l’autore nel gioco digitale: estetiche, poetiche nell’enunciazione videoludica
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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI BOLOGNA
FACOLTA' DI LETTERE E FILOSOFIA
Corso di laurea in SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE
“L’Autore nel Gioco Digitale: Estetiche, Poetiche nell’Enunciazione Videoludica”
Tesi di laurea in Semiotica dei Nuovi Media
Relatore: Presentata da
Prof.ssa Giovanna Cosenza Marco Benoît Carbone
Correlatore:
Prof.ssa Maria Pia Pozzato
Sessione III Anno accademico 2006-2007
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Ringraziamenti A Isabella, per il supporto totale e incondizionato a ogni livello. Alla professoressa Cosenza, per aver tollerato le mie inefficienze burocratiche. Al gruppo di L U D I C A, per l’equilibrio generale tra esaltazioni e scetticismo. Ai miei genitori, per essersi presi il ruolo executive producers a tutti gli effetti.
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Indice Ringraziamenti……………………………………………………………………...03 Introduzione: il senso dell’autore………………………………………………….07 Cap. 1 - Dentro al Monstrum Digitale…………………………………………….15 1.1 - Il videogioco tra pratiche e teoria……………………………………… 15 1.2 - State of the game………………………………………………………. 15 1.3 - State of the theory………………………………………………………. 21 1.4 - Un approccio semiotico al videogioco………………………………… 24 1.5 - Nuovi media e ri-mediazioni…………………………...……………… 26 1.6 - Una definizione strumentale all’autore………………………………… 30 1.7 - Testo, paratesto, enunciazione………………………………………….. 31 1.8 - Alla ricerca del testo videoludico ……………………………………… 34 Cap. 2 - Dall’Autore all’Inventore………………………………………………...36 2.1 - Inventori Videoludici………………………………………………………. 36 2.2 - OXO, Tennis for Two, Spacewar: il testo-bricolage………………………….39 2.2.1– Oxo………………………………………………………………….…39 2.2.2 – Tennis For Two……………………………………………………….41 2.2.3 – Space War……………………………………………………………. 42 2.3 - Il testo videoludico tra forma e sostanza…………………………………….. 45 2.4 - Dal codice all’entertainment……………………………………………...... ..49 2.4.1 – Computer Space…………………………………………………….…50 2.4.2 – Baer e gli Home TV Games ………………………………………… 53 2.4.3 – Pong……………………………………………………………………….…57 2.5 – Dalla creazione al bricolage………………………………………………… 58 2.6 - L’Adamo Videoludico……………………………………………………… 60 2.7 - L’enunciazione tra immanentismo e apertura alla prassi convidivisa………...64 2.8 - L’autore tra creazionismo ludico e tessuto sociosemiotico……………….…..69 2.9 - Uno, nessuno, centomila autori ………………………………………….……71 Cap. 3 - La Politique Videoludica …………………………………………………73 3.1 - Autore videoludico e orizzonte commerciale……………………………..……73 3.2 - Il videogioco di massa…………………………………………………….…....76 3.3 - Il programmatore da creativo a dipendente……………………………….……78 3.4 – Adventure…………………………………………………………………...…83
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3.4.1 - L’Autore-Traduttore………………………………………………….………83 3.4.2 - Una passeggiata tra i boschi interattivi………………………………………84 3.4.3 - Dal creatore modello al creatore reale………………………………………..85 3.5 - La Politique des programmateurs………………………………………….…..92 3.5.1 - Autori, manager e avvocati…………………………………………………..93 3.5.2 - Dalla tecnica ai brevetti, dai brevetti all’autore………………………….…..96 3.5.3 - Le veneziane di Bob Whitehead……………………………………………..98 3.5.4 - La dama di Alan Miller…………………………………………..…………100 3.5.5 - David Crane’s Pitfall……………………………………………….……….104 3.6 - La via originaria all’autore videoludico………………………………………108 Cap. 4 - Una Parentesi Cinematografica………………………………………...113 4.1 – In principio era l’Autore…………………………………...…………………113 4.2 – La regia cinematografica……………………………………..………………116
4.2.1 - Specifico registico e ruoli d’autore…………………..………………119 4.2.2 – Il regista all’interno del sistema…………………….……………….122
4.3 – La mitopoiesi autoriale………………………………………..……………...127 4.4 – Critiche dell’autore cinematografico…………………………………………131
4.4.1 – L’autore da nozione a etichetta …………………………..…………132 4.4.2 – Il pubblico, la critica e la cifra d’autore……………….…………….133 4.4.3 – L’autore e la prospettiva testuale………………………….…………137 4.4.4 – L’autore, il genere e la terza via………………………….………….141
4.5 – Dal cinema al gioco elettronico……………………………..….…………….144 Cap. 5 – Auteurs Videoludici……………………………………………………..148 5.1 - Autori di videogiochi…………………………………………………………148 5.2 - Jeff Minter: psichedelia videoludica……………….……………………..…..149 5.2.1 - Robotron vs. Llamatron…………………………….…………150 5.2.2 - Dal bedroom coding all’industria…………….…….…………155 5.2.3 - Autore di luci………………………………………………….159 5.3 - Shigeru Miyamoto: da creativo a producer………………………..………….160 5.3.1 - Dalle carte da gioco all’eldorado videoludico………..……………...162 5.3.2 - Super Mario 64, il testo totale……………………………….…….…166 5.3.3 - Il creativo nell’industria …………………………………..…………171 5.4 - John Carmack: lo scienziato del codice………………………………………173 5.4.1 - Carmack e Romero………………………………………….......……175 5.4.2 – Il codice Doom………………………………………………………178 5.5 - Percorsi per l’autore…………………………………………………..………181
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Cap. 6 – Oltre L’Autore…………………………………………………………..185 6.1 - Tutte le strade portano all’autore……………………………………….…….185 6.2 - Second Life: l’autore collettivo…….….….….……………..….….…...…..…187 6.3 - Verso una koiné digitale ………………………………….….……….………189 6.4 - L’autore è morto………………………………………………………………192 6.5 - Strategie, marche, etichette autoriali…………………………...………..……194 6.5.1 - Mizuguchi: del ritmo videoludico……………………………………196 6.5.2 - Kojima: meta-gioco e cinefilia………………………………….……200 6.5.3 - Tom Clancy’s Ghost Writing…………………………………….…..204 6.6 - eXistenZ: del regista videoludico………………………………….……….…207 6.7 - Cinema videoludico / videogioco cinematografico…………………….…..…213 6.7.1 - Shinji Mikami e l’horror videoludico………………….………….…214 6.7.2 - Il cinema-videogioco……………………………….….…….…….…215 6.7.3 - Peter Jackson’s King Kong………………………………….…….…216 6.7.4 - Cinema, gioco e critiche………………………………….……….…218 6.8 - Semiotica vs. Ludologia……………………………………………..……….222 Conclusioni ……….……………….………………………………………………226 Bibliografia………...……………….……………………………………………...235
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INTRODUZIONE
IL SENSO DELL’AUTORE
“Quando un discorso è condotto dalla sua stessa forza a derivare nell’inattuale, si sottrae a
ogni forma di gregarietà e può diventare il luogo, per quanto esiguo, di una affermazione”
(Roland Barthes)
La diffusione delle forme di gioco digitale nella cultura di massa e nella vita
quotidiana è vasta e profonda. Sempre più complessa è, poi, l’interrelazione
a più vie tra videogioco e altre forme espressive, in particolar modo cinema
e animazione. È quasi superfluo affermare che il vasto insieme di pratiche
che riuniamo sotto il termine “videogioco” non è una moda più o meno
passeggera o di ritorno, né una forma di espressione marginale, né - come
molta teoria ha implicitamente decretato - semplicemente un campo delle
sperimentazioni laterali nel campo digitale. Il videogioco è al contrario,
nella varietà dei supporti tecnologici, dei testi, delle pratiche in cui è fruito,
una delle forme ludiche ed espressive in cui maggiormente si sostanziano la
nostra cultura e l’industria dell’intrattenimento di oggi.
La necessità teorica di un approccio totale al videogioco da parte
della ricerca semiotica è data per scontata da questo lavoro, che si
concentrerà su un aspetto particolare: l’autore nel gioco elettronico. È
questo una cartina di tornasole per comprendere il passato e la situazione
attuale del mezzo e cercare di comprenderne le future evoluzioni, il suo
linguaggio, la sua estetica.
Questo lavoro, pur essendo “attuale” nel porre il proprio
interrogativo, cerca tuttavia di essere inattuale nello spirito. La sua
inattualità discende da una mancata adesione al clima entusiastico creatosi
intorno al riconoscimento estetico del gioco digitale o, ancora, in un
atteggiamento scettico rispetto all’ottimismo nei confronti dell’estetica e
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significanza dei testi derivante dalla recente, riscattata attrattiva accademica
dei videogiochi. C’è piuttosto il tentativo di inquadrare la questione
autoriale e artistica del gioco elettronico in termini problematici invece che
apologetici, anche qualora una risoluzione di tali questioni apparisse
impossibile o improbabile.
Per molti versi, la cifra stessa del problema dell’autore (videoludico,
ma non solo) sta proprio nell’impossibilità - sia dal lato di chi fa che da
quello di chi critica - di non ricorrere a questa nozione, anche nel momento
in cui essa viene giustamente problematizzata1.
A guardare il sistema di produzione videoludico, il suo pubblico, la
critica specializzata e alcuni teorici del gioco digitale, la nozione appare
sulla strada di un forte rafforzamento. Il pubblico, con logiche diverse
rispondenti a una sua ormai notevole stratificazione, è ben incline ad
accettare il testo videoludico come opera di un Autore. Persino l’audience
più generalista, attratta dai temi e dai generi dei giochi più che da una
ricerca personale sui testi come forme di gioco predilette, priva di
valutazioni di natura strutturale o di volontà critica nei confronti dei
prodotti, si è abituata a vedere campeggiare una firma sulla confezione
accanto al titolo. La serie di Splinter Cell, di cui si dirà, è presentata con la
dicitura “Tom Clancy’s”. La presentazione dei creatori del gioco, prima a
volte del tutto assente o relegata in zone laterali del testo2 come il finale, i
titoli di coda o menu sotto forma di accessorio, ha iniziato a spostarsi sui
titoli di testa alla maniera cinematografica, di pari passo alla celebrazione
del game designer o del producer, di volta in volta “autori di”. Il pubblico
degli appassionati e delle comunità videoludiche, del resto, non è passivo
rispetto alle proposte dell’industria, e produce un discorso fortemente
epitestuale sui testi videoludici che è ormai incline alla nozione autoriale.
Così al programmatore e il designer, a capo o meno di team più o meno
ristretti, è sempre più spesso riconosciuta responsabilità e paternità delle
“opere” videoludiche. Non è più cosa rara, ma la norma, leggere discussioni 1 Confronta, per lo specifico cinematografico, il cap. 4. 2 Sul rapporto tra nucleo e “periferia” del testo e tra testo e paratesto si tornerà più estesamente, in particolar modo nel corso dei capitoli 1, par. 7, e 2, par. 5.
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su forum online sulle date di uscita dell’“ultimo Wright” o sulle impressioni
sul “nuovo Zelda di Miyamoto”, oppure vedere approfondimenti su “Sid
Meier’s Railroads”.
Siamo, insomma, sulla strada di una mitologia dell’autore nel gioco
digitale, ben diversa dal caso delle conversioni videoludiche di film di
successo o cult, in cui il testo filmico o la star di riferimento precedono in
quanto ad attrattiva la qualità del testo ludico3. Si tratta di un processo che,
anche se naturale e necessario, rischia di far dimenticare la vera natura
dell’autorialità nel gioco: complessa, non semplificabile nella firma sopra la
confezione, da integrare con la riflessione sull’autore in altri ambiti.
Riferendoci ai videogiochi abbiamo usato il termine “opera”
utilizzando le virgolette. Facendo così non intendiamo allontanare a priori
una idea di opera videoludica come frutto di lavoro creativo e artistico,
magari per affermarvi come unico statuto possibile quello del disprezzato
“prodotto di massa”. Non interessa riesumare le ormai trite polemiche
intorno al problema di una culture “alta” o “bassa”, ma si sente la necessità
di problematizzare la questione avendo constatato la proliferazione, nel
discorso di molti tra i teorizzatori sul gioco digitale, della nozione autoriale
e artistica4.
L’esplosione dei cosiddetti game studies ha generato un clima di
entusiastica attenzione allo statuto artistico del gioco. E non ha solo
sollecitato contributi da discipline affermate, ma ha spinto addirittura verso
la credenza da parte di molti nella necessità di discipline ad hoc5. Tra
l’entusiasmo dei folk theorist e dei ludofili, l’associazione tra testo/mezzo
videoludico e idea artistica e autoriale è stata posta su basi diverse. A volte
sul piano dei contenuti estetici, sotto forma delle “arti” confluenti nel
videogioco: e in questo modo si è bypassato il problema della specificità di
3 Nel corso degli ultimi anni questo rapporto ha assunto le caratteristiche più complesse e a più direzioni. Cfr. il cap. 4, in particolare par. 4.5. 4 Le comunità online di studi sui videogiochi pullulano di discorsi più o meno fondati, qualificati o giustificabili intorno alla artisticità di questo o quel videogioco. 5 È il caso della ludologia, che sarà discusso nel dettaglio in 6.8.
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questa forma espressiva, la si è ridotta a contenitore di altra arte6. In altri
casi, l’attenzione alla “specificità” del mezzo videoludico ha preso il
sopravvento: il raro momento di arte videoludica è stato visto
nell’identificazione tra game designer-regista e opera giocabile,
contrapposta al gioco “qualunque” o “industriale”. La “poetica” dell’autore
sarebbe allora rintracciabile, nei migliori tra i casi di critica, sotto forma di
precisi e rinvenibili stilemi. Ma in altri casi, prerogativa perlopiù della
pubblicistica commerciale specializzata a valle del percorso produttivo, il
fascino dell’autore-superstar è stato assorbito come una mitologia
promossa, a monte, da etichette e distributori.
Si darebbe allora, anche per certi videogiochi, il ritorno del
romantico, misterioso, unico, difficilmente definibile, ma indubbiamente
percepibile “tocco” dell’autore. Per quanto non ancora di centrale evidenza
(al contrario del caso del cinema), quella dell’autore videoludico è
sicuramente una strategia rampante.
Pubblicistica commerciale a parte, il problema dell’autorialità appare
in primo piano in molti contributi teorici. L’assunto autoriale,
problematizzato o meno, è riuscito a conquistare la logica di collana
editoriale, il filo conduttore di una ricerca che proceda per binari paralleli su
gioco, design e game designer. È il caso della prima collana di libri dedicata
esclusivamente ai videogiochi in Italia, in cui ogni volume era
accompagnato dalla dicitura “videogames d’autore” con tanto di ritratto in
copertina7. Ben al di là della portata dei singoli contributi, è d’altronde
centrale la logica di questa collana, che trova un filo conduttore molto forte
nelle prefazioni scritte dal curatore. C’è, nell’atto di produrre questi volumi
e contributi prima che nei loro contenuti, un forte, ludico interesse ad
affermare la dignità accademica, espressiva, artistica, comunicativa del
videogioco, medium prima d’oggi fortemente ai margini della comunità
6 Maietti (2004) ha fatto del resto notare come i ragionamenti di questo tipo, che assegnano al videogioco lo statuto di arte in quanto “contenente arte”, agiscano sulla considerazione del piano testuale ed espressivo del gioco come veri e propri “falsi sillogismi”. 7 Ci riferiamo alla ben nota serie Ludologica – Videogames d’Autore, curata da Matteo Bittanti, poi confluita nella nuova serie Videoludica (dove il ricorso all’Autore in copertina è stato abbandonato). Cfr. www.videoludica.com e www.ludologica.com.
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accademica ed estetica. Questa affermazione culturale, professionale,
accademica e di immagine pubblica del gioco e dei suoi critici, a tratti
polemica e provocatoria, passa anche attraverso l’autore.
Dall’altro lato della barricata gli apocalittici anti-videoludici sono
una razza in rapida estinzione, perché poco inclini alla scoperta, al
confronto e all’autocritica. Ora, la ricerca semiotica ha dalla sua un’apertura
genetica al significato in ogni sua forma, senza giudizi sulla sua
“importanza”. Il tentativo di questo contributo è allora quello di contribuire
a consolidare il terreno teorico e critico sul quale in questi anni si da luogo
alla consacrazione del videogioco come arte e come opera, evitando i
riduzionismi degli (ormai pochi) scettici a priori e apocalittici mediatici
come anche l’entusiasmo frenetico di certi acritici sostenitori
dell’incorporazione del gioco elettronico nel pantheon delle Arti.
Questo lavoro è, d’altronde, agli antipodi dell’apologia del
videogioco e del suo essere arte, e non salta sul carrozzone dei profili
biografico-autoriali che attraversano la mitologia videoludica
contemporanea. Gli sforzi di questa ricerca si concentrano sul tentativo di
azzerare il discorso e ripartire su basi problematiche, lavorando umilmente
“al pian terreno” dei testi. Un terreno assai dissestato e poco attraente sotto
il profilo del blasone artistico che evoca, su cui sarà necessario lavorare
parecchio per piantare un giorno i piedi in saldo, rischiando nel frattempo di
invischiarsi perennemente in un pantano problematico; e, al contempo, un
terreno più concreto delle fumose costruzioni di artistica elevazione del
mezzo che troppi entusiasti agitano per aria8.
Sospendere il giudizio sull’accettazione della artisticità degli “autori”
di giochi (ma non solo) non è pessimismo fine a se stesso o snobistica presa
di distanza dalle possibilità del gioco, ma equivale ad aggiornarle e
correlare il problema al dibattito più ampio sull’autore in altri settori della
ricerca e, di conseguenza, nell’elevarlo come problema teorico. Nel trarre
per analogie e differenze una serie di considerazioni sul rapporto tra
8 In questo senso non ci iscriviamo neppure nell’evento-polemica barthesiano della Morte dell’Autore, che ha caratterizzato una fase decisiva del periodo post-strutturalista. Cfr. Barthes (1968)
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videogioco e forme espressive come il cinema sarà anche possibile
considerare i mezzi e le pratiche di comunicazione non più come
compartimenti distinti e separati da barricate, ma come manifestazioni
specifiche di un più vasto panorama espressivo e mediale9.
Il lavoro procederà secondo una prospettiva semiotica, avvalendosi
di una pluralità di strumenti e approcci e partendo dall’analisi dei testi.
Questi, come il loro paratesto ed epiteto, saranno visti al tempo stesso come
luoghi di produzione di senso e come precipitati di processi che lasciano
tracce dalle quali rilevare il problema dell’autore.
Nel corso del primo capitolo, dopo aver preso in rassegna lo stato
della ricerca odierna sul gioco digitale, illustreremo la metodologia e gli
strumenti teorici adottati e terremo conto dei progressi della ricerca
videoludica in campo semiotico. Offriremo una definizione elastica,
operativa del videogioco, che consenta di fare chiarezza sul nostro modo di
considerare questa forma espressiva senza brancolare nel buio ma, allo
stesso tempo, di evitare irrigidimenti teorici, rimandando eventuali
definizioni “normative” a un momento successivo.
Il secondo capitolo darà il via alla nostra ricognizione sui testi
interrogando alcuni videogiochi delle origini: faremo arretrare il problema
dell’autore videoludico fino a farlo coincidere con quello della creazione
del gioco elettronico. La “nascita” del mezzo videoludico tra contesto
tecnologico e pratica di gioco è, infatti, un luogo storico-teorico al riparo
dall’inquinamento del metatesto contemporaneo e la sua analisi può
prendere atto in maniera rilevante dello statuto testuale delle forme
videogiocabili sotto il profilo tecnologico, tecnico-ingegneristico,
enunciativo dei soggetti coinvolti e delle pratiche ludiche presupposte dai
nuovi testi.
Il terzo capitolo prenderà atto del primo caso storico di riconosciuta
affermazione di autorialità videoludica, risultato di una scissione industriale
che segnerà una tappa nei modelli di produzione a venire. Oscillanti in
futuro tra la grossa corporation e la piccola azienda quasi-artigianale, i 9 Cfr. in questo lavoro 1.1 e 5.4
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modi di produzione dei videogiochi di questo periodo segnano
l’affermazione del lavoro individuale, prima negato dalla logica del
marchio d’azienda. Concentrandosi sulle motivazioni industriali ed
economiche, sulla tecnica condivisa all’opera e sui processi enunciativi, il
capitolo offrirà una lettura dei primi testi videoludici “d’autore”.
Avendo presentato le caratteristiche peculiari della testualizzazione
del mezzo e introdotto il problema autoriale nell’epoca della sua iniziale
affermazione pubblica, saremo giunti al quarto capitolo senza potere più
rimandare il discorso sull’autorialità in ambiti espressivi altri rispetto al
videogioco, in particolar modo per quanto riguarda la critica
cinematografica. Questo capitolo sarà l’occasione per aggiornare al
progresso ottenuto in questo campo il senso del discorso sull’autore fatto
fino a questo punto. Si farà tesoro dei risultati metodologici e teorici
ottenuti recuperando il progresso nel campo cinematografico per interrogare
più tardi, forti di questo aggiornamento, forme di autorialità videoludica che
si manifestano con solo al livello enunciativo, ma anche in una “idea”
autoriale che va a farsi apparato paratestuale ed epitestuale.
Nel corso del quinto capitolo presenteremo degli “autori videoludici”
ripercorrendone le carriere, analizzando testi significativi e gettando luce
sulla loro considerazione pubblica e critica. Parlando del ‘Bedroom Coder’
Jeff Minter, del ‘Game Designer, Creative e Producer’ Shigeru Miyamoto e
dello ‘Scienziato del Codice’ John Carmack non terremo conto solo dei testi
e condizioni enunciative, ma anche del relativo epitesto critico, biografico e
commerciale e gli eventuali metatesti teorici. L’autorialità si estrinseca
infatti come processo, testo, nozione e finanche etichetta: consapevoli
dell’ampiezza del problema, rinunceremo in partenza a un obiettivo di
completezza, limitandoci a fornire dei casi significativi e indicare delle
direzioni fondamentali.
Nel sesto capitolo delineeremo brevemente le “vie di fuga”
dell’autorialità videoludica contemporanea, casi in cui si riscontrano
l’aspetto meta-autoriale e citazionistico del game designer, il transito
dall’autore da soggetto a etichetta, le strategie mitopoietiche dell’autore
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dell’industria, l’orizzonte intermediale tra cinema e gioco, la con-fusione tra
produttore e consumatore nella figura del prosumer. Citeremo a tale
proposito il progetto Second Life della Linden Lab, il lavoro di Hideo
Kojima, Tetsuya Mizuguchi e Shinji Mikami, il testo
videoludico/cinematografico Peter Jackson’s King Kong, l’interesse di
registi come Lynch e Cronenberg per la rappresentazione videoludica.
A essere considerate saranno in particolare la dimensione corale
della tecnica, quella intertestuale e intermediale dei testi, quella
comunicativa e mitopoietica dell’enunciazione industriale, quella
metatestuale della critica e della teoria videoludica, nonché il problema
delle specificità, delle diversità come pure dei tratti comuni tra il
videogioco, il cinema e le altre arti, sullo sfondo della evidente
radicalizzazione dell’intermedialità e intertestualità contemporanea. Sarà
questa anche l’occasione per criticare certi approcci dalla nascita recente,
che vorrebbero la creazione di discipline ad hoc per il gioco elettronico
erigendo barriere mediali gratuite sulla scorta di definizioni inadeguate.
Nel capitolo conclusivo si tenterà infine di offrire un breve
contributo all’interrogativo sull’artisticità del gioco elettronico, che è
presupposto dalle nostre considerazioni sull’autore videoludico,
inquadrando la questione in un panorama filosofico leggermente più ampio.
Sarà questa l’occasione per evidenziare la necessità, per la teoria
videoludica, di aggiornarsi ai progressi ottenuti nella più ampia ricerca
accademica, evitando un gap teorico che la condanna a una precoce,
genetica obsolescenza. È nostra convinzione che il videogioco, lungamente
e con notevole miopia considerato come una forma espressiva marginale
nel campo del digitale, o semplicemente misconosciuto da molta,
importante teoria semiotica e non solo, sia invece il terreno principale su cui
si gioca la posta in gioco dei fenomeni di ri-mediazione e intermedialità
contemporanei, e che questi e la ricerca non possano più procedere su binari
separati.
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CAPITOLO 1
STATO DELL’ARTE
1.1 – Il gioco digitale tra pratiche e teoria
Abbiamo sostenuto l’evidenza della diffusione capillare, della
stratificazione e del carattere intermediale delle pratiche ludiche digitali nel
panorama contemporaneo. Non possiamo, però, sottrarci del tutto a una
rassegna sull’industria e della pratica videoludica che metta in luce i temi
oggetto di questo lavoro.
Non siamo alla ricerca di un affresco onnicomprensivo del videogioco
contemporaneo, né affronteremo una compilazione completa e organica
sulla ricerca teorica. Il fine di questo lavoro non è quello di pervenire a una
Grande Teoria Unificata del VideoGioco, ma quello di comprendere i testi
nel loro vissuto semiotico, in quanto macchine di significato
tecnologicamente fondato, condiviso, previsto, negoziato (ed eventualmente
frainteso), che trova luogo in numerose e diverse pratiche mediali,
espressive, ludiche.
Una definizione operativa del videogioco da una prospettiva
semiotica, quella che intendiamo adottare, si rivela necessaria. Partiremo
quindi da una definizione non-normativa, elastica, dal carattere ipotetico,
finalizzata alla nozione autoriale in questo dominio espressivo.
Contestualmente, ci limiteremo a offrire degli scorci che ci consentano di
chiarire l’idea di videogioco alla base della nostra ricerca sull’autore.
1.2 – State of the game
Il videogioco è al suo quarto decennio di vita come forma testuale e
prodotto commerciale. Il suo consumo è in una fase nuova, caratterizzata da
una maggiore diffusione e diversificazione. La tecnica e tecnologia
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produttiva, l’industria ed economia del gioco elettronico, il suo
posizionamento commerciale e i modi di consumo del videogioco
presentano un quadro dalle dimensioni più ampie del passato, e con aspetti
nuovi.
La diversificazione del consumo appare uno dei tratti in parte inediti.
In realtà sulla popolarità del videogioco come pratica non vi sono mai stati
dubbi: una storia socioeconomica ben conosciuta e dettagliata attesta come,
ben prima che fosse scoperto dalla teoria, il videogioco fosse già business
miliardario, industria, campo di sperimentazione ed espressione e vita
quotidiana, pubblica e professionale, per molte persone, al pari di cinema,
letteratura e musica10.
Pur medium di massa, il videogioco ha mantenuto a lungo in passato
un carattere di consumo legato ai soli appassionati o, al massimo, a un
amorfo pubblico casuale, convinto della sostanziale unità dell’esperienza
videoludica. Quest’ultima, oggi, si presenta con caratteri maggiormente
polimorfi, distribuita su una quantità di supporti senza precedenti storici
(cellulari, console dedicate, personal computer, web, apparecchi portatili), e
non più rivolta a un pubblico indifferenziato ma a un insieme di svariate
tipologie di consumatori. Fino agli anni novanta il videogioco era una
pratica e un mercato rivolto prevalentemente a bambini e adolescenti e
polarizzato tra la sala giochi, il salotto di casa e la console da gioco
portatile11. Oggi, più che mai, si sono venute a creare le premesse per una
stratificazione completa del prodotto e delle opere videoludiche, declinate
secondo una vasta pluralità di tipologie e approcci, dedicate a utenze più o
meno mature e alla ricerca di contenuti adulti, e distribuite su un sistema di
comunicazione mediale caratterizzato dalla crescente integrazione di
cellulare, personal computer, dispositivi di riproduzione portatile e
macchine da gioco. Effetto, questo, del procedere combinato di vari fattori:
10 Casi eclatanti, ben mitologizzati dalla critica videoludica ma effettive prove storiche della popolarità del mezzo, includono una coin shortage su scala nazionale causata in Giappone da Space Invaders e il sorpasso di Mickey Mouse da parte di Super Mario in termini di popolarità negli Stati Uniti. Per questi e altri aneddoti storici Cfr. Kent (2001) 11 Non è un caso che Bittanti, interessato al procedere parallelo delle forme ludiche sui binari della tecnologia da gioco, parta nella sua presentazione della storia “technoludica” proprio da una suddivisione metodologica tra dispositivi da casa, da sala giochi e portatili. Cfr. Bittanti (1999)
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l’evoluzione e moltiplicazione dell’offerta videoludica in termini di
esperienza per il giocatore; la moltiplicazione dei supporti tecnologici;
l’imporsi di una cultura pop del digitale su scala capillare, avvenuta a
partire dalla fine degli anni novanta; la conquista da parte dei videogiochi di
ogni spazio tecnologico e ricreativo, inclusi i telefonini e la loro immensa
base installata. Il videogioco assume molte forme e temi, abita ogni
supporto e intrattiene ogni tipo di utente: dal PC custom del tech geek al
codice in Flash clicca-e-spegni del surfista occasionale; dagli armadi pieni
di vecchio hardware dei collezionisti fino ai cellulari dello svogliato
pubblico di massa; dalle mani dei bambini alla ricerca dei giochi più “cool”
a quella degli adulti prima totalmente a digiuno di videogiochi, incuriositi
per la prima volta da approcci intuitivi e attraenti come quelli offerti dalle
possibilità di console come Nintendo DS o Wii.
La tendenza a conquistare un vero e proprio mercato di massa è uno
dei tratti su cui si registra un notevole cambio di ampiezza nel ruolo del
gioco elettronico contemporaneo rispetto al passato. La strategia
commerciale di una compagnia come Nintendo, incentrata sulla semplicità
delle interfacce, sulla interattività tattile e sull’appeal di giochi dedicati a
nuove fasce di consumatori non appassionati, illustra pienamente le
scommesse per il futuro di un’industria che investe non soltanto e non certo
sui suoi soli “appassionati”. L’alto tasso di frenesia associata all’interfaccia
do Nintendo Wii, pensata per rendere il controllo del gioco elettronico più
intuitivo e naturale per i consumatori avversi agli usuali controller e nel
contempo ripensare l’interfaccia nel videogioco, conferma il carattere di
massa del videogioco12.
12 Il touch-screen di Nintendo DS e il Nintendo Wii, console la cui interfaccia crea un ponte immediato e intuitivo tra i movimenti del controller davanti allo schermo e quelli dell’avatar su schermo, hanno contribuito ad allargare ulteriormente la fascia di utenti videoludici, attirando un mass-market di consumatori prima intimiditi dai videogiochi per appassionati. ). I videogiocatori “di passaggio” si sono mostrati ben più propensi a muovere un personaggio su schermo semplicemente puntando un telecomando con un sensore che trasmette il movimento relativo del braccio al programma, trasferendolo all’interno del gioco e quindi sullo schermo, piuttosto che con un museo con un controller tradizionali. Cfr. http://www.gamasutra.com/php-bin/news_index.php?story=12533 (su Gamasutra: the Art and Science of Making Games).
18
Del resto, il consumo videoludico sul mercato delle console da
salotto, da sempre settore centrale e preponderante dell’industria
videoludica e termometro dello stato della grande industria, si è
diversificato notevolmente, come ben rappresenta la convivenza sul
mercato di almeno tre giganti dell’entertainment: Nintendo, Sony,
Microsoft, ogni compagnia con la sua filosofia commerciale e uno stile di
produzione di giochi ben riconoscibili13. Nintendo punta all’innovazione
tecnologica e alla qualità dell’esperienza di gioco e divertimento, offrendo
giochi che possano coinvolgere ogni tipo di consumatore. Sony, reduce da
quasi un decennio di leadership commerciale grazie alla sua politica
tecnologica, distributiva e pubblicitaria, punta con PlayStation3 sullo stato
dell’arte della tecnica estetica e riproduttiva dei mondi virtuali di gioco e su
un marketing la cui retorica raggiunge il massimo nel Playstation Dome, al
contempo blog prezzolato e casa d’intenditore d’arte con alloggio a
sorteggio in cui giocare con la console in un contesto museale, con quadri e
opere d’arte14 [immagini 29-30]. L’avanzamento dello stato dell’arte
figurativa e dello stile cinematografico nel gioco è prioritario nelle
intenzioni commerciali e tecniche di, che favorisce l’evoluzione di tecniche
estetiche e figurative ormai capaci di una complessità nella
rappresentazione interattiva in tempo reale a volte paragonabile
all’animazione digitale pre-calcolata. Il mezzo videoludico è quindi mai
come prima al crocevia estetico di tutte le forme espressive passate e future
e ha parentele sempre più profonde con il cinema: le ibridazioni e i prestiti
hanno raggiunto un grado di complessità testuale tale da rendere
imperdonabile un approccio miope rispetto alla fluidità delle forme testuali,
o deterministicamente ricalcato sul mezzo. Il futuro delle sorti del gioco
elettronico come macchina espressiva, a ben vedere, dipenderà proprio dal
combinato di questi due fattori, al momento appannaggio di Nintendo e di
Sony: da un lato, interfaccia immersiva, trasparente, dall’altro la
13 I produttori di software, data la natura intimamente fondata sulla tecnologia del gioco elettronico e delle interfacce, producono i programmi pensandolo per sistemi hardware di proprietà di grossi produttori come Nintendo, Sega, Sony. 14 Confronta le conclusioni di questo lavoro.
19
descrizione verosimile e complessa dei mondi possibili di cui varcare le
soglie15.
Il videogioco è però anche componente integrata del sistema mediale
e comunicativo: qui alla logica della trasparenza immersiva16 si sostituisce
quella della visibilità e della comunicazione legate alla socializzazione
online. Microsoft si concentra sull’integrazione tra mercato della propria
console X360, sistemi di comunicazione messenger, gioco online e mercato
dei personal computer. Le politiche di produzione dei giochi e i servizi
online offerti da console come Wii e XBox 360 dimostrano come,
nonostante la specificità delle politiche delle compagnie, il videogioco sia
una componente centrale, insieme al consumo di cinema, musica e alla
socializzazione a mezzo chat, instant messaging programs e spazi personali
sul web, di quelli che i responsabili di marketing chiamano lifestyles.
L’integrazione orizzontale tra consumo mediale in senso lato, scelte di vita
e di consumo e socializzazione tecnologicamente mediata confluiscono
nella politica commerciale di Microsoft, che segue la pista del lavoro su
pratiche semiotiche già condivise a livello popolare, partendo nel settore in
pole position complice la diffusione ormai pienamente di massa dei pc17.
Fenomeni di natura sociale e comunicativa in parte nuovi, come il successo
imponente dei giochi multiplayer online di massa come World of Warcraft,
che riunisce milioni di giocatori in comunità e gilde online, sono solo
l’ultima faccia di una cultura del gioco in rete ormai antica, imparentata per
linea direttissima con le pratiche di role play ma mai popolare e capillare
come oggi.
Anche il settore del gioco portatile ha conosciuto una notevole
espansione, con la discesa in campo di Sony e del suo brand Playstation in
versione portatile, per la diffusione sui telefoni cellulari e, soprattutto, per
15 Cfr. “Mimesi Digitali”, in E/C, Rivista dell’Associazione Semiotica Italiana, all’URL http://www.associazionesemiotica.it/ec/contributi/carbone_21_03_05.html 16 Cfr. 6.7. 17 Microsoft ha saputo bene osservare l’evoluzione dei programmi di messaggistica: oggi, il messenger della compagnia detiene un vero e proprio monopolio rispetto alle altre applicazioni. Tra videogiochi e messaggistica lo scambio appare come un feedback reciproco: i programmi di messaggistica offrono giochi peer to peer, mentre i giochi online multiplayer si presentano con caratteristiche di comunicazione tra utenti incorporate.
20
l’enorme successo di Nintendo DS. Questo e la diffusione del gioco sui
telefonini sono segnale di conferma di un consumo che cresce non solo per
numeri, ma per composizione sociale, che rappresenta per molti investitori
la più grande fetta dell’entertainment interattivo del prossimo futuro.
Nel complesso, appaiono chiari il carattere di massa e la
compenetrazione, convergenza, moltiplicazione e sovrapposizione dei
supporti mediali, come il fatto che la varietà di pratiche condivise del gioco
digitale è in parte inedita, almeno in termini di pervasività e capillarità della
sua diffusione e della sua vita economica, sociale e semiotica.
Questa ipermigrazione, stratificazione e diversificazione del testo
videoludico, liquido e cangiante, si accompagna poi a un momento meta-
ludico e postmoderno del gioco (evidente nelle compilation, negli archivi di
classici, nei testi citazionisti). Una fase, per così dire, postmoderna del
videogioco, storicamente, criticamente e teoricamente cruciale per la
definizione, la circoscrizione, lo studio del fenomeno da parte dei suoi
osservatori. Si assiste al procedere parallelo di una cultura del videogioco
“forte”, dedicata e a volte storicamente consapevole - quella degli
appassionati e che comprende anche i cosiddetti hardcore gamer e gli
addetti ai lavori – e di un consumo videoludico casuale, leggero, distratto,
da parte di un pubblico a tutti gli effetti di massa.
Dapprima esplosa sui personal computer, la pratica del cosiddetto
retrogaming, che si sostanzia nell’emulazione fedele dei supporti e dei
giochi del passato sui più potenti computer contemporanei, ha raggiunto lo
status di culto popolare. Consacrata nel gusto figurativo e incorporata nella
narrativa d’animazione, nello spettacolo contemporaneo e nei linguaggi
pubblicitari, la pratica del gioco retrò, sottratto alla sindrome di Blade
Runner dai pochi critici non esclusivamente interessati allo stato dell’arte
riproduttiva, si è re-innestata a tutti gli effetti nelle politiche commerciali
dei detentori dei copyright dei più apprezzati classici del gioco. I giochi
classici, sottratti all’oblio commerciale, rivivono sotto forma di digital
21
distribution sulle console di nuova generazione18. Sia Nintendo che
Microsoft si sono dotate, recuperando repertorio proprio nel primo caso e
comprandolo nel secondo, di un sistema di digital distribution per le proprie
console che mette a disposizione i classici del passato a fianco dei nuovi
titoli: cosa che, per la prima volta nella storia del mezzo, pone le premesse
per un superamento del paradigma critico ricalcato deterministicamente
sulla performance tecnologica dell’hardware. Una storia e una critica
videoludica capaci di osservare il testo videoludico in una prospettiva non
solo nostalgica ma anche storiografica, slegata dalla performance tecnica e
dello showcase tecnologico e di novità, sono ora possibili, nello stesso
momento in cui la ricerca teorica reagisce a questa una forma di
intrattenimento ed espressione con l’ossessivo interesse di chi l’ha troppo a
lungo e suo malgrado ignorata.
1.3 - State of the theory
L’altra novità di questa fase di vita del gioco digitale è il fatto che
esso abbia raggiunto e conquistato rilevanza in sede accademica, generando
una prima fase, effervescente e per certi versi caotica, di studi teorici. La
teoria contemporanea ha la tendenza e predilezione per i testi ludici digitali
al suo sguardo concettualmente significativi, che tenterebbero di evadere
dal novero dell’intrattenimento ideologicamente e culturalmente neutro o
puramente evasivo per farsi veicolo, commercialmente marginale come di
grande successo, di contenuto culturale, polemico, creativo, o persino
ideologico. Così, è fenomeno degli ultimi anni parlare di un Wright
demiurgo di visioni del mondo19, di un Miyamoto portatore di
un’inesprimibile poetica personale, di un Kojima-auteur che continua a
riprovare lo stesso genere20, dell’artisticità di Ico, o ancora additare
18 Ci voleva forse la voce potente del distributore, del produttore, e non certo quella del marginalizzato critico non disposto a cedere alla grottesca esaltazione del videogioco solo nel momento in cui esso è ancora prodigio tecnologico, per convincere il recensore videoludico medio della validità di un gioco anche oltre il suo periodo di freschezza tecnologica. 19 Cfr. Bittanti (2004) 20 Cfr. Fraschini (2003)
22
l’evidente e arrogante propaganda militaristica di America’s Army21 e
interessarsi a progetti di edutainment / critica sociale come quello dei
cosiddetti “games with an agenda”22.
La questione del “contenuto” del videogioco oltre il suo essere un
puro mezzo di evasione è cruciale. Tuttavia, proprio in virtù di questa
particolare attenzione del momento, va scansata sin da ora un’ideale
identificazione storica tra l’emergere del videogioco “serio”, portatore di
messaggi e di un livello meta, esteticamente ambizioso o politicamente e
ideologicamente schierato, e quello della sua critica, vale a dire l’odierna
schiera di difensori delle possibilità del videogioco di farsi mezzo di
comunicazione ed espressione a tutti gli effetti. Mentre l’attenzione
accademica nei confronti del gioco elettronico appare come un fenomeno
nuovo, il fatto che i testi videoludici siano stati veicolo di estetiche,
assiologie, ideologie e autoriflessione linguistica non è affatto una novità. È
la contemporanea diversificazione del videogioco, con il moltiplicarsi delle
sue occorrenze testuali e del pubblico, uniti alla sperimentazione continua, a
contribuire all’equivoco per cui il videogioco starebbe solo iniziando a
“maturare”, mentre è proprio il sorgere stesso di una critica attenta a questi
aspetti che finisce per ampliare eccessivamente, fino a distorcere, il giudizio
di novità di cui sopra.
In realtà, nel corso della sua lunga e ancora largamente
misconosciuta storia il gioco digitale ha conosciuto occorrenze di
sperimentazione estetica, autoriflessione teorica e linguistica, estremismo
ideologico, strumentalizzazione commerciale, edutainment, polemiche sulla
visibilità. Accanto alla letteratura videoludica d’evasione, di puro svago, o
disinteressata ai ragionamenti sul mezzo o a finalità estetiche, comunicative
e ideologiche (come se queste non si realizzassero comunque in qualche
misura, nonostante l’assenza di un carattere di riflessione del testo su se
stesso) si è prodotta una marginale ma pur sempre presente schiera di titoli
che hanno intrapreso questa strada. Per non parlare dei videogiochi – e sono
21 Cfr. http://www.videoludica.com/news.php?news=221 22 Cfr. il progetto Water-Cooler Games su http://www.watercoolergames.org/
23
molti di più questi ultimi - che hanno coniugato con successo una ricerca
dei tipi esposti sopra con le necessità commerciali, economiche e del puro
svago che il gioco digitale ha da offrire al suo giocatore in termini di mezzo
di intrattenimento.
Così, la storia videoludica è fatta di pure evasioni come Pacman ma
anche di elaborate ricostruzioni storiche giocabili strategicamente come
quelle della serie di Age of Empires23. Di videogiochi come puro “sport
cognitivo” come Space Invaders, e di rip-off di pubblicità comparativa
come Pepsi Invaders. Di riproposte di concept di gioco originali con
universi estetici differenti, come nel rapporto che intercorre tra Robotron e
Smash TV, oppure di veri e propri cloni a livello strutturale e esteticamente
depauperati, come è Balloon Fight rispetto a Joust. Di momenti di
edutainment, come Mario is Missing, e altri di razzismo, sessismo e
ideologia, come nel singolare Custer’s Revenge, o ancora di violenza che
spinge il limite del rappresentabile nel mezzo, come quella di Death Race,
Mortal Kombat o Carmageddon24. Di eroine alla Ripley come Samus e di
stereotipi iperdotati come Lara Croft. Di produzione indipendente di
videogiochi anti-governativi di satira politica in flash games su internet da
un lato e, dall’altro, di loghi “winners don’t use drugs” a gettone inserito, in
videogiochi da sala di ultraviolenza repubblicana e manichea dove gli
spacciatori sono malvagi e saltano a pezzi in aria. Giochi come N.A.R.C.,
per esempio, si dimostrano capaci di aderire sottilmente alla peggiore
polarizzazione assiologia della retorica della tolleranza zero e, al contempo,
inserire nel testo momenti di satirico distacco e cinismo degni del miglior
Verhoeven.
L’elenco potrebbe continuare all’infinito, dimostrando come il gioco
elettronico abbia intrapreso le innumerevoli strade creative – individuali e
corali - che fanno della tecnica un mezzo di intrattenimento, espressivo,
estetico, ideologico, assiologico ben prima che la retorica progressista della
23 cfr. Molina (2003) 24 Cfr. “Death Race, a Clockwork Arcade” su http://www.associazionesemiotica.it/ec/contributi/benoit_25_10_06.html
24
sua ricerca “di avanguardia” pretendesse di metterla sotto la luce dei
riflettori o sventolasse la bandiera dell’autore videoludico.
L’autore videoludico marcia parallelamente a una critica il cui fine è
quello di imporre una rispettabilita’ espressiva al videogioco, come una
delle strade attraverso cui il videogioco e la sua critica tentano di attuare la
scalata verso l’Empireo delle Arti. Ma è parimenti evidente come la
questione autoriale sia il terreno su cui considerare la questione
comunicativa ed estetica del videogioco: una questione che questo lavoro
vuole posticipare rispetto all’analisi dei testi dal punto di vista della loro
enunciazione.
1.4 – Un approccio semiotico al gioco digitale
Gettare luce sull’autore in rapporto alla testualità videoludica non
può avvenire senza una definizione preliminare del gioco digitale. Ma per
rendere conto del gioco digitale, non sarà una cattiva idea fornire una specie
di “premessa alla premessa”, che recita: una definizione o una teoria del
videogioco non sono rintracciabili in senso assoluto o normativo, e non
potranno emergere che sotto forma di un set flessibile di strumenti.
A una definizione univoca del gioco digitale è necessario sostituire la
considerazione di una complessa famiglia di forme e pratiche ludiche. Tale
è la varietà di queste che ogni definizione di un testo ludico-elettronico
rischia di apparire inadatta agli obiettivi dell’analisi, non applicabile a testi
diversi e difficilmente generalizzabile. La ragione non va vista nella
mancanza di validità degli strumenti teorici e metodologici, ma nel rischio
di insensatezza delle domande poste da questi strumenti ai singoli testi e
alle loro precise istanze: definire l’esemplare per la famiglia
corrisponderebbe al tentativo, fallito in partenza, di rapportarsi con alla
totalità dei fenomeni semiotici che si possono far confluire sotto l’ombrello
25
del termine “videogioco” come se questa fosse schematizzabile in un solo
tipo di testo25.
Il gioco digitale rappresenta nulla di meno che la macro istanza del
gioco all’interno delle possibilità offerte dal campo digitale. Queste
appaiono così vaste da istigare quasi a estendere questo modo di ragionare
allo stesso termine “videogioco”, il quale si rivelerebbe limitato per
spiegare molte delle forme assunte dal gioco elettronico e delle sue
parentele testuali. Si sarebbe tentati di sostenere che non esiste un testo
videoludico tipico, e che esistono tipi disparati di video-giochi, e riflettere
su termini diversi come “gioco digitale”, “gioco elettronico”, “videogioco”
potrebbe far focalizzare caratteristiche per certi versi non omogenee di
questi testi.
La questione va quindi ben inquadrata. All’estremo applicativo,
creare un sistema per ogni singola istanza testuale svuoterebbe la teoria
della propria eleganza e del proprio potere esplicativo. Ma anche nella
direzione opposta è evidente che, allargata e interpretata in maniera
assoluta, la nozione di gioco sarebbe puramente teorica, eccederebbe in
generalità e si offrirebbe come un primitivo teorico, risultando inservibile
sul piano dell’analisi delle diverse istanze testuali e sull’aspetto prescrittivo
della disciplina26.
Sarà allora necessario tentare di avvicinarsi al problema della
definizione del videogioco – e di conseguenza dell’autore nel gioco digitale
- tenendo conto di due diverse focalizzazioni dello sguardo: quella che evita
la generalizzazione eccessiva, ma anche quella che porterebbe a un
approccio eccessivamente microteorico, incline alla specializzazione sul
singolo testo. Le proposte teoriche sulla definizione del videogioco
andrebbero considerate tenendo conto di questa ambivalenza semiotica, o
25 In accordo a una concezione preliminare e allargata di “testo” in senso semiotico, lo intendiamo come qualsiasi oggetto semiotico “potenzialmente interpretabile” o “significativo per qualcuno” (Pozzato, 2001). Nel riferirci al testo come “oggetto testuale” simpatizziamo con Geninasca (1997), nel solco di uno spostamento della semiotica verso l’aspetto dell’enunciazione per cui “la questione del senso o della mancanza di senso non si pone evidentemente allo stesso modo per discorsi di diverso tipo” (ivi). 26 Concentrarsi sulla definizione del “gioco” è un’impresa dalla portata filosofica che eccede di gran lunga gli obiettivi di questo lavoro. Gli abusati Huizinga (1943) e Caillois (1958) costituiscono i testi di partenza classici sul tema.
26
rischiano di rivelarsi non funzionali; mentre quelle relative all’autore
videoludico rischiano di sconfinare sul terreno della pura mitologia.
Non è affatto escluso che la nostra definizione, priva della benché
minima volontà strutturante o di fondazione di massimi sistemi, possa
rivelarsi, al momento delle conclusioni, non più esauriente, o configgente
con i risultati ai quali potrebbero portarci i testi. Ma se la proposta di
considerare sempre provvisoria e limitata ogni definizione operativa del
gioco digitale potrebbe apparire collocata all’esatto opposto di un’esigenza
di pertinentizzazione dell’oggetto di studio, essa è in realtà interamente
funzionale a quest’ultima.
1.5 – Nuovi media e ri-mediazioni
A premessa, quella sull’impossibilità di una definizione unica del
videogioco, segue ulteriore premessa: la varietà delle forme videoludiche
richiede una teoria capace di scansare del tutto la tentazione di considerarle
come manifestazioni di un medium definito, deterministicamente ricalcato
su una tecnologia. I testi giocabili devono essere definiti a seconda dei
contesti e dalle pratiche d’uso concrete, con la presa d’atto che il campo
digitale costituisce un territorio di elaborazione delle informazioni in cui si
innesta il gioco in tutte le sue forme e accezioni: espressive, interattive,
comunicative. La capacità del videogioco di ri-mediare virtualmente ogni
mezzo di comunicazione esistente, tanto al livello di organizzazione logico-
formale che di “presa” sulle sostanze in cui si attualizza (vista, udito, tatto),
è il motivo principale del successo del videogioco nel rielaborare e
cannibalizzare forme di gioco e medium “tradizionali”27. La potenzialità di
rielaborazione delle informazioni e della loro traduzione in stimoli e
tecnologie strumentali al fine immersivo e interattivo è alla base della
capacità di “ponte” del videogioco: le interfacce creano intersezioni più o
meno ideali, complesse o verosimili, tra il piano del reale e quello del
digitale, e operano come ambienti mediati/medianti tra mondo della CPU e 27 Per il concetto di ri-mediazione cfr. Bolter/Grusin (2002)
27
soggetto umano28. In questo senso, oltre che crocevia di rimediazione, il
gioco digitale può trovare forse una sua definizione distintiva di medium
nella potenzialità immersiva in luoghi altri raggiunti a mezzo interfaccia29.
Il novero di possibilità formali e di ri-mediazioni fa quindi rifuggire
la visione vieta ed esclusivista del singolo medium. Ogni istanza ludica è un
“crocevia”, un precipitato di caratteristiche e usi sensoriali e mediali. Il
singolo gioco digitale è un sistema formale che, attraverso un’interfaccia,
dialoga a livello segnico e performativo con il giocatore in maniera multi-
mediale e multi-planare: vale a dire, attraverso interazioni sensoriali,
cognitive e con un rapporto pragmatico che interessano più piani espressivi,
della forma e del contenuto30.
Un approccio semiotico che “smonti” e ricomponga i testi in
elementi più intelligibili e differenziati, andando alla ricerca di
articolazioni, combinatorie e modi di esistenza semiotici, può evitare il
descrittivismo e le correlazioni deterministiche tra piano tecnologico ed
esito semantico. In questo modo, dal testo risulterà osservabile la
negoziazione tra testo e tecnologia, il rapporto tra gioco e giocatore, il
parallelo tra industria del gioco elettronico e cinematografica, o ancora
ripensare la definizione del testo videoludico rispetto alle sue appendici
paratestuali ed epitestuali.
