di

ricerca scientifica all’industria dell’intrattenimento.

Lo spostamento di questi set di conoscenze d’avanguardia in nuove

pratiche di gioco, tuttavia, non è privo di conseguenze a ogni livello del

senso. Il testo, nel cambiare finalità pragmatiche e priorità comunicative,

muta, trasformando la propria interfaccia, operando configurazioni

paratestuali diverse, ripensando le proprie caratteristiche, continuando a

progredire secondo una nuova declinazione: lo avevamo già visto

analizzando Computer Space. È proprio nel momento in cui il videogioco si

trapianta in questi nuovi contesti che questi processi conoscono una

particolare radicalizzazione, spiegata dalla natura maggiormente 70 Si rimanda a Bittanti (1999)

78

competitiva, frenetica, popolare del contesto commerciale rispetto a quello

scientifico. Sarà proprio quello commerciale, d’altro canto, il profilo

prioritario sotto il quale continuerà ad evolversi la forma videoludica. In

questo senso, parlando di trasferimento dall’ambito scientifico a quello

commerciale non si intende affatto negare l’aspetto scientifico della ricerca

applicata ai fini commerciale, ma soltanto sottolineare le differenti finalità

di questi settori di ricerca.

La conseguenza di questa trasfusione sociosemiotica di cultura

determina il mutare delle condizioni di produzione dei testi videoludici.

L’elaborazione formale del videogioco, la sua anima fatta di progresso sul

codice e sull’hardware e di lavoro sulle interfacce, è allora contesa tra due

tendenze che convivono nella logica commerciale: una tendenza alla

diffusione, determinata dall’interesse commerciale suscitato, e una

all’accentramento commerciale, rincorso come obiettivo a colpi di brevetto

e querele su copyright e tecnologie. La sperimentazione formale che aveva

caratterizzato la formazione del testo videoludico delle origini, che

avveniva su un piano di condivisione scientifica, si sposta sul territorio

della esclusività commerciale, dello sprone alla ricerca per lo sfruttamento

esclusivo della compagnia capace di superare o precedere le altre.

È questa la nuova piattaforma dalla quale la nostra ricerca sull’autore

tenterà di raggiungere la bandierina successiva. Cambiando le condizioni di

produzione, l’enunciazione del videogioco perde le caratteristiche di libera

sperimentazione e una paternità saldamente ancorata a pochi soggetti che

collaborano secondo una logica di mutuo interesse, privo di finalità

commerciali e gerarchie produttive ufficiali. Contemporaneamente, tuttavia,

è proprio la logica commerciale e gerarchica della produzione aziendale

che, mentre nega nei fatti l’indipendenza del soggetto nel processo

produttivo, determina pure una prospettiva gerarchica di produzione in cui

il soggetto ha i presupposti, seppure “in negativo”, per una fase di

autocoscienza del proprio lavoro. Il videogioco viene identificato da

qualcuno come una moda passeggera, ma tra gli addetti ai lavori la fazione

più significativa è rappresentata da chi appare pronto a scommettere su

79

questa nuova, vera e propria scatola magica, dentro la quale concepire,

produrre, e presto ripensare il gioco – e i suoi profitti – nel paradigma

elettronico.

3.3 - Il programmatore da creativo a dipendente

Programmatori e game designer sono la materia umana portatrice

della tecnica condivisa videoludica. La generazione di creativi e tecnici

videoludici che è oggetto di questo capitolo ha l’onore storico e l’onere,

mentre crea giochi, di pensare ai presupposti del proprio lavoro. La ragione

storica più importante alla quale riferirsi per pensare all’autore al crocevia

tra espressione individuale e finalità commerciale è, per i testi prodotti in

questa fase, l’esistenza di una nuova organizzazione del lavoro all’interno

dell’industria del videogioco.

Il nuovo contesto di produzione è perfettamente descritto dalla

situazione di Atari. L’azienda era stata fondata da Nolan Bushnell, il

“creatore” di Computer Space, e aveva conosciuto un momento di floridi

guadagni dopo la produzione e l’enorme successo di Pong, che era stato

seguito da numerosi cloni e upgrade. Nel 1976, tuttavia, la compagnia si

trovava in difficoltà di natura finanziaria. La concorrenza sul piano delle

console casalinghe da parte della Fairchild Channell - la prima console che

poteva funzionare con cartucce intercambiabili invece di presentarsi come

un unicum hardware/software come Pong - aveva spinto Bushnell verso

l’ideazione di una console simile. Tuttavia, lo sviluppo di un hardware

necessitava di fondi, che latitavano. Piuttosto che vendere la compagnia e

tutto il lavoro creativo alla sua base, Bushnell lasciò che essa fosse rilevata

dal gigante dell’entertainment Warner Communications.

L’acquisizione di Atari da parte di Warner era una prova ulteriore

delle potenzialità del mezzo videoludico: i giochi elettronici sembravano

avere le carte in regola per non esaurirsi come una moda passeggera o come

un giocattolo di stagione commerciale, per assumere, al contrario, l’identità

di un nuovo mezzo espressivo. Tuttavia, la fusione tra le due compagnie si

80

sarebbe al contempo rivelata come un passaggio determinante per il mutare

delle prospettive di produzione del videogioco Atari.

Alla struttura “creativa” della prima compagnia, incentrata sulla

figura del game designer e sulla enfatizzazione della sua funzione creativa

nel team, si sostituisce ben presto un dirigismo rigido e orientato al

business. Prima della cessione a Warner, infatti, Atari non aveva una

strategia commerciale precisa, delineata e dagli obiettivi precisi e corredata

di un forte reparto di marketing e pubblicitario. Bushnell, che aveva fondato

la compagnia, aveva promosso un ambiente produttivo assai differente:

elastico, informale, scarsamente dirigistico. Bushnell era convinto

dell’importanza della componente ludica anche nel contesto aziendale:

collaborava alle catene di montaggio, aveva ideato una Games Room che si

offriva come valvola di sfogo dal lavoro e come occasione di relax per i

dipendenti. Quest’ultima, al tempo stesso, svolgeva la funzione di ambiente

di test dei giochi, che venivano provati e giudicati da tutti i dipendenti in un

clima affrancato dalle gerarchie lavorative. La nuova dirigenza imposta da

Warner, invece, era improntata all’esatto opposto. Il nuovo manager della

direzione consumer, Kassar, era “l’incarnazione vivente della corporate-

consumer culture” 71, ossessionato com’era dall’ottimizzazione, dalla

limitazione della sperimentazione non necessaria, dall’attenzione sulle

ragioni di marketing. Kassar era anche contrario alla Games Room e alla

condotta informale dei dipendenti sul posto di lavoro.

Con le dimissioni di Bushnell, avvenute in breve tempo, Atari

subisce un processo di profondo ripensamento, assumendo una struttura

dirigistica più rigida, vedendo cancellate le prospettive dei reparti di ricerca

in sviluppo in funzione di una maggiore attenzione sul marketing

consumer-oriented, e conoscendo un codice di condotta più regolare per i

propri dipendenti. È proprio nel corso della frattura tra reparto produzione e

marketing che il ruolo del game designer viene fortemente ridimensionato.

71 La polarizzazione tra il dirigismo corporativo della grossa azienda e l’etica informale e libertaria del pensiero hacker appare come un tratto fondativo della cultura e dell’industria informatica, al punto da essere stata a tutti gli effetti trasformata in una mitologia umoristica che trova persino il suo merchandise nella glorificazione del geek informatico. Cfr. i prodotti in vendita su un sito cult come www.thinkgeek.com.

81

Il “creatore” del gioco, prima un creativo-tecnico che aveva imparato a

lavorare come un artista di bottega con gli strumenti del digitale, viene

declassato a dipendente, venendo pagato a tempo e vedendo preclusa la

possibilità di firmare i propri giochi: questi ultimi avrebbero dovuto

presentarsi al pubblico con il solo marchio della compagnia.

È nel momento in cui il videogioco si presenta in tutta la sua

potenzialità davanti agli occhi del sistema corporativo dell’intrattenimento

che le possibilità di concepirne la portata espressiva sotto il profilo

individuale vengono in un certo senso negate, ed esso appare più che mai

come un prodotto. Nell’enunciazione videoludica come viene intesa da

Warner, il saper fare collettivo torna ad assumere un ruolo preponderante

rispetto al soggetto creativo. Il fine commerciale esclude gli eventuali

obiettivi espressivi del programmatore o, come minimo, ne cancella

l’identità in riferimento al gioco e, di conseguenza, la possibilità che esso

venga inteso come autore di un’opera. L’unica enunciazione enunciata

possibile è, allora, quella che coincide con la totale trasparenza autoriale,

sancita da un marchio72.

Il contraltare di questo rigidismo industriale è che la tecnica

condivisa e le forme ludiche che da essa scaturiscono vengono “congelate”

a uno stadio assunto come paradigmatico, senza che si lavori per farle

progredire o mutare. Durante la dirigenza Atari del secondo periodo la

testualizzazione del videogioco si presenta con caratteristiche spesso seriali.

Si assiste, accanto a limitati casi di sperimentazione e creazione di testi

originali, allo sfruttamento esteso di variazioni sulle stesse strutture ludico-

formali, nonché a un riposizionamento estetico dei giochi attuato attraverso

strategie che esaltano per via paratestuale i corredi figurativi dei giochi.

Molto spesso è la copertina, il nome, lo sport suggerito a distinguere la

maggior parte dei titoli, piuttosto che la differente forma ludica che

presenta.

72 Sulla trasparenza dell’autore, o sull’autore come assenza di stile, si veda Gandini (1998). Si rimanda in dettaglio al capitolo successivo.

82

Da un lato, allora, il trapianto del videogioco come agglomerato

tecnico-espressivo su una logica puramente commerciale ne accelera le

condizioni di evoluzione, trasformandolo in una pratica di massa per la

quale i soggetti commerciali in gioco sono interessati a concepire nuove

forme e a sfruttarle a proprio vantaggio. Dall’altro, tuttavia, la condizione di

quel particolare paradigma commerciale impone al videogioco una

cristallizzazione su caratteristiche stereotipiche. Una forma ludica di

successo, infatti, risponde all’imperativo commerciale della massima

ottimizzazione delle risorse e degli investimenti in senso di suggestione

estetica e pubblicità, che appaiono ben maggiori di quelli relativi al codice-

testo inteso come forma ludica nuova, esito di sperimentazione tecnico-

creativa. È allora la costellazione paratestuale ed epitestuale del testo che va

a determinare, in base a una logica già multi-mediale e del tutto “integrata”,

le condizioni di posizionamento pragmatico e di seduzione rispetto al

potenziale acquirente nell’enunciazione del testo. Già da questo periodo, il

videogioco inizia a essere considerato un tassello del più vasto settore

dell’entertainment industriale.

Precedentemente, avevamo assegnato all’identità del cosiddetto

“autore” del primo videogioco uno statuto puramente ideale, debole, per

rendere conto, nonostante l’esistenza del lavoro di singoli individui, della

natura collettiva e condivisa degli strumenti tecnici ed espressivi che questi

adoperavano. Mantenendoci in linea con questa forma mentis, non

possiamo fare a meno di notare la radicale negazione dell’autorialità del

videogioco che discende dalla politica commerciale della Atari di Warner.

Nel momento in cui il videogioco non è tanto un singolo testo, risultante

dalla ricerca di una manciata di soggetti che adoperano strumenti comuni,

ma un progetto commerciale, rispondente a logiche produttive pianificate e

messe in atto da una collettività di soggetti che devono soddisfare un vasto

consumo di intrattenimento, la figura dell’autore si presenta con il più alto

grado possibile di dispersione, debolezza e inconsistenza.

In fondo, non si dovrebbe radicalizzare la differenza tra il testo

videoludico frutto del lavoro di ricerca scientifica di alcuni dipendenti di un

83

istituto informatico da un lato e, dall’altro, il testo videoludico come

prodotto di un lavoro collettivo e industriale di una corporazione

dell’entertainment, che subordina i singoli soggetti e la tecnica a un fine

comunicativo e commerciale. Una differenza profonda tra queste due

letture dei testi risiede in parte da un residuale dislivello che non pochi

continuano a iscrivere nella concezione del testo definito “opera” piuttosto

che “prodotto”73. Sul piano testuale, le stesse differenze che è possibile

rinvenire sul livello enunciativo tra Tennis for Two di Higinbotham e

Odissey di Baer continuano a presentarsi nei cloni e negli update

commerciali più vieti e non originali. La differenza principale sta piuttosto

nel fatto che l’enunciazione videoludica di Warner-Atari appare, allo

sguardo sociosemiotico, come un processo di produzione di massa la cui

enunciazione è un processo altamente condiviso e negoziato, nel quale i

soggetti non possono specchiarsi e rintracciarsi se non nel senso del lavoro

collettivo o dell’adeguamento agli obiettivi comuni.

Subordinati alla negazione del concetto di autore, tuttavia, si trovano

gli stessi soggetti che contribuiranno alla affermazione di una esplicita

politica e poetica dell’autore videoludico. È sempre e comunque

dall’ambivalenza del programmatore nel sistema produttivo che si

delineano i presupposti per un simile programma, in cui si esalterà la

massima coincidenza possibile tra il gioco come opera e il suo creatore.

3.4 – Adventure

Adventure era originariamente una avventura testuale, tecnicamente

pionieristica. Programmato da Will Crowther e Don Woods, interamente

giocabile secondo una logica ipertestuale narrativa con comandi a testo e

nessun elemento figurativo, Adventure rappresentava la via primigenia del

video-gioco di ruolo ad albero di eventi e interfaccia testuale. Il testo che

prendiamo in esame non è questo Adventure, ma una sua “conversione” in

avventura grafica effettuata da Warren Robinett, un programmatore di Atari 73 Ancora una volta, rimandiamo gli appunti sul dibattito sulla cultura di massa al capitolo conclusivo.

84

all’epoca delle firme negate sotto dirigenza Warner74. Parlare della

conversione per Atari di Adventure da parte di Robinett è particolarmente

interessante perché presuppone tanto la determinazione del lavoro creativo

insito in una profonda ri-programmazione di una forma ludica già elaborata

quanto, con la presenza di una firma nascosta del programmatore, la sua

auto-affermazione occulta.

3.4.1 – L’Autore-Traduttore

Il primo Adventure interagiva con il giocatore esclusivamente a

mezzo testo. Era una sorta di immenso universo fantasy ipertestuale,

descritto con stringhe testuali che presentavano al giocatore la sua

posizione, la presenza di oggetti e personaggi nel luogo in cui si trovava, e

le possibilità che aveva: quella di raccogliere oggetti e trasportarli, di

dirigersi in varie direzioni, di analizzare i dintorni, e così via. Una

interazione di questo tipo richiedeva una grossa quantità di memoria per il

giocatore ed era del tutto normale interagire con il testo affiancando ai

comandi di testo mappe e indicazioni cartacee appuntate durante le sessioni

di gioco, tracciando un ideale filo di Arianna cartaceo che aiutasse ad

orientarsi nel labirinto ipertestuale.

La conversione di Robinett del testo scritto da Crowther e Woods è

una riscrittura radicale, il cui esito è considerabile come un vero e proprio

nuovo testo: si tratta di una vera e propria traduzione intersemiotica tra

forme espressive diverse, durante la quale la logica formale del gioco viene

mantenuta ma il suo linguaggio interamente cambiato75. La differenza

principale dell’Adventure riscritto graficamente da Robinett sta nel

linguaggio descrittivo del gioco, che diventa, appunto, grafico e determina

non solo un nuovo aspetto ma un diverso tipo di interazione. Invece di

comandare un simulacro con stringhe di testo dalle struttura “sostantivo-

verbo” in un ambiente esteticamente del tutto virtuale e pragmaticamente

74 Una biografia di Warren Robinett è disponibile all’URL http://www.warrenrobinett.com/. 75 Sul tema della traduzione intersemiotica cfr. Pozzato (2001)

85

inferito dalle descrizioni dell’autore e dalla copertina disegnata, come

nell’originale, il giocatore di Adventure di Robinett sposta il simulacro in

tempo reale utilizzando il controller, e osserva stanze descritte e

ammobiliate da elementi grafici, oggetti e figure, per quanto esteticamente

rudimentali. La mappa di gioco è ora esplorabile semplicemente muovendo

il joystick della console Atari e spostando il simulacro del personaggio.

L’universo del gioco veniva mostrato a una stanza per volta: raggiunti i

bordi di una stanza dotati di punti di uscita, il giocatore avrebbe continuato

il percorso nella stanza successiva.

La conversione di Adventure in forma grafica è semioticamente

interessante da una pluralità di prospettive. Una di queste, non centrale ai

fini del nostro discorso sull’autore, è quella relativa all’ambiente di gioco e

all’interazione con un testo prima verbale e ipertestuale e poi

ipertestualmente “denso” e grafico76.

Un altro motivo di interesse è lo scarto nella scrittura dei due testi al

livello enunciativo, evidente nella stessa forma interattiva e nella sostanza

dell’espressione: la differenza tra i testi è tale che, più che di conversione, si

può parlare di un’opera di traduzione intersemiotica dalle caratteristiche di

quasi intermedialità. Nonostante l’apparente unità del mezzo videoludico,

riscrivere Adventure in grafica partendo da un ipertesto verbale non

dovrebbe essere stato, in fondo, troppo dissimile dal riscrivere un’opera in

giambi in prosa, un fumetto in un romanzo, e così via.

Un terzo motivo di interesse, che discende dal precedente, è il mutare

dei set di tecnica condivisi in funzione del tipo di espressione scelto in sede

enunciativa. L’Adventure originale era particolarmente in continuità con la

cultura dei giochi di ruolo e delle sperimentazioni sugli ipertesti narrativi, e

per questo motivo era considerabile una vera e propria immissione di quella

forma ludica nel nuovo dominio del digitale. La sua conversione non muta

semplicemente il registro espressivo. La figurazione grafica, il controllo dei

pixel in tempo reale tipico della nuova forma videoludica e la nuova veste

76 Non possiamo soffermarci su questo, ma rimandiamo ad altri testi, come Maietti (2004) e Cosenza (2003), il lettore che volesse approfondire questo aspetto della testualità videoludica.

86

espressiva non si limitano a variare la percezione estetica ma presentano un

gioco nuovo: qui la densità degli spostamenti negli ambienti, la rapidità

dell’interazione richiesta e le ormai diverse competenze sul piano cognitivo

sono difficilmente comparabili a quelle del testo ispiratore. Parte di questa

mutazione del testo originario è dovuta alle limitazioni della memoria sul

nuovo supporto su cui operare la conversione del gioco a testo originale, per

cui Robinett avrebbe deciso di risparmiare memoria descrivendo

graficamente un numero più limitato di ambienti invece di fornire la

struttura logica e verbale di un immenso universo.

Sotto questa prospettiva il gioco digitale si presenta già altamente

stratificato sul piano dei linguaggi disponibili: il videogioco dimostra sin

dagli albori della sua storia la capacità derivante dall’organizzazione

digitale dei contenuti di presentarsi secondo forme mutevoli, la plasticità e

versatilità sul piano formale, la tendenza a sfuggire definizioni univoche

ricalcate sui singoli testi. In questo senso, l’opera di Robinett è interessante

perché mostra ancora una volta il lavoro del tecnico-creativo del gioco

informatico sotto il profilo dell’utilizzo dei diversi set di cultura di

programmazione condivisi e utilizzati. La cifra del testo-Adventure

convertito da Robinett consiste in un insieme di tecniche di

programmazione in parte diverse da quelle che avevano consentito la

programmazione del primo gioco. Il passaggio da un Adventure testuale e

ipertestuale a uno grafico e più densamente interattivo potrebbe allora

essere considerabile come uno shift tra “stili” videoludici o, ancora, tra

“generi”77.

Ancora una volta, stabilire se Robinett sia un autore discenderebbe

dalla prospettiva adottata. Da un lato, il suo lavoro comprendeva la

programmazione come la creazione della grafica e del suono del gioco. La

sua scrittura portava quindi il linguaggio videoludico ad esprimere e far

fruire del senso interattivo nuovo, originale. Robinett, d’altro canto, non

77 Nel parlare di stili e generi non si intende avviare un’operazione di catalogazione arbitraria della testualità videoludica dei primordi: si vuole soltanto evidenziare un sopravvenuto salto di varietà enunciativa nel sistema di produzione dei giochi, che inizia a differenziare i vari tipi di testualità del videogioco secondo variazioni di carattere strutturale, estetico, commerciale.

87

era il solo programmatore dell’epoca a ricoprire ogni aspetto del processo di

scrittura dei videogiochi: la semplicità grafica e la dipendenza da hardware

molto limitati rendevano inutili e anzi impossibili la separazione tra

l’aspetto del codice e il lavoro estetico, che si concentrava spesso in un solo

paio di mani. Robinett, quindi, non sarebbe l’unico.

L’aspetto più interessante è che non siamo noi a definire Robinett

sotto il profilo autoriale: Robinett stesso, contravvenendo alla politica

dell’anonimato di Atari, fa comparire il proprio nome da un anfratto segreto

del testo, presentendosi come suo autore soltanto a chi fosse stato capace di

esplorarlo a fondo78. Si trattava di un easter egg.

3.4.2 – Una passeggiata tra i boschi interattivi

Le easter egg, letteralmente “uova di pasqua”, sono segreti nascosti

nel gioco: aree che non si mostrano in maniera evidente, bonus di natura

interattiva o grafica, messaggi e parti di gioco nascoste. Si tratta, in linea

generale, di “premi” per il giocatore competente e performante sul piano

ludico, nascosti a margine del testo principale e che si offrono solo al

giocatore che è capace di scovarli esplorando a fondo o esaminando indizi

testuali inconsueti.

Robinett, portando a termine la programmazione della conversione

di Adventure, decide di inserirne uno all’interno del codice. Quello di

Adventure è il primo easter egg della storia videoludica: lo stesso termine

deriva dal modo in cui fu definito per la prima volta da parte della stampa

specializzata. La ragione della sua forte peculiarità, inoltre, non risiede

tanto nella caratteristica grafica o nella modalità strutturale per cui si

raggiunge questo “pezzo” segreto di gioco, quanto nel messaggio dispiegato

dalla sua scoperta.

Durante la programmazione di Adventure, Robinett aveva lavorato

per aggirare alcuni dei limiti di memoria del sistema su cui intendeva 78 Curiosamente simile la vicenda di Griffith, che alla fine de L’Orgoglio degli Amberson recita il suo nome.

88

riscrivere il gioco. In primo luogo, la totalità dell’universo di gioco fu

ridimensionata. La caratteristica di trasportare oggetti, che nella prima

versione testuale del gioco non conosceva dei limiti, era limitata a un

oggetto per volta sul gioco per Atari. Robinett decise che la caratteristica di

trasportare oggetti sarebbe stata sfruttata per offrire una stanza segreta

virtualmente inaccessibile. Dopo aver creato la stanza, la posizionò in un

punto del labirinto e ne creò una seconda, particolarmente inaccessibile e

inappetibile, visto che era raggiungibile soltanto utilizzando l’oggetto-scala

e si presentava apparentemente priva di ogni ricompensa sotto forma di

snodi spaziali o oggetti utili per il giocatore. Soltanto chi avesse costruito

una mappa mentale o cartacea del gioco si sarebbe accorto dell’esistenza di

questa stanza. La stanza in questione conteneva un oggetto magico, il più

minuscolo formante figurativo: un singolo pixel di colore grigio, lo stesso

dello sfondo, che il giocatore particolarmente esplorativo avrebbe

“agganciato”, scoprendo che era possibile trasportarlo. Neanche il ruolo di

oggetto magico, tuttavia, era definito in maniera esplicita. Soltanto il

giocatore talmente paziente da percorrere in lungo e in largo il labirinto

trasportando questo punto - e rischiando facilmente di perderlo e

confonderlo con lo sfondo - avrebbe infine scoperto che, trasportandolo,

sarebbe stato possibile attraversare un particolare muro ed entrare nella

stanza segreta. In questa stanza, l’intera palette dei colori disponibili

avrebbe composto il nome del programmatore [immagine 7].

Secondo le dichiarazioni di Robinett, l’intero gioco divenne un

pretesto per un esperimento: capire se qualcuno avrebbe mai potuto

concepire una esplorazione così profonda del suo gioco da scoprire la

stanza segreta ed entrarvi. Robinett, d’altronde, mantenne segreta

l’esistenza della stanza anche ai suoi colleghi di lavoro. Con costi di

produzione che si aggiravano intorno ai cinquemila dollari al gioco,

concepire quel contenuto occultato aveva sottratto il cinque percento della

memoria disponibile, e Robinett temeva di poter essere licenziato da Atari,

che come si è detto non considerava plausibile l’ipotesi di far comparire i

nomi dei programmatori dei giochi.

89

Con grossa sorpresa dell’autore, l’esistenza della stanza segreta fu

infine trovata nel 1980, quando Robinett aveva già lasciato Atari e la

compagnia aveva venduto trecentomila copie del gioco da lui programmato.

La scoperta del segreto fu una grossa sorpresa e creò uno dei primi e più

famosi episodi della storia della critica videoludica, quando i redattori di

Electronic Games definirono la stanza un “easter egg”. Il fatto che Robinett

avesse creato da solo il gioco e che il test di produzione non lo avesse

passato a un setaccio fine quanto quello di un giocatore accanito

affermarono Robinett come una sorta di programmatore-autore, capace di

manifestarsi dall’interno del gioco e stringere metaforicamente la mano al

giocatore eccellente bypassando le maglie della struttura produttiva.

Ecco spiegata, la particolare importanza di un testo come Adventure

e della sua porzione nascosta, strettamente connessa alla crescente necessità

di riconoscimento autoriale rivendicata dai programmatori dei giochi in

contrasto con un assetto industriale spersonalizzante. In Adventure l’easter

egg produce una traccia che sfonda il presupposto di impersonalità del

prodotto videoludico e lo rivela in quanto opera di un individuo: questo

ponte tra processo enunciativo e soggetto si ripiega e narcotizza rispetto al

piano più evidente del testo ma vi sono tracce testuali che, interpretate con

particolare attenzione, lo portano allo scoperto. In una struttura produttiva

in cui i programmatori avevano accesso alle aree di lavoro utilizzando

tessere magnetiche che registravano i loro accessi e le loro assenze dai posti

di lavoro, Adventure si presenta con una caratteristica che bene esemplifica

il doppio ruolo dell’autore: presente e nascosto al contempo, negato e

affermato a livelli diversi del testo come nel presupposto enunciativo. In

questo terreno del testo, liminare e occultato, si produce quindi un aggancio

tra creatore del testo e l’iper-giocatore, il giocatore ideale a cui Robinett

tende la mano.

3.4.3 – Dal creatore modello al creatore reale

90

L’operazione di Robinett, è ben spiegata dal concetto di Lettore Modello.

Lettore Modello e Autore Modello sono presupposti logici implicati dal

testo, da non confondere con l’autore e il lettore empirici. Eco propone

questi potenti ed elastici strumenti analitici per offrire alla semiotica uno

strumento capace di spiegare i processi alla base dell’interpretazione

cooperativa nei testi letterari e non. Il vantaggio delle nozioni di Lettore

Modello e di Autore Modello è quello di studiare i processi di

significazione e comunicazione del testo e la cooperazione interpretativa

come viene presupposta dai testi in quanto dotati di un’istanza pragmatica

immanente. In seconda battuta, ciò consente di considerare i soggetti in

carne e ossa senza confondere il piano dei processi semiotici con quello

della cronaca biografia e delle intenzioni dell’autore o con il contesto e le

competenze del lettore reale79.

In Adventure Autore Modello e Lettore Modello sono allora,

secondo una lettura semiotica, istanze presupposte dalla componente

pragmatica insita nel gioco. Tuttavia nel gioco l’Autore Modello tende, a un

livello testuale non in primo piano, a costruire una coincidenza con l’autore

reale. Al Lettore capace di leggere l’agenda interattiva nascosta del gioco,

infatti, l’Autore inteso come istanza del testo si svela come autore in carne

ed ossa.

Il dato più interessante è allora la configurazione del progetto

pragmatico di Adventure. Dal piano più evidente e superficiale del testo

l’enunciazione di Adventure si mostra completamente trasparente rispetto al

soggetto autoriale. Avevamo inteso operativamente questo soggetto come

colui che, coincidendo in maniera variabile con l’istanza enunciativa,

attualizza attraverso le tecniche condivise un testo informatico nuovo. Le

tracce dell’enunciazione lasciate nel testo corrispondono in effetti a quelle

di un progetto dotato di una doppia lettura possibile, la più profonda delle

79 Su Lettore Modello e Autore Modello cfr. Eco (1979). Per il videogioco Maietti ha proposto, ispirandosi al modello echiano, le figure del creatore modello e del giocatore modello. In questo lavoro non ci riferiremo a queste nozioni perché esse ci appaiono particolarmente funzionali alla riflessione su quello che Maietti definisce il lettore terminale: l’osservatore, cioè, della stringa finale, “narrata” a quest’ultimo per mezzo di chi gioca al gioco contribuendo a creare la prima. Nel nostro contesto di analisi la nozione appare superflua: pur essendo utile e potenzialmente estendibile a tutti i tipi di testi, essa esalta un aspetto che non è sempre fondamentale per l’aspetto pragmatico col giocatore.

91

quali è incentrata sulla opacizzazione dell’enunciazione in termini autoriali.

Il progetto di Robinett è uno sfondamento dell’impersonalità enunciativa e

di re-integrazione di questa a se stesso: a un livello nascosto questa si

opacizza e Robinett la riveste interamente, invadendo il testo con il suo dato

biografico e interpellando il giocatore reale.

La clandestinità dell’operazione appare significativa: l’autore, a cui

non è concessa esplicita identificazione con la regia del gioco, ritorna dalla

finestra, si mostra come operatore testuale occulto rispetto al paratesto che

vende il gioco, crea un dialogo privato con il giocatore proprio dove i

presupposti di personalità di entrambi si trovano negati. Ma la logica della

scoperta dell’autore afferma anche il nome del giocatore-esploratore, il cui

nome sarà ricordato negli annali per essere stato il primo a esplorare e

rivelare l’anfratto testuale80.

Sostenere che l’enunciazione di Adventure si presenta con una

hidden agenda che mira allo svelamento della identità del creatore reale non

equivale a negare l’utilità delle istanze e dei processi enunciativi piuttosto,

mettendo al centro la cronaca e la descrizione delle persone e dei contesti

reali. Senza una nozione semiotica come quella di autore modello avremmo

rischiato di confondere il modo in cui il testo comunica per le effettive

intenzioni o la psicologia di Robinett; leggere con strumenti semiotici

l’Eastear Egg in Adventure ha invece seguito il percorso inverso: partendo

dai processi pragmatici così come vengono presupposti dal testo li si è

agganciati a una lettura pragmatica del testo sociosemioticamente situata. Il

caso della stanza segreta con il nome di Robinett non si risolve allora con la

semplice descrizione nel senso storico e biografico ma spiega le strategie

tutte testuali ed enunciative dei prodromi dell’autorialità del videogioco

dell’epoca..

80 In questo senso, una parallela e interessante storia dei videogiochi potrebbe anche essere scritta dalla prospettiva dei giocatori dei giochi: dalle iniziali che campeggiano in memoria nei giochi arcade, fino alla cultura del nickname online e ai tornei multiplayer, anche il giocatore si costruisce in antitesi a una visione spersonalizzata e interamente prevista dal testo, all’interno di un mondo di classifiche online e tag, di un universo performativo pubblico. Recentemente, il giocatore è diventato la star dei cosiddetti e-sports, tornei di videogiochi che ne esaltano il carattere cognitivamente pressante e fisiologico dell’interazione considerandoli sport a tutti gli effetti.

92

Anche per Adventure è giusto constatare come il testo vada

considerata tanto nella sua indipendenza come tout de signification quanto

nella sua tendenza a produrre o presupporre appendici paratestuali ed

epitestuali. Così, i giocatori si muniscono di aiuti extra-testuali come le

mappe autoprodotte, che fungono da operatori paratestuali di supporto alla

competenza mnemonica necessaria per affrontare il labirinto dell’ambiente

di gioco [immagine 8]. Chi ha svelato la mappa segreta è diventa peraltro

un lettore reale, visto che la sua funzione di lettore modello sul testo è stata

travasata nell’epitesto storico-critico con il suo nome reale. Quel che appare

più significativo è comunque il fatto che il caso Robinett getta le basi per

una presa di posizione di altri programmatori di giochi elettronici,

diventando un esempio di rivendicata autorialità destinato a influenzare

l’evoluzione della consapevolezza espressiva dei programmatori.

È in quest’epoca della produzione di videogiochi che inizia a

registrarsi una tensione tra l’enunciazione in quanto processo che attualizza

le virtualità della tecnica e i soggetti reali che debrayano il testo, tra

negoziazioni come corto circuiti. La scrittura del testo videoludico

tecnicamente intesa è spesso opera di un solo soggetto, ma la componente

paratestuale e gli intenti comunicativi e commerciali del prodotto

videoludico sono esito di un sistema produttivo che considera il

programmatore come un ingranaggio, negandogli firma e ruolo creativo. In

questo senso, in Adventure è iscritta una doppia finalità testuale: rientrare

nell’enunciazione collettivamente negoziata e impersonale, e sfondarla di

nascosto al livello del lettore ideale81.

Quanto affermato, in ogni caso, va leggermente ridimensionato.

L’Easter Egg in Adventure opera, in un certo senso, un’idealizzazione del

rapporto tra giocatore ideale e soggetto creatore e dell’idea autoriale. Il

testo è commercializzato e giocato come un prodotto di intrattenimento

pubblicato da una compagnia specializzata, e tale rimane la sua lettura

primaria. Il background produttivo Atari è comunque un presupposto del

81 In questo senso, Adventure potrebbe avere due lettori modello: uno “comune” e uno “ideale”, capace di pervenire alla lettura più nascosta del testo.

93

lavoro di Robinett, il quale si esprime reclamando la propria identità con

secondi fini che, per quanto raggiunti, restano un’eccezione in Adventure.

3.5 – La politique di Activision

Il motivo per cui ci siamo dedicati ad Adventure dalla prospettiva del

Lettore Modello è che questo testo è sintomatico di una futura “polemica

enunciativa” intorno all’autore videoludico. La tensione tra autore e

compagnia si sarebbe radicalizzata, fuoriuscendo dai meandri del testo.

Emblematico è a questo proposito il caso della frattura tra Atari e gli ex-

programmatori che, fuoriusciti dalla compagnia, avrebbero fondato la prima

software house indipendente della storia videoludica: Activision. Negli anni

a seguire, l’esplosione di software house indipendenti avrebbe cambiato la

storia del gioco elettronico82.

3.5.1 – Autori, manager e avvocati

Warren Robinett non era il solo dipendente di Atari a mostrarsi decisamente

scontento della politica sul ruolo dei programmatori all’interno

dell’azienda. Il malessere serpeggiava: sul finire degli anni settanta, come

conseguenza dalla nuova politica adottata dopo l’acquisizione da parte di

Warner, prenderà piede in seno ad Atari una vera e propria migrazione di

designer e programmatori, divenuti linfa vitale per l’esplosione delle

software house indipendenti tra il 1980 e il 1982.

Il primo fuoriuscito di Atari è Alan Miller, uno dei primi

programmatori assunti della compagnia. Nel 1979, mentre Robinett lavora

su Adventure, Miller ha le idee chiare: per lui il game design è un’arte, non

un applicazione meccanica della tecnica da eseguire a cottimo. Miller, ben

presto, non è più disposto a sottostare a una politica aziendale che nega

l’identità del programmatore nei crediti dei giochi e lo ricompensa con le

82 La prima software house indipendente a seguire Activision sarebbe stata Imagic, anch’essa fondata da ex dipendenti fuoriusciti dalla Atari di Kassar.

94

briciole dei proventi. All’epoca, Atari contava venti programmatori e

designer, che retribuiva per il loro lavoro specializzato con contratti simili

sul piano economico a quelli di basso profilo per musicisti e scrittori. La

dirigenza assoldava il lavoro dei programmatori senza offrire loro la

paternità delle opere che, pure, quasi sempre realizzavano praticamente da

soli. Kassar tentava di chiudere un occhio sulla condotta decisamente anti-

convenzionale, tipica di una certa cultura hacker e hippie, di molti dei

coder, ma questo cambiava di ben poco l’ambiente di lavoro del nuovo

corso aziendale.

Dall’insediamento di Kassar fino a quel momento i proventi di Atari

avevano conosciuto prima una fase di stagna, dovuta a un comparto di

design imbrigliato nella logica commerciale dei cloni di Pong e,

successivamente, una decisa impennata, dovuta alla conversione per la

console Atari di Space Invaders, un gioco arcade di incredibile successo.

Miller, a questo punto, consapevole dello scarto tra l’aspetto creativo e

tecnico e l’effettivo ritorno in termini di soldi e prestigio per i

programmatori, decide di prendere l’iniziativa per conquistare un maggiore

riconoscimento come programmatore, una retribuzione più adeguata come

tecnico, e in generale un profilo artistico ben diverso da quello che Kassar

prevede per i dipendenti della compagnia.

Una volta raccolto il consenso di Crane, Whitehead e Kaplan,

colleghi di lavoro, Miller interpella il manager della divisione consumer

John Ellis. Insieme a George Simcock, questi espongono a Kassar i motivi

della propria insoddisfazione. La risposta di Kassar è prevedibile: piuttosto

che retribuire i propri dipendenti secondo un profilo decisamente più

elevato e di cambiare politica commerciale, avrebbe potuto facilmente

rimpiazzarli con altri sei programmatori. Miller, deciso fino in fondo a

mettersi in proprio, decide allora di rivolgersi a John Decuir, un ingegnere

fuoriuscito di Atari che aveva fondato una propria azienda, per chiedergli a

quale studio legale si fosse affidato per essere al riparo da problemi con

brevetti e proprietà aziendali. Il punto cruciale del progetto di Miller, quello

di creare una software house indipendente con la quale sviluppare e vendere

95

giochi che funzionino con l’hardware di Atari, è infatti il problema del

patent infringement sulla tecnologia.

Miller e gli altri fondano Activision. La possibilità di successo della

nuova compagnia, che apre nel 1980 e riunisce in breve tutti i

programmatori che si erano uniti nella causa contro Kassar, sono date come

bassissime dagli addetti ai lavori. In primo luogo, non si vede la ragione per

cui il pubblico debba rivolgersi ad altri giochi, quando l’offerta Atari copre

in effetti “ogni genere di gioco” conosciuto83.

In secondo luogo, sono in molti a pensare che Atari non sarebbe stata

disposta a tollerare la produzione di giochi per la sua console da parte di

una terza parte commerciale. La seconda previsione si rivela giusta. La

prima, tuttavia, appare errata. I giochi prodotti dalla nuova compagnia,

infatti, iniziano a erodere e non di poco la base di vendita di quelli Atari,

presentandosi con una grafica a schermo più accattivante e con meccaniche

di gioco innovative. I giochi prodotti da Miller, Crane, Whitehead e Kaplan

erano superiori pur girando sullo stesso hardware perché i programmatori,

non senza una maggiore passione sostenuta dalla ottenuta indipendenza e

dal riconoscimento esplicito del proprio lavoro, incarnano di fatto lo stato

dell’arte dell’epoca, sono in grado di aggirare limiti tecnologici maggiori,

hanno una visione del game design più completa e il totale controllo

creativo sul prodotto.

I giochi Activision si presentano con una esplicita concezione

autoriale: il manuale si presenta con un’intera pagina dedicata alla foto e

alla biografia del programmatore, illustra caratteristiche del gioco e

interpella direttamente il giocatore invitandolo a scrivere all’autore dei

propri progressi. Sul retro della confezione e, spesso, sulla copertina, oltre

al marchio Activision è presente la firma.

Atari, che desiderava impedire a terzi di pubblicare software per la

propria piattaforma tecnologica, aveva portato in tribunale Activision prima

83 Come abbiamo già avuto modo di far notare, il “genere” era largamente inteso come il tema del gioco, e non solo la sua effettiva originalità sul piano delle meccaniche di interazione con lo schermo e la macchina. Il posizionamento dell’estetica era fondamentale per “spalmare” temi diversi e vendere prodotti spesso estremamente simili sul piano formale e interattivo.

96

ancora che questa riscuotesse successo con i primi giochi, iniziando inutili

azioni legali durate per un anno e mezzo. I proventi di Activision avrebbero

reso ben presto immensi profitti ai programmatori, che avrebbero visto

centuplicati i propri proventi grazie a una ristabilita centralità nel processo

produttivo e al supporto di team economico-manageriali assoldati a

supporto dell’aspetto creativo-tecnico.

Activision è la scintilla che appicca l’incedio. Subito dopo sarebbe

stato il turno di Imagic, fondata da Grubb e Bradley nonostante il

disappunto e le esplicite minacce da parte di Kassar, che iniziava a vedere i

propri programmatori scomparire a frotte dai ranghi della compagnia. La

situazione è tale che le cronache riportano come i pochi rimasti in Atari,

Robinett incluso prima del suo tardivo autolicenziamento, avessero fondato

in un momento di ubriachezza il cosiddetto dumb shits clubs. Il circolo

notturno, che celebrava la stupidità e le cattive scelte dei propri soci, aveva

un unico requisito di partecipazione: essere rimasti in Atari a creare giochi

senza guadagnare soldi come quelli che ne erano andati via.

3.5.2 – Dalla tecnica ai brevetti, dai brevetti all’autore

La nascita delle software house indipendenti, inaugurata dalla

conquistata libertà creativa e commerciale dei fondatori di Activision, ha tre

motivi di interesse fondamentali per la comprensione delle condizioni

produttive, enunciative ed autoriali nel gioco elettronico.

In primo luogo comporta, almeno nei casi di Activision e Imagic,

una ricongiunzione per i soggetti competenti tra l’aspetto tecnico-creativo

della programmazione e la dimensione commercialmente progettuale del

proprio lavoro. In termini professionali, il programmatore conquista una

relativa indipendenza dalla logica industriale corporativa che si era

affermata con l’acquisizione di Atari da parte del colosso Warner.

Demiurgo degli uno e degli zero in cui si incarna l’enunciazione

videoludica, il programmatore tuttofare torna al centro del prodotto-

progetto videoludico.

97

In secondo luogo, appare significativo il superamento della centralità

della tecnologia come oggetto di brevetto esclusivo anche per la sua

applicazione ludica: questo avviene dal momento in cui la Corte sentenzia

la legittimità a che Activision produca giochi da vendere a proprio profitto,

salvo pagamento di royalties, per il sistema hardware costruito da Atari84.