La stessa definizione di “nuovo medium” per il videogioco appare
poi contraddittoria, come conseguenza della sua natura liquida, ed
altrettanto necessario è dimostrarsi immuni alla tentazione di iscriverlo in
tale nozione. L’affermazione potrebbe apparire paradossale e
contraddittoria rispetto ai fini dell’analisi, ma si rivela importante per
28 La nuova console Nintendo Wii costituisce oggi il passo decisivo verso lo sfumare tra realtà e oltre-schermo grazie a un controller che abbatte l’opacità tra interfaccia e giocatore [immagine 1]. Singstar è un gioco che sfrutta la periferica EyeToy, grazie alla quale il giocatore viene ripreso da una telecamera, elaborato dalla console e riportato sullo schermo come protagonista, e la integra con il karaoke per fare cantare e vedere sullo schermo i giocatori. 29 Un’analisi delle interfacce nel campo videoludico è operata in Diamanti, “L’interfaccia come ambiente”, in Versus – Quaderni di Studi semiotici, n. 94-95-96, Semiotica dei Nuovi Media (a cura di Cosenza, G.), Bompiani, Milano-Bologna. 30 Per l’approfondimento sui concetti di forma e sostanza dell’espressione in semiotica si rimanda a Hjemslev (1987). Una presentazione del pensiero di Hjelmslev è presente in Fabbri/Marrone (1999), pagg. 68 e ss. Si rimanda inoltre a Versus – Quaderni di studi semiotici, n. 43, Linguistica Strutturale e semiotica (a cura di Zinna, A.), Bompiani, Milano-Bologna.
28
ribadire la capacità dei testi videoludici di dimostrarsi in continuità con
forme testuali “vecchie”. La semiotica è già provvista di anticorpi in tal
senso: una lettura dei “nuovi” media poco sensibile alla mitologia della
novità consente di illuminare da un lato la capacità del videogioco di offrire
testualità inedite e, dall’altro, quella di incorporare, emulare, rinnovare
tipologie testuali afferenti a domini come quello dell’animazione, del gioco
di ruolo, del cinema, delle arti visive, della musica.
La definizione del campo dei “nuovi media” è precisata da
Cosenza31, che mette in guardia rispetto alle definizioni frettolose o
modaiole: il “nuovo” va ritenuto tale sulla scorta delle pratiche semiotiche
reali in cui esso trova manifestazione effettiva. È nell’uso delle tecnologie,
e non nelle tecnologie stesse, che si trovano le pratiche, il consumo dei testi
e del loro significato. Si capisce allora come riferirsi continuamente al
videogioco come un “nuovo medium” sia davvero arduo. In primo luogo, al
livello testuale, si aderisce a una visione del mezzo che trascura la
complessità delle sue forme e la varietà delle sue continuità mediali. In
secondo luogo, al livello puramente storiografico, si accetta di trascurare
una storia del mezzo che è in realtà già molto lunga, accogliendone una
definizione che si rivela pratica sul piano comunicativo e trova riscontro
nell’attuale interesse intorno a questi testi, ma che è in definitiva fuorviante.
È invece proprio dalla considerazione del variegato campo di ri-
mediazioni e ibridazioni che il videogioco ha effettuato e effettua
costantemente nei confronti di media meno “nuovi”, dalle caratteristiche
più compiutamente esaminate o che hanno già guadagnato una percezione
socio-semiotica relativamente coerente ed omogenea, che è possibile
ricavare il maggior numero di indizi sulla testualità videoludica, e che ci si
vede costretti a interrogarsi sulla capacità del gioco digitale di offrirsi come
una camera di ri-mediazione centrale. Il videogioco emula il gioco da
tavolo, oppure diventa il territorio su cui la cultura del gioco da tavolo si
impianta in maniera stabile, come nel caso dei giochi strategici di guerra o
di ricostruzione storica. Incorpora la narrazione ed emula il linguaggio 31 cfr. Cosenza (2004)
29
cinematografico, ma al contempo ispira il cinema che riscontra, ora nella
sua cifra stilistica “tematizzata”, ora nel suo linguaggio, ora nella sua
filosofia, elementi per riflettere su se stesso32. Dona interattività co-
discorsiva al fumetto e al suo giocatore, operando come un ponte tra
l’universo estetico e narrativo e l’identificazione con la storia e i
personaggi. Integrando la musica, o proponendosi come un mezzo per fare
musica a vari livelli e con varie finalità, il videogioco si offre come un
approccio ludico alla musica anche per i non musicisti: ne offre una facile
emulazione. Il videogioco si offre allora allo sguardo del teorico come un
enorme monstrum testuale a mille teste, che non può essere inquadrato in
singole definizioni o liquidato sulla scorta della tecnologia o degli schermi
su cui trova supporto33.
Resta pur sempre il fatto, allora, che il videogioco, stando a quanto
detto, potrebbe anche essere considerato a tutti gli effetti come un medium
“perennemente nuovo” nei suoi esiti specifici, quasi per vocazione genetica.
Il discorso sul mezzo e sulla sua perenne “novità” spiegherebbe bene il suo
rimanere imbrigliato in un crocevia interdisciplinare caotico, che ne
impedisce un’inquadratura teorica univoca. Negli anni, il videogioco ha
continuato a prosperare in maniera esponenziale nello spazio di
molteplicità, convergenza e sovrapposizione mediale consentito
dall’informazione digitale. Ma pensare che esso abbia solo assorbito dagli
altri media, senza che questi ne risultassero cambiati, equivarrebbe a
sottovalutare la tendenza contemporanea alla compenetrazione di mezzi
diversi nel sistema dell’intrattenimento.
Come il Web è stato definito un campo di applicazioni disparate più
che un vero e proprio medium, anche il videogioco non ha caratteristiche
d’uso definite e univoche ma è piuttosto uno sfuggevole crocevia di
rielaborazione mediale, diventato un tassello-jolly nell’enunciazione
verticale e orizzontale dei sistemi di produzione. Il gioco digitale è un testo
semiotico liquido, per il quale appaiono particolarmente importanti la 32 cfr. http://www.videoludica.com/news.php?news=289 33 Bolter e Grusin (2002), del resto, parlano di ri-mediazione non esclusivamente in merito al campo del digitale, ma come se questa fosse una caratteristica endemica alla testualità e alle forme in cui essa si sostanzia.
30
configurazione testuale e paratestuale, il ruolo dell’interfaccia,
l’articolazione segnica e i programmi di uso e narrativi che il testo istituisce
debrayando ed embrayando il giocatore, la natura di ipertesti densi e di
mondi possibili di molti di questi testi.
1.6 Una definizione strumentale all’autore
Dopo una lunga serie di premesse, possiamo presentare la nostra
definizione per il videogioco. Ci troviamo di fronte a una famiglia variegata
di forme testuali, caratterizzate da un progetto espressivo e comunicativo
fortemente interattivo non solo sul piano semantico-segnico ma anche su
quello delle interfacce: queste costituiscono il tramite tra il giocatore e il
mondo possibile, con una forte tendenza alla rimediazione che deriva
direttamente dalle possibilità e dalla natura del campo digitale il quale, del
videogioco, costituisce la base logico-formale prima ancora che
tecnologica.
Senza pensare di prendere in carico l’intera questione dello sviluppo
e della diversificazione delle teorie videoludiche, una prospettiva semiotica
come quella appena esposta costituisce un terreno su cui mettere i piedi in
saldo senza precludersi di utilizzare strumenti teorici e metodologici diversi
e adatti ai singoli testi in esame. La semiotica è dotata di strumenti che
opportunamente “tarati” su un contesto diverso - e utilizzati con il dovuto
senno - sono in grado di spiegare la semiosi videoludica, la complessità
delle configurazioni testuali, il rapporto tra interfaccia, ambiente di gioco e
giocatore, il modo in cui il testo significa, comunica e si matrice dotata di
aspetti enunciativi e co-enunciativi34.
I territori ancora inesplorati delle pratiche semiotiche “nuove” sono
quasi sempre il pretesto per “tirare” le teorie esistenti fino al punto di un
eventuale strappo, costituendo le zone epistemologicamente a rischio per il
valore euristico di ogni modello teorico. Questo strappo, in realtà, nel caso
del videogioco, può avvenire solo nel caso in cui degli strumenti si faccia
31
un uso normativo, scambiandoli per principi. Moltissimi strumenti semiotici
esistenti spiegano a fondo il gioco digitale come le sue parentele con altri
oggetti testuali su cui altri strumenti erano stati creati. È quindi non
necessario affrettarsi esageratamente per costruirne di nuovi, a meno che
non si voglia sostituire la vecchia e solida cassetta degli attrezzi e fare della
semiotica un unico, mostruoso, ingombrante coltellino multiuso. La
contrapposizione tra metodi e approcci diversi si rivela evitabile: appare
evidente come ciascuno tra questi risponda a diversi aspetti dell’oggetto di
analisi e come il loro uso in parallelo si riveli utile per illuminare aspetti
diversi e persino contrastanti della testualità.
In questa sede ci prefiggiamo la riflessione sul rapporto tra testo e
autore: è quindi importante adottare una forte considerazione riguardo a due
aspetti complementari della testualità. Il primo è il rapporto tra testo e
paratesto, il secondo è una nozione enunciativa aggiornata a un assunto di
non totale impersonalità. Se la prima prospettiva si mostra necessaria per la
questione della definizione della commutazione tra l’aspetto conclusivo del
testo e la sua apertura sociosemiotica, nonché per la sfuggevolezza del testo
videoludico in un continuum espressivo ampio, la seconda definizione del
registro enunciativo del gioco digitale è interamente funzionale al problema
di individuare, o eventualmente negare, la possibilità di relare l’autore in
carne ed ossa alla istanza enunciativa del testo.
1.7 Testo, paratesto, enunciazione
Avendo chiarito il nostro atteggiamento teorico e metodologico, non
ci rimane che precisare i due aspetti della testualità che abbiamo ritenuto
decisivi. Partiamo dunque dal rapporto tra testo e paratesto, mentre la
questione enunciativa troverà piena formulazione nel corso di un capitolo
successivo.
Se il testo si definisce come tale in base alla all’unità, alla coerenza e
alla discretezza del suo progetto semiotico, una prospettiva sociosemiotica
riconosce in esso anche una porzione ben definita della fitta e più ampia
32
trama intertestuale dell’universo semantico che non solo lo circonda, ma in
alcuni casi lo pervade e connota35. In questo lavoro accoglieremo questa
sfida, e tenteremo di lavorare all’interno della testualità per poi mettere alla
prova la sua relazione con i dati relativi ai soggetti che fanno i giochi.
Questi ultimi non possono essere considerati una fuoriuscita disciplinare dal
campo del testo a meno che non si abusi dell’atteggiamento storico: il testo
è infatti dotato di confini sfumati con la sfera intertestuale che lo circonda e
di cui fa parte, e si presenta come una ribalta testuale di un retroscena
enunciativo complesso, caratterizzato da una pluralità di attori. Non si
intende negare l’utilità di un approccio testualista, che ravvisi la salvezza
teorica nella chiusura del testo, ma sostenere la necessità di alternare una
focalizzazione sul testo a una sui presupposti co-testuali, sul continuum a
cui appartiene. La nostra considerazione del testo sarà allora accompagnata
proprio dalla consapevolezza che è la focalizzazione sul testo a definirlo
tale rispetto alla sua area limitrofa: il testo, insomma, è al centro, ma non si
da in natura perché esso, come il suo paratesto ed epitesto “in periferia”,
derivano dal nostro “ritaglio”.
Gerard Genette parla della cosiddetta transtestualità, o trascendenza
testuale del testo, come di “tutto ciò che lo mette in relazione, segreta o
manifesta, con altri testi”. Secondo Genette la transtestualità è una
precondizione del testo, e include anche l’architestualità, vale a dire
l’insieme delle categorie generali o trascendenti – tipi di discorso, modi
d’enunciazione, generi letterari, ecc. – cui appartiene ogni testo. La
transtestualità include anche altre declinazioni della testualità:
l’intertestualità, la paratestualità, la metatestualità, l’ipertestualità. La
prima, introdotta dalla semiologa Julia Kristeva36, viene presentata da
Genette, “nella sua forma più esplicita e letterale”, come enunciato “la cui
piena intelligenza presuppone la percezione di un rapporto con un altro
enunciato”37. La paratestualità è invece costituita dalla relazione che il
testo nel suo insieme mantiene con elementi, come, nel caso del libro, 35 Cfr. Pozzato (2002: capp. 18-19) 36 Cfr. Kristeva (1978) 37 cfr. Genette (1982)
33
“titolo, sottotitolo, intertitoli, prefazioni, postfazioni, avvertenze, premesse
[…] e molti altri tipi di segnali accessori, autografi o allografi, che
procurano al testo una cornice (variabile) e talvolta un commento, ufficiale
o ufficioso”. La metatestualità sarebbe invece una relazione di commento
che unisce un testo ad un altro testo ed è, “per eccellenza, la relazione
critica”, mentre l’ipertestualità indicherebbe “ogni relazione che unisca un
testo B (che chiamerò ipertesto) a un testo anteriore A (che chiamerò,
naturalmente, ipotesto), sul quale esso si innesta in una maniera che è
diversa da quella del commento”38.
Genette presenta questo apparato teorico per il testo letterario, ma non
esclude l’utilizzo di queste categorie per altre forme di testualità. A
rivelarsi particolarmente utile non è infatti il riferimento pedissequo
all’applicazione dell’apparato teorico di Genette sul libro, ma la
comprensione della nozione di testo che esso comporta: il suo uso ci
consente di non dovere varare nuovi strumenti per un “nuovo medium”, ma
di applicare quelli esistenti a nuove testualità39. Il paratesto è infatti così un
territorio indeciso che costituisce
“tra il testo e ciò che ne è al di fuori, una zona non solo di
transizione, ma anche di transazione: luogo privilegiato di una pragmatica e
di una strategia, di un’azione sul pubblico, con il compito, più o meno ben
compreso o realizzato di far meglio accogliere il testo e di sviluppare una
lettura più pertinente, agli occhi, si intende, dell’autore e dei suoi alleati”.
Definire un elemento del paratesto consiste nel determinare la sua
ubicazione, la data della sua apparizione o scomparsa, la sua modalità di
esistenza, le caratteristiche della sua istanza di comunicazione - del suo
destinatore e del suo destinatario - e lo scopo che anima il suo messaggio.
Gli aspetti spaziali, temporali, sostanziali, pragmatici e funzionali
concorrono così alla descrizione esauriente di un elemento ipertestuale nella 38 Cfr. Genette (1982), cit. 39 A mettere particolare in luce l’approccio del semiologo francese sono i testi audiovisivi: Cfr. Stam / Burgoyne / Flitterman-Lewis (1992)
34
considerazione della sua rilevanza ultima, il fatto che “il paratesto, in tutte
le sue forme” è al servizio “di qualcos’altro che costituisce la sua ragion
d’essere, e che è il testo”40.
La scomposizione del testo costituisce un’occasione per ragionare
sui criteri che lo rendono centrale, giustificano la sua “chiusura”, spiegano
la sua dimensione intertestuale, ci orientano nella sua definizione e
delimitazione.
1.8 Alla ricerca del testo videoludico
La nostra premessa è diventata una provvisoria conclusione: non c’è
la possibilità, ma neppure in fondo la necessità teorica, di una definizione
univoca del gioco digitale. La ricerca di una definizione normativa
esporrebbe a una sfida improduttiva in partenza contro una sfuggevole
coppia di macrocategorie: quella logico-formale dell’informazione digitale
e quella filosofica del gioco. Tentare di definire il gioco digitale partendo da
una definizione del gioco rischierebbe di farci dibattere in problemi
filosofici di eccessiva portata, o di utilizzare categorie in maniera poco
fruttuosa, snaturandone gli obiettivi originali.
Decisamente più utile si rivelerà la scelta di partire dai testi alla
ricerca delle loro caratteristiche specifiche. Tuttavia, non analizzeremo
minuziosamente e puntigliosamente i singoli testi da ogni prospettiva
possibile. Piuttosto, li interrogheremo a seconda del nostro stadio sulla
ricerca dell’autore, coerentemente all’intenzione di utilizzare un frame
teorico il più allargato rincorrendo il nostro obiettivo.
A questo proposito una riflessione sullo statuto dell’autore-inventore
del videogioco come quella del prossimo capitolo non è certo poco utile alla
ricerca di una definizione del gioco elettronico che tenga conto non solo
delle ragioni semiotiche ed enunciative, ma anche di quelle storiche e
tecnologiche in cui il mezzo ha assunto la forma con cui pensiamo di
riconoscerlo. In questo modo, si inseguirà la ricerca dell’autore senza 40 Cfr. Genette (1982), cit.
35
perdere completamente di vista i presupposti della definizione del mezzo
qui accennati.
È argomento da discutere se l’Adamo Videoludico, il Videogioco
Primigenio vada considerato esemplare puramente idealistico, o se esso sia
invece rintracciabile storicamente. D’altro canto, determinare quale sia stato
il primo videogioco appare un problema non scontato: è chiaro che, avendo
rifuggito una definizione normativa, per poter definire la prima comparsa di
un esemplare di una nuova “specie” sarà necessario definire le
caratteristiche di questa specie e le sue relazioni con quelle ad essa pre-
esistenti. Esiste allora un problema “tassonomico” del gioco elettronico che,
fuori dalla metafora naturalistica, consiste – come abbiamo messo in
evidenza - nella necessità di pertinentizzazione e delimitazione delle
famiglie testuali alle quali, sotto il termine di “videogioco”, le teorie
semiotiche dovrebbero offrire il proprio contributo analitico e i propri
strumenti. È quanto proveremo a fare concretamente nel prossimo capitolo.
36
CAPITOLO 2
INVENTORI VIDEOLUDICI
2.1 – Dall’Autore all’Inventore
In questo capitolo ci spostiamo volutamente su un terreno
accidentato: il nostro interrogativo sull’autore videoludico diventa quello
sull’inventore del videogioco. Questo espediente metodologico sarà
applicato a dei testi di importanza storica, ma il motivo di interesse
principale non è solo storiografico: la scelta di questi giochi è orientata da
un interrogativo semiotico, poiché essi sono rivelatori dal punto di vista
dell’analisi testuale. Questi “giochi dei primordi” sono infatti i primissimi
casi documentati storicamente nei quali si assista a una testualizzazione
vera e propria del gioco elettronico: testi interattivi che esulano dalla pura
esercitazione o dimostrazione tecnologico-visuale e si distinguono per le
caratteristiche di interattività e interfaccia tipiche della forma espressiva
videoludica.
Non è questo un territorio di analisi vergine: con una storia
videoludica già ampiamente “enciclopedizzata”41, la questione della
“creazione originaria” videoludica ha da sempre suscitato interesse. La
nascita dell’Adamo Videoludico è stata oggetto di dibattito, è stata
diversamente situata storicamente e logicamente, e si è discusso
sull’identità dei candidati al ruolo di “inventore” del mezzo. Con il
procedere della ricostruzione documentale, il momento della creazione del
41 Contrariamente alla ricerca teorica, sorta praticamente da un solo decennio, e alla riflessione critica, mai pervenuta finora a uno stadio di maturità tale da creare un discorso condiviso di livello elevato, la ricerca e la documentazione sul fenomeno videoludico sono ampiamente sviluppate. Pubblicazioni cartacee, volumi storici, database di pubblico dominio e il vasto epitesto videoludico online forniscono al videogioco una storia le cui direttive principali sono ben note, con un sommerso tutto sommato limitato. Un’ottima storia videoludica dei primordi è disponibile online all’URL http://www.emuunlim.com/doteaters/, mentre su cartaceo si rimanda a Kent (2001)
37
primo videogioco è stato costantemente retrodatato e ricondotto, come si
vedrà, a applicazioni di volta in volta precedenti.
Tornare a un interrogativo su questo fondamentale “big bang” nella
storia delle forme tecnologiche e videoludiche può sicuramente fornire
degli indizi al problema dell’autore. Non ci interessa prendere una
posizione nel dibattito sulle origini della specie videoludica. Piuttosto,
speriamo che partire dalle primissime manifestazioni testuali videoludiche e
dalle loro pratiche possa illuminare degli aspetti del rapporto tra tecnica e
soggetto enunciatore che, altrimenti, rientrerebbero nella domanda a
proposito dell’autore già “opacizzati” dalla direzione assunta da una forma
testuale nel frattempo diffusa e pressoché istituzionalizzata, oltre che in
corso di teorizzazione.
Osserveremo la questione del “primo videogioco” sotto una lente
semiotica che tenterà di porsi nel solco storiografico rispondendo in
parallelo a due urgenze. Da un lato, quella di “disincarnare” le istanze di
significazione, il senso complesso e negoziato del testo, dal rischio della
loro antropomorfizzazione frettolosa, della fin troppo facile credenza nel
ruolo di un unico autore, nella biografia, nello psicologismo creativo.
Dall’altro, quella del riconoscimento, compresente rispetto a queste istanze
del testo, dei reali “attori in gioco”, nella convinzione che la natura della
testualizzazione videoludica rimane pur sempre opera, “sotto” a tutte le
griglie interpretative, di persone.
Per condurre una analisi di questo tipo sul rapporto tra soggetto e
istanza del testo, evitando che il soggetto vada negato nell’istanza e che la
seconda venga semplificata dalla credenza cieca nella biografia e nell’atto
creativo “forte”, sarà necessario prendere in considerazione la nozione
semiotica dell’enunciazione: questo servirà per evitare di cadere al di fuori
dall’ambito disciplinare e far scadere la negoziazione del senso con il
lettore/giocatore e l’aggancio tra autorialità e processo enunciativo in una
superficiale cronaca sociologica o in una fumosa psicologia d’autore.
L’enunciazione sarà anche un’anticamera teoricamente preziosa per
interrogarsi sul rapporto tra tecnica ed espressione individuale nel processo
38
di scrittura dei testi videoludici. In ogni caso, si proverà a mantenere “in
tensione” il rapporto tra l’istanza enunciativa come strategia semiotica
immanente al testo e la sua estensione accorta ai relativi attori in gioco nel
mondo reale. Non presteremo fede, dunque, a una concezione rigida del
concetto di enunciazione, ma ci affideremo alla sua interpretazione più
elastica rispetto all’assunto di impersonalità di questa istanza42.
L’autore sarà inteso come un ipotetico punto di coincidenza tra il
soggetto e l’istanza enunciativa nel testo, mentre ci concentreremo,
partendo dai testi, sulla relazione tra il soggetto e un dominio tecnico inteso
come un “sapere/saper-fare/saper creare” condiviso. Nel frattempo,
confronteremo l’ipotesi autoriale con quanto osservato da questa
prospettiva.
Gli elementi venuti a galla dovrebbero, nelle intenzioni di questo
lavoro, contribuire a spiegare se una nozione autoriale “forte” risulti utile o
se, al contrario, non si possa che interpretare l’autore in maniera “debole”:
come, cioè, se esso fosse un travisamento, un’idealizzazione di istanze che
in forme testuali dalla scrittura corale sono inevitabilmente spersonalizzanti
o radicalmente collettive. Nel primo caso potremmo essere in grado di
formulare una teoria dell’autore; nel secondo caso questo si rivelerebbe
come un semplice tassello o esecutore, mai del tutto autonomo, talora
persino marginale, rispetto all’unità testuale e all’enunciazione.
Mentre scrutiamo nei testi la figura dell’autore/inventore non sarà né
il soggetto reale, storicamente determinato, né pura istanza enunciativa, ma
rimarrà una risorsa da usare euristicamente, una cartina di tornasole testuale
o ancora un grimaldello per fare retro-ingegneria sul processo enunciativo.
In questo senso, la prospettiva combinata di un non-determinismo
tecnologico e di un concetto di enunciazione non necessariamente
impersonale costituirà la base operativa dalla quale interrogare i testi per
cogliere i nessi tra tecnica, espressione e autorialità. È anche da questa
prospettiva che discende la domanda se, e in che senso, il videogioco possa
essere o meno considerato un insieme di testi dotato di una dimensione 42 Si rimanda a 2.7
39
“artistica” o se, al contrario, il “giochetto per computer” vada considerato
pura merce di consumo, prodotta in serie da un apparato
tecnico/tecnologico industrializzato43.
2.2 –OXO, Tennis for Two, Spacewar: il testo-bricolage
Per molti anni, il prototipo idealtipico del gioco elettronico è stato
rintracciato in Space War, un gioco di combattimento spaziale concepito nel
1962 da Steve Russell con l’ausilio di altri studenti del TMRC [immagine
5]. In seguito, questo primato è stato sottratto a Space War e attribuito a
Tennis for Two, concepito al Brookhaven National Laboratory da William
Higinbotham. Oggi, dopo un nuovo giro di approfondimento storico, il
titolo di primo gioco elettronico mai creato potrebbe essere nuovamente
retrodatato, e attribuito a OXO.
2.2.1 – OXO
OXO è il frutto del lavoro di A.S. Douglas, uno studente inglese
della Cambridge University che, nel 1952, si dedica alla sua tesi di laurea
concependo un programma di interazione tra uomo e macchina. OXO è una
versione digitale del Tris - che gli inglesi chiamano Noughts and Crosses - e
gira su EDSAC. EDSAC era un hardware ingrombrantissimo che esistette
in un solo esemplare, e dal quale il codice di OXO non migrò mai verso
alcun altro sistema di elaborazione. La visualizzazione a schermo
avveniva44 su un monitor CRT dell’elaboratore, e l’interfaccia di controllo
era stata implementata utilizzando il disco compositore di un comune
telefono meccanico: ogni numero da 1 a 9 avrebbe indicato alla macchina in
43 La questione, teoricamente più spinosa, rimarrà una domanda sullo sfondo del nostro intero lavoro. 44 Ci riferiamo a OXO nella sua configurazione testuale originale usando il verbo al passato perché il suo combinato di codice e interfaccia – il gioco originario, su un dato hardware - è storicamente situato, un unico esemplare non rintracciabile da parte del giocatore. Parliamo di OXO al presente quando ci riferiamo alla sua natura formale, che è emulabile e pertanto migratile e giocabile a prescindere dal suo supporto fisico. Tra le tante emulazioni del gioco, una delle migliori è disponibile all’URL http://www.northdevonuk.co.uk/NDUKoxo.html.
40
quale punto del quadrante sarebbe stata piazzata la propria mossa45. Di
OXO, per lungo tempo dimenticato e relegato nel novero di una
misconosciuta serie di sperimentazioni creative basate sulla tecnologia
elettronica delle origini, è oggi possibile visionare e giocare varie versioni
riprogrammate in ambiente digitale, che emulano l’architettura del
calcolatore.
OXO sembra quasi l’opera di un bricoleur levi-straussiano, capace di
rileggere una forma ludica pre-esistente utilizzando sostanze tecnologiche
diverse, offrendo l’interazione tramite un’interfaccia il cui programma
d’uso è adattato a nuove esigenze testuali. OXO non crea affatto un nuovo
tipo di gioco: Nought and Crosses è una forma ludica molto semplice e
potente, un gioco talmente economico e “portatile” da poter essere giocato
da chiunque persino con un dito o un rametto sulla sabbia. L’opera di
Douglas appare piuttosto, allora, come la prima dimostrata capacità di
emulazione e ri-mediazione di una forma ludica esistente nel dominio
dell’elaborazione informatica, nella fattispecie un elaboratore valvolare. Se
OXO debba essere considerato o meno il primo videogioco mai creato è
una decisione da sottoscrivere con cautela. Il primato temporale e il primo
caso di interattività ne fanno probabilmente, fino ad eventuali, prossime
smentite e retrodatazioni, il primo gioco a essere programmato per un
elaboratore informatico. Non è escluso, tuttavia, che OXO non sia ri-
elaborazione elettronica di una forma ludica quanto, semplicemente, la
prima che si conosca46. Una possibile obiezione, tuttavia, è questa: OXO
non inventa una nuova forma ludica, ne porta in nuove direzioni la pratica
tipica di quella forma: la portabilità e rapidità di consumo del gioco del
Tris. Saranno altri i testi a intraprendere le dirompenti strade delle
propriamente nuove forme videoludiche.
45 Cfr. Kent (2001) 46 La storia di dimostrazioni tecniche della scienza informatica si dimostrerebbe piena zeppa di casi interessanti per chi volesse andare alla ricerca, probabilmente anche interattivi e capaci di “rubare” il primato temporale a OXO.
41
2.2.2 – Tennis For Two
Otto anni dopo OXO, è il turno di Tennis for Two. Questo
“simulatore di tennis” nasce per mano di William Higinbotham nel 1958 al
Brookhaven National Laboratory, un laboratorio dedicato allo studio di un
sistema di reattori nucleari e acceleratori di particelle destinati alla ricerca
sull'energia nucleare. Higinbotham era uno scienziato che aveva preso parte
al celebre Manhattan Project, ed aveva assistito al primo test nucleare
storicamente registrato. Un curriculum di questo calibro sarebbe bastato a
molti ma, sembrerebbe, non a Higinbotham: inconsapevolmente deciso a
entrare con il proprio nome nel guinness dei primati, mise a punto, con
David Potter, quello che la maggior parte degli storici ritiene il primo
videogioco mai creato. Tennis for Two era un video-gioco nel senso che la
sua sostanza espressiva era il display di un oscilloscopio, mentre la sua
struttura ludica consisteva nel controllo del movimento orizzontale di una
pallina, che passava al di sopra di una stanghetta. Nelle intenzioni dei
creatori, questi formanti figurativi metaforizzavano il tema e le figure di
una partita di Tennis, da cui il nome dato al frutto del loro lavoro.
L'interfaccia di Tennis for Two, totalmente “bricolata” da materiali già
esistenti, consisteva in una coppia di potenziometri a manopola, con
l’aggiunta di due pulsanti che venivano utilizzati per orientare la direzione
della palla e lanciarla successivamente. [immagini 2, 3] Qualcosa di simile
al ben più celebre Pong, ma in anticipo di svariati anni e privo di un
hardware dedicato.
Questa applicazione ludica della tecnologia era un puro e semplice
divertissement da ingegneri rispetto ai fini precipui per i quali Higinbotham
e Potter erano impiegati al Brookhaven Lab. Quella che oggi verrebbe
definita una minimale simulazione di tennis funzionava, similmente a OXO,
su un hardware valvolare, un elaboratore analogico il cui impiego regolare
era finalizzato alla crittografia e ai calcoli balistici per applicazioni militari.
Eppure, la storia procede per vie complesse: l’ormai obsoleto elaboratore e
42
quelli che lo utilizzavano sarebbero stati ricordati più che altro per
applicazioni molto diverse da quelle belliche.
Anche Tennis for Two, come OXO, è una sperimentazione ludica, il
cui codice di programmazione adopera tecnologica pre-esistente e sostanze
espressive già date per offrire un testo che sottende a una pratica diversa, di
gioco. La sua enunciazione, come quella di Nought and Crosses, è opera
non di uno solo, ma di un paio di bricoleur, decisi a innestare sulle
interfacce esistenti dei nuovi programmi d’uso, più divertenti di quelli già
in corso e soprattutto interattivi. In Tennis for Two, che nasce oltretutto per
essere giocato in contemporanea da due giocatori, il tema del gioco viene
visivamente metaforizzato verso la descrizione di uno sport esistente, a
partire dal paratesto-metatesto esplicativo fornito dal nome del gioco:
tuttavia, il testo prodotto da questa enunciazione è una forma ludica nuova,
che non era mai stata giocata prima. Tennis for Two, semplicemente, non è
Tennis, e neppure Ping Pong. Non è una conversione su elaboratore
elettronico di una forma ludica già esistente che si offre secondo le stesse
caratteristiche, perché quello del tennis è a tutti gli effetti, a confronto con il
testo prodotto, un mero spunto. Del tennis, della sua struttura logica e della
sua componente fisica, fisiologica, Tennis for Two recupera sì una lettura
altamente stilizzata, resa formalmente più asciutta e idealizzata: ma, di
fatto, il tennis è un rivestimento che si offre per un gioco sostanzialmente
nuovo, che si gioca su uno schermo attraverso un’interfaccia e al quale non
è possibile trovare un’alternativa. Di conseguenza Tennis for Two crea, a
differenza di OXO, una nuova pratica ludica, o quantomeno tenta di
suggerirla in quanto testo giocabile da due persone che interagiscono con
una macchina.
2.2.3 – Space War
Come Tennis for Two, anche SpaceWar continua a trovare dei
sostenitori per la causa che lo vorrebbe come il primo videogioco della
storia. Spacewar è un gioco concepito metaforicamente come un
43
combattimento spaziale, fattosi interattivo e messo in scena su un
elaboratore mainframe costruito in una serie limitata, che occupava lo
stesso volume di un’automobile ed era provvisto di un monitor in bianco e
nero a tubo catodico. Sullo schermo due navette, ciascuna controllata da un
giocatore, si affrontano a colpi di missili, spostandosi su uno sfondo
composto di pianeti e costellazioni. La creatura è di Steve Russell e un'altra
manciata di programmatori, i quali stavano gettando le basi di un nuovo
modo di intendere i calcolatori elettronici e la tecnologia informatica. Space
War nasce infatti anche grazie alla tecnologia confluita nel programma
Three Position Display, che gli hacker del MIT rinominarono Minskytron in
onore del suo programmatore. La testualizzazione di SpaceWar è esito,
come del resto anche nel caso di OXO e di Tennis for Two, non certo di un
momento creativo puro, quanto di un processo applicativo, tecnico e
creativo in cui una collettività che condivide un sapere organizza forme
testuali e pratiche ludiche a partire dai mezzi tecnologici disponibili, in
questo caso “sfondando” il programma d’uso della tecnologia e delle
interfacce per pervenire a una nuova testualità interattiva. Nel caso di Space
War, la tecnologia visuale e di elaborazione disponibile consiste in
macchine più sofisticate di quelle su cui avevano già lavorato Douglas e
Higinbotham, e su uno schermo a tubo catodico. Nel corso delle numerose
revisioni del codice, il gioco assunse caratteristiche nuove e un gradiente di
interazione più ampio e raffinato. La reale differenza di Space War rispetto
agli altri videogiochi “prototipici” sta però nel lavoro effettuato
sull’interfaccia. Gli hacker del MIT non si accontentarono, come Douglas,
di una rondella da telefono, che mal si sarebbe prestata al compito di
muovere i formanti che metaforizzavano le navicelle. Né si trovavano di
fronte a una macchina provvista di potenziometri a manopola, visto che il
PDP-1 non era provvisto di oscilloscopio. I controlli base dell’hardware,
peraltro, non si prestavano al compito. I tasti esistenti vicino al piccolo
schermo dell’elaboratore erano scomodi da usare, e il loro posizionamento
invalidava le sfide tra i giocatori, visto che quello più vicino al display CTR
avrebbe sempre avuto una posizione avvantaggiata. Pertanto, il sestetto si
44
ingegnò nel costruire da zero un controller specifico, a tutti gli effetti
antesignano di una forma di interfaccia dedicata divenuta componente
essenziale del gioco elettronico. La prima coppia di rudimentali, identici
joystick venne creata assemblando componentistica “ottenuta” dalle
regolari classi di lavoro (di qui la barzelletta sul “vero” acronimo del
gruppo: “Midnight Requisition Club”). Due interruttori di metallo
controllavano la navicella, mentre un tasto rosso serviva a lanciare i missili.
Il gruppo avrebbe voluto utilizzare una vera cloche, ma non riuscì a
procurarsene una coppia (NOTA sull’etimo di joystick). L’iniziale logica
“da bricoleur” di Douglas e di Higinbotham, che avevano utilizzato
strumenti già esistenti per nuovi programmi d’uso, era stata in parte
ribaltata: il programma d’uso, il gioco, era divenuto preponderante e
fondamentale per il testo, il quale avrebbe risentito nel suo rapporto con il
giocatore di un’interfaccia non ideale, e quindi re-implementata da zero
(seppur prendendo spunto da una interfaccia già esistente, la cloche). I
giocatori, con i nuovi controller, avrebbero potuto sedere alla stessa
distanza dallo schermo, e sfruttare alla pari le caratteristiche dell’ambiente
interattivo senza che uno dei due subisse le limitazioni dell’interfaccia.
Per Space War Steve Russell e gli altri programmatori del fittizio
Railroads Club operano, come i loro predecessori, all’interno di un
paradigma condiviso tecnico-scientifico, ri-utilizzando tecnologia per la
medesima applicazione di tipo ludico. Tuttavia, non si limitano a convertire
il tris su un elaboratore, ne si accontentano di un’interfaccia assemblata a
partire da oggetti dai programmi d’uso riconvertiti. Space War è un testo
elettronico interattivo per il quale l’enunciazione ha preso in carico la
componente formale e l’interfaccia fino alle conseguenze estreme, virando
verso l’effettiva creazione di una nuova pratica ludica. La forma, nata da un
atto di bricolage tecnologico, ben presto assume preponderanza, e spinge la
tecnologia verso un aspetto nuovo e specializzato: il programma d’uso
dell’interfaccia spinge quest’ultima, invece che sia la seconda a suggerire il
45
primo47. Il successo di Space War fu tale che il programma diventò il
tormentone dei programmatori dell’epoca, e iniziò ad essere usato anche
come showcase della tecnologia di calcolo, pre-caricato sulla memoria del
PDP-1 come dimostrazione tecnica delle capacità dell’hardware. Computer
Space, la versione di Space War con la quale Bushnell tentò di portare i
videogiochi negli spazi pubblici, si sarebbe presentato con un apparato
paratestuale visivamente preponderante e con una maggiore fascinazione
estetica, ma avrebbe fallito, come vedremo nei prossimi paragrafi, proprio
per i limiti di una interfaccia macchinosa.
2.3 – Il testo videoludico tra forma e sostanza
A ciascuno di questi giochi è toccata la definizione di “primo
videogioco mai creato”: le cronache hanno di volta in volta aggiornato il
primato temporale, oggi assegnato a OXO. Non tutti, però, si sono mostrati
d’accordo, così come non tutti assegnerebbero al medesimo soggetto il
titolo “creatore del gioco elettronico”. La precedenza temporale non è la
sola variabile: contano anche le considerazioni sullo statuto testuale dei
giochi in esame per i quali, anche se tutti sono diversi da semplici
sperimentazioni visive, valgono gradienti diversi di “videogioco” a seconda
che si guardi l’aspetto formale, estetico o della pratica di gioco. Il quadro di
testualità videoludica in formazione a cui appartengono OXO, Tennis for
Two e Space War è decisamente complesso: forma del codice, tecnologia,
interfacce e pratiche ludiche si configurano in modo da rendere
problematica una definizione univoca di ciò che delimita la nascita del
videogioco rispetto a ciò che ne costituisce il brodo evolutivo.
Un assunto fondamentale di questo lavoro è la convinzione che siano
in definitiva le pratiche e le forme testuali ad esse legate a costituire,
seppure in costante negoziazione, i mezzi espressivi, e che questi non siano
47 Cfr. Cosenza (2003)
46
affatto determinati dalla tecnologia48. È questa una precisazione necessaria
per l’analisi di un ambito di sperimentazione tecnologica come quello in cui
si sviluppano i primi videogiochi, con il passaggio da macchine valvolari e
a transistor a elaboratori digitali e l’enorme lavorio in atto sulle interfacce
uomo-macchina e i loro fini. Anche se la il contesto tecnologico e sociale
della ricerca informatica in cui si definiscono le pratiche d’uso videoludiche
dei primordi costituisce la premessa e non il fine di questo lavoro, esso è in
ogni caso destinato a incidere profondamente sulla natura dei testi e della
loro fruizione. Anche senza uscire dalla massima testualista per cui “fuor
dal testo non v’è salvezza” ed evitando il tranello di un’ottica
tecnologicamente deterministica appare quindi arduo negare come la
dimensione co-testuale, il continuum e lo stesso contesto storico rivelino dei
testi ancora di più di quanto essi stessi mostrino direttamente. Il rapporto
tra testualità “interna” e contesto sociosemiotico e tecnologico è qui in
formazione e frastagliato, dotato di una genealogia delle forme
problematica. Riconoscere questo non equivale a naufragare fuori dal testo
o fare determinismo tecnologico. Il testo, in questo caso il gioco, è un
tessuto di senso la cui forma è prodotta dalla mente umana. La tecnologia e
la sostanza su cui il senso di fonda, qualunque esse siano, rimangono una
base non eliminabile. Tuttavia, sostanza espressiva e forma non sono
univocamente determinate l’una con l’altra. L’analisi del testo videoludico
dovrebbe quindi considerare questo come un sistema formale che,
attraverso metaforizzazione e interfacce, articoli l’interazione tra uomo e
macchina multi-planarmente, su vari livelli di interazione sensoriale, in
contesti e pratiche d’uso49.
Tutto questo è confermato dall’osservazione di questi testi (all’epoca
all’avanguardia), la cui scrittura si muovono all’incrocio tra padronanza
tecnologica e ispirazione ludica. L’esito, infatti, pur essendo
tecnologicamente fondato, non è determinato dalle caratteristiche
dell’hardware, chè tutti in tutti casi presi in esame si assiste a veri e propri 48 Una presentazione del problema del determinismo tecnologico in rapporto ai nuovi media è contenuta in Cosenza (2004) 49 Cfr. Hjemslev (1943).
47
aggiramenti dei limiti dell’interfaccia, a revisioni, integrazioni e sostituzioni
dei suoi programmi d’uso. In alcuni casi, la tecnologia viene ri-costruita per
integrare lacune originarie che limiterebbero la riuscita del testo interattivo.
Qual è, allora, il primo videogioco? Pensare che sia OXO cui
porterebbe a una contraddizione, visto questo testo non inventa alcuna
forma ludica, ma si limita a portarla su un ambiente digitale sostenuto da un
ingombrante guscio tecnologico che annulla la portabilità e quindi la pratica
ludica del tris. Si tratta allora di Tennis for Two? Ma allora il videogioco si
definirebbe per la sola centralità della forma ludica, a scapito della
componente informatica e interattiva in senso lato che è a tutti gli effetti
preceduta da OXO. Torniamo a Space War, per il ruolo preponderante e
l’originalità dell’interfaccia, focalizzandoci su una traccia enunciativa che
è sintomo ingombrante di una rivendicata autonomia della forma rispetto
alla tecnologia? In questo caso rischieremmo di operare un inverso
determinismo formale-enunciativo a senso unico: l’auto-consapevolezza e
completezza del programma interattivo avrebbe il primato, a scapito di testi
similmente performanti anche senza un’interfaccia dedicata e a tutti gli
effetti storicamente precedenti50. Il momento zero videoludico, quindi, non
è identificabile con un autore e un istante, ma è un’idea da distribuire su
vari attori e momenti del continuum cronologico.
La testualità videoludica, osservata secondo la concezione di
Genette, si presenta anche, sin dalle sue prime manifestazioni, con
oscillazioni costanti tra il piano testuale e quello paratestuale51.
L’applicazione radicale della nozione genettiana di paratesto al gioco
elettronico, anche se indispensabile per pertinentizzare l’oggetto di studio,
senza la dovuta cautela sul piano teorico potrebbe portare a pensare che in
un testo in formato digitale tutta la sua manifestazione debba essere
assegnata alla dimensione paratestuale. Il testo semiotico in esame
consisterebbe allora nel solo livello del linguaggio macchina, nel puro 50 Anche ritenere che il primo, vero videogioco sia Space War per via di ragioni tecnologiche relative al suo hardware processante sarebbe fuori luogo. Le caratteristiche di un computer sono quelle di elaborare: il funzionare a valvole, transistor o microprocessori non definisce diversamente un computer sul piano logico, ma solo su quello delle prestazioni e dell’architettura. 51 Cfr. Genette (1982)
48
codice binario: e questo sistema di notazione astratto verrebbe solo in
seguito “tradotto” per via paratestuale, in quanto il paratesto è proprio tutto
ciò che rende il testo presente, essendo i due “strati” testuali definiti dalla
mente che li separa.
Tuttavia, come ha già notato Maietti, il limite di un ragionamento
genettiano radicale applicato al videogioco appare nel riconoscimento che
“anche situare il testo nei meandri logici di una macchina rappresenterebbe
una semplificazione”, per cui “lo stesso codice binario sarebbe un
rivestimento metaforico a detrimento dell’astrazione della testualità come
pura forma”52. Sul piano metodologico, oltre tutto, una applicazione così
radicale rischierebbe di mettersi in conflitto con il momento applicativo
della teoria: del testo non rimarrebbe nulla. Rimuovendo dal nucleo testuale
tutto ciò che c’è di sostanziale e considerando il rimosso sotto la sola sfera
fluttuante del paratesto, si rischierebbe di disarticolare, pur per la buona
causa della pertinentizzazione dell’oggetto di studio, un’articolazione
testuale in cui questi livelli appaiono così inestricabilmente solidali da
rendere quantomeno problematico il tentativo di reciderli sul piano delle
effettive pratiche ludiche e produttive.
Il medium, insomma, è in parte, ma solo in parte, il messaggio: OXO
è stato sviluppato su un elaboratore a valvole per ri-mediare il Tris; Tennis
for Two sfrutta la sostanza espressiva di un oscilloscopio per ordire un testo
interattivo sceneggiato dietro la suggestione di una partita di tennis;
Spacewar è il prodotto di codice programmato su un mainframe computer,
dotato di un’interfaccia appositamente costruita e di una disambiguazione
paratestuale dedicata a una narrazione fantascientifica. Ciò che i testi
condividono, nel diverso rapporto tra codice, interfaccia e elaborazione
digitale, sono la visualizzazione su schermo, l’interfaccia di controllo, la
natura interattiva sulla matrice di eventi del testo e il sottendere di questa a
le pratiche d’uso fortemente dedicate alla dimensione paratestuale ed
estetica del gioco.
52 cfr. Maietti (2004)
49
Sul piano dell’unità testuale va notato come questa non appaia
separabile, in certi casi, dal paratesto e dall’interfaccia. In alcuni casi le
escrescenze paratestuali e le appendici peritestuali diventano parte
integrante, se non fondativa e discriminante, rispetto alle caratteristiche del
puro codice, e costringono a ripensare contestualmente l’idea del nucleo
testuale videoludico53.
Non si può fare a meno di ricordare, a tal proposito, che l’analisi di
questi testi è debitrice della capacità del codice di migrare oltre i supporti
originali in quanto organizzazione formale: ma al contempo, il deperimento
della tecnologica originale si è posto come ostacolo per il ricercatore. Quasi
tutti i testi videoludici citati in questo capitolo sono oggi giocabili soltanto
grazie al processo di emulazione, ma giochi come OXO, Space War e
Tennis for Two sono anche esempi di come il senso del gioco originario
appaia più che mai saldata al supporto tecnologico. Per ragioni
fondamentalmente storiche e di preservazione degli artefatti originali,
l’emulazione del solo codice, che potrebbe apparire bastevole ai fini
dell’analisi, si sarebbe del resto rivelata incompleta, priva di una
rinsaldatura tra l’emulazione delle forme ludiche e il loro paratesto
originario (valvola, telefono usato come un controller, etc). Le nostre
considerazioni su questi testi, oltre che nell’emulazione degli originali e
nelle analisi di altri ricercatori, trovano del resto uno strumento decisivo
nelle descrizioni e documentazioni storiche54.
2.4 – Dal codice all’entertainment
Il podio del primo videogioco in quanto testo interattivo, come
abbiamo visto, è conteso tra OXO, Tennis for Two e Space War, ma questo
primato appare inquadrabile da prospettive diverse ed è, in definitiva, una
53 Questo appare in accordo con quanto abbiamo sostenuto durante il primo capitolo, parlando della non-utilità di definizioni schematiche della testualità videoludica. Questa è da considerare fluida e rispondente diversamente ai solleciti di sguardi diversi, all’incrocio com’è tra media diversi e specificità con tratti comuni ad ambiti ludici ed espressivi svariati. 54 Tanto il “fantasma” che il “guscio” della storia videoludica sono oggi sottoposti a una opera di recupero storico. Cfr. il progetto MAME su www.mame.net
50
falsa necessità. Rimane tuttavia un ulteriore elemento da esaminare,
decisivo per definire una nuova famiglia di testi, un nuovo medium o una
nuova pratica semiotica. Si tratta del trapianto del gioco elettronico nella
sfera del divertimento pubblico e privato: un fenomeno che è dovuto ad altri
soggetti creativi e tecnici, e che segna l’avvento della prima, vera fase del
videogioco come medium di massa.
Le sperimentazioni di Douglas, Higinbotham e Russell avevano
prodotto le prime, chiare manifestazioni di una forma testuale interattiva
nuova: ma questa forma testuale non aveva mai lasciato i luoghi, fisici
quanto tecnologici, in cui si erano sviluppati i suoi testi. Questo avviene con
Computer Space e Odissey: all’interno del nostro percorso questi giochi,
prima ancora che singoli testi giocabili, sono veri e propri dei progetti di ri-
posizionamento del codice ludico, di innesto del codice su nuove pratiche,
attuati sulla scorta di un lavoro in cui la dimensione paratestuale gioca un
ruolo fondamentale. Sono opere di “demiurghi videoludici” i quali, più che
creare nuove forme testuali, deviano l’uso ludico della tecnologia verso
nuove pratiche, rivendicando per queste una identità nuova e una
dimensione commerciale.
Anche per questi giochi, si tratterà di re-immettere il momento
creativo della scrittura o del progetto enunciativo in un processo che
comprenda la mediazione tra tecnica condivisa e fine individuale. Il gioco-
testo organico, concepito per una pratica e capace di conseguire il successo
commerciale nell’affermarla, è in questo caso Pong, il secondo,
rivoluzionario tentativo di Bushnell.
2.4.1 – Computer Space
Nolan Bushnell, studente di computer science, rimase letteralmente
folgorato nel vedere Space War, la creatura di codice e interruttori di Steve
Russell, girare sul mainframe PDP-1 del MIT. Nottetempo, gli studenti
delle tre università allora dotate della macchina – MIT, Stanford e Utah – si
impadronivano degli elaboratori normalmente appannaggio dei soli
51
insegnanti e ricercatori, e li usavano per la loro vera e propria killer
application: Space War. Il gioco di Russell non era semplicemente
diventato una dimostrazione aggiuntiva dell’hardware per i potenziali
acquirenti in sede accademica, ma un vero fenomeno di culto dell’ambiente
dei giovani programmatori informatici, che lo scaricavano e giocavano
nottetempo utilizzando la rete di elaboratori che in futuro sarebbe diventata
Internet55. Nel 1969, una volta ottenuta la laurea, Nolan Bushnell aveva in
mente soltanto una cosa: riconvertire Space War dalla pratica
semiclandestina dei laboratori notturni delle tre aule dotate di PDP-1 negli
USA, portandolo all’attenzione della gente, dentro la sfera pubblica del
divertimento. E, nel processo, guadagnandone un surplus economico. Al
contrario di Space War, che Russell e soci svilupperanno a partire da una
tecnologia esistente e in parte piegata al nuovo uso, la conversione di
Bushnell avrebbe mosso i suoi passi da una forma ludica già esistente, per
la quale rintracciare una tecnologia che prendesse in carico la ri-
conversione del gioco in un conglomerato di codice e hardware passibile di
una produzione commerciale in scala. Dopo vari tentativi con schermi
multipli e un lavorio tecnologico da garage, Bushnell e l’amico ingegnere
Ted Dabney concepiscono, grazie al supporto ottenuto da parte della
Ampex di Bill Nutting, una macchina dotata di uno schermo dedicato,
incassata in un box dotato di controlli all’altezza giusta: il prototipo del
cabinato arcade. Nolan Bushnell, nel proposito di realizzare una versione
per le arcade del leggendario di Space War, che girava su un computer
mainframe, intuì che avrebbe potuto fare a meno di una CPU, dai costi
allora proibitivi, e utilizzare un più economico design a Transistor-
Transistor Logic. Nel frutto del lavoro di porting, l’output del circuito
deriva da due transistor56 secondo una logica discreta, precedente
all’implementazione di un’unità di calcolo centrale, in cui i processi sono
decentralizzati sotto forma di gate logici disseminati sulla Printed Circuit
55 Cfr. Blasi (1999) 56 Cfr. http://www.webopedia.com/TERM/T/TTL.html
52
Board57. Computer Space, questo il nome del gioco riconvertito, è pronto.
Bushnell ne produce millecinquecento esemplari, effettuando un lavoro di
conversione tecnologica e di programmazione interamente votato a una ri-
contestualizzazione del testo videoludico come prodotto di intrattenimento.
In Computer Space il codice di Space War si salda alla componente
paratestuale di un’interfaccia collocata su un cabinato in fibra di vetro
colorata, dall’estetica avveniristica e dal design elegante. Al progetto di
impiantare il testo ludico su una nuova pratica sociale, il paratesto si
sviluppa in una direzione estetica che trova una compensazione alla povertà
e ambiguità figurativa di formanti a schermo essenziali. Nelle brochure
promozionali, Computer Space è raffigurato con accanto una donna
affascinante, vestita in un abito dallo stile minimale quanto glamour. In
questa nuova configurazione comunicativa, lo sviluppo della presentazione
paratestuale si aggancia a mutamenti nel modo in cui il testo videoludico
viene fruito, e il codice scritto. In primo luogo, Computer Space poteva
funzionare soltanto dopo l’inserimento di una moneta all’interno di uno slot
posto frontalmente sul cabinato. La pratica del video-giocare veniva istituita
dall’enunciazione di Computer Space come una prestazione di
intrattenimento a tempo determinato: esaurito il tempo concesso per
interagire con il gioco, questo si sarebbe fermato fino all’inserimento di una
nuova moneta. In secondo luogo, il testo si articola con un nuovo gradiente
rispetto al potenziale giocatore, secondo una logica non interattiva ma
spettacolare e seduttiva. Se non viene inserito alcun gettone per potervi
interagire, il codice anima sullo schermo dei rudimentali dischi volanti che
volano in formazione, istigando il potenziale giocatore a iniziare una nuova
partita.