Se volessimo rileggere sotto una prospettiva socio-semiotica il profilo

legale della vicenda, potremmo notare nella frattura tra proprietà del

sistema hardware e terze parti un liberamento del lavoro creativo emergente

dal mezzo tecnologico. La tecnologia da sola non è in grado di sussistere

sotto il profilo dell’intrattenimento e della proprietà intellettuale: quel che

conta in questo senso è la scrittura dei testi che essa rende possibile. La

proprietà intellettuale, il rapporto tra autore e testo e tra espressione e

tecnologia brevettata vanno configurandosi in forme non necessariamente

ingegneristico-industriali.85

Il terzo motivo di interesse della nascita delle software house

indipendenti, conseguente alla riconquistata centralità del programmatore

rispetto all’apparato di marketing e distribuzione integrata, è la decisa,

esplicita affermazione di una idea autoriale del videogioco tutta interna alla

nascita delle compagnie.

Nel progetto commerciale Activision prende forma la prima, vera

“politique des auteurs” del videogioco. Nel paratesto dei giochi è

celebrato l’autore: il programmatore coincide viene fatto coincidere con

l’istanza enunciativa e firma testi che, se non dovessero presentare tracce e

stilemi tipici di una precisa poetica, apparirebbero in ogni caso come il

frutto esplicito del suo lavoro. Vero è che molti di questi testi, programmati

84 Dopo varie cause e appelli, la sentenza del 1983 avrebbe sancito la vittoria definitiva di Activision e dato il via legale al libero mercato videoludico moderno, caratterizzato dalla presenza di numerose terze parti indipendenti al lavoro su sistemi da gioco proprietari. Nel corso della storia videoludica, il rapporto tra terze parti e produttori di console diventerà centrale per il successo delle piattaforme hardware. Cfr. Kent (2001) 85 Se avesse vinto Atari, a ben vedere sarebbe stato forse possibile sostenere anche questo: cioè che i pittori non avrebbero potuto usare i pennelli senza pagare, se qualcuno avesse dimostrato di avere creato questi ultimi e si fosse opposto presentando un brevetto. Al far notare la provocazione presupposta da questa osservazione va affiancata la constatazione del fatto che le terze parti sono comunque obbligate a versare delle royalties per utilizzare commercialmente gli hardware proprietari della casa madre. Tuttavia, la constatazione della differenza tra il pennello e l’hardware informatico non deve condurre alla falsa constatazione che tra questi due strumenti esista una differenza ontologica. D’altro canto, come non tutti sono in grado di utilizzare pennello e colori, così non tutti i programmatori sono in grado di utilizzare allo stesso modo lo stesso hardware.

98

da programmatori finalmente indipendenti, si rivelano decisamente avanzati

sul piano tecnico, espressivi sul piano estetico e coinvolgenti in quanto a

interazione, e in molti casi ben più validi rispetto a quelli del sistema

marketing-oriented di Atari. I giochi “d’autore” di Activision lavora spesso

con maggior successo sul piano della forma ludica, evitando a priori di

partire dal posizionamento commerciale ed estetico di meccaniche di gioco

già esistenti e risultando vincenti su un mercato già saturo di cloni.

La riflessione sullo statuto d’autore porta con se il recupero e la

giustapposizione al contesto videoludico di una nozione mutuata da altri,

più blasonati settori espressivi: letteratura, arti visuali, cinema, ricerca

intellettuale. L’antecedente clandestino in Adventure diviene da qui in poi

esplicita manifestazione paratestuale. Rimandando ai capitoli successivi il

discorso sui paralleli storici e linguistici tra videogioco e autore nelle arti,

nella letteratura e al cinema, ci concentreremo adesso su testi rivelatori

dell’idea autoriale in Activision.

3.5.3 – Le veneziane di Bob Whitehead

Il “software delle veneziane” programmato da Bob Whitehead non è

un gioco commerciale, ma una dimostrazione tecnica che bene illustra sul

piano tecnico le vicende Atari-Activision. Il testo, e un interessante

aneddoto, gettano luce sulla superiorità tecnica dei game designer

fuoriusciti da Atari e sulla loro capacità di fare progredire le tecniche

rappresentative.

Il testo interattivo, mai pubblicato e oggi disponibile in rete, era stato

scritto per girare su un hardware Atari, e simula una comune tenda

veneziana. Controllando il joystick è possibile sollevare o abbassare la

tapparella, rivelando un tramonto da ammirare attraverso la finestra. Dietro

alla rappresentazione apparentemente primitiva e priva di effetti visivi

eclatanti di Venetian Blinds si nasconde una scrittura brillante sul codice:

Whitehead riuscì ad aggirare i limiti dell’hardware Atari e mostrare fino a

otto file di oggetti in contemporanea, due in più rispetto al massimo

99

consentito. Whitehead utilizzò per la prima volta la tecnica per Video

Chess, una simulazione scacchistica che non sarebbe altrimenti mai stata

possibile sul sistema di Atari86.

Dopo la fondazione di Activision i dirigenti di Atari minacciarono

Whitehead e gli altri di citarli in giudizio per una serie di illeciti

sfruttamenti di tecniche e proprietà intellettuale e, tra queste, vi era la

tecnica che consentiva la rappresentazione di Video Chess. Whitehead, ben

consapevole della totale paternità del codice come del fatto che Atari

sarebbe stata difficilmente in grado di utilizzarla nuovamente in maniera

fruttuosa, decise insieme ai colleghi di Activision di rispondere per le rime.

Scrisse così Venetian Blinds, affinché fosse presentato come prova di

paternità della tecnologica. Al contempo, il demo era una decisa presa in

giro dei legali di Atari, pensata per essere proiettata nel momento in cui

avessero parlato loro della questione. Atari perse legalmente ancora una

volta, ma Whitehead riuscì anche a fare infuriare Kassar con lo scherzetto

delle tapparelle.

Venetian Blinds, “semplice” dimostrazione tecnica, è la

dimostrazione del fatto che non c’è bisogno di scomodare grosse categorie

estetiche per constatare come il game designer dell’epoca potesse di fatto

assumere l’identità di un soggetto-artista del codice. Manipolando tecniche

che non si limita ad applicare secondo schemi divenuti di successo ma

continua a far progredire, l’autore-programmatore si sottrae a un orizzonte

puramente seriale e riporta al centro del testo videoludico la sua natura di

campo di sperimentazione continua, in cui il creativo offre occasioni

rappresentative e interattive inedite.

Come per Higinbotham o Russell, anche per Whitehead si potrebbe

parlare di autore come tecnico-artista della sostanza espressiva, come di

soggetto capace spingere lo stato dell’arte inteso sotto il profilo tecnico ed

espressivo. Da questa prospettiva la conquista del tramonto fatto di pixel 86 Sembra che in Atari si fossero decisi a offrire un gioco di scacchi per il proprio sistema perché sulla scatola di una delle prime serie di console vendute campeggiava un pezzo degli scacchi, che avrebbe spinto moltissimi consumatori a protestare per l’assenza effettiva di una sua simulazione. La compagnia non avrebbe quindi mai preso in considerazione l’idea di riuscire a produrre un gioco degli scacchi per la propria console, e senza la tecnica rappresentativa di Whitehead non sarebbe mai riuscita a realizzarlo.

100

dietro alle file delle sgranate e rudimentali tapparelle ha la portata di un

piccolo, importante passo in avanti nelle sorti di un dominio

rappresentativo. Osservare sotto questo profilo la tecnica e l’espressione

può costituire l’occasione per riflettere su una separazione tra tecnica e arte

che continua a far pensare i filosofi dell’estetica, ma lascia

fondamentalmente indifferenti i veri addetti ai lavori87.

3.5.4 – La dama di Alan Miller

Checkers è una versione elettronica della dama, sviluppata da Alan

Miller per la console di Atari sotto la nuova etichetta indipendente

Activision. Il testo Checkers è interessante per una varietà di motivi: per la

traduzione elettronica della forma ludica della dama, per il lavoro tecnico

operato sulla rappresentazione dello spazio di gioco, per l’implementazione

dell’intelligenza artificiale.

Il gioco simula una normale scacchiera sullo schermo televisivo, le

pedine vengono controllate utilizzando il controller e la sfida si presenta

con quattro livelli di difficoltà. Checkers ha una presentazione estetica

sobria e funzionale al contrario di molti giochi di dama coevi graficamente

sciatti o confusi. La rielaborazione di Miller presenta dei livelli di difficoltà

molto ben bilanciati e ha alla sua base un certo grado di interesse scientifico

in continuità con lo sviluppo delle teorie sull’intelligenza artificiale di cui

Miller è appassionato, come ben si evince dal suo intervento sul manuale di

gioco.

Checkers è frutto di un lavoro superiore di design su un hardware

decisamente limitato, rafforzando l’ipotesi, fatta a proposito di Whitehead,

sull’autore come tecnico-artista dei bit. Parliamo di Checkers, tuttavia, per

la questione dell’autore “enunciato” nel paratesto.

87 Il programmatore come artista del codice tornerà nella nostra considerazione, in particolare col parlare di John Carmack. L’ampiezza proibitiva della problematica sul rapporto tra tecnica ed arte ci costringe invece a rimandare alcune semplici osservazioni al capitolo conclusivo.

101

Nel testo Checkers non sono presenti marche enunciative

dell’eventuale autore se non nella ricostruzione che sarebbe possibile fare

del lavoro tecnico di programmazione, indagando sul codice. Diversamente

dal caso di Adventure, l’enunciatore di Checkers è una istanza che non ha la

possibilità o interesse alcuno a mostrare la propria coincidenza con il

soggetto sul piano testuale. Checkers ottimizza massimamente le possibilità

tecnologiche per ricostruire non solo la forma logica della dama in dato

elettronico, ma anche la logica strategica del gioco ai fini dell’interazione

uomo-macchina, dotando il programma di una rudimentale intelligenza

artificiale. Se tutto questo prende effettivamente forma dalle viscere del

codice per mano di un enunciatore, è invece nel paratesto che si esplicita il

lavoro e l’identità del soggetto enunciatore, a sua volta enunciato. Parlando

della politica di Activision sul ruolo e sulla presentazione del game

designer, abbiamo riferito della presenza della foto e di un testo dell’autore

del gioco nel manuale e della presenza del suo nome sul retro della

confezione. Checkers non fa eccezione a questa usanza di Activision, ed è

per questo motivo che dovremo spostarci dall’analisi del testo a quella della

sua componente paratestuale.

Il paratesto che terremo in mente è l’insieme della confezione del

gioco e del manuale incluso88. La prima, in particolare, ha un ruolo chiave

nella presentazione commerciale del prodotto. È infatti per certi versi la

norma, e non l’eccezione, che chi acquista un gioco in determinati contesti

di consumo lo faccia perché attratto dalla copertina o dalle immagini del

gioco o di corredo sul retro: queste componenti vanno considerate una

fondamentale appendice paratestuale che svolge una funzione seduttiva,

predisponendo e precisando la comprensione della dimensione estetica del

testo al potenziale acquirente/giocatore89. La confezione di Checkers

88 Non solo ci rifiutiamo di considerare questo come un semplice epitesto, iscrivendolo a tutti gli effetti in un’orbita ben più vicina al nucleo testuale, ma saremmo persino inclini a ritenere questi corredi, fondamentali a ogni livello della significazione, come se facessero parte del nucleo testuale stesso. 89 Un’analisi sistematica delle confezioni dei videogiochi si rivelerebbe decisiva per comprendere alcune delle componenti estetiche e pragmatiche del mezzo in relazione alla dimensione commerciale, specialmente per un periodo in cui il gioco elettronico doveva ricorrere fortemente al sostegno estetico di questo paratesto per ovviare alla limitata capacità rappresentativa sullo schermo.

102

presenta una cover art graficamente stilizzata tipica della collana

Activision, in cui la grafica prende le mosse prendendo in prestito i

formanti figurativi del gioco vero e proprio. Gli stessi sprite che

appariranno sullo schermo e con i quali si giocherà sono qui rappresentati

con figure dalle campiture nette e eidesi geometriche, per uno stile

minimale, plastico e ludico.

Il paratesto tipico del gioco Activision si mostra infatti con marche di

coerenza estetica rispetto al gioco e secondo una logica tematizzata e

uniformante. Le copertine dei giochi di Atari, al contrario, non partivano

dalla glorificazione del formante originale del gioco, ma lo facevano

scomparire dalla presentazione sostituendolo con immagini dagli stili

grafici più disparati. Anche le copertine di Atari anticipavano e

completavano le aspettative del giocatore in merito al titolo e relativamente

ai temi e le figure del gioco. Tuttavia, in esse lo stile era spesso del tutto

alieno rispetto alla semplicità della grafica a schermo del gioco. La

presentazione dei giochi Activision differisce allora già in partenza

nell’autonomia della forma e nell’estetica videoludica rispetto ai giochi

Atari. Già dalle cover, i giochi di Activision sembrano volere affermare una

testualità forte e propria, dotata di una dimensione estetica precisa e di una

dignità comunicativa, e non la semplice filiazione commerciale rispetto a

universi estetici e set di figure stereotipici. Un confronto tra Checkers di

Activision e il successivo Video Checkers di Atari, tanto a livello grafico su

schermo che estetico sul piano del paratesto, è rivelatore di quanto diversa

sia la concezione del videogioco tra le due compagnie, con Activision

impegnata a non occultare la minimalità della grafica del gioco, ma

glorificarla rielaborandola.

La confezione dei giochi Activision è una componente paratestuale

decisiva per il testo, attualizzata da una enunciazione che lascia spazio

all’autore. Sul retro della confezione, accanto ai dettagli sul numero di

giocatori e sul controllo del software, il nome del programmatore appare

immediatamente sotto il titolo. Nel caso di Checkers, è possibile leggere

chiaramente “conceived and designed by Alan Miller”. La figura

103

dell’autore viene presentata con maggiore dettaglio all’interno del manuale

di quasi ogni gioco, con una pagina interamente dedicata al programmatore.

In questa pagina, l’enunciatore-Activision presenta il testo, correda il

paratesto con i cenni biografici sul Miller professionista e giocatore, mette

in mostra il suo viso e la sua firma e gli cede la parola a proposito del gioco.

Nel paratesto-manuale di gioco, allora, mentre l’enunciatore del

gioco tende alla coincidenza con Miller, una enunciazione di grado

superiore, che si attualizza oltre i confini strettamente testuali, afferma

l’identità tra quella istanza interna al testo e quel soggetto. Miller, dalla

pagina dei consigli, presenta il suo debito teorico e di ispirazione nei

confronti di Arthur Samuels, pioniere delle ricerche sull’intelligenza

artificiale90, riferisce di aver letto molti testi e manuali prima di provare a

creare una dama elettronica, e consiglia ai giocatori di fare altrettanto per

migliorare le proprie strategie [immagine 9]. Miller ammette anche di avere

difficoltà contro il computer, e di non avere particolari consigli per il

giocatore riguardo alle debolezze del programma, a eccezione del fatto che

questo sembra mancare a tratti di un certo “istinto omicida”, peccando di

poco coraggio: un limite che il giocatore potrebbe sfruttare, anche se con

molta attenzione alla formidabile memoria predittiva del calcolatore.

Questa logica da “collana videoludica” d’avanguardia, fondata al

contempo sull’originalità del gioco e sulla intertestualità dell’autore, non si

risolve certo nel costituire un motivo per affiliare l’acquirente, ma fornisce

l’occasione per conoscere i programmatori secondo un profilo autoriale

attraverso il consumo delle loro creazioni. Si creano i presupposti per cui

potremmo essere in grado di riconoscere una poetica o dei temi ricorrenti o,

ancora, un diverso approccio alla testualità videoludica basato sul tipo di

testo “tipico” di quel determinato “autore”.

Rimandando al capitolo successivo una critica completa del

problema della “politica degli autori” contrapposta a una prospettiva di

90 Arthur Samuel è lo sviluppatore per IBM di uno storico programma di dama capace di imparare dall’esperienza. Le sue ricerche nel campo dell’intelligenza artificiale hanno reso IBM un leader del settore e portato alla creazione, quaranta anni dopo, del celebre Deep Blue, il programma entrato nella storia per avere battuto a scacchi il campione mondiale Gary Kasparov.

104

analisi testuale, non resistiamo alla tentazione di indulgere a considerazioni

un po’ stereotipiche sull’aspetto e sulla biografia dei programmatori, così

come ci vengono suggerite più o meno esplicitamente dal paratesto. Nel

ricorrere alla biografia suggerita non vogliamo indulgervi preferendola

all’analisi del testo, ma percorrerla alla ricerca di indizi sui suoi presupposti

e finalità.

Miller, che programma Checkers e si interessa alla simulazione

realistica del moto e dell’interazione tennistica, ha uno stile sobrio ed

elegante e coltiva interessi nel campo dell’intelligenza artificiale, richiama

un ritratto da programmatore colto, da intellettuale high-brow: un po’

tecnico, un po’ artista, un po’ scienziato, trova nel gioco elettronico

l’occasione per momenti di ri-mediazione, simulazione e studio sulla realtà

e sulla logica, ma è anche un agente fondamentale per la fase di

affermazione della sua categoria rispetto alle logiche corporative.

Se questo sia un profilo tale da far parlare di Miller come di un

autore rimane questione dipendente dal profilo di autorialità che siamo

disposti ad accettare. È ormai evidente, tuttavia, che questa concezione

debba essere lontana da una visione romantico-letteraria: la vera posta in

gioco sull’autore è, per questi testi, legata a un continuum tecnico ed

espressivo, lontana da una psicologia e da un sentire individuale. Per testi

simili una possibile via all’autore videoludico è, forse, più vicina a una

concezione ludolinguistica della tecnica, in cui sono cruciali il conoscere e

il saper-fare proprio nel momento, insieme liberamente poietico e vincolato,

della visione di nuove stringhe e nuove regole di un linguaggio.

3.4.5 – David Crane’s Pitfall

Pitfall è, per molti versi, il testo-simbolo della concezione autoriale

del videogioco di epoca di Activision. David Crane, il suo programmatore,

è a sua volta uno dei nomi che più frequentemente vengono citati quando

nell’ambiente critico videoludico si arriva a discutere sui cosiddetti

programmatori-autori. Anche Pitfall, come Checkers, si dimostra

105

interessante tanto sul piano testuale quanto su quello paratestuale, rivelando

livelli incassati di enunciazione.

Testo emblematico del fenomeno dei one-man games dei primordi,

Pitfall è considerato da molti osservatori come uno degli antesignani dei

cosiddetti “platform games”: giochi in cui la componente del salto, la sfida

agli ostacoli dell’ambiente di gioco e il tempismo negli spostamenti

costituiscono il fulcro dell’esperienza. Pitfall, tra i lavori meglio riusciti di

Crane, è esempio di fusione totale tra innovazione formale, stilistica ed

estetica.

Il testo offre al giocatore il controllo di un simulacro ispirato alla

figura di un esploratore in un mondo possibile che è una idealizzazione

interattiva dell’universo estetico tipico del romanzo e del cinema

d’avventura esotici, provvisto delle sceneggiature canoniche: coccodrilli

che infestano guadi, liane su cui ondeggiare e dalle quali librarsi oltre gli

ostacoli, tesori da raccogliere, animali velenosi da evitare.

Al livello figurativo Pitfall presenta un immaginario stereotipico, che

riveste la forma ludica sceneggiando moduli estetici non innovativi e per

nulla passibili in sé stessi di un riconoscimento all’interno di un qualche

“stile autoriale” estetico o del videogioco. Pitfall è invece un trionfo in

termini di interazione con il simulacro e l’ambiente di gioco e dimostra la

parità, se non priorità, dell’aspetto interattivo del mondo possibile

videoludico nel progetto testuale complessivo rispetto all’estetica che lo

connota. In Pitfall tutto il mondo giocabile, e con esso l’intera esperienza

del giocatore, non derivano dalla sola connotazione figurativa, ma si

sviluppano intorno al simulacro controllabile dal giocatore e alle sue

possibilità di incontro/scontro con l’ambiente.

A confronto con i tanti cloni ri-tematizzati e con il livello medio di

design e presentazione dei testi della compagnia da cui erano fuoriusciti

Crane e gli altri, Pitfall dimostra una netta differenza in termini di scrittura

e di innovazione. La rappresentazione del personaggio, che oggi può far

sorridere ma che appare sofisticata per l’hardware di quegli anni, è

estremamente fluida. La scattosità dei movimenti del simulacro, tipica

106

dell’epoca, è ridotta al minimo: la tecnica di animazione era costata a Crane

vari anni di lavoro sul codice, e sfondava senza ombra di dubbio la soglia

media del cosiddetto “stato dell’arte”. Intorno all’esploratore fatto di pixel

viene modellato un intero mondo di interazione. Lavorando nei limiti di

memoria canonici, corrispondenti ai 4k tipici delle cartucce della console

Atari, Crane organizza un mondo ampio e complesso, dotato di una

notevole quantità di percorsi, segreti, figure e azioni possibili. Un design

sapiente, incentrato sul set di movimenti del simulacro, genera situazioni

interattive che tengono costantemente in primo piano l’affinamento dei

movimenti possibili e richiedono un impegno crescente in termini di riflessi

e abilità. Crane fa uso di una tecnica di scrittura potente, economica,

elegante: la dispiega come uno strumento che in pochi possono piegare e far

progredire verso testi che prima “mancavano”.

Pitfall fa da conferma alla nostra ipotesi: c’è un novero di tecnici-

artisti del videogioco che non si limitano ad applicare una tecnica

“esternamente data” per fini precostituiti e affermati. Questi “autori”, al

contrario, contribuiscono, lavorando dall’interno delle possibilità testuali,

all’emergere stesso della tecnica come progresso condiviso, esprimendo con

questi mezzi testualità nuove e in alcuni casi esprimendo una forte

coincidenza, al livello testuale, tra enunciazione e soggetto che la ricopre.

Il manuale-paratesto di Pitfall, la cui enunciazione è istanza

correlabile ad Activision, a sua volta espressione diretta e orientata

all’autore di Crane, Miller, Whitehead e degli altri, è ancora una volta

promotore di una politica di corrispondenza tra gioco e autore. Come in

Checkers e in quasi tutti i giochi di Activision il nome di Crane compare sul

retro della confezione, e Crane stesso ha a disposizione una pagina del

manuale per offrire consigli sul gioco e vedere la propria immagina e firma,

precedute da cenni biografici.

La macro-istanza enunciativa alla base dei testi raccolti sotto il

marchio Activision, corrispondente a un’entità policefala di cui Miller è

probabilmente il tronco più saldo, lavora anche sul piano dell’intertestualità.

Crane viene presentato, in una pagina del manuale di un altro gioco da lui

107

programmato, come un programmatore capace di concepire costantemente

“giochi altamente inusuali, immaginifici, e dotati di un grande livello di

sfida”. Facciamoci sedurre dalla biografia: Crane, a giudicare dai giochi che

programma, dal suo aspetto da geek e dalle presentazioni sui manuali, ha

l’identità pubblica del programmatore leggermente trasandato, occhialuto e

geniale, del nerd talentuoso e dotato di wit, del creativo dotato di

immaginazione e del controllo dei codici91.

L’autore diventa un filo rosso: attraverso il paratesto prende forma

una esplicazione ed esaltazione dell’istanza enunciativa e del soggetto

creatore che esplicita tratti di coerenza e originalità dei testi altrimenti

passibili di essere trascurati92. Questi tratti in questo caso sono

effettivamente rintracciabili. Non si da il caso che via sia, nella macro-

enunciazione di Activision, una mera idea o mitologia autoriale, per quanto

manifesta: ma sono anche i testi a traboccare di lavoro tecnicamente

avanzato, prodotto proprio dal soggetto, in cui la tecnica è usata per uno

stile e finalità espressive originali e portata a nuovi livelli di funzionalità

per soddisfare necessità testuali complessive.

Rispetto a Checkers, del resto, che era una rielaborazione di una

forma ludica esistente, Pitfall si dimostra anche testo portatore di un nuovo

“genere” di interazione. A dimostrazione del progresso tecnico e formale

compiuto nell’orizzonte videoludico condiviso, esso inizia da subito a

“fare” genere operando da esempio stilistico, ispirando imitazioni e

innescando un processo che porterà alla nascita dei cosiddetti platform

games93.

Siamo allora disposti, in via provvisoria, a riconoscere a Crane, come

a Miller e Whitehead, un profilo autoriale, ad accettare di buon grado la

manifesta propaganda di questa idea. Tuttavia, una volta constata

l’esistenza e l’auto-affermazione del “testo autoriale”, la sua conferma

analitica deve avere carattere non necessario ma contingente: si

91 Immagine, questa, che era già, o è divenuta stereotipo: ma che, a sua volta, ha quantomeno rinforzato lo stereotipo sul programmatore-artista dei giochi elettronici. 92 Ancora una volta, rimandiamo al Cap. 4 per una riflessione su autore e prospettiva testuale. 93 Sulla nascita dei platform games cfr. Babich (2002)

108

preannuncia, infatti, la contemporanea necessità di un approccio analitico

capace di considerare il testo autoriale da una prospettiva tanto consapevole

del soggetto enunciatore quanto lucida e scettica. Un simile atteggiamento

critico dovrebbe essere capace di risalire all’idea di autore dentro al testo

come lungo le sue propaggini paratestuali, sciogliendo il modo in cui le

enunciazioni si presentano incassate e confuse rispetto al testo e ai soggetti.

Al contempo, dovrebbe mettere alla luce il modo stesso in cui l’autorialità,

prima di trovare tracce di conferma nell’operare testuale, è enunciata e

celebrata.

3.6 – La via originaria all’autore videoludico

Abbiamo visto, partendo da alcuni testi significativi, come tra la fine

degli anni settanta e i primi anni ottanta l’enunciazione del videogioco

conosca un contraccolpo da spinte opposte. Dapprima il videogioco diventa

merce industriale ad alta tiratura e cade la centralità della figura del

programmatore, declassato da artista del codice a tecnico pagato a cottimo.

Successivamente, questo rivendica un profilo di più alto livello,

emancipandosi rispetto alla logica corporativa e riunendosi in team ristretti

che promuovono il testo ludico come frutto del lavoro di un autore.

Nel tempo che intercorre tra la scaramuccia di bit della easter egg di

Adventure fino alla nascita di Activision viene a galla una condizione

polemica dello stato della produzione di videogiochi che covava da tempo

sotto le ceneri: le condizioni tecnologiche e di produzione determinano un

regime di testualità videoludica in cui questa può esprimersi in una certa

misura per mezzo di una molteplicità di “scrittori”. La ragione che

determina il prevalere del programmatore “autore”, d’altro canto, rimane di

natura tecnica: la tecnologia è oggetto di proprietà, di brevetto, ma è pure

riconosciuta come mezzo che da la possibilità a un tecnico, capace di

lavorare “da artista”, di esprimere un lavoro d’autore. Rimane sempre

valida l’osservazione gombrichiana per cui il mezzo può esprimere una

109

personalità, purché, appunto, ci sia una personalità da esprimere, oltre che

una ricerca sui presupposti linguistici della possibilità del mezzo94.

Come vedremo nel prossimo capitolo non si tratta di una storia

inedita ma, pur con le dovute e grosse differenze e specificità, di una storia

che pare riproporre molte vicende del regista cinematografico.

I “videogiochi d’autore” dell’era Activision agli inizi degli anni

ottanta sono testimonianza di un particolare momento della testualità

videoludica, durante il quale il grafico, il programmatore del codice, il

designer di mondi interattivi e persino il tecnico del suono possono

coincidere, anche se non lo sono necessariamente, con il medesimo

soggetto. Questo soggetto non corrisponde sul piano logico e pragmatico

con l’istanza enunciativa o con l’autore/creatore modello del testo, eppure

una prospettiva sociosemiotica non obbligata all’immanentismo radicale da

un principio di impersonalità portato all’eccesso può “commutare” tra

enunciatore e soggetto per svelare le tracce che, nel testo e nel paratesto,

rivelano le stesse condizioni del fare videoludico.

Scorrere tra testo, paratesto ed epitesto, e scindere l’enunciatore di

Activision da quello eventualmente coincidente con il programmatore, è

stato fondamentale per una ricerca che, come quella qui intrapresa, non

fosse tanto interessata a sezionare minutamente il testo fino a polverizzarlo,

quanto a trovare a partire dei testi il continuum tecnico e creativo all’interno

del quale il videogioco, e con esso l’idea autoriale, si sviluppa nella

semiosfera.

Una analisi più approfondita ed estesa delle vicende tecnologiche,

tecniche ed economiche dei testi e dell’apparato paratestuale dei giochi

Activision e Atari di questo periodo, condotta sui più testi secondo

l’approccio finora portato avanti, rivelerebbe scorci preziosi sulla

evoluzione della testualità videoludica. Miller e Crane non sono che due tra

gli attori più attivi di questo lavoro semiotico collettivo sulle forme

videogiocabili.

94 cfr. Gombrich (1950)

110

Le software house indipendenti durante i primi anni ottanta, alla

quale si è accennato, trovano nella concezione autoriale una doppia

vocazione: quella dell’identità autoriale e artistica e quella

dell’indipendenza economica. Le software house indipendenti diventano

una “nouvelle vague” commerciale che, pur non attecchendo nel sistema

rigidamente verticale dell’azienda giapponese, esplode negli Stati Uniti,

conoscendo anche una vasta diffusione in Europa. I programmatori

americani indipendenti si organizzano in team ristretti, diventando grandi

ingegneri di sistemi giocabili prestati alle grosse compagnie produttrici di

hardware. Gli europei, spesso meno capaci sul piano tecnologico e

dell’ottimizzazione hardware-software, diventano degli autori “letterari” e

degli “esteti” del gioco elettronico, producendo software interattivo

estremamente variegato sul piano figurativo, originale sul piano delle

soluzioni, spesso capace di anteporre sena mezzi termini il fine espressivo

alla “riuscita ludica” del testo e alla soddisfazione del giocatore95. Per molti

anni, la tendenza europea al videogioco sarà la ricerca di universi estetici e

narrativi di matrice letteraria, e in alcuni casi fortemente connotata dalla

credenza nell’autore come regista o creativo96 [immagini 14,15,16].

Il lavoro creativo dei soggetti sui giochi e il materiale paratestuale

allegato agli stessi, fondatore dell’idea di autore, non è certo poco. Di

sicuro, tenterebbe non poco il ricercatore a tracciare dei paralleli tra le

biografie dei programmatori, gli intenti dichiarati e i testi prodotti, alla

ricerca della cosiddetta “cifra d’autore”, di tante digital-stylo tutte

videoludiche. Come abbiamo già detto, tuttavia, la promessa più importante

di un approccio sociosemiotico che parta dal testo e dalle sue estensioni e

integrazioni è quella di non cedere alla mera apologia della nozione

autoriale, ma offrirsi come una base per esaminare il ruolo del soggetto

sotto il profilo autoriale come anche la nascita della sua idealizzazione, di

una mitologia autoriale. L’eco dell’autore, oggi rafforzata dalla 95 È questo il caso del celebre Shadow of the Beast: il gioco, esteticamente affascinante, fa di tutto per ostacolare e tediare il giocatore, contravvenendo a una massima non scritta di molti designer. 96 In alcuni casi, come quello della francese ERE, il videogioco appare autoriale fin dal paratesto, e più autori vi collaborano come avviene in una produzione musicale. Tuttavia, l’autorialità del videogioco europeo appare ben più enunciata che presente all’interno del testo come della riuscita complessiva ludica.

111

contemporanea ossessione per la nobilitazione del mezzo, parte proprio

dall’epoca Activision.

Un approccio molto sbilanciato sul dato biografico ma poco accorto

sul piano testuale profondo non è privo di pericoli. Indulgendo nella

credenza alla biografia Whitehead potrebbe essere riconosciuto come uno

stereotipato redneck, programmatore di giochi vagamente ideologici: si

presenta infatti alla vista dalle pagine dei manuali Activision come il tipico

bisteccone baffuto, firma ogni pagina con un “God Bless” e programma

giochi come Boxing e Chopper Command, chiedendo nel manuale di

quest’ultimo di ricevere novità su come i giocatori stessero “cavandosela

sul fronte” del gioco di guerra [immagine 10].

La prospettiva strettamente biografica si rivela in definitiva

semioticamente non accettabile. Chi la facesse propria cadrebbe nella

trappola della biografia, oppure presterebbe attenzione al solo dato figurale,

assegnando a questo la priorità sul senso complessivo del testo videoludico

che, e questa è una delle poche cose certe a proposito del videogioco, non si

risolve assolutamente sul piano della sola figuratività. Radicalizzare un

approccio autoriale significherebbe infine, ovviamente, cadere nella

trappola dell’antropomorfizzazione dell’enunciazione. Non è soltanto che

molti dei giochi di quest’epoca siano comunque prodotti da più

programmatori, a volte con mansioni separate e a volte in accordo creativo:

si tratterebbe, soprattutto, di predisporsi con una metodologia d’analisi

incline ad abboccare alle lusinghe paratestuali ed epitestuali che hanno, da

quegli anni in poi, varie volte rispolverato il tentativo commerciale di

sfruttare il richiamo dell’autore di turno. Elevato il ruolo del soggetto a un

principio a priori si perderebbe il senso critico necessario, di volta in volta,

a diramare la matassa enunciativa, sbrogliando la presenza dell’“autore”

rispetto alla sua pubblicizzazione.

Il complesso delle vicende commerciali e autoriali di Activision non

è, allora, solo uno snodo storicamente importante per la ricerca sul ruolo

dell’autore videoludico, che si esplicita esemplarmente sul piano testuale ed

112

epitestuale: contiene in sé anche il germe di un futuro abuso della nozione

autoriale per il videogioco.

L’idea di autore decolla con una ambivalenza molto significativa: da

un lato sembra negare il principio commerciale come pilastro esclusivo

dell’enunciazione videoludica, dall’altro riconosce e intravede nell’autore la

base per una sua futura trasformazione linea-guida per il giocatore. Il passo

è breve verso l’etichetta paratestuale e il corredo seduttivo grazie ai quali

l’enunciazione industriale trasferisce su un singolo soggetto l’idea di una

autorialità del prodotto per legittimarne lo statuto “artistico”.

Con un ulteriore errore interpretativo discendente da questi

presupposti, il gioco “commerciale” potrebbe rischiare di essere

contrapposto alla direzione di quello “d’autore” secondo una divaricazione

arbitraria dei due aspetti. Con un rischio ulteriore: quello di non percepire il

momento in cui è proprio quell’istanza di produzione che maggiormente

nega il soggetto in quanto potenziale autore ad assegnare un autore

“d’ufficio”, secondo una mitologia autoriale interamente funzionale alla

effettiva negazione del potenziale della tecnologia per l’espressione

dell’individuo.

Nel prossimo capitolo abborderemo proprio la questione della

“mitologia” dell’autore, tentando di aggiornarla agli auteurs del gioco

digitale partendo da un contesto espressivo che ha già conosciuto una forte

riflessione sul tema, a un mezzo non privo di parentele con il gioco

elettronico e al quale ci siamo riferiti parlando di politique degli autori: il

cinema.

113

Capitolo 4

UNA PARENTESI CINEMATOGRAFICA

"Non c'è nulla di più triste degli autorelli che girano sempre il medesimo

film" (Alberto Pezzotta, Segno-Cinema)

4.1 – In principio era l’autore

Nel parlare dell’esplicitazione e nobilitazione della figura dell’autore

nei giochi di Activision, indicando al contempo i limiti e il confliggere della

nozione d’autore con una prospettiva testuale forte, abbiamo evitato di

riferirci immediatamente al precedente cinematografico per un solo motivo:

era nostra intenzione procedere a partire dai testi videoludici, per evitare di

pre-costituire ogni valutazione. I paralleli, tuttavia, non possono più essere

ignorati, e un excursus sul regista cinematografico consentirà di gettare

ulteriore luce teorica sull’argomento videoludico.

Parlando di una “politica degli autori” videoludica dei

programmatori di Activision abbiamo strizzato l’occhio a una politique

storicamente ben più celebre: quella dei Cahiers du Cinema. La

rivendicazione del ruolo della regia e la considerazione dell’autorialità sono

state portate avanti dai critici francesi marcando una riproposizione in

termini nuovi e polemici della nozione di autore, attuata sulla scorta dello

specifico registico. Successivamente, la politica degli autori dei Cahiers si

sarebbe spostata dal piano della critica a quello dell’operativo registico,

incarnandosi nella corrente cinematografica della Nouvelle Vague quando

alcuni dei critici che sostenevano la politique sarebbero passati alla regia:

proprio quei principi critici sarebbero diventati un manifesto del proprio

fare artistico.

Il moderno dibattito sull’autore al cinema parte proprio dalla politica

degli autori e dalla Nouvelle Vague, ed è in coincidenza con questi eventi

114

che la considerazione dell’autorialità al cinema riguadagna terreno

nell’industria, nell’immaginario e per la critica.

Nel corso di questo capitolo tracceremo alcune linee guida

fondamentali per inquadrare il problema dell’autore nel campo

cinematografico, prima a livello storiografico e istituzionale e

successivamente da un punto di vista critico, socio-semiotico e testuale.

Siamo intenzionati a usare questo campo teorico, questa ricognizione per

riportare alcuni dei progressi sull’autore al cinema sul campo del gioco

digitale, teoricamente vergine sulla questione. Il cinema ha oltre cento anni

di vita. Il videogioco ne ha più o meno una quarantina. La vera differenza è

però sul piano critico e teorico. La teoria cinematografica, infinitamente più

matura di quella videoludica e molto più rapida a riconoscere e inseguire il

suo oggetto di studio, ha dovuto affrontare sin dalla nascita del mezzo

cinematografico il difficile compito di inquadrarne lo statuto espressivo,

spiegarne la natura e il funzionamento, fare i conti con una tradizione

estetica incline a minimizzarne lo statuto rispetto ad altre, già affermate arti.

Tra continuità e rottura, l’industria, la critica e la teoria del cinema sono

state così portate a ripensare la nozione di autore.

Intorno agli anni settanta il videogioco conosceva definitiva

consacrazione come mezzo di intrattenimento di massa e si verificava la

separazione dei programmatori di Activision da Atari, simbolo della prima,

rivendicata autorialità videoludica. A partire da quegli stessi anni la teoria

del cinema, che disconosce del tutto il mezzo elettronico, faceva passi

significativi sulle tracce dell’autore. La certa critica, reduce dal clima di

nobilitazione dell’autore provocata dagli abusi della politique, iniziava a

mettere parzialmente in discussione la tradizione post-romantica della

nozione autoriale, la ripensava nel contesto di massa del cinema, giungeva a

una sua problematizzazione magari non esaustiva ma lucida, in un

panorama filosofico di frammentazione e ripensamento del prodotto

artistico.

Per questo motivo i progressi della teoria dell’autorialità al cinema,

combinati con la riflessione sul prodotto culturale, quasi si identificano con

115

il problema autoriale tout court. Il nostro obiettivo con questo capitolo è

recuperare questo progresso e iniziare a pensare all’autore videoludico, oggi

al centro di una nobilitazione in parte simile a quella del regista

cinematografico, da una prospettiva aggiornata in questo senso.

È vero che la testualità cinematografica e quella videoludica, come le

loro storie evolutive, il loro aspetto pragmatico e la loro connotazione

estetica e assiologica, si presentano con diversità di fondo e punti di

vicinanza che richiedono un notevole sforzo teorico, in grado di riconoscere

innanzitutto le varietà e i diversi fini semiosici, comunicativi, estetici delle

forme testuali esaminate. Non è tuttavia lo scopo di questo capitolo, ma di

alcuni dei capitoli successivi, tentare di gettare luce su questi aspetti, o

indulgere nella ricerca delle specificità del mezzo videoludico rispetto a

quello filmico. Qui, ci limiteremo a presentare il problema autoriale-

registico nei suoi snodi fondamentali, per mettere a frutto successivamente

il prodotto di questo excursus nel campo del gioco elettronico.

È necessario riconoscere che le vicende che stanno pervadendo la

concezione autoriale del videogioco, incluso lo stesso discorso intorno alla

specificità del gioco digitale, non sono dissimili da quelle osservate a

proposito delle politiche dell’autore cinematografico e presentatesi agli

addetti ai lavori, all’industria, al pubblico, alle critiche. Le numerose

parentele e promiscuità mediali tra gioco e cinema o il semplice senso di

necessità di un minimo grado di continuità e unità del sapere non possono

lasciare dubbi sul fatto che fratture disciplinari o ritardi simili a quello

videoludico sul concetto di autore si risolverebbero nella sterilità critico-

teorica.

All’interno di un progetto organico del sapere, coerentemente con un

panorama di profonda ibridazione tra i due mezzi, un mancato incontro

teorico sarebbe anche a detrimento dell’una e dell’altra teoria. Pertanto, è

solo dopo avere tracciato un panorama generale dell’autore al cinema che

tenteremo di riconoscere le diversità dei mezzi come pure i comuni

denominatori nel loro farsi industria, mezzi di espressione e luoghi di

mitopoiesi autoriale.

116

4.2 – La regia cinematografica

Una storia critica della figura registica per il mezzo cinematografico

è tracciata da Gandini. In Cinema e Regia, viene presentato un excursus

storico fondato sull’esempio di una serie di film dal carattere fortemente

meta-cinematografico, o dalle vicende storiche e produttive altamente

significative per il rapporto tra prodotto filmico e mestiere della regia. Lo

scopo dichiarato di Gandini non è quello di articolare una teoria

dell’autorialità valida al cinema o universalmente, ma proprio quello di

offrire un excursus storico-critico capace di fare naturalmente aprire la

riflessione sul tema partendo da casi significativi97.

Per prima cosa, Gandini mette alla base della ricerca sulla regia

cinematografica la considerazione del cinema come arte dispendiosa,

pubblica, collettiva. Il regista, infatti, “a differenza dei pittori o degli

scrittori […] non può lavorare in completa solitudine", ma necessita di

risorse economiche, dell’inserimento, registrazione o ri-creazione della

realtà sulla pellicola, della collaborazione di numerose competenze senza le

quali non potrebbe portare a termine il proprio lavoro.