Il programma enunciativo di Computer Space prevede la
rielaborazione di un testo esistente, e soprattutto della sua componente
paratestuale e della sua caratterizzazione estetica, per ri-posizionarlo come
nuova pratica. Il videogioco entra così nelle sale giochi, assumendo un
posto come novità in prima fila in una tradizione di congegni 57 Cfr. http://www.webopedia.com/TERM/p/printed_circuit_board.html
53
elettromeccanici e giochi di intrattenimento tipici di spazi di divertimento
pubblico come le fiere, i luna park, le arcade. La conquista da parte del
testo ludico dell’ambiente sociale non avviene per caso: Bushnell è un
giovane studente di informatica che si paga la retta lavorando d’estate come
manager di un parco di divertimenti. Qui assorbe una concezione
dell’intrattenimento che non può non suggerirgli una mediazione tra un
luogo esistente e una nuova pratica. Nutting Associates, la compagnia nella
quale entra in qualità di ingegnere capo per il progetto Computer Space,
produceva quiz elettromeccanici per le sale, che funzionavano con un
meccanismo a risposte multiple. Il codice elaborato nelle aule di
informatica venne così innestato su un guscio comunicativo e seduttivo, e
diventò un dispensatore a tempo di meraviglie tecnologiche. Era quello un
gioco di interazione elettronica che, nonostante la forte identità testuale e il
preludio a un futuro di imprevedibile ramificazione, con tutta probabilità
non veniva percepito dagli avventori come qualcosa di molto diverso
rispetto ai giochi tradizionali delle arcade dell’epoca. Computer Space,
tuttavia, fallì: non diventò il mostro mangia-gettoni che Bushnell sognava, e
non entusiasmò i giocatori sotto il profilo interattivo. Il motivo risiede
prevalentemente in una implementazione poco accorta dei comandi di
gioco. L’interfaccia, infatti, era eccessivamente complessa: quattro bottoni,
un tasto per accelerare e uno per sparare e la rotazione della navicella si
presentavano richiedendo un investimento temporale eccessivo per essere
padroneggiati, specialmente in vista del periodo limitato di gioco consentito
dal gettone. Computer Space era un ottimo clone di Space War e un
progetto estetico ed economico per l’epoca pionieristico, ma l’aspetto
ingegneristico di implementazione dell’interfaccia che aveva spinto Russell
e soci ad approntare i primi controller a cloche era stato dimenticato. Una
nuova pratica ludica per lo stesso gioco richiedeva anche una interfaccia
migliore, nuova, diversa. Quella, per esempio, che sarebbe stata di Pong.
2.4.2 – Baer e gli Home TV Games
54
Come Steve Russell, Ralph Baer era stato folgorato dal primo videogioco
che avesse mai visto: nel suo caso, il fulmine era Tennis for Two. Baer era
un tecnico radio tedesco specializzatosi in Ingegneria Televisiva in
America. Durante una visita al Brookhaven National Laboratory, rimase
particolarmente colpito dal lavoro di William Higinbotham: dalla
prospettiva del suo contesto professionale, infatti, aveva da tempo
accarezzato l’idea di utilizzi interattivi della tecnologia televisiva per
sfruttarne le potenzialità e il bacino di utenza.
Le sue idee sul trasformare un medium “passivo” come la televisione
in uno più interattivo risalgono al suo lavoro su un nuovo ricevitore
televisivo per la Loral Electronics, che non suscitano entusiasmi. Assumono
una forma compiuta solo del 1967, anno in cui Baer porta a compimento il
primo stadio del suo progetto, dal titolo di Home TV Games. Sfruttando i
mezzi tecnologici a disposizione in quanto Capo Ingegnere della Sanders
Electronics e servendosi della collaborazione di tecnici come Robert
Tremblay e Bob Solomon, Baer riesce a muovere un punto bianco su
schermo nero con un prototipo a transistor. Quel prototipo sarebbe
diventato il primo apparecchio concepito per collegarsi ai televisori e
portare il gioco elettronico nelle case degli utenti: la prima console.
Mentre sviluppa il prototipo dell’hardware, Baer si occupa in
parallelo della prima applicazione ludica che dovrà girare su quel sistema,
realizzando una versione di Tennis for Two identica in tutto e per tutto, ma
in cui il movimento del simulacro della pallina appare perfezionato. La
prima versione della futura console destinata al pubblico sarebbe chiamata
“the brown box”. Su questa, Baer e collaboratori realizzano varianti dello
stesso gioco di base che differiscono in termini minimali sul piano dei
formanti figurativi, e i cui diversi titoli suggeriscono temi sportivi
differenti: esaltando per la prima volta nella storia la tendenza, poi tipica del
videogioco delle origini, a essere testualizzato secondo una logica figurativa
in cui è la scarsa sofisticazione dei formanti figurativi a schermo viene
integrata da un lavoro di disambiguamento di natura eminentemente
55
paratestuale. Baer e soci realizzano persino la prima pistola a puntamento
luminoso dello schermo, con la quale interagire con i giochi.
L’aspetto più rilevante del lavoro di Baer, Tremblay e Solomon, in
realtà, non consiste soltanto nell’applicazione e innovazione tecnologica, in
accordo alla quale il videogioco era impiantato su un piccolo elaboratore a
transistor e concepito per essere collegato a un comune televisore invece
che risiedere nel guscio di un ingombrante mainframe. L’adattamento del
videogioco al televisore era importante soprattutto perché rientrava nella
logica di istituire una nuova pratica per il videogioco, immettendolo nella
sfera commerciale del divertimento e trapiantandone il potenziale ludico
dalle aule isolate degli specialisti di informatica ai salotti di tutto il
pubblico.
Nel 1968, una volta perfezionato il prototipo, Sanders registra il
brevetto dell’apparecchio messo a punto da Baer. Con questa mossa, Baer e
Sanders marcano un’importante punto di passaggio nella definizione del
mezzo videoludico, gettando le basi per una parziale ridefinizione della sua
pratica. Se la tecnologia e il codice giocabile vengono brevettati e
riconosciuti come frutto del lavoro creativo di un’azienda o di un individuo,
infatti, si ha l’avvio di un processo di definizione del testo secondo una
logica autoriale, creativa, che non ha più a che vedere con la mera
applicazione della tecnica ma anche con uno o più soggetti, con il prodotto
di un lavoro riconoscibile e univocamente attribuibile. Anche senza aura di
artisticità, si da il ruolo del soggetto: e il brevetto è un po’ per il tecnico il
marchio di autorialità del cosiddetto “artista”. Dopo trattative con
TelePrompter e RCA, Baer entra in trattativa con Magnavox, una divisione
della Philips, dando inizio a un’operazione che si concluderà, nel 1972, con
il lancio della prima console collegabile al televisore da parte del colosso
dell’elettronica: la Odissey, una macchina in cui nome, codice e hardware
coincidono in un solo progetto testuale58. La caratteristica che differenzia
Odissey dalle forme precedentemente assunte del testo videoludico è che
58 Come fa notare Bittanti, è con il VES che si attua una decisa radicalizzazione della distinzione tra hardware e software. Cfr. Bittanti (1999)
56
l’apparecchio, che ospita il codice della versione rimaneggiata del gioco di
Higinbotham, può collegarsi direttamente al televisore per offrire ai
giocatori una sfida alla novità tecnologica nella propria casa. La tecnologia,
tuttavia, non può che mettere su schermo dei formanti assai essenziali, ne
esiste la possibilità di un rivestimento paratestuale come nel caso del
cabinato di Computer Space. La soluzione escogitata da Baer è quella di
offrire non solo titoli diversi per le diverse modalità di gioco, così da
sfruttare le minimali variazioni a schermo per suggerire contesti figurativi
differenti, ma anche dei fogli di plastica colorata, inseriti nella confezione e
applicabili sullo schermo del televisore. L’apparecchio non può neppure
elaborare il punteggio della partita, di conseguenza il set di gioco include,
un po’ come in un gioco da tavolo, l’occorrente per segnare l’andamento
della partita, e in aggiunta dei dadi, delle fiches e un mazzo di carte.
Il distinguo tra l’opera di Higinbotham e quella di Baer, a guardar
bene, appare ben più macroscopico da una prospettiva enunciazionali o
“autoriale” che non tecnologica. Higinbotham e il suo collega Potter, un
appassionato di flipper, non brevettano mai la loro “invenzione”, perchè
questa per loro non rappresenta altro che un’applicazione ludico-
pedagogica dell’hardware, concepita per divertire i visitatori del
laboratorio. Higinbotham ha sostenuto di non aver mai brevettato il
videogioco perché non vi vedeva alcuna ragione, in quanto convinto di non
avere inventato nulla di nuovo. La forma testuale, però, che agli occhi di
Higinbotham e Potter non esiste come “artefatto” se non in maniera non
dissimile da un progetto di edutainment tecnologico per un museo
interattivo, sembrò a Baer una vera e propria nuova opportunità, una forma
espressiva la cui realizzazione può essere frutto di un lavoro tecnologico
quanto creativo e fonte di guadagno commerciale.
Questa bivalenza enunciativa del medesimo testo in quanto forma
ludica tecnologicamente fondata, che conduce il problema della definizione
di un nuovo mezzo espressivo e comunicativo a doversi riallacciare alla
nozione di pratica, ha una conferma ulteriore in un aneddoto significativo.
Anni dopo, Higinbotham sarebbe stato portato in tribunale in qualità di
57
testimone da alcuni rappresentanti di Nintendo. Nel 1982 quest’ultima era
decisa a dimostrare, per evitare di pagare dei diritti alla Sanders and
Associates di Baer, che i videogiochi fossero stati inventati ben prima, e che
la loro paternità spettasse a Higinbotham. Nintendo perse la causa.
Il progetto Odissey, nel frattempo, non riuscì ad imporre un nuovo
modo di video-giocare, nonostante un battage pubblicitario non indifferente
e la buona realizzazione del prodotto. Scelte poco accorte in sede di
marketing e di produzione industriale impressero una presentazione da
costoso gingillo per appassionati di tecnologia. L’enunciazione “autoriale”
di Baer, riconosciuto come il padre dei videogiochi già nel 1973 in una
conferenza ideata da Gametronics e prolifico quanto scaltro creatore di oltre
centocinquanta brevetti depositati, era stata malamente concertata dalla
compagnia. La console veniva messa in vendita solo nei centri Magnavox,
mentre l’epitesto pubblicitario dava ad intendere che il gioco si potesse
utilizzare solo con i televisori di questa marca: questo confliggeva
pesantemente con la principale caratteristica del programma d’uso, che era
quella di consentire all’apparecchio di collegarsi a qualsiasi televisore.
2.4.3 - Pong
Pong, il gioco successivo della compagnia di Bushnell, dimostrò che la
lezione riguardante l’importanza dell’interfaccia era stata imparata. Invece
di proporre un’altra versione di Space War, Bushnell si concentrò a sua
volta sul modello di Tennis for Two e sul remake di Baer per la Odissey, su
proposta del suo collaboratore Harold Lee. Il controllo di Pong sarebbe
stato notevolmente migliorato: le funzioni di spostamento della racchetta e
dello spostamento della pallina, che erano separate nel controller di
Odissey, furono accorpate in un sistema di controllo decisamente più
immediato, che trasmetteva una sensazione di maggiore verosimiglianza del
rapporto tra il movimento delle mani e lo sport tematizzato. Non il tennis,
ma il Ping Pong, era il tema a cui Pong prestava la sua metafora figurativa,
rinunciando alle dodici varianti figurative e ai relativi arredi paratestuali di
58
Odissey. Pong, rispetto a Odissey, beneficiava di una tecnologia più
avanzata: invece di utilizzare decine di transistor, ricorreva a un unico
microprocessore. Come risultato, si aveva una maggiore snellezza
dell’hardware, un controllo più preciso dell’interfaccia, la possibilità di
visualizzare grafica a colori sui televisori. Il discorso su Pong riporta in
primo piano l’importanza della base tecnologica per l’enunciazione
videoludica: la tecnologia, pur non fondando in maniera determinante la
pratica e la testualità delle istanze videoludiche, rimane una componente
fondamentale del mezzo, ben più legato a una base di continua evoluzione
delle possibilità tecniche che non all’idea di un uso prettamente espressivo-
autoriale delle stesse.
2.5 – Dalla creazione al bricolage
Ognuno dei progetti esposti corrisponde alla diversa progettualità di
più attori che, assistendo alla nascita del videogioco come forma testuale
scaturita dalla sperimentazione informatica, tentano strade diverse per
innestarlo su nuove pratiche e di trapiantarlo in modalità di consumo
distinte e precise. Così, il lavoro principale dell’opera di Baer, Bushnell e
collaboratori non è tanto quello sul codice e sulla programmazione, quanto
la rielaborazione di una formula hardware e una presentazione che rendano
possibile la migrazione del testo videoludico in nuovi contesti. Più che
sotto il profilo testuale, dunque, è sotto quello enunciativo che Odissey e
Computer Space si presentano come prodotti sperimentali e storicamente
fondamentali, anche se non privi di aspetti lacunosi. La nostra
considerazione del testo videoludico è allora costretta a spostarsi
nuovamente dal nucleo del codice alla tecnologia, all’interfaccia e alla
componente estetica e paratestuale.
L’enunciazione di Computer Space si concentra su paratesto e
presentazione estetica, ma trascura un aspetto ingegneristico che tradisce la
maggiore ossessione sul piano del commercio che su quello del design:
l’usabilità dell’interfaccia. Le interfacce videoludiche assumono al massimo
59
grado la valenza fondamentale del trasporto dell’utente dentro un mondo
altro da controllare: quello, appunto, di un gioco. È attraverso l’interfaccia,
infatti, che i confini tra schermo e realtà fisica tendono a sfumare,
consentendo l’illusione partecipativa al gioco. Computer Space sbaglia
giocatore modello e fornisce al giocatore reale un’interfaccia
eccessivamente ingombrante, incapace di svolgere il suo compito senza
scomparire adeguatamente per consentire all’illusione di compresenza tra
testo e giocatore di occupare interamente il piano interattivo.
Nel caso di Odissey, la rielaborazione del medesimo codice di
Tennis for Two avviene con il suggerimento, attuato in larga parte per
mezzi esterni alla rappresentazione su schermo, di nuove sceneggiature
funzionali sul tema della ri-mediazione sportiva. Le minimali modifiche
della grafica a schermo devono moltissimo alla componente extra-codice
del paratesto pubblicitario, del titolo delle varianti di gioco, degli arredi da
applicare allo schermo, funzionali al trapianto della pratica ludica nel
contesto domestico. Tuttavia, anche se l’enunciazione di Odissey produce
un testo interattivamente felice ed esteticamente accattivante quanto
coraggiosa, il prodotto sconta condizioni di produzione industriale e lavoro
di marketing che falliscono nell’attualizzare sul piano concreatamene
commerciale la potenzialità del prodotto.
In entrambi i casi è comunque il paratesto a sopperire a una
presentazione estetica in vista del ricollocamento nelle sceneggiature
funzionali alle quali alludere nella pratica di gioco. Codici che erano gia
strutturalmente sviluppati, quelli di Tennis for Two e Space War, vengono
ora dotati di una piu coesa patina paratestuale, che connota esteticamente e
completa il progetto testuale. Nel caso di Computer Space, in particolare, la
connotazione paratestuale del cabinato suggerisce il tema e la natura
estetica e sensoriale dell’interazione, spostando il gioco verso una
fascinazione tecnologica cool e avveniristica.
Il paratesto lavora anche in Pong, ma nel secondo progetto di
Bushnell il maggiore successo non deriva che in parte dal corredo
paratestuale: più che altro, dal fatto che il gioco si presenti come un tout di
60
signification privo delle manchevolezze strutturali e degli errori di
presentazione di Space War e Tennis for Two rispettivamente. Pong è un
unicum, compiuto e riuscito, di giocabilità, presentazione e
commerciabilità. La tecnologia più sofisticata, inoltre, determina la
superiorità del programma d’uso dell’interfaccia e una presentazione
grafica più ricca rispetto a quelle di Odissey.
Il ruolo esteticamente centrale del paratesto nella definizione
tematica complessiva in presenza di una visualizzazione a schermo
poverissima non è da sottovalutare. Anche Pong, del resto, genererà con il
suo successo una vasta serie di progetti paralleli e prodotti derivati, per non
parlare della miriade di imitazioni e cloni che fonderanno la propria unicità
e novità su modifiche quasi sempre irrilevanti del codice e della struttura
interattiva, ricorrendo in prima battuta a processi di ri-figurativizzazione del
tema dell’interazione attraverso l’usuale metodo della copertina, del titolo e
dei formanti estetici paratestuali.
Pochi fenomeni possono quindi gettare luce sulla complessità e
difficoltà nell’accettare sbrigativamente il concetto di autore per il
videogioco quanto la costante opera di riciclaggio, clonazione, uso ed abuso
della tecnologia, della tecnica di programmazione, dei temi figurali che
concorrono nella frastagliata natura testuale del videogioco delle origini e
sono registrate nella storia di questo periodo storico dell’informatica. In
questo contesto le corse al brevetto, le cause legali e l’ansia da innovazione
e imitazione sono sintomatiche di un lavorio collettivo sulla formazione e
ridefinizione delle forme espressive e ludiche consentite dal progresso
tecnologico. Gli attori creano ben poco e rimaneggiano come bricoleur gli
elementi in gioco, muovendosi con urgenze, competenze e finalità
differenti.
2.6 - L’Adamo videoludico
Siamo giunti a una provvisoria certezza analitica, alla conferma dell’ipotesi
di partenza: la determinazione del primo videogioco, come quella del primo
61
inventore del videogioco, è un fine ideale, euristico, che è utile per la
ricerca nella misura in cui spinga a sciogliere la complessità delle proprietà
testuali che caratterizzano il primo videogioco e le finalità e proprietà delle
enunciazioni prodotte dagli attori in gioco; ma diventerebbe un falso
imperativo, un obiettivo di analisi illogico se dovesse essere condotto
secondo una logica unilateralmente attenta al dato tecnologico, testuale o
persino delle pratiche.
Il discorso sulla pratica videoludica genera a sua volta problemi.
Bisogna infatti distinguere la potenzialità di un singolo testo di presupporre
una pratica ludica e interattiva dalla effettiva trasformazione della sua
istanza testuale in una vera e propria pratica condivisa. È necessario che
questa pratica d’uso divenga collettiva, condivisa e di successo scaturendo
da un testo giocabile informatico, o questa può rimanere una potenzialità
storicamente inespressa ma di fatto iscritta e presupposta nel testo? Si
impone la domanda riguardante la competenza testuale delle comunità di
soggetti che insieme danno corpo a un nuovo medium. Se la differenza in
termini testuali tra Tennis for Two, Odissey e Pong non è affatto così
evidente quanto la sua migrazione su configurazioni tecnologiche e
paratestuali tali da sottendere usi diversi, a quali tra i creatori di questi testi
delle origini dovremmo essere propensi ad assegnare la paternità del
videogioco come medium piuttosto che come singolo testo?
In alcuni casi, a questi programmatori non interessava l’applicazione
delle loro sperimentazioni. I videogiochi sono inestricabilmente legati alla
storia dell'informatica al paradigma evolutivo dei calcolatori elettronici, e al
perfezionamento del software che gira sull’hardware. L’atteggiamento degli
utilizzatori tecnici degli elaboratori era in genere (ed è ancora oggi) quello
di spingere l'hardware al suo limite, e di perfezionare un software fino a che
questo non rasentava la perfezione nella scrittura. I videogiochi hanno
spesso portato al limite questo spirito, rappresentando la costante officina di
rodaggio più estrema dell’avanzamento della tecnologia.
Non vi è, dunque, un problema di natura per così dire formale, che
interessa la novità della forma di gioco o l’uso della tecnologia, ma relativo
62
allo spostamento dei criteri di attribuzione di paternità del primo videogioco
dal piano della manipolazione della tecnologia a quello della intenzionalità
e/o consapevolezza enunciazionali rispetto alla nuova forma testuale. Anche
così, il fatto che Baer e Bushnell abbiano tentato di impiantare il videogioco
su una nuova pratica intesa dal punto di vista del contesto di fruizione e
della presentazione estetica non deve essere confuso con la capacità del
testo videoludico di esserne alla base, dal potenziale del testo di creare le
condizioni per una serie di proprie interpretazioni o persino per il suo abuso
interpretativo. Il primato di una nuova pratica ludica andrebbe ancora una
volta assegnato a Space War e Tennis for Two. Il gioco di Higinbotham
potrà essere stato testualizzato senza che l’autore pensasse a un brevetto,
senza che ritenesse originale l’esperimento, e senza che intendesse far
pagare un pubblico di avventori per farlo giocare: ma, esposto, funzionava,
e i ragazzi che ogni settimana visitavano il Brookhaven Lab con le proprie
classi risultavano più affascinati da questa sperimentazione laterale priva di
progetto che non dai macchinari altamente funzionali ai progetti del
laboratorio. Lo stesso discorso è valido per Space War, che Russell e gli
altri ragazzi del MIT sviluppano senza la minima ambizione commerciale o
pretesa di farlo piacere al di fuori della cerchia degli appassionati, mentre il
gioco sarebbe presto diventato un fenomeno cult dell’ambiente informatico
dell’epoca, istituendo la pratica del multiplayer locale come quella del
gioco da scaricare [immagine 4]. Come se tutto ciò non bastasse c’è altro a
gravare sulle pretese di paternità del videogioco di Computer Space e
Odissey: nel tentare di innestare queste forme testuali in nuovi contesti,
questi progetti commettono errori proprio rispetto alla componente
originale del progetto di smerciabilità nelle case (Odissey), oppure riescono
a inficiare l’aspetto interattivo del videogioco, sbilanciando l’enunciazione
sul corredo paratestuale per la sfera pubblica (Computer Space).
Se si definisce il videogioco con le pratiche ludiche condivise a cui
ci si riferisce con quel termine, in cui i giocatori interagiscono e negoziano
la significazione, o nelle quali un tipo di testualità diventa un modello
paradigmatico su cui si fondano quelle a venire, il brevetto di Baer o il
63
successo di Bushnell nel portare i videogiochi nelle sale e nel vendere Pong
per le case possono diventare prove a sostegno da non ignorare; mentre
Computer Space e Odissey, che hanno l’intenzionalità progettuale ma
falliscono il loro obiettivo di creare nuovi modi di giocare, hanno
comunque il primato nel tentativo di gettarne le basi.
Catena59 fa notare, d’altro canto, come un approccio che assegni il
primato del mezzo videoludico a Baer e al suo tentativo di portare il
videogioco nelle case, pur esponendosi come l’ipotesi della derivazione dai
laboratori informatici alla paventata accusa di determinismo tecnologico (lì
il televisore, qui il mainframe), si presenti come un approccio “collettivista”
al mezzo “intriso di un determinismo tutto sommato perdonabile”. Il motivo
sarebbe per questa sua attenzione dichiarata al pubblico televisivo e per il
legame stretto con la logica del commercio”, in quanto la percezione della
figura del programmatore “è stata per anni […] qualcosa di
spersonalizzante, artificiale e al tempo stesso artificioso, lontana dalle
esigenze della gente”, cosa che non può certo dirsi della “immediatezza e
della chiarezza ontologica della cara vecchia televisione, emblema per
eccellenza della tecnologia democratica, posseduta e utilizzata da milioni di
americani già a metà degli anni Cinquanta”60.
Resta il fatto che una concezione del videogioco sotto la specie di un
mezzo di comunicazione è solo uno dei modi per avvicinarlo analiticamente
e, sicuramente, non quello ideale. Quella del videogioco è infatti una
famiglia testuale dagli esiti ibridi e versatili, che non pretende di sostituirsi
ai mezzi tecnologici o espressivi di comunicazione e neppure alle loro
pratiche, ma si innesta costantemente, su vari livelli, a ciò che gli preesiste
in termini di interattività, estetica, significazione, rapporto pragmatico con
il giocatore. Spostarsi sul discorso della pratica videoludica, leggendovi il
momento di condivisione di un mezzo di comunicazione nuovo, ha allora il
vantaggio di escludere quello tecnologico, ricordando che è l’uso della
59 Cfr. Catena, M., Dall’etica hacker ai Massive Multiplayer Online Games. Ipercomunicazione nella società delle reti., Tesi di Laurea in Semiotica dei Nuovi Media, A.A. 2004-2005 60 cfr. Catena, cit.
64
tecnologia a rendersi significativo e non un suo preesistere alla pratica, ma
presenta i suoi limiti nello spiegare le istanze dei singoli testi61.
La nostra assegnazione della medaglia di “primo videogioco”
dipenderà allora da quali saranno le priorità dell’analisi. Il vantaggio di una
prospettiva semiotica è proprio quello che deriva dalla capacità degli
strumenti della disciplina di non negare il ruolo della tecnologia nel fondare
il testo digitale e, al contempo, ragionare sul suo livello testuale senza
sacrificare il discorso sulla pratica a cui sottende. Questi tre sguardi non
devono essere intesi come momenti stagni o come punti di un percorso
cronologico, ma come punti di vista complementari dai quali affrontare i
testi, interrogandone la complessità semiotica.
In ogni caso, riflessione sulla dimensione commerciale del gioco
elettronico. I tentativi di Baer e Bushnell non sono, sotto questa prospettiva,
che la prima serie di eventi che prelude alla svolta industriale del
videogioco, la quale si presenterà come natura fondativa, da quel momento
in poi, per la comprensione dell’enunciazione videoludica. Diramare il
problema dell’autore rispetto all’orizzonte commerciale costituisce
l’imperativo analitico prioritario per un approccio al gioco digitale che
voglia spiegarne l’aspetto industriale quanto il potenziale espressivo,
riflettere sulle sue condizioni di produzione e fruizione e sulla dimensione
pragmatica e comunicativa del processo enunciativo rispetto al gioco come
testo che semplicemente “si da” come esito della programmazione-
sperimentazione o della pura fantasia creatrice dell’utilizzatore della
tecnologia.
2.7 - L’enunciazione tra immanentismo e apertura alla prassi convidivisa
Abbiamo tentato di mettere in luce i limiti della azzardata impresa di
rintracciare il primo videogioco mai creato conducendo la ricerca secondo
una prospettiva esclusivamente tecnologica, radicalmente testualista o
incline al rischio di scambiare una nuova pratica condivisa con le effettive 61 cfr. Cosenza (2004)
65
istanze comunicative del determinato testo videoludico. È tempo di
occuparci del modo in cui intendiamo servirci dell’enunciazione per
spiegare il rapporto tra soggetto e istanza del testo.
La nozione dell'enunciazione in senso strutturalista è stata guidata
dal principio di immanenza del testo, che si è rivelato centrale perché la
disciplina semiotica si costituisse secondo una episteme fortemente
riconoscibile. Evitando di uscire dalle strategie testuali istituite dal testo, e
affondando nella struttura profonda di questo, una certa semiotica
strutturalista ha scansato le possibili derive di una prospettiva analitica
psico-sociale. Da un lato, un contesto impressionisticamente descritto, che
si sostituisce alle istanze profonde di significazione a detrimento di una
comprensione scientifica elegante e dotata di un eventuale momento
prescrittivo. Dall’altro, il criterio della psicologia dell’autore, che istituisce
una presunta frattura tra il “comune sentire” e quello di un “autore”,
nascondendo nei fumi di questo sentire i veri processi di senso in atto nei
testi e nel momento pragmatico. La psicologia dell’autore istituisce una
frattura concettualmente non diversa da quella romantica tra il genio e
l’orizzonte comune, focalizza sul “sentire” dell’autore: ma non è nella
psicologia, quanto nell’utilizzo del mezzo e nelle isotopie tematiche,
figurali e stilistiche che va eventualmente trovata la cosiddetta “cifra” di un
autore62.
Rifacendoci a una posizione classica sull’enunciazione, quella della
cosiddetta Scuola di Parigi, abbiamo ritenuto l’enunciatore un mero
soggetto logico, una posizione enunciativa ricostruibile a partire dalle tracce
dell'enunciato e rintracciabile nella cosiddetta enunciazione enunciata.
L’enunciazione come istanza di mediazione e conversione essenziale tra
strutture profonde virtuali e strutture superficiali è quindi accettata come
premessa insostituibile di questo lavoro63.
62 La questione dello psicologismo nella nozione autoriale ritornerà evidente nel momento in cui ci interesseremo all’autore nel cinema. Cfr. Cap. 4. 63 Sull’enunciazione cfr. Floch, J. M., “Concetti della semiotica generale”, ora in Fabbri/Marrone (1999); e Pozzato (2001).
66
Tuttavia, una simile prospettiva non sarebbe bastata ai nostri fini,
perché il principio di immanenza nel testo ci avrebbe costretto a non
poterne fuoriuscire per indagare sulla genealogia tecnica e sulla cultura
condivisa che, oltre a essere rintracciabili nel testo, sono alla base della sua
capacità di testualizzarsi così come lo percepiamo in quanto dotato di
un’unità di senso. Per questo motivo abbiamo tentato di adottare una
metodologia attenta al concetto di prassi enunciativa introdotta da Greimas-
Fontanille: questa concezione del momento enunciativo riprende il concetto
hjelmsleviano di uso e, senza negare minimamente il precetto di immanenza
del testo, considera appunto le pratiche in cui si sedimentano le strutture
significanti depositate nelle enciclopedie delle comunità semiosiche.
L’enunciazione come attualizzazione delle virtualità, secondo questa
accezione, è anche una enunciazione di come le virtualità vengono
ricondotte al loro debito nei confronti della cultura condivisa: ed è uno
strumento fondamentale, che sarebbe possibile accompagnare, criticamente
e con accortezza, all’interno di un paradigma di tipo fenomenologico o
gombrichiano, volto a sottolineare la continuità tecnica e del sapere nel
campo espressivo, per rischiarare così la portata dell’enciclopedia condivisa
degli artisti.
Seguire questa nozione di enunciazione e passeggiare sui territori
rischiosi in cui la parole ribolle e si va saldando con la langue corrisponde
alla domanda di un progetto sociosemiotico. Ma questo atteggiamento
metodologico, attuato senza ansia descrittiva e con la dovuta cautela
analitica, non si espone affatto al rischio di rientrare in una pragmatica
reale, o di sconfinare drammaticamente in una sociologia della ricezione. Se
non si può credere che il progetto semiotico debba trasformarsi
immediatamente in una socio-semiotica, non si può credere neppure che
questo progetto condiviso negli anni si cristallizzi e non lo faccia mai, e non
arrivi mai a interrogarsi sulle stesse condizioni di cultura condivisa su cui si
forma, che a loro volta vivono e migrano tra persone reali. È forse, allora,
paradossale che una visione radicalizzata del precetto greimasiano per cui
“fuor dal testo non v’è salvezza” possa essere usata per negare il soggetto e
67
i soggetti che l’hanno fondata e applicata proprio rimaneggiando e
innestando sulla cultura esistente, e applicando a questo momento analitico
il proprio nome. Ma sarebbe anche improduttivo se questa massima venisse
cristallizzata e rallentasse l’applicazione dell’analisi semiotica sulla cultura
nel modo complesso e profondo in cui essa viene condivisa, negoziata,
creata, fatta funzionare da, tra, per soggetti. Non si capirebbe allora
l’atteggiamento di chi volesse utilizzare questo strumento in maniera
normativa, più come una gabbia in cui imbrigliare il testo che, appunto, un
valido strumento. Nel caso della nostra analisi, senza lo strumento/nozione
enunciativa greimasiana salda in mente avremmo confuso tutto a proposito
del testo videoludico primigenio, cedendo al richiamo di un descrittivismo
storico, del semplicismo analitico e della romanticistica creazione di un
improbabile unico inventore del videogioco. Tuttavia, senza integrare la
forma mentis che deriva dall’applicazione di questo strumento
fondamentale con quella che discende da un uso socio-semiotico dello
stesso, non saremmo riusciti a capire come quei diversi testi videoludici
presi in esame funzionassero, e neppure come si fossero formati come
forme testuali in quanto il lavorio tecnico, semiotico, culturale del periodo
non è estirpabile dagli attori in gioco, anche se essi non “funzionano” nel
testo in quanto se stessi ma sono il presupposto creativo dell’istanza
enunciativa. Al creazionismo videoludico in senso psicologico, allora,
scansato con gli strumenti della semiotica, si sarebbe forse sostituito un
creazionismo tutto semiotico, in cui il testo si da come dato e non v’è
salvezza, ma senza la spiegazione di come esso sia arrivato a comandarci.
Quello che i testi, la loro derivazione tecnologica e la loro pratica
condivisa hanno dimostrato è la necessità centrale di una nozione
dell’enunciazione più allargata e aggiornata possibile, capace di arginare la
tendenza testualmente centrifuga dei testi ludici elettronici e la non
uniformità del modo in cui vengono giocati. Una nozione aggiornata di
enunciazione potrebbe anche rischiarare il ruolo dei veri attori in gioco, che
rientrano in un discorso storico e largamente extra-semiotico ma non
dovrebbero essere totalmente eliminati nel corso dell’analisi testuale. In
68
questo lavoro, questa necessità di correlazione tra istanze testuali e soggetti
appare obbligata dalle premesse operative e dagli obiettivi scelti.
Anche se l’enunciazione deve essere usata come un’astrazione
analitica, non è affatto escluso, ed è anzi probabilmente fondamentale, che
questa astrazione possa operare a beneficio del rischiaramento del rapporto
tra la situazione enunciativa prodotta a partire dal testo e i veri attori in
gioco che hanno determinato o influenzato quest’istanza. Cambiare la
direzione di marcia, saltando dal processo agli attori e dagli attori al
processo così come si osserva nelle istanze del testo, insomma, è in fondo
una pratica giustificabile in questo preciso lavoro sulle origini di testi
tecnologici interattivi che nascono da un contesto umano e professionale
complesso. Oltretutto, questo modus operandi potrebbe rivelarsi un metodo
che spiega finalmente tanto come i testi producono effettivamente senso
quanto il modo in cui soggetti umani concreti hanno lavorato perché un
senso apparisse come lo intendevano. Il momento sincronico della
semiotica potrebbe così risultare fondamentale anche una volta trasferitisi
su un piano storico ed extra-testuale, fornendo al contempo ulteriore
smentita rispetto a certi pregiudizi sulle accuse di presunta, eccessiva
astrazione e schematismo della disciplina.
Il ruolo dei reali soggetti umani, d’altronde, è in fondo ineliminabile
nel contesto in cui l’abbiamo osservato anche per una comprensione
profonda dei testi che abbiamo preso in esame. Operatori tecnologici,
espressivi e commerciali come Douglas, Higinbotham, Russell, Bushnell o
Baer hanno fatto passeggiate inferenziali sulle possibilità della tecnica, dei
testi, della figuratività di quei testi, vedendoli come momenti di un processo
di formazione di una nuova testualità e “leggendo” in ognuno di questi non
solo una tappa conclusa, ma la possibilità ancora da realizzare di una nuova
direzione, da imprimere a proprio nome e vantaggio. Parlando nei termini
dei programmi narrativi d’uso, è chiaro come essi abbiano scorto nuovi
territori o applicazioni testuali nel divenire della forma videoludica,
offrendo il loro contributo a una causa che, persino loro malgrado, appare
69
una strada comune64.
Una visione ampia dell’enunciazione, applicata non solo nel senso di
un paradigma linguistico ma alla cultura condivisa rilevante per i tesi
esaminati, può dimostrare come l’autore non sia anche qui, a sua volta, che
un “giocatore”, un operatore di parole che innesta per primo una “mossa”
inedita (ludica, strategica internamente al gioco collettivo, e non certo
psicologica o intuizionista) nell’orizzonte condiviso della langue: in questo
caso, una langue tutta tecnologica.
2.8 - L’autore tra creazionismo ludico e tessuto sociosemiotico
Nel correlare la questione dell’autore a quella del primo videogioco
abbiamo dovuto fare ingresso nel problema delle origini di questa forma
testuale, rischiando di perdere il filo del nostro obiettivo nel labirinto della
questione tecno-ludica e dell’enunciazione. Ne sarà valsa la pena se,
mettendo in luce i processi originari di testualizzazione dei videogiochi,
saremo riusciti a creare una base metodologica e teorica sulla quale piantare
i piedi in saldo e, finalmente, muovere i primi passi per fondare
sensatamente l’interrogativo sull’inventore/autore.
La prima conclusione è relativa alla sola questione dell’inventore del
videogioco, che corrisponde largamente ma non può essere facilmente
identificata con la questione più generale dell’autore. L’inventore del
videogioco non esiste: esiste solo la varietà di forme testuali a cui ci
riferiamo con il termine videogioco e l’insieme dei soggetti che insieme,
nella varietà di ruoli, le producono e consumano. Ciascuno dei tecnici e
creativi che hanno più o meno intenzionalmente plasmato questi particolari
testi videoludici e l’idea generale che abbiamo di essi non può vantare
alcuna paternità di natura semiotica sul videogioco. Tuttavia, ciascuno di
questi soggetti, nessuno escluso (e anzi bisognerebbe integrare la lista),
64 I programmi d’uso possano essere considerati, almeno in questi casi, come configurazioni discorsive potenziali, intessute su sostanze espressive che sono subordinate a sistemi logici, i quali costituiscono e delimitano ambienti di interazione e pratiche d’uso: e questi operatori della testualità videoludica ne hanno costantemente esplorato i confini, aprendo a nuovi territori. Cfr. http://www.ocula.it/college/txt/carbone/manine_paffutelle.pdf
70
contribuisce all’invenzione del videogioco come “nuova” forma testuale o
pratica di gioco. Lavorando su sostanze e tecnologie differenti con finalità
di volta in volta ben distinte, tutti insieme formano un soggetto ideale,
situato in cima all’orizzonte condiviso di una data cultura, in questo caso
informatica: capacità e scopi diversi generano forme ludiche dai confini,
appendici, pratiche plurimi.
Siamo costretti a negare il concetto forte di autore, e pensare a un
rapporto non univoco tra tecnologia ed espressione, a intrecci inusuali tra
tecnici, designer, ingegneri, esteti, visionari delle forme ludiche, affaristi
dal fiuto lungo e dalla tecnica corta. È necessario ricorrere a una nozione
dell’autore meno normativa e più elastica, intesa nel senso di crocevia
tecnico-stilistico, in accordo con il modo di pensare di Gombrich, che
considera l’attività artistica sotto il profilo caratterizzante del discorso
espressivo come tecnicamente condiviso ai fini dell’uomo, e mette sempre
in priorità il discorso intorno al consumo collettivo e alla continuità dei
mezzi rispetto al momento in cui la cosiddetta riflessione dell’arte incorpora
all’aspetto tecnico anche un momento autoriflessivo più o meno ossessivo
rispetto all’idea del suo creatore65.
L’autorialità, d’altronde, anche sotto questa specie, è più che mai un
costrutto spesso fatto a posteriori, non emergente dalla coscienza del
soggetto autoriale, e questo ripropone come quanto mai attuale e necessaria
l’enunciazione come strumento per ogni ricerca socio-semiotica e della
semiotica dell’arte intorno al concetto della creazione dell’opera.
La nozione di autore e di artista radicale derivante da una tradizione
critico-estetica di impostazione romantica si è imposta gradualmente, a
partire da un preciso periodo storico: prima, la sua esistenza come soggetto
autoriale era negata e si presupponeva che esso fosse un mero esecutore di
una pratica artigianale66. Per il pittore la tecnica condivisa è situata nella
tecnologia della tela, del pennello e dei colori, e la tradizione sul lavoro di
bottega o sull’osservazione del lavoro altrui: su questo, il pittore lavora con
65 Cfr. Gombrich (1969) e De Micheli (1986) 66 Cfr. Gombrich (cit.)
71
mezzi per esprimere ma anche per modificare espressione, figurazione,
concetti e persino programmi d’uso del mezzo: immettendo, così, la propria
significazione con questa pratica nella porzione di tessuto di senso
condiviso e commerciato, così come sulla propria memoria visiva, e sulla
propria immaginazione in quanto artista e dunque “camera di risonanza
fenomenica”. Per il programmatore dei primi videogiochi, la tecnica
condivisa è situata nella tecnologia informatica, nel progresso dell’hardware
e della organizzazione logica degli I e degli O che ne stanno alla base. Ma
soprattutto nella propria capacità, in questi casi esaminati avanguardistica,
di subordinare il momento in cui la forma si cristallizza in queste sostanze,
operando non sui prodotti a valle della tecnica ma sulle radici a monte. In
questo senso chi volesse esaminare lo statuto dell’arte digitale come
bagaglio tecnico condiviso dovrebbe partire dalle capacità espressive che
discendono da questo brodo tecnologico primordiale di bit, arrivando ad
esaminare poi le estreme conseguenze di ri-mediazione e la sopraggiunta
complessità testuale del videogioco contemporaneo, le quali discendono
sempre e comunque dal progresso tecnico.
L’autore, allora, sarà un concetto utile e giustificabile solo con una
nozione debole di autorialità: dove la “debolezza” non si riferisce affatto
alla assenza di lucidità con cui si applica questo nozione, quanto nel grado
in cui questa viene utilizzata per riferirsi alla possibilità che essa si
identifichi profondamente con i soggetti: potrebbe allora essere insieme un
tecnico e un esteta, che negozia una propria inevitabile poetica personale (o,
persino, assenza della stessa) non potendo che collocarla in un orizzonte
condiviso. L’istanza autoriale, anche nel videogioco, assume allora
coordinate cangianti in un continuum in cui non è sostenibile una scissione
tra la tecnologia e la tecnica e le forme testuali che l’enunciatore – incarnato
o meno in un unico attore/autore – dispiega con un grado variabile di
intenzionalità.
2.9 - Uno, nessuno, centomila inventori
72
L’Adamo Videoludico – come il suo soggetto enunciatore - sarà
allora difficile da individuare quasi quanto l’Adamo che dovrebbe
confrontarsi con la teoria dell’evoluzione umana, e appare molto più
razionalmente come il risultato non univoco e in perenne evoluzione di una
lunga storia evolutiva. La pretesa di rintracciarlo in senso assoluto, e non
idealmente asintotico, rischia di degenerare in un poco lucido e molto
romantico creazionismo videoludico. Anche quello chi si potrebbe chiamare
con una metafora naturalistica il continuum filogenetico delle forme ludiche
è apparso sfumato, ibridato, confuso, e l’individuazione di queste “specie
semiotiche” videoludiche non può che risultare strettamente dipendente
dall’episteme che li individua, specialmente in una prospettiva che non
consideri l’espressione umana secondo compartimenti mediali stagni, ma
sia incline a superare l’apparenza dei mezzi e dei supporti per cogliere i
nessi tra le diverse forme espressive.
La questione solleva un rapporto problematico nella concezione della
tecnica e, a seguire, dell’arte e dell’estetica, nel cui novero non vediamo
contraddizioni particolari a inserire, dal punto di vista pragmatico, il mezzo
videoludico. Il videogioco, gettato nella mischia di problematiche estetiche
ormai consolidate sul piano della discussione teorica, si presenterebbe con
fardello del problema autoriale tutto suo ma in continuità con l’ orizzonte
filosofico dell’epoca. Rapporto tra tecnica e arte, tra autore singolo e
collettività della tecnica, tra riproducibilità e situazione dell’opera e della
pratica artistica, tra commercio e idea artistica “pura” sono contrapposizioni
formulate nell’ambito di ogni forma espressiva67.
Il bisogno di pervenire a una teoria dell’autore videoludico di questo
tipo, che potrebbe essere mosso da un eccesso di zelo positivista, non si
spiega tanto con la volontà di trovare una nozione critica in senso letterario
per l’autore, quanto con la necessità di trovare una teoria della testualità
videoludica (autore compreso) non-contraddittoria rispetto al panorama
mediale contemporaneo: all’interno di questo, il precetto romantico del
creatore dell’opera non si rivela sufficiente. Integrare la nozione di autore 67 Cfr. Colombo/Ruggero (2001)
73
del videogioco con quanto le critiche di altre forme espressive hanno già
elaborato in sede teorica, inserendo il videogioco in un contesto più ampio
ed esaminando le relativa affinità di diverse su campi distinti ma non
lontani, è un obiettivo che va rimandato rispetto al prossimo capitolo: in
questo esamineremo invece il primo caso di esplicita autorialità nel gioco
elettronico.
Capitolo 3
LA POLITIQUE VIDEOLUDICA
3.1 – Autore videoludico e orizzonte commerciale
Facendo arretrare il problema dell’autore fino a quello dell’inventore
del gioco elettronico abbiamo messo in luce i limiti di un ipotetico
“creazionismo videoludico”, senza negare a priori il ruolo dei soggetti
nell’impresa testuale del videogioco e pervenendo alla necessità di una
nozione debole di autore, che mediasse tra l’istanza enunciativa e il ruolo
dei soggetti. Rispetto allo sfondo della tecnica condivisa l’autore
videoludico è apparso mai del tutto solipsistico, e profondamente debitore
di un orizzonte enunciativo corale che rivela sempre uno scarto rispetto
all’opera personale del soggetto.
L’orizzonte commerciale del videogioco, con la connaturata
problematica estetica del prodotto di massa, è rimasto costantemente sullo
sfondo delle nostre argomentazioni, emergendo solo col parlare dell’aspetto
pragmatico, comunicativo e “commerciale” dell’enunciazione.
L’importante rapporto tra la dimensione industriale del gioco digitale e il
suo potenziale espressivo, inteso sia sul piano della ricerca linguistica sul
74
mezzo che su quello del problema della autorialità estetica, artistica e
intellettuale, viene toccato da questo capitolo, che presenta il primo caso di
autorialità esplicita dei testi videoludici.
Proveremo a suggerire una lettura dei “giochi d’autore” di
Activision, prodotti tra gli anni Settanta e gli Ottanta, attenta al rapporto tra
dimensione produttiva/industriale ed espressiva/estetica. La frattura artistica
e commerciale tra Atari e Activision è un territorio di scontro enunciativo,
di conflitto testuale privilegiato per indagare non solo le condizioni di
enunciazione di quei giochi (come di quelli di oggi), ma anche la riflessione
e la posizione dei soggetti rispetto al proprio fare tecnico e creativo. Tanto i
detrattori quanto i sostenitori di una visione autoriale e artistica del
videogioco dimostrano in quegli anni, con il loro agire, il sorgere di una
inevitabile riflessione intorno alla connotazione commerciale, estetica ed
autoriale del mezzo.
Si partirà, come sempre, dai testi e dalle loro condizioni di vita
storiche, nel solco di quanto già riscontrato nei capitoli precedenti, evitando
di pre-impostare l’analisi attraverso ben note ma ormai trite finte
contrapposizioni tra arte e prodotto o cultura alta e bassa. Lo sguardo al
prodotto culturale, infatti, ha spesso generato una mutua esclusione tra due
approcci (l’analisi della dimensione industriale e di quella estetica), con il
risultato di isterilire il dibattito intorno a categorie come quella dei
disinformati, degli apologeti, degli oltranzisti, degli apocalittici, degli
integrati, dei separatisti. Analizzare il prodotto culturale videoludico
partendo dal complesso discorso sull’estetica contemporanea rischierebbe, a
questo stadio del lavoro, di precostituire i risultati dell’osservazione
gettandoci direttamente nella mischia di dibattiti troppo ampi rispetto al
nostro obiettivo. Rimandando la riflessione specifica sulla natura artistica
del videogioco, interrogheremo alcuni testi le cui caratteristiche
enunciative, commerciali e di consumo si presentano emblematiche per
illustrare come l’inevitabile connotazione del videogioco come merce
75
prodotta a consumo di un target generi l’incontro e lo scontro tra logiche
commerciali e urgenze espressive e autoriali dei programmatori di giochi68.
Si inizierà illustrando sinteticamente il quadro commerciale, del
consumo e delle pratiche dell’industria videoludica nel periodo che segue
immediatamente a quello dei testi esaminati nel primo capitolo, in cui i testi
sono storicamente collocati. Si tratta degli anni a cavallo tra i Settanta e gli
Ottanta, durante i quali il sistema produttivo di Atari-Warner raggiunge
l’apice e, al contempo, crea i presupposti per la nascita delle case
indipendenti come Activision.
Dopo avere presentato il contesto economico in cui la forma
videoludica assume le sue prime coordinate di consumo di massa
presenteremo l’esempio di Adventure: qui, come in altri testi, si registra la
presenza a vari livelli testuali, dapprima in maniera occulta e
successivamente manifesta, del creatore del gioco. All’autore del gioco le
compagnie di produzione d’epoca negano infatti la presenza nei titoli
ufficiali, provocando in breve tempo la fuoriuscita di numerosi
programmatori, scontenti del mancato riconoscimento professionale, e la
nascita delle etichette indipendenti. Il caso di Adventure, come si vedrà,
non è che il preludio a una svolta importante nella concezione autoriale del
videogioco, la cui tappa esemplare è la frattura tra Atari, produttrice del più
importante sistema da gioco dell’epoca, e Activision, la prima software
house indipendente della storia. Sono proprio ex-programmatori di Atari a
fondare Activision, insoddisfatti del mancato riconoscimento come autori e
desiderosi di affermare la propria individualità espressiva e la paternità
delle proprie opere.
Nei testi seguenti si ritrova il senso della prima “politique des auteurs”
videoludica: il soggetto enunciativo desidera distinguersi dallo sfondo, si
articola in figure come quelle del bedroom coder, del game designer e del
produttore, utilizza categorie estetiche e intellettuali per definire il proprio
lavoro e non solo di natura tecnica. Il continuum soggetto/sapere condiviso
68 La questione rimarrà una domanda sullo sfondo nei capitoli di questo lavoro. Ci riserviamo, tuttavia, di esprimere alcune considerazioni nel corso del capitolo conclusivo.
76
che ha occupato il primo capitolo di questo lavoro sarà considerato nel
nuovo contesto industriale. Adotteremo una prospettiva attenta alla tecnica
sotto il profilo sociosemiotico per evitare di cadere nei semplicismi di una
prospettiva sociologica, di natura meramente descrittiva, che vedrebbe nel
contesto storico e geografico le condizioni per cui una data cultura
considera un videogioco un prodotto commerciale, perdendo di vista i reali
processi per cui il senso dei testi si esprime.
3.2 – Il videogioco di massa
Abbiamo lasciato Nolan Bushnell e Ralph Baer, “demiurghi” delle
pratiche videoludiche, sostenendo che essi, in fondo, non avrebbero fatto
altro che limitarsi a imitare l’opera di tecnici e ingegneri come Higinbotham
e Russell. Tuttavia, è proprio il loro tentativo di trapiantare la pratica del
videogioco nella sfera commerciale e nel contesto domestico e pubblico a
innescare il processo che porta all’inarrestabile successo della forma
videoludica, fino ad allora sperimentale, alla fruizione di massa. Se
l’impatto di Pong nella semiosfera è notevole Odissey, che non ha la stessa
fortuna commerciale, inaugura nondimeno il settore delle console da gioco
domestiche, destinato a diventare una delle direzioni fondamentali in cui si
articola l’insieme delle pratiche videoludiche. L’altra via al videogioco di
massa sarà quella delle sale giochi: ciò che Computer Space non era riuscito
a fare, avendo smarrito la via dell’interfaccia, riusciranno a fare i suoi
successori69.
I modi di giocare immaginati da Bushnell e Baer, insomma, si
propagano e affermano in poco tempo. Nasce un mercato nuovo
dell’intrattenimento, che trova nel gioco elettronico un segno dello spirito
69 Bittanti propone una distinzione per settori domestico, portatile e da sala giochi estremamente utile sul piano storiografico. Cfr. Bittanti (1999)
77
dei tempi e si dirama nelle direzioni delle arcades e dei salotti. Il
videogioco si afferma come medium di massa, inizia a ritagliarsi un settore
preciso e, al contempo, penetra fasce di consumo più ampie di quelle degli
acquirenti di ammennicoli per regali natalizi, entrando in contatto
sistematico con gli altri mezzi di comunicazione. Saremo costretti, per
motivi di ampiezza del fenomeno, a non concentrarci ulteriormente sui
rapporti tra videogioco e altri mezzi espressivi in questa fase della sua
storia70. Ci limiteremo a indicare come la transizione del videogioco
all’interno del contesto di produzione e di consumo pubblico in quanto
mezzo di intrattenimento di massa sia conseguenza dell’inevitabile
trapianto nella sfera pubblica di quella che era nata come una
sperimentazione tecnologica d’avanguardia.