La sua riflessione sull’autorialità si concentra sui rapporti incrociati e

perennemente conflittuali, a livello economico-produttivo così come di

immaginario del pubblico e di statuto autoriale, tra produttori, registi e

attori, con le relative oscillazioni tra il potere economico del primo, il

rivendicato controllo artistico dei secondi, il fascino e il blasone degli

ultimi. Secondo Gandini, allora, il regista, quando è mosso dalla volontà di

metabolizzare e ritrasformare la realtà, vive il problema per il quale,

definendo la realtà con un mezzo riproduttivo, questa perde lo smalto

dell'immaginazione98. Il regista è, insomma, sistematicamente costretto a

mediare, e non può fare a meno della ricerca di una dialettica fruttuosa tra

la propria interiorità o la propria intenzionalità e il mondo reale: quello dei

produttori, del pubblico, degli interpreti, del cinema come arte collettiva e

97 Cfr. Gandini, L. (2006) 98 Gandini cita a proposito di questo aspetto le riflessioni di Steiner e Calvino sul tema. (ivi)

117

pubblica. La figura registica si presenta al crocevia di una triplice

mediazione: istituzionale, sociale, espressiva99.

Gandini evidenzia il carattere artisticamente corale e

problematicamente autoriale del cinema e, in un altro lavoro100, introduce il

lettore al tema attraverso la metafora del viaggio collettivo. Il regista appare

qui come un conduttore-condottiero, la cui opera si avvale dell'apporto di

una quantità di collaboratori. Per quanto eterogeneo e articolato, questo

lavoro non è mai anonimo. Il regista è così la grande camera di

rielaborazione e coordinazione dell’opera all’interno della quale

confluiscono contributi creativi che ne investono ogni piano ed aspetto: la

narrazione, le interpretazioni, il visivo, il suono, la musica, i temi e le

figure.

Gandini fa notare come sia solo all’inizio del secolo che per il

cinema, inizialmente considerato pura tecnica riproduttiva, si consideri

lecita l’idea per cui il singolo film possa essere l’opera di un singolo autore.

È questo il caso, ad esempio, dell’opera di Melies o di Stanton Porter. Dagli

anni dieci, tuttavia, la richiesta di film trascina il mezzo nel sistema di

produzione capitalista, cosicchè "con la fine del cinema artigianale" finisce

anche la fase del regista tuttofare.

L'organizzazione del lavoro genera allora il bisogno di un

"conduttore", il regista, e inizia ad articolarsi un rapporto problematico tra

questo e il produttore, tramite dettato dalle esigenze del sistema di

produzione. Gli attori, e i relativi fenomeni di divismo, appaiono al

contempo strettamente correlati al gradimento del pubblico e alla riuscita

economica delle opere, e problematicamente mediati al ruolo della regia. Il

regista utilizza un repertorio di tecniche specifiche, lavorando sulla scrittura

99 Come riferito in Gandini (2006), Ray analizza il cinema sotto il profilo ideologico in "A Certain Tendency of the Hollywood Cinema", mentre Staiger-Bordwell-Thompson forniscono una lettura in cui la dimensione industriale e quella espressiva coesistono e si reinforzano a vicenda, per cui "le pratiche produttive sono parte delle condizioni di esistenza delle pratiche stilistiche" e "ogni attribuzione di responsabilità creativa in un film deve valutare prima a quali posizioni corrispondevano determinate decisioni, e prendere nota delle differenze fra gli studi di produzione". La possibilità di un regista di esprimere un'impronta personale al proprio mestiere deriva proprio dalla pratica e dalla politica degli studi di produzione. Mentre Ray contrappone ideologia e espressione principalmente sul piano dei temi, Staiger-Bordwell-Thompson si concentrano molto più giustamente sulla mediazione nelle pratiche di scrittura filmica. Cfr. Bordwell, D., Staiger, J., Thompson, K (1958) 100 Cfr. Gandini (1998)

118

di sceneggiatori e soggettisti e collaborando con scenografi, attori, tecnici.

La diatriba sull'artisticità del suo lavoro presuppone la domanda circa la sua

natura di artista, di mero esecutore, di coordinatore.

Un altro aspetto importante relativo al ruolo registico nel cinema che

è possibile evincere da Gandini è la stretta correlazione, storicamente

registrata nella critica, nella teoria e nella prassi cinematografica, tra

l’individuazione della natura del ruolo registico e la ricerca dello specifico

cinematografico. La pubblica istituzione del mezzo cinematografico

propriamente detto, infatti, avviene sotto due spinte parallele. Da un lato la

progressiva emancipazione dell’humus tecnologico spettacolare fatto di

giochi di luce, ombre in movimento e apparecchi di riproduzione

fotografica arcaici e destinati ai saloni delle stranezze e meraviglie, che

costituisce il vero grembo del cinema come dispositivo riproduttivo101.

Dall’altro, la ricerca di uno specifico cinematografico, che rendesse

possibile riconoscere al cinema uno statuto espressivo ben distinto, che

desse conto della novità del mezzo ma, al contempo, gli conferisse dignità

accademica, critica, estetica pari a quelle delle arti già affermate (dignità

che il cinema inseguirà a lungo tra i critici e teorizzatori). In Germania, ad

esempio, l'espressionismo cinematografico appare in bilico tra la novità del

mezzo riproduttivo e la piena continuità con regimi espressivi, temi, figure

e soggetti della più ampia corrente letteraria, artistica e di pensiero

espressionista.

L’autorialità è, allora, una nozione che attraversa lo stesso darsi

storico e critico dello specifico cinematografico. Eppure, il dibattito

sull’autore non si concentra immediatamente sulla figura registica:

l’identificazione tra autorialità e regia non appare come una premessa, ma

come il contraddittorio risultato di una lunga storia di vicende, critiche e

teorizzazioni [immagini 17-18-19]. Il cinema deve innanzitutto affrontare

l’ostracismo estetico ed accademico di quanti non lo ritengono una forma

d’espressione caratterizzata dall’intento creativo di un autore, ma un mero

101 Da un simile “grembo tecnologico”, quella volta fatto di prodigi e stranezze elettromeccaniche, abbiamo già indicato la nascita del videogioco.

119

mezzo riproduttivo della realtà lontano dall’idea di arte. Inoltre, la stessa

paternità dell’opera cinematografica, quando essa viene riconosciuta, non

coincide necessariamente con quella del regista. Il ruolo del regista, fa

notare Gandini, appare più come un’eccezione che come una regola,

attraversando fasi, momenti storici, riconoscimenti diversi.

4.2.1 – Specifico registico e ruoli d’autore

I momenti in cui è parso che il film fosse solo del regista sono parsi

quindi, oggettivamente, come eccezioni, e non pare esistere una risposta

univoca alla domanda autoriale al cinema che valga per tutte le epoche e

situazioni. In Italia la forte tradizione umanistico-letteraria fa sì che il

cinema sia connotato da una derivazione fortemente teatrale, e che il ruolo

artistico del regista venga messo in ombra da quello dello scrittore. Il

regista in Italia non è altro che un direttore artistico, i cui pregi sono

fondamentalmente riconosciuti nella buona direzione e allocazione degli

interpreti e della ricerca di “gradevoli soluzioni visive” e di disposizioni

delle riprese e delle scenografie che esaltino il recitato: sul set, il direttore è

subordinato agli interpreti famosi, che arrivano persino a dirigere il girato a

propria discrezione. Vengono riconosciuti al massimo la sobrietà della

ripresa, il rispetto del testo, la direzione degli attori102. Prima che il direttore

artistico inizi a far leva sulla sua autorità per fare entrare il cinema nel

novero dell'Arte ci vorrà, insomma, molto tempo. La critica dell’epoca, del

resto, finisce per utilizzare concetti e strumenti critici nati nell’ambito

letterario e teatrale anche quando si arriva a parlare di un nuovo spazio

visivo del cinema, o quando gli addetti ai lavori cercano di insistere sulla

sua specificità.

Anche quando lo sguardo dell’autore verrà riconosciuto, come nel

periodo del neorealismo, la via italiana alla regia rimarrà a lungo quella

102 Il caso di Cabiria, famoso come un film “di D'Annunzio” anche se girato da Pastrone, estremizza questa situazione. Anche se l’apporto di D’Annunzio si limita all’inserimento di didascalie sul girato e alla sua “approvazione” letteraria, sarà proprio con D’Annunzio e non con Pastrone che il pubblico e la critica identificheranno l’opera. Cfr. Gandini (1998)

120

dell’apprendistato, della frequentazione del maestro quasi da bottega

artigiana, della lunga pratica terminata la quale iniziare a muovere i primi

passi da soli. D’altro canto, ad affermarsi è un modello di regista di

mestiere: un mestiere privo della connotazione negativa assegnata ai nostri

giorni (derivante, per rovesciamento, dall’affermazione della nozione

autoriale) e, anzi, connotato positivamente. L'eclettismo e il "mestiere" sono

marche critiche positive. È apprezzato chi sostiene di essere “un

professionista come l'avvocato è avvocato, come il medico è medico",

portando il parallelo fino al punto in cui fa notare come il medico passi la

maggior parte del tempo a curare il raffreddore, e solo raramente a scoprire

qualcosa di rivoluzionario103.

E però è proprio nel solco della regia come mestiere che inizia a

prefigurarsi il problema dialettico della mediazione tra l'opera individuale,

nella quale riversare il proprio Io, e il lavoro su commissione al quale

prestar mestiere. Nel cinema neorealista, che è comunque estraneo al

precetto romantico del genio creativo in rotta con la realtà, è proprio la

ricongiunzione tra lo sguardo dell'artista, lo spirito dei tempi e del popolo e

l'ideale sociale il fulcro della poetica da ricercare col mezzo filmico. La

telecamera diventa allora un occhio documentario sulla realtà, e al

contempo la visione poetica di un'ideale. Il consenso del pubblico e

l'innovazione linguistica diventano gli scopi paralleli di autori come De

Sica, mentre l'attenzione di Rossellini per le riprese, la disponibilità per

l'imprevisto di Fellini e quella per gli esterni di Antonioni prefigurare

l'importanza del lavoro sul set - e, quindi, della regia - che è prerogativa del

cinema moderno104.

Sul versante transalpino e d’oltreoceano il dilemma che contrappone

il regista-artista e il regista-esecutore trova riscontro, sin dai tempi del

muto, nelle differenze terminologiche tra la figura del regista-director,

come viene definito negli Stati Uniti, e il regista metteur en scene, come

questo viene visto in Francia. Se il termine francese risulta di chiara

103 cfr. Gandini (1998) 104 ivi

121

derivazione teatrale e il sistema di produzione afferma da subito il regista

accanto al titolo, mettendo il risalto la paternità registica dell’opera, negli

Stati Uniti il regista viene investito di una funzione che è vista come

puramente direzionale: i film compaiono con i nomi degli attori e il tema

del film in bella vista, e del regista non v’è spesso traccia nei titoli di testa.

Nel cinema muto americano, d’altro canto, l'affermarsi dello studio system

genera l'importanza crescente del divismo. Gli interpreti incarnano la vera

sostanza riprodotta del cinema in quanto mezzo di fascinazione. La

notorietà e l’interpretazione del divo diventano componenti essenziali per la

riuscita dell’opera filmica, e il regista è tenuto a confrontarsi con i divi,

assecondarli, assicurarsi che contribuiscano al massimo alla riuscita del

film. L'affermazione del director non avviene quindi in maniera pianificata,

come per gli attori, ma attraverso il confronto con la produzione.

La figura del director viene riconosciuta negli anni dieci soltanto

dalle riviste specializzate di una certa critica e, solo un buon decennio dopo,

dagli studio system, che la utilizzeranno in senso mitologico e per i risvolti

di colore sulla cronaca piuttosto che riconoscerle concretamente un ruolo

creativo. I sistemi di produzione e la stampa si accorgeranno ben presto del

ritorno pubblicitario sulle opere filmiche delle biografie dei registi “da

rotocalco”. È il caso di Von Stroheim, che costruisce un’immagine pubblica

contradditoria e scandalistica, o di De Mille, che diventa famoso come

starmaker capace di trasformare i suoi attori in stelle mondane. Questo

riconoscimento biografico non investe però il riconoscimento del ruolo

artistico e creativo del regista, ma solo la superficie cronachistica.

Nell’epoca in cui Thalberg incarna perfettamente la figura del produttore-

cerbero, eccezioni come Neilan, Tourner o Griffith, ognuno a suo modo

incarnazione di un’idea totale e artistica della regia, non saranno destinate a

restare in giro per molto ad Hollywood. A farsi strada negli anni Venti del

sonoro sono invece “i registi che volano basso, rispettosi del sistema e dei

122

capricci delle star, che lavorano con professionalità senza aspirare a essere

dei Raffaello dello schermo”105.

Nel cinema americano degli anni Venti e Trenta, del resto, la già

debole funzione creativa assegnata al regista subisce un ulteriore

ridimensionamento industriale connaturato a uno sforzo collettivo per la

produzione dei film e all’impiego di troupe sempre più grandi e varie. Ad

affermarsi è la figura del produttore, il cui ruolo appare cruciale per la

realizzazione del prodotto filmico. Come un automobile, il film è il prodotto

di una catena produttiva. In questa logica, in luogo dell’esaltazione del

ruolo registico si afferma la mitologia della "non-regia": il regista diviene

apprezzabile quando la sua funzione si nasconde e "scompare" dietro a un

perfetto coordinamento degli elementi della messa in scena e produzione

filmica. Nell'epoca d'oro del cinema narrativo hollywoodiano il regista non

è ancora un autore (come sarà nel senso della Nouvelle Vague), ma è una

figura autorevole la cui traccia "scompare" dietro alla narrazione fluida e ne

assicura la spettacolare riuscita. Mentre negli anni dieci il sistema di

Hollywood arrivava in casi estremi ad esaltare la biografia del regista sulla

narrazione filmica, venti anni dopo lo subordina interamente alla seconda.

4.2.2 – Il regista all’interno del sistema

Il cinema classico hollywoodiano è allora caratterizzato secondo

Gandini da "un conflitto tra individuo e comunità che condiziona in

profondità sia le modalità con cui i film vengono realizzati, sia i loro

contenuti". I registi che provano a andare "controsistema" sono pochi, e si

affidano a strategie diverse. Il caso Capra è l'esempio storico più evidente di

una ricerca di rivendicazione del ruolo della regia nel cinema classico

americano. Per ‘Mr. Deeds comes to Town’ Capra pretende che venga

messo "il nome sul titolo"106. In ‘Arriva John Doe’ lo stesso regista

tematizza il problema autoriale. Per poterlo fare assurge a un ruolo mediano

105 ivi 106 ivi

123

tra il regista e il produttore ma in seguito, paradossalmente, finisce per

aderire suo malgrado alle stesse logiche contestate al sistema, come

l’utilizzo forzato del lieto fine [immagine.

Ancora più significativo appare il caso di Griffith che, arrivato a

Hollywood all’oscuro di nozioni tecniche di regia e professionalmente

vergine, investe il suo cinema di una regia iper-visibile, per nulla

trasparente e al contrario opacizzante dello sguardo, che da forma personale

al girato, investendovi la propria personale visione del cinema e del mondo

e utilizzando stilemi e soluzioni del tutto inusitate a confronto con lo stile

asettico e invisibile della regia dell’epoca. Il caso Griffith è quello di un

tentativo di rivendicazione del cinema come forma d'arte individuale e non

di prodotto industriale. Griffith, più di chiunque altro prima,

antropomorfizza il narratore cinematografico, implicandovi la presenza di

un regista al lavoro espressivo.

Per Griffith, ci vuole un autore, "un capo" per la buona riuscita del

film. Al termine de ‘L'orgoglio degli Amberson’, Griffith arriva a recitare a

voce il proprio nome. Per questi motivi e altri ancora, l’autore di ‘Quarto

Potere’ avrebbe visto terminare in maniera brusca e senza preavvisi il

proprio apporto allo studio system hollywoodiano. Alla RKO non

avrebbero tollerato ancora per molto il suo sconfessamento e ribaltamento

del principio di trasparenza del director in favore di una totale opacità dello

sguardo del regista sulla pellicola, né le sue pretese di controllare il montato

del film.

Il controllo del montaggio, elemento fondamentale della sintassi

filmica, appare come un’altra variabile centrale per la comprensione del

rapporto tra regia, produzione e testo filmico. Nel cinema hollywoodiano, il

montaggio del girato è istituzionalmente estraneo al regista, ed è

appannaggio del montatore su controllo della produzione. Nella Hollywood

classica, quindi, tanto meno un regista gira, tanto più ha la possibilità che il

suo prodotto finale sia una rappresentazione della direzione che il lavoro

dovrebbe intraprendere a suo avviso. È questa la ragione dell’esistenza di

una “poetica” di Ford, che era solito non volere lasciare alcun pezzo di

124

pellicola scartata, curando al massimo la ripresa, non intraprendendo

versioni diverse dello stesso girato e limitando al massimo il superfluo per

non lasciare grossi margini alla produzione.

4.2.3 – Dal regista al critico, dal critico al regista

La riflessione sul montaggio non interessa solo lo studio system

hollywoodiano, ma sarà centrale nel cinema e nella teoria cinematografica

in Russia. Le riflessioni di Kulesov, Ejzenstejn, Vertov e Pudovkin, il

discorso e il dibattito sul cine-occhio e sul montaggio e la dissezione del

linguaggio e della sintassi filmica portano i sostenitori di un cinema nuovo

al rifiuto del cinema tradizionale, ancorato a un'essenza pre-cinematografica

e invischiato nei pregiudizi creativi ed estetici ereditati dal campo, estraneo,

delle altre arti. Il regista cinematografico, attraverso l’uso completo delle

possibilità filmiche e in particolare del montaggio, è allora un vero e

proprio ricercatore di un linguaggio vergine, quello cinematografico,

costantemente alla ricerca delle sue specificità. E se anche può apparire

paradossale che i sostenitori del cinema nuovo in Russia sostengano il

“passaggio dalla creazione di un singolo autore o di un gruppo di autori alla

creazione di massa”, con il conseguente tentativo di “accelerare il naufragio

della cinematografia artistica borghese e dei suoi attributi: l'autore istrione,

la favola-sceneggiatura, e quei giocattoli di lusso che si chiamano

scenografia e regista-gran sacerdote", appare innegabile la considerazione

del fatto che l'imponente riflessione teoria nell'Unione Sovietica sul ruolo

della regia e sullo statuto del film troverà continuazione solo in Francia con

i critici dei Cahiers107.

La maggiore eco della riflessione sulla regia e il maggiore sforzo per

rivendicare la specificità del cinema si genera infatti dalla Francia. Già a

proposito del cinema delle origini, Herbier sospetta del termine "metteur en

scene" in quanto "sa di connivenza col teatro": la ricerca e definizione della

107 Per una esauriente storia del cinema si rimanda a Bordwell-Thompson (2005). Per la storia delle teorie sul cinema, cfr. Casetti (1994)

125

specificità del cinema sarebbero così già precluse in partenza. Herbier

lamenta anche il fatto che l'autorialità del film sia spesso o quasi sempre

assegnata allo scrittore del soggetto, piuttosto che al regista: non è infatti

nel soggetto scritto o nella sceneggiatura, ma nella pratica concreta della

regia che il cinema come mezzo di espressione trova massima

realizzazione. Il regista è infatti un coordinatore-assemblatore di istanze

creative che nella messa in scena trovano "un punto di sintesi e

rielaborazione" tale per cui l’opera finale non sarebbe mai uguale senza il

suo metteur en scene.

Paradossalmente, come fa notare Gandini, è basandosi su questo

termine vituperato e ritenuto connivente con quanto non attiene alla

specificità cinematografica che Bazin e i critici dei Cahiers du Cinema

penseranno, tra gli anni cinquanta e i sessanta, a un cinema della camera-

stylo, a un cinema non come mero mezzo riproduttivo della realtà ma come

un lapis nelle mani del regista, al servizio di una rielaborazione

dell'esistente. Questo profondo e al tempo rivoluzionario ripensamento

della figura del regista, che da luogo alla cosiddetto Politique des Auteurs

dei critici dei Cahiers, è frutto tanto del ruolo dei critici che delle mutate

condizioni produttive. Queste si presentano più abbordabili che in passato,

con tecnologia a piu basso costo e una maggiore agilità economica dei

progetti: tutto questo consente un accrescimento del peso del regista, e un

conseguente arricchimento e mutamento del linguaggio e della concezione

filmica. Il regista, interessato maggiormente alla psicologia dei personaggi

piuttosto che all'intreccio, finirebbe col proiettare anche la propria

personalità nell’arte della camera-stylo. La politique degli autori ha una

particolare importanza perchè il cinema era allora considerato subordinato

rispetto alle altre arti, mentre i suoi fautori ritengono che qui come altri

campi ci si possa imbattere in autori dotati di una precisa poetica. Ed è il

regista ad essere eletto a responsabile della mise en scene di questa poetica.

Per la prima volta, il regista viene considerato non solo, eventualmente, per

il suo personaggio da rotocalco e per la sua personalità pubblica, ma per il

suo essere un autore. Con il regista si avvertire la presenza nel film di "un

126

intelletto che si esprime in modo lucido e profondo, che fa del cinema, dei

suoi film, il terreno di espressione della propria concezione del mondo", in

un'epoca in cui prima della politique gli sceneggiatori in Italia e gli attori e

produttori a Hollywood si vedono attribuire meriti “che finiscono per

adombrare il ruolo della regia"

Attraverso la politique la credenza nella distinzione tra il mestierante

su committenza e il regista per vocazione si radicalizza. Il confronto

sull'idea registica non interessa il regime istituzionale e produttivo del

regista, ma in primo momento la critica. La mise en scene è infatti il

momento in cui col mezzo filmico una visione del cinema è anche visione

del mondo. La tradizione di riferimento cessa di essere l’apprendistato, e la

comunità a cui il regista si rivolge non è più quella del pubblico

indiscriminato: ha invece a che vedere con una tradizione che ci si è

costruiti, con un pantheon di registi ispiratori. Ogni regista, per i critici dei

Cahier, è un autore del suo film, al massimo un pessimo autore. Tuttavia,

gli "autori" eletti dai Cahier, divenuti poi esempi di altrettante idee di

cinema, non sono necessariamente ai margini del sistema cinematografico

che i Cahier condannano in quanto stantio, letterario e "di papà". La poetica

cinematografica, nell'accezione cahieriana, ha quindi poco a che vedere con

la situazione finanziaria del regista.

Elevando il regista al ruolo di autore e artista, il maggiore effetto

ottenuto è quello di inquadrarlo secondo un’ottica non estranea al concetto

di arte secondo una impostazione di pensiero tradizionalista, di stampo

romantico. Nonostante questo, con il passaggio di molti dei critici dei

Cahiers alla regia, negli anni sessanta ha il via una corrente cinematografica

iconoclasta e moderna nei linguaggi e nei temi, la Nouvelle Vague: un

cinema che si presenta come una fondazione di nuovi, liberi paradigmi ed

exempla, dai tratti fortemente autobiografici. Un cinema con il quale si crea

il principio di una "koiné parlabile e articolabile" del cinema108 che si

esprime non attraverso il praticantato da bottega, ma attraverso un pantheon

di maestri eletti da osservatori, lasciando così un margine per 108 cfr. Costa (2002)

127

l'individuazione di una poetica personale. L'introiezione della personalità

del regista nel testo è allora il grimaldello per una rivoluzione della

grammatica filmica rispetto a quella affermatasi istituzionalmente. Una

grammatica che investe la regia come anche la scrittura filmica e il

montaggio.

4.3 – La mitopoiesi autoriale

I Cahiers du Cinema e la Nouvelle Vague, pur nella varietà delle posizioni

dei pensatori e dei registi che si è soliti includere al loro interno,

rappresentano quindi due aspetti complementari della medesima visione del

mezzo cinematografico: quello critico e quello del fare filmico. Allo stesso

modo, l’influenza di questo movimento culturale è doppia, e investe tanto la

storia del cinema quanto la sua futura teoria, costituendo peraltro uno degli

elementi che contribuiscono a fare convergere, intrecciare, contraddire il

testo filmico, l’epitesto commerciale e il metatesto critico.

Sul piano del fare filmico, che si presenta spesso in comunicazione

con la dimensione critica e l’epitesto pubblicitario e di appendice dei testi

cinematografici, la nozione autoriale viene affermata dai Cahiers e si

incarna nei film di autori come Godard e Truffaut. La corrente che si è soliti

identificare con il termine di Nouvelle Vague, oltre ad affermare il ruolo del

regista nel linguaggio dei film e tramite i crediti e il paratesto che li

presenta, da il via a una visione del cinema e a una affermazione sul suo

statuto, ispirando per decenni successivi alla sua stessa estinzione lo

sviluppo di strategie autoriali e riflessioni sull'autore.

Dal punto di vista registico, l’esempio di autogestione e il

rafforzamento del ruolo del regista degli autori della Nouvelle Vague,

spesso in rotta con la produzione o capace di slegarsene con progetti

economicamente più agili e poche risorse, si unisce alla maggiore

reperibilità dei mezzi produttivi per fare cinema, e inietta fiducia nella

produzione indipendente. Negli anni sessanta, la produzione indipendente

risponde pienamente all'insoddisfazione nei confronti del production system

128

di Hollywood, causando una vera e propria rivoluzione del modello di

produzione filmica, investendo il linguaggio filmico di una serie di temi,

stilemi e soluzioni in larga parte inediti e lanciando una nuova generazione

di registi come Scorsese, Coppola, Lucas. Sul piano della produzione, la

dimensione della grande industria si affianca a quella semi-artigianale e

artigianale. I registi hanno piu libertà creativa, anche se i molti fallimenti al

botteghino causeranno, negli anni ottanta, un grande ritorno al modello dei

grossi studio negli anni Ottanta.

Sul versante critico, teorico e, in generale, del discorso più o meno

specializzato intorno al cinema, l’influenza dei Cahiers e il confluire delle

personalità critiche alla base di un ripensamento dell’autorialità al cinema

in una corrente come quella della Nouvelle Vague sono decisive.

L'entusiasmo con cui i postulati critici della nouvelle vague vengono

interpretati porta ben presto a una serie di esasperazioni e distorsioni del

concetto di autore, la maggior parte delle quali a opera di puri critici che, a

differenza dei collaboratori dei cahiers, non diventeranno mai registi.

La portata intellettuale dei Cahiers, che consisteva nell’elezione di un

pantheon di autori dotati di una vera e propria poetica, tale da ispirare in un

secondo momento il regista alla ricerca di una poetica personale, perde il

suo carattere pragmatico e la sua finalità rivolta al fare filmico e si connota

di romanticistica mitologia del genio d’autore. Kael, già negli anni sessanta,

critica l’impostazione critica di Sarris, ricalcata dai Cahiers ma estremizzata

a tal punto da diventare una vera e propria "intuizione mistica"

dell'autore109. Kael parla a tal proposito di un tentativo "di usare il regista

come Cavallo di Troia per far entrare il cinema nel territorio dell'estetica,

promuovendo la sua figura come equivalente a quella dell'artista nella

tradizione romantica, che forgia l'opera in virtù della propria irriducibile

individualità creativa". Kael rimprovera a Sarris anche il fatto di esporre la

sua critica apologetica dell’autore al pericolo di non riuscire a distinguere,

in base a questa logica, i film riusciti di un autore da quelli che si sono

rivelati mediocri o pessimi. 109 Cit. in Gandini (1998)

129

Quella di Kael è una intuizione lungimirante (oltre che, come

vedremo tra pochi paragrafi, teoricamente ragionevole). Se la tendenza

critica dagli anni sessanta in poi, infatti, era la riscoperta dell'autore, negli

anni ottanta la tendenza nei confronti dell’autore sarà la sua creazione a

tavolino, il trasformarlo in un prodotto o, se si preferisce, in un’etichetta

commerciale per il lancio e la promozione del film. Dagli anni settanta in

poi, come conseguenza, avviene un’invasione dei registi, con i critici alla

caccia, riscoperta o creazione degli autori. Alla creazione industriale degli

autori si affianca la mitopoiesi del critico. A volte è lo stesso critico a creare

l'autore, non senza spericolatezze acrobatiche sul piano terminologico, ed è

a questo punto che, mentre l’autore diventa il cavallo di Troia per la vendita

del film, il film e l’autore diventano un cavallo di Troia per l’esposizione

dell’acume del suo apologeta110.

Il nome dell’autore sopra il titolo, così difficilmente conquistato da

Frank Capra e a titolo del suo libro sull’argomento, è adesso la norma per

uno studio system che assume spesso l’autorialità come strategia chiave: a

ogni regista va la nomenclatura di autore a tutto vantaggio della retorica

commerciale sull’artisticità del mezzo cinematografico, pienamente

accettata a livello accademico come popolare. Gandini fa notare come la

scelta di difendere ogni regista come autore abbia determinato,alla lunga,

uno scivolamento della nozione di autore “nell'orbita di quella produzione

seriale e standardizzata che costituisce il centro nevralgico dell'odierno

intrattenimento di massa, dove a contare è evidentemente la possibilità di

utilizzare il nome del regista come marchio, garanzia della qualità del

prodotto da lanciare".

Corrigan parla del "business di essere autore": le diciture "from the

director of" e "director's cut", che oggi costituiscono di fatto la norma del

mercato promozionale del film, sono etichette paratestuali che rinforzano

questa strategia, oltre ad agire in piena direzione di restrospettiva di

catalogo commerciale per registi affermati e dalle buone vendite, che

110 Gandini riporta a tal proposito Musil, riferendo come i critici siano spesso "lirici mancati che devono attaccarsi a qualcosa per potersi espandere". Cfr. Gandini, (1998)

130

vedono i propri lavori incanalati nelle logiche delle librerie di dvd111. Il

regista sembra allora approdato "allo stato di visibilità suprema", incensato

da una critica auto-compiacente e promosso dal sistema produttivo, proprio

nel momento in cui – perfettamente integrato nella logica di produzione che

antecede la ricerca personale - ha smarrito il compito essenziale di

esclusione/inclusione del materiale dall'opera, alla sua impronta nel gioco

condiviso del cinema.

Gandini sostiene allora che le chance rimaste al regista sono allora

quelle di "nascondersi". Il mezzo cinematografico contemporaneo

verserebbe in uno stato caratterizzato dalla nevrosi autoriale esibita, e dalla

contemporanea polverizzazione delle poetiche filmiche personali, con il

loro aggirarsi tra il nostalgismo cinematografico, la contaminazione

stilistica, l’autorialità “di genere” (e non più quindi in antitesi al genere), il

postmoderno. Così, Kiarostami sarebbe un apologeta del ritorno alla

camera-stylo, grazie alla portabilità del digitale e al potenziale di

autoproduzione della tecnologia recente, verso il tentativo di fare

scomparire il regista e fare ritornare il puro Autore. L’alternativa della

“scomparsa nel genere” sarebbe la strategia cinefila fatta propria da registi

come Tarantino: in questo senso, l'autore non si distinguerebbe da un

demiurgico e postmoderno operatore di assemblaggio, recupero, ri-

nobilitazione di “generi” esistenti, magari dimenticati o lungamente

sottoposti a discredito critico. Il regista pratica allora profondamente il

cannibalismo intertestuale, e non parla attraverso la lingua del cinema ma

"ne è parlato". Ci sarebbe, infine, la pratica, del tutto confluente nella logica

autoriale di questa epoca, del remake, che da un lato rinforza ma dall'altro

problematizza l'imperativo dell'autore. Gandini porta ad esempio il caso

Van Sant, che rifà Psycho senza pretendere di riscriverne lo spirito, ma

come se volesse riportare alla luce l'originale in maniera fedele. Il regista

contemporaneo, allora, sarebbe una figura problematicamente all'incontro

tra la creazione e la ricezione, a simbolo dell’attuale fase del mezzo

cinematografico. 111 Cfr. Corrigan, cit. in Gandini (1998)

131

4.4 – Critiche dell’autore cinematografico

Se la storia ricerca dell’autore nel videogioco era iniziata in termini

problematici, legati alla difficoltà di pertinentizzare lo specifico videoludico

e il ruolo del programmatore, creatore o designer, si può constatare

facilmente come anche al cinema l’autore non sia un punto di partenza, ma

un luogo provvisorio di arrivo, storicamente controverso e teoricamente

problematico.

La storia della regia cinematografica, della quale abbiamo tentato di

delineare alcuni tratti fondamentali senza inoltrarci nelle vaste ricognizioni

rese necessarie da una più profonda opera di riflessione sull’evoluzione del

linguaggio filmico, è in larga misura una storia del modo in cui la nozione

dell’autore si è evoluta nel mezzo cinematografico.

Le possibilità espressive del mezzo, il suo inserimento in un sistema

di produzione industriale, le conflittualità produttive e tecniche in gioco

hanno determinato una storia che passa dalla radicale negazione

dell’autorialità alla sua strumentalizzazione biografica, dalla sua

affermazione programmatica al suo rientro nelle logiche corporative sotto

forma di etichetta.

Se l’autore è parte integrante del paratesto filmico, anche l’epitesto

critico del mezzo riflette la centralità come l’ambivalenza di lettura della

nozione autoriale. Mentre sulle riviste commerciali la logica dell’attore

famoso e la retorica dell’autore si alternano in copertina, riviste di spessore

critico e teorico del livello di SegnoCinema assumono l’autore come un

problematico snodo critico per criticare il presente e comprendere il passato

cinematografico. Che si tratti, insomma, di acquiescente connivenza

piuttosto che di critica del mito autoriale del cinema contemporaneo,

l’autore occupa il centro della ribalta insieme al testo. Il dibattito sull’autore

è più quindi attuale che mai. Quando non è l’oggetto di volumi dedicati, di

interventi pubblici in conferenze e di speciali di riviste, l’autore opera per

una certa critica di settore il ruolo di una questione latente, di una

consapevolezza in filigrana nel considerare il testo filmico.

132

È a questo modo di interpretare criticamente l’autore nel testo

filmico che vogliamo continuare ad aggiornare la nostra riflessione,

concentrandoci sull’aspetto teorico. Senza pretese di completezza o di

rigore cronologico, passeremo in rassegna alcuni punti fondamentali: la

trasformazione dell’autore in etichetta, il rapporto tra autorialità, pubblico e

critica, l’irrinunciabilità alla lettura del testo attraverso l’autore anche nel

senso critico, il rapporto tra una prospettiva testualista e una incline a

riconoscere il soggetto.

4.4.1 – L’autore da nozione a etichetta

In Bazin, tra i principali fautori della politique, l'autore era il cardine

di una politica, di un'estetica e di una teoria critica. Quello del regista-

autore di un cinema-arte dotato di una specificità era un concetto "da

impugnare contro le risacche di un'arte indolenzita dalla letterarietà dei suoi

interpreti, ma anche il fulcro sul quale torcersi per passare dalla critica alla

regia”112, come avrebbero fatto gli interpreti di questa critica. Questa

nozione sarebbe però diventata un’etichetta formale, perpetuandosi ben

oltre il suo naturale ciclo di utilità e cessando di lavorare nella direzione per

cui era stata pensata: finendo anzi, secondo molti, per remare nella

direzione opposta.

La trasformazione dell’autore in un’etichetta commerciale è

analizzata da De Bernardinis, che ravvisa nell’attuale abuso della logica

autoriale in calce ai titoli dei film una tendenza, evidente e preoccupante, di

una “deriva dell'autore”, di un suo scivolamento nelle “spire del marchio”

in maniera che appare “solidale al cine-sentire della calibrata mitopoiesi

contemporanea"113. Si osserverebbe, nei fatti, proprio mentre l’autore viene

esaltato nella presentazione del film, a un prevalere del testo e del

“progetto” sul secondo. A essere obliterata non sarebbe così tanto l’idea

stessa di autore, che ne esce affermata, ma proprio il suo mestiere: l’autore,

112 cfr. Grespi, B., “In principio era l’Autore”, in Segno Cinema, n. 103. E ancora Casetti (1993) 113 cfr. De Bernardinis, F., “Nuova Gestione”, in Segno Cinema, n. 103

133

insomma, si ritirerebbe per assumere “in vesti meno gravose […] il ruolo

dell’esecutore”. L’autore, inteso come personalità all’opera

sull’enunciazione di un testo, non riesce ad attecchire nel vuoto delle

formule filmiche fondate più sui “tipi” di film che sui generi e, divenuto

“marchio”, si ritira, rinunciando all’invenzione di una storia o di un

significato. Si accontenta, allora, proprio di una gestione di una storia o di

un significato, e questo tanto nel grande prodotto hollywoodiano quanto nel

sistema di sperimentazione indipendente, accomunati dalla saturazione

della progettualità filmica. Secondo de Bernardinis, comunque, esiste un

contraltare positivo a questo fenomeno: la perdita da parte dell’autore,

almeno fuori dal livello della retorica pubblicitaria, della dimensione del

tragico associata al suo gesto creativo, della lotta contro il destino per il

compimento dell’opera. Ciò non toglie che, finita l’epoca degli autori colti e

cinefili, Hollywood abbia accolto in massa quei “gestori del marchio” che

non hanno troppe radici da omaggiare o un “cinema di papà” con cui

prendersela, e che si limitano a rimodellare, disciplinatamente, le forme

testuali che ricevono.

4.4.2 – Il pubblico, la critica, la “cifra d’autore”

Il rapporto tra l’autore e il pubblico, che in qualche modo contribuisce a

“creare” il primo, è esaminato da Mazzarella nello stesso speciale di Segno

Cinema a cui facciamo riferimento per molti tra i contributi di questo

capitolo114. Mazzarella fa notare la quotidianità di fenomeni come “il

Giovanna d’Arco di Luc Besson”, in cui Besson osa appunto considerarsi

l’autore di un’opera che riscrive sotto la sua personalità (un po’ come

l’Ulisse di Joyce, se vogliamo). Mazzarella mette quindi in guardia dal

mitologema della impalbabile “cifra d’autore”, nonché dai rischi che

derivano dall’accettare una correlazione tra la credenza nella prima e

l’apologetica accettazione di un pubblico sottoposto a bombardamento

retorico. Sottoponendo Besson a una ricerca sui suoi presunti stilemi, sulle 114 Cfr. Pezzotta, A. “L’autore tra noi (s)conosciuto” (a cura di), in Segno Cinema, n. 103

134

collaborazioni tipiche del suo lavoro (la fotografia, la sceneggiatura), sugli

stili e i generi di film attraversati, Mazzarella sostiene che di fatto “il

Besson-touch non esiste” a livello stilistico, mentre contenutisticamente il

comune denominatore dei suoi film equivarrebbe a un “boh”. Per

Mazzarella, insomma, la “cifra d’autore” è diventata una impostura da dare

in pasto a un pubblico incline ad accettare la retorica dell’arte

cinematografica, in modo tale che il pubblico è co-autore dell’autorialità

nevrotica e forzata del cinema contemporaneo115.

La critica prosegue facendo notare una conseguenza ulteriore di

questo stato di cose: il rischio della credenza nella cifra dell’autore basata

sulla coerenza dei contenuti dei suoi film. Questo approccio è fallace

perché, in primo luogo, presenta il rientro di nascosto di una

contrapposizione già teoricamente defenestrata, quella tra il prodotto di

cultura “alta” e quello “basso”. Se l’autore si riconosce dalla coerenza del

contenuto e degli stilemi, infatti, autori a tutti gli effetti dovrebbero essere

considerati pure i registi dei più irriverenti e dozzinali fart-movies o i

fratelli Vanzina, salvo il recupero della contrapposizione sopra citata. In

secondo luogo, prosegue Mazzarella, la coerenza dei contenuti è un

approccio fallace per riconoscere un autore, visto che molti registi incapaci

continuano, per soldi o per un certo “talento”, a proseguire sullo stesso

solco.

Un’obiezione a queste osservazioni sarebbe allora che ci sarebbero

autori buoni e autori cattivi, rientrando così interamente nel precetto

cahieriano. In realtà, questo porterebbe a estendere indiscriminatamente il

novero degli autori, fino alla perdita di utilità del concetto. La caccia rischia

così di diventare, paradossalmente, quella al non-autore. Bisognerebbe

riconoscere, in realtà, come persino i fautori della politique des auteurs

abbiano presto visto la propria visione comune sfaldarsi nella totale

eterogeneità di vedute, in alcuni casi antitetiche ai precetti della politique.

Non si sentirebbe affatto l’esigenza, allora, di quell’“autore" che "si

autodefinisce come tale, che firma manifesti teorici cui poi non tiene fede, o 115 cfr. Mazzarella, F., “C’è un autore in questa sala?”, in Segno Cinema, n. 103

135

che è in grado di teorizzare sul suo stesso cinema o che mi mostra tutta la

sua essenzialità taiwanese"; mentre ci sarebbe sempre bisogno di autori

appartenenti “a quella razza situazionista in via d'estinzione” i quali

“sfruttano la fiducia accordata loro dall'industria per sabotare le aspettative

degli executives, riuscendo a far credere di aver realizzato i desideri del

committente e avendo dato invece fondo alle loro più perverse brame"116.

Il discorso investe, evidentemente, la critica e il pubblico, che delle

apologetiche eco dell’idea autoriale sono al contempo camere di risonanza

e destinatari. La creazione dell'autore da parte del pubblico è infatti

imperfetta e irrilevante, ma anche quella fornita dalla critica si è rivelata

"altrettanto approssimativa e infallibile", tanto più oggi in una situazione di

"disintegrazione delle teorie e di vertiginosa, e per certi versi inspiegabile,

caduta libera" della funzione critica, dovuta a una stagflazione dell'offerta

di intrattenimento senza pari nella storia moderna.

Mazzarella si domanda provocatoriamente se c’è ancora bisogna di

un’idea di critica per il cinema, visto che il cinema del multiplex e di

magalog, al contempo causa ed effetto del declino al minimo storico della

funzione pubblica della critica, sembra non avere neppure più bisogno di

quest’ultima, mentre appaiono veramente dei “mostri nobili” quegli autori

capaci di progetti e riformulazioni di “un altrove davvero inedito o

possibile”, e ancora immuni dallo spettro citazionista del postmoderno o dal

ritiro snobistico nelle forme arcaiche o desuete.

La nozione autoriale, allora, sarebbe un prodotto di divenire storico,

ma sembrerebbe che si sia disintegrata proprio perchè non esiste una storia

di oggi che dia alla nozione un senso. Sulla critica, che apparirebbe

largamente deprivata della propria funzione, si concentra l’analisi di

Monetti, che sposta la riflessione sul modo in cui essa costruisce e legittima

se stessa attraverso la costituzione e apologia del proprio oggetto d’analisi.

Monetti evidenzia in particolar modo la tendenza della critica a

costruire, per legittimarsi, una propria idea autoriale117. Non solo aderendo

116 cfr. Mazzarella, cit. 117 cfr. Monetti, D., “Lo spettro della rivalutazione”, in Segno Cinema, n. 103

136

alla propaganda della distribuzione filmica ma anche, eventualmente,

prestandosi a forzose opere di rivalutazione di registi del passato, o

cercando la convergenza con il gusto popolare e commerciale attraverso

rivalutazioni e assegnazioni di forzosi statuti di cinema di culto. Nel

rinvenire autori, insomma, la critica li crea. Nel far ciò, arriva a sovrapporre

la figura dell’autore a quella del semplice e onesto mestierante.

L'intellettualizzazione del regista e della scrittura filmica (che in alcuni casi

si riduceva a una mera scusa per le esplosioni linguistiche e visive dei

comici della commedia sexy) ha, così, "regalato la parola autore a chi si è

sempre sentito un semplice artigiano". Monetti porta l’esempio dello iato

tra la preparazione di Ghezzi e Germano intenti a intervistare Joe D’Amato

sulla sua opera e quest’ultimo, impreparato su se stesso e “più vicino a

Pierino che non alla figura dell'autore”. È in questo duplice movimento, in

cui “ci si porta verso il senso dell'opera cercando di appropriarselo, ma allo

stesso tempo sapendo e desiderando che il senso possa essere altro o

semplicemente non esserci”, che la critica cinematografica diventa una

critica autoriale, aderendo all’idea-ideologia di quest’ultimo. È qui che

l’emulazione dei Cahiers du Cinema fallisce, perché il testo filmico diventa

un mero pretesto per rendere autorevole il testo scritto, e mentre la critica

tenta di non sparire, di fatto diventa “un genere paratestuale all'opera

filmica, un esercizio di scrittura piuttosto che d'analisi, completamente

autarchico".

La funzione critica rimane indispensabile, visto che l’espulsione

dell’epitesto e della sua influenza sul testo cinematografica appare

un’ipotesi da scartare. Se esistono migliaia di film senza autore, fa notare

Pezzotta118, è difficile che ci siano film apocrifi di registi tenuti all'oscuro: il

cinema è un'arte pubblica, la prima di cui si sia seguita la storia in

contemporanea, con un grado di controllabilità che rispetto al libro

denuncia il lavoro collettivo e pubblico. Anche Pezzotta rinviene nel culto

autoriale contemporaneo e nella rapidità con cui si costruiscono autori

nient'altro che una forte e irrinunciabile necessità della critica, che brancola 118 cfr. Pezzotta, A., “Una modesta proposta”, in Segno Cinema, n. 103

137

nel buio, esattamente come gli stessi autori, visto che è il marketing a

rifornirli di nuove figure. Per Pezzotta, anzi, sarebbe non troppo azzardato

preconizzare un futuro possibile in cui l'autore è scomparso e vale la marca,

il marchio, l'esperienza pura, e non il tentativo della ricerca autoriale di

ancorare l'esperienza del cinema alle nostre identità e alla nostra storia,

fornendogli un senso a cavallo tra la storia e l'immaginario. In quel

momento sarebbe loro rimasta davvero solo la realtà, ma i prolegomeni di

una simile situazione potrebbero essere osservabili già da oggi. Quanto più i

critici parlano di autori, infatti, tanto più Hollywood si affretta a trovarne di

nuovi, continuando a mettere in testa ai titoli i nomi di qualunque

sconosciuto in una nuova fabbrica della idea di autore in cui i nomi sono

perfettamente scambiabili e rispondono alla sola logica dell'autorialità "di

marchio", del bollino di Alta Qualità Artistica. La critica deve allora

rinunciare alla autorialità come categoria analitica, perchè essa è oggi

obsoleta e connivente proprio a quella industria che nega il cinema come

arte demiurgica attraverso la quale si può affermare una visione personale

del cinema/del mondo.

Bisognerebbe quindi, prosegue Pezzotta, pensare agli autori non

tanto come ad artisti coerenti a cui dedicare biografie, ma come attori che

brancolano nel buio, diffidando dei nomi: dietro a questi, infatti, si celano

nella maggior parte dei casi dei marchi, delle griffe, del merchandise e,

mentre il cinema si trasforma, chi lo produce ci fa perdere tempo a

incasellare i nomi che ci vengono proposti a getto continuo.

4.4.3 – L’autore e la prospettiva testuale

La proposta sarebbe allora, in un certo senso, quella di praticare

“l’astinenza dall’autore”, come unica alternativa alla logica

dell’incasellamento forzato del cinema e della sua pratica nella retorica

autoriale. Si tratta, probabilmente, di un’ipotesi utopistica. Sembrerebbe,

infatti, per certi versi, che l'idea di autore sia comunque irrinunciabile.

138

L’autore sarebbe una nozione dalla quale, come sostiene Menarini119, non si

può fare fuga. Pare, infatti, come testimonia "la paradossale polemica che

ha diviso critici e registi qualche tempo fa, importata dalla Francia e

tiepidamente rinfocolata in Italia (dove la critica non conta nulla)", che del

cinema si torni sempre a parlare attraverso l'autore.

L’appello al carattere corale dell’enunciazione filmica, i processi di

scrittura e di ricezione, e tutto l'apparato critico mobilitato per mettere in

guardia dalla retorica autoriale risultano estremamente cagionevoli sul

piano comunicativo non appena si entri in un ambito di discussione un

minimo generalista. Inoltre, anche quando il regista “diventa fuorilegge”

come secondo il progetto filmico, rinunciando a prendere posizione dentro

una finalità narrativa, è sempre la sua negazione a monte a farlo rientrare

dalla finestra, e a far rientrare il testo nella sua logica. Menarini presenta

l’esempio di Dogma, progetto ammirabilissimo che però contraddice

largamente il suo manifesto, non rinunciando fino in fondo "all'idealismo

nell'opera d'arte". Come anche l'eclisse volontaria di Antonioni e il suicidio

ideologico di Vertov, che non cancellano il dato di fatto di un discorso sul

cinema che finisce per chiudersi "a riccio", dall'alto e dal basso,

sull'autore120.

Secondo Menarini, allora, il cinema non puo' liberarsi dalla figura

dell'autore, neppure seguendo la strada delle altre arti, dove anche i grandi

autori sono diventati dei “grandi campionatori”. E, se non bisogna

scimmiottare stupidamente il cinema degli autori della politique, rischia di

apparire altrettanto semplicistico l’accettare passivamente la legge del "tutto

già filmato", secondo la quale la grande mappa ipertestuale del cinema

postmoderno sarebbe la riserva in cui l'autore affastella "relitti tarlati" del

cinema.

L’autore potrebbe a tutti gli effetti essere una nozione indispensabile,

se accettassimo l’assunto per cui in esso agisce una focalizzazione

dell’aspetto residuale dell’opera dell’individuo rispetto al testo. Non ci

119 cfr. Menarini, R., “Fuga dall’autore”, in Segno Cinema, n. 103 120 ivi

139

sarebbe, insomma, solo il testo, ma dal suo interno emergerebbe il soggetto.

Si tratterebbe allora di non negare del tutto l’idea autoriale, ma di far

rientrare il problema del soggetto-autore all’interno di una posizione

testualista. Grespi ricapitola la storia dell'idea autoriale facendo notare

come questa l'idea autoriale possa essere osservabile sotto tre aspetti. Il

primo è quello giuridico: l’autore è il creatore di lavori, sui quali ha dei

diritti. Il secondo è quello estetico, che pensa all'Autore come sinonimo di

artista, caratterizzato da intenzionalità e espressività proprie, interiorizzate

nell'opera. Il terzo è quello strutturale, che riduce l'autore a un principio

ideale, a una istanza che lavora per la coerenza simbolica dei testi, nei quali

vi è singolarità e non serialità rintracciabile sulla base di un soggetto. L'idea

di autore, quindi, non sarebbe solo “una categoria critica metastorica, in

base alla quale tagliare cent'anni di cinema”, ma anche una nozione

“fortemente implicata nei dati contestuali delle diverse fasi della storia del

cinema”. Non siamo lontani da quanto riportato in Gandini a proposito

dell’autore nel cinema hollywoodiano, che si configurerebbe secondo un

forte conflitto tra individuo e comunità, nel momento in cui siamo inclini a

vedere nella “comunità” anche le pratiche di significazione e la cultura

condivisa sul fare il cinema in un sistema di produzione. Ci troviamo sullo

stesso terreno, di fronte a quella esigenza di una considerazione

dell’enunciazione tratteggiata nei capitoli precedenti, capace di dare conto

di un enunciatore (non troppo) impersonale.

Del rapporto tra soggetto e testo, fondamentale a proposito

dell’autore e già preso in esame nei capitoli precedenti nel campo del gioco

elettronico, si occupa in senso prettamente testualista l’intervento di

Terrone-Bellavita121. L’autore, innanzitutto, non è “una visione del mondo",

ma è "un filo che collega film diversi". L’assunto Baziniano della visione

del cinema-visione del mondo viene criticato non solo nei suoi abusi

susseguenti, ma in quanto tale. L’autore esisterebbe in realtà per "far parlare

i film tra loro", per “tenere corsi", per ordinare i film, per etichettare. Non

sarebbe uno sguardo sul mondo, e neppure una biografia o psicologia che 121 Cfr. Bellone-Terravita, “Idealità dell’autore”, in Segno Cinema, n. 103

140

agisce sul testo, né infine il genio romanticamente inteso che, diversamente

dal comune mortale, si manifesta incontestabilmente nella grande opera

come pure però in quella "minore". Il cinema “non è fatto di registi, ma di

film fatti dai registi”. Pensare che il regista venga logicamente prima del

film equivale, per Terrone-Bellavita, a pensare che "il pensiero preceda

l'immagine",che “l'anima preceda l'apparenza", e in definitiva ad accettare

"la matrice platonica e biblica per cui un dio è demiurgo del mondo".

Terrone/Bellavita mettono bene in luce le contraddizioni e fallacie

che seguirebbero al precetto psicologista alla base di molti ragionamenti

sull’autore. Se l’autore potesse imprimere la propria psicologia nelle

immagini, queste diverrebbero solo un mezzo dell'autore. Ma "dal momento

che un profilo psicologico individuale è più limitato di un sistema visivo

polisemico”, la supremazia dell'autore sul film finirebbe (come è successo)

per impoverire il discorso sul cinema anziché agevolarlo122. Non interessa,

dunque, "cosa l'autore voleva dire", ma quello che ha detto, e quello che ha

detto è nient’altro che il film. Quello che perviene alla dimensione umana,

psicologica, personale dell’autore, infatti, non è soltanto impossibile da

trovare nel film, ma è anche poco interessante, perché non vi è nella prima

una differenza rispetto a quella dell’uomo ordinario. Inoltre, non perviene

all’analisi cinematografica. A questa, per esempio, non interessa conoscere

il perché della paure di Argento e il modo in cui si sostiene che esse si siano

riversate nei suoi film: le interessa, invece, com’è naturale credere, capire

come Argento costruisca la paura nel cinema, con il linguaggio filmico e le

sue risorse.

L'autore è quindi "nell'opera": non ci interessa perché si esprime

attraverso le immagini, ma perchè esprime immagini. È una funzione del

film, e la sua psicologia, come quella di chi ha lavorato al film, è solo parte

di questa funzione, che non si esaurisce in essa né, tantomeno, coincide con

il film. Ecco che l’autore “va messo in parentesi”. Esso è un presupposto

122 Freudianamente, il problema dell'analisi del sogno/film è quello di risalire dal contenuto manifesto al contenuto latente, che è il pensiero dell'Autore (del sogno/del film). Terrone-Bellavita portano come esempio opposto Matt Blanco: il sogno/ film sussisterebbe, al contrario, soltanto nella pienezza delle proprie immagini, il cui significato non potrebbe essere detto altrimenti. (cit.)

141

del film, come lo sono lo spettatore, il montatore e l'attore. Parimenti,

l'atteggiamento ingenuo che vede il film un’opera di un autore-genio va

sostituito con una forma mentis più critica, per cui l'autore è una

componente materiale del film, che attiene alla sua scrittura. Questo

ragionamento non intende negare l'autore, sventolando con qualche

decennio di ritardo e fuori contesto le bandiere della sua morte123, né

postulare un utopistico cinema collettivo, che scambia la dimensione corale

della scrittura filmica con l’identificazione dei soggetti coinvolti in una

presuntamente omogenea, ma facilmente smascherabile, autorialità

collettiva. Il concetto di autore è "semplicemente una modalità di

rappresentazione della geografia del cinema", sapendo che una mappa ha il

potere di ordinare e rendere intelligibile, ma non quello di cambiare la

sostanza sottostante. L'autore, come peraltro il genere, sono mappature così

classiche che, sostengono Terrone-Bellavita, si è finito col confonderle "con

il territorio stesso". Scrivere un libro su un autore significa allora "produrre

una mappa per muoversi attraverso l'opera", non "risalire dal film a chi l'ha

fatto". L'autore è necessario in chiave dialettica, e dopo essere stato negato

in favore del testo può essere recuperato nel senso di un insieme "di aree

stilistiche e tematiche".

4.4.4 – L’autore, il genere e la terza via

Il confronto-scontro tra l’analisi del film attraverso la nozione di

autore e quella di genere è bene illustrato da Buccheri124, che presenta la

questione non senza riscontrarvi una certa obsolescenza teorica. In effetti,

fa notare Buccheri, la nozione di autore o la lettura del cinema attraverso il

genere vengono, ogni volta in cui esse cono citate, ricondotte al tempo

stesso alla loro problematicità. È l’epitesto cinematografico più superficiale,

allora, ad aderire supinamente alla retorica dell’auteur, mentre il dibattito

teorico, a guardar bene, verte intorno al problema della validità di questi

123 Ci si riferisce alla celebre morte dell’autore di Roland Barthes. Cfr. Barthes (1968) 124 Cfr. Buccheri,V., “Il terzo escluso”, in Segno Cinema, n. 103

142

approcci, arrivando a interrogarsi sulla loro legittimità. È quanto accade

nella ricostruzione delle teoriche filmiche di Casetti125, nell’atteggiamento

di ricerca di Brunetta126 e Pescatore127. La vera lezione e utilità della

nozione di autore è quella di rendere chiaro quanto le categorie

cinematografiche siano transitorie, caduche, e lo specchio di questioni

teoriche e critiche mutevoli.

La nozione di autore è stata affrontata quando si è profilato "il

bisogno di legittimare il cinema sul piano estetico, di farne un'arte alla pari

con le altre", per dimostrare che la macchina da presa non era uno

spoetizzante meccanismo riproduttivo ma uno strumento espressivo. Lo

stesso strumento verrà inteso in sensi diversi e a volta divergenti: ora,

secondo la sua rivendicata possibilità di cogliere il reale (documentarismo),

ora esaltandone il carattere fantastico e di creazione di sogni e mondi

possibili, ora per la sua capacità di conoscere e dare forma artistica al

sentire di un popolo (neorealismo), ora ravvisandovi il precetto di un

cinema-visione della vita come nel caso della nouvelle vague di truffaut e

soci. Non è un caso che alle "scuole" di cinema la teoria e storiografia

abbiano ormai contrapposto le interpretazioni del cinema "come macchina

industriale e come fatto sociale" e le analisi sul suo autore inteso come

implicita figura ideale (nella semiotica echiana128), come principio di

organizzazione del testo (come avviene in Casetti129), o come istanza non-

antropomorfa, la cui incarnazione sul soggetto verrà fortemente criticata da

Metz130. Difatti, tanto più il cinema etichetta, assembla, si ossessiona con

l'autore, tanto più la teoria critica il suo assunto, negando al concetto

"qualunque efficacia operativa e qualunque validità euristica"131.

Anche lo studio dei generi, che ha il vantaggio di riportare il film "in

società" e pensare al cinema come un "organismo vivente", rimane una

125 cfr. Casetti (1993) 126 cfr. Brunetta (2003) 127 cfr. Pescatore (2006) 128 cfr. Eco (1979) 129 cfr. Casetti (1986) 130 cfr. Metz (1995) 131 Cfr. Buccheri, “Il terzo escluso”, in Segno Cinema, n. 103

143

chiave di lettura "rigida e imprecisa". Brunetta, nella sua Storia del cinema

italiano, ha operato una mediazione teorica tra l’esigenza di uscire dalla

pura testualità dell’opera e conoscere le sue condizioni di vita

sociosemiotica, rinvenendo dei macrosistemi testuali che possono

“scavalcare” la portata del singolo film, e considerando l'autore all'interno

di una serie di routines produttive che possono negarlo come offrirgli

possibilità132. Scansando il rischio di un “ritorno al marxismo tra tecnica e

ideologia”, Quaresima133 ha proposto di adottare come strumenti analitici

delle configurazioni intermedie tra "generi" e "stili", cioè i "discorsi",

recuperando il testo provocatorio in cui Foucault parla di una funzione-

autore134.

La domanda sull'autore diventa quindi, da "chi ha parlato?", un’altra.

E cioè: "come, dove e perchè si è parlato?". Secondo Buccheri, "è

consigliabile non farsi imbrigliare dalle categorie estetiche tradizionali, ma

adeguare il proprio sguardo all'oggetto investigato, scoprendo in esso i

parametri con cui affrontarlo"135. Se cercare l'autore nel cinema delle origini

vuol dire retrodatare la categoria, cercarlo nel cinema contemporaneo vuol

dire postdatarla. D’altronde, lo studio sui generi e sugli stili dimostra che il

film è "anche un testo sociale, in osmosi con lo spazio dei discorsi e della

cultura". Nel cinema di oggi l'intermedialità richiamata, l'intertestualità

esibita e la autorialità esplicitata costringono ad abbandonare le idee di

"coerenza", "unità" e "progresso" da un'opera all'altra che reputavamo utili

in altri contesti. Gli stessi elementi portano a rifiutare la visione per cui

l'autore possa essere l'unico fautore dell'opera, e non una delle funzioni di

un processo enunciativo ben più vasto e a monte, in cui marketing,

ricezione del pubblico e altri aspetti concorrono in pari misura.

Bisognerebbe, quindi, ritenere estinta la querelle sull'autore e concentrarsi

sul "terzo incomodo": il discorso in senso foucaultiano, lo stile di

132 Cfr. Brunetta (2003) 133 Cfr. Quaresima (1996) 134 Cfr. Foucault, "Che cos'è un autore?", in Michel Foucault. Antologia. L’impazienza della libertà, a cura di Vincenzo Sorrentino, Feltrinelli Editore 135 Cfr. Buccheri, cit.

144

Bordwell136 piuttosto che il patto comunicativo di Odin137 e Casetti,

rivolgendosi a più approcci e più maturi della semplice credenza nell’autore

per considerare il film, tutto ciò che lo attraversa e ciò da cui esso è

attraversato.

4.5 – Dal cinema al gioco digitale

Senza alcuna pretesa di esaustività o completezza, questo capitolo è

stato dedicato alla figura registica nella storia del cinema e al problema

dell’autorialità per la teoria cinematografica. La rassegna di temi e problemi

ha messo in luce come l’autore dell’opera cinematografica sia al contempo

una tappa storica per l’affermazione del mezzo, un fenomeno di retorica

produttiva e commerciale, una questione teorica e metodologica aperta.

L’unica certezza è apparsa la diffidenza necessaria per non cadere in una

acritica apologia dell’autorialità, che porterebbe nella direzione contraria a

quella di una critica matura e profonda138.

È comunque arrivato il momento di chiudere questa lunga, ma

necessaria parentesi e tornare al nostro obiettivo: l’autore nel mezzo

videoludico. E una volta passato in rassegna il problema nel campo

cinematografico, risulterà pressochè impossibile non notare le moltissime

analogie che intercorrono tra la storia dell’autore in questo contesto e

quella, relativa al gioco elettronico, che sono state oggetto di analisi dei

capitoli precedenti di questo lavoro. Il videogioco, pur nella diversità del

suo linguaggio, della sua tecnologia e della sua testualizzazione e fruizione,

presenta una configurazione del problema autoriali non dissimili da quello

cinematografico nel rapporto tra soggetto e tecnica, regia e produzione,

affermazione dell’autore all’interno del paradigma produttivo e

commerciale, rafforzamento della credenza critica e pubblica nell’autore.

Vi è, innanzitutto, l’uguale emergere della forma testuale da un

humus piu ampio. Per il cinema, si tratta degli apparecchi di riproduzione 136 Cfr. Bordwell (1989) 137 Cfr. Odin (1988) 138 Cfr. Pescatore (2006)

145

visiva, delle camere di luci e delle lanterne magiche da esposizione

universale. Per il videogioco, si tratta invece dei flipper, delle rides, degli

apparecchi elettromeccanici e da luna park. Si tratta di una analogia non

banale, che si muove a partire da una consapevolezza: mezzi e pratiche

appartengono a un continuum mediale in continua ebollizione, di cui i testi

rappresentano per certi versi le “semplici” tracce di più ampie tendenze, e in

cui gli operatori e i soggetti umani concreti, storicamente implicati,

lavorano su tecnologie e forme di rappresentazione che si costituiscono in

forme riconosciute passo per passo, senza alcun netto “creazionismo”139.

Melies e Higinbotham concorrono nel “creare” rispettivamente il cinema e

il videogioco, ma innestano il loro lavoro su un retroterra tecnologico ed

espressivo pre-esistente140.

Un’altra analogia è relativa alle simili condizioni di enunciazione del

testo, videoludico e filmico, in fasi in cui la tecnica consente al soggetto di

rivestire l’enunciazione e annunciarsi come coincidente ad essa. Come

Stanton Porter tenderebbe all’unico e solo autore di un proprio film, così

David Crane tenderebbe a Pitfall, che programma interamente da solo.

Valutazione autoriale a parte, è storicamente registrato, per entrambi i

mezzi, il passaggio a un sistema di produzione di tipo capitalistico, con il

conseguente ritorno in termini di divisione del lavoro e con l’irrigidimento

della struttura produttiva, lo spostamento dell’asse dal versante espressivo a

quello commerciale, la “scomparsa” dei soggetti coinvolti nella logica di

trasparenza autoriale dello studio.

Il caso di Activision contro Atari potrebbe o meno essere riletto

come una possibile riproposizione, in contesti e su mezzi diversi ma con il

medesimo fine interno al mezzo, della protesta contro il “cinema di papà”

dei futuri cineasti francesi dei Cahiers: questo dipende, in effetti, da quanto

si è inclini a operare e legittimare simili paralleli. Eppure, sarebbe davvero

difficile non trovare una corrispondenza macroscopica tra le vicende che

spingeranno Capra alla scrittura del suo celebre sforzo biografico “The

139 Cfr. paragrafi 2.8 e 2.9 140 Per il cinema di Melies cfr. Morin (1956)

146

name above the title” e i motivi che spingono i programmatori di Atari,

costretti alla scomparsa dietro al gioco in nome dell’ideologia industriale

della non-paternità dell’opera, a fondare Activision per mettere il proprio

nome accanto al titolo del gioco. Le vicende economiche e produttive di

Activision e delle software house indipendenti rispetto al potere della

grande compagnia Atari si presentano con analogie ardue da rigettare

rispetto all’avvento delle etichette cinematografiche indipendenti, così

come sono evidenti i rivolgimenti relativi ai ruoli nella produzione

dell’opera, cinematografica piuttosto che videoludica. Quel che potrebbe

apparire diverso, come il maggiore sbilanciamento della questione in campo

cinematografico sul versante estetico e ideologico rispetto a quello

economico, che sembrerebbe prioritario nel contesto videoludico, potrebbe

persino rivelarsi, sotto adeguate e più approfondite ricerche, come una

semplice distorsione storiografica.

I paralleli che ci è possibile istituire tra i due mezzi a livello storico e

teorico, per ora, finiscono qui, ma per un solo motivo: il nostro discorso sul

cinema ha ricevuto un aggiornamento storicamente recente. La nostra

trattazione, pur attuata per grandi linee, lo ha considerato dalle origini fino

all’epoca contemporanea, rifacendosi a una letteratura esistente. Il discorso

portato avanti sul videogioco è stato invece semplicemente iniziato. Anche

se più approfondita e incentrata fortemente su testi significativi, la nostra

analisi è rimasta sospesa a una parte relativamente antica della sua storia.

Accostare “in differita” la nostra ricerca sulle sole prima fase

dell’autorialità videoludica ai progressi della nozione in campo

cinematografico è stato comunque utilissimo. Non abbiamo solo istituito

degli evidenti paralleli storici, ma siamo anche pronti a proseguire la ricerca

sull’autore videoludico dotati di nuovi strumenti critici. Gli aspetti della

autorialità cinematografica che abbiamo presentato per sommi capi non si

limitano certo a offrire una visione illuminante per quell’ambito: si

presentano, al contrario, come preziose linee guida per il contesto del gioco

digitale.

147

Alcune questioni che abbiamo incontrato nell’esaminare la storia

dell’autore al cinema, e per le quali siamo finalmente in grado di istituire un

parallelo nell’industria e nella pratica videoludica, si riveleranno decisive.

Ci riferiamo alla retorica dell’autorialità fatta propria della logica di

produzione commerciale; al rapporto tra la grossa industria e il lavoro del

singolo nel gioco elettronico e al ruolo del designer (considerato da molti la

controparte videoludica del regista); alla validità del concetto di poetica per

il videogioco e all’utilità del riconoscimento dell’autorialità nel mezzo; ai

fenomeni di convergenza tra il paratesto autoriale delle produzioni,

l’epitesto pubblicitario e dei magalog e il meta-testo teorico più

sprovveduto e incline a sdoganare, con il grimaldello dell’autore, la dignità

del suo oggetto di studio e della sua critica. L’ultimo tra questi aspetti, in

particolare, rappresenta una chiave di volta per la lettura autoriale del

videogioco di oggi, strumentale al suo ricercato, ideale transito verso il

pantheon delle arti.

Nei prossimi capitoli faremo tesoro della forma mentis critica

ereditata dalla riflessione dell’autore al cinema per entrare nel vivo degli

autori videoludici. Molti dei testi sui quali indagheremo saranno anche

l’occasione per cercare di illuminare alcuni raccordi, alcune zone grigie tra

cinema e gioco. Il presupposto di questo lavoro rimane infatti quello di

negare l’assunto di separazione radicale tra i mezzi espressivi.

148

Capitolo 5

‘AUTEURS VIDEOLUDICI’

5.1 – Autori di Videogiochi

Chi ha letto il quarto capitolo, dedicato all’autore al cinema, ci avrà

perdonato la lunga parentesi dal contesto videoludico, comprendendo

quanto questa imponente mole di riflessioni si possa rivelare funzionale

all’interrogativo sensato sull’autore nel videogioco. Ogni tentativo teorico

che non tenesse conto di questo progresso prenderebbe le mosse in maniera

costitutivamente limitata, mentre dalla storia dell’autore nel campo

cinematografico abbiamo ora tratto una importante base analitica. Dai

critici del cinema, soprattutto, che hanno abbondantemente riflettuto sulla

“malattia” del mito autoriale, ricevendo utilissimi anticorpi.

Forti di questo aggiornamento teorico, continuiamo la ricerca sul

fenomeno degli autori videoludici eleggendo a oggetto della nostra

riflessione alcuni videogiochi scritti, ideati o prodotti da Shigeru Miyamoto,

Jeff Minter e John Carmack: nomi decisamente noti nel contesto

videoludico, associati a concezioni diversissime del videogioco. La scelta è

caduta su questi nomi perché esiste, nel lavoro di questi game designer, un

rapporto significativo tra soggetto autoriale, idea autoriale pubblica e testo

videogiocabile.

La considerazione dell’elemento del pubblico e della critica si

accompagna quindi alla loro considerazione in quanto soggetti coinvolti

nell’istanza enunciativa. Al loro agire come ideali fili conduttori e operatori

testuali per i videogiochi di riferimento si accompagna il loro fungere da

immagini di autorialità, la loro funzione di precipitati della nozione

149

autoriale. Ancora una volta, all’analisi dettagliata del singolo testo non

potranno che accompagnarsi la riflessione sui presupposti e sul contesto

storico-produttivo dell’enunciazione e l’eventuale corpus epitestuale e

metatestuale. È in queste direzioni che l’autorialità videoludica si estrinseca

come processo enunciativo, vero e proprio testo, etichetta commerciale e

nozione critica, rivelando anche come la figura del game designer appaia

ancora troppo ampia e comprensiva perché la si possa considerare in

maniera univoca o come una controparte a tutti gli effetti del regista

cinematografico.

5.2 – Jeff Minter: psichedelia videoludica

Jeff ‘Yak’ Minter è un programmatore e designer inglese attivo dagli anni

ottanta ad oggi, noto come fondatore della software house Llamasoft e

recentemente autore di un sintetizzatore di effetti luminosi dal titolo di

Neon, inserito come software in bundle di Xbox 360, l’ultima console di

Microsoft.

I giochi di Minter sono noti per contenere elementi distintivi.

Generalmente si tratta di giochi di un genere noto come arcade shoot’em

up. I titoli dei giochi hanno quasi e sempre a che vedere con animali come

lama, capre, pecore, cammelli, che Minter adora e che compaiono e

connotano i giochi stessi oltre che dare il titolo agli stessi (Llamatron,

Llamazap, Attack of the Mutant Camels, Revenge of the Mutant Camels,

Sheep in Space, e così via). L’altra tipologia prediletta da Minter è quella di

giochi che incorporano elementi di sintesi luminosa, o di dimostrazioni

video interattive psichedeliche e luministiche. Nelle pagine informali

biografiche e nei forum online Minter si firma “yak”, una parola che

riferisce di avere scelto per l’assonanza con la specie ovina e per la

caratteristica di essere utile in tempi in cui “le tabelle dei punteggi più alti

nelle macchine da gioco a gettoni potevano registrare solo tre lettere”.

Jeff Minter rappresenta una figura di programmatore divenuta parte

dell’immaginario di una certa (contro)cultura informatica hippie e liberale:

150

quella del Bedroom Coder, il programmatore indipendente che, nella sua

cameretta, si occupa interamente della scrittura dei propri programmi,

lontano dalle logiche verticali e corporative delle grosse compagnie. Il

bedroom coding è una pratica la cui definizione oscilla tra la

sperimentazione amatoriale sul codice e la ricerca personale di opere

informatiche dalla paternità totalmente individuale, accompagnata in misura

variabile da una componente libertaria e anti-copyright e in antitesi più o

meno esplicita alle logiche industriali. Minter rientra nella seconda

accezione del termine e, grazie alla sua ossessione per i Lama e i giochi di

sparatorie pieni di effetti luminosi psichedelici, diventa famoso negli anni

come il classico guru alternativo dell’industria, la leggenda vivente della

psichedelia videoludica, la voce fuori dal coro dei paradigmi commerciali e

interamente interessata alla propria ricerca sul gioco elettronico e la

programmazione.

Minter, come altri programmatori, incarna l’idea solipsistica e

autoriale del videogioco il cui creatore è un unico e solo individuo che,

nella sua cameretta o nello studio personale invece che nell’azienda o nel

grosso studio, “inventa” da zero il gioco occupandosi di tutti i suoi aspetti:

dalla programmazione al game design, dalla grafica al sonoro,

dall’ideazione fino eventualmente alla vendita attraverso canali

indipendenti o privati.

Ma se il bedroom coding inteso come totale indipendenza creativa e

produttiva può essere letto come la declinazione più radicale della ricerca in

campo informatico della creatività personale, o come il tentativo di

bypassare in maniera totale il carattere corale e industriale della produzione

di giochi elettronici, la storia di Minter non è esclusivamente quella di un

isolazionista tecnologico. Il percorso del fondatore della Llamasoft presenta

tappe diverse, sintomatiche ognuna di un rapporto cangiante con l’aspetto

industriale e collettivo del game making, e che pongono le questioni

dell’indipendenza creativa e del rapporto tra la tecnologia e l’espressione

individuale sotto una luce problematica.

151

5.2.1 – Robotron vs. Llamatron

Nel 1981 Minter inizia a programmare e vendere giochi per

piattaforma ZX80 Sinclair. Nel 1982, evidentemente sulla scia degli eventi

di Atari e Activision, che portano alla nascita di un gran numero di software

house indipendenti, Minter decide di fondare una propria compagnia. Il

primo gioco della Llamasoft è Andes Attack, un clone del famoso gioco

Defender in cui alle astronavi sono state sostituiti dei lama. Il primo gioco

di Minter riflette completamente la sua attitudine di questo periodo, e si

presenta in totale coerenza con il nome della sua software house

indipendente, della quale è l’unico membro. Yak, infatti, non è solo un

programmatore, ma è anche un estimatore dei lama e degli ovini in

generale, che ospita nella sua tenuta e che costituiscono una parte

importante della sua biografia. Con il secondo titolo, lo psichedelico Grid

Runner, Minter conosce i primi successi commerciali: scritto in una

settimana, il gioco vende parecchio sia negli Stati Uniti che nel Regno

Unito. Grid Runner è, come Andes Attack, un titolo dalla meccanica presa

largamente in prestito. In questo caso, il modello di riferimento è

Centipede, che offre la base per un clone dall’aspetto visivo più futuristico,

ricco di flash e luci in pieno stile Minter.

Grid Runner è programmato per Commodore 64, una delle

piattaforme di maggior successo dell’epoca. È il periodo in cui gli home

computer conoscono il loro primo splendore commerciale. Il successo di

piattaforme come Commodore 64, Atari 400/800 e Atari ST, ma anche dei

Sinclair e più avanti di Amiga, costituisce un banco di programmazione e

commerciale per una grandissima quantità di programmatori e piccole

software house indipendenti, che trovano il maggior veicolo promozionale

per i propri giochi nel passaparola o nelle recensioni delle prime riviste

specializzate.

Il sistema degli home computer, che chiunque può programmare,

genera anche una situazione distributiva caotica, in cui coesistono le grosse

compagnie e i piccoli programmatori, i dilettanti allo sbaraglio e la pirateria

152

sistematica dei prodotti. Minter programma in Assembler, ed è in tutto e per

tutto il programmatore indipendente che, sotto sua etichetta, produce e

vende giochi in un circuito di appassionati in cui è ben conosciuto e

rispettato. In questo periodo, Minter realizza anche un altro tra i suoi giochi

più celebri: Attack of the Mutant Camels, un gioco di sparatorie futuristico-

surreale in cui il giocatore controlla un jet ed è impegnato a respingere

l’attacco, come da titolo, di giganti cammelli mutanti. Ispirato dalla scena

dell’attacco degli AT-AT del classico della fantascienza L’impero colpisce

ancora, Attack of the Mutant Camels è l’ennesimo clone psichedelico di

Minter, il quale rielabora la meccanica di gioco della versione giocabile

ufficiale del film per la console Atari 2600 connotandola con il suo ormai

usuale repertorio di follie zoologiche e luministiche.

Il lavoro di Minter, come si vede, è quello di un rielaboratore estetico

più che quello di un ricercatore di forme ludiche. Minter appare attratto,

oltre che dai temi figurativi psichedelici che gli sono cari, dallo

sfruttamento dell’hardware su cui opera fino all’ultima possibilità in termini

di prestazioni visive, di velocità e di quantità di oggetti in moto sullo

schermo elaborati dalle piattaforme tecnologiche. Se il trademark visivo di

Minter è fatto di cammelli, lama, flash luminosi e le spirali di colori, quello

tecnico è il lavoro sulle prestazioni dell’hardware e sulla loro conversione

nei termini di rutilanti effetti visivi. Minter si accontenta di proprietà

formali prese in prestito da giochi di successo già esistenti, installandovi

una propria visione del gioco elettronico che contempla la psichedelia e il

surrealismo come anche l’estremismo ludico: Attack of the Mutant Camels,

ad esempio, è un gioco in cui è praticamente impossibile non perdere dopo

pochissimo tempo, e nel quale si resiste letteralmente fino allo sfinimento

agli attacchi del computer.

La pluralità di piani in cui si articola la testualità videoludica mostra

allora un margine espressivo che può e deve passare anche dal piano

figurativo e questo costituisce il banco che maggiormente attira Minter

come programmatore, anche se la riuscita testuale del gioco è in ultima

analisi dovuta anche all’interazione della forma ludica con il giocatore.

153

Un gioco che esemplifica alla perfezione il lavoro di Minter, anche

se si colloca già oltre il suo periodo di lavoro maggiormente significativo, è

Llamatron. Llamatron è un clone del 1992 di Robotron: 2084, un classico

della storia dei videogiochi di enorme successo, programmato da Eugene

Jarvis e Larry De Mar141 nel 1982. Llamatron è un clone di Robotron

perché si presenta con la medesima struttura formale di quest’ultimo: in

un’area di gioco a schermata fissa, il giocatore controlla nelle otto direzioni

un simulacro, dovendo evitare l’impatto con gli elementi mortali e potendo

sparare nelle otto direzioni per eliminare tutti gli oggetti nemici. Robotron

era stato programmato per le sale giochi e convertito successivamente su

una varietà di sistemi. Llamatron si offriva come una sua conversione,

opportunamente ritoccata secondo il Minter-pensiero, di una decina di anni

dopo, pensata e programmata per Amiga, Atari ST e per i primi Personal

Computer.

Llamatron è un classico esempio di conversione fedele sul piano

logico-formale e libera su quello dell’estetica. Sul piano degli elementi

interattivi, della spazialità e della visione, Llamatron aggiunge qualche

elemento rispetto al gioco di originale, specialmente in chiave estremista,

come nelle accresciute possibilità di offesa dei nemici che derivano

dall’incorporare un certo numero di pod, simulacri che seguono il

personaggio principale raddoppiandone lo sparo. Tuttavia, su altri aspetti il

testo-Llamatron impoverisce l’originale. Mentre nel titolo programmato da

Jarvis il controllo era assicurato da due manopole, una al controllo del

movimento del simulacro e l’altra preposta alla direzione in cui rivolgere lo

sparo, Llamatron unisce i due comandi nel semplice movimento della

singola leva di controllo. Questo comporta, per il giocatore, l’impossibilità

di muoversi in una direzione sparando in una differente, impoverendo il

livello di interazione e di complessità del gioco originale. Non si tratta, in

realtà, di una vera “colpa” di Minter, che lavora su dei sistemi sprovvisti di

un’interfaccia a doppia leva (movimento e sparo) come quella

141 Larry De Mar , programmatore di giochi come il classico Joust, è anche coinvolto nella maggiore opera di ri-edizione di Robotron: Smash TV.

154

dell’hardware dedicato del cabinato originale da sala giochi di Robotron.

Minter, è vero, avrebbe potuto prevedere la possibilità di utilizzare in

congiunzione due controlli qualora il giocatore fosse stato capace di

installarli sulla propria piattaforma (alcune delle quali erano provviste di

più di una porta joystick), ma optò per una semplificazione del controllo.

Si delinea così, nuovamente, un tema che diventerà centrale in uno

dei prossimi paragrafi, dedicato a Super Mario 64, e che tornerà a

presentarsi come un aspetto centrale nella pratica di gioco: quello della

sostanziale unità, a livello logico-formale e pragmatico (ma anche, a monte,

enunciativo) del testo videoludico inteso come combinato di codice e

interfaccia. È però evidente che Minter non è interessato a far progredire ne

a rispettare la complessità originaria del controllo di Robotron, il motivo

principale dietro il successo enorme del classico di Jarvis e De Mar.

L’opera di Minter si configura a metà strada tra un omaggio e una riscrittura

visionaria, presentando marche enunciative tipiche del remake d’autore:

nella fattispecie, le transizioni spiraliformi di colori e luci tra un livello e

l’altro; la precedenza all’aspetto luministico rispetto a quello della

complessità e della definizione dei simulacri, che si presentano con un look

e la definizione decisamente retrò del titolo rispetto ai titoli coevi, con un

intento citazionista molto avanti rispetto ai tempi (il citazionismo degli stili

classici è affare videoludico recente: nel 1992 i giochi avevano raggiunto da

poco un livello figurativo che avvicinava l’estetica del videogioco al

fumetto e non si volgevano ancora indietro, mentre Llamatron è un titolo “a

stanghette” tipiche dei videogiochi di un decennio prima); la presenza

inevitabile degli ovini, e così via.

Llamatron è allora un remake di Robotron, un’opera di omaggio in cui

la forma videoludica transita inter-testualmente e in cui un diverso “autore”

ricicla il nucleo formale per proiettarvi una propria visione estetica ed

estesica: nello specifico di Minter, il visionario surrealismo naïve di lama,

cammelli e luci psichedeliche a bassa risoluzione, il cui citazionismo

contiene anche notevoli dosi di auto-citazionismo. Un parallelo mosso con

una prospettiva critica di stampo cinematografico potrebbe portare a

155

ritenere Minter un autore, perché nel mezzo cinematografico la cifra

stilistica del linguaggio filmico ha gradualmente guadagnato peso nella

definizione della specificità del mezzo, assurgendo in linea potenziale a

indicatore della ricerca personale sul medesimo rispetto al puro piano

narrativo. Questo, tuttavia, non sembrerebbe bastevole per fare di Minter un

autore secondo la nozione per cui quest’ultimo fa effettivamente progredire

la forma e la sostanza su cui lavora verso nuove direzioni. Nel contesto

videoludico, peraltro, la ricorrenza dei lama e della psichedelia nell’opera di

Minter sono occasione per un citazionismo e una visione personale, ma non

sembrano ancora abbastanza per fungere da base oggettivamente valida per

assegnare a Yak uno statuto di artista del mezzo.

5.2.2 – Tra bedroom coding e sistema di produzione

Tra gli esordi di Llamasoft e la pubblicazione di Llamatron intercorre un

decennio che, in termini informatici, equivale a una vera e propria epoca.

All’evoluzione tecnologica delle piattaforme informatiche e da gioco

corrispondono altrettanti cambiamenti nelle modalità produttive,

commerciali, di fruizione dei videogiochi. Le stesse famiglie di testi

videoludiche sono profondamente mutate, come effetto dell’ingresso nel

campo di nuovi attori produttivi, di nuovi generi in voga e di capacità

rappresentative enormemente accresciute del mezzo espressivo. Le

piattaforme di gioco più in voga non sono più gli home computer, ma le

console domestiche, gli apparecchi dedicati al consumo videoludico dei

grandi produttori di hardware e software nipponiche come Nintendo, Sega e

NEC. Nintendo, in particolare, è al termine di un periodo di florida

egemonia del mercato durato quasi un decennio, successivo all’enorme

successo del Nintendo Entertainment System e di Super Mario, icona

videoludica per eccellenza e al contempo tra le icone degli anni ottanta tour

court. Le nuove console a sedici bit consentono una capacità figurativa su

schermo che avvicina il videogioco al fumetto e all’animazione come mai

prima, come ben testimonia il successo di giochi come Street Fighter 2.