Il videogioco cessa di essere sperimentazione informatica e diventa
vero e proprio prodotto perché, da un lato, la sperimentazione è ormai
compiuta, almeno nel senso in cui il nuovo mezzo ha effettivamente assunto
una forma propria e riconoscibile; e perché, dall’altro, nuovi soggetti
economici intraprendenti raccolgono il frutto di questa sperimentazione per
inserirla in contesti extra-scientifici. Secondo una prospettiva
sociosemiotica come quella che abbiamo adottato, sarebbe proprio la
differente applicazione di un bagaglio tecnico condiviso che consente al
nuovo mezzo di assumere pratiche nuove, trapiantandosi dai contesti di
ricerca scientifica all’industria dell’intrattenimento.
Lo spostamento di questi set di conoscenze d’avanguardia in nuove
pratiche di gioco, tuttavia, non è privo di conseguenze a ogni livello del
senso. Il testo, nel cambiare finalità pragmatiche e priorità comunicative,
muta, trasformando la propria interfaccia, operando configurazioni
paratestuali diverse, ripensando le proprie caratteristiche, continuando a
progredire secondo una nuova declinazione: lo avevamo già visto
analizzando Computer Space. È proprio nel momento in cui il videogioco si
trapianta in questi nuovi contesti che questi processi conoscono una
particolare radicalizzazione, spiegata dalla natura maggiormente 70 Si rimanda a Bittanti (1999)
78
competitiva, frenetica, popolare del contesto commerciale rispetto a quello
scientifico. Sarà proprio quello commerciale, d’altro canto, il profilo
prioritario sotto il quale continuerà ad evolversi la forma videoludica. In
questo senso, parlando di trasferimento dall’ambito scientifico a quello
commerciale non si intende affatto negare l’aspetto scientifico della ricerca
applicata ai fini commerciale, ma soltanto sottolineare le differenti finalità
di questi settori di ricerca.
La conseguenza di questa trasfusione sociosemiotica di cultura
determina il mutare delle condizioni di produzione dei testi videoludici.
L’elaborazione formale del videogioco, la sua anima fatta di progresso sul
codice e sull’hardware e di lavoro sulle interfacce, è allora contesa tra due
tendenze che convivono nella logica commerciale: una tendenza alla
diffusione, determinata dall’interesse commerciale suscitato, e una
all’accentramento commerciale, rincorso come obiettivo a colpi di brevetto
e querele su copyright e tecnologie. La sperimentazione formale che aveva
caratterizzato la formazione del testo videoludico delle origini, che
avveniva su un piano di condivisione scientifica, si sposta sul territorio
della esclusività commerciale, dello sprone alla ricerca per lo sfruttamento
esclusivo della compagnia capace di superare o precedere le altre.
È questa la nuova piattaforma dalla quale la nostra ricerca sull’autore
tenterà di raggiungere la bandierina successiva. Cambiando le condizioni di
produzione, l’enunciazione del videogioco perde le caratteristiche di libera
sperimentazione e una paternità saldamente ancorata a pochi soggetti che
collaborano secondo una logica di mutuo interesse, privo di finalità
commerciali e gerarchie produttive ufficiali. Contemporaneamente, tuttavia,
è proprio la logica commerciale e gerarchica della produzione aziendale
che, mentre nega nei fatti l’indipendenza del soggetto nel processo
produttivo, determina pure una prospettiva gerarchica di produzione in cui
il soggetto ha i presupposti, seppure “in negativo”, per una fase di
autocoscienza del proprio lavoro. Il videogioco viene identificato da
qualcuno come una moda passeggera, ma tra gli addetti ai lavori la fazione
più significativa è rappresentata da chi appare pronto a scommettere su
79
questa nuova, vera e propria scatola magica, dentro la quale concepire,
produrre, e presto ripensare il gioco – e i suoi profitti – nel paradigma
elettronico.
3.3 - Il programmatore da creativo a dipendente
Programmatori e game designer sono la materia umana portatrice
della tecnica condivisa videoludica. La generazione di creativi e tecnici
videoludici che è oggetto di questo capitolo ha l’onore storico e l’onere,
mentre crea giochi, di pensare ai presupposti del proprio lavoro. La ragione
storica più importante alla quale riferirsi per pensare all’autore al crocevia
tra espressione individuale e finalità commerciale è, per i testi prodotti in
questa fase, l’esistenza di una nuova organizzazione del lavoro all’interno
dell’industria del videogioco.
Il nuovo contesto di produzione è perfettamente descritto dalla
situazione di Atari. L’azienda era stata fondata da Nolan Bushnell, il
“creatore” di Computer Space, e aveva conosciuto un momento di floridi
guadagni dopo la produzione e l’enorme successo di Pong, che era stato
seguito da numerosi cloni e upgrade. Nel 1976, tuttavia, la compagnia si
trovava in difficoltà di natura finanziaria. La concorrenza sul piano delle
console casalinghe da parte della Fairchild Channell - la prima console che
poteva funzionare con cartucce intercambiabili invece di presentarsi come
un unicum hardware/software come Pong - aveva spinto Bushnell verso
l’ideazione di una console simile. Tuttavia, lo sviluppo di un hardware
necessitava di fondi, che latitavano. Piuttosto che vendere la compagnia e
tutto il lavoro creativo alla sua base, Bushnell lasciò che essa fosse rilevata
dal gigante dell’entertainment Warner Communications.
L’acquisizione di Atari da parte di Warner era una prova ulteriore
delle potenzialità del mezzo videoludico: i giochi elettronici sembravano
avere le carte in regola per non esaurirsi come una moda passeggera o come
un giocattolo di stagione commerciale, per assumere, al contrario, l’identità
di un nuovo mezzo espressivo. Tuttavia, la fusione tra le due compagnie si
80
sarebbe al contempo rivelata come un passaggio determinante per il mutare
delle prospettive di produzione del videogioco Atari.
Alla struttura “creativa” della prima compagnia, incentrata sulla
figura del game designer e sulla enfatizzazione della sua funzione creativa
nel team, si sostituisce ben presto un dirigismo rigido e orientato al
business. Prima della cessione a Warner, infatti, Atari non aveva una
strategia commerciale precisa, delineata e dagli obiettivi precisi e corredata
di un forte reparto di marketing e pubblicitario. Bushnell, che aveva fondato
la compagnia, aveva promosso un ambiente produttivo assai differente:
elastico, informale, scarsamente dirigistico. Bushnell era convinto
dell’importanza della componente ludica anche nel contesto aziendale:
collaborava alle catene di montaggio, aveva ideato una Games Room che si
offriva come valvola di sfogo dal lavoro e come occasione di relax per i
dipendenti. Quest’ultima, al tempo stesso, svolgeva la funzione di ambiente
di test dei giochi, che venivano provati e giudicati da tutti i dipendenti in un
clima affrancato dalle gerarchie lavorative. La nuova dirigenza imposta da
Warner, invece, era improntata all’esatto opposto. Il nuovo manager della
direzione consumer, Kassar, era “l’incarnazione vivente della corporate-
consumer culture” 71, ossessionato com’era dall’ottimizzazione, dalla
limitazione della sperimentazione non necessaria, dall’attenzione sulle
ragioni di marketing. Kassar era anche contrario alla Games Room e alla
condotta informale dei dipendenti sul posto di lavoro.
Con le dimissioni di Bushnell, avvenute in breve tempo, Atari
subisce un processo di profondo ripensamento, assumendo una struttura
dirigistica più rigida, vedendo cancellate le prospettive dei reparti di ricerca
in sviluppo in funzione di una maggiore attenzione sul marketing
consumer-oriented, e conoscendo un codice di condotta più regolare per i
propri dipendenti. È proprio nel corso della frattura tra reparto produzione e
marketing che il ruolo del game designer viene fortemente ridimensionato.
71 La polarizzazione tra il dirigismo corporativo della grossa azienda e l’etica informale e libertaria del pensiero hacker appare come un tratto fondativo della cultura e dell’industria informatica, al punto da essere stata a tutti gli effetti trasformata in una mitologia umoristica che trova persino il suo merchandise nella glorificazione del geek informatico. Cfr. i prodotti in vendita su un sito cult come www.thinkgeek.com.
81
Il “creatore” del gioco, prima un creativo-tecnico che aveva imparato a
lavorare come un artista di bottega con gli strumenti del digitale, viene
declassato a dipendente, venendo pagato a tempo e vedendo preclusa la
possibilità di firmare i propri giochi: questi ultimi avrebbero dovuto
presentarsi al pubblico con il solo marchio della compagnia.
È nel momento in cui il videogioco si presenta in tutta la sua
potenzialità davanti agli occhi del sistema corporativo dell’intrattenimento
che le possibilità di concepirne la portata espressiva sotto il profilo
individuale vengono in un certo senso negate, ed esso appare più che mai
come un prodotto. Nell’enunciazione videoludica come viene intesa da
Warner, il saper fare collettivo torna ad assumere un ruolo preponderante
rispetto al soggetto creativo. Il fine commerciale esclude gli eventuali
obiettivi espressivi del programmatore o, come minimo, ne cancella
l’identità in riferimento al gioco e, di conseguenza, la possibilità che esso
venga inteso come autore di un’opera. L’unica enunciazione enunciata
possibile è, allora, quella che coincide con la totale trasparenza autoriale,
sancita da un marchio72.
Il contraltare di questo rigidismo industriale è che la tecnica
condivisa e le forme ludiche che da essa scaturiscono vengono “congelate”
a uno stadio assunto come paradigmatico, senza che si lavori per farle
progredire o mutare. Durante la dirigenza Atari del secondo periodo la
testualizzazione del videogioco si presenta con caratteristiche spesso seriali.
Si assiste, accanto a limitati casi di sperimentazione e creazione di testi
originali, allo sfruttamento esteso di variazioni sulle stesse strutture ludico-
formali, nonché a un riposizionamento estetico dei giochi attuato attraverso
strategie che esaltano per via paratestuale i corredi figurativi dei giochi.
Molto spesso è la copertina, il nome, lo sport suggerito a distinguere la
maggior parte dei titoli, piuttosto che la differente forma ludica che
presenta.
72 Sulla trasparenza dell’autore, o sull’autore come assenza di stile, si veda Gandini (1998). Si rimanda in dettaglio al capitolo successivo.
82
Da un lato, allora, il trapianto del videogioco come agglomerato
tecnico-espressivo su una logica puramente commerciale ne accelera le
condizioni di evoluzione, trasformandolo in una pratica di massa per la
quale i soggetti commerciali in gioco sono interessati a concepire nuove
forme e a sfruttarle a proprio vantaggio. Dall’altro, tuttavia, la condizione di
quel particolare paradigma commerciale impone al videogioco una
cristallizzazione su caratteristiche stereotipiche. Una forma ludica di
successo, infatti, risponde all’imperativo commerciale della massima
ottimizzazione delle risorse e degli investimenti in senso di suggestione
estetica e pubblicità, che appaiono ben maggiori di quelli relativi al codice-
testo inteso come forma ludica nuova, esito di sperimentazione tecnico-
creativa. È allora la costellazione paratestuale ed epitestuale del testo che va
a determinare, in base a una logica già multi-mediale e del tutto “integrata”,
le condizioni di posizionamento pragmatico e di seduzione rispetto al
potenziale acquirente nell’enunciazione del testo. Già da questo periodo, il
videogioco inizia a essere considerato un tassello del più vasto settore
dell’entertainment industriale.
Precedentemente, avevamo assegnato all’identità del cosiddetto
“autore” del primo videogioco uno statuto puramente ideale, debole, per
rendere conto, nonostante l’esistenza del lavoro di singoli individui, della
natura collettiva e condivisa degli strumenti tecnici ed espressivi che questi
adoperavano. Mantenendoci in linea con questa forma mentis, non
possiamo fare a meno di notare la radicale negazione dell’autorialità del
videogioco che discende dalla politica commerciale della Atari di Warner.
Nel momento in cui il videogioco non è tanto un singolo testo, risultante
dalla ricerca di una manciata di soggetti che adoperano strumenti comuni,
ma un progetto commerciale, rispondente a logiche produttive pianificate e
messe in atto da una collettività di soggetti che devono soddisfare un vasto
consumo di intrattenimento, la figura dell’autore si presenta con il più alto
grado possibile di dispersione, debolezza e inconsistenza.
In fondo, non si dovrebbe radicalizzare la differenza tra il testo
videoludico frutto del lavoro di ricerca scientifica di alcuni dipendenti di un
83
istituto informatico da un lato e, dall’altro, il testo videoludico come
prodotto di un lavoro collettivo e industriale di una corporazione
dell’entertainment, che subordina i singoli soggetti e la tecnica a un fine
comunicativo e commerciale. Una differenza profonda tra queste due
letture dei testi risiede in parte da un residuale dislivello che non pochi
continuano a iscrivere nella concezione del testo definito “opera” piuttosto
che “prodotto”73. Sul piano testuale, le stesse differenze che è possibile
rinvenire sul livello enunciativo tra Tennis for Two di Higinbotham e
Odissey di Baer continuano a presentarsi nei cloni e negli update
commerciali più vieti e non originali. La differenza principale sta piuttosto
nel fatto che l’enunciazione videoludica di Warner-Atari appare, allo
sguardo sociosemiotico, come un processo di produzione di massa la cui
enunciazione è un processo altamente condiviso e negoziato, nel quale i
soggetti non possono specchiarsi e rintracciarsi se non nel senso del lavoro
collettivo o dell’adeguamento agli obiettivi comuni.
Subordinati alla negazione del concetto di autore, tuttavia, si trovano
gli stessi soggetti che contribuiranno alla affermazione di una esplicita
politica e poetica dell’autore videoludico. È sempre e comunque
dall’ambivalenza del programmatore nel sistema produttivo che si
delineano i presupposti per un simile programma, in cui si esalterà la
massima coincidenza possibile tra il gioco come opera e il suo creatore.
3.4 – Adventure
Adventure era originariamente una avventura testuale, tecnicamente
pionieristica. Programmato da Will Crowther e Don Woods, interamente
giocabile secondo una logica ipertestuale narrativa con comandi a testo e
nessun elemento figurativo, Adventure rappresentava la via primigenia del
video-gioco di ruolo ad albero di eventi e interfaccia testuale. Il testo che
prendiamo in esame non è questo Adventure, ma una sua “conversione” in
avventura grafica effettuata da Warren Robinett, un programmatore di Atari 73 Ancora una volta, rimandiamo gli appunti sul dibattito sulla cultura di massa al capitolo conclusivo.
84
all’epoca delle firme negate sotto dirigenza Warner74. Parlare della
conversione per Atari di Adventure da parte di Robinett è particolarmente
interessante perché presuppone tanto la determinazione del lavoro creativo
insito in una profonda ri-programmazione di una forma ludica già elaborata
quanto, con la presenza di una firma nascosta del programmatore, la sua
auto-affermazione occulta.
3.4.1 – L’Autore-Traduttore
Il primo Adventure interagiva con il giocatore esclusivamente a
mezzo testo. Era una sorta di immenso universo fantasy ipertestuale,
descritto con stringhe testuali che presentavano al giocatore la sua
posizione, la presenza di oggetti e personaggi nel luogo in cui si trovava, e
le possibilità che aveva: quella di raccogliere oggetti e trasportarli, di
dirigersi in varie direzioni, di analizzare i dintorni, e così via. Una
interazione di questo tipo richiedeva una grossa quantità di memoria per il
giocatore ed era del tutto normale interagire con il testo affiancando ai
comandi di testo mappe e indicazioni cartacee appuntate durante le sessioni
di gioco, tracciando un ideale filo di Arianna cartaceo che aiutasse ad
orientarsi nel labirinto ipertestuale.
La conversione di Robinett del testo scritto da Crowther e Woods è
una riscrittura radicale, il cui esito è considerabile come un vero e proprio
nuovo testo: si tratta di una vera e propria traduzione intersemiotica tra
forme espressive diverse, durante la quale la logica formale del gioco viene
mantenuta ma il suo linguaggio interamente cambiato75. La differenza
principale dell’Adventure riscritto graficamente da Robinett sta nel
linguaggio descrittivo del gioco, che diventa, appunto, grafico e determina
non solo un nuovo aspetto ma un diverso tipo di interazione. Invece di
comandare un simulacro con stringhe di testo dalle struttura “sostantivo-
verbo” in un ambiente esteticamente del tutto virtuale e pragmaticamente
74 Una biografia di Warren Robinett è disponibile all’URL http://www.warrenrobinett.com/. 75 Sul tema della traduzione intersemiotica cfr. Pozzato (2001)
85
inferito dalle descrizioni dell’autore e dalla copertina disegnata, come
nell’originale, il giocatore di Adventure di Robinett sposta il simulacro in
tempo reale utilizzando il controller, e osserva stanze descritte e
ammobiliate da elementi grafici, oggetti e figure, per quanto esteticamente
rudimentali. La mappa di gioco è ora esplorabile semplicemente muovendo
il joystick della console Atari e spostando il simulacro del personaggio.
L’universo del gioco veniva mostrato a una stanza per volta: raggiunti i
bordi di una stanza dotati di punti di uscita, il giocatore avrebbe continuato
il percorso nella stanza successiva.
La conversione di Adventure in forma grafica è semioticamente
interessante da una pluralità di prospettive. Una di queste, non centrale ai
fini del nostro discorso sull’autore, è quella relativa all’ambiente di gioco e
all’interazione con un testo prima verbale e ipertestuale e poi
ipertestualmente “denso” e grafico76.
Un altro motivo di interesse è lo scarto nella scrittura dei due testi al
livello enunciativo, evidente nella stessa forma interattiva e nella sostanza
dell’espressione: la differenza tra i testi è tale che, più che di conversione, si
può parlare di un’opera di traduzione intersemiotica dalle caratteristiche di
quasi intermedialità. Nonostante l’apparente unità del mezzo videoludico,
riscrivere Adventure in grafica partendo da un ipertesto verbale non
dovrebbe essere stato, in fondo, troppo dissimile dal riscrivere un’opera in
giambi in prosa, un fumetto in un romanzo, e così via.
Un terzo motivo di interesse, che discende dal precedente, è il mutare
dei set di tecnica condivisi in funzione del tipo di espressione scelto in sede
enunciativa. L’Adventure originale era particolarmente in continuità con la
cultura dei giochi di ruolo e delle sperimentazioni sugli ipertesti narrativi, e
per questo motivo era considerabile una vera e propria immissione di quella
forma ludica nel nuovo dominio del digitale. La sua conversione non muta
semplicemente il registro espressivo. La figurazione grafica, il controllo dei
pixel in tempo reale tipico della nuova forma videoludica e la nuova veste
76 Non possiamo soffermarci su questo, ma rimandiamo ad altri testi, come Maietti (2004) e Cosenza (2003), il lettore che volesse approfondire questo aspetto della testualità videoludica.
86
espressiva non si limitano a variare la percezione estetica ma presentano un
gioco nuovo: qui la densità degli spostamenti negli ambienti, la rapidità
dell’interazione richiesta e le ormai diverse competenze sul piano cognitivo
sono difficilmente comparabili a quelle del testo ispiratore. Parte di questa
mutazione del testo originario è dovuta alle limitazioni della memoria sul
nuovo supporto su cui operare la conversione del gioco a testo originale, per
cui Robinett avrebbe deciso di risparmiare memoria descrivendo
graficamente un numero più limitato di ambienti invece di fornire la
struttura logica e verbale di un immenso universo.
Sotto questa prospettiva il gioco digitale si presenta già altamente
stratificato sul piano dei linguaggi disponibili: il videogioco dimostra sin
dagli albori della sua storia la capacità derivante dall’organizzazione
digitale dei contenuti di presentarsi secondo forme mutevoli, la plasticità e
versatilità sul piano formale, la tendenza a sfuggire definizioni univoche
ricalcate sui singoli testi. In questo senso, l’opera di Robinett è interessante
perché mostra ancora una volta il lavoro del tecnico-creativo del gioco
informatico sotto il profilo dell’utilizzo dei diversi set di cultura di
programmazione condivisi e utilizzati. La cifra del testo-Adventure
convertito da Robinett consiste in un insieme di tecniche di
programmazione in parte diverse da quelle che avevano consentito la
programmazione del primo gioco. Il passaggio da un Adventure testuale e
ipertestuale a uno grafico e più densamente interattivo potrebbe allora
essere considerabile come uno shift tra “stili” videoludici o, ancora, tra
“generi”77.
Ancora una volta, stabilire se Robinett sia un autore discenderebbe
dalla prospettiva adottata. Da un lato, il suo lavoro comprendeva la
programmazione come la creazione della grafica e del suono del gioco. La
sua scrittura portava quindi il linguaggio videoludico ad esprimere e far
fruire del senso interattivo nuovo, originale. Robinett, d’altro canto, non
77 Nel parlare di stili e generi non si intende avviare un’operazione di catalogazione arbitraria della testualità videoludica dei primordi: si vuole soltanto evidenziare un sopravvenuto salto di varietà enunciativa nel sistema di produzione dei giochi, che inizia a differenziare i vari tipi di testualità del videogioco secondo variazioni di carattere strutturale, estetico, commerciale.
87
era il solo programmatore dell’epoca a ricoprire ogni aspetto del processo di
scrittura dei videogiochi: la semplicità grafica e la dipendenza da hardware
molto limitati rendevano inutili e anzi impossibili la separazione tra
l’aspetto del codice e il lavoro estetico, che si concentrava spesso in un solo
paio di mani. Robinett, quindi, non sarebbe l’unico.
L’aspetto più interessante è che non siamo noi a definire Robinett
sotto il profilo autoriale: Robinett stesso, contravvenendo alla politica
dell’anonimato di Atari, fa comparire il proprio nome da un anfratto segreto
del testo, presentendosi come suo autore soltanto a chi fosse stato capace di
esplorarlo a fondo78. Si trattava di un easter egg.
3.4.2 – Una passeggiata tra i boschi interattivi
Le easter egg, letteralmente “uova di pasqua”, sono segreti nascosti
nel gioco: aree che non si mostrano in maniera evidente, bonus di natura
interattiva o grafica, messaggi e parti di gioco nascoste. Si tratta, in linea
generale, di “premi” per il giocatore competente e performante sul piano
ludico, nascosti a margine del testo principale e che si offrono solo al
giocatore che è capace di scovarli esplorando a fondo o esaminando indizi
testuali inconsueti.
Robinett, portando a termine la programmazione della conversione
di Adventure, decide di inserirne uno all’interno del codice. Quello di
Adventure è il primo easter egg della storia videoludica: lo stesso termine
deriva dal modo in cui fu definito per la prima volta da parte della stampa
specializzata. La ragione della sua forte peculiarità, inoltre, non risiede
tanto nella caratteristica grafica o nella modalità strutturale per cui si
raggiunge questo “pezzo” segreto di gioco, quanto nel messaggio dispiegato
dalla sua scoperta.
Durante la programmazione di Adventure, Robinett aveva lavorato
per aggirare alcuni dei limiti di memoria del sistema su cui intendeva 78 Curiosamente simile la vicenda di Griffith, che alla fine de L’Orgoglio degli Amberson recita il suo nome.
88
riscrivere il gioco. In primo luogo, la totalità dell’universo di gioco fu
ridimensionata. La caratteristica di trasportare oggetti, che nella prima
versione testuale del gioco non conosceva dei limiti, era limitata a un
oggetto per volta sul gioco per Atari. Robinett decise che la caratteristica di
trasportare oggetti sarebbe stata sfruttata per offrire una stanza segreta
virtualmente inaccessibile. Dopo aver creato la stanza, la posizionò in un
punto del labirinto e ne creò una seconda, particolarmente inaccessibile e
inappetibile, visto che era raggiungibile soltanto utilizzando l’oggetto-scala
e si presentava apparentemente priva di ogni ricompensa sotto forma di
snodi spaziali o oggetti utili per il giocatore. Soltanto chi avesse costruito
una mappa mentale o cartacea del gioco si sarebbe accorto dell’esistenza di
questa stanza. La stanza in questione conteneva un oggetto magico, il più
minuscolo formante figurativo: un singolo pixel di colore grigio, lo stesso
dello sfondo, che il giocatore particolarmente esplorativo avrebbe
“agganciato”, scoprendo che era possibile trasportarlo. Neanche il ruolo di
oggetto magico, tuttavia, era definito in maniera esplicita. Soltanto il
giocatore talmente paziente da percorrere in lungo e in largo il labirinto
trasportando questo punto - e rischiando facilmente di perderlo e
confonderlo con lo sfondo - avrebbe infine scoperto che, trasportandolo,
sarebbe stato possibile attraversare un particolare muro ed entrare nella
stanza segreta. In questa stanza, l’intera palette dei colori disponibili
avrebbe composto il nome del programmatore [immagine 7].
Secondo le dichiarazioni di Robinett, l’intero gioco divenne un
pretesto per un esperimento: capire se qualcuno avrebbe mai potuto
concepire una esplorazione così profonda del suo gioco da scoprire la
stanza segreta ed entrarvi. Robinett, d’altronde, mantenne segreta
l’esistenza della stanza anche ai suoi colleghi di lavoro. Con costi di
produzione che si aggiravano intorno ai cinquemila dollari al gioco,
concepire quel contenuto occultato aveva sottratto il cinque percento della
memoria disponibile, e Robinett temeva di poter essere licenziato da Atari,
che come si è detto non considerava plausibile l’ipotesi di far comparire i
nomi dei programmatori dei giochi.
89
Con grossa sorpresa dell’autore, l’esistenza della stanza segreta fu
infine trovata nel 1980, quando Robinett aveva già lasciato Atari e la
compagnia aveva venduto trecentomila copie del gioco da lui programmato.
La scoperta del segreto fu una grossa sorpresa e creò uno dei primi e più
famosi episodi della storia della critica videoludica, quando i redattori di
Electronic Games definirono la stanza un “easter egg”. Il fatto che Robinett
avesse creato da solo il gioco e che il test di produzione non lo avesse
passato a un setaccio fine quanto quello di un giocatore accanito
affermarono Robinett come una sorta di programmatore-autore, capace di
manifestarsi dall’interno del gioco e stringere metaforicamente la mano al
giocatore eccellente bypassando le maglie della struttura produttiva.
Ecco spiegata, la particolare importanza di un testo come Adventure
e della sua porzione nascosta, strettamente connessa alla crescente necessità
di riconoscimento autoriale rivendicata dai programmatori dei giochi in
contrasto con un assetto industriale spersonalizzante. In Adventure l’easter
egg produce una traccia che sfonda il presupposto di impersonalità del
prodotto videoludico e lo rivela in quanto opera di un individuo: questo
ponte tra processo enunciativo e soggetto si ripiega e narcotizza rispetto al
piano più evidente del testo ma vi sono tracce testuali che, interpretate con
particolare attenzione, lo portano allo scoperto. In una struttura produttiva
in cui i programmatori avevano accesso alle aree di lavoro utilizzando
tessere magnetiche che registravano i loro accessi e le loro assenze dai posti
di lavoro, Adventure si presenta con una caratteristica che bene esemplifica
il doppio ruolo dell’autore: presente e nascosto al contempo, negato e
affermato a livelli diversi del testo come nel presupposto enunciativo. In
questo terreno del testo, liminare e occultato, si produce quindi un aggancio
tra creatore del testo e l’iper-giocatore, il giocatore ideale a cui Robinett
tende la mano.
3.4.3 – Dal creatore modello al creatore reale
90
L’operazione di Robinett, è ben spiegata dal concetto di Lettore Modello.
Lettore Modello e Autore Modello sono presupposti logici implicati dal
testo, da non confondere con l’autore e il lettore empirici. Eco propone
questi potenti ed elastici strumenti analitici per offrire alla semiotica uno
strumento capace di spiegare i processi alla base dell’interpretazione
cooperativa nei testi letterari e non. Il vantaggio delle nozioni di Lettore
Modello e di Autore Modello è quello di studiare i processi di
significazione e comunicazione del testo e la cooperazione interpretativa
come viene presupposta dai testi in quanto dotati di un’istanza pragmatica
immanente. In seconda battuta, ciò consente di considerare i soggetti in
carne e ossa senza confondere il piano dei processi semiotici con quello
della cronaca biografia e delle intenzioni dell’autore o con il contesto e le
competenze del lettore reale79.
In Adventure Autore Modello e Lettore Modello sono allora,
secondo una lettura semiotica, istanze presupposte dalla componente
pragmatica insita nel gioco. Tuttavia nel gioco l’Autore Modello tende, a un
livello testuale non in primo piano, a costruire una coincidenza con l’autore
reale. Al Lettore capace di leggere l’agenda interattiva nascosta del gioco,
infatti, l’Autore inteso come istanza del testo si svela come autore in carne
ed ossa.
Il dato più interessante è allora la configurazione del progetto
pragmatico di Adventure. Dal piano più evidente e superficiale del testo
l’enunciazione di Adventure si mostra completamente trasparente rispetto al
soggetto autoriale. Avevamo inteso operativamente questo soggetto come
colui che, coincidendo in maniera variabile con l’istanza enunciativa,
attualizza attraverso le tecniche condivise un testo informatico nuovo. Le
tracce dell’enunciazione lasciate nel testo corrispondono in effetti a quelle
di un progetto dotato di una doppia lettura possibile, la più profonda delle
79 Su Lettore Modello e Autore Modello cfr. Eco (1979). Per il videogioco Maietti ha proposto, ispirandosi al modello echiano, le figure del creatore modello e del giocatore modello. In questo lavoro non ci riferiremo a queste nozioni perché esse ci appaiono particolarmente funzionali alla riflessione su quello che Maietti definisce il lettore terminale: l’osservatore, cioè, della stringa finale, “narrata” a quest’ultimo per mezzo di chi gioca al gioco contribuendo a creare la prima. Nel nostro contesto di analisi la nozione appare superflua: pur essendo utile e potenzialmente estendibile a tutti i tipi di testi, essa esalta un aspetto che non è sempre fondamentale per l’aspetto pragmatico col giocatore.
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quali è incentrata sulla opacizzazione dell’enunciazione in termini autoriali.
Il progetto di Robinett è uno sfondamento dell’impersonalità enunciativa e
di re-integrazione di questa a se stesso: a un livello nascosto questa si
opacizza e Robinett la riveste interamente, invadendo il testo con il suo dato
biografico e interpellando il giocatore reale.
La clandestinità dell’operazione appare significativa: l’autore, a cui
non è concessa esplicita identificazione con la regia del gioco, ritorna dalla
finestra, si mostra come operatore testuale occulto rispetto al paratesto che
vende il gioco, crea un dialogo privato con il giocatore proprio dove i
presupposti di personalità di entrambi si trovano negati. Ma la logica della
scoperta dell’autore afferma anche il nome del giocatore-esploratore, il cui
nome sarà ricordato negli annali per essere stato il primo a esplorare e
rivelare l’anfratto testuale80.
Sostenere che l’enunciazione di Adventure si presenta con una
hidden agenda che mira allo svelamento della identità del creatore reale non
equivale a negare l’utilità delle istanze e dei processi enunciativi piuttosto,
mettendo al centro la cronaca e la descrizione delle persone e dei contesti
reali. Senza una nozione semiotica come quella di autore modello avremmo
rischiato di confondere il modo in cui il testo comunica per le effettive
intenzioni o la psicologia di Robinett; leggere con strumenti semiotici
l’Eastear Egg in Adventure ha invece seguito il percorso inverso: partendo
dai processi pragmatici così come vengono presupposti dal testo li si è
agganciati a una lettura pragmatica del testo sociosemioticamente situata. Il
caso della stanza segreta con il nome di Robinett non si risolve allora con la
semplice descrizione nel senso storico e biografico ma spiega le strategie
tutte testuali ed enunciative dei prodromi dell’autorialità del videogioco
dell’epoca..
80 In questo senso, una parallela e interessante storia dei videogiochi potrebbe anche essere scritta dalla prospettiva dei giocatori dei giochi: dalle iniziali che campeggiano in memoria nei giochi arcade, fino alla cultura del nickname online e ai tornei multiplayer, anche il giocatore si costruisce in antitesi a una visione spersonalizzata e interamente prevista dal testo, all’interno di un mondo di classifiche online e tag, di un universo performativo pubblico. Recentemente, il giocatore è diventato la star dei cosiddetti e-sports, tornei di videogiochi che ne esaltano il carattere cognitivamente pressante e fisiologico dell’interazione considerandoli sport a tutti gli effetti.
92
Anche per Adventure è giusto constatare come il testo vada
considerata tanto nella sua indipendenza come tout de signification quanto
nella sua tendenza a produrre o presupporre appendici paratestuali ed
epitestuali. Così, i giocatori si muniscono di aiuti extra-testuali come le
mappe autoprodotte, che fungono da operatori paratestuali di supporto alla
competenza mnemonica necessaria per affrontare il labirinto dell’ambiente
di gioco [immagine 8]. Chi ha svelato la mappa segreta è diventa peraltro
un lettore reale, visto che la sua funzione di lettore modello sul testo è stata
travasata nell’epitesto storico-critico con il suo nome reale. Quel che appare
più significativo è comunque il fatto che il caso Robinett getta le basi per
una presa di posizione di altri programmatori di giochi elettronici,
diventando un esempio di rivendicata autorialità destinato a influenzare
l’evoluzione della consapevolezza espressiva dei programmatori.
È in quest’epoca della produzione di videogiochi che inizia a
registrarsi una tensione tra l’enunciazione in quanto processo che attualizza
le virtualità della tecnica e i soggetti reali che debrayano il testo, tra
negoziazioni come corto circuiti. La scrittura del testo videoludico
tecnicamente intesa è spesso opera di un solo soggetto, ma la componente
paratestuale e gli intenti comunicativi e commerciali del prodotto
videoludico sono esito di un sistema produttivo che considera il
programmatore come un ingranaggio, negandogli firma e ruolo creativo. In
questo senso, in Adventure è iscritta una doppia finalità testuale: rientrare
nell’enunciazione collettivamente negoziata e impersonale, e sfondarla di
nascosto al livello del lettore ideale81.
Quanto affermato, in ogni caso, va leggermente ridimensionato.
L’Easter Egg in Adventure opera, in un certo senso, un’idealizzazione del
rapporto tra giocatore ideale e soggetto creatore e dell’idea autoriale. Il
testo è commercializzato e giocato come un prodotto di intrattenimento
pubblicato da una compagnia specializzata, e tale rimane la sua lettura
primaria. Il background produttivo Atari è comunque un presupposto del
81 In questo senso, Adventure potrebbe avere due lettori modello: uno “comune” e uno “ideale”, capace di pervenire alla lettura più nascosta del testo.
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lavoro di Robinett, il quale si esprime reclamando la propria identità con
secondi fini che, per quanto raggiunti, restano un’eccezione in Adventure.
3.5 – La politique di Activision
Il motivo per cui ci siamo dedicati ad Adventure dalla prospettiva del
Lettore Modello è che questo testo è sintomatico di una futura “polemica
enunciativa” intorno all’autore videoludico. La tensione tra autore e
compagnia si sarebbe radicalizzata, fuoriuscendo dai meandri del testo.
Emblematico è a questo proposito il caso della frattura tra Atari e gli ex-
programmatori che, fuoriusciti dalla compagnia, avrebbero fondato la prima
software house indipendente della storia videoludica: Activision. Negli anni
a seguire, l’esplosione di software house indipendenti avrebbe cambiato la
storia del gioco elettronico82.
3.5.1 – Autori, manager e avvocati
Warren Robinett non era il solo dipendente di Atari a mostrarsi decisamente
scontento della politica sul ruolo dei programmatori all’interno
dell’azienda. Il malessere serpeggiava: sul finire degli anni settanta, come
conseguenza dalla nuova politica adottata dopo l’acquisizione da parte di
Warner, prenderà piede in seno ad Atari una vera e propria migrazione di
designer e programmatori, divenuti linfa vitale per l’esplosione delle
software house indipendenti tra il 1980 e il 1982.
Il primo fuoriuscito di Atari è Alan Miller, uno dei primi
programmatori assunti della compagnia. Nel 1979, mentre Robinett lavora
su Adventure, Miller ha le idee chiare: per lui il game design è un’arte, non
un applicazione meccanica della tecnica da eseguire a cottimo. Miller, ben
presto, non è più disposto a sottostare a una politica aziendale che nega
l’identità del programmatore nei crediti dei giochi e lo ricompensa con le
82 La prima software house indipendente a seguire Activision sarebbe stata Imagic, anch’essa fondata da ex dipendenti fuoriusciti dalla Atari di Kassar.
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briciole dei proventi. All’epoca, Atari contava venti programmatori e
designer, che retribuiva per il loro lavoro specializzato con contratti simili
sul piano economico a quelli di basso profilo per musicisti e scrittori. La
dirigenza assoldava il lavoro dei programmatori senza offrire loro la
paternità delle opere che, pure, quasi sempre realizzavano praticamente da
soli. Kassar tentava di chiudere un occhio sulla condotta decisamente anti-
convenzionale, tipica di una certa cultura hacker e hippie, di molti dei
coder, ma questo cambiava di ben poco l’ambiente di lavoro del nuovo
corso aziendale.
Dall’insediamento di Kassar fino a quel momento i proventi di Atari
avevano conosciuto prima una fase di stagna, dovuta a un comparto di
design imbrigliato nella logica commerciale dei cloni di Pong e,
successivamente, una decisa impennata, dovuta alla conversione per la
console Atari di Space Invaders, un gioco arcade di incredibile successo.
Miller, a questo punto, consapevole dello scarto tra l’aspetto creativo e
tecnico e l’effettivo ritorno in termini di soldi e prestigio per i
programmatori, decide di prendere l’iniziativa per conquistare un maggiore
riconoscimento come programmatore, una retribuzione più adeguata come
tecnico, e in generale un profilo artistico ben diverso da quello che Kassar
prevede per i dipendenti della compagnia.
Una volta raccolto il consenso di Crane, Whitehead e Kaplan,
colleghi di lavoro, Miller interpella il manager della divisione consumer
John Ellis. Insieme a George Simcock, questi espongono a Kassar i motivi
della propria insoddisfazione. La risposta di Kassar è prevedibile: piuttosto
che retribuire i propri dipendenti secondo un profilo decisamente più
elevato e di cambiare politica commerciale, avrebbe potuto facilmente
rimpiazzarli con altri sei programmatori. Miller, deciso fino in fondo a
mettersi in proprio, decide allora di rivolgersi a John Decuir, un ingegnere
fuoriuscito di Atari che aveva fondato una propria azienda, per chiedergli a
quale studio legale si fosse affidato per essere al riparo da problemi con
brevetti e proprietà aziendali. Il punto cruciale del progetto di Miller, quello
di creare una software house indipendente con la quale sviluppare e vendere
95
giochi che funzionino con l’hardware di Atari, è infatti il problema del
patent infringement sulla tecnologia.
Miller e gli altri fondano Activision. La possibilità di successo della
nuova compagnia, che apre nel 1980 e riunisce in breve tutti i
programmatori che si erano uniti nella causa contro Kassar, sono date come
bassissime dagli addetti ai lavori. In primo luogo, non si vede la ragione per
cui il pubblico debba rivolgersi ad altri giochi, quando l’offerta Atari copre
in effetti “ogni genere di gioco” conosciuto83.
In secondo luogo, sono in molti a pensare che Atari non sarebbe stata
disposta a tollerare la produzione di giochi per la sua console da parte di
una terza parte commerciale. La seconda previsione si rivela giusta. La
prima, tuttavia, appare errata. I giochi prodotti dalla nuova compagnia,
infatti, iniziano a erodere e non di poco la base di vendita di quelli Atari,
presentandosi con una grafica a schermo più accattivante e con meccaniche
di gioco innovative. I giochi prodotti da Miller, Crane, Whitehead e Kaplan
erano superiori pur girando sullo stesso hardware perché i programmatori,
non senza una maggiore passione sostenuta dalla ottenuta indipendenza e
dal riconoscimento esplicito del proprio lavoro, incarnano di fatto lo stato
dell’arte dell’epoca, sono in grado di aggirare limiti tecnologici maggiori,
hanno una visione del game design più completa e il totale controllo
creativo sul prodotto.
I giochi Activision si presentano con una esplicita concezione
autoriale: il manuale si presenta con un’intera pagina dedicata alla foto e
alla biografia del programmatore, illustra caratteristiche del gioco e
interpella direttamente il giocatore invitandolo a scrivere all’autore dei
propri progressi. Sul retro della confezione e, spesso, sulla copertina, oltre
al marchio Activision è presente la firma.
Atari, che desiderava impedire a terzi di pubblicare software per la
propria piattaforma tecnologica, aveva portato in tribunale Activision prima
83 Come abbiamo già avuto modo di far notare, il “genere” era largamente inteso come il tema del gioco, e non solo la sua effettiva originalità sul piano delle meccaniche di interazione con lo schermo e la macchina. Il posizionamento dell’estetica era fondamentale per “spalmare” temi diversi e vendere prodotti spesso estremamente simili sul piano formale e interattivo.
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ancora che questa riscuotesse successo con i primi giochi, iniziando inutili
azioni legali durate per un anno e mezzo. I proventi di Activision avrebbero
reso ben presto immensi profitti ai programmatori, che avrebbero visto
centuplicati i propri proventi grazie a una ristabilita centralità nel processo
produttivo e al supporto di team economico-manageriali assoldati a
supporto dell’aspetto creativo-tecnico.
Activision è la scintilla che appicca l’incedio. Subito dopo sarebbe
stato il turno di Imagic, fondata da Grubb e Bradley nonostante il
disappunto e le esplicite minacce da parte di Kassar, che iniziava a vedere i
propri programmatori scomparire a frotte dai ranghi della compagnia. La
situazione è tale che le cronache riportano come i pochi rimasti in Atari,
Robinett incluso prima del suo tardivo autolicenziamento, avessero fondato
in un momento di ubriachezza il cosiddetto dumb shits clubs. Il circolo
notturno, che celebrava la stupidità e le cattive scelte dei propri soci, aveva
un unico requisito di partecipazione: essere rimasti in Atari a creare giochi
senza guadagnare soldi come quelli che ne erano andati via.
3.5.2 – Dalla tecnica ai brevetti, dai brevetti all’autore
La nascita delle software house indipendenti, inaugurata dalla
conquistata libertà creativa e commerciale dei fondatori di Activision, ha tre
motivi di interesse fondamentali per la comprensione delle condizioni
produttive, enunciative ed autoriali nel gioco elettronico.
In primo luogo comporta, almeno nei casi di Activision e Imagic,
una ricongiunzione per i soggetti competenti tra l’aspetto tecnico-creativo
della programmazione e la dimensione commercialmente progettuale del
proprio lavoro. In termini professionali, il programmatore conquista una
relativa indipendenza dalla logica industriale corporativa che si era
affermata con l’acquisizione di Atari da parte del colosso Warner.
Demiurgo degli uno e degli zero in cui si incarna l’enunciazione
videoludica, il programmatore tuttofare torna al centro del prodotto-
progetto videoludico.
97
In secondo luogo, appare significativo il superamento della centralità
della tecnologia come oggetto di brevetto esclusivo anche per la sua
applicazione ludica: questo avviene dal momento in cui la Corte sentenzia
la legittimità a che Activision produca giochi da vendere a proprio profitto,
salvo pagamento di royalties, per il sistema hardware costruito da Atari84.
Se volessimo rileggere sotto una prospettiva socio-semiotica il profilo
legale della vicenda, potremmo notare nella frattura tra proprietà del
sistema hardware e terze parti un liberamento del lavoro creativo emergente
dal mezzo tecnologico. La tecnologia da sola non è in grado di sussistere
sotto il profilo dell’intrattenimento e della proprietà intellettuale: quel che
conta in questo senso è la scrittura dei testi che essa rende possibile. La
proprietà intellettuale, il rapporto tra autore e testo e tra espressione e
tecnologia brevettata vanno configurandosi in forme non necessariamente
ingegneristico-industriali.85
Il terzo motivo di interesse della nascita delle software house
indipendenti, conseguente alla riconquistata centralità del programmatore
rispetto all’apparato di marketing e distribuzione integrata, è la decisa,
esplicita affermazione di una idea autoriale del videogioco tutta interna alla
nascita delle compagnie.
Nel progetto commerciale Activision prende forma la prima, vera
“politique des auteurs” del videogioco. Nel paratesto dei giochi è
celebrato l’autore: il programmatore coincide viene fatto coincidere con
l’istanza enunciativa e firma testi che, se non dovessero presentare tracce e
stilemi tipici di una precisa poetica, apparirebbero in ogni caso come il
frutto esplicito del suo lavoro. Vero è che molti di questi testi, programmati
84 Dopo varie cause e appelli, la sentenza del 1983 avrebbe sancito la vittoria definitiva di Activision e dato il via legale al libero mercato videoludico moderno, caratterizzato dalla presenza di numerose terze parti indipendenti al lavoro su sistemi da gioco proprietari. Nel corso della storia videoludica, il rapporto tra terze parti e produttori di console diventerà centrale per il successo delle piattaforme hardware. Cfr. Kent (2001) 85 Se avesse vinto Atari, a ben vedere sarebbe stato forse possibile sostenere anche questo: cioè che i pittori non avrebbero potuto usare i pennelli senza pagare, se qualcuno avesse dimostrato di avere creato questi ultimi e si fosse opposto presentando un brevetto. Al far notare la provocazione presupposta da questa osservazione va affiancata la constatazione del fatto che le terze parti sono comunque obbligate a versare delle royalties per utilizzare commercialmente gli hardware proprietari della casa madre. Tuttavia, la constatazione della differenza tra il pennello e l’hardware informatico non deve condurre alla falsa constatazione che tra questi due strumenti esista una differenza ontologica. D’altro canto, come non tutti sono in grado di utilizzare pennello e colori, così non tutti i programmatori sono in grado di utilizzare allo stesso modo lo stesso hardware.
98
da programmatori finalmente indipendenti, si rivelano decisamente avanzati
sul piano tecnico, espressivi sul piano estetico e coinvolgenti in quanto a
interazione, e in molti casi ben più validi rispetto a quelli del sistema
marketing-oriented di Atari. I giochi “d’autore” di Activision lavora spesso
con maggior successo sul piano della forma ludica, evitando a priori di
partire dal posizionamento commerciale ed estetico di meccaniche di gioco
già esistenti e risultando vincenti su un mercato già saturo di cloni.
La riflessione sullo statuto d’autore porta con se il recupero e la
giustapposizione al contesto videoludico di una nozione mutuata da altri,
più blasonati settori espressivi: letteratura, arti visuali, cinema, ricerca
intellettuale. L’antecedente clandestino in Adventure diviene da qui in poi
esplicita manifestazione paratestuale. Rimandando ai capitoli successivi il
discorso sui paralleli storici e linguistici tra videogioco e autore nelle arti,
nella letteratura e al cinema, ci concentreremo adesso su testi rivelatori
dell’idea autoriale in Activision.
3.5.3 – Le veneziane di Bob Whitehead
Il “software delle veneziane” programmato da Bob Whitehead non è
un gioco commerciale, ma una dimostrazione tecnica che bene illustra sul
piano tecnico le vicende Atari-Activision. Il testo, e un interessante
aneddoto, gettano luce sulla superiorità tecnica dei game designer
fuoriusciti da Atari e sulla loro capacità di fare progredire le tecniche
rappresentative.
Il testo interattivo, mai pubblicato e oggi disponibile in rete, era stato
scritto per girare su un hardware Atari, e simula una comune tenda
veneziana. Controllando il joystick è possibile sollevare o abbassare la
tapparella, rivelando un tramonto da ammirare attraverso la finestra. Dietro
alla rappresentazione apparentemente primitiva e priva di effetti visivi
eclatanti di Venetian Blinds si nasconde una scrittura brillante sul codice:
Whitehead riuscì ad aggirare i limiti dell’hardware Atari e mostrare fino a
otto file di oggetti in contemporanea, due in più rispetto al massimo
99
consentito. Whitehead utilizzò per la prima volta la tecnica per Video
Chess, una simulazione scacchistica che non sarebbe altrimenti mai stata
possibile sul sistema di Atari86.
Dopo la fondazione di Activision i dirigenti di Atari minacciarono
Whitehead e gli altri di citarli in giudizio per una serie di illeciti
sfruttamenti di tecniche e proprietà intellettuale e, tra queste, vi era la
tecnica che consentiva la rappresentazione di Video Chess. Whitehead, ben
consapevole della totale paternità del codice come del fatto che Atari
sarebbe stata difficilmente in grado di utilizzarla nuovamente in maniera
fruttuosa, decise insieme ai colleghi di Activision di rispondere per le rime.
Scrisse così Venetian Blinds, affinché fosse presentato come prova di
paternità della tecnologica. Al contempo, il demo era una decisa presa in
giro dei legali di Atari, pensata per essere proiettata nel momento in cui
avessero parlato loro della questione. Atari perse legalmente ancora una
volta, ma Whitehead riuscì anche a fare infuriare Kassar con lo scherzetto
delle tapparelle.
Venetian Blinds, “semplice” dimostrazione tecnica, è la
dimostrazione del fatto che non c’è bisogno di scomodare grosse categorie
estetiche per constatare come il game designer dell’epoca potesse di fatto
assumere l’identità di un soggetto-artista del codice. Manipolando tecniche
che non si limita ad applicare secondo schemi divenuti di successo ma
continua a far progredire, l’autore-programmatore si sottrae a un orizzonte
puramente seriale e riporta al centro del testo videoludico la sua natura di
campo di sperimentazione continua, in cui il creativo offre occasioni
rappresentative e interattive inedite.
Come per Higinbotham o Russell, anche per Whitehead si potrebbe
parlare di autore come tecnico-artista della sostanza espressiva, come di
soggetto capace spingere lo stato dell’arte inteso sotto il profilo tecnico ed
espressivo. Da questa prospettiva la conquista del tramonto fatto di pixel 86 Sembra che in Atari si fossero decisi a offrire un gioco di scacchi per il proprio sistema perché sulla scatola di una delle prime serie di console vendute campeggiava un pezzo degli scacchi, che avrebbe spinto moltissimi consumatori a protestare per l’assenza effettiva di una sua simulazione. La compagnia non avrebbe quindi mai preso in considerazione l’idea di riuscire a produrre un gioco degli scacchi per la propria console, e senza la tecnica rappresentativa di Whitehead non sarebbe mai riuscita a realizzarlo.
100
dietro alle file delle sgranate e rudimentali tapparelle ha la portata di un
piccolo, importante passo in avanti nelle sorti di un dominio
rappresentativo. Osservare sotto questo profilo la tecnica e l’espressione
può costituire l’occasione per riflettere su una separazione tra tecnica e arte
che continua a far pensare i filosofi dell’estetica, ma lascia
fondamentalmente indifferenti i veri addetti ai lavori87.
3.5.4 – La dama di Alan Miller
Checkers è una versione elettronica della dama, sviluppata da Alan
Miller per la console di Atari sotto la nuova etichetta indipendente
Activision. Il testo Checkers è interessante per una varietà di motivi: per la
traduzione elettronica della forma ludica della dama, per il lavoro tecnico
operato sulla rappresentazione dello spazio di gioco, per l’implementazione
dell’intelligenza artificiale.
Il gioco simula una normale scacchiera sullo schermo televisivo, le
pedine vengono controllate utilizzando il controller e la sfida si presenta
con quattro livelli di difficoltà. Checkers ha una presentazione estetica
sobria e funzionale al contrario di molti giochi di dama coevi graficamente
sciatti o confusi. La rielaborazione di Miller presenta dei livelli di difficoltà
molto ben bilanciati e ha alla sua base un certo grado di interesse scientifico
in continuità con lo sviluppo delle teorie sull’intelligenza artificiale di cui
Miller è appassionato, come ben si evince dal suo intervento sul manuale di
gioco.
Checkers è frutto di un lavoro superiore di design su un hardware
decisamente limitato, rafforzando l’ipotesi, fatta a proposito di Whitehead,
sull’autore come tecnico-artista dei bit. Parliamo di Checkers, tuttavia, per
la questione dell’autore “enunciato” nel paratesto.
87 Il programmatore come artista del codice tornerà nella nostra considerazione, in particolare col parlare di John Carmack. L’ampiezza proibitiva della problematica sul rapporto tra tecnica ed arte ci costringe invece a rimandare alcune semplici osservazioni al capitolo conclusivo.
101
Nel testo Checkers non sono presenti marche enunciative
dell’eventuale autore se non nella ricostruzione che sarebbe possibile fare
del lavoro tecnico di programmazione, indagando sul codice. Diversamente
dal caso di Adventure, l’enunciatore di Checkers è una istanza che non ha la
possibilità o interesse alcuno a mostrare la propria coincidenza con il
soggetto sul piano testuale. Checkers ottimizza massimamente le possibilità
tecnologiche per ricostruire non solo la forma logica della dama in dato
elettronico, ma anche la logica strategica del gioco ai fini dell’interazione
uomo-macchina, dotando il programma di una rudimentale intelligenza
artificiale. Se tutto questo prende effettivamente forma dalle viscere del
codice per mano di un enunciatore, è invece nel paratesto che si esplicita il
lavoro e l’identità del soggetto enunciatore, a sua volta enunciato. Parlando
della politica di Activision sul ruolo e sulla presentazione del game
designer, abbiamo riferito della presenza della foto e di un testo dell’autore
del gioco nel manuale e della presenza del suo nome sul retro della
confezione. Checkers non fa eccezione a questa usanza di Activision, ed è
per questo motivo che dovremo spostarci dall’analisi del testo a quella della
sua componente paratestuale.