156

Quello che in Llamatron a uno sguardo approssimativo potrebbe essere

scambiato per obsolescenza tecnologica ed estetica, quindi, è in realtà un

omaggio retrò, così avanti sui tempi della mania del recupero del passato da

non essere neppure riconosciuto come tale.

Jeff Minter è ancora, suo malgrado, un esponente di tempi andati, di

una concezione del videogioco squisitamente statunitense e pionieristica

che appare del tutto obsoleta in termini commerciali, e i cui modelli ludici

appaiono stantii e poco affascinanti. Il videogioco è inoltre sulla strada di

un nuovo, ulteriore rivolgimento nei modelli di consumo. L’avvento

imminente del CD-ROM, le sperimentazioni sulla rappresentazione per

mezzo di poligoni solidi invece che mappe di punti a due dimensioni e

l’ingresso nel settore di una compagnia come Sony determineranno non

solo una rivoluzione nelle forme della testualità videoludica, che deriverà

dal tentativo di utilizzare i nuovi mezzi espressivi e la quantità di memoria

dei supporti CD per offrire esperienze maggiormente narrative o più vicine

alle fisiche del mondo reale, ma anche un riassetto del sistema commerciale

in cui a risultarne maggiormente danneggiate saranno proprio compagnie-

giganti come Nintendo e Sega.

In questo contesto Minter, che aveva continuato le collaborazioni

con una agonizzante Atari e con VM Labs, approfitta del tentativo della

compagnia di risollevarsi con una nuova macchina da gioco, Jaguar, che la

compagnia spaccia per la prima macchina a sessantaquattro bit della storia.

La console, nonostante il bluff commerciale, fallirà miseramente sul piano

commerciale, a causa di un’interfaccia costosa e ingombrante, delle pessime

politiche commerciali di Atari e della mancanza cronica di software valido.

Tuttavia, Minter programma per Jaguar due giochi che si rivelano al

contempo i migliori disponibili per la console e i migliori della sua carriera:

Tempest 2000 e Defender 2000. Entrambi i giochi sono remake di classici

dell’era pionieristica dei videogiochi Atari. Il primo omaggia il gioco

originale di Dave Theurer, il secondo ancora una volta Eugene Jarvis.

Entrambi presentano un impianto logico-formale ed interattivo fedelissimo

ai rodati originali, una connotazione estetica psichedelica e luministica

157

(deprivata per una volta dalla presenza di ovini) e una caratterizzazione che

appare come una mosca bianca nel panorama videoludico dell’epoca, a

metà strada tra l’omaggio dello stile retrò dei tempi degli originali e un suo

aggiornamento tecnologico in cui il sostrato informatico è in parte

tematizzato nella figuratività futuribile e luministica. In aggiunta a questi

titoli, Minter si occupa anche di una Virtual Light Machine, un software di

rappresentazione video interattivo che viene distribuito insieme al lettore

CD opzionale della console Jaguar. La Virtual Machine 2 e Tempest 3000

saranno invece sviluppati per il chip Nuon.

In questa fase sono quindi evidenti due aspetti della ricerca di Minter.

Il primo aspetto è la decisa virata di Minter verso la ricerca sulle possibilità

espressive luministiche e grafiche dell’informatica (la cui maggiore

espressione giocabile e non semplicemente dimostrativa della tecnica non

proverrà tuttavia da Minter, ma da Tetsuya Mizuguchi). Minter, è ormai

chiaro, non è minimamente interessato a lavorare sulla forma logica del

testo videoludica, né sulla sua interfaccia, ma tutta la sua ricerca verte

intorno allo sfruttamento dell’hardware per la rappresentazione di luci e

suoni. Il secondo aspetto è il rientro, in una certa misura, in un sistema di

produzione, che presenta dei vincoli all’usuale atteggiamento indipendente

del bedroom coder. Ma si tratta di un contesto che non gioca a favore di

Minter, troppo avulso rispetto ai suoi tempi, in anticipo sul recupero retrò e

in ritardo sui generi in voga. Atari non è in grado di rendere giustizia

commerciale ai suoi ottimi lavori, per cui i suoi sforzi sull’hardware

proprietario restituiscono prodotti eccellenti ma destinati a fallire per via

dello scarso collocamento commerciale e dell’assenza di un target di

riferimento forte.

Dopo il fallimento commerciale di Jaguar Minter attraversa una fase

di relativa stasi creativa caratterizzata, tuttavia, da una forte componente

auto-riflessiva. Complice la diffusione dei personal computer e di una

cultura di rete sempre più popolare Minter ripropone, aggiornato ai tempi e

su Internet, il suo vecchio sistema di commercializzazione producer-to-

consumer dei tempi delle riviste per gli home computer. Dal sito di Minter,

158

sfruttando le possibilità pubblicitarie e la visibilità offerte della rete, la

Llamasoft offre giochi per piattaforma Pocket PC, alcune delle quali

giocabili su PC tramite degli emulatori custom. I giochi sono, ovviamente,

delle riedizioni di titoli originariamente programmati negli anni 80, come

Deflex, Hover Bovver e il nuovo Gridrunner++. Il sito della Llamasoft si

offre inoltre come un diario di bordo da parte di un veterano di una fase

storica al centro, finalmente, di una grossa riscoperta di pubblico e critica.

Parallelamente, Minter ritenta l’inserimento nel paradigma

industriale. L’occasione è offerta dal progetto Unity. Nel 2002, Minter

inizia a lavorare su un progetto da condurre insieme a Peter Molineux della

Lionhead Studio, che dovrebbe fondere insieme le caratteristiche di sintesi

degli effetti di luce tipici della ricerca di Minter con un gioco di sparatorie

“di genere”, immediato e frenetico. L’operazione, che sembra un tentativo

sulla carta di inseguire il successo dell’inusitato, originalissimo, acclamato

Rez di Tetsuya Mizuguchi (di cui parleremo nei prossimi paragrafi),

conquista la ribalta delle cronache.

Dopo una lunga serie di rimandi il progetto viene però

definitivamente cancellato nel 2004, a causa della eccessiva ambizione del

progetto rispetto alle reali capacità del team di portarlo a termine e, molto

probabilmente, all’incompatibilità tecnica e creativa sussistente tra il

metodo di lavoro poco ortodosso e la poetica decisamente

anticonvenzionale di Minter e quelli del team di Peter Molineux,

decisamente più orientati sullo sviluppo di meccaniche di gioco e rispettoso

delle deadline industriali. La versione della Virtual Light Machine che

avrebbe dovuto fornire la base per l’estetica di Unity sarebbe stata utilizzata

come dimostrazione tecnica interattiva del lettore mediale della console

Xbox360 sotto il nome di Neon, a suggello di una carriera di

programmatore trascorsa alla ricerca della sofisticazione delle tecniche di

rappresentazione della psichedelia visiva. Nonostante il fallimento del

progetto Unity, Minter avrebbe dichiarato di essere estremamente felice del

159

fatto che, dopo venti anni di lavoro, uno dei suoi sintetizzatori di luci

avrebbe finalmente raggiunto “un’audience decente”142.

5.2.3 – Autore di luci

La domanda su Jeff Minter come autore è interessante per una

varietà di motivi. In primo luogo, offre uno spaccato su una forma di

enunciazione videoludica, quella del bedroom coding, che è indicativa di

un’intera epoca della produzione e del consumo di videogiochi,

caratterizzata dalla proliferazione di programmatori, piccole compagnie e

persino dilettanti su un sostrato tecnologico accessibile e dalla vasta portata

commerciale come quello degli home computer. Il bedroom coder si

presenta infatti come il tuttofare del progetto testuale nell’indipendenza

creativa.

In secondo luogo, Minter appare un soggetto oscillante tra il

solipsismo creativo e distributivo, che opacizza esteticamente a colpi di

biografia ed estetica l’enunciazione videoludica, rinunciando del tutto alla

creazione di forme ludiche per concentrarsi sul visivo e sull’estetico-

estatico e operando dei modelli creatore-giocatore senza intermediari

produttivi, e un’altra direzione: il tentativo sistematico di adattamento della

propria poetica e della propria ricerca sul visivo al contesto del sistema di

produzione e distribuzione e del grosso pubblico.

Sul piano della ricerca personale Minter si riferisce non interessato a

usare team di artisti per produrre texture visive grafiche o modelli

predefiniti, e si è sempre dichiarato interessato a esplorare le possibilità più

astratte dei metodi generativi del codice. Neon, che si controlla con quattro

controller in contemporanea, offre il controllo degli effetti visivi secondo un

sistema a livelli che consente l’alternanza con un “pilota automatico”

collegato al sonoro dei media in play. Il tutto con una enorme economia sul

codice, visto che Neon potrebbe stare in copie multiple su un semplice

floppy disk. 142 Cfr. www.llamasoft.co.uk

160

L’autore-Minter è allora un programmatore estremamente dotato sul

piano dell’utilizzo delle piattaforme tecnologiche, e un personaggio che

riversa la propria biografia e la propria personale predilezione estetica

all’interno del testo: in quanto tale Minter è noto all’interno di una

larghissima fascia di cultori del gioco elettronico e tra i geek informatici,

per i quali il suo talento alla programmazione visiva va in parallelo con la

singolarità della sua biografia. Se questo basti a definirlo un autore, è cosa

non scontata. Minter si limita a riprogrammare l’estetica e l’assiologia dei

giochi, lavorando sulle possibilità psichedeliche della rappresentazione,

dando vita ora a una psichedelica sixties popolata da cammelli e yak, ora a

universi luminosi. Se la poetica di Minter può essere rintracciata

nell’estetica e nello sfruttamento dell’hardware per la creazione di universi

luministici, e se questo lo rende un visionario del codice, è anche vero che,

da un punto di vista strettamente videoludico, Minter non fa mai progredire

le meccaniche formali ludiche che prende in prestito, ne lavora per

costruirne di sue. Il carattere espressivo, biografico, idiosincratico e

solipsistico dell’enunciazione videoludica non esaurisce il carattere corale e

continuativo delle forme di gioco, su cui Minter non si sporca troppo le

mani.

Ancora una volta, dunque, la considerazione di Minter come autore

dipende in ultima analisi dai parametri che intendiamo elevare a termometri

della presenza di questa figura ideale. Riconoscere la paternità totale

dell’estetica dei giochi di Minter, il suo citazionismo in tempi non sospetti e

la sua capacità di non sacrificare mai l’interesse di ricerca personale alle

contemporanei tendenze videoludiche equivale allora ad accettare una delle

possibili visioni del gioco e dell’autore, e non certo l’unica o la più valida.

Quel che conta è che Yak, relativamente non curante della situazione

videoludica contemporanea, sia finito, con la sua poetica lontana,

eccentrica, estranea ai modelli in voga, col rientrare inaspettatamente nello

zeitgeist videoludico contemporaneo della cross-media experience.

5.3 – Shigeru Miyamoto: da creativo a producer

161

Shigeru Miyamoto, di volta in volta game designer, creativo,

producer, supervisore più o meno influente per una vastissima serie di

giochi Nintendo di enorme successo in un arco di un ventennio, è divenuto

per certi versi uno dei simboli vivente dell’autorialità videoludica. Oltre a

produrre la maggior parte dei videogiochi del brand di Super Mario Shigeru

Miyamoto è al lavoro sin dalle origini sulla acclamata serie di Zelda, ma il

suo lavoro in Nintendo si estende su tutte le maggiori produzioni della

compagnia. L’acclamazione di Miyamoto da parte del pubblico e della

critica è stata parallela a quella del suo successo professionale. Il papà di

Super Mario, icona videoludica capace di oscurare la fama di Mickey

Mouse, non può quindi non essere elevato a uno dei casi esemplari per un

discorso sull’autore nel gioco digitale. Il ruolo di Miyamoto nel sistema

produttivo di Nintendo, la sua elevazione a paradigma del game designer e

la concezione del suo ruolo autoriale nel progresso di molti tra i giochi e i

brand videoludici di maggiore successo nella storia consentono di aprire

scorci su diversi aspetti della testualità del gioco elettronico, dei suoi autori,

della mitologia che ne deriva per il pubblico.

Sono tre, in particolare, gli aspetti su cui si possono addensare le

osservazioni più importanti riguardo all’autore-Miyamoto. Il primo è il suo

partire come un creativo e non come un tecnico, ma anche il suo rimanere

in questo ruolo nonostante i cambi dei contesi produttivi, tecnologici, di

consumo del videogioco interni ed esterni alla compagnia. A essere messo

in rilievo è in questo senso l’aspetto creativo e coordinativo del game

designer rispetto al carattere corale della tecnica impiegata. Il secondo

aspetto è lo sviluppo parallelo dei testi, dei personaggi immaginari e dei

brand e quello del “regista”, nel senso di una intertestualità videoludica che

agisce tanto per autore che per “attore”143. L’associazione reale o presunta

tra gioco/personaggio/brand e Miyamoto diventa per il pubblico la garanzia

di trovarsi di fronte a un titolo del “maestro”. Il terzo aspetto è la

concezione del videogioco associata al testo videoludico Nintendo e al 143 In Stam/Burgoyne/Flitterman/Lewis (1992) viene suggerita una lettura intertestuale a questo livello.

162

lavoro di Miyamoto, che lo vede sostanzialmente estraneo a una dimensione

testuale in cui il gioco ha un posizionamento esteticamente o

assiologicamente polemico o provocatorio, e si posiziona invece come un

prodotto di pura evasione: il testo videoludico, di Miyamoto o di Nintendo,

è privo di rivendicazione artistica, ma è interamente votato

all’intrattenimento, alla fedeltà alla sua natura di giocattolo.

Per tratteggiare questi aspetti illustreremo, subito dopo una breve

introduzione alla storia della compagnia, caratteristiche importanti del testo

Super Mario 64, utilizzandoli come spartiacque storico-ideali per delineare

il lavoro di Shigeru Miyamoto prima, durante la produzione dei suoi giochi

più famosi e di successo, e in seguito al successo di questi e alla sua

consacrazione come “autore”. Super Mario 64, oltre che uno dei testi

videoludici meglio riusciti della storia, è anche un titolo rivoluzionario in

termini produttivi, tecnologici e creativi.

5.3.1 – Dalle carte da gioco all’eldorado videoludico

In piena crisi del settore videoludico, all’inizio degli anni ottanta,

una compagnia giapponese, Nintendo, decide di concentrare tutte le proprie

risorse sui videogiochi. La decisione, proveniente da un’esperienza

pluridecennale nella produzione di carte da gioco Hanafuda, poteva

sembrare rischiosa da un punto di vista commerciale. L’industria

videoludica, infatti, stava conoscendo un periodo di forte depressione,

dovuta alla saturazione del mercato con giochi praticamente identici e a una

percezione pubblica del videogioco che sembrava rischiare di scivolare

lentamente fino a identificarlo con una moda ormai passata. Proprio negli

anni in cui le software house indipendenti portavano avanti un’idea

autoriale e artistica del gioco digitale (cfr. il capitolo tre) , la maggior parte

dei giochi in commercio continuavamo a riproporre le solite, abusate

meccaniche, operando una involuzione stereotipica e alienante rispetto alle

possibilità di questa nuova famiglia testuale.

163

Nintendo, che aveva già provato a inserirsi con modesto successo nel

settore dei giochi da sala, aveva proposto nelle sale giochi un gioco dal

titolo di Radarscope, e un altro dal nome di Heavy Fire. Questi titoli,

tuttavia, non erano riusciti a fare breccia nel saturissimo mercato

americano, in cui Nintendo era desiderosa di inserirsi. Il gioco che avrebbe

felicemente trapiantato il successo di Nintendo dalla madrepatria agli USA

sarebbe stato Donkey Kong, il primo, vero platform game della storia dei

videogiochi. Il suo game designer era un giovane creativo al suo primo

gioco, Shigeru Miyamoto: un appassionato di musica bluegrass e col pallino

dei giocattoli, che aveva curato la grafica dei primi cabinati di Nintendo e a

cui il presidente Yamauchi aveva affiancato il futuro creatore del

GameBoy, Gumpei Yokoi. Prima di lavorare come game designer su Super

Mario Bros, gioco che lo consacrerà nell’olimpo dei game designer e

sancirà il trionfo commerciale di Nintendo, Shigeru Miyamoto dirige

Donkey Kong, Donkey Kong Jr. e Mario Bros, che rappresentano tappe

della consacrazione di un nuovo modello di videogioco, di un personaggio

di chiara fama e del suo “creatore”.

Donkey Kong rappresenta l’alba di un nuovo modo di intendere il

gioco elettronico. Narrativo, colorato, fumettistico, con un gusto e

un’estetica diversi dai prodotti medi dell’epoca, perlopiù cloni di Pacman e

shooter games, Donkey Kong introduce al mondo Jumpman, il futuro Super

Mario. Miyamoto ha la possibilità di esprimere la sua creatività per creare

un vero e proprio gioco, e confeziona un giocattolo incredibilmente

divertente, capace di sfruttare al massimo le capacità dell’hardware

disponibile, mettendo in moto una sfida entusiasmante e raccontando

persino una storia con i pochi pixel a disposizione dei suoi tecnici. Mario

Bros è invece il primo gioco in cui Mario è esplicitamente il personaggio

portante delle vicende. Nintendo, infatti, separa le avventure dei suoi

personaggi d’esordio, È chiaro che Mario è il personaggio con il maggior

potenziale, che la compagnia intende iniziare a sfruttare a pieno.

La rivoluzione Nintendo definitiva, che consacra Miyamoto, è però

Super Mario Bros, un gioco dalla notevole importanza in termini storici,

164

tecnologici e di immaginario popolare, oggi elevato a uno statuto di culto da

parte degli appassionati. L’aspetto tecnico e tecnologico della scrittura del

gioco, di altissimo livello per l’epoca, si accompagna a una deflagrante

originalità e potenza del game design rispetto a tutto ciò che era stato visto

e giocato prima. Il ruolo di Miyamoto è quello di un iper-giocatore

applicato: il designer giapponese, del tutto privo di solide nozioni tecniche

nel campo informatico, mette i mezzi tecnologici e il know-how dei tecnici

della compagnia al servizio della sua creatività e del suo intuito, di una

“poetica del divertimento” apparentemente priva di stilemi, ma il cui

precetto è quello di far divertire il giocatore.

Shigeru Miyamoto, per la prima volta al comando di un team

personale e affiancato dal meno noto Takeshi Kitano, esaudisce i desideri

del suo presidente Yamauchi: produrre un gioco entusiasmante, fantasioso e

divertentissimo, diverso da tutti gli altri, capace di convincere il pubblico

statunitense come quello nipponico ad acquistare il suo Family Computer,

rinominato Nintendo Entertainment System in Occidente. Shigeru

Miyamoto e il suo team, di fatto, inventano un nuovo genere. Super Mario

Bros si impadronisce del nuovo paradigma dello scrolling, lo scorrimento

laterale dell’ambiente di gioco che fa sembrare obsoleto il gioco a

schermata fissa, incorpora una quantità inedita di elementi interattivi, mette

al centro dell’esperienza un simulacro dotato di una vasta serie di azioni

performabili, fa suo un controllo perfetto e fedele nelle mani del giocatore,

si struttura con un game design ricco di elementi che spingono il giocatore a

esplorare gli ambienti di gioco, scoprire le zone segrete. Super Mario Bros è

una killer application non solo per gli affari di Nintendo in Giappone e negli

USA, e non solo per il NES, che contribuisce a rendere un sistema dal

successo colossale. È una killer application del videogioco tout court che,

difatti, risolleva le sorti di una intera industria, fungendo da simbolo di una

rinnovata esplosione della pratica videoludica. I videogiochi stavano

rischiando di regredire, agli occhi degli osservatori troppo superficiali, al

ruolo di ammennicoli e scacciapensieri identici l’uno con l’altro. Non che

questo fosse vero, ma Super Mario Bros spezzò di fatto un immobilismo

165

creativo e produttivo che rischiava di seppellire l’industria in un circolo

vizioso di offerta eccessiva e scarso investimento nel game design.

Si apre per Nintendo, anche grazie all’apporto creativo di Shigeru

Miyamoto, un decennio di floridi successi. Nei primi anni ottanta il

successo planetario del Nintendo Entertainment System aveva imposto la

compagnia come indiscusso leader del settore, grazie a politiche

commerciali aggressive e a una softeca di giochi estremamente validi, tra

cui le serie di Mario e Zelda. Super Mario Bros 3, al centro di una

campagna pubblicitaria che ne aveva fatto l’oggetto del film The Wizard

nei cinema, aveva elevato Super Mario a icona definitiva del gioco

elettronico, facendo guadagnare al personaggio una fama maggiore di

quella di Mickey Mouse. Il successo di Nintendo si era espresso anche nel

successo di GameBoy, la console portatile che aveva rivoluzionato il modo

di giocare e trasformato Tetris, il puzzle programmato da Alexej Pajitnov,

in un fenomeno di massa. Al Nintendo Entertainment System era seguito il

Super NES, una console di nuova generazione che aveva confermato il

successo commerciale di Nintendo nella prima metà degli anni novanta,

resistendo agli attacchi di compagnie aggressive come Sega.

Una decina di anni dopo, tuttavia, Nintendo è un impero

commerciale che subisce l’invasione definitiva da parte di nuovi

contendenti. Dopo la prima metà degli anni novanta, Nintendo non è in

grado di prevedere con adeguato anticipo una serie di trasformazioni del

mercato che la porteranno in anni di relativa crisi, specialmente

d’immagine. Il nuovo simbolo del videogioco diventerà Playstation di Sony

(che determinerà anche il futuro ritiro di Sega dal mercato della produzione

di console, in favore di solo software). Con Playstation, Sony centra un

nuovo zeitgeist videoludico. La console di nuova generazione incorpora il

supporto CD-Rom che, pur presentando tempi di caricamento del software,

fa apparire obsolete le vecchie cartucce nei termini della memoria contenuta

(offrendo anche l’opportunità, non indifferente per certe vaste porzioni di

pubblico, di “piratare” il software). Playstation, come faranno tutte le

console di nuova generazione, è adatta alla rappresentazione di poligoni

166

tridimensionali, che diventeranno presto il paradigma della

rappresentazione videoludica. Sony, priva di esperienza diretta nella

produzione di giochi, da inoltre vita a una politica distributiva e produttiva

vantaggiosa per i produttori di software, e a una campagna di immagine

senza precedenti, che porta il videogioco verso una direzione e un pubblico

più adulto, in contesti pubblicitari prima non consoni al videogioco e con

pubblicità dallo stile adulto, aggressivo e a volte criptico e artistico.

Nel 1996 la nuova console di Nintendo che avrebbe dovuto

contrapporsi a Playstation di Sony e riaffermare la leadership della

compagnia sul mercato è pronta per la commercializzazione. Nintendo 64

fallirà nel suo compito. Il supporto a cartucce la svantaggerà sul piano

dell’economia di produzione e distribuzione, come anche sul piano

dell’immagine per la impossibilità di avere contenuti extra, sotto forma di

filmati e inserti narrativi, che i giochi su CD-Rom iniziano a proporre e che,

pur essendo una moda passeggera e spesso una scusa per vendere prodotti

scarsamente interattivi, le sono preclusi. Nintendo si aliena anche una

grossa parte delle compagnie produttrici di software, attratte da condizioni

piu vantaggiose offerte da Sony e dal capiente supporto su CD-Rom. È il

caso di Square, produttrice della celebre saga di Final Fantasy, che diventa

una partner importantissima per la softeca di Playstation, ma anche di

moltissime altre compagnie che determinano una specie di isolamento

commerciale di Nintendo 64.

Questi, e altri motivi, costringono Nintendo 64 a un avvenire

commerciale sul lungo periodo decisamente mediocre rispetto al successo

delle vecchie console Nintendo. Nonostante l’abbandono dei consumatori

nel periodo successivo ai mesi del lancio, però, la console registra il tutto

esaurito al momento della sua uscita, viene criticamente acclamata per il

rivoluzionario controller di interfaccia e ospita quello che la maggior parte

degli osservatori e una grossa fetta di pubblico ritengono, spinti da un

giustificato entusiasmo, il miglior videogioco mai creato. Si tratta di Super

Mario 64, e il suo game designer è ancora una volta Shigeru Miyamoto.

167

5.3.2 – Super Mario 64: il testo videoludico totale

Nel passaggio, tecnologicamente e commercialmente tormentoso, tra i

sistemi da gioco a 16 bit a tecnologia di rappresentazione bidimensionale e

una nuova generazione di sistemi a 32 e più bit e orientati verso una

rappresentazione grafica di tipo poligonale, intere famiglie di testi ludici

elettronici sono state abbandonate, e nuovi modelli di gioco e consumo si

sono affermati. La rivoluzione dei poligoni solidi nei videogiochi comporta

per il videogioco la conquista di una potenziale profondità di campo dei

suoi mondi giocabili i quali, pur rimanendo confinato sulla superficie

bidimensionale dello schermo, si possono finalmente offrire al giocatore

come dotati di una fisica verosimile rispetto alla realtà che ci circonda e di

un aspetto rappresentativo immersivo.

L’affermazione di mondi descritti in tre dimensioni e di personaggi

composti da un numero crescente di poligoni e ricoperti da mappature

grafiche sempre più accurate, possibilmente accompagnate da un serie di

effetti particellari e tecniche avanzate di cosmesi, non è solo una moda

passeggera, ma diventa ben presto la vocazione principale delle forme di

gioco più in voga o all’avanguardia dalla metà degli anni novanta ad oggi.

Se la tendenza del videogioco appare sin dalla sua nascita una vocazione

verso un grado crescente di sofisticazione dei propri universi, in questi anni

si creano i presupposti per una ideale polarizzazione tra il videogioco

mimetico della realtà, ossessionato dal criterio del realismo, e uno inteso

come macchina fantastica, come piattaforma per la creazione di mondi

altrimenti impossibili. Super Mario 64, che si presenta come un mondo

fantastico eppure incredibilmente coerente e verosimile nella sua meccanica

rispetto a tutto quanto era stato visto prima, non è il primo videogioco

interamente in tre dimensioni, ne rappresenta un unicum fuoriuscito dal

nulla rispetto all’evoluzione complessiva dei giochi digitali. Tuttavia,

costituisce uno di quelli strappi violenti, di quelle spinte improvvise

nell’evoluzione e nell’applicazione dei linguaggi espressivi che

168

automaticamente generano nuovi paradigmi. Come Super Mario Bros era

stato il modello prototipico del videogioco di piattaforme a due dimensioni

una dozzina di anni prima, Super Mario 64 impone un nuovo modo di

intendere la forma videoludica, trasponendo un’intera tradizione ludica pre-

esistente su un impianto a tre dimensioni in maniera così riuscita da

risultare un titolo a oggi ancora ineguagliato per coerenza complessiva,

felicità ludica e design complessivo.

In Super Mario 64 il giocatore controlla il simulacro di Mario in un

mondo in tre dimensioni. La struttura del mondo prevede un ingresso

principale, un castello con un giardino esterno, dal quale numerosi dipinti e

passaggi di altra natura trasportano in altrettante dimensioni di gioco, che

rivestono la funzione tipica dei livelli di gioco. All’interno del castello,

come dei suoi sotto-mondi, il giocatore affronta una serie di missioni

tipiche del gioco di piattaforme, ma interamente in tre dimensioni e tramite

un controllo analogico del personaggio. Spostando la leva direzionale con

maggiore intensità sul controller della console, il personaggio si sposta con

una intensità proporzionale, consentendo un gradiente di mobilità

nell’ambiente estremamente raffinato. Mario può camminare in punta di

piedi, per non svegliare nemici addormentati e approfittarne colpendoli

quando non l’aspettano. Può correre a varie velocità, consentendo di

interagire con il ghiaccio scivoloso, di prendere la rincorsa per saltare

lunghi burroni o per fronteggiare sezioni che richiedono finezza e cambi di

velocità. Può prendere a pugni i nemici, afferrare e trasportare oggetti,

nuotare, rimbalzare di muro in muro, volare con un apposito power-up, e

interagire con quasi tutto quello che è possibile vedere nei mondi di Super

Mario 64. È questo gradiente nel controllo che, attualizzandosi nel rapporto

tra interfaccia del giocatore e design del mondo giocabile e delle sue

situazioni e unendosi a una presentazione visiva gradevole e fiabesca e di

un accompagnamento sonoro immersivo e seducente, rende Super Mario 64

un’esperienza priva di precedenti, non solo sotto il profilo tecnico, ma

anche sotto quello del puro divertimento per il giocatore. L’aspetto più

169

rilevante che si riscontra a proposito della qualità dell’esperienza di Super

Mario 64 è il fatto che i giocatori, non paghi dello strabiliante lavoro di

level design e di game design e della compattezza, varietà e ampiezza delle

situazioni di gioco previste dall’enunciazione, rinunciassero a volta alle

missioni “ufficiali” previste per avanzare tra i livelli, accontentandosi anche

solo di scorrazzare per gli stessi, interagendo con gli elementi di arredo

come gli alberi su cui arrampicarsi, le piscine in cui nuotare, i muri sui quali

effettuare i salti di rimbalzo, o anche solo lasciandosi precipitare dalle

piattaforme più alte, volando per i mondi utilizzando la funzione del

cappello alato, esplorando da cima a fondo parti dei mondi di gioco fino

all’ultimo palmo. La possibilità di controllare la visuale di gioco, la cui

funzione è attorializzata in un personaggio-cameraman che possiamo

vedere solo quando Mario si mette di fronte a uno specchio all’interno del

gioco, fa sì anche che i giocatori inizino a raccontare di come, fissata la

telecamera su un punto di osservazione, avessero creato scene animate

controllando Mario. Alcuni tra i primi esperimenti di machinima su giochi

poligonali, di fatto, sono avvenuti con questo testo videoludico.

Al di la della qualità del design del mondo di Super Mario 64,

quindi, che si presenta come un’unica dimensione piena di punti di

passaggio e connessione e non come una semplice sequela di livelli, giace

un aspetto che abbiamo più volte incontrato: la saldatura profonda tra

l’aspetto logico-formale, descrittivo a mezzo uno e zero del codice del testo

ludico e la sua componente fisica dell’interfaccia, che costituisce un ponte

in cui avviene l’interazione tra giocatore e gioco. Super Mario 64 è un testo

informatico che nasce con una storia e una metodologia produttiva di gran

lunga più complessa della maggior parte dei giochi digitali. Il confronto tra

questo testo e un gioco digitale come Tomb Raider, commercializzato negli

stessi anni da Eidos per la piattaforma di Sony, rivela lo scarto nella

sofisticazione dell’approccio tecnico, tecnologico e di design che rende

possibile l’esistenza dei due testi. Super Mario 64, al cui confronto un testo

di maggior successo commerciale come Tomb Raider appare come una

170

dilettantistica esercitazione, è un testo totale, sulle cui esigenze viene inteso

il design della macchina da gioco e dell’interfaccia di cui essa è dotata.

Nintendo 64, la prima console a incorporare un controller analogico e

consentire dei gradienti di interazione non semplicemente binari come

quelli dei pad digitali (che prevedono appunto solo lo stato di on-off e

quindi, per esempio, movimenti a una sola velocità). Lo sviluppo del

simulacro-Mario, del mondo in cui le sue azioni hanno un effetto e

dell’interfaccia che consente il controllo avvengono in contemporanea,

sotto la stessa enunciazione a monte. È da questa superiorità di design

complessivo che la sofisticata, eppure intuitiva e naturalissima interazione

con i mondi di Mario può avvenire sulle punte delle dita. La storia di

Nintendo, d’altro canto, come dimostrano bene le ultime console DS e Wii,

è quella di una compagnia perennemente alla ricerca di soluzioni interattive

nuove, in cui la sofisticazione tecnica è al servizio dell’intuitività per il

giocatore.

Super Mario 64 è dunque un testo rivoluzionario, ma è necessario

tornare alla nostra domanda su Shigeru Miyamoto come autore. Se la

domanda è “Super Mario 64 è un gioco di Shigeru Miyamoto?”, la risposta

può essere affermativa. Se la domanda è “Super Mario 64 è un gioco

interamente dovuto a Shigeru Miyamoto?”, la risposta non potrà invece che

essere negativa. Shigeru Miyamoto è il designer di Super Mario 64: in

questo testo, più che in qualunque altro sin dai tempi di Super Mario World

per il Super NES, il designer nipponico riversa il proprio impegno, curando

le fasi della sua progettazione e realizzazione come un artista la sua opera

personale; tuttavia, Miyamoto opera all’interno di un paradigma tecnico-

specialistico corale, dirigendo competenze, utilizzando tecnologia, piegando

ai fini della propria visione del testo finale lo sforzo di una intera

compagnia il cui stato dell’arte rappresenta due decenni di continui sforzi

scientifici, artistici, commerciali. Senza la supervisione, la direzione e il

talento di Shigeru Miyamoto al design probabilmente Super Mario 64 non

sarebbe esistito ma, d’altro canto, senza la tecnologia che lo supporta e le

171

competenze necessarie per portarlo dalla potenza all’atto, che non si

risolvono assolutamente nel ruolo di Miyamoto (e interessano audio,

grafica, implementazione tecnica della programmazione necessaria, design

dei mondi di gioco e dei personaggi, semplice lavoro sporco sul codice,

ricerca sull’interfaccia, beta testing), il gioco non sarebbe mai stato

realizzato. Super Mario 64 è un’opera d’arte videoludica in

quest’accezione, e Shigeru Miyamoto può essere il suo autore, fin tanto che

saremo in grado di accettare questa nozione in un senso debole, senza

connetterla a un pregiudizio romantico in base al quale il carattere corale o

industriale dell’enunciazione negherebbe lo statuto d’arte dell’opera.

5.3.3 – Il creativo nell’industria

Il ruolo di Miyamoto appare indubitabile, come anche la sua regia degli

elementi tecnici in gioco. L’enunciazione di Super Mario 64 non può però

coincidere con l’autore-Miyamoto, che è uno degli attori, anche tra i più

indispensabili, al lavoro su una forma testuale interattiva all’avanguardia

sotto il profilo tecnico, artistico e interattivo. Certo è che Miyamoto

presiede al coordinamento dei complessi elementi in gioco, mettendoli in

discussione in partenza e unificandoli in un progetto testuale unico. Nel

gioco il lavoro sull’informazione digitale e rappresentativa di un mondo

possibile videoludico in tre dimensioni si unisce a un’interfaccia software e

hardware che consente la deambulazione divertita e l’interazione

complessa, mentre il design rende l’esperienza dirompente e nuova per il

giocatore anche se la proietta su un nuovo livello rispetto alle aspettative di

genere tipiche (quelle del platform game). In una riedizione del gioco per la

sua nuova console portatile la produzione Nintendo, semplificando il

sistema di controllo e deprivandolo della componente analogica (non

implementata nel nuovo hardware portatile), altera irrimediabilmente la

godibilità ludica del testo della sua portata reale in termini interattivi,

sottraendogli sofisticazione ed effettività a dimostrazione della non-

scindibilità tra interfaccia e design del progetto originario.

172

Miyamoto è quindi un designer-“regista” del testo videoludico al

lavoro su una dimensione testuale del gioco digitale in la cui tecnica

condivisa è a uno stadio di complessità troppo grande per essere maneggiati

da una sola persona, ma il cui carattere corale ha solo da guadagnare dalla

direzione di un vero talento. Nel suo lavoro, ancora una volta non vi è nulla

di creazionistico, o di romanticamente solipsistico o “geniale: anche quando

Miyamoto riferisce dell’ispirazione per Pikmin2, premiato dalla critica del

settore, ricevuta dal suo lavoro nel proprio giardino, bisogna riconoscere

che la componente psicologica di questa ispirazione non ha in definitiva un

concorso nello spiegare la qualità del design profusa nel gioco, che ha a che

vedere esclusivamente con le regole e l’arte del fare un buon videogioco.

Quanto sostenuto a proposito del contesto cinematografico, e cioè che la

componente psicologica pertiene a tutte le persone a prescindere dal loro

ruolo rispetto al testo espressivo e che essa non ha a che vedere con i

presupposti enunciativi, rimane valido.

Come Griffith al cinema Miyamoto non parte non come tecnico, ma

come creativo. A differenza di Griffith, tuttavia, Miyamoto non intende

produrre una visione del mondo attraverso il suo sguardo, ma produrre

giocattoli elettronici divertenti. Miyamoto non opera secondo un

presupposto di espressione personale o artistica del mezzo, non parla dei

videogiochi come arte e di se stesso come di un autore. Parallelamente al

successo critico di Super Mario 64 e alla guadagnata fama storica di molti

dei lavori in cui è stato impegnato, Miyamoto, anche per via della visibilità

ottenuta e sfruttata nei convegni del settore, in cui si presenta come un

intrattenitore gioviale e disponibile, pronto a ironizzare sul suo lavoro e a

offrirsi in gag divertenti, viene consacrato autore. Attraverso questo

mandato, tuttavia, Miyamoto diventa profeta di una concezione anti-

intellettualistica, anti-narrativa, puramente ludica del gioco elettronico, che

trova un maggior riscontro nel pubblico dei suoi appassionati piuttosto che

in un certo tipo di critica che, negli anni passati, troverà in esempi di

173

videogioco più artatamente autoriale, psicologizzante o biografico il riflesso

della propria voglia di legittimazione artistica del mezzo144.

Miyamoto, come altri designer, diventa definitivamente un’etichetta,

una marca di qualità per i giochi ai quali lavora. Tuttavia, Miyamoto

avrebbe continuato a ironizzare sul suo lavoro, riportando in varie occasioni

la propria convinzione che i propri lavori fossero dei “semplici giocattoli”,

di cui essere fieri nel caso in cui assolvessero al proprio compito principale:

divertire.

L’enunciazione di Nintendo, del resto, non sfrutta mai la figura di

Miyamoto nel contesto pubblicitario dei titoli, che non presentano mai la

dicitura “di autore” sulla copertina e continuano a presentarsi come dei

giocattoli elettronici nella propria componente epitestuale e di marketing.

Miyamoto diventa autore, ma l’etichetta è involontaria. Il suo successo

viene spinto prima di tutto dal di fuori dall’enunciazione, dal metatesto e

dal peritesto dei giocatori e della critica che lo osannano. Mentre Mario

diventa attore, Miyamoto diventa autore. I due processi restituiscono le

dinamiche in base alle quali il complesso produttivo eleva i suoi prodotti ed

esponenti piu meritevoli al massimo titolo, quello della “persona” in cui è

trasceso il semplice l’ingranaggio. Miyamoto e Mario diventano allora delle

guide per orientarsi, a volte abusate dal pubblico145, che lo osanna

aprioristicamente anche per giochi che non scrive ne dirige direttamente,

ma si limita a supervisionare. Da autore a “bollino di garanzia”, il caso di

Miyamoto può essere assunto come esempio principale nel caso

videoludico di quella esigenza di autore, anche come mero principio

orientativo, della cui ineliminabilità abbiamo giù parlato a proposito del

cinema.

5.4 – John Carmack: lo scienziato del codice 144 Il talento naive di Miyamoto, più da giocatore appassionato che da tecnico, viene indicato da Babich (2005) nel suo prezioso volume sui Mondi di Super Mario. 145 Nel corso della storia videoludica si assiste al fenomeno per cui l’attante videoludico diviene pian piano attore, rispondendo a quei criteri di intertestualità per il pubblico proposti da Stam/Burgoyne/Flitterman-Lewis (1992). Cfr. http://www.videoludica.com/news.php?news=289

174

John Carmack, co-autore di Doom e co-fondatore di Id Software, è

riconosciuto come uno tra i più prolifici e influenti programmatori al

mondo, in particolare nel campo della grafica 3D, e come il primo

programmatore ad applicare ed affinare per il gioco elettronico tecniche

come la binary space partitioning e il surface caching. Appassionato

fondatore di un’agenzia missilistica privata, la Armadillo Aerospace,

Carmack è comparso al decimo posto della rivista Time nella lista delle

cinquanta persone più influenti al mondo nel campo della tecnologia.

La fama di Carmack è però dovuta principalmente al suo lavoro di

programmazione per Doom, il gioco di Id Software che ha rivoluzionato la

storia dei videogiochi in senso espressivo, commerciale e sociale.

Largamente frutto dello sforzo tecnico di Carmack e della sua ricerca sul

puro mezzo logico dei bit, Doom (come i testi che dello stesso genere che lo

seguono prodotti da Id) dimostra l’importanza e l’influenza del soggetto

tecnico e della componente, per così dire, scientifica che fa da presupposto

del fare artistico, spingendoci a un forte ridimensionamento di una visione

in cui l’espressione autoriale può derivare dal semplice uso personale di una

tecnica data a monte.

Carmack, a differenza di Minter o di Miyamoto, non incarna una

figura di programmatore-autore psichedelico o dalla biografia singolare, ne

quella di un creativo inserito in un complesso di produzione di alto livello,

ma è più simile al profilo di programmatori-designer del codice come

Miller o Whitehead, incontrati nel corso del primo capitolo. Anche se

Doom è il frutto del lavoro congiunto di Carmack, del designer Romero e

degli altri grafici e programmatori della Id Software, è la rivoluzionaria

tecnica alla programmazione di Carmack che rende possibile la

popolarizzazione del genere di videogiochi noto come First Person Shooter.

In Carmack, il fare artistico si incarna in una visione puramente tecnica,

dedita allo sfruttamento dell’ultimissima risorsa disponibile per i mezzi

tecnologici, dell’aggiramento dei suoi limiti, e in una dedizione a tale scopo

tale da non fare neppure prendere in considerazione a Carmack le stesse

175

possibilità di introiettare una propria personalità, visione del mondo/del

gioco o psicologia nel testo.