Il paratesto che terremo in mente è l’insieme della confezione del
gioco e del manuale incluso88. La prima, in particolare, ha un ruolo chiave
nella presentazione commerciale del prodotto. È infatti per certi versi la
norma, e non l’eccezione, che chi acquista un gioco in determinati contesti
di consumo lo faccia perché attratto dalla copertina o dalle immagini del
gioco o di corredo sul retro: queste componenti vanno considerate una
fondamentale appendice paratestuale che svolge una funzione seduttiva,
predisponendo e precisando la comprensione della dimensione estetica del
testo al potenziale acquirente/giocatore89. La confezione di Checkers
88 Non solo ci rifiutiamo di considerare questo come un semplice epitesto, iscrivendolo a tutti gli effetti in un’orbita ben più vicina al nucleo testuale, ma saremmo persino inclini a ritenere questi corredi, fondamentali a ogni livello della significazione, come se facessero parte del nucleo testuale stesso. 89 Un’analisi sistematica delle confezioni dei videogiochi si rivelerebbe decisiva per comprendere alcune delle componenti estetiche e pragmatiche del mezzo in relazione alla dimensione commerciale, specialmente per un periodo in cui il gioco elettronico doveva ricorrere fortemente al sostegno estetico di questo paratesto per ovviare alla limitata capacità rappresentativa sullo schermo.
102
presenta una cover art graficamente stilizzata tipica della collana
Activision, in cui la grafica prende le mosse prendendo in prestito i
formanti figurativi del gioco vero e proprio. Gli stessi sprite che
appariranno sullo schermo e con i quali si giocherà sono qui rappresentati
con figure dalle campiture nette e eidesi geometriche, per uno stile
minimale, plastico e ludico.
Il paratesto tipico del gioco Activision si mostra infatti con marche di
coerenza estetica rispetto al gioco e secondo una logica tematizzata e
uniformante. Le copertine dei giochi di Atari, al contrario, non partivano
dalla glorificazione del formante originale del gioco, ma lo facevano
scomparire dalla presentazione sostituendolo con immagini dagli stili
grafici più disparati. Anche le copertine di Atari anticipavano e
completavano le aspettative del giocatore in merito al titolo e relativamente
ai temi e le figure del gioco. Tuttavia, in esse lo stile era spesso del tutto
alieno rispetto alla semplicità della grafica a schermo del gioco. La
presentazione dei giochi Activision differisce allora già in partenza
nell’autonomia della forma e nell’estetica videoludica rispetto ai giochi
Atari. Già dalle cover, i giochi di Activision sembrano volere affermare una
testualità forte e propria, dotata di una dimensione estetica precisa e di una
dignità comunicativa, e non la semplice filiazione commerciale rispetto a
universi estetici e set di figure stereotipici. Un confronto tra Checkers di
Activision e il successivo Video Checkers di Atari, tanto a livello grafico su
schermo che estetico sul piano del paratesto, è rivelatore di quanto diversa
sia la concezione del videogioco tra le due compagnie, con Activision
impegnata a non occultare la minimalità della grafica del gioco, ma
glorificarla rielaborandola.
La confezione dei giochi Activision è una componente paratestuale
decisiva per il testo, attualizzata da una enunciazione che lascia spazio
all’autore. Sul retro della confezione, accanto ai dettagli sul numero di
giocatori e sul controllo del software, il nome del programmatore appare
immediatamente sotto il titolo. Nel caso di Checkers, è possibile leggere
chiaramente “conceived and designed by Alan Miller”. La figura
103
dell’autore viene presentata con maggiore dettaglio all’interno del manuale
di quasi ogni gioco, con una pagina interamente dedicata al programmatore.
In questa pagina, l’enunciatore-Activision presenta il testo, correda il
paratesto con i cenni biografici sul Miller professionista e giocatore, mette
in mostra il suo viso e la sua firma e gli cede la parola a proposito del gioco.
Nel paratesto-manuale di gioco, allora, mentre l’enunciatore del
gioco tende alla coincidenza con Miller, una enunciazione di grado
superiore, che si attualizza oltre i confini strettamente testuali, afferma
l’identità tra quella istanza interna al testo e quel soggetto. Miller, dalla
pagina dei consigli, presenta il suo debito teorico e di ispirazione nei
confronti di Arthur Samuels, pioniere delle ricerche sull’intelligenza
artificiale90, riferisce di aver letto molti testi e manuali prima di provare a
creare una dama elettronica, e consiglia ai giocatori di fare altrettanto per
migliorare le proprie strategie [immagine 9]. Miller ammette anche di avere
difficoltà contro il computer, e di non avere particolari consigli per il
giocatore riguardo alle debolezze del programma, a eccezione del fatto che
questo sembra mancare a tratti di un certo “istinto omicida”, peccando di
poco coraggio: un limite che il giocatore potrebbe sfruttare, anche se con
molta attenzione alla formidabile memoria predittiva del calcolatore.
Questa logica da “collana videoludica” d’avanguardia, fondata al
contempo sull’originalità del gioco e sulla intertestualità dell’autore, non si
risolve certo nel costituire un motivo per affiliare l’acquirente, ma fornisce
l’occasione per conoscere i programmatori secondo un profilo autoriale
attraverso il consumo delle loro creazioni. Si creano i presupposti per cui
potremmo essere in grado di riconoscere una poetica o dei temi ricorrenti o,
ancora, un diverso approccio alla testualità videoludica basato sul tipo di
testo “tipico” di quel determinato “autore”.
Rimandando al capitolo successivo una critica completa del
problema della “politica degli autori” contrapposta a una prospettiva di
90 Arthur Samuel è lo sviluppatore per IBM di uno storico programma di dama capace di imparare dall’esperienza. Le sue ricerche nel campo dell’intelligenza artificiale hanno reso IBM un leader del settore e portato alla creazione, quaranta anni dopo, del celebre Deep Blue, il programma entrato nella storia per avere battuto a scacchi il campione mondiale Gary Kasparov.
104
analisi testuale, non resistiamo alla tentazione di indulgere a considerazioni
un po’ stereotipiche sull’aspetto e sulla biografia dei programmatori, così
come ci vengono suggerite più o meno esplicitamente dal paratesto. Nel
ricorrere alla biografia suggerita non vogliamo indulgervi preferendola
all’analisi del testo, ma percorrerla alla ricerca di indizi sui suoi presupposti
e finalità.
Miller, che programma Checkers e si interessa alla simulazione
realistica del moto e dell’interazione tennistica, ha uno stile sobrio ed
elegante e coltiva interessi nel campo dell’intelligenza artificiale, richiama
un ritratto da programmatore colto, da intellettuale high-brow: un po’
tecnico, un po’ artista, un po’ scienziato, trova nel gioco elettronico
l’occasione per momenti di ri-mediazione, simulazione e studio sulla realtà
e sulla logica, ma è anche un agente fondamentale per la fase di
affermazione della sua categoria rispetto alle logiche corporative.
Se questo sia un profilo tale da far parlare di Miller come di un
autore rimane questione dipendente dal profilo di autorialità che siamo
disposti ad accettare. È ormai evidente, tuttavia, che questa concezione
debba essere lontana da una visione romantico-letteraria: la vera posta in
gioco sull’autore è, per questi testi, legata a un continuum tecnico ed
espressivo, lontana da una psicologia e da un sentire individuale. Per testi
simili una possibile via all’autore videoludico è, forse, più vicina a una
concezione ludolinguistica della tecnica, in cui sono cruciali il conoscere e
il saper-fare proprio nel momento, insieme liberamente poietico e vincolato,
della visione di nuove stringhe e nuove regole di un linguaggio.
3.4.5 – David Crane’s Pitfall
Pitfall è, per molti versi, il testo-simbolo della concezione autoriale
del videogioco di epoca di Activision. David Crane, il suo programmatore,
è a sua volta uno dei nomi che più frequentemente vengono citati quando
nell’ambiente critico videoludico si arriva a discutere sui cosiddetti
programmatori-autori. Anche Pitfall, come Checkers, si dimostra
105
interessante tanto sul piano testuale quanto su quello paratestuale, rivelando
livelli incassati di enunciazione.
Testo emblematico del fenomeno dei one-man games dei primordi,
Pitfall è considerato da molti osservatori come uno degli antesignani dei
cosiddetti “platform games”: giochi in cui la componente del salto, la sfida
agli ostacoli dell’ambiente di gioco e il tempismo negli spostamenti
costituiscono il fulcro dell’esperienza. Pitfall, tra i lavori meglio riusciti di
Crane, è esempio di fusione totale tra innovazione formale, stilistica ed
estetica.
Il testo offre al giocatore il controllo di un simulacro ispirato alla
figura di un esploratore in un mondo possibile che è una idealizzazione
interattiva dell’universo estetico tipico del romanzo e del cinema
d’avventura esotici, provvisto delle sceneggiature canoniche: coccodrilli
che infestano guadi, liane su cui ondeggiare e dalle quali librarsi oltre gli
ostacoli, tesori da raccogliere, animali velenosi da evitare.
Al livello figurativo Pitfall presenta un immaginario stereotipico, che
riveste la forma ludica sceneggiando moduli estetici non innovativi e per
nulla passibili in sé stessi di un riconoscimento all’interno di un qualche
“stile autoriale” estetico o del videogioco. Pitfall è invece un trionfo in
termini di interazione con il simulacro e l’ambiente di gioco e dimostra la
parità, se non priorità, dell’aspetto interattivo del mondo possibile
videoludico nel progetto testuale complessivo rispetto all’estetica che lo
connota. In Pitfall tutto il mondo giocabile, e con esso l’intera esperienza
del giocatore, non derivano dalla sola connotazione figurativa, ma si
sviluppano intorno al simulacro controllabile dal giocatore e alle sue
possibilità di incontro/scontro con l’ambiente.
A confronto con i tanti cloni ri-tematizzati e con il livello medio di
design e presentazione dei testi della compagnia da cui erano fuoriusciti
Crane e gli altri, Pitfall dimostra una netta differenza in termini di scrittura
e di innovazione. La rappresentazione del personaggio, che oggi può far
sorridere ma che appare sofisticata per l’hardware di quegli anni, è
estremamente fluida. La scattosità dei movimenti del simulacro, tipica
106
dell’epoca, è ridotta al minimo: la tecnica di animazione era costata a Crane
vari anni di lavoro sul codice, e sfondava senza ombra di dubbio la soglia
media del cosiddetto “stato dell’arte”. Intorno all’esploratore fatto di pixel
viene modellato un intero mondo di interazione. Lavorando nei limiti di
memoria canonici, corrispondenti ai 4k tipici delle cartucce della console
Atari, Crane organizza un mondo ampio e complesso, dotato di una
notevole quantità di percorsi, segreti, figure e azioni possibili. Un design
sapiente, incentrato sul set di movimenti del simulacro, genera situazioni
interattive che tengono costantemente in primo piano l’affinamento dei
movimenti possibili e richiedono un impegno crescente in termini di riflessi
e abilità. Crane fa uso di una tecnica di scrittura potente, economica,
elegante: la dispiega come uno strumento che in pochi possono piegare e far
progredire verso testi che prima “mancavano”.
Pitfall fa da conferma alla nostra ipotesi: c’è un novero di tecnici-
artisti del videogioco che non si limitano ad applicare una tecnica
“esternamente data” per fini precostituiti e affermati. Questi “autori”, al
contrario, contribuiscono, lavorando dall’interno delle possibilità testuali,
all’emergere stesso della tecnica come progresso condiviso, esprimendo con
questi mezzi testualità nuove e in alcuni casi esprimendo una forte
coincidenza, al livello testuale, tra enunciazione e soggetto che la ricopre.
Il manuale-paratesto di Pitfall, la cui enunciazione è istanza
correlabile ad Activision, a sua volta espressione diretta e orientata
all’autore di Crane, Miller, Whitehead e degli altri, è ancora una volta
promotore di una politica di corrispondenza tra gioco e autore. Come in
Checkers e in quasi tutti i giochi di Activision il nome di Crane compare sul
retro della confezione, e Crane stesso ha a disposizione una pagina del
manuale per offrire consigli sul gioco e vedere la propria immagina e firma,
precedute da cenni biografici.
La macro-istanza enunciativa alla base dei testi raccolti sotto il
marchio Activision, corrispondente a un’entità policefala di cui Miller è
probabilmente il tronco più saldo, lavora anche sul piano dell’intertestualità.
Crane viene presentato, in una pagina del manuale di un altro gioco da lui
107
programmato, come un programmatore capace di concepire costantemente
“giochi altamente inusuali, immaginifici, e dotati di un grande livello di
sfida”. Facciamoci sedurre dalla biografia: Crane, a giudicare dai giochi che
programma, dal suo aspetto da geek e dalle presentazioni sui manuali, ha
l’identità pubblica del programmatore leggermente trasandato, occhialuto e
geniale, del nerd talentuoso e dotato di wit, del creativo dotato di
immaginazione e del controllo dei codici91.
L’autore diventa un filo rosso: attraverso il paratesto prende forma
una esplicazione ed esaltazione dell’istanza enunciativa e del soggetto
creatore che esplicita tratti di coerenza e originalità dei testi altrimenti
passibili di essere trascurati92. Questi tratti in questo caso sono
effettivamente rintracciabili. Non si da il caso che via sia, nella macro-
enunciazione di Activision, una mera idea o mitologia autoriale, per quanto
manifesta: ma sono anche i testi a traboccare di lavoro tecnicamente
avanzato, prodotto proprio dal soggetto, in cui la tecnica è usata per uno
stile e finalità espressive originali e portata a nuovi livelli di funzionalità
per soddisfare necessità testuali complessive.
Rispetto a Checkers, del resto, che era una rielaborazione di una
forma ludica esistente, Pitfall si dimostra anche testo portatore di un nuovo
“genere” di interazione. A dimostrazione del progresso tecnico e formale
compiuto nell’orizzonte videoludico condiviso, esso inizia da subito a
“fare” genere operando da esempio stilistico, ispirando imitazioni e
innescando un processo che porterà alla nascita dei cosiddetti platform
games93.
Siamo allora disposti, in via provvisoria, a riconoscere a Crane, come
a Miller e Whitehead, un profilo autoriale, ad accettare di buon grado la
manifesta propaganda di questa idea. Tuttavia, una volta constata
l’esistenza e l’auto-affermazione del “testo autoriale”, la sua conferma
analitica deve avere carattere non necessario ma contingente: si
91 Immagine, questa, che era già, o è divenuta stereotipo: ma che, a sua volta, ha quantomeno rinforzato lo stereotipo sul programmatore-artista dei giochi elettronici. 92 Ancora una volta, rimandiamo al Cap. 4 per una riflessione su autore e prospettiva testuale. 93 Sulla nascita dei platform games cfr. Babich (2002)
108
preannuncia, infatti, la contemporanea necessità di un approccio analitico
capace di considerare il testo autoriale da una prospettiva tanto consapevole
del soggetto enunciatore quanto lucida e scettica. Un simile atteggiamento
critico dovrebbe essere capace di risalire all’idea di autore dentro al testo
come lungo le sue propaggini paratestuali, sciogliendo il modo in cui le
enunciazioni si presentano incassate e confuse rispetto al testo e ai soggetti.
Al contempo, dovrebbe mettere alla luce il modo stesso in cui l’autorialità,
prima di trovare tracce di conferma nell’operare testuale, è enunciata e
celebrata.
3.6 – La via originaria all’autore videoludico
Abbiamo visto, partendo da alcuni testi significativi, come tra la fine
degli anni settanta e i primi anni ottanta l’enunciazione del videogioco
conosca un contraccolpo da spinte opposte. Dapprima il videogioco diventa
merce industriale ad alta tiratura e cade la centralità della figura del
programmatore, declassato da artista del codice a tecnico pagato a cottimo.
Successivamente, questo rivendica un profilo di più alto livello,
emancipandosi rispetto alla logica corporativa e riunendosi in team ristretti
che promuovono il testo ludico come frutto del lavoro di un autore.
Nel tempo che intercorre tra la scaramuccia di bit della easter egg di
Adventure fino alla nascita di Activision viene a galla una condizione
polemica dello stato della produzione di videogiochi che covava da tempo
sotto le ceneri: le condizioni tecnologiche e di produzione determinano un
regime di testualità videoludica in cui questa può esprimersi in una certa
misura per mezzo di una molteplicità di “scrittori”. La ragione che
determina il prevalere del programmatore “autore”, d’altro canto, rimane di
natura tecnica: la tecnologia è oggetto di proprietà, di brevetto, ma è pure
riconosciuta come mezzo che da la possibilità a un tecnico, capace di
lavorare “da artista”, di esprimere un lavoro d’autore. Rimane sempre
valida l’osservazione gombrichiana per cui il mezzo può esprimere una
109
personalità, purché, appunto, ci sia una personalità da esprimere, oltre che
una ricerca sui presupposti linguistici della possibilità del mezzo94.
Come vedremo nel prossimo capitolo non si tratta di una storia
inedita ma, pur con le dovute e grosse differenze e specificità, di una storia
che pare riproporre molte vicende del regista cinematografico.
I “videogiochi d’autore” dell’era Activision agli inizi degli anni
ottanta sono testimonianza di un particolare momento della testualità
videoludica, durante il quale il grafico, il programmatore del codice, il
designer di mondi interattivi e persino il tecnico del suono possono
coincidere, anche se non lo sono necessariamente, con il medesimo
soggetto. Questo soggetto non corrisponde sul piano logico e pragmatico
con l’istanza enunciativa o con l’autore/creatore modello del testo, eppure
una prospettiva sociosemiotica non obbligata all’immanentismo radicale da
un principio di impersonalità portato all’eccesso può “commutare” tra
enunciatore e soggetto per svelare le tracce che, nel testo e nel paratesto,
rivelano le stesse condizioni del fare videoludico.
Scorrere tra testo, paratesto ed epitesto, e scindere l’enunciatore di
Activision da quello eventualmente coincidente con il programmatore, è
stato fondamentale per una ricerca che, come quella qui intrapresa, non
fosse tanto interessata a sezionare minutamente il testo fino a polverizzarlo,
quanto a trovare a partire dei testi il continuum tecnico e creativo all’interno
del quale il videogioco, e con esso l’idea autoriale, si sviluppa nella
semiosfera.
Una analisi più approfondita ed estesa delle vicende tecnologiche,
tecniche ed economiche dei testi e dell’apparato paratestuale dei giochi
Activision e Atari di questo periodo, condotta sui più testi secondo
l’approccio finora portato avanti, rivelerebbe scorci preziosi sulla
evoluzione della testualità videoludica. Miller e Crane non sono che due tra
gli attori più attivi di questo lavoro semiotico collettivo sulle forme
videogiocabili.
94 cfr. Gombrich (1950)
110
Le software house indipendenti durante i primi anni ottanta, alla
quale si è accennato, trovano nella concezione autoriale una doppia
vocazione: quella dell’identità autoriale e artistica e quella
dell’indipendenza economica. Le software house indipendenti diventano
una “nouvelle vague” commerciale che, pur non attecchendo nel sistema
rigidamente verticale dell’azienda giapponese, esplode negli Stati Uniti,
conoscendo anche una vasta diffusione in Europa. I programmatori
americani indipendenti si organizzano in team ristretti, diventando grandi
ingegneri di sistemi giocabili prestati alle grosse compagnie produttrici di
hardware. Gli europei, spesso meno capaci sul piano tecnologico e
dell’ottimizzazione hardware-software, diventano degli autori “letterari” e
degli “esteti” del gioco elettronico, producendo software interattivo
estremamente variegato sul piano figurativo, originale sul piano delle
soluzioni, spesso capace di anteporre sena mezzi termini il fine espressivo
alla “riuscita ludica” del testo e alla soddisfazione del giocatore95. Per molti
anni, la tendenza europea al videogioco sarà la ricerca di universi estetici e
narrativi di matrice letteraria, e in alcuni casi fortemente connotata dalla
credenza nell’autore come regista o creativo96 [immagini 14,15,16].
Il lavoro creativo dei soggetti sui giochi e il materiale paratestuale
allegato agli stessi, fondatore dell’idea di autore, non è certo poco. Di
sicuro, tenterebbe non poco il ricercatore a tracciare dei paralleli tra le
biografie dei programmatori, gli intenti dichiarati e i testi prodotti, alla
ricerca della cosiddetta “cifra d’autore”, di tante digital-stylo tutte
videoludiche. Come abbiamo già detto, tuttavia, la promessa più importante
di un approccio sociosemiotico che parta dal testo e dalle sue estensioni e
integrazioni è quella di non cedere alla mera apologia della nozione
autoriale, ma offrirsi come una base per esaminare il ruolo del soggetto
sotto il profilo autoriale come anche la nascita della sua idealizzazione, di
una mitologia autoriale. L’eco dell’autore, oggi rafforzata dalla 95 È questo il caso del celebre Shadow of the Beast: il gioco, esteticamente affascinante, fa di tutto per ostacolare e tediare il giocatore, contravvenendo a una massima non scritta di molti designer. 96 In alcuni casi, come quello della francese ERE, il videogioco appare autoriale fin dal paratesto, e più autori vi collaborano come avviene in una produzione musicale. Tuttavia, l’autorialità del videogioco europeo appare ben più enunciata che presente all’interno del testo come della riuscita complessiva ludica.
111
contemporanea ossessione per la nobilitazione del mezzo, parte proprio
dall’epoca Activision.
Un approccio molto sbilanciato sul dato biografico ma poco accorto
sul piano testuale profondo non è privo di pericoli. Indulgendo nella
credenza alla biografia Whitehead potrebbe essere riconosciuto come uno
stereotipato redneck, programmatore di giochi vagamente ideologici: si
presenta infatti alla vista dalle pagine dei manuali Activision come il tipico
bisteccone baffuto, firma ogni pagina con un “God Bless” e programma
giochi come Boxing e Chopper Command, chiedendo nel manuale di
quest’ultimo di ricevere novità su come i giocatori stessero “cavandosela
sul fronte” del gioco di guerra [immagine 10].
La prospettiva strettamente biografica si rivela in definitiva
semioticamente non accettabile. Chi la facesse propria cadrebbe nella
trappola della biografia, oppure presterebbe attenzione al solo dato figurale,
assegnando a questo la priorità sul senso complessivo del testo videoludico
che, e questa è una delle poche cose certe a proposito del videogioco, non si
risolve assolutamente sul piano della sola figuratività. Radicalizzare un
approccio autoriale significherebbe infine, ovviamente, cadere nella
trappola dell’antropomorfizzazione dell’enunciazione. Non è soltanto che
molti dei giochi di quest’epoca siano comunque prodotti da più
programmatori, a volte con mansioni separate e a volte in accordo creativo:
si tratterebbe, soprattutto, di predisporsi con una metodologia d’analisi
incline ad abboccare alle lusinghe paratestuali ed epitestuali che hanno, da
quegli anni in poi, varie volte rispolverato il tentativo commerciale di
sfruttare il richiamo dell’autore di turno. Elevato il ruolo del soggetto a un
principio a priori si perderebbe il senso critico necessario, di volta in volta,
a diramare la matassa enunciativa, sbrogliando la presenza dell’“autore”
rispetto alla sua pubblicizzazione.
Il complesso delle vicende commerciali e autoriali di Activision non
è, allora, solo uno snodo storicamente importante per la ricerca sul ruolo
dell’autore videoludico, che si esplicita esemplarmente sul piano testuale ed
112
epitestuale: contiene in sé anche il germe di un futuro abuso della nozione
autoriale per il videogioco.
L’idea di autore decolla con una ambivalenza molto significativa: da
un lato sembra negare il principio commerciale come pilastro esclusivo
dell’enunciazione videoludica, dall’altro riconosce e intravede nell’autore la
base per una sua futura trasformazione linea-guida per il giocatore. Il passo
è breve verso l’etichetta paratestuale e il corredo seduttivo grazie ai quali
l’enunciazione industriale trasferisce su un singolo soggetto l’idea di una
autorialità del prodotto per legittimarne lo statuto “artistico”.
Con un ulteriore errore interpretativo discendente da questi
presupposti, il gioco “commerciale” potrebbe rischiare di essere
contrapposto alla direzione di quello “d’autore” secondo una divaricazione
arbitraria dei due aspetti. Con un rischio ulteriore: quello di non percepire il
momento in cui è proprio quell’istanza di produzione che maggiormente
nega il soggetto in quanto potenziale autore ad assegnare un autore
“d’ufficio”, secondo una mitologia autoriale interamente funzionale alla
effettiva negazione del potenziale della tecnologia per l’espressione
dell’individuo.
Nel prossimo capitolo abborderemo proprio la questione della
“mitologia” dell’autore, tentando di aggiornarla agli auteurs del gioco
digitale partendo da un contesto espressivo che ha già conosciuto una forte
riflessione sul tema, a un mezzo non privo di parentele con il gioco
elettronico e al quale ci siamo riferiti parlando di politique degli autori: il
cinema.
113
Capitolo 4
UNA PARENTESI CINEMATOGRAFICA
"Non c'è nulla di più triste degli autorelli che girano sempre il medesimo
film" (Alberto Pezzotta, Segno-Cinema)
4.1 – In principio era l’autore
Nel parlare dell’esplicitazione e nobilitazione della figura dell’autore
nei giochi di Activision, indicando al contempo i limiti e il confliggere della
nozione d’autore con una prospettiva testuale forte, abbiamo evitato di
riferirci immediatamente al precedente cinematografico per un solo motivo:
era nostra intenzione procedere a partire dai testi videoludici, per evitare di
pre-costituire ogni valutazione. I paralleli, tuttavia, non possono più essere
ignorati, e un excursus sul regista cinematografico consentirà di gettare
ulteriore luce teorica sull’argomento videoludico.
Parlando di una “politica degli autori” videoludica dei
programmatori di Activision abbiamo strizzato l’occhio a una politique
storicamente ben più celebre: quella dei Cahiers du Cinema. La
rivendicazione del ruolo della regia e la considerazione dell’autorialità sono
state portate avanti dai critici francesi marcando una riproposizione in
termini nuovi e polemici della nozione di autore, attuata sulla scorta dello
specifico registico. Successivamente, la politica degli autori dei Cahiers si
sarebbe spostata dal piano della critica a quello dell’operativo registico,
incarnandosi nella corrente cinematografica della Nouvelle Vague quando
alcuni dei critici che sostenevano la politique sarebbero passati alla regia:
proprio quei principi critici sarebbero diventati un manifesto del proprio
fare artistico.
Il moderno dibattito sull’autore al cinema parte proprio dalla politica
degli autori e dalla Nouvelle Vague, ed è in coincidenza con questi eventi
114
che la considerazione dell’autorialità al cinema riguadagna terreno
nell’industria, nell’immaginario e per la critica.
Nel corso di questo capitolo tracceremo alcune linee guida
fondamentali per inquadrare il problema dell’autore nel campo
cinematografico, prima a livello storiografico e istituzionale e
successivamente da un punto di vista critico, socio-semiotico e testuale.
Siamo intenzionati a usare questo campo teorico, questa ricognizione per
riportare alcuni dei progressi sull’autore al cinema sul campo del gioco
digitale, teoricamente vergine sulla questione. Il cinema ha oltre cento anni
di vita. Il videogioco ne ha più o meno una quarantina. La vera differenza è
però sul piano critico e teorico. La teoria cinematografica, infinitamente più
matura di quella videoludica e molto più rapida a riconoscere e inseguire il
suo oggetto di studio, ha dovuto affrontare sin dalla nascita del mezzo
cinematografico il difficile compito di inquadrarne lo statuto espressivo,
spiegarne la natura e il funzionamento, fare i conti con una tradizione
estetica incline a minimizzarne lo statuto rispetto ad altre, già affermate arti.
Tra continuità e rottura, l’industria, la critica e la teoria del cinema sono
state così portate a ripensare la nozione di autore.
Intorno agli anni settanta il videogioco conosceva definitiva
consacrazione come mezzo di intrattenimento di massa e si verificava la
separazione dei programmatori di Activision da Atari, simbolo della prima,
rivendicata autorialità videoludica. A partire da quegli stessi anni la teoria
del cinema, che disconosce del tutto il mezzo elettronico, faceva passi
significativi sulle tracce dell’autore. La certa critica, reduce dal clima di
nobilitazione dell’autore provocata dagli abusi della politique, iniziava a
mettere parzialmente in discussione la tradizione post-romantica della
nozione autoriale, la ripensava nel contesto di massa del cinema, giungeva a
una sua problematizzazione magari non esaustiva ma lucida, in un
panorama filosofico di frammentazione e ripensamento del prodotto
artistico.
Per questo motivo i progressi della teoria dell’autorialità al cinema,
combinati con la riflessione sul prodotto culturale, quasi si identificano con
115
il problema autoriale tout court. Il nostro obiettivo con questo capitolo è
recuperare questo progresso e iniziare a pensare all’autore videoludico, oggi
al centro di una nobilitazione in parte simile a quella del regista
cinematografico, da una prospettiva aggiornata in questo senso.
È vero che la testualità cinematografica e quella videoludica, come le
loro storie evolutive, il loro aspetto pragmatico e la loro connotazione
estetica e assiologica, si presentano con diversità di fondo e punti di
vicinanza che richiedono un notevole sforzo teorico, in grado di riconoscere
innanzitutto le varietà e i diversi fini semiosici, comunicativi, estetici delle
forme testuali esaminate. Non è tuttavia lo scopo di questo capitolo, ma di
alcuni dei capitoli successivi, tentare di gettare luce su questi aspetti, o
indulgere nella ricerca delle specificità del mezzo videoludico rispetto a
quello filmico. Qui, ci limiteremo a presentare il problema autoriale-
registico nei suoi snodi fondamentali, per mettere a frutto successivamente
il prodotto di questo excursus nel campo del gioco elettronico.
È necessario riconoscere che le vicende che stanno pervadendo la
concezione autoriale del videogioco, incluso lo stesso discorso intorno alla
specificità del gioco digitale, non sono dissimili da quelle osservate a
proposito delle politiche dell’autore cinematografico e presentatesi agli
addetti ai lavori, all’industria, al pubblico, alle critiche. Le numerose
parentele e promiscuità mediali tra gioco e cinema o il semplice senso di
necessità di un minimo grado di continuità e unità del sapere non possono
lasciare dubbi sul fatto che fratture disciplinari o ritardi simili a quello
videoludico sul concetto di autore si risolverebbero nella sterilità critico-
teorica.
All’interno di un progetto organico del sapere, coerentemente con un
panorama di profonda ibridazione tra i due mezzi, un mancato incontro
teorico sarebbe anche a detrimento dell’una e dell’altra teoria. Pertanto, è
solo dopo avere tracciato un panorama generale dell’autore al cinema che
tenteremo di riconoscere le diversità dei mezzi come pure i comuni
denominatori nel loro farsi industria, mezzi di espressione e luoghi di
mitopoiesi autoriale.
116
4.2 – La regia cinematografica
Una storia critica della figura registica per il mezzo cinematografico
è tracciata da Gandini. In Cinema e Regia, viene presentato un excursus
storico fondato sull’esempio di una serie di film dal carattere fortemente
meta-cinematografico, o dalle vicende storiche e produttive altamente
significative per il rapporto tra prodotto filmico e mestiere della regia. Lo
scopo dichiarato di Gandini non è quello di articolare una teoria
dell’autorialità valida al cinema o universalmente, ma proprio quello di
offrire un excursus storico-critico capace di fare naturalmente aprire la
riflessione sul tema partendo da casi significativi97.
Per prima cosa, Gandini mette alla base della ricerca sulla regia
cinematografica la considerazione del cinema come arte dispendiosa,
pubblica, collettiva. Il regista, infatti, “a differenza dei pittori o degli
scrittori […] non può lavorare in completa solitudine", ma necessita di
risorse economiche, dell’inserimento, registrazione o ri-creazione della
realtà sulla pellicola, della collaborazione di numerose competenze senza le
quali non potrebbe portare a termine il proprio lavoro.
La sua riflessione sull’autorialità si concentra sui rapporti incrociati e
perennemente conflittuali, a livello economico-produttivo così come di
immaginario del pubblico e di statuto autoriale, tra produttori, registi e
attori, con le relative oscillazioni tra il potere economico del primo, il
rivendicato controllo artistico dei secondi, il fascino e il blasone degli
ultimi. Secondo Gandini, allora, il regista, quando è mosso dalla volontà di
metabolizzare e ritrasformare la realtà, vive il problema per il quale,
definendo la realtà con un mezzo riproduttivo, questa perde lo smalto
dell'immaginazione98. Il regista è, insomma, sistematicamente costretto a
mediare, e non può fare a meno della ricerca di una dialettica fruttuosa tra
la propria interiorità o la propria intenzionalità e il mondo reale: quello dei
produttori, del pubblico, degli interpreti, del cinema come arte collettiva e
97 Cfr. Gandini, L. (2006) 98 Gandini cita a proposito di questo aspetto le riflessioni di Steiner e Calvino sul tema. (ivi)
117
pubblica. La figura registica si presenta al crocevia di una triplice
mediazione: istituzionale, sociale, espressiva99.
Gandini evidenzia il carattere artisticamente corale e
problematicamente autoriale del cinema e, in un altro lavoro100, introduce il
lettore al tema attraverso la metafora del viaggio collettivo. Il regista appare
qui come un conduttore-condottiero, la cui opera si avvale dell'apporto di
una quantità di collaboratori. Per quanto eterogeneo e articolato, questo
lavoro non è mai anonimo. Il regista è così la grande camera di
rielaborazione e coordinazione dell’opera all’interno della quale
confluiscono contributi creativi che ne investono ogni piano ed aspetto: la
narrazione, le interpretazioni, il visivo, il suono, la musica, i temi e le
figure.
Gandini fa notare come sia solo all’inizio del secolo che per il
cinema, inizialmente considerato pura tecnica riproduttiva, si consideri
lecita l’idea per cui il singolo film possa essere l’opera di un singolo autore.
È questo il caso, ad esempio, dell’opera di Melies o di Stanton Porter. Dagli
anni dieci, tuttavia, la richiesta di film trascina il mezzo nel sistema di
produzione capitalista, cosicchè "con la fine del cinema artigianale" finisce
anche la fase del regista tuttofare.
L'organizzazione del lavoro genera allora il bisogno di un
"conduttore", il regista, e inizia ad articolarsi un rapporto problematico tra
questo e il produttore, tramite dettato dalle esigenze del sistema di
produzione. Gli attori, e i relativi fenomeni di divismo, appaiono al
contempo strettamente correlati al gradimento del pubblico e alla riuscita
economica delle opere, e problematicamente mediati al ruolo della regia. Il
regista utilizza un repertorio di tecniche specifiche, lavorando sulla scrittura
99 Come riferito in Gandini (2006), Ray analizza il cinema sotto il profilo ideologico in "A Certain Tendency of the Hollywood Cinema", mentre Staiger-Bordwell-Thompson forniscono una lettura in cui la dimensione industriale e quella espressiva coesistono e si reinforzano a vicenda, per cui "le pratiche produttive sono parte delle condizioni di esistenza delle pratiche stilistiche" e "ogni attribuzione di responsabilità creativa in un film deve valutare prima a quali posizioni corrispondevano determinate decisioni, e prendere nota delle differenze fra gli studi di produzione". La possibilità di un regista di esprimere un'impronta personale al proprio mestiere deriva proprio dalla pratica e dalla politica degli studi di produzione. Mentre Ray contrappone ideologia e espressione principalmente sul piano dei temi, Staiger-Bordwell-Thompson si concentrano molto più giustamente sulla mediazione nelle pratiche di scrittura filmica. Cfr. Bordwell, D., Staiger, J., Thompson, K (1958) 100 Cfr. Gandini (1998)
118
di sceneggiatori e soggettisti e collaborando con scenografi, attori, tecnici.
La diatriba sull'artisticità del suo lavoro presuppone la domanda circa la sua
natura di artista, di mero esecutore, di coordinatore.
Un altro aspetto importante relativo al ruolo registico nel cinema che
è possibile evincere da Gandini è la stretta correlazione, storicamente
registrata nella critica, nella teoria e nella prassi cinematografica, tra
l’individuazione della natura del ruolo registico e la ricerca dello specifico
cinematografico. La pubblica istituzione del mezzo cinematografico
propriamente detto, infatti, avviene sotto due spinte parallele. Da un lato la
progressiva emancipazione dell’humus tecnologico spettacolare fatto di
giochi di luce, ombre in movimento e apparecchi di riproduzione
fotografica arcaici e destinati ai saloni delle stranezze e meraviglie, che
costituisce il vero grembo del cinema come dispositivo riproduttivo101.
Dall’altro, la ricerca di uno specifico cinematografico, che rendesse
possibile riconoscere al cinema uno statuto espressivo ben distinto, che
desse conto della novità del mezzo ma, al contempo, gli conferisse dignità
accademica, critica, estetica pari a quelle delle arti già affermate (dignità
che il cinema inseguirà a lungo tra i critici e teorizzatori). In Germania, ad
esempio, l'espressionismo cinematografico appare in bilico tra la novità del
mezzo riproduttivo e la piena continuità con regimi espressivi, temi, figure
e soggetti della più ampia corrente letteraria, artistica e di pensiero
espressionista.
L’autorialità è, allora, una nozione che attraversa lo stesso darsi
storico e critico dello specifico cinematografico. Eppure, il dibattito
sull’autore non si concentra immediatamente sulla figura registica:
l’identificazione tra autorialità e regia non appare come una premessa, ma
come il contraddittorio risultato di una lunga storia di vicende, critiche e
teorizzazioni [immagini 17-18-19]. Il cinema deve innanzitutto affrontare
l’ostracismo estetico ed accademico di quanti non lo ritengono una forma
d’espressione caratterizzata dall’intento creativo di un autore, ma un mero
101 Da un simile “grembo tecnologico”, quella volta fatto di prodigi e stranezze elettromeccaniche, abbiamo già indicato la nascita del videogioco.
119
mezzo riproduttivo della realtà lontano dall’idea di arte. Inoltre, la stessa
paternità dell’opera cinematografica, quando essa viene riconosciuta, non
coincide necessariamente con quella del regista. Il ruolo del regista, fa
notare Gandini, appare più come un’eccezione che come una regola,
attraversando fasi, momenti storici, riconoscimenti diversi.
4.2.1 – Specifico registico e ruoli d’autore
I momenti in cui è parso che il film fosse solo del regista sono parsi
quindi, oggettivamente, come eccezioni, e non pare esistere una risposta
univoca alla domanda autoriale al cinema che valga per tutte le epoche e
situazioni. In Italia la forte tradizione umanistico-letteraria fa sì che il
cinema sia connotato da una derivazione fortemente teatrale, e che il ruolo
artistico del regista venga messo in ombra da quello dello scrittore. Il
regista in Italia non è altro che un direttore artistico, i cui pregi sono
fondamentalmente riconosciuti nella buona direzione e allocazione degli
interpreti e della ricerca di “gradevoli soluzioni visive” e di disposizioni
delle riprese e delle scenografie che esaltino il recitato: sul set, il direttore è
subordinato agli interpreti famosi, che arrivano persino a dirigere il girato a
propria discrezione. Vengono riconosciuti al massimo la sobrietà della
ripresa, il rispetto del testo, la direzione degli attori102. Prima che il direttore
artistico inizi a far leva sulla sua autorità per fare entrare il cinema nel
novero dell'Arte ci vorrà, insomma, molto tempo. La critica dell’epoca, del
resto, finisce per utilizzare concetti e strumenti critici nati nell’ambito
letterario e teatrale anche quando si arriva a parlare di un nuovo spazio
visivo del cinema, o quando gli addetti ai lavori cercano di insistere sulla
sua specificità.
Anche quando lo sguardo dell’autore verrà riconosciuto, come nel
periodo del neorealismo, la via italiana alla regia rimarrà a lungo quella
102 Il caso di Cabiria, famoso come un film “di D'Annunzio” anche se girato da Pastrone, estremizza questa situazione. Anche se l’apporto di D’Annunzio si limita all’inserimento di didascalie sul girato e alla sua “approvazione” letteraria, sarà proprio con D’Annunzio e non con Pastrone che il pubblico e la critica identificheranno l’opera. Cfr. Gandini (1998)
120
dell’apprendistato, della frequentazione del maestro quasi da bottega
artigiana, della lunga pratica terminata la quale iniziare a muovere i primi
passi da soli. D’altro canto, ad affermarsi è un modello di regista di
mestiere: un mestiere privo della connotazione negativa assegnata ai nostri
giorni (derivante, per rovesciamento, dall’affermazione della nozione
autoriale) e, anzi, connotato positivamente. L'eclettismo e il "mestiere" sono
marche critiche positive. È apprezzato chi sostiene di essere “un
professionista come l'avvocato è avvocato, come il medico è medico",
portando il parallelo fino al punto in cui fa notare come il medico passi la
maggior parte del tempo a curare il raffreddore, e solo raramente a scoprire
qualcosa di rivoluzionario103.
E però è proprio nel solco della regia come mestiere che inizia a
prefigurarsi il problema dialettico della mediazione tra l'opera individuale,
nella quale riversare il proprio Io, e il lavoro su commissione al quale
prestar mestiere. Nel cinema neorealista, che è comunque estraneo al
precetto romantico del genio creativo in rotta con la realtà, è proprio la
ricongiunzione tra lo sguardo dell'artista, lo spirito dei tempi e del popolo e
l'ideale sociale il fulcro della poetica da ricercare col mezzo filmico. La
telecamera diventa allora un occhio documentario sulla realtà, e al
contempo la visione poetica di un'ideale. Il consenso del pubblico e
l'innovazione linguistica diventano gli scopi paralleli di autori come De
Sica, mentre l'attenzione di Rossellini per le riprese, la disponibilità per
l'imprevisto di Fellini e quella per gli esterni di Antonioni prefigurare
l'importanza del lavoro sul set - e, quindi, della regia - che è prerogativa del
cinema moderno104.
Sul versante transalpino e d’oltreoceano il dilemma che contrappone
il regista-artista e il regista-esecutore trova riscontro, sin dai tempi del
muto, nelle differenze terminologiche tra la figura del regista-director,
come viene definito negli Stati Uniti, e il regista metteur en scene, come
questo viene visto in Francia. Se il termine francese risulta di chiara
103 cfr. Gandini (1998) 104 ivi
121
derivazione teatrale e il sistema di produzione afferma da subito il regista
accanto al titolo, mettendo il risalto la paternità registica dell’opera, negli
Stati Uniti il regista viene investito di una funzione che è vista come
puramente direzionale: i film compaiono con i nomi degli attori e il tema
del film in bella vista, e del regista non v’è spesso traccia nei titoli di testa.
Nel cinema muto americano, d’altro canto, l'affermarsi dello studio system
genera l'importanza crescente del divismo. Gli interpreti incarnano la vera
sostanza riprodotta del cinema in quanto mezzo di fascinazione. La
notorietà e l’interpretazione del divo diventano componenti essenziali per la
riuscita dell’opera filmica, e il regista è tenuto a confrontarsi con i divi,
assecondarli, assicurarsi che contribuiscano al massimo alla riuscita del
film. L'affermazione del director non avviene quindi in maniera pianificata,
come per gli attori, ma attraverso il confronto con la produzione.
La figura del director viene riconosciuta negli anni dieci soltanto
dalle riviste specializzate di una certa critica e, solo un buon decennio dopo,
dagli studio system, che la utilizzeranno in senso mitologico e per i risvolti
di colore sulla cronaca piuttosto che riconoscerle concretamente un ruolo
creativo. I sistemi di produzione e la stampa si accorgeranno ben presto del
ritorno pubblicitario sulle opere filmiche delle biografie dei registi “da
rotocalco”. È il caso di Von Stroheim, che costruisce un’immagine pubblica
contradditoria e scandalistica, o di De Mille, che diventa famoso come
starmaker capace di trasformare i suoi attori in stelle mondane. Questo
riconoscimento biografico non investe però il riconoscimento del ruolo
artistico e creativo del regista, ma solo la superficie cronachistica.
Nell’epoca in cui Thalberg incarna perfettamente la figura del produttore-
cerbero, eccezioni come Neilan, Tourner o Griffith, ognuno a suo modo
incarnazione di un’idea totale e artistica della regia, non saranno destinate a
restare in giro per molto ad Hollywood. A farsi strada negli anni Venti del
sonoro sono invece “i registi che volano basso, rispettosi del sistema e dei
122
capricci delle star, che lavorano con professionalità senza aspirare a essere
dei Raffaello dello schermo”105.
Nel cinema americano degli anni Venti e Trenta, del resto, la già
debole funzione creativa assegnata al regista subisce un ulteriore
ridimensionamento industriale connaturato a uno sforzo collettivo per la
produzione dei film e all’impiego di troupe sempre più grandi e varie. Ad
affermarsi è la figura del produttore, il cui ruolo appare cruciale per la
realizzazione del prodotto filmico. Come un automobile, il film è il prodotto
di una catena produttiva. In questa logica, in luogo dell’esaltazione del
ruolo registico si afferma la mitologia della "non-regia": il regista diviene
apprezzabile quando la sua funzione si nasconde e "scompare" dietro a un
perfetto coordinamento degli elementi della messa in scena e produzione
filmica. Nell'epoca d'oro del cinema narrativo hollywoodiano il regista non
è ancora un autore (come sarà nel senso della Nouvelle Vague), ma è una
figura autorevole la cui traccia "scompare" dietro alla narrazione fluida e ne
assicura la spettacolare riuscita. Mentre negli anni dieci il sistema di
Hollywood arrivava in casi estremi ad esaltare la biografia del regista sulla
narrazione filmica, venti anni dopo lo subordina interamente alla seconda.
4.2.2 – Il regista all’interno del sistema
Il cinema classico hollywoodiano è allora caratterizzato secondo
Gandini da "un conflitto tra individuo e comunità che condiziona in
profondità sia le modalità con cui i film vengono realizzati, sia i loro
contenuti". I registi che provano a andare "controsistema" sono pochi, e si
affidano a strategie diverse. Il caso Capra è l'esempio storico più evidente di
una ricerca di rivendicazione del ruolo della regia nel cinema classico
americano. Per ‘Mr. Deeds comes to Town’ Capra pretende che venga
messo "il nome sul titolo"106. In ‘Arriva John Doe’ lo stesso regista
tematizza il problema autoriale. Per poterlo fare assurge a un ruolo mediano
105 ivi 106 ivi
123
tra il regista e il produttore ma in seguito, paradossalmente, finisce per
aderire suo malgrado alle stesse logiche contestate al sistema, come
l’utilizzo forzato del lieto fine [immagine.
Ancora più significativo appare il caso di Griffith che, arrivato a
Hollywood all’oscuro di nozioni tecniche di regia e professionalmente
vergine, investe il suo cinema di una regia iper-visibile, per nulla
trasparente e al contrario opacizzante dello sguardo, che da forma personale
al girato, investendovi la propria personale visione del cinema e del mondo
e utilizzando stilemi e soluzioni del tutto inusitate a confronto con lo stile
asettico e invisibile della regia dell’epoca. Il caso Griffith è quello di un
tentativo di rivendicazione del cinema come forma d'arte individuale e non
di prodotto industriale. Griffith, più di chiunque altro prima,
antropomorfizza il narratore cinematografico, implicandovi la presenza di
un regista al lavoro espressivo.
Per Griffith, ci vuole un autore, "un capo" per la buona riuscita del
film. Al termine de ‘L'orgoglio degli Amberson’, Griffith arriva a recitare a
voce il proprio nome. Per questi motivi e altri ancora, l’autore di ‘Quarto
Potere’ avrebbe visto terminare in maniera brusca e senza preavvisi il
proprio apporto allo studio system hollywoodiano. Alla RKO non
avrebbero tollerato ancora per molto il suo sconfessamento e ribaltamento
del principio di trasparenza del director in favore di una totale opacità dello
sguardo del regista sulla pellicola, né le sue pretese di controllare il montato
del film.
Il controllo del montaggio, elemento fondamentale della sintassi
filmica, appare come un’altra variabile centrale per la comprensione del
rapporto tra regia, produzione e testo filmico. Nel cinema hollywoodiano, il
montaggio del girato è istituzionalmente estraneo al regista, ed è
appannaggio del montatore su controllo della produzione. Nella Hollywood
classica, quindi, tanto meno un regista gira, tanto più ha la possibilità che il
suo prodotto finale sia una rappresentazione della direzione che il lavoro
dovrebbe intraprendere a suo avviso. È questa la ragione dell’esistenza di
una “poetica” di Ford, che era solito non volere lasciare alcun pezzo di
124
pellicola scartata, curando al massimo la ripresa, non intraprendendo
versioni diverse dello stesso girato e limitando al massimo il superfluo per
non lasciare grossi margini alla produzione.
4.2.3 – Dal regista al critico, dal critico al regista
La riflessione sul montaggio non interessa solo lo studio system
hollywoodiano, ma sarà centrale nel cinema e nella teoria cinematografica
in Russia. Le riflessioni di Kulesov, Ejzenstejn, Vertov e Pudovkin, il
discorso e il dibattito sul cine-occhio e sul montaggio e la dissezione del
linguaggio e della sintassi filmica portano i sostenitori di un cinema nuovo
al rifiuto del cinema tradizionale, ancorato a un'essenza pre-cinematografica
e invischiato nei pregiudizi creativi ed estetici ereditati dal campo, estraneo,
delle altre arti. Il regista cinematografico, attraverso l’uso completo delle
possibilità filmiche e in particolare del montaggio, è allora un vero e
proprio ricercatore di un linguaggio vergine, quello cinematografico,
costantemente alla ricerca delle sue specificità. E se anche può apparire
paradossale che i sostenitori del cinema nuovo in Russia sostengano il
“passaggio dalla creazione di un singolo autore o di un gruppo di autori alla
creazione di massa”, con il conseguente tentativo di “accelerare il naufragio
della cinematografia artistica borghese e dei suoi attributi: l'autore istrione,
la favola-sceneggiatura, e quei giocattoli di lusso che si chiamano
scenografia e regista-gran sacerdote", appare innegabile la considerazione
del fatto che l'imponente riflessione teoria nell'Unione Sovietica sul ruolo
della regia e sullo statuto del film troverà continuazione solo in Francia con
i critici dei Cahiers107.
La maggiore eco della riflessione sulla regia e il maggiore sforzo per
rivendicare la specificità del cinema si genera infatti dalla Francia. Già a
proposito del cinema delle origini, Herbier sospetta del termine "metteur en
scene" in quanto "sa di connivenza col teatro": la ricerca e definizione della
107 Per una esauriente storia del cinema si rimanda a Bordwell-Thompson (2005). Per la storia delle teorie sul cinema, cfr. Casetti (1994)
125
specificità del cinema sarebbero così già precluse in partenza. Herbier
lamenta anche il fatto che l'autorialità del film sia spesso o quasi sempre
assegnata allo scrittore del soggetto, piuttosto che al regista: non è infatti
nel soggetto scritto o nella sceneggiatura, ma nella pratica concreta della
regia che il cinema come mezzo di espressione trova massima
realizzazione. Il regista è infatti un coordinatore-assemblatore di istanze
creative che nella messa in scena trovano "un punto di sintesi e
rielaborazione" tale per cui l’opera finale non sarebbe mai uguale senza il
suo metteur en scene.
Paradossalmente, come fa notare Gandini, è basandosi su questo
termine vituperato e ritenuto connivente con quanto non attiene alla
specificità cinematografica che Bazin e i critici dei Cahiers du Cinema
penseranno, tra gli anni cinquanta e i sessanta, a un cinema della camera-
stylo, a un cinema non come mero mezzo riproduttivo della realtà ma come
un lapis nelle mani del regista, al servizio di una rielaborazione
dell'esistente. Questo profondo e al tempo rivoluzionario ripensamento
della figura del regista, che da luogo alla cosiddetto Politique des Auteurs
dei critici dei Cahiers, è frutto tanto del ruolo dei critici che delle mutate
condizioni produttive. Queste si presentano più abbordabili che in passato,
con tecnologia a piu basso costo e una maggiore agilità economica dei
progetti: tutto questo consente un accrescimento del peso del regista, e un
conseguente arricchimento e mutamento del linguaggio e della concezione
filmica. Il regista, interessato maggiormente alla psicologia dei personaggi
piuttosto che all'intreccio, finirebbe col proiettare anche la propria
personalità nell’arte della camera-stylo. La politique degli autori ha una
particolare importanza perchè il cinema era allora considerato subordinato
rispetto alle altre arti, mentre i suoi fautori ritengono che qui come altri
campi ci si possa imbattere in autori dotati di una precisa poetica. Ed è il
regista ad essere eletto a responsabile della mise en scene di questa poetica.
Per la prima volta, il regista viene considerato non solo, eventualmente, per
il suo personaggio da rotocalco e per la sua personalità pubblica, ma per il
suo essere un autore. Con il regista si avvertire la presenza nel film di "un
126
intelletto che si esprime in modo lucido e profondo, che fa del cinema, dei
suoi film, il terreno di espressione della propria concezione del mondo", in
un'epoca in cui prima della politique gli sceneggiatori in Italia e gli attori e
produttori a Hollywood si vedono attribuire meriti “che finiscono per
adombrare il ruolo della regia"
Attraverso la politique la credenza nella distinzione tra il mestierante
su committenza e il regista per vocazione si radicalizza. Il confronto
sull'idea registica non interessa il regime istituzionale e produttivo del
regista, ma in primo momento la critica. La mise en scene è infatti il
momento in cui col mezzo filmico una visione del cinema è anche visione
del mondo. La tradizione di riferimento cessa di essere l’apprendistato, e la
comunità a cui il regista si rivolge non è più quella del pubblico
indiscriminato: ha invece a che vedere con una tradizione che ci si è
costruiti, con un pantheon di registi ispiratori. Ogni regista, per i critici dei
Cahier, è un autore del suo film, al massimo un pessimo autore. Tuttavia,
gli "autori" eletti dai Cahier, divenuti poi esempi di altrettante idee di
cinema, non sono necessariamente ai margini del sistema cinematografico
che i Cahier condannano in quanto stantio, letterario e "di papà". La poetica
cinematografica, nell'accezione cahieriana, ha quindi poco a che vedere con
la situazione finanziaria del regista.
Elevando il regista al ruolo di autore e artista, il maggiore effetto
ottenuto è quello di inquadrarlo secondo un’ottica non estranea al concetto
di arte secondo una impostazione di pensiero tradizionalista, di stampo
romantico. Nonostante questo, con il passaggio di molti dei critici dei
Cahiers alla regia, negli anni sessanta ha il via una corrente cinematografica
iconoclasta e moderna nei linguaggi e nei temi, la Nouvelle Vague: un
cinema che si presenta come una fondazione di nuovi, liberi paradigmi ed
exempla, dai tratti fortemente autobiografici. Un cinema con il quale si crea
il principio di una "koiné parlabile e articolabile" del cinema108 che si
esprime non attraverso il praticantato da bottega, ma attraverso un pantheon
di maestri eletti da osservatori, lasciando così un margine per 108 cfr. Costa (2002)
127
l'individuazione di una poetica personale. L'introiezione della personalità
del regista nel testo è allora il grimaldello per una rivoluzione della
grammatica filmica rispetto a quella affermatasi istituzionalmente. Una
grammatica che investe la regia come anche la scrittura filmica e il
montaggio.
4.3 – La mitopoiesi autoriale
I Cahiers du Cinema e la Nouvelle Vague, pur nella varietà delle posizioni
dei pensatori e dei registi che si è soliti includere al loro interno,
rappresentano quindi due aspetti complementari della medesima visione del
mezzo cinematografico: quello critico e quello del fare filmico. Allo stesso
modo, l’influenza di questo movimento culturale è doppia, e investe tanto la
storia del cinema quanto la sua futura teoria, costituendo peraltro uno degli
elementi che contribuiscono a fare convergere, intrecciare, contraddire il
testo filmico, l’epitesto commerciale e il metatesto critico.
Sul piano del fare filmico, che si presenta spesso in comunicazione
con la dimensione critica e l’epitesto pubblicitario e di appendice dei testi
cinematografici, la nozione autoriale viene affermata dai Cahiers e si
incarna nei film di autori come Godard e Truffaut. La corrente che si è soliti
identificare con il termine di Nouvelle Vague, oltre ad affermare il ruolo del
regista nel linguaggio dei film e tramite i crediti e il paratesto che li
presenta, da il via a una visione del cinema e a una affermazione sul suo
statuto, ispirando per decenni successivi alla sua stessa estinzione lo
sviluppo di strategie autoriali e riflessioni sull'autore.
Dal punto di vista registico, l’esempio di autogestione e il
rafforzamento del ruolo del regista degli autori della Nouvelle Vague,
spesso in rotta con la produzione o capace di slegarsene con progetti
economicamente più agili e poche risorse, si unisce alla maggiore
reperibilità dei mezzi produttivi per fare cinema, e inietta fiducia nella
produzione indipendente. Negli anni sessanta, la produzione indipendente
risponde pienamente all'insoddisfazione nei confronti del production system
128
di Hollywood, causando una vera e propria rivoluzione del modello di
produzione filmica, investendo il linguaggio filmico di una serie di temi,
stilemi e soluzioni in larga parte inediti e lanciando una nuova generazione
di registi come Scorsese, Coppola, Lucas. Sul piano della produzione, la
dimensione della grande industria si affianca a quella semi-artigianale e
artigianale. I registi hanno piu libertà creativa, anche se i molti fallimenti al
botteghino causeranno, negli anni ottanta, un grande ritorno al modello dei
grossi studio negli anni Ottanta.
Sul versante critico, teorico e, in generale, del discorso più o meno
specializzato intorno al cinema, l’influenza dei Cahiers e il confluire delle
personalità critiche alla base di un ripensamento dell’autorialità al cinema
in una corrente come quella della Nouvelle Vague sono decisive.
L'entusiasmo con cui i postulati critici della nouvelle vague vengono
interpretati porta ben presto a una serie di esasperazioni e distorsioni del
concetto di autore, la maggior parte delle quali a opera di puri critici che, a
differenza dei collaboratori dei cahiers, non diventeranno mai registi.
La portata intellettuale dei Cahiers, che consisteva nell’elezione di un
pantheon di autori dotati di una vera e propria poetica, tale da ispirare in un
secondo momento il regista alla ricerca di una poetica personale, perde il
suo carattere pragmatico e la sua finalità rivolta al fare filmico e si connota
di romanticistica mitologia del genio d’autore. Kael, già negli anni sessanta,
critica l’impostazione critica di Sarris, ricalcata dai Cahiers ma estremizzata
a tal punto da diventare una vera e propria "intuizione mistica"
dell'autore109. Kael parla a tal proposito di un tentativo "di usare il regista
come Cavallo di Troia per far entrare il cinema nel territorio dell'estetica,
promuovendo la sua figura come equivalente a quella dell'artista nella
tradizione romantica, che forgia l'opera in virtù della propria irriducibile
individualità creativa". Kael rimprovera a Sarris anche il fatto di esporre la
sua critica apologetica dell’autore al pericolo di non riuscire a distinguere,
in base a questa logica, i film riusciti di un autore da quelli che si sono
rivelati mediocri o pessimi. 109 Cit. in Gandini (1998)
129
Quella di Kael è una intuizione lungimirante (oltre che, come
vedremo tra pochi paragrafi, teoricamente ragionevole). Se la tendenza
critica dagli anni sessanta in poi, infatti, era la riscoperta dell'autore, negli
anni ottanta la tendenza nei confronti dell’autore sarà la sua creazione a
tavolino, il trasformarlo in un prodotto o, se si preferisce, in un’etichetta
commerciale per il lancio e la promozione del film. Dagli anni settanta in
poi, come conseguenza, avviene un’invasione dei registi, con i critici alla
caccia, riscoperta o creazione degli autori. Alla creazione industriale degli
autori si affianca la mitopoiesi del critico. A volte è lo stesso critico a creare
l'autore, non senza spericolatezze acrobatiche sul piano terminologico, ed è
a questo punto che, mentre l’autore diventa il cavallo di Troia per la vendita
del film, il film e l’autore diventano un cavallo di Troia per l’esposizione
dell’acume del suo apologeta110.
Il nome dell’autore sopra il titolo, così difficilmente conquistato da
Frank Capra e a titolo del suo libro sull’argomento, è adesso la norma per
uno studio system che assume spesso l’autorialità come strategia chiave: a
ogni regista va la nomenclatura di autore a tutto vantaggio della retorica
commerciale sull’artisticità del mezzo cinematografico, pienamente
accettata a livello accademico come popolare. Gandini fa notare come la
scelta di difendere ogni regista come autore abbia determinato,alla lunga,
uno scivolamento della nozione di autore “nell'orbita di quella produzione
seriale e standardizzata che costituisce il centro nevralgico dell'odierno
intrattenimento di massa, dove a contare è evidentemente la possibilità di
utilizzare il nome del regista come marchio, garanzia della qualità del
prodotto da lanciare".
Corrigan parla del "business di essere autore": le diciture "from the
director of" e "director's cut", che oggi costituiscono di fatto la norma del
mercato promozionale del film, sono etichette paratestuali che rinforzano
questa strategia, oltre ad agire in piena direzione di restrospettiva di
catalogo commerciale per registi affermati e dalle buone vendite, che
110 Gandini riporta a tal proposito Musil, riferendo come i critici siano spesso "lirici mancati che devono attaccarsi a qualcosa per potersi espandere". Cfr. Gandini, (1998)
130
vedono i propri lavori incanalati nelle logiche delle librerie di dvd111. Il
regista sembra allora approdato "allo stato di visibilità suprema", incensato
da una critica auto-compiacente e promosso dal sistema produttivo, proprio
nel momento in cui – perfettamente integrato nella logica di produzione che
antecede la ricerca personale - ha smarrito il compito essenziale di
esclusione/inclusione del materiale dall'opera, alla sua impronta nel gioco
condiviso del cinema.
Gandini sostiene allora che le chance rimaste al regista sono allora
quelle di "nascondersi". Il mezzo cinematografico contemporaneo
verserebbe in uno stato caratterizzato dalla nevrosi autoriale esibita, e dalla
contemporanea polverizzazione delle poetiche filmiche personali, con il
loro aggirarsi tra il nostalgismo cinematografico, la contaminazione
stilistica, l’autorialità “di genere” (e non più quindi in antitesi al genere), il
postmoderno. Così, Kiarostami sarebbe un apologeta del ritorno alla
camera-stylo, grazie alla portabilità del digitale e al potenziale di
autoproduzione della tecnologia recente, verso il tentativo di fare
scomparire il regista e fare ritornare il puro Autore. L’alternativa della
“scomparsa nel genere” sarebbe la strategia cinefila fatta propria da registi
come Tarantino: in questo senso, l'autore non si distinguerebbe da un
demiurgico e postmoderno operatore di assemblaggio, recupero, ri-
nobilitazione di “generi” esistenti, magari dimenticati o lungamente
sottoposti a discredito critico. Il regista pratica allora profondamente il
cannibalismo intertestuale, e non parla attraverso la lingua del cinema ma
"ne è parlato". Ci sarebbe, infine, la pratica, del tutto confluente nella logica
autoriale di questa epoca, del remake, che da un lato rinforza ma dall'altro
problematizza l'imperativo dell'autore. Gandini porta ad esempio il caso
Van Sant, che rifà Psycho senza pretendere di riscriverne lo spirito, ma
come se volesse riportare alla luce l'originale in maniera fedele. Il regista
contemporaneo, allora, sarebbe una figura problematicamente all'incontro
tra la creazione e la ricezione, a simbolo dell’attuale fase del mezzo
cinematografico. 111 Cfr. Corrigan, cit. in Gandini (1998)
131
4.4 – Critiche dell’autore cinematografico
Se la storia ricerca dell’autore nel videogioco era iniziata in termini
problematici, legati alla difficoltà di pertinentizzare lo specifico videoludico
e il ruolo del programmatore, creatore o designer, si può constatare
facilmente come anche al cinema l’autore non sia un punto di partenza, ma
un luogo provvisorio di arrivo, storicamente controverso e teoricamente
problematico.
La storia della regia cinematografica, della quale abbiamo tentato di
delineare alcuni tratti fondamentali senza inoltrarci nelle vaste ricognizioni
rese necessarie da una più profonda opera di riflessione sull’evoluzione del
linguaggio filmico, è in larga misura una storia del modo in cui la nozione
dell’autore si è evoluta nel mezzo cinematografico.
Le possibilità espressive del mezzo, il suo inserimento in un sistema
di produzione industriale, le conflittualità produttive e tecniche in gioco
hanno determinato una storia che passa dalla radicale negazione
dell’autorialità alla sua strumentalizzazione biografica, dalla sua
affermazione programmatica al suo rientro nelle logiche corporative sotto
forma di etichetta.
Se l’autore è parte integrante del paratesto filmico, anche l’epitesto
critico del mezzo riflette la centralità come l’ambivalenza di lettura della
nozione autoriale. Mentre sulle riviste commerciali la logica dell’attore
famoso e la retorica dell’autore si alternano in copertina, riviste di spessore
critico e teorico del livello di SegnoCinema assumono l’autore come un
problematico snodo critico per criticare il presente e comprendere il passato
cinematografico. Che si tratti, insomma, di acquiescente connivenza
piuttosto che di critica del mito autoriale del cinema contemporaneo,
l’autore occupa il centro della ribalta insieme al testo. Il dibattito sull’autore
è più quindi attuale che mai. Quando non è l’oggetto di volumi dedicati, di
interventi pubblici in conferenze e di speciali di riviste, l’autore opera per
una certa critica di settore il ruolo di una questione latente, di una
consapevolezza in filigrana nel considerare il testo filmico.
132
È a questo modo di interpretare criticamente l’autore nel testo
filmico che vogliamo continuare ad aggiornare la nostra riflessione,
concentrandoci sull’aspetto teorico. Senza pretese di completezza o di
rigore cronologico, passeremo in rassegna alcuni punti fondamentali: la
trasformazione dell’autore in etichetta, il rapporto tra autorialità, pubblico e
critica, l’irrinunciabilità alla lettura del testo attraverso l’autore anche nel
senso critico, il rapporto tra una prospettiva testualista e una incline a
riconoscere il soggetto.
4.4.1 – L’autore da nozione a etichetta
In Bazin, tra i principali fautori della politique, l'autore era il cardine
di una politica, di un'estetica e di una teoria critica. Quello del regista-
autore di un cinema-arte dotato di una specificità era un concetto "da
impugnare contro le risacche di un'arte indolenzita dalla letterarietà dei suoi
interpreti, ma anche il fulcro sul quale torcersi per passare dalla critica alla
regia”112, come avrebbero fatto gli interpreti di questa critica. Questa
nozione sarebbe però diventata un’etichetta formale, perpetuandosi ben
oltre il suo naturale ciclo di utilità e cessando di lavorare nella direzione per
cui era stata pensata: finendo anzi, secondo molti, per remare nella
direzione opposta.
La trasformazione dell’autore in un’etichetta commerciale è
analizzata da De Bernardinis, che ravvisa nell’attuale abuso della logica
autoriale in calce ai titoli dei film una tendenza, evidente e preoccupante, di
una “deriva dell'autore”, di un suo scivolamento nelle “spire del marchio”
in maniera che appare “solidale al cine-sentire della calibrata mitopoiesi
contemporanea"113. Si osserverebbe, nei fatti, proprio mentre l’autore viene
esaltato nella presentazione del film, a un prevalere del testo e del
“progetto” sul secondo. A essere obliterata non sarebbe così tanto l’idea
stessa di autore, che ne esce affermata, ma proprio il suo mestiere: l’autore,
112 cfr. Grespi, B., “In principio era l’Autore”, in Segno Cinema, n. 103. E ancora Casetti (1993) 113 cfr. De Bernardinis, F., “Nuova Gestione”, in Segno Cinema, n. 103
133
insomma, si ritirerebbe per assumere “in vesti meno gravose […] il ruolo
dell’esecutore”. L’autore, inteso come personalità all’opera
sull’enunciazione di un testo, non riesce ad attecchire nel vuoto delle
formule filmiche fondate più sui “tipi” di film che sui generi e, divenuto
“marchio”, si ritira, rinunciando all’invenzione di una storia o di un
significato. Si accontenta, allora, proprio di una gestione di una storia o di
un significato, e questo tanto nel grande prodotto hollywoodiano quanto nel
sistema di sperimentazione indipendente, accomunati dalla saturazione
della progettualità filmica. Secondo de Bernardinis, comunque, esiste un
contraltare positivo a questo fenomeno: la perdita da parte dell’autore,
almeno fuori dal livello della retorica pubblicitaria, della dimensione del
tragico associata al suo gesto creativo, della lotta contro il destino per il
compimento dell’opera. Ciò non toglie che, finita l’epoca degli autori colti e
cinefili, Hollywood abbia accolto in massa quei “gestori del marchio” che
non hanno troppe radici da omaggiare o un “cinema di papà” con cui
prendersela, e che si limitano a rimodellare, disciplinatamente, le forme
testuali che ricevono.
4.4.2 – Il pubblico, la critica, la “cifra d’autore”
Il rapporto tra l’autore e il pubblico, che in qualche modo contribuisce a
“creare” il primo, è esaminato da Mazzarella nello stesso speciale di Segno
Cinema a cui facciamo riferimento per molti tra i contributi di questo
capitolo114. Mazzarella fa notare la quotidianità di fenomeni come “il
Giovanna d’Arco di Luc Besson”, in cui Besson osa appunto considerarsi
l’autore di un’opera che riscrive sotto la sua personalità (un po’ come
l’Ulisse di Joyce, se vogliamo). Mazzarella mette quindi in guardia dal
mitologema della impalbabile “cifra d’autore”, nonché dai rischi che
derivano dall’accettare una correlazione tra la credenza nella prima e
l’apologetica accettazione di un pubblico sottoposto a bombardamento
retorico. Sottoponendo Besson a una ricerca sui suoi presunti stilemi, sulle 114 Cfr. Pezzotta, A. “L’autore tra noi (s)conosciuto” (a cura di), in Segno Cinema, n. 103
134
collaborazioni tipiche del suo lavoro (la fotografia, la sceneggiatura), sugli
stili e i generi di film attraversati, Mazzarella sostiene che di fatto “il
Besson-touch non esiste” a livello stilistico, mentre contenutisticamente il
comune denominatore dei suoi film equivarrebbe a un “boh”. Per
Mazzarella, insomma, la “cifra d’autore” è diventata una impostura da dare
in pasto a un pubblico incline ad accettare la retorica dell’arte
cinematografica, in modo tale che il pubblico è co-autore dell’autorialità
nevrotica e forzata del cinema contemporaneo115.
La critica prosegue facendo notare una conseguenza ulteriore di
questo stato di cose: il rischio della credenza nella cifra dell’autore basata
sulla coerenza dei contenuti dei suoi film. Questo approccio è fallace
perché, in primo luogo, presenta il rientro di nascosto di una
contrapposizione già teoricamente defenestrata, quella tra il prodotto di
cultura “alta” e quello “basso”. Se l’autore si riconosce dalla coerenza del
contenuto e degli stilemi, infatti, autori a tutti gli effetti dovrebbero essere
considerati pure i registi dei più irriverenti e dozzinali fart-movies o i
fratelli Vanzina, salvo il recupero della contrapposizione sopra citata. In
secondo luogo, prosegue Mazzarella, la coerenza dei contenuti è un
approccio fallace per riconoscere un autore, visto che molti registi incapaci
continuano, per soldi o per un certo “talento”, a proseguire sullo stesso
solco.
Un’obiezione a queste osservazioni sarebbe allora che ci sarebbero
autori buoni e autori cattivi, rientrando così interamente nel precetto
cahieriano. In realtà, questo porterebbe a estendere indiscriminatamente il
novero degli autori, fino alla perdita di utilità del concetto. La caccia rischia
così di diventare, paradossalmente, quella al non-autore. Bisognerebbe
riconoscere, in realtà, come persino i fautori della politique des auteurs
abbiano presto visto la propria visione comune sfaldarsi nella totale
eterogeneità di vedute, in alcuni casi antitetiche ai precetti della politique.
Non si sentirebbe affatto l’esigenza, allora, di quell’“autore" che "si
autodefinisce come tale, che firma manifesti teorici cui poi non tiene fede, o 115 cfr. Mazzarella, F., “C’è un autore in questa sala?”, in Segno Cinema, n. 103
135
che è in grado di teorizzare sul suo stesso cinema o che mi mostra tutta la
sua essenzialità taiwanese"; mentre ci sarebbe sempre bisogno di autori
appartenenti “a quella razza situazionista in via d'estinzione” i quali
“sfruttano la fiducia accordata loro dall'industria per sabotare le aspettative
degli executives, riuscendo a far credere di aver realizzato i desideri del
committente e avendo dato invece fondo alle loro più perverse brame"116.
Il discorso investe, evidentemente, la critica e il pubblico, che delle
apologetiche eco dell’idea autoriale sono al contempo camere di risonanza
e destinatari. La creazione dell'autore da parte del pubblico è infatti
imperfetta e irrilevante, ma anche quella fornita dalla critica si è rivelata
"altrettanto approssimativa e infallibile", tanto più oggi in una situazione di
"disintegrazione delle teorie e di vertiginosa, e per certi versi inspiegabile,
caduta libera" della funzione critica, dovuta a una stagflazione dell'offerta
di intrattenimento senza pari nella storia moderna.
Mazzarella si domanda provocatoriamente se c’è ancora bisogna di
un’idea di critica per il cinema, visto che il cinema del multiplex e di
magalog, al contempo causa ed effetto del declino al minimo storico della
funzione pubblica della critica, sembra non avere neppure più bisogno di
quest’ultima, mentre appaiono veramente dei “mostri nobili” quegli autori
capaci di progetti e riformulazioni di “un altrove davvero inedito o
possibile”, e ancora immuni dallo spettro citazionista del postmoderno o dal
ritiro snobistico nelle forme arcaiche o desuete.
La nozione autoriale, allora, sarebbe un prodotto di divenire storico,
ma sembrerebbe che si sia disintegrata proprio perchè non esiste una storia
di oggi che dia alla nozione un senso. Sulla critica, che apparirebbe
largamente deprivata della propria funzione, si concentra l’analisi di
Monetti, che sposta la riflessione sul modo in cui essa costruisce e legittima
se stessa attraverso la costituzione e apologia del proprio oggetto d’analisi.
Monetti evidenzia in particolar modo la tendenza della critica a
costruire, per legittimarsi, una propria idea autoriale117. Non solo aderendo
116 cfr. Mazzarella, cit. 117 cfr. Monetti, D., “Lo spettro della rivalutazione”, in Segno Cinema, n. 103
136
alla propaganda della distribuzione filmica ma anche, eventualmente,
prestandosi a forzose opere di rivalutazione di registi del passato, o
cercando la convergenza con il gusto popolare e commerciale attraverso
rivalutazioni e assegnazioni di forzosi statuti di cinema di culto. Nel
rinvenire autori, insomma, la critica li crea. Nel far ciò, arriva a sovrapporre
la figura dell’autore a quella del semplice e onesto mestierante.
L'intellettualizzazione del regista e della scrittura filmica (che in alcuni casi
si riduceva a una mera scusa per le esplosioni linguistiche e visive dei
comici della commedia sexy) ha, così, "regalato la parola autore a chi si è
sempre sentito un semplice artigiano". Monetti porta l’esempio dello iato
tra la preparazione di Ghezzi e Germano intenti a intervistare Joe D’Amato
sulla sua opera e quest’ultimo, impreparato su se stesso e “più vicino a
Pierino che non alla figura dell'autore”. È in questo duplice movimento, in
cui “ci si porta verso il senso dell'opera cercando di appropriarselo, ma allo
stesso tempo sapendo e desiderando che il senso possa essere altro o
semplicemente non esserci”, che la critica cinematografica diventa una
critica autoriale, aderendo all’idea-ideologia di quest’ultimo. È qui che
l’emulazione dei Cahiers du Cinema fallisce, perché il testo filmico diventa
un mero pretesto per rendere autorevole il testo scritto, e mentre la critica
tenta di non sparire, di fatto diventa “un genere paratestuale all'opera
filmica, un esercizio di scrittura piuttosto che d'analisi, completamente
autarchico".
La funzione critica rimane indispensabile, visto che l’espulsione
dell’epitesto e della sua influenza sul testo cinematografica appare
un’ipotesi da scartare. Se esistono migliaia di film senza autore, fa notare
Pezzotta118, è difficile che ci siano film apocrifi di registi tenuti all'oscuro: il
cinema è un'arte pubblica, la prima di cui si sia seguita la storia in
contemporanea, con un grado di controllabilità che rispetto al libro
denuncia il lavoro collettivo e pubblico. Anche Pezzotta rinviene nel culto
autoriale contemporaneo e nella rapidità con cui si costruiscono autori
nient'altro che una forte e irrinunciabile necessità della critica, che brancola 118 cfr. Pezzotta, A., “Una modesta proposta”, in Segno Cinema, n. 103
137
nel buio, esattamente come gli stessi autori, visto che è il marketing a
rifornirli di nuove figure. Per Pezzotta, anzi, sarebbe non troppo azzardato
preconizzare un futuro possibile in cui l'autore è scomparso e vale la marca,
il marchio, l'esperienza pura, e non il tentativo della ricerca autoriale di
ancorare l'esperienza del cinema alle nostre identità e alla nostra storia,
fornendogli un senso a cavallo tra la storia e l'immaginario. In quel
momento sarebbe loro rimasta davvero solo la realtà, ma i prolegomeni di
una simile situazione potrebbero essere osservabili già da oggi. Quanto più i
critici parlano di autori, infatti, tanto più Hollywood si affretta a trovarne di
nuovi, continuando a mettere in testa ai titoli i nomi di qualunque
sconosciuto in una nuova fabbrica della idea di autore in cui i nomi sono
perfettamente scambiabili e rispondono alla sola logica dell'autorialità "di
marchio", del bollino di Alta Qualità Artistica. La critica deve allora
rinunciare alla autorialità come categoria analitica, perchè essa è oggi
obsoleta e connivente proprio a quella industria che nega il cinema come
arte demiurgica attraverso la quale si può affermare una visione personale
del cinema/del mondo.
Bisognerebbe quindi, prosegue Pezzotta, pensare agli autori non
tanto come ad artisti coerenti a cui dedicare biografie, ma come attori che
brancolano nel buio, diffidando dei nomi: dietro a questi, infatti, si celano
nella maggior parte dei casi dei marchi, delle griffe, del merchandise e,
mentre il cinema si trasforma, chi lo produce ci fa perdere tempo a
incasellare i nomi che ci vengono proposti a getto continuo.
4.4.3 – L’autore e la prospettiva testuale
La proposta sarebbe allora, in un certo senso, quella di praticare
“l’astinenza dall’autore”, come unica alternativa alla logica
dell’incasellamento forzato del cinema e della sua pratica nella retorica
autoriale. Si tratta, probabilmente, di un’ipotesi utopistica. Sembrerebbe,
infatti, per certi versi, che l'idea di autore sia comunque irrinunciabile.
138
L’autore sarebbe una nozione dalla quale, come sostiene Menarini119, non si
può fare fuga. Pare, infatti, come testimonia "la paradossale polemica che
ha diviso critici e registi qualche tempo fa, importata dalla Francia e
tiepidamente rinfocolata in Italia (dove la critica non conta nulla)", che del
cinema si torni sempre a parlare attraverso l'autore.
L’appello al carattere corale dell’enunciazione filmica, i processi di
scrittura e di ricezione, e tutto l'apparato critico mobilitato per mettere in
guardia dalla retorica autoriale risultano estremamente cagionevoli sul
piano comunicativo non appena si entri in un ambito di discussione un
minimo generalista. Inoltre, anche quando il regista “diventa fuorilegge”
come secondo il progetto filmico, rinunciando a prendere posizione dentro
una finalità narrativa, è sempre la sua negazione a monte a farlo rientrare
dalla finestra, e a far rientrare il testo nella sua logica. Menarini presenta
l’esempio di Dogma, progetto ammirabilissimo che però contraddice
largamente il suo manifesto, non rinunciando fino in fondo "all'idealismo
nell'opera d'arte". Come anche l'eclisse volontaria di Antonioni e il suicidio
ideologico di Vertov, che non cancellano il dato di fatto di un discorso sul
cinema che finisce per chiudersi "a riccio", dall'alto e dal basso,
sull'autore120.
Secondo Menarini, allora, il cinema non puo' liberarsi dalla figura
dell'autore, neppure seguendo la strada delle altre arti, dove anche i grandi
autori sono diventati dei “grandi campionatori”. E, se non bisogna
scimmiottare stupidamente il cinema degli autori della politique, rischia di
apparire altrettanto semplicistico l’accettare passivamente la legge del "tutto
già filmato", secondo la quale la grande mappa ipertestuale del cinema
postmoderno sarebbe la riserva in cui l'autore affastella "relitti tarlati" del
cinema.
L’autore potrebbe a tutti gli effetti essere una nozione indispensabile,
se accettassimo l’assunto per cui in esso agisce una focalizzazione
dell’aspetto residuale dell’opera dell’individuo rispetto al testo. Non ci
119 cfr. Menarini, R., “Fuga dall’autore”, in Segno Cinema, n. 103 120 ivi
139
sarebbe, insomma, solo il testo, ma dal suo interno emergerebbe il soggetto.
Si tratterebbe allora di non negare del tutto l’idea autoriale, ma di far
rientrare il problema del soggetto-autore all’interno di una posizione
testualista. Grespi ricapitola la storia dell'idea autoriale facendo notare
come questa l'idea autoriale possa essere osservabile sotto tre aspetti. Il
primo è quello giuridico: l’autore è il creatore di lavori, sui quali ha dei
diritti. Il secondo è quello estetico, che pensa all'Autore come sinonimo di
artista, caratterizzato da intenzionalità e espressività proprie, interiorizzate
nell'opera. Il terzo è quello strutturale, che riduce l'autore a un principio
ideale, a una istanza che lavora per la coerenza simbolica dei testi, nei quali
vi è singolarità e non serialità rintracciabile sulla base di un soggetto. L'idea
di autore, quindi, non sarebbe solo “una categoria critica metastorica, in
base alla quale tagliare cent'anni di cinema”, ma anche una nozione
“fortemente implicata nei dati contestuali delle diverse fasi della storia del
cinema”. Non siamo lontani da quanto riportato in Gandini a proposito
dell’autore nel cinema hollywoodiano, che si configurerebbe secondo un
forte conflitto tra individuo e comunità, nel momento in cui siamo inclini a
vedere nella “comunità” anche le pratiche di significazione e la cultura
condivisa sul fare il cinema in un sistema di produzione. Ci troviamo sullo
stesso terreno, di fronte a quella esigenza di una considerazione
dell’enunciazione tratteggiata nei capitoli precedenti, capace di dare conto
di un enunciatore (non troppo) impersonale.
Del rapporto tra soggetto e testo, fondamentale a proposito
dell’autore e già preso in esame nei capitoli precedenti nel campo del gioco
elettronico, si occupa in senso prettamente testualista l’intervento di
Terrone-Bellavita121. L’autore, innanzitutto, non è “una visione del mondo",
ma è "un filo che collega film diversi". L’assunto Baziniano della visione
del cinema-visione del mondo viene criticato non solo nei suoi abusi
susseguenti, ma in quanto tale. L’autore esisterebbe in realtà per "far parlare
i film tra loro", per “tenere corsi", per ordinare i film, per etichettare. Non
sarebbe uno sguardo sul mondo, e neppure una biografia o psicologia che 121 Cfr. Bellone-Terravita, “Idealità dell’autore”, in Segno Cinema, n. 103
140
agisce sul testo, né infine il genio romanticamente inteso che, diversamente
dal comune mortale, si manifesta incontestabilmente nella grande opera
come pure però in quella "minore". Il cinema “non è fatto di registi, ma di
film fatti dai registi”. Pensare che il regista venga logicamente prima del
film equivale, per Terrone-Bellavita, a pensare che "il pensiero preceda
l'immagine",che “l'anima preceda l'apparenza", e in definitiva ad accettare
"la matrice platonica e biblica per cui un dio è demiurgo del mondo".
Terrone/Bellavita mettono bene in luce le contraddizioni e fallacie
che seguirebbero al precetto psicologista alla base di molti ragionamenti
sull’autore. Se l’autore potesse imprimere la propria psicologia nelle
immagini, queste diverrebbero solo un mezzo dell'autore. Ma "dal momento
che un profilo psicologico individuale è più limitato di un sistema visivo
polisemico”, la supremazia dell'autore sul film finirebbe (come è successo)
per impoverire il discorso sul cinema anziché agevolarlo122. Non interessa,
dunque, "cosa l'autore voleva dire", ma quello che ha detto, e quello che ha
detto è nient’altro che il film. Quello che perviene alla dimensione umana,
psicologica, personale dell’autore, infatti, non è soltanto impossibile da
trovare nel film, ma è anche poco interessante, perché non vi è nella prima
una differenza rispetto a quella dell’uomo ordinario. Inoltre, non perviene
all’analisi cinematografica. A questa, per esempio, non interessa conoscere
il perché della paure di Argento e il modo in cui si sostiene che esse si siano
riversate nei suoi film: le interessa, invece, com’è naturale credere, capire
come Argento costruisca la paura nel cinema, con il linguaggio filmico e le
sue risorse.
L'autore è quindi "nell'opera": non ci interessa perché si esprime
attraverso le immagini, ma perchè esprime immagini. È una funzione del
film, e la sua psicologia, come quella di chi ha lavorato al film, è solo parte
di questa funzione, che non si esaurisce in essa né, tantomeno, coincide con
il film. Ecco che l’autore “va messo in parentesi”. Esso è un presupposto
122 Freudianamente, il problema dell'analisi del sogno/film è quello di risalire dal contenuto manifesto al contenuto latente, che è il pensiero dell'Autore (del sogno/del film). Terrone-Bellavita portano come esempio opposto Matt Blanco: il sogno/ film sussisterebbe, al contrario, soltanto nella pienezza delle proprie immagini, il cui significato non potrebbe essere detto altrimenti. (cit.)
141
del film, come lo sono lo spettatore, il montatore e l'attore. Parimenti,
l'atteggiamento ingenuo che vede il film un’opera di un autore-genio va
sostituito con una forma mentis più critica, per cui l'autore è una
componente materiale del film, che attiene alla sua scrittura. Questo
ragionamento non intende negare l'autore, sventolando con qualche
decennio di ritardo e fuori contesto le bandiere della sua morte123, né
postulare un utopistico cinema collettivo, che scambia la dimensione corale
della scrittura filmica con l’identificazione dei soggetti coinvolti in una
presuntamente omogenea, ma facilmente smascherabile, autorialità
collettiva. Il concetto di autore è "semplicemente una modalità di
rappresentazione della geografia del cinema", sapendo che una mappa ha il
potere di ordinare e rendere intelligibile, ma non quello di cambiare la
sostanza sottostante. L'autore, come peraltro il genere, sono mappature così
classiche che, sostengono Terrone-Bellavita, si è finito col confonderle "con
il territorio stesso". Scrivere un libro su un autore significa allora "produrre
una mappa per muoversi attraverso l'opera", non "risalire dal film a chi l'ha
fatto". L'autore è necessario in chiave dialettica, e dopo essere stato negato
in favore del testo può essere recuperato nel senso di un insieme "di aree
stilistiche e tematiche".
4.4.4 – L’autore, il genere e la terza via
Il confronto-scontro tra l’analisi del film attraverso la nozione di
autore e quella di genere è bene illustrato da Buccheri124, che presenta la
questione non senza riscontrarvi una certa obsolescenza teorica. In effetti,
fa notare Buccheri, la nozione di autore o la lettura del cinema attraverso il
genere vengono, ogni volta in cui esse cono citate, ricondotte al tempo
stesso alla loro problematicità. È l’epitesto cinematografico più superficiale,
allora, ad aderire supinamente alla retorica dell’auteur, mentre il dibattito
teorico, a guardar bene, verte intorno al problema della validità di questi
123 Ci si riferisce alla celebre morte dell’autore di Roland Barthes. Cfr. Barthes (1968) 124 Cfr. Buccheri,V., “Il terzo escluso”, in Segno Cinema, n. 103
142
approcci, arrivando a interrogarsi sulla loro legittimità. È quanto accade
nella ricostruzione delle teoriche filmiche di Casetti125, nell’atteggiamento
di ricerca di Brunetta126 e Pescatore127. La vera lezione e utilità della
nozione di autore è quella di rendere chiaro quanto le categorie
cinematografiche siano transitorie, caduche, e lo specchio di questioni
teoriche e critiche mutevoli.
La nozione di autore è stata affrontata quando si è profilato "il
bisogno di legittimare il cinema sul piano estetico, di farne un'arte alla pari
con le altre", per dimostrare che la macchina da presa non era uno
spoetizzante meccanismo riproduttivo ma uno strumento espressivo. Lo
stesso strumento verrà inteso in sensi diversi e a volta divergenti: ora,
secondo la sua rivendicata possibilità di cogliere il reale (documentarismo),
ora esaltandone il carattere fantastico e di creazione di sogni e mondi
possibili, ora per la sua capacità di conoscere e dare forma artistica al
sentire di un popolo (neorealismo), ora ravvisandovi il precetto di un
cinema-visione della vita come nel caso della nouvelle vague di truffaut e
soci. Non è un caso che alle "scuole" di cinema la teoria e storiografia
abbiano ormai contrapposto le interpretazioni del cinema "come macchina
industriale e come fatto sociale" e le analisi sul suo autore inteso come
implicita figura ideale (nella semiotica echiana128), come principio di
organizzazione del testo (come avviene in Casetti129), o come istanza non-
antropomorfa, la cui incarnazione sul soggetto verrà fortemente criticata da
Metz130. Difatti, tanto più il cinema etichetta, assembla, si ossessiona con
l'autore, tanto più la teoria critica il suo assunto, negando al concetto
"qualunque efficacia operativa e qualunque validità euristica"131.
Anche lo studio dei generi, che ha il vantaggio di riportare il film "in
società" e pensare al cinema come un "organismo vivente", rimane una
125 cfr. Casetti (1993) 126 cfr. Brunetta (2003) 127 cfr. Pescatore (2006) 128 cfr. Eco (1979) 129 cfr. Casetti (1986) 130 cfr. Metz (1995) 131 Cfr. Buccheri, “Il terzo escluso”, in Segno Cinema, n. 103
143
chiave di lettura "rigida e imprecisa". Brunetta, nella sua Storia del cinema
italiano, ha operato una mediazione teorica tra l’esigenza di uscire dalla
pura testualità dell’opera e conoscere le sue condizioni di vita
sociosemiotica, rinvenendo dei macrosistemi testuali che possono
“scavalcare” la portata del singolo film, e considerando l'autore all'interno
di una serie di routines produttive che possono negarlo come offrirgli
possibilità132. Scansando il rischio di un “ritorno al marxismo tra tecnica e
ideologia”, Quaresima133 ha proposto di adottare come strumenti analitici
delle configurazioni intermedie tra "generi" e "stili", cioè i "discorsi",
recuperando il testo provocatorio in cui Foucault parla di una funzione-
autore134.
La domanda sull'autore diventa quindi, da "chi ha parlato?", un’altra.
E cioè: "come, dove e perchè si è parlato?". Secondo Buccheri, "è
consigliabile non farsi imbrigliare dalle categorie estetiche tradizionali, ma
adeguare il proprio sguardo all'oggetto investigato, scoprendo in esso i
parametri con cui affrontarlo"135. Se cercare l'autore nel cinema delle origini
vuol dire retrodatare la categoria, cercarlo nel cinema contemporaneo vuol
dire postdatarla. D’altronde, lo studio sui generi e sugli stili dimostra che il
film è "anche un testo sociale, in osmosi con lo spazio dei discorsi e della
cultura". Nel cinema di oggi l'intermedialità richiamata, l'intertestualità
esibita e la autorialità esplicitata costringono ad abbandonare le idee di
"coerenza", "unità" e "progresso" da un'opera all'altra che reputavamo utili
in altri contesti. Gli stessi elementi portano a rifiutare la visione per cui
l'autore possa essere l'unico fautore dell'opera, e non una delle funzioni di
un processo enunciativo ben più vasto e a monte, in cui marketing,
ricezione del pubblico e altri aspetti concorrono in pari misura.
Bisognerebbe, quindi, ritenere estinta la querelle sull'autore e concentrarsi
sul "terzo incomodo": il discorso in senso foucaultiano, lo stile di
132 Cfr. Brunetta (2003) 133 Cfr. Quaresima (1996) 134 Cfr. Foucault, "Che cos'è un autore?", in Michel Foucault. Antologia. L’impazienza della libertà, a cura di Vincenzo Sorrentino, Feltrinelli Editore 135 Cfr. Buccheri, cit.
144
Bordwell136 piuttosto che il patto comunicativo di Odin137 e Casetti,
rivolgendosi a più approcci e più maturi della semplice credenza nell’autore
per considerare il film, tutto ciò che lo attraversa e ciò da cui esso è
attraversato.
4.5 – Dal cinema al gioco digitale
Senza alcuna pretesa di esaustività o completezza, questo capitolo è
stato dedicato alla figura registica nella storia del cinema e al problema
dell’autorialità per la teoria cinematografica. La rassegna di temi e problemi
ha messo in luce come l’autore dell’opera cinematografica sia al contempo
una tappa storica per l’affermazione del mezzo, un fenomeno di retorica
produttiva e commerciale, una questione teorica e metodologica aperta.
L’unica certezza è apparsa la diffidenza necessaria per non cadere in una
acritica apologia dell’autorialità, che porterebbe nella direzione contraria a
quella di una critica matura e profonda138.
È comunque arrivato il momento di chiudere questa lunga, ma
necessaria parentesi e tornare al nostro obiettivo: l’autore nel mezzo
videoludico. E una volta passato in rassegna il problema nel campo
cinematografico, risulterà pressochè impossibile non notare le moltissime
analogie che intercorrono tra la storia dell’autore in questo contesto e
quella, relativa al gioco elettronico, che sono state oggetto di analisi dei
capitoli precedenti di questo lavoro. Il videogioco, pur nella diversità del
suo linguaggio, della sua tecnologia e della sua testualizzazione e fruizione,
presenta una configurazione del problema autoriali non dissimili da quello
cinematografico nel rapporto tra soggetto e tecnica, regia e produzione,
affermazione dell’autore all’interno del paradigma produttivo e
commerciale, rafforzamento della credenza critica e pubblica nell’autore.
Vi è, innanzitutto, l’uguale emergere della forma testuale da un
humus piu ampio. Per il cinema, si tratta degli apparecchi di riproduzione 136 Cfr. Bordwell (1989) 137 Cfr. Odin (1988) 138 Cfr. Pescatore (2006)
145
visiva, delle camere di luci e delle lanterne magiche da esposizione
universale. Per il videogioco, si tratta invece dei flipper, delle rides, degli
apparecchi elettromeccanici e da luna park. Si tratta di una analogia non
banale, che si muove a partire da una consapevolezza: mezzi e pratiche
appartengono a un continuum mediale in continua ebollizione, di cui i testi
rappresentano per certi versi le “semplici” tracce di più ampie tendenze, e in
cui gli operatori e i soggetti umani concreti, storicamente implicati,
lavorano su tecnologie e forme di rappresentazione che si costituiscono in
forme riconosciute passo per passo, senza alcun netto “creazionismo”139.
Melies e Higinbotham concorrono nel “creare” rispettivamente il cinema e
il videogioco, ma innestano il loro lavoro su un retroterra tecnologico ed
espressivo pre-esistente140.
Un’altra analogia è relativa alle simili condizioni di enunciazione del
testo, videoludico e filmico, in fasi in cui la tecnica consente al soggetto di
rivestire l’enunciazione e annunciarsi come coincidente ad essa. Come
Stanton Porter tenderebbe all’unico e solo autore di un proprio film, così
David Crane tenderebbe a Pitfall, che programma interamente da solo.
Valutazione autoriale a parte, è storicamente registrato, per entrambi i
mezzi, il passaggio a un sistema di produzione di tipo capitalistico, con il
conseguente ritorno in termini di divisione del lavoro e con l’irrigidimento
della struttura produttiva, lo spostamento dell’asse dal versante espressivo a
quello commerciale, la “scomparsa” dei soggetti coinvolti nella logica di
trasparenza autoriale dello studio.
Il caso di Activision contro Atari potrebbe o meno essere riletto
come una possibile riproposizione, in contesti e su mezzi diversi ma con il
medesimo fine interno al mezzo, della protesta contro il “cinema di papà”
dei futuri cineasti francesi dei Cahiers: questo dipende, in effetti, da quanto
si è inclini a operare e legittimare simili paralleli. Eppure, sarebbe davvero
difficile non trovare una corrispondenza macroscopica tra le vicende che
spingeranno Capra alla scrittura del suo celebre sforzo biografico “The
139 Cfr. paragrafi 2.8 e 2.9 140 Per il cinema di Melies cfr. Morin (1956)
146
name above the title” e i motivi che spingono i programmatori di Atari,
costretti alla scomparsa dietro al gioco in nome dell’ideologia industriale
della non-paternità dell’opera, a fondare Activision per mettere il proprio
nome accanto al titolo del gioco. Le vicende economiche e produttive di
Activision e delle software house indipendenti rispetto al potere della
grande compagnia Atari si presentano con analogie ardue da rigettare
rispetto all’avvento delle etichette cinematografiche indipendenti, così
come sono evidenti i rivolgimenti relativi ai ruoli nella produzione
dell’opera, cinematografica piuttosto che videoludica. Quel che potrebbe
apparire diverso, come il maggiore sbilanciamento della questione in campo
cinematografico sul versante estetico e ideologico rispetto a quello
economico, che sembrerebbe prioritario nel contesto videoludico, potrebbe
persino rivelarsi, sotto adeguate e più approfondite ricerche, come una
semplice distorsione storiografica.
I paralleli che ci è possibile istituire tra i due mezzi a livello storico e
teorico, per ora, finiscono qui, ma per un solo motivo: il nostro discorso sul
cinema ha ricevuto un aggiornamento storicamente recente. La nostra
trattazione, pur attuata per grandi linee, lo ha considerato dalle origini fino
all’epoca contemporanea, rifacendosi a una letteratura esistente. Il discorso
portato avanti sul videogioco è stato invece semplicemente iniziato. Anche
se più approfondita e incentrata fortemente su testi significativi, la nostra
analisi è rimasta sospesa a una parte relativamente antica della sua storia.
Accostare “in differita” la nostra ricerca sulle sole prima fase
dell’autorialità videoludica ai progressi della nozione in campo
cinematografico è stato comunque utilissimo. Non abbiamo solo istituito
degli evidenti paralleli storici, ma siamo anche pronti a proseguire la ricerca
sull’autore videoludico dotati di nuovi strumenti critici. Gli aspetti della
autorialità cinematografica che abbiamo presentato per sommi capi non si
limitano certo a offrire una visione illuminante per quell’ambito: si
presentano, al contrario, come preziose linee guida per il contesto del gioco
digitale.
147
Alcune questioni che abbiamo incontrato nell’esaminare la storia
dell’autore al cinema, e per le quali siamo finalmente in grado di istituire un
parallelo nell’industria e nella pratica videoludica, si riveleranno decisive.
Ci riferiamo alla retorica dell’autorialità fatta propria della logica di
produzione commerciale; al rapporto tra la grossa industria e il lavoro del
singolo nel gioco elettronico e al ruolo del designer (considerato da molti la
controparte videoludica del regista); alla validità del concetto di poetica per
il videogioco e all’utilità del riconoscimento dell’autorialità nel mezzo; ai
fenomeni di convergenza tra il paratesto autoriale delle produzioni,
l’epitesto pubblicitario e dei magalog e il meta-testo teorico più
sprovveduto e incline a sdoganare, con il grimaldello dell’autore, la dignità
del suo oggetto di studio e della sua critica. L’ultimo tra questi aspetti, in
particolare, rappresenta una chiave di volta per la lettura autoriale del
videogioco di oggi, strumentale al suo ricercato, ideale transito verso il
pantheon delle arti.
Nei prossimi capitoli faremo tesoro della forma mentis critica
ereditata dalla riflessione dell’autore al cinema per entrare nel vivo degli
autori videoludici. Molti dei testi sui quali indagheremo saranno anche
l’occasione per cercare di illuminare alcuni raccordi, alcune zone grigie tra
cinema e gioco. Il presupposto di questo lavoro rimane infatti quello di
negare l’assunto di separazione radicale tra i mezzi espressivi.
148
Capitolo 5
‘AUTEURS VIDEOLUDICI’
5.1 – Autori di Videogiochi
Chi ha letto il quarto capitolo, dedicato all’autore al cinema, ci avrà
perdonato la lunga parentesi dal contesto videoludico, comprendendo
quanto questa imponente mole di riflessioni si possa rivelare funzionale
all’interrogativo sensato sull’autore nel videogioco. Ogni tentativo teorico
che non tenesse conto di questo progresso prenderebbe le mosse in maniera
costitutivamente limitata, mentre dalla storia dell’autore nel campo
cinematografico abbiamo ora tratto una importante base analitica. Dai
critici del cinema, soprattutto, che hanno abbondantemente riflettuto sulla
“malattia” del mito autoriale, ricevendo utilissimi anticorpi.
Forti di questo aggiornamento teorico, continuiamo la ricerca sul
fenomeno degli autori videoludici eleggendo a oggetto della nostra
riflessione alcuni videogiochi scritti, ideati o prodotti da Shigeru Miyamoto,
Jeff Minter e John Carmack: nomi decisamente noti nel contesto
videoludico, associati a concezioni diversissime del videogioco. La scelta è
caduta su questi nomi perché esiste, nel lavoro di questi game designer, un
rapporto significativo tra soggetto autoriale, idea autoriale pubblica e testo
videogiocabile.
La considerazione dell’elemento del pubblico e della critica si
accompagna quindi alla loro considerazione in quanto soggetti coinvolti
nell’istanza enunciativa. Al loro agire come ideali fili conduttori e operatori
testuali per i videogiochi di riferimento si accompagna il loro fungere da
immagini di autorialità, la loro funzione di precipitati della nozione
149
autoriale. Ancora una volta, all’analisi dettagliata del singolo testo non
potranno che accompagnarsi la riflessione sui presupposti e sul contesto
storico-produttivo dell’enunciazione e l’eventuale corpus epitestuale e
metatestuale. È in queste direzioni che l’autorialità videoludica si estrinseca
come processo enunciativo, vero e proprio testo, etichetta commerciale e
nozione critica, rivelando anche come la figura del game designer appaia
ancora troppo ampia e comprensiva perché la si possa considerare in
maniera univoca o come una controparte a tutti gli effetti del regista
cinematografico.
5.2 – Jeff Minter: psichedelia videoludica
Jeff ‘Yak’ Minter è un programmatore e designer inglese attivo dagli anni
ottanta ad oggi, noto come fondatore della software house Llamasoft e
recentemente autore di un sintetizzatore di effetti luminosi dal titolo di
Neon, inserito come software in bundle di Xbox 360, l’ultima console di
Microsoft.
I giochi di Minter sono noti per contenere elementi distintivi.
Generalmente si tratta di giochi di un genere noto come arcade shoot’em
up. I titoli dei giochi hanno quasi e sempre a che vedere con animali come
lama, capre, pecore, cammelli, che Minter adora e che compaiono e
connotano i giochi stessi oltre che dare il titolo agli stessi (Llamatron,
Llamazap, Attack of the Mutant Camels, Revenge of the Mutant Camels,
Sheep in Space, e così via). L’altra tipologia prediletta da Minter è quella di
giochi che incorporano elementi di sintesi luminosa, o di dimostrazioni
video interattive psichedeliche e luministiche. Nelle pagine informali
biografiche e nei forum online Minter si firma “yak”, una parola che
riferisce di avere scelto per l’assonanza con la specie ovina e per la
caratteristica di essere utile in tempi in cui “le tabelle dei punteggi più alti
nelle macchine da gioco a gettoni potevano registrare solo tre lettere”.
Jeff Minter rappresenta una figura di programmatore divenuta parte
dell’immaginario di una certa (contro)cultura informatica hippie e liberale:
150
quella del Bedroom Coder, il programmatore indipendente che, nella sua
cameretta, si occupa interamente della scrittura dei propri programmi,
lontano dalle logiche verticali e corporative delle grosse compagnie. Il
bedroom coding è una pratica la cui definizione oscilla tra la
sperimentazione amatoriale sul codice e la ricerca personale di opere
informatiche dalla paternità totalmente individuale, accompagnata in misura
variabile da una componente libertaria e anti-copyright e in antitesi più o
meno esplicita alle logiche industriali. Minter rientra nella seconda
accezione del termine e, grazie alla sua ossessione per i Lama e i giochi di
sparatorie pieni di effetti luminosi psichedelici, diventa famoso negli anni
come il classico guru alternativo dell’industria, la leggenda vivente della
psichedelia videoludica, la voce fuori dal coro dei paradigmi commerciali e
interamente interessata alla propria ricerca sul gioco elettronico e la
programmazione.