5.4.1 – Carmack e Romero

Carmack inizia la sua carriera in SoftDisk, dopo aver lasciato l’università

per dedicarsi a tempo pieno alla programmazione. Nella compagnia,

Carmack incontra il team con cui fonderà la Id Software, in particolare John

Romero, un game designer particolarmente talentuoso sotto il profilo del

beta-testing dei giochi e del level design. Sfruttando in segreto le risorse

tecnologiche dei computer della compagnia, che intendono lasciare,

Carmack e soci producono Commander Keen, il primo di una serie di

giochi poi distribuiti da Apogee Software. È l’inizio di una lunga e

straordinaria collaborazione creativa tra Carmack, talento della

programmazione, e Romero, designer dotato e grande iper-giocatore

prestato all’applicazione del codice

La storia DI Id Software è stata presentata nel libro Masters of Doom

con toni spesso eccessivamente romanzati, ma con un apparato di fonti e

documentazione che non lascia adito sull’accuratezza dei dati storici e

biografici. Kushner146 ricostruisce le biografie dei due programmatori con

un parallelo relativo al loro compito principale nella compagnia

raccontando, anche se con un eccesso di fantasia letteraria nei confronti dei

due protagonisti principali, tutte le tappe che portano due ragazzini a

cambiare per sempre il volto dell’industria dei videogiochi. Kushner illustra

le personalità, contrastanti ma complementari, di Carmack e Romero. Il

primo viene presentato come una persona anormalmente schiva e

introversa, dedita in maniera maniacale al proprio lavoro, affetta da una

specie di semi-autismo che la porta alla ricerca di un isolamento mentale 146 Cfr. Kushner (2005)

176

completo nei confronti dell’ambiente circostante, incurante della possibilità

di dormire per terra su una pila di libri in condizioni produttive e di vita

disagiate ma ossessionata dall’idea di portare a termine la propria ricerca

sul codice. Romero, nell’enfasi letteraria del resoconto biografico di

Kushner, è invece un game geek di grande talento, imbattibile giocatore,

estroverso e socievole, appassionato di musica metal e di fumetti,

attaccabrighe e sciupa-femmine. Carmack è il ragazzo geniale e introverso,

che termina le frasi con uno strano verso robotico; Romero è l’estroverso

rockettaro.

Kushner, indubbiamente, carica il racconto di una notevole dose di

letterario ed enfasi romanzesca, ma presenta un quadro fedele delle vicende.

Il successo di Id Software è infatti il risultato della coordinazione di un

team tecnico ed artistico di alto livello in cui Carmack e Romero sono i

principali agenti di propulsione. La sinergia delle due opposte capacità dei

“due John”, che Kushner arriva a paragonare allo Yin e Yang, inizia quando

Romero prende atto dell’avvenuta capacità di Carmack di emulare la

routine di scorrimento dello schermo dei giochi della serie di Super Mario

Bros partendo da zero. Lavorando su una piattaforma hardware inadeguata

agli scopi e in totale isolamento tecnico, Carmack replica da solo un

risultato raggiunto e gelosamente protetto dal lavoro collettivo e risultato di

numerosi anni di impegno dei programmatori di una compagnia come

Nintendo. Il rifiuto di Nintendo di offrire la licenza per una conversione sul

mercato PC del suo gioco per la propria piattaforma NES offre al team la

scusa di ironizzare producendo un clone del primo livello di Super Mario

Bros 3, ribattezzandolo Dangerous Dave in Copyright Infringement147.

Dopo gli eventi della fondazione di Id e del rifiuto da parte di

Nintendo di una conversione di Super Mario Bros, Carmack avrebbe

lavorato al motore di rappresentazione che avrebbe reso possibile Return to

Castle Wolfenstein e Doom. Quest’ultimo, in particolare, rappresenta una

tappa fondamentale per la ricostruzione dell’albero evolutivo delle forme

videoludiche, nonché la consacrazione dei First Person Shooter, oggi un 147 Una versione giocabile del demo è disponibile all’URL http://rome.ro/games_ddici.htm.

177

genere dominante nell’offerta videoludica, in cui trova luogo una immensa

parte della cultura di gioco online.

La violenza estrema e splatter, la connotazione estetica morbosa e

inquietante e l’immersione radicale che la visuale in prima persona genera

per il giocatore si uniscono a un level design sublime quanto crudele, che

non si limita a ossessionare il singolo giocatore ma fornisce i presupposti

per la prima, radicale esperienza di gioco online multiplayer.

Con Doom, Id getta le basi infrastrutturali per una nuova pratica

videoludica, quella del deathmatch online (termine che si è soliti attribuire

all’invenzione di Romero), della distribuzione online del testo videoludico,

della cultura del gioco in rete. Carmack, dal canto suo, applica o perfeziona

tecnica di programmazione inedite o inusitate, come del resto farà in futuro,

quando percorrerà per via propria dei percorsi di programmazione che altri

team avevano intrapreso indipendentemente. In Id, il talento di Carmack

alla programmazione determina l’andamento del regime produttivo della

compagnia. Ogni nuovo gioco si fonda sul nuovo motore di

rappresentazione programmato da Carmack in base ai suoi progressi sul

codice, ed è solo in seguito alla sua divulgazione del motore al resto della

compagnia che quest’ultima, Romero in testa, si mette al lavoro sul design,

il progetto testuale complessivo e la caratterizzazione estetica dei titoli148.

Dopo una lunga collaborazione, che avrebbe portato alla nascita di

giochi come Doom 2, Quake, Quake 2, Quake Arena, il rapporto

professionale tra Carmack e Romero si sarebbe però irrimediabilmente

incrinato. La tendenza di Romero a eccedere nel ruolo di stravagante

rockstar videoludica, che lo porterà tra l’altro, dopo la separazione

professionale da Carmack, a dilapidare un patrimonio per la costruzione

della spettacolare sede della sua nuova compagnia, si dimostra alfine

148 Un game engine è il nucleo di codice programmato per software come giochi o applicazioni con grafica in tempo reale che provvede al linguaggio tecnologico di base, fungendo da ponte tecnico per utilizzatori successivi. In alcuni casi l'engine serve per funzionare su sistemi operativi multipli, in altri casi il suo ruolo preciso è quello di offrire a game designer dotati sul piano creativo ma non specialisti alla scrittura di una piattaforma di programmazione "chiavi in mano", a interfaccia facilitata. Gran parte della lavorazione di alcuni tra i titoli per PC tecnicamente più avanzati segue questa enunciazione "a pasta sfoglia" in cui il talento di soggetti diversi attraversa i testi con prestiti e incroci di competenze.

178

incompatibile con l’atteggiamento professionale e discreto di Carmack che,

forte della evidente statura tecnica, non avrà problemi a isolare Romero ed

espellerlo da Id una volta esasperato dagli ennesimi disturbi al suo regime

di lavoro. Kushner, tuttavia, pur cedendo alle lusinghe di interpretazioni

biograficamente romanzesche e psicologiche nell’illustrare la nascita dei

giochi e correlarla alle vicende personali dei protagonisti, adotta senza

saperlo una prospettiva in parte testualista. Kushner fa notare nel suo libro

come al fallimento dei successivi tentativi di Romero, privo del saper fare

tecnico di Carmack, sia corrisposto un declino della qualità di design dei

giochi di Id, provvisti come sempre del codice di Carmack ma deprivati di

uno straordinario game designer.

5.4.2 – Il codice Doom

La storia di Carmack che è utile ai fini del nostro lavoro non è quella

del ragazzo introverso e geniale, ma quella del codice che programma. Il

lavoro di Carmack, che si identifica con la sua programmazione, non si

risolve pertanto nel singolo testo. Il codice dietro Doom è alla base di un

testo che, letto sotto la specie della nozione di autore, rende necessarie

diverse osservazioni. In primo luogo, siamo costretti a considerare un

ulteriore e più severo profilo di l’autorialità, riscontrando nella pura tecnica

pura a valle del fare creativo un presupposto terribilmente solido e

ineliminabile per l’espressione del linguaggio videoludico. Già la

conversione di Super Mario Bros è indice della superiorità tecnica di

Carmack, capace di ripercorrere in maniera personale e solitaria

un’evoluzione tecnologia che altre compagnie avevano raggiunto come

traguardo collettivo in numerosi anni. Carmack ha il passo lungo sul codice,

così lungo da pareggiare Nintendo sul piano della programmazione. Il testo

che testimonia meglio di tutti gli altri il lavoro di Carmack è però Doom,

che si presenta come una rottura decisiva in termini tecnologici di quanto

fosse stato visto prima.

179

Questo non comporta, è ovvio, l’appiattimento dell’espressione

videoludica sul solo presupposto tecnico: Doom è la dimostrazione di come

il codice presupponga il testo videoludico ma anche di come quest’ultimo

trovi la sua definitiva espressione sul piano congiunto di programmazione,

estetica, design e capacità di sottendere a una pratica di gioco soddisfacente

per il giocatore nel caso di Doom149.

Il codice di Carmack ci mette in guardia dall’uso troppo frettoloso

della categoria autoriale per chi non lavora a monte del lavoro creativo.

Eppure, Doom ci costringe a pensare a certi testi videoludico sotto l’unica

specie autoriale possibile, quella collettiva. L’enunciazione trova qui un

corrispettivo di persone impegnate in una struttura inusuale, a metà strada

tra l’home coding di Minter, la sperimentazione dei primi pionieri

videoludici e la bottega artigianale, tale da rendere inservibile l’autorialità a

meno che essa non venga interpretata in senso corale e collaborativo ma

ancora priva del rigore e grigiore industriale. Se il gioco di Id Software

rappresenta al contempo lo state of the art e il paradigma dell’estetica, del

codice, dell’interfacciabilità e del gioco online dell’epoca, questo è dovuto

alla coralità del lavoro sul testo.

È evidente che attribuire la paternità a una sola testa

corrisponderebbe a un indebita antropomorfizzazione, a detrimento tanto

del testo che del lavoro stesso dei singoli attori in gioco. Se si dovesse

ricercare una regia, una direzione principale, un riferimento preciso a un

soggetto autoriale, quest’ultimo non potrebbe che rivelarsi come un mostro

a più teste. Le più evidenti sarebbero quelle di John Romero e John

Carmack, ma ridurre testi come Doom, Doom II, Quake e Quake II

all’opera dei due soli Carmack e Romero costituirebbe un torto a

programmatori comunque influenti sugli esiti dei giochi come Tom Hall,

Adrian Carmack, American McGee, Scott Miller, Mike Wilson, il cui

lavoro è poi confluito in software house e progetti paralleli a quello di Id.

149 Doom e la sua compagnia Id sono anche il testo e il soggetto produttivo che rendono possibile la nascita di una vera e propria nuova faccia della pratica videoludica, quella online. Cfr. Kushner (2005)

180

La constatazione della centralità del fare tecnico di Carmack è

comunque provata dalla futura migrazione del suo codice come base per

giochi programmati da altri team di sviluppo. Il codice sviluppato da

Carmack per i propri motori di rappresentazione è stato usato su licenza in

innumerevoli titoli come Half-Life e Medal of Honor e successivamente

dato in pasto ad appassionati e dilettanti per un uso e consumo libero, a

dimostrazione della natura fondativa, migratile, adatta al farsi strumento di

espressione del codice videoludico puro, della sua potenza logico-formale e

rappresentativa.

Possiamo quindi concludere coerentemente rispetto alle nostre

analisi di testi precedenti: sul piano teorico, a restare fuori dalle possibilità

di una validità teorica è solo la nozione psicologica dell’autorialità di cui

Kushner abusa in un impeto giornalistico. La psicologia è di fatto

facilmente eliminabile come criterio per spiegare il prodigio tecnico di

Carmack e il talento nel game design di Romero, ed è solo apparentemente

paradossale che sia la stessa biografia di Carmack, così come viene

presentata da Kushner, a eliminarla come criterio creativo. Carmack, per

come viene descritto da Kushner, è un personaggio che non si fa problemi a

dormire sui libri per terra, viene convinto solo da Romero a comprare un

letto: è privo di psicologia, e la stessa contrapposizione tra camera da letto e

ufficio cade, priva di fondamento. Ma anche se Carmack annullasse la sua

stessa persona nel mezzo videoludico, la biografia non si rivelerebbe di

maggior supporto alla ricerca e alla comprensione sul testo rispetto

all’aspetto tecnico che si rivela nella testualità.

La mitologia autoriale è in questo caso rafforzata anche dalla critica,

che è a volte strumento delle strategie enunciative delle compagnie di

produzione di giochi. Ma Doom non è il solo caso. Un esempio di

distorsione mitopoietica dell’autore in questa direzione è quello di Sid

Meier, storico programmatore e game designer assurto a simbolo vivente

del game design per molta critica, e il cui nome è progressivamente

divenuto un’etichetta commerciale sulla scorta di quello di Walt Disney.

Sono molti, in effetti, i titoli che portano la sua firma in copertina per i quali

181

il suo contributo creativo e tecnico è notoriamente molto scarso, limitato in

alcuni casi alla pura supervisione. Anche ad accettare l’ipotesi per cui il

lavoro di Sid Meier starebbe ai giochi che firma così come il codice di

Carmack sta ai giochi altrui che ne fanno un esplicito uso, la trasformazione

di Meier in etichetta-garanzia di qualità o in richiamo di genere per il

consumatore è sintomatica di un certo feedback vizioso sull’autore che può

proliferare in caso di un mancato rapporto polemico tra enunciazione

industriale e metatesto critico.

5.5 Percorsi per l’autore

I casi di autori videoludici che abbiamo presentato hanno mostrato di

ricongiungere idealmente tutti i punti che, nel corso dei capitoli precedenti,

abbiamo elevato a nevralgici per la disamina della nozione di autore: il

rapporto tra aspetto corale della tecnica ed espressione individuale, tra

testualità videoludica intesa come ricerca sul codice piuttosto che sul

complesso di interfaccia, tecnologia e design, e l’oggettiva impossibilità di

appiattire sulla convinzione romantica sull’autore il complesso enunciativo

del videogioco. Quest’ultima affermazione è basata sulla constatazione che

questa istanza logica presupposta dai testi può e deve essere estesa ai

soggetti enunciativi nel progetto di una teoria semiotica aggiornata ma,

anche nei casi limite in cui essa pare identificarsi con un solo soggetto,

quest’ultimo è comunque iscritto in un orizzonte tecnico condiviso.

La riflessione sui presupposti tecnici del fare artistico portata avanti

nei primi capitoli, unita alla consapevolezza critica della nozione autoriale

guadagnata dal cinema, ci spingono a diffidare nella credenza per cui

l’autore corrisponderebbe a un profilo geniale o esprimerebbe un sentire

individuale, e ad accettare l’autore nella sua unica accezione possibile:

quella di un operatore testuale, implicato in varie misure e a vari livelli nel

processo spesso inevitabilmente corale, e sempre tutto tecnico e linguistico,

alla base della scrittura dei testi. Dai pionieri del gioco elettronico, il punto

nevralgico della reale superiorità di design è stato raramente un uso

182

personale ed espressivo di un videogioco inteso come tela su cui esprimere

del sentire, e più spesso il progresso della tecnica o il suo utilizzo per

finalità nuove e possibilmente migliori. Pensare a una camera-stylo

videoludica sulla scorta di quella cinematografica è una possibilità che

appare meno consigliabile in questo contesto rispetto a quello

cinematografico, oltre che un precetto su cui non è possibile basarsi per

spiegare le finalità del testo videoludico: mentre tutti hanno qualcosa da

esprimere con un mezzo dato, pochi sono in grado di utilizzare quel mezzo

come nessuno aveva pensato, o addirittura di crearsi un mezzo che prima

mancava. D’altro canto, affermare che l’aspetto di ricerca pura sul testo

videoludico sia la vera cartina di tornasole per il soggetto autoriale

“tecnico” non è che uno dei modi per inquadrare l’autorialità videoludica:

non vogliamo negare il suo utilizzo espressivo, che va valutato nel lavoro

complessivo sul testo, ma ricordare come avvenga il reale processo sulla

grammatica videoludica.

La nostra ricognizione sull’autore, che è partita sempre

dall’assunzione del punto di vista del fare, ha confermato l’adattabilità di

molte delle osservazioni attuate nel contesto cinematografico a quello

videoludico. Dalla nostra prospettiva, l’autorialità si è espressa

maggiormente nel bilanciamento tra un avanzamento del linguaggio,

operato lavorando sul suo sostrato interattivo e tecnologico come dei suoi

mondi possibili, e sul controllo formale del testo secondo un piano che

devia dalle prospettive di produzione tipiche per far progredire in direzioni

diverse la testualità. La proiezione della figuratività, della personalità

dell’autore, ci è parsa insomma inevitabilmente meno influente della

capacità tecnica o di design sotto questa prospettiva. È pur vero che, come il

cinema, il gioco è prodotto inevitabilmente corale, e una prospettiva di

analisi semiotica aperta a un principio non impersonale dell’enunciazione

come quello che abbia sposato per non sacrificare i soggetti dovrebbe

affrontare il problema dei crediti, dei titoli di testa e di coda, facendo

dialogare questi con il testo in maniera critica.

183

I casi di Minter, Miyamoto e Carmack sono esemplificativi di

prospettive diverse, polarizzate in questi soggetti ma non generalizzabili,

sotto cui inquadrare il ruolo del game designer: rispettivamente, quella

bedroom coder, quella del creativo-producer nel contesto della grossa

industria, quella del programmatore hardcore nel team di sviluppo. I

designer di questo capitolo incarnano configurazioni enunciative peculiari

che, assunte in maniera non normativa ma come semplici esempi,

forniscono spunti per ulteriori direzioni di analisi.

Nel caso di Minter i temi più importanti per future analisi appaiono

la questione dell’estetica videoludica in cui il linguaggio videoludico viene

incorporato come figura del testo e in cui la ricerca figurativa avviene sul

piano astratto e non mimetico della realtà; ma anche i limiti dell’autorialità

intesa nel senso della proiezione della propria personalità del testo. Nel caso

di Miyamoto, si presentano come terreni perfetti per la ricerca il procedere

parallelo del ricorso all’autore e al personaggio da parte del pubblico come

strumenti di orientamento nel consumo di videogioco, come anche il ruolo

del creativo nel tessuto tecnico condiviso della grande industria. Per quanto

riguarda Carmack, l’attenzione dei ricercatori dovrebbe rivolgersi

interamente sulla potenza ri-mediatrice ed espressiva del videogioco su un

tessuto di nervi logici costituiti dai bit e dal raffinato lavoro della loro

descrizione, attuato da un soggetto che incarna la langue tecnica al massimo

grado, tale da farla progredire per ricerca diretta.

In ogni caso, a emergere è anche una prospettiva dell’oggetto e del

fare artistico che non assume le conduzioni di commercializzazione e di

produzione come assunti sulla base dei quali applicare ai testi i bollini del

“prodotto” piuttosto che dell’“opera”. Il paradigma di pensiero in cui

collocare la ricerca sull’autore nel videogioco deve essere costitutivamente

sgombro da pregiudizi apocalittici sulla cultura di massa. Ma anche volendo

utilizzare categorie estetiche tradizionali, Carmack apparirebbe come un

artista nel senso naturalistico del termine, perché fonda il proprio lavoro e

studio sui presupposti matematici della rappresentazione del visibile.

Miyamoto sarebbe allora un artigiano creativo di altissimo livello, che

184

coordina la tecnica per intrattenere e dialogare col giocatore con giocattoli

di altissimo livello. Minter sarebbe invece un regista videoludico che adora

pochi “generi” e ha il pallino della ricerca sulle possibilità visive

dell’estetica tematizzata del mezzo: nel suo caso, si ha il grado massimo di

iscrizione dell’enunciatore nell’autore, ma non di originalità creativa o reale

lavoro tecnico.

Questi autori, che rappresentano personaggi centrali per comprendere

la prospettiva d’autore attraverso l’analisi del linguaggio videoludico, non

esauriscono ugualmente il panorama contemporaneo videoludico visto sotto

la specie dell’autorialità. Altri aspetti, che indicheremo nel prossimo

capitolo, includono il problema del rinvenimento della poetica d’autore

come nucleo stilistico o tematico all’interno nel genere commerciale,

l’aspetto meta-autoriale, citazionistico e irriverente del game designer

cinefilo, il transito definitivo dell’autore in etichetta, la presa in prestito

nell’ambito videoludico delle strategie mitopoietiche dell’autore tipiche del

cinema contemporaneo, la riflessione sull’autore del gioco digitale

all’interno di un orizzonte in cui cinema e gioco implodono

intermedialmente, il ruolo della tecnologia per il transito da un regime di

autorialità obsoleto a uno che comprenda la confusione tra produttore e

consumatore di tecnica, informazione e contenuto nella figura del prosumer.

185

Capitolo 6

OLTRE L’AUTORE

6.1 – Tutte le strade portano all’autore

L’analisi dei testi e la presentazione di soggetti e vicende a oggetto

di questo capitolo chiudono il cerchio della nostra ricerca, distribuendo

idealmente alcuni casi di autorialità nel videogioco su un continuum i cui

estremi prevedono il suo massimo annullamento e la sua massima visibilità.

Al contempo, molti degli esempi riportati metteranno in rilievo dimensioni

in cui l’autorialità si manifesta in una serie di prospettive complesse, legate

all’intermediale dell’enunciazione industriale e alle strategie di

posizionamento dei testi mediali.

Second Life, un programma che si dimostra resistente a qualunque

analisi fortemente ancorata al principio di auto-conclusione semiotica del

testo, rappresenta una sorta di grado zero dell’autore nel contesto

videoludico [immagini 27-28]. Nel suo carattere strutturalmente corale e

collettivo trova dimostrazione una certa tendenza del fatto espressivo,

artistico e mediale della nostra epoca a rendere ancora più debole la

distinzione tra l’autore e il consumatore o, se si preferisce, tra l’enunciatore

e l’enunciatario150. Non ci riferiamo alla semplice previsione da parte del

testo del proprio interprete, che si trova come un aspetto idealmente

istanziato, come un processo semiotico implicito nella definizione del testo,

ma dalla constatazione dalla progressiva affermazione e imposizione di un 150 Cfr. Eco (1979)

186

regime dell’informazione digitale il cui carattere corale è soggetto a una più

che mai sua migrazione e a una continua e senza precedenti opera di

modifica collettiva, a un lavorio pubblico su tutti i livelli della produzione e

dal consumo dei suoi oggetti di senso151.

D’altro canto si assiste anche, nell’offerta videoludica, a una

tendenza volta a costruire l’autorialità. Questa non si esprime solo

nell’effettivo lavoro del soggetto, con le relative tracce rilasciate

nell’enunciazione e con le eventuali “poetiche” riscontrabili nei pur corali

processi produttivi, ma anche in quei casi in cui è l’enunciazione stessa a

enunciare l’autorialità, pensandola come una precisa strategia o marca

testuale. Si assiste, da un lato, a una polverizzazione del ruolo direzionale

del game designer in un serie di rivoli diversi, che comprendono una serie

di strategie di visibilità o di indipendenza espressiva rispetto ai sistemi

produttivi e alla tecnica condivisa. Dall’altro lato, si riscontra anche la

sottomissione strumentale del concetto di autore a una enunciazione di

livello superiore che, sancendo o meno l’effettiva scomparsa del game

director, comunque lo prevede, implementa ed erige allo statuto di

un’etichetta avendo in mente il richiamo commerciale e critico che questa

consente.

Partendo da casi come quelli esaminati in questo capitolo il

confronto con il modello autoriale del cinematografo, che abbiamo eletto a

monito critico, sarà portato a sconfinare rispetto alla semplice constatazione

di simili processi nel modo in cui pubblico, critica e industria videoludica

intendono o creano l’autore. Le considerazioni sui due mezzi espressivi si

troveranno, infatti, automaticamente costrette ad abbordare, sia pure senza

pretesa di esaustività, il tema della compenetrazione di questi regimi della

testualità, dei loro incontri e scontri a livello tematico, linguistico e della

valutazione della critica, e la loro progressiva interdipendenza nel sistema

dell’intrattenimento.

151 Non siamo troppo lontani dall’orizzonte preconizzato da pensatori come Levy a proposito dell’intelligenza collettiva nell’epoca del cyberspazio. Cfr. Levy (2002)

187

Se alcuni testi videoludici si interrogano apertamente sui propri

presupposti, mettendo volontariamente in parentesi la propria trasparenza

enunciativa o attirando l’attenzione sul presupposto di ingresso oltre la

soglia tra opera e mondo reale, è del resto un regista cinematografico ad

offrire l’opera più “autoriale” e al contempo teorica sulla rappresentazione

videoludica. eXistenZ, per la regia di David Cronenberg, è un testo filmico

anomalo, che lavora sulla materia del gioco elettronico affrontando i limiti

costitutivi del rapporto tra questo mezzo e la realtà, suggerendoci alcune vie

interpretative per affrontare dalla prospettiva giusta le differenze come le

affinità tra realtà, cinema e gioco.

6.2 – Second Life: l’autore collettivo

Second Life, prodotto da Linden Lab, è un programma particolarmente

importante nella storia del gioco digitale, e tra i tanti motivi di interesse per

questo singolare ambiente ludico ve ne sono alcuni di particolare centralità

a proposito dell’autore. Second Life è un mondo digitale che va frequentato

e giocato esclusivamente online: esprime l’ambiente di gioco sulla rete,

presenta un carattere multi-giocatore e collettivo che appare come un

presupposto e non come un accessorio, e ha come tratto esplicito la co-

scrittura del testo-mondo di gioco da parte dei suoi giocatori. L’assunto

della dimensione corale della tecnica e collettiva del suo consumo e ri-

utilizzo, che abbiamo adottato sino a questo momento, in Second Life si

radicalizza, disintegrando la nozione di autore.

Come suggerisce il titolo, non è un gioco convenzionale, ma un

mondo alternativo in rete persistente, nel quale il giocatore fa ingresso

tramite un PC connesso alla rete e all’interno del quale può deambulare e

dar vita a interazioni di varia natura con altri giocatori, oggetti e con

ambiente per mezzo di un avatar descritto da poligoni solidi e quasi

illimitatamente personalizzabile. Ha dei tratti in comune con i giochi

persistenti online e con il genere dei Massive Multiplayer Online Role-

Playing Games (MOORPG), per la precisione il fatto di essere concepito

188

come un testo-mondo digitale perennemente online e dall’accesso di massa,

all’interno del quale interagire attraverso un simulacro. La peculiarità di

Second Life rispetto a giochi come World of Warcraft sta, però, nel non

essere connotato da una struttura ludica tradizionale, fatta di obiettivi

precisi, come missioni dotate di un inizio e di una fine o il superamento di

certi livelli: al contrario, si tratta di un campo-mondo alternativo in cui

liberamente vagare, socializzare, acquistare latifondi virtuali, creare

simulacri di edifici e oggetti, giocare, programmare e distribuire giochi, e

persino vendere i beni immateriali utilizzando la valuta del mondo virtuale,

successivamente convertibile in valuta del mondo reale.

Il prodotto di Linden Lab prevede la libera deambulazione del

giocatore e la libera fruizione di tutte le componenti di socializzazione, chat

e gioco offerte da un mondo online che conta, mentre scriviamo, quasi due

milioni di iscritti, è dotato di una radio e di un giornale dedicato ai suoi

avvenimenti interni, di una filiale interna della Reuters, e si presenta con

una serie enorme di possibilità ludiche e creative152. Diventando residente

pagante, il giocatore può avere accesso a determinati quantitativi di terreno

di Second Life, sul quale costruire a piacimento qualunque tipo di edificio o

struttura, di veicolo o di apparecchio, utilizzando la propria conoscenza

personale dei mezzi tecnici di programmazione, dei tool appositi o persino

pagando un esperto per avere un prodotto o un immobile finito. Il mondo di

Second Life è una vera mappa geograficamente descritta e popolata da

persone ed eventi che vanno e vengono con maggiore o minore regolarità,

nel quale camminare, teletrasportarsi o volare verso gli eventi mappati da

un sistema di esplorazione simile a quello delle chat e dei server, ma che fa

da mappa per eventi situati su un unico mondo poligonalmente descritto.

Il simulacro del giocatore è interamente customizzabile, tanto da

potere essere lavorato e rivestito fino a somigliare nei minimi dettagli

(limiti rappresentativi permettendo) alla persona reale o, viceversa, fino ad

assumere le forme più impensate e inaudite, spesso opera di artisti dei

poligoni interessati a gareggiare in una gara di fantasia e talento grafico. 152 Il giornale ufficiale del mondo di Second Life è disponibile all’URL www.secondlife.com

189

Anche il vestiario degli avatar è infinitamente customizzabile a patto di

essere in grado di lavorare con gli strumenti adatti, e per questo Second Life

è disseminato di posti in cui acquistare i vestiti di stilisti vestiari che hanno

deciso di intraprendere questa attività commerciale. Un altro aspetto

decisamente interessante di Second Life è infatti quello di operare come un

terreno di mediazione tra una valuta virtuale e una reale, agendo come

territorio di creazione, distribuzione e vendita di beni digitali, che vanno dal

texture mapping per personalizzare il proprio avatar fino ai servizi grafici

per creare le proprie residenze virtuali, e non escludono la vendita o la

cessione di software e grafica per usi esterni all’ambiente di gioco.

Second Life, per alcuni aspetti, è un po’ l’equivalente videoludico,

orientato alla socializzazione e con l’aggiunta della componente creativa nel

mondo digitale alternativo, di un programma di messaggistica in tempo

reale, anche se gli esiti della sua testualità non si esauriscono nella funzione

comunicativa di questi ultimi. Il mondo di Second Life rappresenta del

resto, secondo molti, una preconizzazione del Web a venire, una visione

non troppo lontana concettualmente da quello che c’è da aspettarsi nella

futura evoluzione delle pratiche di socializzazione online, nonché del lavoro

rappresentativo, ludico e metaforico che radicalizzerà la funzione centrale

dell’Avatar per la cultura di rete, ludica e non solo. Gli intenti di Linden

Lab, dichiarati nel disclaimer e nei processi introduttivi al gioco, sono

finalizzati a un’esperienza estremamente gratificante, piena di creatività,

espressione personale e divertimento, controllata da una serie di direttive di

comportamento – le “Big Six” – che interdicono i comportamenti

intolleranti, di molestia, assalto, non rispetto della privacy, indecenza e

disturbo della quiete nel mondo online.

6.3 – Verso una koinè digitale

Second Life, come abbiamo detto, radicalizza l’assunto della dimensione

corale della tecnica: al contrario della quasi totalità dei testi videoludici,

non si presenta con caratteristiche di finitezza, con una struttura dotata di

190

una gerarchia di missioni e con un set di interazioni prestabilite. Second

Life non è provvisto di una “fine”, perché non ha un “inizio” univoco:

uccide il Game Over del videogioco tradizionale in quanto si presenta come

un campo ludico, creativo e di socializzazione libero, come un mondo che il

giocatore contribuisce a rendere più pieno e complesso attraverso le proprie

azioni e interazioni. Non è, quindi, solo la visione di una possibile faccia

futura del web, ma anche il punto zero videoludico, la coincidenza tra

produzione del testo e suo consumo.

La considerazione più interessante sul mondo persistente di Second

Life sta nel fatto che questo, proprio sfuggendo a una definizione tipica di

videogioco, appare rispetto a questo come una metafora definitiva secondo

la stessa logica in base alla quale ci siamo orientati a partire dal nostro

primo capitolo: la considerazione dell’insieme delle possibilità ludiche

consentite dal dominio del digitale. Presentandosi come un campo di

possibilità prima che come un testo strutturato, concluso e con categorie di

definizione forti e riconoscibili, Second Life è metafora totale delle

possibilità del campo videoludico tout court, tematizzazione ed

esemplificazione radicale della digital way of life, testo che è arduo definire

tale sotto una prospettiva tradizionale. Come non è possibile una

definizione univoca per il videogioco, così Second Life è la potenzialità

esemplificata del videogioco: un campo all’interno del quale giocare e

creare giochi, una cornice più ampia all’interno della quale ri-mediare una

serie di altre cornici.

L’assunto di scrittura collettiva e di compartecipazione creativa di

Second Life per i propri “abitanti”, tuttavia, va problematizzato. Dal punto

di vista commerciale, questa caratteristica si concretizza nella figura del

produttore-consumatore, o prosumer, che rappresenta il punto d’incontro tra

la logica di vendita e di produzione dell’informazione digitale. In Second

Life un giocatore deve pagare per uploadare una immagine del proprio viso

per il proprio profilo, ma può anche vendere della grafica originale prodotta

per l’uso all’interno e del gioco e ricavarvi del credito, o persino dare via a

operazioni virtual-immobiliari ma con concreti esiti di scambio di valute.

191

Un altro versante, esemplificato dal caso di un gioco divenuto

famoso per essere stato notato su Second Life e acquistato da Nintendo per

convertirlo per le proprie piattaforme, è quello della scrittura di software da

usare non solo all’interno di Second Life. Ma Second Life è rimasto famoso

anche per la decisione di Reuters di aprire un proprio ufficio al suo interno,

dedicato al coverage degli avvenimenti del mondo di Linden Lab. Uno dei

primi eventi mediatici interni a Second Life è stata l’intervista al presidente

di Nintendo, Reggie Fils-Aime. Nell’intervista, Fils-Aime ha parlato della

possibilità di portare su Second Life i Mii, gli avatar del canale online della

console Nintendo. Alcuni di questi, infatti, erano comparsi sul portale di

messaggistica e socializzazione online MySpace, e Fils-Aime si era

dichiarato estremamente interessato all’eventualità di creare una struttura

multiplayer massiva per l’universo Nintendo ispirata in parte da un modello

di interazione alla Second Life. A questi episodi si aggiungono quello dei

Duran Duran, che intendono fare un concerto con i propri avatar, e le

numerose convention e comizi di personaggi politici avvenuti negli ultimi

mesi, tutti con ottimi riscontri.

Si tratta di segnali del fatto che il mondo di Linden Lab (come i

canali online delle console e i programmi messenger per pc) è davvero parte

della frontiera che gli addetti ai lavori dell’industria dell’intrattenimento e

della cultura in rete stanno esplorando in quanto esemplificativa di modelli

di business, socializzazione e entertainment oggi per certi versi ancora

laterali, ma destinati probabilmente a divenire la norma in un futuro non

troppo distante.

Second Life è infatti centrale per la comprensione del futuro della

vita online, delle pratiche di socializzazione e della cultura dell’avatar a

venire. Di Second Life è stato detto che, per il giocatore, esso rappresenta

l’orizzonte delle possibilità di rivalutazione del rapporto con la prima, e

fondante, vita, quella del mondo reale. Questa lettura si è immediatamente e

fortunatamente sostituita al rischio, sempre in corso considerata la vasta

schiera di apocalittici mediali in guardia, di una volgarizzazione e

demonizzazione della portata del gioco come del concetto di

192

socializzazione online in generale, che ha già investito i forum, le chat e i

programmi di messaggistica nella prima fase della loro vita, e che avrebbe

inquadrato Second Life come un momento di alienazione del soggetto nel

mondo fittizio e a pagamento degli strozzini della solitudine in rete. Com’è

ovvio, Second Life rappresenta lo stato dell’arte della socializzazione a

mezzo cultura digitale: è una seconda vita che anzi, dispiegandosi nel suo

immenso potenziale, non nega la vita reale, né tenta di sostituirsi ad essa,

ma agisce proprio come monito perché il giocatore sia portato a rivalutare

la propria nella sua interezza. L’embrayage totale del giocatore nel mondo

di gioco, come l’assenza strutturata di uno scopo e dunque di un momento

finalistico della matrice, non si risolvono in un debrayage definitivo dalla

vita reale, ma invitano proprio a considerare gli obiettivi, il senso e le

possibilità generali di quest’ultima mettendo in discussione il principio di

assuefazione al senso e allo stato delle cose, presentandosi come un certo

scostamento dal senso di normalità e ri-sintonizzando il soggetto sul fare

creativo e sul controllo e l’esaltazione della propria persona. D’altro canto

Second Life è, appunto, seconda vita: e esiste, come tutta la rete, sui server

fisici dei computer, ospitati nel mondo reale.

Anche se esplorare le implicazioni economiche, sociologiche e

antropologiche del modello di Second Life è stato importante per indicare la

portata del progetto di Linden Lab e il suo sussistere ben oltre la portata di

semplice esperimento laterale, l’analisi di questi aspetti esula dalla portata e

dagli scopi del nostro lavoro. Centrale per la nostra ricerca è, invece, la

constatazione del fatto che in Second Life la figura dell’autore scompare in

via definitiva, stretta da un lato dal lavoro collettivo del team di sviluppo

del software e dall’altro dal lavorio collettivo sul testo online del collettivo

degli utenti, sottratti alla passività rispetto alla scrittura stessa del testo.

6.4 – L’autore è morto

Il testo Second Life, sotto questa prospettiva, è il segno definitivo del

tracollo dell’idea romantica di arte come espressione individuale: eppure,

193

consente all’individuo l’espressione in un ambito comune. Second Life

rappresenta da un lato la camera di sperimentazione e sintesi privilegiata

per le forme in cui troverà luogo il consumo di ogni forma di espressione

creativa negli anni a venire, per modelli di gioco e fruizione mediale che si

stanno già affermando successivamente all’esplosione della Rete.

Dall’altro, il definitivo tracollo dell’idea, già in crisi, di creazione esclusiva

intesa come “proprietà creativa” del soggetto enunciatore, visto che il

“testo” Second Life è il precipitato di un lavoro tecnico in cui

l’enunciazione è lo stesso feedback che circola continuamente tra l’operare

a monte dei programmatori e quello a valle dei consumatori-creatori.

Mentre l’aspetto sincronico di Second Life rimane relativamente stabile,

quello diacronico è un insieme di evoluzioni, integrazioni, creazioni,

comparse e scomparse di zone testuali, frequentazioni comunicative,

interazioni di varia natura. In questo senso, anche una nozione di testo

tradizionale e chiusa si rivela inadeguata per una sua valida comprensione.

Second Life rappresenta quindi il massimo grado di coralità e

sincronicità del testo contemporaneo videoludico, paragonabile sotto il

profilo linguistico a un progetto come quello di Wikipedia. Il sostrato

tecnologico di Second Life è la rete stessa, ma la tecnica di

programmazione e rappresentazione non si risolve soltanto in quella di

Linden Lab. Il ruolo creativo dell’individuo è teso tra l’accettazione di una

lingua comune e l’introiezione della propria personalità creativa: se questo

non rende ogni individuo un artista, consente perlomeno di parlare di una

diffusa possibilità di espressione artistica e creatività, declinata a seconda

delle competenze tecniche e delle infinite esplorazioni, competenti o meno,

del soggetto a mezzo codice, poligoni, grafica, audio, design.. La tecnica

diventa così un mezzo disponibile piu o meno per tutti in misura variabile, e

il testo videoludico un mondo debrayato di possibilità espressive.

Second Life, il suo codice, il mondo che può rappresentare e le

pratiche ludiche e comunicative a cui può dare vita hanno, naturalmente, dei

limiti. Il fatto che Second Life sia una metafora testualizzata dell’immenso

campo di possibilità e rimediazione del digitale non va, com’è ovvio,

194

confuso con la cristallizzazione del secondo su una singola istanza, che

presuppone un ambiente di lavoro provvisto di limiti intrinseci. Pur dotato

di bordi, limiti e limitazioni, Second Life è comunque distinto a un livello

concettuale e non semplicemente scalare rispetto alla norma videoludica,

proprio perché privo di una finalità precipua. Nella storia videoludica, altri

esperimenti (ad esempio, Shoot’em up Construction Kit) costituivano una

sorta di ponte tra il lavoro tecnico a monte e l’utilizzo espressivo a valle di

un linguaggio descrittivo (nel caso specifico, il codice di programmazione,

il game design, la digital graphics, e così dicendo), che ben riporta in mente

la grossa differenza tra l’essere “autori di un’opera”, facendo magari

progredire la tecnica, e vivere in un’epoca in cui la tecnica digitale, che

migra economicamente e facilmente, è arrivata a un punto in cui essa si

offre già largamente pre-masticata e metaforizzata per un fine non-tecnico e

puramente espressivo. Se i videogiochi sono un luogo testuale concluso, in

cui rispecchiare al massimo le proprie aspettative di evasione, Second Life

offre una componente poietica, finalizzata a un ritorno su un mondo,

mediato ma collegato al reale, popolato da altri. Chiara dovrebbe rimanere

la consapevolezza del fatto che la differenza tra utilizzare un programma di

game making e spingere oltre i confini lo stato dell’arte della

programmazione in stile Carmack andrebbe considerata con un metro

abissale. Sotto il profilo autoriale, si parlerebbe probabilmente della stessa

differenza che, in ambito musicologico, può intercorrere tra fare del

semplice sample editing e lavorare tecnicamente sulla produzione nativa del

suono e l’armonia della composizione.

Quel che appare certo è che l’orizzonte della digitalizzazione, in

concomitanza con l’assetto mediale attuale, ha spalancato una voragine di

fruizione collettiva, corale, e mediata a vari livelli di competenza del fatto

artistico (non solo videoludico: si pensi al fenomeno comunicativo di

myspace e della immane produzione amatoriale di musica) di fronte alla

quale il modello economico e distributivo è destinato a mutare, e il vecchio

artista di matrice romantica e solipsistica a non sopravvivere né idealmente

195

né praticamente. In questo nuovo panorama tutti giocano con il saper fare, a

vari livelli e con varie finalità. È forse questa una vera novità?

6.5 Strategie, marche, etichette autoriali

Second Life rappresenta un estremo enunciativo per il testo videoludico:

l’autore del gioco è il suo giocatore, e tale è la promessa del gioco al

secondo. Spostandosi verso l’altro estremo ci si imbatte invece in una

escalation della visibilità autoriale videoludica.

In realtà, in questo continuum ideale dell’idea di autorialità, per

come essa traspare nell’enunciazione fatta di essa dal testo e dal paratesto

commerciale, la densità della distribuzione dei testi videoludici è ancora

prevalentemente in una zona mediana: la retorica autoriale media non è

ancora un dato aggressivo o pervasivo.

L’idea di un solo autore dotato di una sua poetica personale,

diventata la norma nel sistema di trailer di Hollywood, è nel videogioco

solo agli inizi. Le logiche commerciali che regolano la domanda e l’offerta

di giochi digitali seguono modelli di consumo in cui il carattere

artisticamente e individualmente espressivo del videogioco come forma da

contemplare, o la sua pretesa di imporsi come una cultura “alta” e di una

visione del mondo sbandierando il vessillo autoriale, non vengono

presupposti perché diverso è il clima culturale e la composizione del

pubblico in cui si sono affermati. Mentre la gestione della fruizione

cinematografica ha fatto dell’idea autoriale un blasone da sfruttare

serialmente, fino a trasformare l’offerta di film in un catalogo di autori, il

contesto videoludico appare (ancora per adesso) più legato al consumo di

esperienze interattive ben definite che non alla contemplazione di prodotti

dal fascino autoriale e dal richiamo a stili di vita, estetici e visivi.