Minter, come altri programmatori, incarna l’idea solipsistica e
autoriale del videogioco il cui creatore è un unico e solo individuo che,
nella sua cameretta o nello studio personale invece che nell’azienda o nel
grosso studio, “inventa” da zero il gioco occupandosi di tutti i suoi aspetti:
dalla programmazione al game design, dalla grafica al sonoro,
dall’ideazione fino eventualmente alla vendita attraverso canali
indipendenti o privati.
Ma se il bedroom coding inteso come totale indipendenza creativa e
produttiva può essere letto come la declinazione più radicale della ricerca in
campo informatico della creatività personale, o come il tentativo di
bypassare in maniera totale il carattere corale e industriale della produzione
di giochi elettronici, la storia di Minter non è esclusivamente quella di un
isolazionista tecnologico. Il percorso del fondatore della Llamasoft presenta
tappe diverse, sintomatiche ognuna di un rapporto cangiante con l’aspetto
industriale e collettivo del game making, e che pongono le questioni
dell’indipendenza creativa e del rapporto tra la tecnologia e l’espressione
individuale sotto una luce problematica.
151
5.2.1 – Robotron vs. Llamatron
Nel 1981 Minter inizia a programmare e vendere giochi per
piattaforma ZX80 Sinclair. Nel 1982, evidentemente sulla scia degli eventi
di Atari e Activision, che portano alla nascita di un gran numero di software
house indipendenti, Minter decide di fondare una propria compagnia. Il
primo gioco della Llamasoft è Andes Attack, un clone del famoso gioco
Defender in cui alle astronavi sono state sostituiti dei lama. Il primo gioco
di Minter riflette completamente la sua attitudine di questo periodo, e si
presenta in totale coerenza con il nome della sua software house
indipendente, della quale è l’unico membro. Yak, infatti, non è solo un
programmatore, ma è anche un estimatore dei lama e degli ovini in
generale, che ospita nella sua tenuta e che costituiscono una parte
importante della sua biografia. Con il secondo titolo, lo psichedelico Grid
Runner, Minter conosce i primi successi commerciali: scritto in una
settimana, il gioco vende parecchio sia negli Stati Uniti che nel Regno
Unito. Grid Runner è, come Andes Attack, un titolo dalla meccanica presa
largamente in prestito. In questo caso, il modello di riferimento è
Centipede, che offre la base per un clone dall’aspetto visivo più futuristico,
ricco di flash e luci in pieno stile Minter.
Grid Runner è programmato per Commodore 64, una delle
piattaforme di maggior successo dell’epoca. È il periodo in cui gli home
computer conoscono il loro primo splendore commerciale. Il successo di
piattaforme come Commodore 64, Atari 400/800 e Atari ST, ma anche dei
Sinclair e più avanti di Amiga, costituisce un banco di programmazione e
commerciale per una grandissima quantità di programmatori e piccole
software house indipendenti, che trovano il maggior veicolo promozionale
per i propri giochi nel passaparola o nelle recensioni delle prime riviste
specializzate.
Il sistema degli home computer, che chiunque può programmare,
genera anche una situazione distributiva caotica, in cui coesistono le grosse
compagnie e i piccoli programmatori, i dilettanti allo sbaraglio e la pirateria
152
sistematica dei prodotti. Minter programma in Assembler, ed è in tutto e per
tutto il programmatore indipendente che, sotto sua etichetta, produce e
vende giochi in un circuito di appassionati in cui è ben conosciuto e
rispettato. In questo periodo, Minter realizza anche un altro tra i suoi giochi
più celebri: Attack of the Mutant Camels, un gioco di sparatorie futuristico-
surreale in cui il giocatore controlla un jet ed è impegnato a respingere
l’attacco, come da titolo, di giganti cammelli mutanti. Ispirato dalla scena
dell’attacco degli AT-AT del classico della fantascienza L’impero colpisce
ancora, Attack of the Mutant Camels è l’ennesimo clone psichedelico di
Minter, il quale rielabora la meccanica di gioco della versione giocabile
ufficiale del film per la console Atari 2600 connotandola con il suo ormai
usuale repertorio di follie zoologiche e luministiche.
Il lavoro di Minter, come si vede, è quello di un rielaboratore estetico
più che quello di un ricercatore di forme ludiche. Minter appare attratto,
oltre che dai temi figurativi psichedelici che gli sono cari, dallo
sfruttamento dell’hardware su cui opera fino all’ultima possibilità in termini
di prestazioni visive, di velocità e di quantità di oggetti in moto sullo
schermo elaborati dalle piattaforme tecnologiche. Se il trademark visivo di
Minter è fatto di cammelli, lama, flash luminosi e le spirali di colori, quello
tecnico è il lavoro sulle prestazioni dell’hardware e sulla loro conversione
nei termini di rutilanti effetti visivi. Minter si accontenta di proprietà
formali prese in prestito da giochi di successo già esistenti, installandovi
una propria visione del gioco elettronico che contempla la psichedelia e il
surrealismo come anche l’estremismo ludico: Attack of the Mutant Camels,
ad esempio, è un gioco in cui è praticamente impossibile non perdere dopo
pochissimo tempo, e nel quale si resiste letteralmente fino allo sfinimento
agli attacchi del computer.
La pluralità di piani in cui si articola la testualità videoludica mostra
allora un margine espressivo che può e deve passare anche dal piano
figurativo e questo costituisce il banco che maggiormente attira Minter
come programmatore, anche se la riuscita testuale del gioco è in ultima
analisi dovuta anche all’interazione della forma ludica con il giocatore.
153
Un gioco che esemplifica alla perfezione il lavoro di Minter, anche
se si colloca già oltre il suo periodo di lavoro maggiormente significativo, è
Llamatron. Llamatron è un clone del 1992 di Robotron: 2084, un classico
della storia dei videogiochi di enorme successo, programmato da Eugene
Jarvis e Larry De Mar141 nel 1982. Llamatron è un clone di Robotron
perché si presenta con la medesima struttura formale di quest’ultimo: in
un’area di gioco a schermata fissa, il giocatore controlla nelle otto direzioni
un simulacro, dovendo evitare l’impatto con gli elementi mortali e potendo
sparare nelle otto direzioni per eliminare tutti gli oggetti nemici. Robotron
era stato programmato per le sale giochi e convertito successivamente su
una varietà di sistemi. Llamatron si offriva come una sua conversione,
opportunamente ritoccata secondo il Minter-pensiero, di una decina di anni
dopo, pensata e programmata per Amiga, Atari ST e per i primi Personal
Computer.
Llamatron è un classico esempio di conversione fedele sul piano
logico-formale e libera su quello dell’estetica. Sul piano degli elementi
interattivi, della spazialità e della visione, Llamatron aggiunge qualche
elemento rispetto al gioco di originale, specialmente in chiave estremista,
come nelle accresciute possibilità di offesa dei nemici che derivano
dall’incorporare un certo numero di pod, simulacri che seguono il
personaggio principale raddoppiandone lo sparo. Tuttavia, su altri aspetti il
testo-Llamatron impoverisce l’originale. Mentre nel titolo programmato da
Jarvis il controllo era assicurato da due manopole, una al controllo del
movimento del simulacro e l’altra preposta alla direzione in cui rivolgere lo
sparo, Llamatron unisce i due comandi nel semplice movimento della
singola leva di controllo. Questo comporta, per il giocatore, l’impossibilità
di muoversi in una direzione sparando in una differente, impoverendo il
livello di interazione e di complessità del gioco originale. Non si tratta, in
realtà, di una vera “colpa” di Minter, che lavora su dei sistemi sprovvisti di
un’interfaccia a doppia leva (movimento e sparo) come quella
141 Larry De Mar , programmatore di giochi come il classico Joust, è anche coinvolto nella maggiore opera di ri-edizione di Robotron: Smash TV.
154
dell’hardware dedicato del cabinato originale da sala giochi di Robotron.
Minter, è vero, avrebbe potuto prevedere la possibilità di utilizzare in
congiunzione due controlli qualora il giocatore fosse stato capace di
installarli sulla propria piattaforma (alcune delle quali erano provviste di
più di una porta joystick), ma optò per una semplificazione del controllo.
Si delinea così, nuovamente, un tema che diventerà centrale in uno
dei prossimi paragrafi, dedicato a Super Mario 64, e che tornerà a
presentarsi come un aspetto centrale nella pratica di gioco: quello della
sostanziale unità, a livello logico-formale e pragmatico (ma anche, a monte,
enunciativo) del testo videoludico inteso come combinato di codice e
interfaccia. È però evidente che Minter non è interessato a far progredire ne
a rispettare la complessità originaria del controllo di Robotron, il motivo
principale dietro il successo enorme del classico di Jarvis e De Mar.
L’opera di Minter si configura a metà strada tra un omaggio e una riscrittura
visionaria, presentando marche enunciative tipiche del remake d’autore:
nella fattispecie, le transizioni spiraliformi di colori e luci tra un livello e
l’altro; la precedenza all’aspetto luministico rispetto a quello della
complessità e della definizione dei simulacri, che si presentano con un look
e la definizione decisamente retrò del titolo rispetto ai titoli coevi, con un
intento citazionista molto avanti rispetto ai tempi (il citazionismo degli stili
classici è affare videoludico recente: nel 1992 i giochi avevano raggiunto da
poco un livello figurativo che avvicinava l’estetica del videogioco al
fumetto e non si volgevano ancora indietro, mentre Llamatron è un titolo “a
stanghette” tipiche dei videogiochi di un decennio prima); la presenza
inevitabile degli ovini, e così via.
Llamatron è allora un remake di Robotron, un’opera di omaggio in cui
la forma videoludica transita inter-testualmente e in cui un diverso “autore”
ricicla il nucleo formale per proiettarvi una propria visione estetica ed
estesica: nello specifico di Minter, il visionario surrealismo naïve di lama,
cammelli e luci psichedeliche a bassa risoluzione, il cui citazionismo
contiene anche notevoli dosi di auto-citazionismo. Un parallelo mosso con
una prospettiva critica di stampo cinematografico potrebbe portare a
155
ritenere Minter un autore, perché nel mezzo cinematografico la cifra
stilistica del linguaggio filmico ha gradualmente guadagnato peso nella
definizione della specificità del mezzo, assurgendo in linea potenziale a
indicatore della ricerca personale sul medesimo rispetto al puro piano
narrativo. Questo, tuttavia, non sembrerebbe bastevole per fare di Minter un
autore secondo la nozione per cui quest’ultimo fa effettivamente progredire
la forma e la sostanza su cui lavora verso nuove direzioni. Nel contesto
videoludico, peraltro, la ricorrenza dei lama e della psichedelia nell’opera di
Minter sono occasione per un citazionismo e una visione personale, ma non
sembrano ancora abbastanza per fungere da base oggettivamente valida per
assegnare a Yak uno statuto di artista del mezzo.
5.2.2 – Tra bedroom coding e sistema di produzione
Tra gli esordi di Llamasoft e la pubblicazione di Llamatron intercorre un
decennio che, in termini informatici, equivale a una vera e propria epoca.
All’evoluzione tecnologica delle piattaforme informatiche e da gioco
corrispondono altrettanti cambiamenti nelle modalità produttive,
commerciali, di fruizione dei videogiochi. Le stesse famiglie di testi
videoludiche sono profondamente mutate, come effetto dell’ingresso nel
campo di nuovi attori produttivi, di nuovi generi in voga e di capacità
rappresentative enormemente accresciute del mezzo espressivo. Le
piattaforme di gioco più in voga non sono più gli home computer, ma le
console domestiche, gli apparecchi dedicati al consumo videoludico dei
grandi produttori di hardware e software nipponiche come Nintendo, Sega e
NEC. Nintendo, in particolare, è al termine di un periodo di florida
egemonia del mercato durato quasi un decennio, successivo all’enorme
successo del Nintendo Entertainment System e di Super Mario, icona
videoludica per eccellenza e al contempo tra le icone degli anni ottanta tour
court. Le nuove console a sedici bit consentono una capacità figurativa su
schermo che avvicina il videogioco al fumetto e all’animazione come mai
prima, come ben testimonia il successo di giochi come Street Fighter 2.
156
Quello che in Llamatron a uno sguardo approssimativo potrebbe essere
scambiato per obsolescenza tecnologica ed estetica, quindi, è in realtà un
omaggio retrò, così avanti sui tempi della mania del recupero del passato da
non essere neppure riconosciuto come tale.
Jeff Minter è ancora, suo malgrado, un esponente di tempi andati, di
una concezione del videogioco squisitamente statunitense e pionieristica
che appare del tutto obsoleta in termini commerciali, e i cui modelli ludici
appaiono stantii e poco affascinanti. Il videogioco è inoltre sulla strada di
un nuovo, ulteriore rivolgimento nei modelli di consumo. L’avvento
imminente del CD-ROM, le sperimentazioni sulla rappresentazione per
mezzo di poligoni solidi invece che mappe di punti a due dimensioni e
l’ingresso nel settore di una compagnia come Sony determineranno non
solo una rivoluzione nelle forme della testualità videoludica, che deriverà
dal tentativo di utilizzare i nuovi mezzi espressivi e la quantità di memoria
dei supporti CD per offrire esperienze maggiormente narrative o più vicine
alle fisiche del mondo reale, ma anche un riassetto del sistema commerciale
in cui a risultarne maggiormente danneggiate saranno proprio compagnie-
giganti come Nintendo e Sega.
In questo contesto Minter, che aveva continuato le collaborazioni
con una agonizzante Atari e con VM Labs, approfitta del tentativo della
compagnia di risollevarsi con una nuova macchina da gioco, Jaguar, che la
compagnia spaccia per la prima macchina a sessantaquattro bit della storia.
La console, nonostante il bluff commerciale, fallirà miseramente sul piano
commerciale, a causa di un’interfaccia costosa e ingombrante, delle pessime
politiche commerciali di Atari e della mancanza cronica di software valido.
Tuttavia, Minter programma per Jaguar due giochi che si rivelano al
contempo i migliori disponibili per la console e i migliori della sua carriera:
Tempest 2000 e Defender 2000. Entrambi i giochi sono remake di classici
dell’era pionieristica dei videogiochi Atari. Il primo omaggia il gioco
originale di Dave Theurer, il secondo ancora una volta Eugene Jarvis.
Entrambi presentano un impianto logico-formale ed interattivo fedelissimo
ai rodati originali, una connotazione estetica psichedelica e luministica
157
(deprivata per una volta dalla presenza di ovini) e una caratterizzazione che
appare come una mosca bianca nel panorama videoludico dell’epoca, a
metà strada tra l’omaggio dello stile retrò dei tempi degli originali e un suo
aggiornamento tecnologico in cui il sostrato informatico è in parte
tematizzato nella figuratività futuribile e luministica. In aggiunta a questi
titoli, Minter si occupa anche di una Virtual Light Machine, un software di
rappresentazione video interattivo che viene distribuito insieme al lettore
CD opzionale della console Jaguar. La Virtual Machine 2 e Tempest 3000
saranno invece sviluppati per il chip Nuon.
In questa fase sono quindi evidenti due aspetti della ricerca di Minter.
Il primo aspetto è la decisa virata di Minter verso la ricerca sulle possibilità
espressive luministiche e grafiche dell’informatica (la cui maggiore
espressione giocabile e non semplicemente dimostrativa della tecnica non
proverrà tuttavia da Minter, ma da Tetsuya Mizuguchi). Minter, è ormai
chiaro, non è minimamente interessato a lavorare sulla forma logica del
testo videoludica, né sulla sua interfaccia, ma tutta la sua ricerca verte
intorno allo sfruttamento dell’hardware per la rappresentazione di luci e
suoni. Il secondo aspetto è il rientro, in una certa misura, in un sistema di
produzione, che presenta dei vincoli all’usuale atteggiamento indipendente
del bedroom coder. Ma si tratta di un contesto che non gioca a favore di
Minter, troppo avulso rispetto ai suoi tempi, in anticipo sul recupero retrò e
in ritardo sui generi in voga. Atari non è in grado di rendere giustizia
commerciale ai suoi ottimi lavori, per cui i suoi sforzi sull’hardware
proprietario restituiscono prodotti eccellenti ma destinati a fallire per via
dello scarso collocamento commerciale e dell’assenza di un target di
riferimento forte.
Dopo il fallimento commerciale di Jaguar Minter attraversa una fase
di relativa stasi creativa caratterizzata, tuttavia, da una forte componente
auto-riflessiva. Complice la diffusione dei personal computer e di una
cultura di rete sempre più popolare Minter ripropone, aggiornato ai tempi e
su Internet, il suo vecchio sistema di commercializzazione producer-to-
consumer dei tempi delle riviste per gli home computer. Dal sito di Minter,
158
sfruttando le possibilità pubblicitarie e la visibilità offerte della rete, la
Llamasoft offre giochi per piattaforma Pocket PC, alcune delle quali
giocabili su PC tramite degli emulatori custom. I giochi sono, ovviamente,
delle riedizioni di titoli originariamente programmati negli anni 80, come
Deflex, Hover Bovver e il nuovo Gridrunner++. Il sito della Llamasoft si
offre inoltre come un diario di bordo da parte di un veterano di una fase
storica al centro, finalmente, di una grossa riscoperta di pubblico e critica.
Parallelamente, Minter ritenta l’inserimento nel paradigma
industriale. L’occasione è offerta dal progetto Unity. Nel 2002, Minter
inizia a lavorare su un progetto da condurre insieme a Peter Molineux della
Lionhead Studio, che dovrebbe fondere insieme le caratteristiche di sintesi
degli effetti di luce tipici della ricerca di Minter con un gioco di sparatorie
“di genere”, immediato e frenetico. L’operazione, che sembra un tentativo
sulla carta di inseguire il successo dell’inusitato, originalissimo, acclamato
Rez di Tetsuya Mizuguchi (di cui parleremo nei prossimi paragrafi),
conquista la ribalta delle cronache.
Dopo una lunga serie di rimandi il progetto viene però
definitivamente cancellato nel 2004, a causa della eccessiva ambizione del
progetto rispetto alle reali capacità del team di portarlo a termine e, molto
probabilmente, all’incompatibilità tecnica e creativa sussistente tra il
metodo di lavoro poco ortodosso e la poetica decisamente
anticonvenzionale di Minter e quelli del team di Peter Molineux,
decisamente più orientati sullo sviluppo di meccaniche di gioco e rispettoso
delle deadline industriali. La versione della Virtual Light Machine che
avrebbe dovuto fornire la base per l’estetica di Unity sarebbe stata utilizzata
come dimostrazione tecnica interattiva del lettore mediale della console
Xbox360 sotto il nome di Neon, a suggello di una carriera di
programmatore trascorsa alla ricerca della sofisticazione delle tecniche di
rappresentazione della psichedelia visiva. Nonostante il fallimento del
progetto Unity, Minter avrebbe dichiarato di essere estremamente felice del
159
fatto che, dopo venti anni di lavoro, uno dei suoi sintetizzatori di luci
avrebbe finalmente raggiunto “un’audience decente”142.
5.2.3 – Autore di luci
La domanda su Jeff Minter come autore è interessante per una
varietà di motivi. In primo luogo, offre uno spaccato su una forma di
enunciazione videoludica, quella del bedroom coding, che è indicativa di
un’intera epoca della produzione e del consumo di videogiochi,
caratterizzata dalla proliferazione di programmatori, piccole compagnie e
persino dilettanti su un sostrato tecnologico accessibile e dalla vasta portata
commerciale come quello degli home computer. Il bedroom coder si
presenta infatti come il tuttofare del progetto testuale nell’indipendenza
creativa.
In secondo luogo, Minter appare un soggetto oscillante tra il
solipsismo creativo e distributivo, che opacizza esteticamente a colpi di
biografia ed estetica l’enunciazione videoludica, rinunciando del tutto alla
creazione di forme ludiche per concentrarsi sul visivo e sull’estetico-
estatico e operando dei modelli creatore-giocatore senza intermediari
produttivi, e un’altra direzione: il tentativo sistematico di adattamento della
propria poetica e della propria ricerca sul visivo al contesto del sistema di
produzione e distribuzione e del grosso pubblico.
Sul piano della ricerca personale Minter si riferisce non interessato a
usare team di artisti per produrre texture visive grafiche o modelli
predefiniti, e si è sempre dichiarato interessato a esplorare le possibilità più
astratte dei metodi generativi del codice. Neon, che si controlla con quattro
controller in contemporanea, offre il controllo degli effetti visivi secondo un
sistema a livelli che consente l’alternanza con un “pilota automatico”
collegato al sonoro dei media in play. Il tutto con una enorme economia sul
codice, visto che Neon potrebbe stare in copie multiple su un semplice
floppy disk. 142 Cfr. www.llamasoft.co.uk
160
L’autore-Minter è allora un programmatore estremamente dotato sul
piano dell’utilizzo delle piattaforme tecnologiche, e un personaggio che
riversa la propria biografia e la propria personale predilezione estetica
all’interno del testo: in quanto tale Minter è noto all’interno di una
larghissima fascia di cultori del gioco elettronico e tra i geek informatici,
per i quali il suo talento alla programmazione visiva va in parallelo con la
singolarità della sua biografia. Se questo basti a definirlo un autore, è cosa
non scontata. Minter si limita a riprogrammare l’estetica e l’assiologia dei
giochi, lavorando sulle possibilità psichedeliche della rappresentazione,
dando vita ora a una psichedelica sixties popolata da cammelli e yak, ora a
universi luminosi. Se la poetica di Minter può essere rintracciata
nell’estetica e nello sfruttamento dell’hardware per la creazione di universi
luministici, e se questo lo rende un visionario del codice, è anche vero che,
da un punto di vista strettamente videoludico, Minter non fa mai progredire
le meccaniche formali ludiche che prende in prestito, ne lavora per
costruirne di sue. Il carattere espressivo, biografico, idiosincratico e
solipsistico dell’enunciazione videoludica non esaurisce il carattere corale e
continuativo delle forme di gioco, su cui Minter non si sporca troppo le
mani.
Ancora una volta, dunque, la considerazione di Minter come autore
dipende in ultima analisi dai parametri che intendiamo elevare a termometri
della presenza di questa figura ideale. Riconoscere la paternità totale
dell’estetica dei giochi di Minter, il suo citazionismo in tempi non sospetti e
la sua capacità di non sacrificare mai l’interesse di ricerca personale alle
contemporanei tendenze videoludiche equivale allora ad accettare una delle
possibili visioni del gioco e dell’autore, e non certo l’unica o la più valida.
Quel che conta è che Yak, relativamente non curante della situazione
videoludica contemporanea, sia finito, con la sua poetica lontana,
eccentrica, estranea ai modelli in voga, col rientrare inaspettatamente nello
zeitgeist videoludico contemporaneo della cross-media experience.
5.3 – Shigeru Miyamoto: da creativo a producer
161
Shigeru Miyamoto, di volta in volta game designer, creativo,
producer, supervisore più o meno influente per una vastissima serie di
giochi Nintendo di enorme successo in un arco di un ventennio, è divenuto
per certi versi uno dei simboli vivente dell’autorialità videoludica. Oltre a
produrre la maggior parte dei videogiochi del brand di Super Mario Shigeru
Miyamoto è al lavoro sin dalle origini sulla acclamata serie di Zelda, ma il
suo lavoro in Nintendo si estende su tutte le maggiori produzioni della
compagnia. L’acclamazione di Miyamoto da parte del pubblico e della
critica è stata parallela a quella del suo successo professionale. Il papà di
Super Mario, icona videoludica capace di oscurare la fama di Mickey
Mouse, non può quindi non essere elevato a uno dei casi esemplari per un
discorso sull’autore nel gioco digitale. Il ruolo di Miyamoto nel sistema
produttivo di Nintendo, la sua elevazione a paradigma del game designer e
la concezione del suo ruolo autoriale nel progresso di molti tra i giochi e i
brand videoludici di maggiore successo nella storia consentono di aprire
scorci su diversi aspetti della testualità del gioco elettronico, dei suoi autori,
della mitologia che ne deriva per il pubblico.
Sono tre, in particolare, gli aspetti su cui si possono addensare le
osservazioni più importanti riguardo all’autore-Miyamoto. Il primo è il suo
partire come un creativo e non come un tecnico, ma anche il suo rimanere
in questo ruolo nonostante i cambi dei contesi produttivi, tecnologici, di
consumo del videogioco interni ed esterni alla compagnia. A essere messo
in rilievo è in questo senso l’aspetto creativo e coordinativo del game
designer rispetto al carattere corale della tecnica impiegata. Il secondo
aspetto è lo sviluppo parallelo dei testi, dei personaggi immaginari e dei
brand e quello del “regista”, nel senso di una intertestualità videoludica che
agisce tanto per autore che per “attore”143. L’associazione reale o presunta
tra gioco/personaggio/brand e Miyamoto diventa per il pubblico la garanzia
di trovarsi di fronte a un titolo del “maestro”. Il terzo aspetto è la
concezione del videogioco associata al testo videoludico Nintendo e al 143 In Stam/Burgoyne/Flitterman/Lewis (1992) viene suggerita una lettura intertestuale a questo livello.
162
lavoro di Miyamoto, che lo vede sostanzialmente estraneo a una dimensione
testuale in cui il gioco ha un posizionamento esteticamente o
assiologicamente polemico o provocatorio, e si posiziona invece come un
prodotto di pura evasione: il testo videoludico, di Miyamoto o di Nintendo,
è privo di rivendicazione artistica, ma è interamente votato
all’intrattenimento, alla fedeltà alla sua natura di giocattolo.
Per tratteggiare questi aspetti illustreremo, subito dopo una breve
introduzione alla storia della compagnia, caratteristiche importanti del testo
Super Mario 64, utilizzandoli come spartiacque storico-ideali per delineare
il lavoro di Shigeru Miyamoto prima, durante la produzione dei suoi giochi
più famosi e di successo, e in seguito al successo di questi e alla sua
consacrazione come “autore”. Super Mario 64, oltre che uno dei testi
videoludici meglio riusciti della storia, è anche un titolo rivoluzionario in
termini produttivi, tecnologici e creativi.
5.3.1 – Dalle carte da gioco all’eldorado videoludico
In piena crisi del settore videoludico, all’inizio degli anni ottanta,
una compagnia giapponese, Nintendo, decide di concentrare tutte le proprie
risorse sui videogiochi. La decisione, proveniente da un’esperienza
pluridecennale nella produzione di carte da gioco Hanafuda, poteva
sembrare rischiosa da un punto di vista commerciale. L’industria
videoludica, infatti, stava conoscendo un periodo di forte depressione,
dovuta alla saturazione del mercato con giochi praticamente identici e a una
percezione pubblica del videogioco che sembrava rischiare di scivolare
lentamente fino a identificarlo con una moda ormai passata. Proprio negli
anni in cui le software house indipendenti portavano avanti un’idea
autoriale e artistica del gioco digitale (cfr. il capitolo tre) , la maggior parte
dei giochi in commercio continuavamo a riproporre le solite, abusate
meccaniche, operando una involuzione stereotipica e alienante rispetto alle
possibilità di questa nuova famiglia testuale.
163
Nintendo, che aveva già provato a inserirsi con modesto successo nel
settore dei giochi da sala, aveva proposto nelle sale giochi un gioco dal
titolo di Radarscope, e un altro dal nome di Heavy Fire. Questi titoli,
tuttavia, non erano riusciti a fare breccia nel saturissimo mercato
americano, in cui Nintendo era desiderosa di inserirsi. Il gioco che avrebbe
felicemente trapiantato il successo di Nintendo dalla madrepatria agli USA
sarebbe stato Donkey Kong, il primo, vero platform game della storia dei
videogiochi. Il suo game designer era un giovane creativo al suo primo
gioco, Shigeru Miyamoto: un appassionato di musica bluegrass e col pallino
dei giocattoli, che aveva curato la grafica dei primi cabinati di Nintendo e a
cui il presidente Yamauchi aveva affiancato il futuro creatore del
GameBoy, Gumpei Yokoi. Prima di lavorare come game designer su Super
Mario Bros, gioco che lo consacrerà nell’olimpo dei game designer e
sancirà il trionfo commerciale di Nintendo, Shigeru Miyamoto dirige
Donkey Kong, Donkey Kong Jr. e Mario Bros, che rappresentano tappe
della consacrazione di un nuovo modello di videogioco, di un personaggio
di chiara fama e del suo “creatore”.
Donkey Kong rappresenta l’alba di un nuovo modo di intendere il
gioco elettronico. Narrativo, colorato, fumettistico, con un gusto e
un’estetica diversi dai prodotti medi dell’epoca, perlopiù cloni di Pacman e
shooter games, Donkey Kong introduce al mondo Jumpman, il futuro Super
Mario. Miyamoto ha la possibilità di esprimere la sua creatività per creare
un vero e proprio gioco, e confeziona un giocattolo incredibilmente
divertente, capace di sfruttare al massimo le capacità dell’hardware
disponibile, mettendo in moto una sfida entusiasmante e raccontando
persino una storia con i pochi pixel a disposizione dei suoi tecnici. Mario
Bros è invece il primo gioco in cui Mario è esplicitamente il personaggio
portante delle vicende. Nintendo, infatti, separa le avventure dei suoi
personaggi d’esordio, È chiaro che Mario è il personaggio con il maggior
potenziale, che la compagnia intende iniziare a sfruttare a pieno.
La rivoluzione Nintendo definitiva, che consacra Miyamoto, è però
Super Mario Bros, un gioco dalla notevole importanza in termini storici,
164
tecnologici e di immaginario popolare, oggi elevato a uno statuto di culto da
parte degli appassionati. L’aspetto tecnico e tecnologico della scrittura del
gioco, di altissimo livello per l’epoca, si accompagna a una deflagrante
originalità e potenza del game design rispetto a tutto ciò che era stato visto
e giocato prima. Il ruolo di Miyamoto è quello di un iper-giocatore
applicato: il designer giapponese, del tutto privo di solide nozioni tecniche
nel campo informatico, mette i mezzi tecnologici e il know-how dei tecnici
della compagnia al servizio della sua creatività e del suo intuito, di una
“poetica del divertimento” apparentemente priva di stilemi, ma il cui
precetto è quello di far divertire il giocatore.
Shigeru Miyamoto, per la prima volta al comando di un team
personale e affiancato dal meno noto Takeshi Kitano, esaudisce i desideri
del suo presidente Yamauchi: produrre un gioco entusiasmante, fantasioso e
divertentissimo, diverso da tutti gli altri, capace di convincere il pubblico
statunitense come quello nipponico ad acquistare il suo Family Computer,
rinominato Nintendo Entertainment System in Occidente. Shigeru
Miyamoto e il suo team, di fatto, inventano un nuovo genere. Super Mario
Bros si impadronisce del nuovo paradigma dello scrolling, lo scorrimento
laterale dell’ambiente di gioco che fa sembrare obsoleto il gioco a
schermata fissa, incorpora una quantità inedita di elementi interattivi, mette
al centro dell’esperienza un simulacro dotato di una vasta serie di azioni
performabili, fa suo un controllo perfetto e fedele nelle mani del giocatore,
si struttura con un game design ricco di elementi che spingono il giocatore a
esplorare gli ambienti di gioco, scoprire le zone segrete. Super Mario Bros è
una killer application non solo per gli affari di Nintendo in Giappone e negli
USA, e non solo per il NES, che contribuisce a rendere un sistema dal
successo colossale. È una killer application del videogioco tout court che,
difatti, risolleva le sorti di una intera industria, fungendo da simbolo di una
rinnovata esplosione della pratica videoludica. I videogiochi stavano
rischiando di regredire, agli occhi degli osservatori troppo superficiali, al
ruolo di ammennicoli e scacciapensieri identici l’uno con l’altro. Non che
questo fosse vero, ma Super Mario Bros spezzò di fatto un immobilismo
165
creativo e produttivo che rischiava di seppellire l’industria in un circolo
vizioso di offerta eccessiva e scarso investimento nel game design.
Si apre per Nintendo, anche grazie all’apporto creativo di Shigeru
Miyamoto, un decennio di floridi successi. Nei primi anni ottanta il
successo planetario del Nintendo Entertainment System aveva imposto la
compagnia come indiscusso leader del settore, grazie a politiche
commerciali aggressive e a una softeca di giochi estremamente validi, tra
cui le serie di Mario e Zelda. Super Mario Bros 3, al centro di una
campagna pubblicitaria che ne aveva fatto l’oggetto del film The Wizard
nei cinema, aveva elevato Super Mario a icona definitiva del gioco
elettronico, facendo guadagnare al personaggio una fama maggiore di
quella di Mickey Mouse. Il successo di Nintendo si era espresso anche nel
successo di GameBoy, la console portatile che aveva rivoluzionato il modo
di giocare e trasformato Tetris, il puzzle programmato da Alexej Pajitnov,
in un fenomeno di massa. Al Nintendo Entertainment System era seguito il
Super NES, una console di nuova generazione che aveva confermato il
successo commerciale di Nintendo nella prima metà degli anni novanta,
resistendo agli attacchi di compagnie aggressive come Sega.
Una decina di anni dopo, tuttavia, Nintendo è un impero
commerciale che subisce l’invasione definitiva da parte di nuovi
contendenti. Dopo la prima metà degli anni novanta, Nintendo non è in
grado di prevedere con adeguato anticipo una serie di trasformazioni del
mercato che la porteranno in anni di relativa crisi, specialmente
d’immagine. Il nuovo simbolo del videogioco diventerà Playstation di Sony
(che determinerà anche il futuro ritiro di Sega dal mercato della produzione
di console, in favore di solo software). Con Playstation, Sony centra un
nuovo zeitgeist videoludico. La console di nuova generazione incorpora il
supporto CD-Rom che, pur presentando tempi di caricamento del software,
fa apparire obsolete le vecchie cartucce nei termini della memoria contenuta
(offrendo anche l’opportunità, non indifferente per certe vaste porzioni di
pubblico, di “piratare” il software). Playstation, come faranno tutte le
console di nuova generazione, è adatta alla rappresentazione di poligoni
166
tridimensionali, che diventeranno presto il paradigma della
rappresentazione videoludica. Sony, priva di esperienza diretta nella
produzione di giochi, da inoltre vita a una politica distributiva e produttiva
vantaggiosa per i produttori di software, e a una campagna di immagine
senza precedenti, che porta il videogioco verso una direzione e un pubblico
più adulto, in contesti pubblicitari prima non consoni al videogioco e con
pubblicità dallo stile adulto, aggressivo e a volte criptico e artistico.
Nel 1996 la nuova console di Nintendo che avrebbe dovuto
contrapporsi a Playstation di Sony e riaffermare la leadership della
compagnia sul mercato è pronta per la commercializzazione. Nintendo 64
fallirà nel suo compito. Il supporto a cartucce la svantaggerà sul piano
dell’economia di produzione e distribuzione, come anche sul piano
dell’immagine per la impossibilità di avere contenuti extra, sotto forma di
filmati e inserti narrativi, che i giochi su CD-Rom iniziano a proporre e che,
pur essendo una moda passeggera e spesso una scusa per vendere prodotti
scarsamente interattivi, le sono preclusi. Nintendo si aliena anche una
grossa parte delle compagnie produttrici di software, attratte da condizioni
piu vantaggiose offerte da Sony e dal capiente supporto su CD-Rom. È il
caso di Square, produttrice della celebre saga di Final Fantasy, che diventa
una partner importantissima per la softeca di Playstation, ma anche di
moltissime altre compagnie che determinano una specie di isolamento
commerciale di Nintendo 64.
Questi, e altri motivi, costringono Nintendo 64 a un avvenire
commerciale sul lungo periodo decisamente mediocre rispetto al successo
delle vecchie console Nintendo. Nonostante l’abbandono dei consumatori
nel periodo successivo ai mesi del lancio, però, la console registra il tutto
esaurito al momento della sua uscita, viene criticamente acclamata per il
rivoluzionario controller di interfaccia e ospita quello che la maggior parte
degli osservatori e una grossa fetta di pubblico ritengono, spinti da un
giustificato entusiasmo, il miglior videogioco mai creato. Si tratta di Super
Mario 64, e il suo game designer è ancora una volta Shigeru Miyamoto.
167
5.3.2 – Super Mario 64: il testo videoludico totale
Nel passaggio, tecnologicamente e commercialmente tormentoso, tra i
sistemi da gioco a 16 bit a tecnologia di rappresentazione bidimensionale e
una nuova generazione di sistemi a 32 e più bit e orientati verso una
rappresentazione grafica di tipo poligonale, intere famiglie di testi ludici
elettronici sono state abbandonate, e nuovi modelli di gioco e consumo si
sono affermati. La rivoluzione dei poligoni solidi nei videogiochi comporta
per il videogioco la conquista di una potenziale profondità di campo dei
suoi mondi giocabili i quali, pur rimanendo confinato sulla superficie
bidimensionale dello schermo, si possono finalmente offrire al giocatore
come dotati di una fisica verosimile rispetto alla realtà che ci circonda e di
un aspetto rappresentativo immersivo.
L’affermazione di mondi descritti in tre dimensioni e di personaggi
composti da un numero crescente di poligoni e ricoperti da mappature
grafiche sempre più accurate, possibilmente accompagnate da un serie di
effetti particellari e tecniche avanzate di cosmesi, non è solo una moda
passeggera, ma diventa ben presto la vocazione principale delle forme di
gioco più in voga o all’avanguardia dalla metà degli anni novanta ad oggi.
Se la tendenza del videogioco appare sin dalla sua nascita una vocazione
verso un grado crescente di sofisticazione dei propri universi, in questi anni
si creano i presupposti per una ideale polarizzazione tra il videogioco
mimetico della realtà, ossessionato dal criterio del realismo, e uno inteso
come macchina fantastica, come piattaforma per la creazione di mondi
altrimenti impossibili. Super Mario 64, che si presenta come un mondo
fantastico eppure incredibilmente coerente e verosimile nella sua meccanica
rispetto a tutto quanto era stato visto prima, non è il primo videogioco
interamente in tre dimensioni, ne rappresenta un unicum fuoriuscito dal
nulla rispetto all’evoluzione complessiva dei giochi digitali. Tuttavia,
costituisce uno di quelli strappi violenti, di quelle spinte improvvise
nell’evoluzione e nell’applicazione dei linguaggi espressivi che
168
automaticamente generano nuovi paradigmi. Come Super Mario Bros era
stato il modello prototipico del videogioco di piattaforme a due dimensioni
una dozzina di anni prima, Super Mario 64 impone un nuovo modo di
intendere la forma videoludica, trasponendo un’intera tradizione ludica pre-
esistente su un impianto a tre dimensioni in maniera così riuscita da
risultare un titolo a oggi ancora ineguagliato per coerenza complessiva,
felicità ludica e design complessivo.
In Super Mario 64 il giocatore controlla il simulacro di Mario in un
mondo in tre dimensioni. La struttura del mondo prevede un ingresso
principale, un castello con un giardino esterno, dal quale numerosi dipinti e
passaggi di altra natura trasportano in altrettante dimensioni di gioco, che
rivestono la funzione tipica dei livelli di gioco. All’interno del castello,
come dei suoi sotto-mondi, il giocatore affronta una serie di missioni
tipiche del gioco di piattaforme, ma interamente in tre dimensioni e tramite
un controllo analogico del personaggio. Spostando la leva direzionale con
maggiore intensità sul controller della console, il personaggio si sposta con
una intensità proporzionale, consentendo un gradiente di mobilità
nell’ambiente estremamente raffinato. Mario può camminare in punta di
piedi, per non svegliare nemici addormentati e approfittarne colpendoli
quando non l’aspettano. Può correre a varie velocità, consentendo di
interagire con il ghiaccio scivoloso, di prendere la rincorsa per saltare
lunghi burroni o per fronteggiare sezioni che richiedono finezza e cambi di
velocità. Può prendere a pugni i nemici, afferrare e trasportare oggetti,
nuotare, rimbalzare di muro in muro, volare con un apposito power-up, e
interagire con quasi tutto quello che è possibile vedere nei mondi di Super
Mario 64. È questo gradiente nel controllo che, attualizzandosi nel rapporto
tra interfaccia del giocatore e design del mondo giocabile e delle sue
situazioni e unendosi a una presentazione visiva gradevole e fiabesca e di
un accompagnamento sonoro immersivo e seducente, rende Super Mario 64
un’esperienza priva di precedenti, non solo sotto il profilo tecnico, ma
anche sotto quello del puro divertimento per il giocatore. L’aspetto più
169
rilevante che si riscontra a proposito della qualità dell’esperienza di Super
Mario 64 è il fatto che i giocatori, non paghi dello strabiliante lavoro di
level design e di game design e della compattezza, varietà e ampiezza delle
situazioni di gioco previste dall’enunciazione, rinunciassero a volta alle
missioni “ufficiali” previste per avanzare tra i livelli, accontentandosi anche
solo di scorrazzare per gli stessi, interagendo con gli elementi di arredo
come gli alberi su cui arrampicarsi, le piscine in cui nuotare, i muri sui quali
effettuare i salti di rimbalzo, o anche solo lasciandosi precipitare dalle
piattaforme più alte, volando per i mondi utilizzando la funzione del
cappello alato, esplorando da cima a fondo parti dei mondi di gioco fino
all’ultimo palmo. La possibilità di controllare la visuale di gioco, la cui
funzione è attorializzata in un personaggio-cameraman che possiamo
vedere solo quando Mario si mette di fronte a uno specchio all’interno del
gioco, fa sì anche che i giocatori inizino a raccontare di come, fissata la
telecamera su un punto di osservazione, avessero creato scene animate
controllando Mario. Alcuni tra i primi esperimenti di machinima su giochi
poligonali, di fatto, sono avvenuti con questo testo videoludico.
Al di la della qualità del design del mondo di Super Mario 64,
quindi, che si presenta come un’unica dimensione piena di punti di
passaggio e connessione e non come una semplice sequela di livelli, giace
un aspetto che abbiamo più volte incontrato: la saldatura profonda tra
l’aspetto logico-formale, descrittivo a mezzo uno e zero del codice del testo
ludico e la sua componente fisica dell’interfaccia, che costituisce un ponte
in cui avviene l’interazione tra giocatore e gioco. Super Mario 64 è un testo
informatico che nasce con una storia e una metodologia produttiva di gran
lunga più complessa della maggior parte dei giochi digitali. Il confronto tra
questo testo e un gioco digitale come Tomb Raider, commercializzato negli
stessi anni da Eidos per la piattaforma di Sony, rivela lo scarto nella
sofisticazione dell’approccio tecnico, tecnologico e di design che rende
possibile l’esistenza dei due testi. Super Mario 64, al cui confronto un testo
di maggior successo commerciale come Tomb Raider appare come una
170
dilettantistica esercitazione, è un testo totale, sulle cui esigenze viene inteso
il design della macchina da gioco e dell’interfaccia di cui essa è dotata.
Nintendo 64, la prima console a incorporare un controller analogico e
consentire dei gradienti di interazione non semplicemente binari come
quelli dei pad digitali (che prevedono appunto solo lo stato di on-off e
quindi, per esempio, movimenti a una sola velocità). Lo sviluppo del
simulacro-Mario, del mondo in cui le sue azioni hanno un effetto e
dell’interfaccia che consente il controllo avvengono in contemporanea,
sotto la stessa enunciazione a monte. È da questa superiorità di design
complessivo che la sofisticata, eppure intuitiva e naturalissima interazione
con i mondi di Mario può avvenire sulle punte delle dita. La storia di
Nintendo, d’altro canto, come dimostrano bene le ultime console DS e Wii,
è quella di una compagnia perennemente alla ricerca di soluzioni interattive
nuove, in cui la sofisticazione tecnica è al servizio dell’intuitività per il
giocatore.
Super Mario 64 è dunque un testo rivoluzionario, ma è necessario
tornare alla nostra domanda su Shigeru Miyamoto come autore. Se la
domanda è “Super Mario 64 è un gioco di Shigeru Miyamoto?”, la risposta
può essere affermativa. Se la domanda è “Super Mario 64 è un gioco
interamente dovuto a Shigeru Miyamoto?”, la risposta non potrà invece che
essere negativa. Shigeru Miyamoto è il designer di Super Mario 64: in
questo testo, più che in qualunque altro sin dai tempi di Super Mario World
per il Super NES, il designer nipponico riversa il proprio impegno, curando
le fasi della sua progettazione e realizzazione come un artista la sua opera
personale; tuttavia, Miyamoto opera all’interno di un paradigma tecnico-
specialistico corale, dirigendo competenze, utilizzando tecnologia, piegando
ai fini della propria visione del testo finale lo sforzo di una intera
compagnia il cui stato dell’arte rappresenta due decenni di continui sforzi
scientifici, artistici, commerciali. Senza la supervisione, la direzione e il
talento di Shigeru Miyamoto al design probabilmente Super Mario 64 non
sarebbe esistito ma, d’altro canto, senza la tecnologia che lo supporta e le
171
competenze necessarie per portarlo dalla potenza all’atto, che non si
risolvono assolutamente nel ruolo di Miyamoto (e interessano audio,
grafica, implementazione tecnica della programmazione necessaria, design
dei mondi di gioco e dei personaggi, semplice lavoro sporco sul codice,
ricerca sull’interfaccia, beta testing), il gioco non sarebbe mai stato
realizzato. Super Mario 64 è un’opera d’arte videoludica in
quest’accezione, e Shigeru Miyamoto può essere il suo autore, fin tanto che
saremo in grado di accettare questa nozione in un senso debole, senza
connetterla a un pregiudizio romantico in base al quale il carattere corale o
industriale dell’enunciazione negherebbe lo statuto d’arte dell’opera.
5.3.3 – Il creativo nell’industria
Il ruolo di Miyamoto appare indubitabile, come anche la sua regia degli
elementi tecnici in gioco. L’enunciazione di Super Mario 64 non può però
coincidere con l’autore-Miyamoto, che è uno degli attori, anche tra i più
indispensabili, al lavoro su una forma testuale interattiva all’avanguardia
sotto il profilo tecnico, artistico e interattivo. Certo è che Miyamoto
presiede al coordinamento dei complessi elementi in gioco, mettendoli in
discussione in partenza e unificandoli in un progetto testuale unico. Nel
gioco il lavoro sull’informazione digitale e rappresentativa di un mondo
possibile videoludico in tre dimensioni si unisce a un’interfaccia software e
hardware che consente la deambulazione divertita e l’interazione
complessa, mentre il design rende l’esperienza dirompente e nuova per il
giocatore anche se la proietta su un nuovo livello rispetto alle aspettative di
genere tipiche (quelle del platform game). In una riedizione del gioco per la
sua nuova console portatile la produzione Nintendo, semplificando il
sistema di controllo e deprivandolo della componente analogica (non
implementata nel nuovo hardware portatile), altera irrimediabilmente la
godibilità ludica del testo della sua portata reale in termini interattivi,
sottraendogli sofisticazione ed effettività a dimostrazione della non-
scindibilità tra interfaccia e design del progetto originario.
172
Miyamoto è quindi un designer-“regista” del testo videoludico al
lavoro su una dimensione testuale del gioco digitale in la cui tecnica
condivisa è a uno stadio di complessità troppo grande per essere maneggiati
da una sola persona, ma il cui carattere corale ha solo da guadagnare dalla
direzione di un vero talento. Nel suo lavoro, ancora una volta non vi è nulla
di creazionistico, o di romanticamente solipsistico o “geniale: anche quando
Miyamoto riferisce dell’ispirazione per Pikmin2, premiato dalla critica del
settore, ricevuta dal suo lavoro nel proprio giardino, bisogna riconoscere
che la componente psicologica di questa ispirazione non ha in definitiva un
concorso nello spiegare la qualità del design profusa nel gioco, che ha a che
vedere esclusivamente con le regole e l’arte del fare un buon videogioco.
Quanto sostenuto a proposito del contesto cinematografico, e cioè che la
componente psicologica pertiene a tutte le persone a prescindere dal loro
ruolo rispetto al testo espressivo e che essa non ha a che vedere con i
presupposti enunciativi, rimane valido.
Come Griffith al cinema Miyamoto non parte non come tecnico, ma
come creativo. A differenza di Griffith, tuttavia, Miyamoto non intende
produrre una visione del mondo attraverso il suo sguardo, ma produrre
giocattoli elettronici divertenti. Miyamoto non opera secondo un
presupposto di espressione personale o artistica del mezzo, non parla dei
videogiochi come arte e di se stesso come di un autore. Parallelamente al
successo critico di Super Mario 64 e alla guadagnata fama storica di molti
dei lavori in cui è stato impegnato, Miyamoto, anche per via della visibilità
ottenuta e sfruttata nei convegni del settore, in cui si presenta come un
intrattenitore gioviale e disponibile, pronto a ironizzare sul suo lavoro e a
offrirsi in gag divertenti, viene consacrato autore. Attraverso questo
mandato, tuttavia, Miyamoto diventa profeta di una concezione anti-
intellettualistica, anti-narrativa, puramente ludica del gioco elettronico, che
trova un maggior riscontro nel pubblico dei suoi appassionati piuttosto che
in un certo tipo di critica che, negli anni passati, troverà in esempi di
173
videogioco più artatamente autoriale, psicologizzante o biografico il riflesso
della propria voglia di legittimazione artistica del mezzo144.
Miyamoto, come altri designer, diventa definitivamente un’etichetta,
una marca di qualità per i giochi ai quali lavora. Tuttavia, Miyamoto
avrebbe continuato a ironizzare sul suo lavoro, riportando in varie occasioni
la propria convinzione che i propri lavori fossero dei “semplici giocattoli”,
di cui essere fieri nel caso in cui assolvessero al proprio compito principale:
divertire.
L’enunciazione di Nintendo, del resto, non sfrutta mai la figura di
Miyamoto nel contesto pubblicitario dei titoli, che non presentano mai la
dicitura “di autore” sulla copertina e continuano a presentarsi come dei
giocattoli elettronici nella propria componente epitestuale e di marketing.
Miyamoto diventa autore, ma l’etichetta è involontaria. Il suo successo
viene spinto prima di tutto dal di fuori dall’enunciazione, dal metatesto e
dal peritesto dei giocatori e della critica che lo osannano. Mentre Mario
diventa attore, Miyamoto diventa autore. I due processi restituiscono le
dinamiche in base alle quali il complesso produttivo eleva i suoi prodotti ed
esponenti piu meritevoli al massimo titolo, quello della “persona” in cui è
trasceso il semplice l’ingranaggio. Miyamoto e Mario diventano allora delle
guide per orientarsi, a volte abusate dal pubblico145, che lo osanna
aprioristicamente anche per giochi che non scrive ne dirige direttamente,
ma si limita a supervisionare. Da autore a “bollino di garanzia”, il caso di
Miyamoto può essere assunto come esempio principale nel caso
videoludico di quella esigenza di autore, anche come mero principio
orientativo, della cui ineliminabilità abbiamo giù parlato a proposito del
cinema.
5.4 – John Carmack: lo scienziato del codice 144 Il talento naive di Miyamoto, più da giocatore appassionato che da tecnico, viene indicato da Babich (2005) nel suo prezioso volume sui Mondi di Super Mario. 145 Nel corso della storia videoludica si assiste al fenomeno per cui l’attante videoludico diviene pian piano attore, rispondendo a quei criteri di intertestualità per il pubblico proposti da Stam/Burgoyne/Flitterman-Lewis (1992). Cfr. http://www.videoludica.com/news.php?news=289
174
John Carmack, co-autore di Doom e co-fondatore di Id Software, è
riconosciuto come uno tra i più prolifici e influenti programmatori al
mondo, in particolare nel campo della grafica 3D, e come il primo
programmatore ad applicare ed affinare per il gioco elettronico tecniche
come la binary space partitioning e il surface caching. Appassionato
fondatore di un’agenzia missilistica privata, la Armadillo Aerospace,
Carmack è comparso al decimo posto della rivista Time nella lista delle
cinquanta persone più influenti al mondo nel campo della tecnologia.
La fama di Carmack è però dovuta principalmente al suo lavoro di
programmazione per Doom, il gioco di Id Software che ha rivoluzionato la
storia dei videogiochi in senso espressivo, commerciale e sociale.
Largamente frutto dello sforzo tecnico di Carmack e della sua ricerca sul
puro mezzo logico dei bit, Doom (come i testi che dello stesso genere che lo
seguono prodotti da Id) dimostra l’importanza e l’influenza del soggetto
tecnico e della componente, per così dire, scientifica che fa da presupposto
del fare artistico, spingendoci a un forte ridimensionamento di una visione
in cui l’espressione autoriale può derivare dal semplice uso personale di una
tecnica data a monte.
Carmack, a differenza di Minter o di Miyamoto, non incarna una
figura di programmatore-autore psichedelico o dalla biografia singolare, ne
quella di un creativo inserito in un complesso di produzione di alto livello,
ma è più simile al profilo di programmatori-designer del codice come
Miller o Whitehead, incontrati nel corso del primo capitolo. Anche se
Doom è il frutto del lavoro congiunto di Carmack, del designer Romero e
degli altri grafici e programmatori della Id Software, è la rivoluzionaria
tecnica alla programmazione di Carmack che rende possibile la
popolarizzazione del genere di videogiochi noto come First Person Shooter.