L’orizzonte autoriale videoludico, tanto come ruolo nel testo quanto

come “enunciato” a monte, appare però indubitabilmente in una fase

rampante, ben oltre il caso in cui si parli di reali meriti del soggetto. I

soggetti implicati nella scrittura videoludica sono e restano cruciali per la

196

comprensione di quel fare tecnico e creativo che appare come presupposto

del testo, e i testi stessi sembrano spesso voler reclamare in maniera

crescente delle paternità enunciative, a volte evidentissime nell’utilizzo

sapiente dei mezzi tecnici o nel modo più o meno “tipico” di piegare questi

a delle poetiche più o meno riconoscibili. Ma se si assiste all’affermazione

del designer attraverso il lavoro linguistico ed espressivo sul mezzo, l’altra

tendenza è quella dell’autore-etichetta commerciale in un’enunciazione

sapientemente orchestrata, rispetto alla quale esso è strumentale ai fini

comunicativi e commerciali della produzione.

6.5.1 Tetsuya Mizuguchi: la ricerca del ritmo

Un esempio di designer il cui lavoro rappresenta realmente,

d’accordo con Terrone-Bellavita153, un “filo che collega” i testi su cui opera

è quello di Tetsuya Mizuguchi, famoso per il ruolo di game designer in Rez.

Rapportato al caso di Mizuguchi, il problema dell’autore rientra in pieno

all’interno di una posizione testualista “aperta” al soggetto: il lavoro di

Mizuguchi si articola su un’esperienza professionale che alterna la

sperimentazione personale, il lavoro all’interno della grossa compagnia

corporativa e la direzione dell’etichetta indipendente, ma mantiene dei tratti

di continuità.

Mizuguchi inizia la sua carriera sul genere dei giochi di corsa,

all’interno di Sega: oggi software house indipendente, all’epoca Sega era la

compagnia leader del settore delle sale giochi, nonché tra i giganti della

produzione dei giochi come anche dei sistemi hardware da gioco casalinghi.

Dotato di un background teorico sui mezzi di comunicazione derivato da

una laurea in Media Aesthetics e reduce da una serie di prime

sperimentazioni creative su un progetto di motion rider theater, Mizuguchi

produce per Sega uno dei giochi più redditizi e criticamente acclamati della

storia della compagnia, Sega Rally. Mizuguchi coordina il lavoro

concentrandosi sulla componente ritmica della corsa, sulla sensazione di 153 Cfr. 4.4.3.

197

velocità e di realismo, sulle dinamiche sensoriali che il cabinato da sala

giochi può offrire al giocatore in termini di immersione e coinvolgimento,

sfruttando la vibrazione del sellino e la componente visiva e sonora e

impiantando l’esperienza sensoriale su un game design solido e di alto

livello simulativo.

Dopo una serie di lavori contigui a quello operato su Sega Rally

Mizuguchi si dedica a un genere videoludico differente, quello del music

game. Space Channel Five è un singolare gioco-spettacolo musicale in cui il

giocatore partecipa, con comandi minimali ma progressivamente sempre

più impegnativi sul piano della memoria, dei riflessi e della rapidità

manuale, a una serie di coreografici balli/battaglie intergalattiche. Il gioco è

immerso in un’esplosiva miscela di stili visivi e musicali sixties, musica

elettronica, dance e funky, per un’estetica space/retro-pop plasticosa.

Ancora una volta, Mizuguchi proietta un’urgenza di ricerca personale sulle

possibilità del mezzo videoludico, concentrandosi sulla sinestesia del piano

visivo e musicale e sulla spettacolarità terminale del testo per gli spettatori,

e non solo per chi ha in mano il controller. A differenza di quello di Sega

Rally, il genere di Space Channel Five non è di forte traino commerciale,

ma il gioco diventa comunque un titolo di culto per l’originalità

dell’estetica e della meccanica di gioco.

La vera svolta della ricerca di Mizuguchi è marcata da Rez, un

inusitato shooter cyberpunk che tematizza l’estetica del digitale e proietta il

giocatore in un’esperienza in cui componente ritmica della vibrazione del

controller, musica e psichedelia visiva concorrono nel trasportare il

giocatore in un tunnel sensoriale. Rez, spartiacque della carriera di

Mizuguchi, è tutto ciò che avrebbe dovuto realizzare Minter

(successivamente e frettolosamente corso alla produzione di Unity come per

“recuperare”, ma incapace di portarlo a termine), e molto di più [immagine

23]. Sfruttando un team di produzione relativamente ristretto, Mizuguchi

opera una ricerca sull’estetica, l’interazione e la sensorialità videoludica che

da vita a un’opera giocabile prima mai vista. Rez è subito un titolo di culto,

osannato dagli addetti ai lavori, adorato da una fetta della critica

198

videoludica e premiato dell’industria rappresentata dall’istituzione del

Game Developers’ Conference.

È paradossale, allora, ma anche sintomatico della situazione teorica e

critica, che lo scotto da pagare per un simile progetto videoludico sia la

totale incomprensione a livello della critica commerciale, che si manifesta

con un giudizio negativo dai presupposti paradossali. Rez appare qualcosa

di altro, un monstrum incomprensibile rispetto ai codicilli in recensorese

del “gameplay” e agli assunti imperativi e mal compresi del “divertimento”

e della “longevità”, etichette divenute vacue e trasformate in imperativi

pseudo-critici. Mutilato il senso del gioco, appiattito il suo portato ludico ed

estetico su aspettative di genere e orizzonti testuali che appaiono di

converso triti e ritriti, Rez è visto come una stranezza da diffidare en

passant, da ritenere al massimo “originale” o “coraggioso” con la specifica

che questo non basta per renderlo un ottimo gioco o un gioco “per tutti”.

Nei casi peggiori, che ben testimoniano gli strumenti intellettuali e critici

all’opera nel settore, l’insensibilità estetica del recensore-hobbysta del

giudizio videoludico si manifesta nella distorsione del valore estetica del

gioco. Per il dilettante adoratore delle console con la CPU più performante,

il valore visivo è inteso come eccellenza di calcolo rispetto alle possibilità

di realismo/complessità/potenza dell’hardware, secondo moduli di

determinismo tecnologico folk tristemente noti. L’universo visivo di Rez, da

opera di digital art giocabile, diventa paradossalmente un gioco dalla

grafica “scarna”, che muove “pochissimi poligoni” e sembra girare su

console “più vecchie” (sic). Proprio quando un soggetto appare al centro di

una ricerca sul linguaggio specifico videoludico che presuppone la qualifica

secondo il criterio dell’espressione autoriale, questo è ignorato e

incompreso dalla stessa critica che osannerà giochi il cui unico valore si

risolve nell’avanzamento delle routine grafiche di rappresentazione, per un

mero update cosmetico di formule ludiche risciacquate.

Mizuguchi, dopo Rez, lascia Sega, al centro di profonde

trasformazioni nell’assetto commerciale e produttivo, e fonda Q

Entertainment, una compagnia indipendente particolarmente interessata a

199

giochi dal forte appeal popolare, situati nel “genere” (in particolare quello

dei puzzle games) e pensati su contesti di fruizione moderni, come il

mercato dei cellulari, le nuove console portatili e per i servizi di gioco

online. Lumines Live, per il servizio Live Arcade di Xbox360, rappresenta

un crossover tra video musicale e puzzle game che riporta ancora una volta

al centro l’attenzione di Mizuguchi per il coinvolgimento sensoriale del

giocatore.

Il caso di Mizuguchi appare nel complesso quello di un designer

dotato, che lavora prevalentemente all’interno di “generi” videoludici

affermati. Il successo commerciale altalenante di questi progetti (nonché la

variegata risposta critica a testimonianza della notevole stratificazione di

questa in anime molto diverse) non intacca il perenne successo sul piano

ludico, ma si spiega con il tentativo di operare su questi genere fino a

forzarne definitivamente i presupposti, trascinandoli verso un orizzonte

ideale di ritmo e sinestesia del videogioco che appare come una ricerca

costante del nostro. Questo obiettivo non ha a che vedere con la biografia di

Mizuguchi, ma con il linguaggio che si dispiega nella testualità dei giochi in

cui troviamo la sua presenza come soggetto all’opera. Com’è ovvio, il

risultato finale dei testi in cui Mizuguchi coordina il lavoro non si risolve

certamente nel suo contributo, ma in quello dell’intero team di sviluppo, in

particolar modo per quanto riguarda i titoli prodotti in Sega154. Ma è proprio

il passaggio del soggetto tra diverse situazioni produttive, con il definitivo

assestamento su una piccola compagnia indipendente grazie alla quale avere

un adeguato controllo sull’opera, a giustificare la congiunzione tra testo e

soggetto che avevamo ricercato come compromesso per una teoria

testualista che non negasse l’autore. L’autore Mizuguchi è allora un

soggetto di particolare importanza per il suo ruolo in processi testuali

inevitabilmente collettivi, di cui è possibile tracciare un continuum che

precede Mizuguchi (la ricerca di Sega su Space Harrier e sull’immersione

154 F-Zero GX è un gioco futuristico di corsa che si presenta, pur all’interno di un genere completamente diverso, con caratteristiche audiovisive che ricordano Rez, un inusuale shooter/music game cyberpunk. Una pista di F-Zero cita apertamente Rez, citato all’interno del testo. La ragione è il comune team di sviluppo, UGA, diretto in questo caso da Toshihiro Nagoshi.

200

dei cabinati arcade), lo affianca (il lavoro del team UGA su F-Zero GX, lo

sforzo di Minter di offrire una sua alternativa sinestesica a Rez), e che

continuerà sul solco delle sue intuizioni, le quali entrano a far parte del

patrimonio videoludico: pubblico, collettivo, o protetto da brevetto che esso

sia.

Se volessimo trovare un autore per Rez saremmo costretti a non cercarlo sul

piano estetico, ma sul piano della coordinazione degli elementi ritmici,

interattivi ed estetici: in poche parole, in un game designer come

Mizuguchi. Ma anche se non volessimo ricorrere alla nozione di autore,

preferendogli in questo modo quella di grande tecnico del videogioco,

Mizuguchi rimarrebbe il filo rosso che unisce i “suoi” giochi. Non

un’etichetta a ritroso ma, al contrario, un punto di partenza per i testi. E, a

ben vedere, anche per una rifondazione sensata della critica videoludica,

con l’espulsione delle parti di essa che appaiono ancorate a viete

impostazioni che la condannano all’eterno stato di appendice commerciale

del sistema di produzione e distribuzione

6.5.2 Hideo Kojima: meta-gioco e cinefilia

Mentre Rez divide le diverse anime della critica, presentandosi alieno

alla sua componente più ingenua e tradizionalista, quest’ultima si è rivelata

sostanzialmente concorde nel ritenere un autore Hideo Kojima, producer

sotto etichetta Konami della serie di Metal Gear e Metal Gear Solid, la cui

fama ha raggiunto il picco sulle console di Sony, Playstation e Playstation

2. Kojima, che inizia la sua carriera su NES, la console a otto bit di

Nintendo, conosce il maggior successo da quanto la serie Metal Gear

guadagna l’aggettivo Solid, sancendo il passaggio a una rappresentazione

tridimensionale.

L’autorialità di Kojima è stata fatta risalire in parte allo sviluppo

delle meccaniche dello stile di gioco cosiddetto stealth, caratterizzato dal

ricorso alla strategia nella gestione dello spazio e dello sguardo nel

controllare il simulacro del giocatore, generalmente al centro di processi di

201

infiltrazione o di fuga in ambienti in cui il percorso sicuro per la vittoria

dipende dalla non-visibilità rispetto al fuoco e allo sguardo nemico. Questo

stile di gioco ricorre come meccanica centrale nell’evoluzione dell’intera

serie di Metal Gear, tanto per gli episodi rappresentati bidimensionalmente

che in quelli raffigurati a mezzo di poligoni in tre dimensioni.

Un altro aspetto tipico della produzione di Kojima è quello dello

sfondamento dei presupposti enunciativi, e della ricerca di cortocircuiti tra

enunciazione e giocatore che mettano la seconda in una situazione di

esplicita rottura con il presupposto di sospensione del principio di realtà che

è tipico dell’ingresso nella soglia dell’opera. Non sono pochi i casi in cui i

personaggi delle serie curati da Kojima si interrogano sulle proprie azioni,

mettendo in esplicito la il dubbio sulla propria consapevolezza in quanto

marionette di un gioco; o ancora i casi in cui Kojima sposta l’attenzione

dall’interno del mondo di gioco alla tecnologia della macchina di gioco o

addirittura alla confezione del prodotto, che appare ineliminabile

presupposto per il proseguire nel gioco155.

L’aspetto finale della cosiddetta “poetica” di Kojima è l’ossessione

per la narrazione, per la compenetrazione tra visione e interazione in

progetti ludici che si presentano come costanti ricerche dello stato dell’arte

della spettacolarità narrativa videoludica dalla vocazione fortemente

cinematografica. Il mezzo videoludico ha in effetti tutta la capacità di ri-

mediare le forme narrative filmiche, tanto incorporando l’immagine

cinematografica quanto muovendo i propri simulacri senza un intento

interattivo ma con uno di tipo narrativo, proprio come una regia

muoverebbe i propri attori di fronte alla telecamera.

Il ricorso al linguaggio filmico nel videogioco ha conosciuto una

evoluzione tale da far guadagnare al secondo una crescente abilità di

imitare, incorporare e persino sostituirsi al secondo, grazie da un lato a

supporti di memoria sempre più capienti e, dall’altro, alla sempre maggiore

sofisticazione dei motori rappresentativi a disposizione degli artisti, che 155 Si tratta di una riproposizione del meccanismo del numero seriale, ben noto a chiunque acquisti software originale e già diffuso nei giochi per personal computer dai tempi dei floppy disk. Kojima, tuttavia, lo tematizza incorporandolo nel mondo di gioco, operando un ponte verso quello del giocatore.

202

maneggiano strumenti capaci di far sfumare il confine tra il videogioco in

tempo reale e l’animazione digitale. Quest’ultima, d’altro canto, rappresenta

il piano di mediazione tra il mezzo filmico e il campo digitale, con i

videogiochi a costituire uno dei terreni di maggiore interesse per analizzare

i prestiti linguistici tra immagine in movimento e gioco per immagini.

Il ricorso alla narrazione di Kojima è cresciuto continuamente, di

pari passo con le possibilità dell’hardware. Il secondo episodio della serie

Solid, per Playstation 2, ha costituito per molti il limite di tollerabilità dello

sbilanciamento narrativo del gioco digitale, e ha incontrato le resistenze e

reazioni contrastanti nel settore della critica e da parte del pubblico. A

Kojima è stato imputato l’errore di dimenticare la natura interattiva del

videogioco, sacrificandola troppo sull’altare delle lunghe sequenze

narrative e sulla dimensione cinematografica della trama. I giocatori, così, è

stato lamentato, diventano praticamente spettatori passivi della debordante

componente narrativa del testo videoludico.

Dall’Aprile del 2005, quando il team di Konami facente capo a

Kojima diventa “Kojima Productions”, assumendo l’autore come etichetta

coincidente con la casa di produzione, l’ossessione di Kojima per l’aspetto

narrativo sembra essere cresciuta ulteriormente, nonostante un terzo

episodio meno sbilanciato nel rapporto tra interazione e osservazione. La

pubblicazione di Metal Gear Solid: Digital Graphic Novel rappresenta un

sintomo dell’interesse di Kojima per il versante delle possibilità narrative,

visive e in definitiva cinematografiche di un mezzo sempre più potente

sotto il profilo della capacità di mettere in scena mondi verosimili. Metal

Gear Solid 4, episodio che verrà pubblicizzato su Playstation 3, costituisce

del resto il nuovo stato dell’arte della rappresentazione grafica videoludica.

Il suo trailer, che si apre con il logo della Kojima Productions ed è seguito

dalla dicitura in apertura “a Hideo Kojima game”, non è, appunto, (o non è

ancora) una dimostrazione delle caratteristiche di gioco, ma un vero e

proprio trailer cinematografico che assolve al compito di affascinare

attraverso la storia narrata, la spettacolare presentazione audiovisiva e il

blasone d’autore.

203

Ora, è innegabile che il lavoro di Kojima non si risolve sul piano

dall’interesse cinematografico, ma è storicamente documentato su

meccaniche di gioco, forme ludiche e soluzioni a volte originalissime, che

in alcuni casi mettono in discussione o esplicitano il confine tra gioco e

giocatore: come nel caso di Boktai, un gioco per GameBoy basato sulla luce

e che incorpora una fotocellula sensibile alla quantità di luce. Nel lavoro di

Kojima si assiste anche, molto spesso, a una costante riflessione meta-

ludica, generalmente molto ironica sul piano dell’illusione di realtà

dell’opera. Tuttavia, la crescente ossessione per la narratività di Kojima sta

mostrando quanto sia possibile pensare che questo game designer sia piu

capace di citare l’universo cinematografico, producendo e dirigendo storie a

metà strada tra l’anime cyberpunk apocalittico e il thriller tecnologico

d’azione statunitense, che non di lavorare ulteriormente sul piano di forme

originali di interazione all’interno della testualità videoludica.

Se il citazionismo cinematografico, l’autocitazionismo ironico,

l’ossessione sulle possibilità narrative e sui temi cyberpunk e sci-fi thriller

possano concorrere a una definizione autoriale, diventando stilemi per una

poetica piu o meno riconoscibile, è fatto da discutere: la storia videoludica

ne è da sempre ricca, dal citazionismo distopico alla Verhoeven in Smash

TV di Jarvis fino ai cameo dei programmatori di Mortal Kombat dentro al

testo opportunamente sollecitato, dalla pionieristica commistione linguistica

di Flashback e delle avventure grafiche di Lucasarts fino al naufragio

letterario-videoludico di Captain Blood.

Per Kojima si è ricorsi alla formula cinematografica della “cifra

d’autore”. Sostenendo che Kojima appare alla continua ricerca degli stessi

temi, della stessa estetica, dello stesso gioco, come diceva Renoir a

proposito della regia, si è forse tentato al contempo di proporre fiducia nel

“metodo” autoriale e di nobilitare il videogioco elevando il designer allo

stesso livello del regista. Ma questo, come abbiamo già avuto modo di

discutere a proposito della nozione autoriale nel contesto cinematografico,

non è un criterio valido per l’assegnazione dello statuto di autore, ne per la

comprensione del cinema o del gioco digitale. La “cifra d’autore” appare

204

invece pericolosamente costruita in collaborazione dal pubblico, dalla

critica e dalla stessa compagnia di produzione: Konami, in fondo, non fa

altro che attestare la sopraggiunta fama pubblica del personaggio Kojima,

vedendo di buon grado e a tutto vantaggio della compagnia la presenza di

una figura dalla matrice autoriale per una serie così fortemente connotata in

senso cinematografico. Fondata sulla ricerca perenne della stessa formula,

la nozione di autore rischia da un lato di operare una cristallizzazione

indebita degli stilemi e dei presupposti tecnici che sono esito, nel

videogioco come nel cinema, di un lavoro pubblico, difficilmente pensabile

come solipsistico. In questo caso, si attribuirebbe al solo Kojima il merito di

sviluppare un’intera serie di stilemi interattivi che, nonostante il chiaro

debito nei confronti di questo designer (che ironizza persino sui suoi

imitatori, in un famoso trailer in cui prende in giro la serie di Splinter Cell),

non si risolvono certo nel suo contributo come programmatore o designer,

ma andrebbero inquadrati nel contesto di ricerca di una grande compagnia

come Konami.

Si rischierebbe anche di fondare il principio autoriale sulla scorta dei

contenuti (in questo caso, il riferimento all’universo narrativo e

cinematografico e non solo al suo linguaggio), ma questo non farebbe altro

che istituire una gratuita elevazione di questi precisi contenuti (guerra

futuribile, spionaggio, thriller investigativo) rispetto ad altri, oppure

risolvere il portato del gioco digitale nella sola rappresentazione di

contenuti e nell’appiattimento su un possibile “genere” cinematografico che

potrebbe convincere qualcuno della sua artisticità, ma non tutti. In effetti, il

Kojima più interessante appare di gran lunga quello capace di piegare i

tecnici e gli artisti del suo team alla massima efficienza, di costruire

l’immagine mitologica a venire con l’hype sui suoi prossimi giochi.

Soprattutto, appare più interessante il Kojima dell’opacizzazione

dell’enunciazione e dello scherzo sul rapporto tra giocatore e interfaccia

rispetto a quello dell’appassionato regista di storie interattive tecnoludiche,

la cui controparte attoriale delle star del cinema si incarna nel personaggio

205

di Snake156. Ma queste sembrerebbero essere proprio le componenti della

“poetica” di Kojima destinate a latitare maggiormente nella sua recente

produzione157.

6.5.3 Tom Clancy’s ghost writing

Il caso di Kojima, che si presenta problematico tanto per la

riflessione sul cosa concorra in una “poetica” videoludica quanto per la sua

trasformazione in star e in etichetta commerciale, garanzia per il

consumatore del blasone di stampo tutto cinematografico delle sue “opere”,

costituisce anche, con l’ossessione cinematografica del game designer, un

ulteriore ponte verso nuove discussioni che seguono il filo rosso dei

rapporti tra gioco digitale e altri mezzi espressivi, in primo luogo il cinema.

Un caso interessante per l’analisi dell’etichetta autoriale, con un

richiamo di artisticità che non proviene dal campo cinematografico da

quello letterario, è quello della serie di Splinter Cell, fortemente debitrice

nei confronti di Metal Gear Solid. Splinter Cell viene presentato con la

firma di Tom Clancy, scrittore canadese autore di romanzetti thriller dal

tema spionistico e militare, generalmente ambientati nel periodo della

guerra fredda, la cui conversione filmica più famosa è Caccia a Ottobre

Rosso. Splinter Cell si presenta con una firma che dovrebbe trascinare sul

videogioco una dignità letteraria (sic), ma è in realtà un puro espediente di

copertina per un testo videoludico che si presenta come uno dei migliori

esempi di assemblaggio industriale di un brand, del tutto privo di una

componente di ricerca espressiva, personale, o d’autore. Non è solo la firma

ad apparire gratuita. Persino il motore del gioco non è proprietario. Non lo

sviluppa Ubi Soft Montreal, compagnia che produce il gioco: si tratta,

invece, similmente a quanto succede in “area Carmack”, del motore di

Unreal, sviluppato dalla Epic Games di Tim Sweeney e Cliff Bleszinski.

Ubi Soft è, del resto, una compagnia che verrà ricordata nella storia molto 156 Su Kojima confronta Fraschini (2003) 157 L’esperimento più interessante di Kojima nello sfondamento del presupposto di trasparenza delle interfacce è costituito da Boktai, un singolare gioco dotato di una fotocellula sensibile alla luce ambientale.

206

più per il suo sapiente ricorso a personaggi carismatici, licenze di sicura

attrattiva o stereotipiche produzioni-polaroid rispetto quanto è in voga a

livello estetico nel campo dell’animazione, del cinema e del fumetto che per

la sua effettiva innovazione nel solco del linguaggio videoludico, che viene

costantemente presa in prestito.

Splinter Cell è una serie assemblata industrialmente e, pur non

essendovi alcun pregiudizio a priori sulla testualità che emerge da questo

contesto (molti dei giochi della serie si rivelano assolutamente gradevoli e

con vasti nugoli di appassionati), è arduo non riconoscere il fatto che i titoli

come questo o Rainbow Six (sempre Ubi Soft, sempre Tom Clancy’s) non

vadano oltre l’utilizzo di un motore già pronto, la commistione di elementi

di design mutuati da altri titoli di maggiore qualità (primo tra tutti, Metal

Gear Solid), un buon lavoro di grafica e marketing e l’utilizzo di una firma-

garanzia di genere-contenuto appiccicata a priori sul testo.

Non è questo, però, lo spazio o il momento per una critica della

qualità del testo videoludico: tornando al problema autoriale, Tom Clancy’s

Splinter Cell si presenta come uno dei casi più evidenti di etichettatura

gratuita dell’autore. Su un prodotto che riesce a intrattenere molti giocatori

medi, attratti dai temi e dalla stereotipia delle situazioni, ma dalla mediocre

innovazione stilistica e dalla sostanza ludica non miracolosa, il ruolo di

Tom Clancy su un gioco di questa serie potrebbe essere pari a quella del

defunto Walt Disney su un recente prodotto della compagnia. E se la

constatazione sulla inutile gratuità della firma dell’autore letterario sul

prodotto videoludico non dovesse bastare (come se, tra l’altro, si dovesse

accettare che quella d’autore fosse nozione da accettare

incondizionatamente nel campo letterario158), una piccola indagine sulla

firma di Tom Clancy chiuderebbe rapidamente e coerentemente il cerchio

delle considerazioni attuate sino a questo momento. Tom Clancy, infatti, da

reale scrittore dei suoi testi, è diventato da tempo uno dei brand più noti 158 È paradossale che, mentre nel campo letterario le varie teorie sulla morte dell’autore e la endemica accettazione del rapporto non diretto tra testo e firma spingono verso la considerazione critica della stessa, e verso la crescente formazione di house syndacates, nel campo videoludico si assista al percorso inverso. Splinter Cell è anche un punto di contatto disarmante tra letterarietà e codice videoludico, visto che gli incontri piu nobili tra questi regimi espressivi risalgono ai tempi della ricerca sulla narrativa ipertestuale.

207

dietro ai quale si celano dei ghost writers: questo termine, inizialmente

utilizzato per descrivere i responsabili alle comunicazioni e alla

corrispondenza dei personaggi celebri e specialmente dei politici, è stato

trasportato sugli scrittori che utilizzano un nome più famoso per consentire

la produzione di testi su maggiore scala industriale. La firma, tanto nel

gioco quanto nel libro, è niente altro che un’etichetta, di uno svolazzo

seduttivo per l’acquirente del centro commerciale.

“Blame Canada”, dunque, come cantano in prima persona i

mastermind della serie South Park nella colonna sonora del film

d’animazione tratto dalla propria serie tv? No, perchè il Canada è anche la

patria di un regista che opera, con il film eXistenZ, la più coerente e

profonda esplorazione della natura e dei limiti del videogioco e dei rapporti

tra linguaggio filmico e cinematografico: David Cronenberg.

6.6 David Cronenberg: il regista videoludico

Se dovessimo accettare la nozione di autore, anche con tutte le riserve del

caso, David Cronenberg rientrerebbe nel novero di questa categoria. David

Cronenberg, tuttavia, non è un game designer, un programmatore o un

artista del codice videoludico, come gli altri soggetti incontrati in queste

pagine. Cronenberg è un regista cinematografico, famoso per film come

Videodrome, La Mosca, Il pasto nudo, Crash, Scanners .

L’opera di David Cronenberg, nella fattispecie il testo filmico eXistenZ, non

ci interessa in questa sede perché in essa riscontriamo le marche di coerenza

di Cronenberg come autore, ne intendiamo riflettere su Cronenberg

assumendo questa valutazione come conclusione di - o premessa per - un

discorso sul suo cinema. Quel che ci interessa di David Cronenberg è il suo

lavoro su eXistenZ, un testo filmico dalla rara finezza concettuale che

tematizza, con una prospettiva capace di fondere la visione artistica e la

profondità teoretica, il problema della definizione della natura videoludica,

del suo autore-demiurgo, e dei rapporti tra videogioco e realtà.

208

Ecco la sinossi. eXistenZ si apre in una imprecisata località di

montagna del Nord America, durante la presentazione dimostrativa del

gioco eXistenZ a un pubblico di beta-tester selezionati da parte di una

multinazionale produttrice di videogiochi. Allegra Geller, game designer

del gioco, ne sta spiegando il funzionamento, come la capacità del gioco di

spingersi oltre quanto prima sperimentato nel campo, quando un ragazzo tra

il pubblico estrae una pistola – composta di cartilagine e carne, e dotata di

denti umani come proiettili – e spara addosso ad Allegra, urlando “Morte a

eXistenZ. Morte al demone Allegra Geller”. L’attentatore fa infatti parte di

una minoranza di “realisti” ostili al gioco “biologico” della Geller, la cui

esperienza è capace di mettere in discussione la nettezza e riconoscibilità

dello statuto ontologico della realtà. Ferita, Allegra scappa con Ted, un

funzionario della compagnia, e si rifugia in un hotel. Allegra è preoccupata

per il possibile danneggiamento del suo controller di gioco, le cui

condizioni di esistenza biologica e fisica (questo appare come un vero e

proprio organo/organismo vivente, fatto di carne e nervi) sono alla base

della preservazione del suo mondo di gioco. L’unico modo per testare la

salute della sua creatura è quello di giocare al gioco tramite essa. Ma per

farlo è necessario essere in due e Ted, prima di allora del tutto a digiuno di

videogiochi, non è provvisto di una bioporta, un orifizio artificiale simile a

un jack audio-video che viene collocato nella spina dorsale e funge da

interfaccia definitiva tra programma e sistema nervoso del giocatore. Ted

viene così convinto da Allegra a farsene impiantare una, cosa che avviene

tramite Gas, un gestore di una pompa di benzina nella vita reale e giocatore

incallito, che idolatra Allegra per avergli consentito l’esperienza di una

seconda vita videoludica eternamente riconfigurabile. Gas è però allettato

dalla taglia sulla testa dei due e, dopo avere impiantato la bioporta di Ted

(che si infetta da li a poco), li minaccia con un fucile e li costringe a

eliminarlo. A quel punto Ted e Allegra sperimentano il gioco, ma le

condizioni fisiche del game controller / feto videoludico iniziano a

deteriorare visibilmente, mentre i due sperimentano una serie di situazioni

di gioco (la sparatoria al ristorante, con un’arma composta sul momento con

209

le ossa di un piatto “speciale” a base di rane, l’allevamento di trote mutanti,

e così via) che si compenetrano l’una con l’altra e rendono impossibile

determinare la loro collocazione, come quella dei loro attori, nella realtà

piuttosto che nella finzione. In questo labirinto fenomenico, eXistenZ si

rivela alla fine come un probabile sottomondo di transCendenZ, un gioco

più ampio le cui regole appaiono ignote alla sua stessa, dubbia inventrice e

la cui stessa identificazione con la cornice ultima del film è messa in

dubbio.

Dal punto di vista filmico e semiotico eXistenZ è, come fa notare

Canova, un “saggio sull’economia del visibile e sulla semiotica della

percezione nell’epoca della virtualità” che già dal titolo, rinunciando alla

maiuscola (e quindi alla comune demarcazione di un inizio di un qualcosa

che è sancita dall’uso di questa) e mettendo come tali una incognita e una

variabile (X, Z), rifiuta l’intenzione di essere qualcosa di riconosciuto o

riconoscibile. eXistenZ è allora “un rebus percettivo, un enigma alfabetico”,

il momento in cui viene a schiudersi una voragine del regime di

rappresentazione che mette in discussione il principio di realtà. Canova fa

notare come Cronenberg, accusato dai critici nostalgici di una nozione

“realistica” del cinema di produrre immagini che generano la deriva dello

sguardo e provocano il naufragio dello spettatore, produca in eXistenZ una

tappa di estremizzazione di un processo sulla indecidibilità dello sguardo

già avviato con Videodrome e Il pasto nudo, e giunto con eXistenZ con un

rigore e una lucidità portati alle estreme conseguenze.

Canova159 fa notare come questo scopo venga raggiunto tramite una

compenetrazione del piano tematico e linguistico di eXistenZ. Da un lato, il

film tematizza il discorso sulla indecidibilità tra reale e immaginario nelle

parole della creatrice Allegra Geller, nella rappresaglia dei “realisti”

contrapposti al demone ludico, nella commistione tra l’interfaccia di gioco

(carnale e introiettata nel sistema nervoso piuttosto che rispondente a un

semplice rapporto di spettatorialità) e il giocatore. Dall’altro lato, lavora

sulla indecidibilità tra il reale e l’immaginario sul piano linguistico del 159 cfr. Canova, G. (2000)

210

cinema, rinunciando ai dispositivi della grammatica filmica che si sono

imposti nella storia del mezzo come marcatori delle transizioni tra diversi

regimi diegetici, narrativi, enunciazionali. Artifici retorici come flou,

dissolvenze, transizioni, e esplicitazioni del passaggio tra i diversi piani

ontologici vengono rifiutati in toto in eXistenZ, nel quale il reale e il

virtuale combaciano sino al naufragio della visione. I personaggi del

film/gioco incarnano questa politica programmatica, presentandosi come

feticci in bilico tra realtà e finzione che, se non sollecitati con la giusta

interazione, si producono in una stasi potenzialmente infinita, ripetendo la

stessa battuta e oscillando lievemente proprio come un personaggio non

giocabile di un videogioco. Eppure, neppure questo tratto spiega

completamente la loro appartenenza a un ordine finzionale, visto che anche

lo statuto delle vere persone, calato in un contesto in cui l’avatar si

confonde con la persona reale, si presenta come parte di una delle possibili

subdole strategie del sistema, che tenta di convincere il giocatore di essere

nella realtà. Ogni mossa, anche di apparente conferma dello statuto di

realismo, potrebbe infatti essere prevista all’interno del gioco: gli stessi

protagonisti “sentono” ciò che devono fare senza spiegarsi il perché, e

anche la messa in pausa del gioco può essere niente altro che “un trucco del

gioco, una sua trappola astuta e insinuante”. eXistenZ, allora, è un eterno

ritorno degli stessi gesti, che si srotola “in una circolarità spiraliformi che

finisce per produrre la vertigine di un’infinita mise en abyme”, secondo un

programma in cui la tecnologia è deprivata dalla sua stereotipica asetticità

positivista per divenire il luogo di fusione problematica con il corpo.

Per Canova, eXistenZ è uno dei modi più radicali e riusciti con cui

Cronenberg lavora sullo statuto delle immagini, sul presupposto di realtà e

finzione dell’opera filmica, e al contempo porta avanti la personale

ossessione sulla visibilità dell’organico nel suo dolorosissimo

incontro/scontro e con-fusione con l’inorganico e il tecnologico.

eXistenZ, tuttavia, è anche di più: letto all’interno del nostro

percorso, è un testo filmico in cui l’autore – che non esitiamo a definire

videoludico - appare al contempo sul piano del soggetto enunciatore, della

211

istanza enunciativa e, infine, tematizzato nella figura di uno dei

protagonisti. Sotto il profilo del soggetto enunciatore, eXistenZ è allora

davvero un film di autore: è l’opera di un regista capace di esprimere una

propria visione e poetica lavorando all’interno del sistema di produzione, di

cui padroneggia le risorse e controlla i processi con un margine di controllo

sufficiente a raggiungere un proprio obiettivo, relativamente al riparo dalle

logiche dello star system e del regime di visibilità degli attori, e dentro a un

percorso caratterizzato da una ricerca tematica e linguistica sul mezzo

filmico. Sul piano enunciativo, si assiste a un’istanza demiurgica il cui fine

ultimo si rileva votato solo apparentemente alla costruzione della

percezione: di fatto, essa lavora per il naufragio di quest’ultima, contro

quest’ultima, effettivamente per quest’ultima nel solo senso della sua

negazione. Infine, l’autore è tematizzato nella figura di Allegra Geller, a sua

volta eventuale traslato testuale del ruolo di Cronenberg come regista dei

suoi mondi filmici, in un singolare rapporto meta-filmico e intermediale

[immagine 26].

La caratteristica di un regime di intermedialità, tematizzata nello

stesso presupposto del testo filmico-videoludico, è la considerazione-

cardine sulla quale fondiamo la considerazione di Cronenberg e di eXistenZ

come di un autore e di un’opera almeno tanto videoludici quanto filmici.

In eXistenz, infatti, si realizza uno dei fini costitutivi della ricerca del

gioco elettronico, di uno degli orizzonti vocativi dell’arte dei mondi

possibili digitali: il raggiungimento di mondi possibili dalla matrice di

eventi di volta in volta più complessa, dalla presentazione estetica ed

estesica sempre più verosimile e dalla sensazione di immersione crescente,

tale da non fare rimpiangere il mondo reale e di presentare l’accesso a sue

alternative verosimili e coerenti160.

eXistenZ postula il raggiungimento di uno stato dell’arte

rappresentativa tale da rendere indecidibile il giudizio sulla natura “reale” o

“videoludica” del mondo possibile in termini di percezione estetica ed

estesica: il mondo fittizio che discende dal livello di tecnologia del 160 cfr. http://www.associazionesemiotica.it/ec/contributi/carbone_21_03_05.html

212

cronotopo eXistenZ ha la stessa definizione, le stesse proprietà fisiche, la

stessa esistenza passionale, estesica di quello reale, su cui innesta

eventualmente una serie di possibilità ulteriori, ma che può imitare alla

perfezione: vi si può sostituire, eventualmente tentando di ingannare il

giocatore sul suo stato (loggato/non loggato). L’embrayage nel mondo di

eXistenZ è quindi un vampirismo estesico, per il quale l’unico rimedio a

disposizione del giocatore è un labile potere di giudizio cognitivo sui limiti

ontologici della sua descrizione come mondo. La brillante lettura del film di

Cronenberg come descrizione del regime del visibile cinematografico

contemporaneo da parte di Canova, allora, non esaurisce il portato di

eXistenZ, che si rivela anche una delle migliori indagini sullo statuto del

mezzo videoludico in quanto matrice di mondi, sulla finitezza di questi,

sull’inganno dell’ingresso e dell’uscita dalla soglia. Il loop infinito dei

personaggi non sollecitati lungo lo snodo narrativo e interattivo previsto

dagli script a loro disposizione è allora, prima di tutto il resto, l’eterno loop

della matrice del mondo possibile. Se non vi è distinzione tra la realtà reale

e quella simulata, l’unica strada percorribile è quella del risalire alla sua

matrice.

Cronenberg non si limita, tuttavia, a fare da teorico videoludico.

Canova traccia un filo rosso nell’opera di Cronenberg che consente di

ritenere questo regista come una specie di ricercatore metalinguistico

sull’aggressione al senso del reale da parte dei mezzi di comunicazione,

della loro fusione o sostituzione placida o violenta con l’apparato cognitivo

e la carne umani. Questo “germe metalinguistico” parte da The Parasite

Murders e affronta il cinema, arriva a Rabid toccando la fotografia e la

televisione, raggiunge l’agghiacciante apice con la radio e il

videoregistratore di Videodrome e con la macchina da scrivere di The

Naked Lunch, e conosce definitiva riflessione teorica in eXistenZ. In questo

percorso l’invito a dubitare dello statuto delle immagini, il regime di

instabilità enunciativa e lo sfondamento del mezzo cinematografico verso le

ossessioni di altre pratiche comunicative, che discendono da precise

213

tecnologie, appaiono costanti di una ossessiva ricerca intermediale attuata a

partire dal mezzo filmico, che trova in eXistenZ un culmine ideale.

Se dovessimo accettare che, secondo il precetto baziniano, l’autore è

una visione del mondo attuata con un mezzo, dovremmo poi constatare

anche come il mezzo di comunicazione appaia una idealità nel regime

mediale contemporaneo, dominato da enunciazioni che presuppongono

l’intermedialità praticamente come norma e in cui tale è lo scambio

linguistico tra i diversi mezzi. Allora ne discenderebbe la considerazione di

Cronenberg come di un autore che ha riflettuto non solo sul potere di

fagocitarci delle immagini (ben esemplificata da alcune scene di

Videodrome, in cui il coito tra realtà e finzione è tematizzato in una scena

di vampirismo psichico e sessuale degna della mitologia del succubus), ma

anche sui ponti che un mezzo di comunicazione può operare verso altre

forme rappresentative, verso una negazione delle barriere mediali e, nel

nostro caso, verso una riconsiderazione dei rapporti tra cinema e gioco

digitale.

6.7 Cinema videoludico / videogioco cinematografico

I rapporti tra cinema e gioco elettronico sono decisamente complessi,

tanto nei presupposti linguistici che nella storia degli incontri tra i due

mezzi, e si presentano secondo una variegata serie di modalità che non è

possibile affrontare qui con una pretesa di completezza o di sistemazione

teorica definitiva. Gli incontri/scontri tra cinema e gioco includono le

influenze e citazioni reciproche a livello tematico, le intersezioni

linguistiche, i prestiti di contenuti e stilemi, le riflessioni da un mezzo sui

presupposti dell’altro, ma anche enunciazioni industriali in cui i tratti di

comunanza e il rapporto tra i due mezzi sono previsti a monte da un’unica

enunciazione industriale.

Nel periodo pionieristico del gioco elettronico la figuratività di

questo era costretta a cannibalizzare paratestualmente i temi dell’universo

cinematografico: i videogiochi, composti da poche stanghette, sopperivano

214

alla povertà estetica dei propri formanti con il ricorso, tramite paratesto,

titoli, grafica esterne e, in questo caso, licenze cinematografiche più o meno

ufficiali o in odore di plagio e riferimento indebito, a universi estetici

comprensibili per connotare il testo agli occhi del giocatore161. La

vocazione del videogioco nel non limitarsi a un ammennicolo interattivo, e

nel farsi veicolo per raccontare storie, raffigurare personaggi reali e

immaginari e mondi fantastici o verosimili, è oggi consentita dalle

possibilità di memoria e sofisticazione grafica, ma questa non nasce come

una caratteristica immediata del gioco elettronico. Dopo una fase in cui il

videogioco, grazie ai supporti più capienti, ha ceduto alla tentazione di

alternare alle fasi di gioco lunghe sequenze cinematografiche non

interattive, addirittura dallo stile avulso a quello delle parte giocabili e

quindi foriero di una frattura e di un senso di incoerenza nella percezione

complessiva del testo, il gioco digitale ha conosciuto un’evoluzione

tecnologica che, oggi, consente un discreto livello di somiglianza con una

certa parte dell’animazione digitale.

6.7.1 Shinji Mikami e l’orrore videoludico

Conquistata forte capacità figurativa, i videogiochi fanno parte di

una situazione mediale contemporanea in cui i singoli media si rivelano

tasselli di un unico panorama. Il caso di Shinji Mikami, designer principale

della serie di Resident Evil, testimonia l’innesto sul campo videoludico

della dimensione di tensione dell’horror movie nelle sue variegate forme

(specialmente lo zombie movie, ma anche il modello di Non aprite quella

porta e de la Cosa), che avviene con la creazione di un vero e proprio nuovo

genere videoludico, fondato su estetica e impianto narrativo horror,

immersione in ambienti ostili e labirintici e dimensione ludica

claustrofobica: il survival horror. Affermatosi come tra i generi dominanti

per una decina di anni di storia videoludica, il survival horror avrebbe a sua

volta costituito materiale di conversione per opere filmiche basate sulla sua 161 cfr. http://www.associazionesemiotica.it/ec/contributi/benoit_25_10_06.html

215

licenza. Da Romero a Mikami, e da questo a Anderson, hanno luogo una

serie di transiti intermediali, di rielaborazioni espressive e di semplice brand

exploitation che non si limitano a testimoniare la progressiva vicinanza di

cinema e gioco nel sistema dell’intrattenimento e della produzione, ma

mettono in luce la sostanziale parità dell’influenza e del peso di cinema e

gioco nella cultura e nell’immaginario popolare, che non può risolversi

nell’etichettatura del “cinema videoludico”, ne dell’applicazione dei metodi

critici del cinema sui prodotti videoludico, ma nella ricerca di un approccio

capace di attraversare barriere mediali che esistono solo per la critica e per

la sua incapacità di trascendere un proprio modello esclusivo.

6.7.2 Il cinema-videogioco

In un simile contesto la dispregiativa accezione di “cinema

videogioco” per indicare opere di puro intrattenimento, dai presupposti

estetici, narrativi e registici minimali, è una formula dietro alla quale si cela

come minimo una vieta semplificazione dei complessi rapporti che

intercorrono tra le due forme espressive. Frutto di una critica

cinematografica giustamente pronta a stroncare le varie, pietose versioni

filmiche da serie videoludiche di successo, eppure così a digiuno di

videogiochi da non cogliere neppure degli indizi sulla portata generale di

questo trend, e di una critica videoludica inetta, la formula è partorita da

una critiche incapaci di agire senza compartimenti stagni, dandosi una

forma mentis per una comprensione parallela di gioco e film.

Una cosa da far notare è del resto lo scambio critico vizioso

intercorso tra cinema e videogioco al livello critico e presunto teorico: la

percezione della critica del mezzo altrui è sintomatica di un limite nel

considerare i rapporti tra i due mezzi. Dal canto suo, la critica

cinematografica ha creato la dicitura “cinema-videogioco” e l’ha divulgata

216

partendo dalla constatazione del videogioco come mezzo di pura evasione

priva di riflessione e, quindi, connotando questa accezione di una

connotazione che appare del tutto fuori luogo nel contesto videoludico, ma

criticabile pure su quello cinematografico. Così Total Recall, visto da una

certa prospettiva, è puro cinema video-gioco162, inteso come gioco di

immagini, ma non per questo è vacuo: la categoria del “puro

intrattenimento” in ogni caso non va confusa con quella di “pessimo film”,

magari infierendo sulla produzione di pessimi film tratti da giochi. I critici

cinematografici non conoscono il gioco elettronico, come è possibile vedere

da piccole, granitiche, fastidiose marche come il ricorso a playstation come

sinonimo di videogioco o console (rimaniamo nel campo, rispondendo a

beffa con la beffa: utilizziamo così bertolucci come sinonimo di regista, o

spielberg come sinonimo di cinema, o besson come sinonimo di cinema

autoriale) o il modo in cui il mezzo è sempre considerato en passant come

manifestazione espressivamente minore della controparte cinematografica,

senza prendere in considerazione le caratteristiche di una enunciazione

contemporanea tra film e gioco che potrebbe portare il critico a capire

molto di più del film stesso.

La critica videoludica, invece, opera il confronto con il mezzo

cinematografico con un eccesso di riguardo, riscontrando nelle marche della

“complessa narratività”, del linguaggio e dell’estetica “quasi

cinematografiche” e nel ricorso ai temi e alle licenze di quell’industria dei

motivi per elevare il videogioco a una mutuata dignità, di una luce riflessa

dal cinema. Su questo piano, la critica contemporanea ha ceduto alla

complessità grafica ed estetica dei mondi di gioco,visto che quando i giochi

erano meno “realistici” le pessime conversioni dei film sul piano ludico

venivano stroncate, mentre oggi appaiono ben più tollerate163.

In entrambi questi modi di riflettere c’è una visione unilaterale, ma il

ciclopismo in un regime intermediale a livello produttivo, e in cui i mezzi

iniziano a scambiarsi i linguaggi, è destinato a perdere di vista in maniera 162 Cfr. Bettetini (1991) 163 Di recente Reservoir Dogs e Scarface sono diventati giochi con una trasposizione decisamente “in differita” rispetto ai film di origine.

217

irrecuperabile la profondità dei singoli testi come del fenomeno

complessivo.

6.7.3 Peter Jackson’s King Kong

Un esempio della complessità delle vicende è il caso di Peter

Jackson’s King Kong, che si presenta con la marca di remake autoriale che

abbiamo imparato a riconoscere tanto nella sua forma filmica che

videoludica ed è un prodotto industriale la cui forma ultima non si risolve

nel singolo testo/medium di riferimento. Il testo videoludico Peter

Jackson’s King Kong aderisce a un doppio livello alle logiche filmiche. Da

un lato c’è l’incorporazione della retorica paratestuale dell’autore, che

investe l’intero brand e di conseguenza anche il gioco digitale (la cui opera

di game design è invece, ovviamente, affidata non a Peter Jackson, ma a

Michel Ancel, ovviamente in UbiSoft). Dall’altro, il testo videoludico

risponde a una politica di trasparenza immersiva capace di imitare la

visione filmica in maniera totale e fornire una controparte interattiva. In una

lunga storia di ibridazioni, incontri e scontri tra gioco elettronico e film,

Peter Jackson's King Kong è destinato a essere ricordato come una tappa

obbligata per chi voglia tracciare un percorso ragionato delle vicende. King

Kong può essere considerato come una delle decisioni più radicali del

videogioco di farsi film: la mancanza di interfaccia visibile sullo schermo

perché resa totalmente trasparente, l'immersione del giocatore come

primaria missione estetica e ludica del testo, la filiazione totale alla

narrazione e al progetto filmico sono tratti di un videogioco capace di farsi

film, con la differenza che il pad vibra nelle mani del giocatore, e questi

può avere un ruolo attivo nello svolgimento di una trama - pur nella sua

eventuale chiusura prestabilita. In questo senso, King Kong non rappresenta

per niente una evoluzione reale nel recit, nella matrice videoludica: è

semplicemente lo stato dell'arte dell'immersività videoludica a mezzo

emulazione cinematografica. L'interfaccia è spazzata via, le indicazioni al

giocatore sono di natura intuitiva e fluida, quasi naturali, senza marche a

218

schermo. Anche a volerlo spregiativamente descrivere come l'affitto

definitivo del film nel contesto videoludico o, peggio, il vuoto del gioco nel

fumo della narrazione, il suo compito è riuscito: lo svolgimento delle azioni

segue una logica diegetica, sempre pronta a far chiedere al giocatore cosa

sia necessario, e non a richiedergli un surplus di tecnica sul controller, in

accordo con la contemporanea tendenza di massa del gioco digitale che lo

porta a farsi più user-friendly e meno sport estremo a mezzo dita.

Al di la della rimediazione filmica giocabile, è proprio l'intera

operazione, il progetto a suscitare il vero interesse teorico: gioco e film

possono essere considerati, ormai, nella pratica di enunciazione industriale,

nella tecnica come arte della distribuzione delle forme sulle sostanze in

cambio di economia, quasi un unico testo che si articola in forme e mezzi

diversi. L'epitesto filmico e quello videoludico sono unificati e parlano lo

stesso linguaggio nel presentare il film e il videogioco: il primo parlando di

incredibili emozioni, e il secondo proponendo di provarle in prima persona.

Sono passati i tempi in cui Nintendo la faceva franca con Donkey Kong per

il copyright infringement: oggi l'industry ha raccolto la gavetta del gioco

elettronico, reietto forse accademicamente fino a poco tempo fa ma ormai

economicamente leader. Game designer talentuoso e regista del momento,

insieme, sono al contempo soggetti e pedine di una logica in cui

l’autorialità, a prescindere dall’effettivo loro talento o ruolo, è un’etichetta.

Al di la della considerazione di questi designer, produttori e creativi come

autori o meno, quel che è evidente è il rischio che la dimensione

comunicativa e mitopoietica dell’enunciazione industriale prevalga

sull’aspetto metatestuale e la componente critica della teoria videoludica,

che in larga parte si presentano come carenti. L’industria del videogioco,

come quella cinematografica, è pronta per foraggiarci di testi autoriali, ma

chiunque lavori su un solo lato di macroenunciazioni plurimediali come

King Kong non potrà che opporvi una critica terribilmente ristretta.

6.7.4 Cinema, gioco e critiche

219

eXistenZ e Peter Jackson’s King Kong possono poi servirci, tenendo conto

di quanto detto sinora a proposito di questi testi, per un’ultima

considerazione: il cinema è il primo, vero video-gioco, perché è una

manifestazione espressiva su una sostanza della visione. In quest’ottica,

film e gioco elettronico appaiono come tappe diverse, contraddistinte da

diverse sostanze, storie e pratiche espressive, dell’unica avventura

semiotica umana, iniziata con le sagome di bufali fatte con colori naturali

sulla nuda roccia e oggi dominata dallo smistamento del digitale su ogni

sostanza espressiva. Qualsiasi ricognizione della storia dell’arte secondo

una prospettiva simile apparirebbe titanica. Del resto, neppure esaurire la

sola questione dei rapporti tra gioco e cinema appare impresa facile, e

questa appare anzi una missione al di fuori della portata di questo lavoro.

Ciononostante, è nostra intenzione indicare alcuni aspetti del rapporto tra

gioco e cinema, sottolineandoli come altrettante direzioni ideali di ricerca.

Un primo aspetto da considerare è la questione della falsa differenza

tra “apertura” del gioco e “chiusura” di altri mezzi, come ad esempio il film

o il romanzo, a livello “interattivo”, così come è stata presentata da quanti

hanno radicalizzato l’assunto della contrapposizione tra narrazione e

interazione. Ogni testo, infatti, ha un grado di “apertura” rispetto al lettore,

che vi “interagisce” completandolo, operando passeggiate inferenziali,

corrispondendo o meno con un certo lettore modello, eventualmente

forzando e traviando le intenzioni comunicative del testo. Se dovessimo

sostenere che il testo videoludico si distingue per la maggiore apertura

rispetto ad altre forme di testo, trasformando la peculiarità del mezzo

videoludico in una scusa per ritenerlo “più aperto” e “meno concluso” di un

libro o un film, opereremmo una indebita frattura nel modo in cui la

semiotica concepisce la testualità, attuando un ragionamento deterministico

rispetto al dato tecnologico del mezzo o confondendo il dato

dell’interattività dell’interfaccia videoludica con la posta segnica in gioco.

Ogni testo ha una soglia di apertura, come dei limiti dell’interpretazione164.

Per questo motivo, una contrapposizione tra interazione e narrazione che 164 cfr. Eco (1990)

220

scambiasse lo specifico interattivo del videogioco con una sua presunta

“maggiore apertura” rispetto al cinema o ad altre forme di testualità si

presterebbe alla fallacia teorica165. Sul piano testuale, lo specifico

videoludico non va definito in base a una presunta maggiore “apertura” in

termini semantici: questa non va confusa con la forte componente cognitiva

e interattiva sul piano fisico, in base alla quale è quasi possibile equiparare

molte forme di il gioco digitale a degli sport166.

Il secondo aspetto da sottolineare è il regime di ibridazione tra i

mezzi, che appare dominato dalla vicinanza della tecnologia di base e dalla

tendenza di contaminazione dei linguaggi. Il digitale ha cambiato i modi di

intendere, consumare e produrre cinema a tutti i livelli: dal riprendere ed

esportare facilmente in digitale al file sharing, dal conflitto tra “ciò del

mondo che era li davanti” e ciò che è ricreato al computer alla

riconfigurazione dei modelli di consumo e distribuzione..

Il terzo aspetto deriva allora dai primi e consiste nel riconoscere che,

se l’analisi cinematografica non è in grado di affrontare l’oggetto

videoludico se non attraverso il filtro di una sua errata equiparazione al

dispregiato “cinema-videogioco”, la critica videoludica non è in grado di

superare il pur utile ma banale e troppo generico distinguo tra “interazione”

e “narrazione”. Sul primo caso, basti leggere cosa pensa il recensore

cinematografico medio del videogioco dalle recensioni delle conversioni in

testo filmico di licenze e brand famosi nati nel contesto del gioco

elettronico (per esempio, Resident Evil). Accanto alle dovute stroncature

dei testi filmici, è quasi sempre possibile leggere in filigrana un diffuso

pregiudizio di natura strutturale sulle possibilità del videogioco. Questo

atteggiamento testimonia quanto questa critica sia impreparata a raffrontarsi

con oggetti testuali il cui fine, quello di intrattenere interagendo, appare

ancora meno legato a un’idea di espressione autoriale o di arte nel senso

drammatico e riflessivo del termine rispetto al cinema, ma che non per 165 Un esempio di superamento dell’empasse narrativo-interattivo che ha dominato la ricerca videoludica del primo periodo è presente in Maietti (2004) 166 Il deathmatch che ha reso famoso Doom è presto entrato nel novero delle pratiche che avvicinano il videogioco a uno sport cognitivo più o meno estremo. In questo senso, l’istituzione di diverse leghe di digital sports e di tornei videoludici non andrebbe sottovalutata.

221

questo vanno considerati secondo una diversa accezione o scala artistica. Il

contesto mediatico contemporaneo, tuttavia, richiede una critica capace di

comprendere entrambi questi versanti della testualità.

La critica videoludica, dal canto suo, non è esente da critiche: è

evidente che una grossa parte di questa ha finito in primo luogo per

accettare in maniera semplicistica la distinzione tra narrazione e

interazione, incensando i giochi più “cinematografici” e cedendo spesso alle

lusinghe di modelli autoriali di stampo cinematografico: il tutto, attingendo

a una mitologia vieta degli stessi, ben smascherata dalla teoria, e senza

un’adeguata riflessione sui presupposti tecnologici, industriali, di

produzione, consumo ed evoluzione comparata dei linguaggi videoludici e

filmici.

Appare una constatazione sorprendere, eppure veritiera, il fatto che

nessuno, tanto tra coloro che sono attratti dal videogioco come nuovo e

fertile campo teorico quanto tra i critici videoludici di avanguardia, si sia

interessato al recupero di quanto nel contesto del cinema si sia detto

sull’autore. Piuttosto che elogiare la capacità del videogioco di pervenire a

uno statuto espressivo degno del cinema o dei musei d’arte, o di agitare le

ossessioni iper-analitiche che specificherebbero i tratti comuni e le

differenze tra i mezzi espressivi, i teorici del videogioco farebbero bene ad

aggiornarsi a quanto si è fermamente additato a livello di smascheramento

della retorica industriale e critica, evitando molte facili ingenuità senza

necessariamente rinunciare all’affermazione della dignità della pratica

videoludica. È preferibile, a questo stadio della ricerca, procedere per

insegnamenti storici e meta-teorici piuttosto che sulla base di mistiche

intuizioni sulla singolarità del mezzo videoludico (questo senza appiattire le

due storie e pratiche l’una sull’altra, ma per evitare di prodursi in errori di

anacronismo teorico). La nevrosi per la definizione e delimitazione teorica

del mezzo e per il suo autore caratterizza la ricerca sul videogioco oggi,

come ha fatto parte di quella cinematografica ieri. Ma la teoria del cinema

ha saputo presto liberarsi dei falsi fardelli della nozione di arte elaborata in

epoche e contesti diversi, pervenendo a una sua soluzione capace di

222

illuminare anche il prodotto artistico nell’accezione di quegli ultimi. Dal

cinema non vengono però la diffidenza verso la retorica autoriale – nella

quale la critica videoludica casca spesso in pieno – m anche alcune delle

migliori interpretazioni del gioco digitale. Come quella di Cronenberg, che

abbiamo illustrato, o quella di Lynch, che anticipa il regista canadese con il

suo spot per Playstation 2, dal titolo di Bambi. Un camion si scontra contro

un cerbiatto dopo una classica narrazione alternata che vede proseguire i

due, ignari dell’imminente incontro sul luogo dell’impatto. Quando questo

avviene, è il camion ad accartocciarsi e devastarsi contro l’illesa, immobile,

minuta figura del cerbiatto. Il motivo? Different place, different rules.

6.8 Ludologia vs. Semiotica

Esiste un’ultima considerazione da fare, che deriva dalla nostra

constatazione sui rapporti tra cinema, gioco e altri mezzi espressivi. Il

discorso portato avanti in relazione al regime di inter-medialità

contemporaneo non può non far riflettere sull’esigenza di una teoria dotata

di strumenti potenti e flessibili, adattabili alle diverse forme testuali,

sistematizzabili in modelli elastici che non rinchiudono i testi in categorie

gratuite, non si limitano a descriverli uno ad uno, e possono mantenere un

equilibrio teoricamente ideale tra l’esigenza di spiegare il testo e l’eleganza

nell’offrirsi come teoria capace di applicarsi su vaste porzioni del

continuum testuale. Questa teoria è offerta da un uso accorto dei molti

strumenti a disposizione della semiotica nelle sue molte correnti di

pensiero, e la strada migliore per procedere appare quella del recupero

oculato, dell’adattamento degli ottimi strumenti già esistenti, del confronto

tra problemi nuovi le cui istanze non sono del tutto dissimili da quelle

riscontrate su altri ambiti espressivi, mediali e testuali.

La continuità scientifica appare come una necessità per la critica e la

teoria videoludica di oggi. Un’idea dei possibili semplicismi teorici che

deriverebbero da una non-continuità con le tradizioni di studio

223

narratologiche, semiotiche ed estetiche può forse essere data proprio dai

tentativi di fornire una definizione circoscritta del gioco digitale che

potrebbero discendere da una teoria rigidamente sistemistica della

cosiddetta “ludologia”. Si tratta di una nuova disciplina, propostasi in

parallelo all’ascesa dell’interesse accademico suscitato dal videogioco, che

si è contrapposta all’approccio semiotico al gioco con la volontà di

rivendicare l’autonomia del videogioco da una presunta volontà egemone

della semiotica.

Gli approcci ludologici affrontano i videogiochi come sistemi

formali, più come giocattoli che come porzioni testuali e secondo una

prospettiva più o meno unificata sotto l’egida del termine “Ludologia”167.

Gli approcci ludologici però non sono esenti da potenziali rischi teorici,

dato che pretendono di istituire una disciplina su un oggetto liquido come il

gioco digitale senza l’adeguato, enorme background teorico che appare

necessario per una simile operazione, e senza la consapevolezza epistemica

che questo tentativo dovrebbe prendere in carico. Da questa ingenuità,

giustificabile solo sul piano “attivistico” della considerazione accademica

suscitata e sul piano “politico” dell’interesse culturale investito sui

videogiochi, seguono una serie di cadute nell’abisso: il problema di studiare

i giochi come “sistemi” andrebbe rimandato a discipline specifiche; il

problema di creare una disciplina ad hoc sui videogiochi è epistemicamente

mal posto168; la volontà di istituire un discorso ludologico unificato non già

sul gioco tout court ma anche sul “solo” videogioco appare, semplicemente,

soverchiante, e ben al di la del paradigma della ludologia.

Se la ludologia intende configurarsi come uno studio sulla

componente logico-sintattica dei sistemi formali, o come un’anima logico-

formale dell’analisi del gioco, avrà certamente una ragione per continuare i

propri studi, ma dovrà confrontarsi con il punto dell’analisi raggiunta da

discipline che si occupano da molto tempo di questi aspetti. Come una

specie di ludofilia, consapevole delle questioni multidisciplinari sollevate

167 Un punto di riferimento per gli studi ludologici è costituito dal sito www.ludology.org 168 Cfr. Marradi (1980)

224

dai videogiochi, la ludologia potrebbe certamente avere un ruolo importante

di mediazione, attivismo culturale, entusiasmo sul mezzo, critica

dell’ideologia. La ludologia non può però pretendere di spiegare il gioco o i

videogiochi secondo una prospettiva sistemica, univoca o strutturata ad hoc,

perché il gigante si reggerebbe su dei piedi d’argilla: quelli di una

definizione restrittiva e cristallizzante della complessa testualità del

videogioco.

Tra le critiche mosse agli “approcci tradizionali” dai ludologi vi è in

primo piano l’accusa di non potere inquinare un nuovo mezzo di

comunicazione, precostituendone la natura su paradigmi creati altrove. Ma,

come abbiamo sostenuto a lungo nel corso di questo lavoro adducendo

esempi di ibridazione tra linguaggi e testi videoludici e quelli di altri ambiti

espressivi, la semiotica è in grado di spiegare i videogiochi come oggetti nei

quali si negoziano e consumano significati e pratiche più di approcci che,

nel tentativo di chiarire la loro natura sistemico-logica, rischiano, a

differenza dell’approccio semiotico, di sconfinano dal territorio di analisi

più adatto per quell’oggetto169. Al contrario, la semiotica è una disciplina

capace di estendere i propri strumenti verso zone “di confine disciplinare”

di competenza di altre discipline più specializzate, riuscendo a mantenere

espliciti e a riflettere sui confini di queste accorte peregrinazioni. La

semiotica spiega il videogioco nei suoi meccanismi fondamentali,

superando i determinismi tecnologici e studiandoli ora come testi mediali

imparentati con il cinema e ora come giocattoli tecnologici; ricorrendo di

volta in volta all’analisi della metaforizzazione digitale delle interfacce e

della loro trasparenza piuttosto che dei programmi d’uso dell’impugnatura

degli oggetti; mantenendo in ogni caso attiva la considerazione delle matrici

e delle sceneggiature di quel mondo possibile che è il testo; e riuscendo a

169 Un semiologo, posto di fronte a un termosifone, tenterebbe di esprimere le proprie considerazioni sulla stufa come un testo da analizzare secondo i propri strumenti e la propri episteme e in cui sono iscritti e negoziati dei significati, o persino il fatto che non ve ne siano. Sembrerebbe invece che il ludologo si mostrerebbe tentato di rigettare l’uso di strumenti pregressi, sostenendo la necessità di una disciplina ad hoc per le stufe e, di conseguenza, gettando a mare fisica, termodinamica, chimica, estetica. L’assunto epistemologico che ognuna di queste discipline costituisca una dimensione analitica diversa per una porzione di realtà non lo convincerebbe neppure a evitare di analizzare la stufa come un “sistema”, esponendosi al lavora ai fianchi della fisica, teoricamente più robusta.

225

delineare i confini di questa analisi spiegando il modo in cui producono e

negoziano senso, proprio ciò che sembra sfuggire ad altri approcci.

I limiti che derivano dal considerare i giochi secondo una prospettiva

isolata, alla maniera della ludologia, diventano ancora più macroscopici di

fronte al paradosso enorme di una situazione dell’intrattenimento globale

che mette in crisi definitiva e irreversibile i compartimenti stagni tra i mezzi

di comunicazione e gli strumenti da utilizzare per analizzarli.

I tentativi condotti dalla parte della semiotica appaiono assai più

fondati di quelli ludologici e più capaci di spiegare il fenomeno videoludico

con pregnanza e lucidità per due motivi. In primo luogo, non istituiscono

una frattura epistemica o ontologica tra il gioco elettronico e le altre forme

espressive, e anzi colgono le loro parentele. In secondo luogo, gli strumenti

teorici utilizzati sono sufficientemente passibili di essere tarati, ri-

dimensionati, fatti evolvere proprio per mantenere continuità teorica con gli

oggetti di studio su cui sono stati approntati da un lato e, dall’altro, per

affrontare testi nuovi, a tutto vantaggio della evoluzione complessiva della

disciplina in un progetto di comprensione del senso170. Nel momento storico

in cui il fenomeno digitale e mediale appare più che mai caotico e convulso

sul piano testuale, la semiotica può innestare sulla sua tradizione nuovi

problemi in maniera profonda, pregnante, mentre la tentazione tutta

cattedratica di altri approcci di fare indebitamente tabula rasa intorno al

testo videoludico è destinata al naufragio. Dalla parte della semiotica si

tratta di far rientrare il videogioco nella più ampia visione della testualità: di

per se, questo, un indizio chiaro di una mancanza di intento tirannico sul

“mezzo”, chè la stessa deterministica visione del “mezzo” è negata dalla

disciplina.

170 Cfr. Fabbri (2003)

226

Capitolo 7 Conclusioni: Ars Videoludica “…il pubblico d’avanguardia è attento a tutto. I suoi zelanti esponenti […] si precipitano a organizzare mostre e a fornire etichette esplicative prima ancora che il colore si sia asciugato sulla tela o la materia plastica indurita. I critici cooperano perlustrando gli studi come segugi, pronti a scoprire l'arte del futuro e a prendere l'iniziativa nel consolidare reputazioni.” (Harold Rosenberg, The New Yorker)

Nei capitoli precedenti ci siamo interessati all’autore partendo da

testi importanti per l’evoluzione delle forme videoludiche, concentrandoci

di volta in volta sull’aspetto della tecnologia, della tecnica come cultura

condivisa, della componente commerciale e del progetto enunciativo.

Abbiamo inteso ogni tappa della nostra ricerca come un momento

per problematizzare la nozione di autore nel gioco digitale, cercando di

rilevarne la presenza, la validità e i limiti partendo sempre non da categorie

estetiche, ma da occasioni e occorrenze testuali che mettessero alla prova e

testassero la tenuta della nozione.

Dopo avere dato una definizione provvisoria del gioco elettronico

abbiamo fatto arretrare la questione autoriale e l’abbiamo fatta coincidere

con quella dell’invenzione del videogioco. Successivamente, abbiamo

riferito delle condizioni industriali e dell’evoluzione delle configurazioni

enunciative dei videogiochi dei primordi, occupandoci di come non soltanto

il ruolo, ma anche l’identità e l’idea autoriale del soggetto nell’enunciazione

e nell’ambiente produttivo dei giochi risultino denegati o apertamente

esaltati rispetto ai testi a seconda dei paradigmi commerciali imperanti.

227

Abbiamo poi cercato, a partire dai testi, il vero rapporto tra l’istanza

enunciativa e i soggetti, così come l’idea semioticamente condivisa di

autore che ritornava sui/nei testi, suggerendo un discrimine tra le possibilità

di questa nozione e i possibili “abusi” apologetici o commerciali a cui essa

potrebbe sottendere. Ne è risultato un panorama frammentato, dominato

testualità alla ricerca di autore, da una serie di contraddittorie politiche

autoriali, e da esempi di totale annullamento dell’autore, come nel non-testo

Second Life.

La ricognizione sulla nozione autoriale e sul ruolo del game designer

nel contesto videoludico, che abbiamo portato avanti nel corso dei capitoli

precedenti, ha messo in luce la tendenza alla ri-mediazione costante e

generica del gioco digitale e una serie di importanti paralleli tra il

videogioco e il cinema. Entrambe le forme espressive, nonostante le

specificità e differenze, si presentano con un carattere corale

dell’enunciazione, e con una storia espressiva egualmente travagliata,

contraddistinta alle origini dal dibattito sullo statuto artistico e sulla

specificità dei due mezzi.

Il videogioco, arte “collettiva” come il cinema, appare in bilico tra il

potenziale per l’uso espressivo dell’individuo, che deriva da uno sfondo di

sapere-potere fare condiviso nello stato dell’arte del mezzo, e l’assenza di

un uso individuale di questa tecnica o il ripiegamento del primo rispetto a

logiche produttive e commerciali che lo narcotizzano. Come al cinema, il

videogioco assume sistematicamente la forma di sistema di produzione tale

che il soggetto non indipendente sul piano tecnico non può fare a meno di

annullare il tentativo di una espressione autoriale forte, oppure tentare di

giocare strategicamente all’interno di questo sistema.

Mentre le estetiche e le forme del gioco digitale sfuggono a una

definizione, la “cifra d’autore” e la “poetica artistica” appaiono concetti

deboli, da usare con molta cautela. I testi presi ad esempio nei capitoli

precedenti dimostravano la sostanziale impossibilità, nonostante la

profonda convinzione della centralità dei soggetti nel fare artistico e una

visione dell’enunciazione come una nozione non tirannicamente testualista,

228

di pervenire a una definizione univoca dell’autore videoludico, così come a

una definizione per il mutevole e liquido oggetto videoludico. Per ognuna

tra le svariate forme in cui si esprime l’agglomerato codice-interfaccia-

pratica del testo ludico-digitale, infatti, è possibile rintracciare un’idea

diversa di autore e una specifica configurazione enunciativa, per testi a

plurimi livelli di scrittura.

A questa considerazione si è aggiunto il monito offerto dalla storia

della teoria cinematografica e la sua elaborazione critica della figura

registica: gli anticorpi teorici così sviluppati rendono possibile un approccio

severo e sospettoso nel riscontrare dei presupposti per il discorso autoriale

spesso dati per scontati dal pubblico e da una parte della critica, ma ben

pianificati dall’enunciazione industriale. L’autore videoludico è stato finora

poco più di un grimaldello critico.

Non vi è però soltanto il rischio di cedere alle lusinghe di una

enunciazione industriale pronta a scodellare l’autore sul piatto del

consumatore: è in corso un processo critico-teorico di più ampia portata,

incentrato sulla destinazione del videogioco nel novero delle arti.

Accanto alle firme degli autori in copertina sono in voga una serie di

fenomeni collaterali. Per esempio, la tematizzazione della figuralità

videoludica da parte di artisti accademici desiderosi, evidentemente, di

aggiornare la riflessione avant-pop incorporando sulle tele, nelle copertine,

nelle action figures disposte in mostre museali e convegni di studiosi

l’immagine dello zeitgeist videoludico, i “landscapes” e i personaggi, i

linguaggi visivi e la “risoluzione percettiva” del videogioco171.

In questo ambiente culturale si fa strada persino una mistificazione

industriale e pubblicitaria di alta portata, come la presentazione di

Playstation 3 da parte di Sony in una casa-museo dedicata, il Playstation

Dome, in mezzo a sculture, opere d’arte e una atmosfera da ricercato salotto

di intenditori d’arte contemporanea. Mistificazione non certo perché si

intende negare al videogioco la possibilità artistica, ma perché la

171 È il caso dei lavori di Mauro Ceolin, visionabili all’URL www.rgbproject.com

229

promozione in prima classe di questo nel pantheon artistico implica

evidentemente una gerarchia delle muse [immagini 29-30].

Il videogioco è arte? Secondo l’approccio di questo lavoro, che

abbiamo esplicitato nel corso dell’introduzione e dei capitoli, sì. Ma lo è

secondo una nozione debole ed elastica di arte, non romantica e suddivisa in

livelli di blasone, e legata al fare e al significare di ogni testo: una visione

per la quale non si può elevare ad arte il videogioco rispetto ad altri ambiti

espressivi perché questo corrisponderebbe a istituire livelli nel dominio

artistico e tecnico.

Se la semiotica dell’arte ha abbordato il testo artistico con la

profondità di un approccio attento alla fenomenologia, nell’ottica di una

antropologia delle culture e del fare artistico172, la semiotica nella totalità

dei suoi approcci e delle sue metodologie si è da sempre occupata del

significato rifuggendo le contrapposizioni culturologiche e ideologiche in

favore di un approccio totale al testo, e favorendo con l’atteggiamento dei

suoi maggiori esponenti una apertura all’arte priva di preconcetti173.

Nel mezzo dell’infuriare del dibattito sul prodotto culturale e sulla

cultura di massa la critica cinematografica, inseguendo le immagini rapide

del cinema, ha recuperato in termini problematici e scettici il problema

dell’autorialità nella nostra epoca partendo dalla concretezza di un mezzo

espressivo di massa. Nello stesso periodo, la critica dell’arte

“d’avanguardia” rigettava il problema, aderiva ad atteggiamenti apocalittici

o si rifugiava in mille, sterili rivoli di meta-teorica fumosa, rinchiusa nelle

soffitte delle accademie a sventolare la bandiera della morte dell’arte174.

Abbiamo provato a inserirci in questa forma mentis, non potendo

fare a meno di notare come il videogioco risollevi tutte le problematiche

tipiche dell’estetica contemporanea: il rapporto tra tecnica e arte, tra autore

172 cfr. Basso (2002) 173 Cfr. Eco (1964) 174 Per una attenta disamina degli ultimi grandi artisti contemporanei, nella quale l’immane influenza di Giger non trova tristemente alcuno spazio, cfr. Dorfles (ed. agg. 2002). Gli studi di estetica, paralizzatisi nei problemi dello statuto e dell’utilità della nozione d’arte, capaci di esaminare nel dettaglio i singoli esponenti delle avanguardie concettuali para-accademiche, hanno tralasciato interamente un ambito di pesante consumo estetico come quello, magari secondo la giustificazione della mancanza della novità sul “piano linguistico”.

230

singolo e collettivo, tra opera situata e riproducibile, tra pratica artistica e

sua funzione. Ma in questo senso il bisogno di pervenire a una teoria

dell’autore videoludico non deriva tanto da una necessità critica della

nozione, quanto dalle forte necessità di pervenire a una teoria della

testualità adatta al nuovo panorama mediale.

Un approccio attento ai processi di ri-mediazione e una

sociosemiotica del testo, con una semiotica dell’arte capace di recuperare il

portato estetico all’interno di un’ottica di antropologia delle culture,

possono gettare fare luce su una testualità che non risponde più al dettato

del dettato del singolo testo, ma delle costellazioni testuali dell’era del

digitale e dell’integrazione orizzontale dei mezzi.

È proprio vero, come sostenuto da Franco Casetti nel corso di una

conferenza175, che la teoria del gioco elettronico ripresenta vecchi problemi

che risorgono in maniera diversa nel mutato contesto: la mimesi

contrapposta al realistico, l’intrattenimento commerciale contro il “testo

impegnato”, “i mcmahonisti”, “i nouvelle vague”. La critica videoludica

deve affrontare problemi che altre storie delle arti hanno già affrontato, in

condizioni mutate: ma sarebbe illegittimo liquidarli come “problemi

superati” perché non si possono creare gli anticorpi senza scontare prima il

malanno.

Poco importa se la semiotica del videogioco a venire privilegerà un

approccio generativo, attento al semi-simbolico, piuttosto che uno

interpretativo, particolarmente utile per la sua validità sulla natura di

matrice dei mondi possibili. In questo senso, ci si potrà iscrivere nel solco

di chi propone di utilizzare micro-sistemi invece di macro-teorie176: con la

differenza, però, rispetto alla tendenza tutta interdisciplinare a far

proliferare la cassetta degli attrezzi, di usare i mezzi già a disposizione per

smontare i dispositivi ludici nelle loro componenti, senza sacrificare il tout

di signification del testo né il suo respiro nella semiosfera177.

175 Ci riferiamo alla conferenza Games@Iulm, tenutasi a Milano il 3 Maggio 2006. 176 Cfr. http://www.videoludica.com/news.php?news=245 177 Per il concetto di Semiosfera si rimanda a Lotman (1985). A differenza di Eco, che intende l’Enciclopedia come un deposito di nozioni e credenze, Lotman parla di sottoinsiemi culturali. Cfr. anche Eco (1984). Riferendoci al termine

231

La stessa ansia di nobilitazione critica e commerciale del videogioco

agisce sul piano accademico. Purtroppo, all’ansia e alla foga per

accaparrarsi discipline, argomenti e definizioni di apologetici videoludici e

borsaioli teorici si accompagna la frattura generazionale tra i giochi e una

classe di studiosi di altissimo livello che non hanno mai giocato e, quindi,

non possono applicare con l’adeguata consapevolezza gli strumenti

esistenti). Il crescente interesse nei confronti del gioco elettronico e la sua

rivalutata rilevanza culturale stanno probabilmente convincendo molti

studiosi qualificati a considerare i videogiochi non tanto come una tra le

tanti delle manifestazioni di una certa “nuova multimedialità”, ma come il

mezzo espressivo dominante di una nuova epoca dell’espressione e

dell’intrattenimento.

È auspicabile che questa attenzione li costringa non solo, come

hanno già fatto, a prendere atto della necessità di comprendere i testi

videoludici con valutazioni di seconda mano, ma anche a prendere in pugno

i controller, facendo da contrappunto alla proliferazione teorica e categorica

di contributi confusi e teoricamente poco accorti che pretendono di fondare

la comprensione del gioco su basi non abbastanza solide, avulse da un

consapevolezza storica sul progredire del pensiero sull’arte.

Il riconoscimento della dignità del videogioco come mezzo

espressivo ha infatti caratterizzato indelebilmente la ricerca teorica di prima

generazione, e in appena una decina di anni gli studi sul gioco elettronico

sono passati da una fase di esplorazione pionieristica a un vero e proprio

boom critico-teorico. Ma appare significativo come, nonostante la maggior

parte delle premesse di studio sul videogioco parta proprio dalla presunta

necessità di sdoganare il gioco elettronico all’interno della comunità

accademico, questo sia effettivamente già avvenuto, almeno per quanto

riguarda l’accettazione del mezzo in ambienti culturalmente vicini alla

cultura digitale e non già come una sopravvenuta e generalizzata coscienza

teorica.. La prima fase della ricerca teorica sul gioco digitale, con il suo

Semiosfera non intendiamo affatto istituire una frattura insanabile tra le due impostazioni o prendere una posizione al riguardo.

232

atteggiamento di affermazione estetica, è conclusa: il suo scopo, quello di

rendere evidente alla tradizione teorica il suo evidente ritardo nel

riconoscimento dei videogiochi come oggetti di studio elettivi per la

questione mediale, comunicativa, estetica contemporanea, è stato raggiunto.

Nonostante quanto si continui a dire nelle prefazioni della maggior parte dei

lavori sul gioco digitale e si vada sostenendo in certi dibattiti, il videogioco

ha finalmente stimolato un grossissimo interesse accademico, attirando in

prima battuta una nutrita schiera di folk theorists e critici di varia

declinazione, sollecitando i centri universitari a tenere conto di una famiglia

testuale a lungo non tanto denegata quanto trascurata e misconosciuta. I

videogiochi, ne sono la prova moltissimi eventi e indizi di natura

accademica, non sono, di fatto, più denegati: la tradizione accademica,

spalle al muro, ha deciso di affrontarli – giochi, critici e apologeti – faccia a

faccia178. Oggi, più che di una prima, pionieristica fase, sembra allora più

sensato lavorare per l’arrivo di una seconda e più matura fase critica.

L’autore è un grimaldello per una critica che vuole nobilitare il

videogioco, ma non è possibile sostenere con molto successo la tesi da

“aspiranti integrati” per cui il gioco elettronico sarebbe ostacolato nel suo

riconoscimento da apocalittici baroni di tradizioni accademiche

precostituite. I presunti baroni provengono da una generazione che ha già

combattuto la propria guerra contro i baronati, in un clima culturale

caratterizzato dalla negazione della frattura tra cultura “alta” e “bassa”.

A ben vedere, di fatto, il videogioco sta diventando un “mezzo

integrato” nella ricerca accademica senza essere mai additato come un

mezzo indegno di studio estetico, semiotico, comunicativo, sociale: il

dibattito sulla cultura di massa che ha contrapposto gli apocalittici e gli

integrati lo ha interamente preceduto179. Diverso il fatto che esso sia

largamente sfuggito a certa teoria, o l’effettiva ricerca sulla specificità del

mezzo. Alcune tradizioni di studio, come la psicologia o la pedagogia,

178 Ci riferiamo nuovamente alla conferenza Games @ Iulm, che ha visto tra i suoi interlocutori Francesco Casetti e Gianni Canova. 179 Per il vasto dibattito sulla cultura di massa si rimanda alle prefazioni delle numerose ri-edizioni di Eco (1964) e a Carboni-Montani (2005)

233

arrivate per prime all’osso perché attratte dall’odore di nuove streghe da

mettere al rogo, hanno fallito nel trovare un qualunque approccio sensato al

gioco elettronico, oscillando tra la demonologia del diseducativo dei primi

tempi e l’inutile predica sull’applicazione pedagogica del divertimento poi.

Ambiti disciplinari come la sociologia hanno contribuito allo studio

elettronico in maniera non maggiore del giornalismo più o meno

specializzato.

A un’intera generazione di critici e teorici cresciuta senza conoscerlo

di prima mano, quella a cui ci appellavamo sopra, il gioco digitale è, molto

più semplicemente, sfuggito, confuso e nascosto dai fumi della

“multimedialità”. Studiosi di semiotica, di cinema e dell’audiovisivo non

hanno mai ostacolato i giochi elettronici, ma li hanno troppo a lungo

liquidati senza effettivamente provarli, giudicando en passant la loro

manifestazione terminale secondo una declinazione generalmente di stampo

cinematografico180.

In una fase in cui i videogiochi sono passati fulmineamente da

oggetti misconosciuti a oggetto di studio in voga, mentre nascono fazioni

“ludologiche” che vogliono contrapporsi alla interpretazioni di natura

semiotica e fondare discipline ad hoc per i giochi senza portare

argomentazioni teoriche solide quanto l’entusiasmo della propria

affermazione, la necessità di una continuità del sapere appare cruciale.

Il problema di una generazione di teorici impreparati rispetto alla

continuità dei “nuovi” mezzi rispetto ai problemi teorici esistenti e il

problema di trovare per il gioco digitale una dimensione teorica che esuli

dal tentativo ingenuo di costruire nuove discipline appaiono dunque due

facce della stessa medaglia.

Ne consegue che una certa tradizione faccia i conti con un

controller, mentre chi ha interesse nel momento culturale del videogioco

sostituisca alla foga teorica o all’ansia categorizzante contributi capaci di

collocare il mezzo espressivo videoludico nel più ampio panorama teorico, 180 Sulla capacità del videogioco di articolare un doppio livello di fruizione, partecipativa del giocatore e spettatoriale dell’osservatore, cfr. la definizione e articolazione del Giocatore Modello in Maietti (2004), sulla scorta del Lettore Modello di Eco (1979)

234

evitando fondazioni teoriche ardite, categorizzazioni gratuite, confinamenti

dell’oggetto di analisi in comparti stagni epistemicamente fragili.

Su un numero recente di Segno-Cinema Roy Menarini ritorna

sull’impossibilità di eliminare l’autore sostenendo che, anche con tutte le

cautele teoriche del caso, esso rimane una necessità per la critica

cinematografica, in quanto ultima strategia residua opponibile a un sistema

di produzione mercificante181. Sarebbe bello se anche per il videogioco si

arrivasse a inquadrare la questione con questi termini, e se il videogioco

potesse diventare realmente un Occhio del Duemila.

181 Cfr. Menarini, “Fuori l’autore, dentro l’autore”, in Segno Cinema, n. 142

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