In Carmack, il fare artistico si incarna in una visione puramente tecnica,
dedita allo sfruttamento dell’ultimissima risorsa disponibile per i mezzi
tecnologici, dell’aggiramento dei suoi limiti, e in una dedizione a tale scopo
tale da non fare neppure prendere in considerazione a Carmack le stesse
175
possibilità di introiettare una propria personalità, visione del mondo/del
gioco o psicologia nel testo.
5.4.1 – Carmack e Romero
Carmack inizia la sua carriera in SoftDisk, dopo aver lasciato l’università
per dedicarsi a tempo pieno alla programmazione. Nella compagnia,
Carmack incontra il team con cui fonderà la Id Software, in particolare John
Romero, un game designer particolarmente talentuoso sotto il profilo del
beta-testing dei giochi e del level design. Sfruttando in segreto le risorse
tecnologiche dei computer della compagnia, che intendono lasciare,
Carmack e soci producono Commander Keen, il primo di una serie di
giochi poi distribuiti da Apogee Software. È l’inizio di una lunga e
straordinaria collaborazione creativa tra Carmack, talento della
programmazione, e Romero, designer dotato e grande iper-giocatore
prestato all’applicazione del codice
La storia DI Id Software è stata presentata nel libro Masters of Doom
con toni spesso eccessivamente romanzati, ma con un apparato di fonti e
documentazione che non lascia adito sull’accuratezza dei dati storici e
biografici. Kushner146 ricostruisce le biografie dei due programmatori con
un parallelo relativo al loro compito principale nella compagnia
raccontando, anche se con un eccesso di fantasia letteraria nei confronti dei
due protagonisti principali, tutte le tappe che portano due ragazzini a
cambiare per sempre il volto dell’industria dei videogiochi. Kushner illustra
le personalità, contrastanti ma complementari, di Carmack e Romero. Il
primo viene presentato come una persona anormalmente schiva e
introversa, dedita in maniera maniacale al proprio lavoro, affetta da una
specie di semi-autismo che la porta alla ricerca di un isolamento mentale 146 Cfr. Kushner (2005)
176
completo nei confronti dell’ambiente circostante, incurante della possibilità
di dormire per terra su una pila di libri in condizioni produttive e di vita
disagiate ma ossessionata dall’idea di portare a termine la propria ricerca
sul codice. Romero, nell’enfasi letteraria del resoconto biografico di
Kushner, è invece un game geek di grande talento, imbattibile giocatore,
estroverso e socievole, appassionato di musica metal e di fumetti,
attaccabrighe e sciupa-femmine. Carmack è il ragazzo geniale e introverso,
che termina le frasi con uno strano verso robotico; Romero è l’estroverso
rockettaro.
Kushner, indubbiamente, carica il racconto di una notevole dose di
letterario ed enfasi romanzesca, ma presenta un quadro fedele delle vicende.
Il successo di Id Software è infatti il risultato della coordinazione di un
team tecnico ed artistico di alto livello in cui Carmack e Romero sono i
principali agenti di propulsione. La sinergia delle due opposte capacità dei
“due John”, che Kushner arriva a paragonare allo Yin e Yang, inizia quando
Romero prende atto dell’avvenuta capacità di Carmack di emulare la
routine di scorrimento dello schermo dei giochi della serie di Super Mario
Bros partendo da zero. Lavorando su una piattaforma hardware inadeguata
agli scopi e in totale isolamento tecnico, Carmack replica da solo un
risultato raggiunto e gelosamente protetto dal lavoro collettivo e risultato di
numerosi anni di impegno dei programmatori di una compagnia come
Nintendo. Il rifiuto di Nintendo di offrire la licenza per una conversione sul
mercato PC del suo gioco per la propria piattaforma NES offre al team la
scusa di ironizzare producendo un clone del primo livello di Super Mario
Bros 3, ribattezzandolo Dangerous Dave in Copyright Infringement147.
Dopo gli eventi della fondazione di Id e del rifiuto da parte di
Nintendo di una conversione di Super Mario Bros, Carmack avrebbe
lavorato al motore di rappresentazione che avrebbe reso possibile Return to
Castle Wolfenstein e Doom. Quest’ultimo, in particolare, rappresenta una
tappa fondamentale per la ricostruzione dell’albero evolutivo delle forme
videoludiche, nonché la consacrazione dei First Person Shooter, oggi un 147 Una versione giocabile del demo è disponibile all’URL http://rome.ro/games_ddici.htm.
177
genere dominante nell’offerta videoludica, in cui trova luogo una immensa
parte della cultura di gioco online.
La violenza estrema e splatter, la connotazione estetica morbosa e
inquietante e l’immersione radicale che la visuale in prima persona genera
per il giocatore si uniscono a un level design sublime quanto crudele, che
non si limita a ossessionare il singolo giocatore ma fornisce i presupposti
per la prima, radicale esperienza di gioco online multiplayer.
Con Doom, Id getta le basi infrastrutturali per una nuova pratica
videoludica, quella del deathmatch online (termine che si è soliti attribuire
all’invenzione di Romero), della distribuzione online del testo videoludico,
della cultura del gioco in rete. Carmack, dal canto suo, applica o perfeziona
tecnica di programmazione inedite o inusitate, come del resto farà in futuro,
quando percorrerà per via propria dei percorsi di programmazione che altri
team avevano intrapreso indipendentemente. In Id, il talento di Carmack
alla programmazione determina l’andamento del regime produttivo della
compagnia. Ogni nuovo gioco si fonda sul nuovo motore di
rappresentazione programmato da Carmack in base ai suoi progressi sul
codice, ed è solo in seguito alla sua divulgazione del motore al resto della
compagnia che quest’ultima, Romero in testa, si mette al lavoro sul design,
il progetto testuale complessivo e la caratterizzazione estetica dei titoli148.
Dopo una lunga collaborazione, che avrebbe portato alla nascita di
giochi come Doom 2, Quake, Quake 2, Quake Arena, il rapporto
professionale tra Carmack e Romero si sarebbe però irrimediabilmente
incrinato. La tendenza di Romero a eccedere nel ruolo di stravagante
rockstar videoludica, che lo porterà tra l’altro, dopo la separazione
professionale da Carmack, a dilapidare un patrimonio per la costruzione
della spettacolare sede della sua nuova compagnia, si dimostra alfine
148 Un game engine è il nucleo di codice programmato per software come giochi o applicazioni con grafica in tempo reale che provvede al linguaggio tecnologico di base, fungendo da ponte tecnico per utilizzatori successivi. In alcuni casi l'engine serve per funzionare su sistemi operativi multipli, in altri casi il suo ruolo preciso è quello di offrire a game designer dotati sul piano creativo ma non specialisti alla scrittura di una piattaforma di programmazione "chiavi in mano", a interfaccia facilitata. Gran parte della lavorazione di alcuni tra i titoli per PC tecnicamente più avanzati segue questa enunciazione "a pasta sfoglia" in cui il talento di soggetti diversi attraversa i testi con prestiti e incroci di competenze.
178
incompatibile con l’atteggiamento professionale e discreto di Carmack che,
forte della evidente statura tecnica, non avrà problemi a isolare Romero ed
espellerlo da Id una volta esasperato dagli ennesimi disturbi al suo regime
di lavoro. Kushner, tuttavia, pur cedendo alle lusinghe di interpretazioni
biograficamente romanzesche e psicologiche nell’illustrare la nascita dei
giochi e correlarla alle vicende personali dei protagonisti, adotta senza
saperlo una prospettiva in parte testualista. Kushner fa notare nel suo libro
come al fallimento dei successivi tentativi di Romero, privo del saper fare
tecnico di Carmack, sia corrisposto un declino della qualità di design dei
giochi di Id, provvisti come sempre del codice di Carmack ma deprivati di
uno straordinario game designer.
5.4.2 – Il codice Doom
La storia di Carmack che è utile ai fini del nostro lavoro non è quella
del ragazzo introverso e geniale, ma quella del codice che programma. Il
lavoro di Carmack, che si identifica con la sua programmazione, non si
risolve pertanto nel singolo testo. Il codice dietro Doom è alla base di un
testo che, letto sotto la specie della nozione di autore, rende necessarie
diverse osservazioni. In primo luogo, siamo costretti a considerare un
ulteriore e più severo profilo di l’autorialità, riscontrando nella pura tecnica
pura a valle del fare creativo un presupposto terribilmente solido e
ineliminabile per l’espressione del linguaggio videoludico. Già la
conversione di Super Mario Bros è indice della superiorità tecnica di
Carmack, capace di ripercorrere in maniera personale e solitaria
un’evoluzione tecnologia che altre compagnie avevano raggiunto come
traguardo collettivo in numerosi anni. Carmack ha il passo lungo sul codice,
così lungo da pareggiare Nintendo sul piano della programmazione. Il testo
che testimonia meglio di tutti gli altri il lavoro di Carmack è però Doom,
che si presenta come una rottura decisiva in termini tecnologici di quanto
fosse stato visto prima.
179
Questo non comporta, è ovvio, l’appiattimento dell’espressione
videoludica sul solo presupposto tecnico: Doom è la dimostrazione di come
il codice presupponga il testo videoludico ma anche di come quest’ultimo
trovi la sua definitiva espressione sul piano congiunto di programmazione,
estetica, design e capacità di sottendere a una pratica di gioco soddisfacente
per il giocatore nel caso di Doom149.
Il codice di Carmack ci mette in guardia dall’uso troppo frettoloso
della categoria autoriale per chi non lavora a monte del lavoro creativo.
Eppure, Doom ci costringe a pensare a certi testi videoludico sotto l’unica
specie autoriale possibile, quella collettiva. L’enunciazione trova qui un
corrispettivo di persone impegnate in una struttura inusuale, a metà strada
tra l’home coding di Minter, la sperimentazione dei primi pionieri
videoludici e la bottega artigianale, tale da rendere inservibile l’autorialità a
meno che essa non venga interpretata in senso corale e collaborativo ma
ancora priva del rigore e grigiore industriale. Se il gioco di Id Software
rappresenta al contempo lo state of the art e il paradigma dell’estetica, del
codice, dell’interfacciabilità e del gioco online dell’epoca, questo è dovuto
alla coralità del lavoro sul testo.
È evidente che attribuire la paternità a una sola testa
corrisponderebbe a un indebita antropomorfizzazione, a detrimento tanto
del testo che del lavoro stesso dei singoli attori in gioco. Se si dovesse
ricercare una regia, una direzione principale, un riferimento preciso a un
soggetto autoriale, quest’ultimo non potrebbe che rivelarsi come un mostro
a più teste. Le più evidenti sarebbero quelle di John Romero e John
Carmack, ma ridurre testi come Doom, Doom II, Quake e Quake II
all’opera dei due soli Carmack e Romero costituirebbe un torto a
programmatori comunque influenti sugli esiti dei giochi come Tom Hall,
Adrian Carmack, American McGee, Scott Miller, Mike Wilson, il cui
lavoro è poi confluito in software house e progetti paralleli a quello di Id.
149 Doom e la sua compagnia Id sono anche il testo e il soggetto produttivo che rendono possibile la nascita di una vera e propria nuova faccia della pratica videoludica, quella online. Cfr. Kushner (2005)
180
La constatazione della centralità del fare tecnico di Carmack è
comunque provata dalla futura migrazione del suo codice come base per
giochi programmati da altri team di sviluppo. Il codice sviluppato da
Carmack per i propri motori di rappresentazione è stato usato su licenza in
innumerevoli titoli come Half-Life e Medal of Honor e successivamente
dato in pasto ad appassionati e dilettanti per un uso e consumo libero, a
dimostrazione della natura fondativa, migratile, adatta al farsi strumento di
espressione del codice videoludico puro, della sua potenza logico-formale e
rappresentativa.
Possiamo quindi concludere coerentemente rispetto alle nostre
analisi di testi precedenti: sul piano teorico, a restare fuori dalle possibilità
di una validità teorica è solo la nozione psicologica dell’autorialità di cui
Kushner abusa in un impeto giornalistico. La psicologia è di fatto
facilmente eliminabile come criterio per spiegare il prodigio tecnico di
Carmack e il talento nel game design di Romero, ed è solo apparentemente
paradossale che sia la stessa biografia di Carmack, così come viene
presentata da Kushner, a eliminarla come criterio creativo. Carmack, per
come viene descritto da Kushner, è un personaggio che non si fa problemi a
dormire sui libri per terra, viene convinto solo da Romero a comprare un
letto: è privo di psicologia, e la stessa contrapposizione tra camera da letto e
ufficio cade, priva di fondamento. Ma anche se Carmack annullasse la sua
stessa persona nel mezzo videoludico, la biografia non si rivelerebbe di
maggior supporto alla ricerca e alla comprensione sul testo rispetto
all’aspetto tecnico che si rivela nella testualità.
La mitologia autoriale è in questo caso rafforzata anche dalla critica,
che è a volte strumento delle strategie enunciative delle compagnie di
produzione di giochi. Ma Doom non è il solo caso. Un esempio di
distorsione mitopoietica dell’autore in questa direzione è quello di Sid
Meier, storico programmatore e game designer assurto a simbolo vivente
del game design per molta critica, e il cui nome è progressivamente
divenuto un’etichetta commerciale sulla scorta di quello di Walt Disney.
Sono molti, in effetti, i titoli che portano la sua firma in copertina per i quali
181
il suo contributo creativo e tecnico è notoriamente molto scarso, limitato in
alcuni casi alla pura supervisione. Anche ad accettare l’ipotesi per cui il
lavoro di Sid Meier starebbe ai giochi che firma così come il codice di
Carmack sta ai giochi altrui che ne fanno un esplicito uso, la trasformazione
di Meier in etichetta-garanzia di qualità o in richiamo di genere per il
consumatore è sintomatica di un certo feedback vizioso sull’autore che può
proliferare in caso di un mancato rapporto polemico tra enunciazione
industriale e metatesto critico.
5.5 Percorsi per l’autore
I casi di autori videoludici che abbiamo presentato hanno mostrato di
ricongiungere idealmente tutti i punti che, nel corso dei capitoli precedenti,
abbiamo elevato a nevralgici per la disamina della nozione di autore: il
rapporto tra aspetto corale della tecnica ed espressione individuale, tra
testualità videoludica intesa come ricerca sul codice piuttosto che sul
complesso di interfaccia, tecnologia e design, e l’oggettiva impossibilità di
appiattire sulla convinzione romantica sull’autore il complesso enunciativo
del videogioco. Quest’ultima affermazione è basata sulla constatazione che
questa istanza logica presupposta dai testi può e deve essere estesa ai
soggetti enunciativi nel progetto di una teoria semiotica aggiornata ma,
anche nei casi limite in cui essa pare identificarsi con un solo soggetto,
quest’ultimo è comunque iscritto in un orizzonte tecnico condiviso.
La riflessione sui presupposti tecnici del fare artistico portata avanti
nei primi capitoli, unita alla consapevolezza critica della nozione autoriale
guadagnata dal cinema, ci spingono a diffidare nella credenza per cui
l’autore corrisponderebbe a un profilo geniale o esprimerebbe un sentire
individuale, e ad accettare l’autore nella sua unica accezione possibile:
quella di un operatore testuale, implicato in varie misure e a vari livelli nel
processo spesso inevitabilmente corale, e sempre tutto tecnico e linguistico,
alla base della scrittura dei testi. Dai pionieri del gioco elettronico, il punto
nevralgico della reale superiorità di design è stato raramente un uso
182
personale ed espressivo di un videogioco inteso come tela su cui esprimere
del sentire, e più spesso il progresso della tecnica o il suo utilizzo per
finalità nuove e possibilmente migliori. Pensare a una camera-stylo
videoludica sulla scorta di quella cinematografica è una possibilità che
appare meno consigliabile in questo contesto rispetto a quello
cinematografico, oltre che un precetto su cui non è possibile basarsi per
spiegare le finalità del testo videoludico: mentre tutti hanno qualcosa da
esprimere con un mezzo dato, pochi sono in grado di utilizzare quel mezzo
come nessuno aveva pensato, o addirittura di crearsi un mezzo che prima
mancava. D’altro canto, affermare che l’aspetto di ricerca pura sul testo
videoludico sia la vera cartina di tornasole per il soggetto autoriale
“tecnico” non è che uno dei modi per inquadrare l’autorialità videoludica:
non vogliamo negare il suo utilizzo espressivo, che va valutato nel lavoro
complessivo sul testo, ma ricordare come avvenga il reale processo sulla
grammatica videoludica.
La nostra ricognizione sull’autore, che è partita sempre
dall’assunzione del punto di vista del fare, ha confermato l’adattabilità di
molte delle osservazioni attuate nel contesto cinematografico a quello
videoludico. Dalla nostra prospettiva, l’autorialità si è espressa
maggiormente nel bilanciamento tra un avanzamento del linguaggio,
operato lavorando sul suo sostrato interattivo e tecnologico come dei suoi
mondi possibili, e sul controllo formale del testo secondo un piano che
devia dalle prospettive di produzione tipiche per far progredire in direzioni
diverse la testualità. La proiezione della figuratività, della personalità
dell’autore, ci è parsa insomma inevitabilmente meno influente della
capacità tecnica o di design sotto questa prospettiva. È pur vero che, come il
cinema, il gioco è prodotto inevitabilmente corale, e una prospettiva di
analisi semiotica aperta a un principio non impersonale dell’enunciazione
come quello che abbia sposato per non sacrificare i soggetti dovrebbe
affrontare il problema dei crediti, dei titoli di testa e di coda, facendo
dialogare questi con il testo in maniera critica.
183
I casi di Minter, Miyamoto e Carmack sono esemplificativi di
prospettive diverse, polarizzate in questi soggetti ma non generalizzabili,
sotto cui inquadrare il ruolo del game designer: rispettivamente, quella
bedroom coder, quella del creativo-producer nel contesto della grossa
industria, quella del programmatore hardcore nel team di sviluppo. I
designer di questo capitolo incarnano configurazioni enunciative peculiari
che, assunte in maniera non normativa ma come semplici esempi,
forniscono spunti per ulteriori direzioni di analisi.
Nel caso di Minter i temi più importanti per future analisi appaiono
la questione dell’estetica videoludica in cui il linguaggio videoludico viene
incorporato come figura del testo e in cui la ricerca figurativa avviene sul
piano astratto e non mimetico della realtà; ma anche i limiti dell’autorialità
intesa nel senso della proiezione della propria personalità del testo. Nel caso
di Miyamoto, si presentano come terreni perfetti per la ricerca il procedere
parallelo del ricorso all’autore e al personaggio da parte del pubblico come
strumenti di orientamento nel consumo di videogioco, come anche il ruolo
del creativo nel tessuto tecnico condiviso della grande industria. Per quanto
riguarda Carmack, l’attenzione dei ricercatori dovrebbe rivolgersi
interamente sulla potenza ri-mediatrice ed espressiva del videogioco su un
tessuto di nervi logici costituiti dai bit e dal raffinato lavoro della loro
descrizione, attuato da un soggetto che incarna la langue tecnica al massimo
grado, tale da farla progredire per ricerca diretta.
In ogni caso, a emergere è anche una prospettiva dell’oggetto e del
fare artistico che non assume le conduzioni di commercializzazione e di
produzione come assunti sulla base dei quali applicare ai testi i bollini del
“prodotto” piuttosto che dell’“opera”. Il paradigma di pensiero in cui
collocare la ricerca sull’autore nel videogioco deve essere costitutivamente
sgombro da pregiudizi apocalittici sulla cultura di massa. Ma anche volendo
utilizzare categorie estetiche tradizionali, Carmack apparirebbe come un
artista nel senso naturalistico del termine, perché fonda il proprio lavoro e
studio sui presupposti matematici della rappresentazione del visibile.
Miyamoto sarebbe allora un artigiano creativo di altissimo livello, che
184
coordina la tecnica per intrattenere e dialogare col giocatore con giocattoli
di altissimo livello. Minter sarebbe invece un regista videoludico che adora
pochi “generi” e ha il pallino della ricerca sulle possibilità visive
dell’estetica tematizzata del mezzo: nel suo caso, si ha il grado massimo di
iscrizione dell’enunciatore nell’autore, ma non di originalità creativa o reale
lavoro tecnico.
Questi autori, che rappresentano personaggi centrali per comprendere
la prospettiva d’autore attraverso l’analisi del linguaggio videoludico, non
esauriscono ugualmente il panorama contemporaneo videoludico visto sotto
la specie dell’autorialità. Altri aspetti, che indicheremo nel prossimo
capitolo, includono il problema del rinvenimento della poetica d’autore
come nucleo stilistico o tematico all’interno nel genere commerciale,
l’aspetto meta-autoriale, citazionistico e irriverente del game designer
cinefilo, il transito definitivo dell’autore in etichetta, la presa in prestito
nell’ambito videoludico delle strategie mitopoietiche dell’autore tipiche del
cinema contemporaneo, la riflessione sull’autore del gioco digitale
all’interno di un orizzonte in cui cinema e gioco implodono
intermedialmente, il ruolo della tecnologia per il transito da un regime di
autorialità obsoleto a uno che comprenda la confusione tra produttore e
consumatore di tecnica, informazione e contenuto nella figura del prosumer.
185
Capitolo 6
OLTRE L’AUTORE
6.1 – Tutte le strade portano all’autore
L’analisi dei testi e la presentazione di soggetti e vicende a oggetto
di questo capitolo chiudono il cerchio della nostra ricerca, distribuendo
idealmente alcuni casi di autorialità nel videogioco su un continuum i cui
estremi prevedono il suo massimo annullamento e la sua massima visibilità.
Al contempo, molti degli esempi riportati metteranno in rilievo dimensioni
in cui l’autorialità si manifesta in una serie di prospettive complesse, legate
all’intermediale dell’enunciazione industriale e alle strategie di
posizionamento dei testi mediali.
Second Life, un programma che si dimostra resistente a qualunque
analisi fortemente ancorata al principio di auto-conclusione semiotica del
testo, rappresenta una sorta di grado zero dell’autore nel contesto
videoludico [immagini 27-28]. Nel suo carattere strutturalmente corale e
collettivo trova dimostrazione una certa tendenza del fatto espressivo,
artistico e mediale della nostra epoca a rendere ancora più debole la
distinzione tra l’autore e il consumatore o, se si preferisce, tra l’enunciatore
e l’enunciatario150. Non ci riferiamo alla semplice previsione da parte del
testo del proprio interprete, che si trova come un aspetto idealmente
istanziato, come un processo semiotico implicito nella definizione del testo,
ma dalla constatazione dalla progressiva affermazione e imposizione di un 150 Cfr. Eco (1979)
186
regime dell’informazione digitale il cui carattere corale è soggetto a una più
che mai sua migrazione e a una continua e senza precedenti opera di
modifica collettiva, a un lavorio pubblico su tutti i livelli della produzione e
dal consumo dei suoi oggetti di senso151.
D’altro canto si assiste anche, nell’offerta videoludica, a una
tendenza volta a costruire l’autorialità. Questa non si esprime solo
nell’effettivo lavoro del soggetto, con le relative tracce rilasciate
nell’enunciazione e con le eventuali “poetiche” riscontrabili nei pur corali
processi produttivi, ma anche in quei casi in cui è l’enunciazione stessa a
enunciare l’autorialità, pensandola come una precisa strategia o marca
testuale. Si assiste, da un lato, a una polverizzazione del ruolo direzionale
del game designer in un serie di rivoli diversi, che comprendono una serie
di strategie di visibilità o di indipendenza espressiva rispetto ai sistemi
produttivi e alla tecnica condivisa. Dall’altro lato, si riscontra anche la
sottomissione strumentale del concetto di autore a una enunciazione di
livello superiore che, sancendo o meno l’effettiva scomparsa del game
director, comunque lo prevede, implementa ed erige allo statuto di
un’etichetta avendo in mente il richiamo commerciale e critico che questa
consente.
Partendo da casi come quelli esaminati in questo capitolo il
confronto con il modello autoriale del cinematografo, che abbiamo eletto a
monito critico, sarà portato a sconfinare rispetto alla semplice constatazione
di simili processi nel modo in cui pubblico, critica e industria videoludica
intendono o creano l’autore. Le considerazioni sui due mezzi espressivi si
troveranno, infatti, automaticamente costrette ad abbordare, sia pure senza
pretesa di esaustività, il tema della compenetrazione di questi regimi della
testualità, dei loro incontri e scontri a livello tematico, linguistico e della
valutazione della critica, e la loro progressiva interdipendenza nel sistema
dell’intrattenimento.
151 Non siamo troppo lontani dall’orizzonte preconizzato da pensatori come Levy a proposito dell’intelligenza collettiva nell’epoca del cyberspazio. Cfr. Levy (2002)
187
Se alcuni testi videoludici si interrogano apertamente sui propri
presupposti, mettendo volontariamente in parentesi la propria trasparenza
enunciativa o attirando l’attenzione sul presupposto di ingresso oltre la
soglia tra opera e mondo reale, è del resto un regista cinematografico ad
offrire l’opera più “autoriale” e al contempo teorica sulla rappresentazione
videoludica. eXistenZ, per la regia di David Cronenberg, è un testo filmico
anomalo, che lavora sulla materia del gioco elettronico affrontando i limiti
costitutivi del rapporto tra questo mezzo e la realtà, suggerendoci alcune vie
interpretative per affrontare dalla prospettiva giusta le differenze come le
affinità tra realtà, cinema e gioco.
6.2 – Second Life: l’autore collettivo
Second Life, prodotto da Linden Lab, è un programma particolarmente
importante nella storia del gioco digitale, e tra i tanti motivi di interesse per
questo singolare ambiente ludico ve ne sono alcuni di particolare centralità
a proposito dell’autore. Second Life è un mondo digitale che va frequentato
e giocato esclusivamente online: esprime l’ambiente di gioco sulla rete,
presenta un carattere multi-giocatore e collettivo che appare come un
presupposto e non come un accessorio, e ha come tratto esplicito la co-
scrittura del testo-mondo di gioco da parte dei suoi giocatori. L’assunto
della dimensione corale della tecnica e collettiva del suo consumo e ri-
utilizzo, che abbiamo adottato sino a questo momento, in Second Life si
radicalizza, disintegrando la nozione di autore.
Come suggerisce il titolo, non è un gioco convenzionale, ma un
mondo alternativo in rete persistente, nel quale il giocatore fa ingresso
tramite un PC connesso alla rete e all’interno del quale può deambulare e
dar vita a interazioni di varia natura con altri giocatori, oggetti e con
ambiente per mezzo di un avatar descritto da poligoni solidi e quasi
illimitatamente personalizzabile. Ha dei tratti in comune con i giochi
persistenti online e con il genere dei Massive Multiplayer Online Role-
Playing Games (MOORPG), per la precisione il fatto di essere concepito
188
come un testo-mondo digitale perennemente online e dall’accesso di massa,
all’interno del quale interagire attraverso un simulacro. La peculiarità di
Second Life rispetto a giochi come World of Warcraft sta, però, nel non
essere connotato da una struttura ludica tradizionale, fatta di obiettivi
precisi, come missioni dotate di un inizio e di una fine o il superamento di
certi livelli: al contrario, si tratta di un campo-mondo alternativo in cui
liberamente vagare, socializzare, acquistare latifondi virtuali, creare
simulacri di edifici e oggetti, giocare, programmare e distribuire giochi, e
persino vendere i beni immateriali utilizzando la valuta del mondo virtuale,
successivamente convertibile in valuta del mondo reale.
Il prodotto di Linden Lab prevede la libera deambulazione del
giocatore e la libera fruizione di tutte le componenti di socializzazione, chat
e gioco offerte da un mondo online che conta, mentre scriviamo, quasi due
milioni di iscritti, è dotato di una radio e di un giornale dedicato ai suoi
avvenimenti interni, di una filiale interna della Reuters, e si presenta con
una serie enorme di possibilità ludiche e creative152. Diventando residente
pagante, il giocatore può avere accesso a determinati quantitativi di terreno
di Second Life, sul quale costruire a piacimento qualunque tipo di edificio o
struttura, di veicolo o di apparecchio, utilizzando la propria conoscenza
personale dei mezzi tecnici di programmazione, dei tool appositi o persino
pagando un esperto per avere un prodotto o un immobile finito. Il mondo di
Second Life è una vera mappa geograficamente descritta e popolata da
persone ed eventi che vanno e vengono con maggiore o minore regolarità,
nel quale camminare, teletrasportarsi o volare verso gli eventi mappati da
un sistema di esplorazione simile a quello delle chat e dei server, ma che fa
da mappa per eventi situati su un unico mondo poligonalmente descritto.
Il simulacro del giocatore è interamente customizzabile, tanto da
potere essere lavorato e rivestito fino a somigliare nei minimi dettagli
(limiti rappresentativi permettendo) alla persona reale o, viceversa, fino ad
assumere le forme più impensate e inaudite, spesso opera di artisti dei
poligoni interessati a gareggiare in una gara di fantasia e talento grafico. 152 Il giornale ufficiale del mondo di Second Life è disponibile all’URL www.secondlife.com
189
Anche il vestiario degli avatar è infinitamente customizzabile a patto di
essere in grado di lavorare con gli strumenti adatti, e per questo Second Life
è disseminato di posti in cui acquistare i vestiti di stilisti vestiari che hanno
deciso di intraprendere questa attività commerciale. Un altro aspetto
decisamente interessante di Second Life è infatti quello di operare come un
terreno di mediazione tra una valuta virtuale e una reale, agendo come
territorio di creazione, distribuzione e vendita di beni digitali, che vanno dal
texture mapping per personalizzare il proprio avatar fino ai servizi grafici
per creare le proprie residenze virtuali, e non escludono la vendita o la
cessione di software e grafica per usi esterni all’ambiente di gioco.
Second Life, per alcuni aspetti, è un po’ l’equivalente videoludico,
orientato alla socializzazione e con l’aggiunta della componente creativa nel
mondo digitale alternativo, di un programma di messaggistica in tempo
reale, anche se gli esiti della sua testualità non si esauriscono nella funzione
comunicativa di questi ultimi. Il mondo di Second Life rappresenta del
resto, secondo molti, una preconizzazione del Web a venire, una visione
non troppo lontana concettualmente da quello che c’è da aspettarsi nella
futura evoluzione delle pratiche di socializzazione online, nonché del lavoro
rappresentativo, ludico e metaforico che radicalizzerà la funzione centrale
dell’Avatar per la cultura di rete, ludica e non solo. Gli intenti di Linden
Lab, dichiarati nel disclaimer e nei processi introduttivi al gioco, sono
finalizzati a un’esperienza estremamente gratificante, piena di creatività,
espressione personale e divertimento, controllata da una serie di direttive di
comportamento – le “Big Six” – che interdicono i comportamenti
intolleranti, di molestia, assalto, non rispetto della privacy, indecenza e
disturbo della quiete nel mondo online.
6.3 – Verso una koinè digitale
Second Life, come abbiamo detto, radicalizza l’assunto della dimensione
corale della tecnica: al contrario della quasi totalità dei testi videoludici,
non si presenta con caratteristiche di finitezza, con una struttura dotata di
190
una gerarchia di missioni e con un set di interazioni prestabilite. Second
Life non è provvisto di una “fine”, perché non ha un “inizio” univoco:
uccide il Game Over del videogioco tradizionale in quanto si presenta come
un campo ludico, creativo e di socializzazione libero, come un mondo che il
giocatore contribuisce a rendere più pieno e complesso attraverso le proprie
azioni e interazioni. Non è, quindi, solo la visione di una possibile faccia
futura del web, ma anche il punto zero videoludico, la coincidenza tra
produzione del testo e suo consumo.
La considerazione più interessante sul mondo persistente di Second
Life sta nel fatto che questo, proprio sfuggendo a una definizione tipica di
videogioco, appare rispetto a questo come una metafora definitiva secondo
la stessa logica in base alla quale ci siamo orientati a partire dal nostro
primo capitolo: la considerazione dell’insieme delle possibilità ludiche
consentite dal dominio del digitale. Presentandosi come un campo di
possibilità prima che come un testo strutturato, concluso e con categorie di
definizione forti e riconoscibili, Second Life è metafora totale delle
possibilità del campo videoludico tout court, tematizzazione ed
esemplificazione radicale della digital way of life, testo che è arduo definire
tale sotto una prospettiva tradizionale. Come non è possibile una
definizione univoca per il videogioco, così Second Life è la potenzialità
esemplificata del videogioco: un campo all’interno del quale giocare e
creare giochi, una cornice più ampia all’interno della quale ri-mediare una
serie di altre cornici.
L’assunto di scrittura collettiva e di compartecipazione creativa di
Second Life per i propri “abitanti”, tuttavia, va problematizzato. Dal punto
di vista commerciale, questa caratteristica si concretizza nella figura del
produttore-consumatore, o prosumer, che rappresenta il punto d’incontro tra
la logica di vendita e di produzione dell’informazione digitale. In Second
Life un giocatore deve pagare per uploadare una immagine del proprio viso
per il proprio profilo, ma può anche vendere della grafica originale prodotta
per l’uso all’interno e del gioco e ricavarvi del credito, o persino dare via a
operazioni virtual-immobiliari ma con concreti esiti di scambio di valute.
191
Un altro versante, esemplificato dal caso di un gioco divenuto
famoso per essere stato notato su Second Life e acquistato da Nintendo per
convertirlo per le proprie piattaforme, è quello della scrittura di software da
usare non solo all’interno di Second Life. Ma Second Life è rimasto famoso
anche per la decisione di Reuters di aprire un proprio ufficio al suo interno,
dedicato al coverage degli avvenimenti del mondo di Linden Lab. Uno dei
primi eventi mediatici interni a Second Life è stata l’intervista al presidente
di Nintendo, Reggie Fils-Aime. Nell’intervista, Fils-Aime ha parlato della
possibilità di portare su Second Life i Mii, gli avatar del canale online della
console Nintendo. Alcuni di questi, infatti, erano comparsi sul portale di
messaggistica e socializzazione online MySpace, e Fils-Aime si era
dichiarato estremamente interessato all’eventualità di creare una struttura
multiplayer massiva per l’universo Nintendo ispirata in parte da un modello
di interazione alla Second Life. A questi episodi si aggiungono quello dei
Duran Duran, che intendono fare un concerto con i propri avatar, e le
numerose convention e comizi di personaggi politici avvenuti negli ultimi
mesi, tutti con ottimi riscontri.
Si tratta di segnali del fatto che il mondo di Linden Lab (come i
canali online delle console e i programmi messenger per pc) è davvero parte
della frontiera che gli addetti ai lavori dell’industria dell’intrattenimento e
della cultura in rete stanno esplorando in quanto esemplificativa di modelli
di business, socializzazione e entertainment oggi per certi versi ancora
laterali, ma destinati probabilmente a divenire la norma in un futuro non
troppo distante.
Second Life è infatti centrale per la comprensione del futuro della
vita online, delle pratiche di socializzazione e della cultura dell’avatar a
venire. Di Second Life è stato detto che, per il giocatore, esso rappresenta
l’orizzonte delle possibilità di rivalutazione del rapporto con la prima, e
fondante, vita, quella del mondo reale. Questa lettura si è immediatamente e
fortunatamente sostituita al rischio, sempre in corso considerata la vasta
schiera di apocalittici mediali in guardia, di una volgarizzazione e
demonizzazione della portata del gioco come del concetto di
192
socializzazione online in generale, che ha già investito i forum, le chat e i
programmi di messaggistica nella prima fase della loro vita, e che avrebbe
inquadrato Second Life come un momento di alienazione del soggetto nel
mondo fittizio e a pagamento degli strozzini della solitudine in rete. Com’è
ovvio, Second Life rappresenta lo stato dell’arte della socializzazione a
mezzo cultura digitale: è una seconda vita che anzi, dispiegandosi nel suo
immenso potenziale, non nega la vita reale, né tenta di sostituirsi ad essa,
ma agisce proprio come monito perché il giocatore sia portato a rivalutare
la propria nella sua interezza. L’embrayage totale del giocatore nel mondo
di gioco, come l’assenza strutturata di uno scopo e dunque di un momento
finalistico della matrice, non si risolvono in un debrayage definitivo dalla
vita reale, ma invitano proprio a considerare gli obiettivi, il senso e le
possibilità generali di quest’ultima mettendo in discussione il principio di
assuefazione al senso e allo stato delle cose, presentandosi come un certo
scostamento dal senso di normalità e ri-sintonizzando il soggetto sul fare
creativo e sul controllo e l’esaltazione della propria persona. D’altro canto
Second Life è, appunto, seconda vita: e esiste, come tutta la rete, sui server
fisici dei computer, ospitati nel mondo reale.
Anche se esplorare le implicazioni economiche, sociologiche e
antropologiche del modello di Second Life è stato importante per indicare la
portata del progetto di Linden Lab e il suo sussistere ben oltre la portata di
semplice esperimento laterale, l’analisi di questi aspetti esula dalla portata e
dagli scopi del nostro lavoro. Centrale per la nostra ricerca è, invece, la
constatazione del fatto che in Second Life la figura dell’autore scompare in
via definitiva, stretta da un lato dal lavoro collettivo del team di sviluppo
del software e dall’altro dal lavorio collettivo sul testo online del collettivo
degli utenti, sottratti alla passività rispetto alla scrittura stessa del testo.
6.4 – L’autore è morto
Il testo Second Life, sotto questa prospettiva, è il segno definitivo del
tracollo dell’idea romantica di arte come espressione individuale: eppure,
193
consente all’individuo l’espressione in un ambito comune. Second Life
rappresenta da un lato la camera di sperimentazione e sintesi privilegiata
per le forme in cui troverà luogo il consumo di ogni forma di espressione
creativa negli anni a venire, per modelli di gioco e fruizione mediale che si
stanno già affermando successivamente all’esplosione della Rete.
Dall’altro, il definitivo tracollo dell’idea, già in crisi, di creazione esclusiva
intesa come “proprietà creativa” del soggetto enunciatore, visto che il
“testo” Second Life è il precipitato di un lavoro tecnico in cui
l’enunciazione è lo stesso feedback che circola continuamente tra l’operare
a monte dei programmatori e quello a valle dei consumatori-creatori.
Mentre l’aspetto sincronico di Second Life rimane relativamente stabile,
quello diacronico è un insieme di evoluzioni, integrazioni, creazioni,
comparse e scomparse di zone testuali, frequentazioni comunicative,
interazioni di varia natura. In questo senso, anche una nozione di testo
tradizionale e chiusa si rivela inadeguata per una sua valida comprensione.
Second Life rappresenta quindi il massimo grado di coralità e
sincronicità del testo contemporaneo videoludico, paragonabile sotto il
profilo linguistico a un progetto come quello di Wikipedia. Il sostrato
tecnologico di Second Life è la rete stessa, ma la tecnica di
programmazione e rappresentazione non si risolve soltanto in quella di
Linden Lab. Il ruolo creativo dell’individuo è teso tra l’accettazione di una
lingua comune e l’introiezione della propria personalità creativa: se questo
non rende ogni individuo un artista, consente perlomeno di parlare di una
diffusa possibilità di espressione artistica e creatività, declinata a seconda
delle competenze tecniche e delle infinite esplorazioni, competenti o meno,
del soggetto a mezzo codice, poligoni, grafica, audio, design.. La tecnica
diventa così un mezzo disponibile piu o meno per tutti in misura variabile, e
il testo videoludico un mondo debrayato di possibilità espressive.
Second Life, il suo codice, il mondo che può rappresentare e le
pratiche ludiche e comunicative a cui può dare vita hanno, naturalmente, dei
limiti. Il fatto che Second Life sia una metafora testualizzata dell’immenso
campo di possibilità e rimediazione del digitale non va, com’è ovvio,
194
confuso con la cristallizzazione del secondo su una singola istanza, che
presuppone un ambiente di lavoro provvisto di limiti intrinseci. Pur dotato
di bordi, limiti e limitazioni, Second Life è comunque distinto a un livello
concettuale e non semplicemente scalare rispetto alla norma videoludica,
proprio perché privo di una finalità precipua. Nella storia videoludica, altri
esperimenti (ad esempio, Shoot’em up Construction Kit) costituivano una
sorta di ponte tra il lavoro tecnico a monte e l’utilizzo espressivo a valle di
un linguaggio descrittivo (nel caso specifico, il codice di programmazione,
il game design, la digital graphics, e così dicendo), che ben riporta in mente
la grossa differenza tra l’essere “autori di un’opera”, facendo magari
progredire la tecnica, e vivere in un’epoca in cui la tecnica digitale, che
migra economicamente e facilmente, è arrivata a un punto in cui essa si
offre già largamente pre-masticata e metaforizzata per un fine non-tecnico e
puramente espressivo. Se i videogiochi sono un luogo testuale concluso, in
cui rispecchiare al massimo le proprie aspettative di evasione, Second Life
offre una componente poietica, finalizzata a un ritorno su un mondo,
mediato ma collegato al reale, popolato da altri. Chiara dovrebbe rimanere
la consapevolezza del fatto che la differenza tra utilizzare un programma di
game making e spingere oltre i confini lo stato dell’arte della
programmazione in stile Carmack andrebbe considerata con un metro
abissale. Sotto il profilo autoriale, si parlerebbe probabilmente della stessa
differenza che, in ambito musicologico, può intercorrere tra fare del
semplice sample editing e lavorare tecnicamente sulla produzione nativa del
suono e l’armonia della composizione.
Quel che appare certo è che l’orizzonte della digitalizzazione, in
concomitanza con l’assetto mediale attuale, ha spalancato una voragine di
fruizione collettiva, corale, e mediata a vari livelli di competenza del fatto
artistico (non solo videoludico: si pensi al fenomeno comunicativo di
myspace e della immane produzione amatoriale di musica) di fronte alla
quale il modello economico e distributivo è destinato a mutare, e il vecchio
artista di matrice romantica e solipsistica a non sopravvivere né idealmente
195
né praticamente. In questo nuovo panorama tutti giocano con il saper fare, a
vari livelli e con varie finalità. È forse questa una vera novità?
6.5 Strategie, marche, etichette autoriali
Second Life rappresenta un estremo enunciativo per il testo videoludico:
l’autore del gioco è il suo giocatore, e tale è la promessa del gioco al
secondo. Spostandosi verso l’altro estremo ci si imbatte invece in una
escalation della visibilità autoriale videoludica.
In realtà, in questo continuum ideale dell’idea di autorialità, per
come essa traspare nell’enunciazione fatta di essa dal testo e dal paratesto
commerciale, la densità della distribuzione dei testi videoludici è ancora
prevalentemente in una zona mediana: la retorica autoriale media non è
ancora un dato aggressivo o pervasivo.
L’idea di un solo autore dotato di una sua poetica personale,
diventata la norma nel sistema di trailer di Hollywood, è nel videogioco
solo agli inizi. Le logiche commerciali che regolano la domanda e l’offerta
di giochi digitali seguono modelli di consumo in cui il carattere
artisticamente e individualmente espressivo del videogioco come forma da
contemplare, o la sua pretesa di imporsi come una cultura “alta” e di una
visione del mondo sbandierando il vessillo autoriale, non vengono
presupposti perché diverso è il clima culturale e la composizione del
pubblico in cui si sono affermati. Mentre la gestione della fruizione
cinematografica ha fatto dell’idea autoriale un blasone da sfruttare
serialmente, fino a trasformare l’offerta di film in un catalogo di autori, il
contesto videoludico appare (ancora per adesso) più legato al consumo di
esperienze interattive ben definite che non alla contemplazione di prodotti
dal fascino autoriale e dal richiamo a stili di vita, estetici e visivi.
L’orizzonte autoriale videoludico, tanto come ruolo nel testo quanto
come “enunciato” a monte, appare però indubitabilmente in una fase
rampante, ben oltre il caso in cui si parli di reali meriti del soggetto. I
soggetti implicati nella scrittura videoludica sono e restano cruciali per la
196
comprensione di quel fare tecnico e creativo che appare come presupposto
del testo, e i testi stessi sembrano spesso voler reclamare in maniera
crescente delle paternità enunciative, a volte evidentissime nell’utilizzo
sapiente dei mezzi tecnici o nel modo più o meno “tipico” di piegare questi
a delle poetiche più o meno riconoscibili. Ma se si assiste all’affermazione
del designer attraverso il lavoro linguistico ed espressivo sul mezzo, l’altra
tendenza è quella dell’autore-etichetta commerciale in un’enunciazione
sapientemente orchestrata, rispetto alla quale esso è strumentale ai fini
comunicativi e commerciali della produzione.
6.5.1 Tetsuya Mizuguchi: la ricerca del ritmo
Un esempio di designer il cui lavoro rappresenta realmente,
d’accordo con Terrone-Bellavita153, un “filo che collega” i testi su cui opera
è quello di Tetsuya Mizuguchi, famoso per il ruolo di game designer in Rez.
Rapportato al caso di Mizuguchi, il problema dell’autore rientra in pieno
all’interno di una posizione testualista “aperta” al soggetto: il lavoro di
Mizuguchi si articola su un’esperienza professionale che alterna la
sperimentazione personale, il lavoro all’interno della grossa compagnia
corporativa e la direzione dell’etichetta indipendente, ma mantiene dei tratti
di continuità.
Mizuguchi inizia la sua carriera sul genere dei giochi di corsa,
all’interno di Sega: oggi software house indipendente, all’epoca Sega era la
compagnia leader del settore delle sale giochi, nonché tra i giganti della
produzione dei giochi come anche dei sistemi hardware da gioco casalinghi.
Dotato di un background teorico sui mezzi di comunicazione derivato da
una laurea in Media Aesthetics e reduce da una serie di prime
sperimentazioni creative su un progetto di motion rider theater, Mizuguchi
produce per Sega uno dei giochi più redditizi e criticamente acclamati della
storia della compagnia, Sega Rally. Mizuguchi coordina il lavoro
concentrandosi sulla componente ritmica della corsa, sulla sensazione di 153 Cfr. 4.4.3.
197
velocità e di realismo, sulle dinamiche sensoriali che il cabinato da sala
giochi può offrire al giocatore in termini di immersione e coinvolgimento,
sfruttando la vibrazione del sellino e la componente visiva e sonora e
impiantando l’esperienza sensoriale su un game design solido e di alto
livello simulativo.
Dopo una serie di lavori contigui a quello operato su Sega Rally
Mizuguchi si dedica a un genere videoludico differente, quello del music
game. Space Channel Five è un singolare gioco-spettacolo musicale in cui il
giocatore partecipa, con comandi minimali ma progressivamente sempre
più impegnativi sul piano della memoria, dei riflessi e della rapidità
manuale, a una serie di coreografici balli/battaglie intergalattiche. Il gioco è
immerso in un’esplosiva miscela di stili visivi e musicali sixties, musica
elettronica, dance e funky, per un’estetica space/retro-pop plasticosa.
Ancora una volta, Mizuguchi proietta un’urgenza di ricerca personale sulle
possibilità del mezzo videoludico, concentrandosi sulla sinestesia del piano
visivo e musicale e sulla spettacolarità terminale del testo per gli spettatori,
e non solo per chi ha in mano il controller. A differenza di quello di Sega
Rally, il genere di Space Channel Five non è di forte traino commerciale,
ma il gioco diventa comunque un titolo di culto per l’originalità
dell’estetica e della meccanica di gioco.
La vera svolta della ricerca di Mizuguchi è marcata da Rez, un
inusitato shooter cyberpunk che tematizza l’estetica del digitale e proietta il
giocatore in un’esperienza in cui componente ritmica della vibrazione del
controller, musica e psichedelia visiva concorrono nel trasportare il
giocatore in un tunnel sensoriale. Rez, spartiacque della carriera di
Mizuguchi, è tutto ciò che avrebbe dovuto realizzare Minter
(successivamente e frettolosamente corso alla produzione di Unity come per
“recuperare”, ma incapace di portarlo a termine), e molto di più [immagine
23]. Sfruttando un team di produzione relativamente ristretto, Mizuguchi
opera una ricerca sull’estetica, l’interazione e la sensorialità videoludica che
da vita a un’opera giocabile prima mai vista. Rez è subito un titolo di culto,
osannato dagli addetti ai lavori, adorato da una fetta della critica
198
videoludica e premiato dell’industria rappresentata dall’istituzione del
Game Developers’ Conference.
È paradossale, allora, ma anche sintomatico della situazione teorica e
critica, che lo scotto da pagare per un simile progetto videoludico sia la
totale incomprensione a livello della critica commerciale, che si manifesta
con un giudizio negativo dai presupposti paradossali. Rez appare qualcosa
di altro, un monstrum incomprensibile rispetto ai codicilli in recensorese
del “gameplay” e agli assunti imperativi e mal compresi del “divertimento”
e della “longevità”, etichette divenute vacue e trasformate in imperativi
pseudo-critici. Mutilato il senso del gioco, appiattito il suo portato ludico ed
estetico su aspettative di genere e orizzonti testuali che appaiono di
converso triti e ritriti, Rez è visto come una stranezza da diffidare en
passant, da ritenere al massimo “originale” o “coraggioso” con la specifica
che questo non basta per renderlo un ottimo gioco o un gioco “per tutti”.
Nei casi peggiori, che ben testimoniano gli strumenti intellettuali e critici
all’opera nel settore, l’insensibilità estetica del recensore-hobbysta del
giudizio videoludico si manifesta nella distorsione del valore estetica del
gioco. Per il dilettante adoratore delle console con la CPU più performante,
il valore visivo è inteso come eccellenza di calcolo rispetto alle possibilità
di realismo/complessità/potenza dell’hardware, secondo moduli di
determinismo tecnologico folk tristemente noti. L’universo visivo di Rez, da
opera di digital art giocabile, diventa paradossalmente un gioco dalla
grafica “scarna”, che muove “pochissimi poligoni” e sembra girare su
console “più vecchie” (sic). Proprio quando un soggetto appare al centro di
una ricerca sul linguaggio specifico videoludico che presuppone la qualifica
secondo il criterio dell’espressione autoriale, questo è ignorato e
incompreso dalla stessa critica che osannerà giochi il cui unico valore si
risolve nell’avanzamento delle routine grafiche di rappresentazione, per un
mero update cosmetico di formule ludiche risciacquate.
Mizuguchi, dopo Rez, lascia Sega, al centro di profonde
trasformazioni nell’assetto commerciale e produttivo, e fonda Q
Entertainment, una compagnia indipendente particolarmente interessata a
199
giochi dal forte appeal popolare, situati nel “genere” (in particolare quello
dei puzzle games) e pensati su contesti di fruizione moderni, come il
mercato dei cellulari, le nuove console portatili e per i servizi di gioco
online. Lumines Live, per il servizio Live Arcade di Xbox360, rappresenta
un crossover tra video musicale e puzzle game che riporta ancora una volta
al centro l’attenzione di Mizuguchi per il coinvolgimento sensoriale del
giocatore.
Il caso di Mizuguchi appare nel complesso quello di un designer
dotato, che lavora prevalentemente all’interno di “generi” videoludici
affermati. Il successo commerciale altalenante di questi progetti (nonché la
variegata risposta critica a testimonianza della notevole stratificazione di
questa in anime molto diverse) non intacca il perenne successo sul piano
ludico, ma si spiega con il tentativo di operare su questi genere fino a
forzarne definitivamente i presupposti, trascinandoli verso un orizzonte
ideale di ritmo e sinestesia del videogioco che appare come una ricerca
costante del nostro. Questo obiettivo non ha a che vedere con la biografia di
Mizuguchi, ma con il linguaggio che si dispiega nella testualità dei giochi in
cui troviamo la sua presenza come soggetto all’opera. Com’è ovvio, il
risultato finale dei testi in cui Mizuguchi coordina il lavoro non si risolve
certamente nel suo contributo, ma in quello dell’intero team di sviluppo, in
particolar modo per quanto riguarda i titoli prodotti in Sega154. Ma è proprio
il passaggio del soggetto tra diverse situazioni produttive, con il definitivo
assestamento su una piccola compagnia indipendente grazie alla quale avere
un adeguato controllo sull’opera, a giustificare la congiunzione tra testo e
soggetto che avevamo ricercato come compromesso per una teoria
testualista che non negasse l’autore. L’autore Mizuguchi è allora un
soggetto di particolare importanza per il suo ruolo in processi testuali
inevitabilmente collettivi, di cui è possibile tracciare un continuum che
precede Mizuguchi (la ricerca di Sega su Space Harrier e sull’immersione
154 F-Zero GX è un gioco futuristico di corsa che si presenta, pur all’interno di un genere completamente diverso, con caratteristiche audiovisive che ricordano Rez, un inusuale shooter/music game cyberpunk. Una pista di F-Zero cita apertamente Rez, citato all’interno del testo. La ragione è il comune team di sviluppo, UGA, diretto in questo caso da Toshihiro Nagoshi.
200
dei cabinati arcade), lo affianca (il lavoro del team UGA su F-Zero GX, lo
sforzo di Minter di offrire una sua alternativa sinestesica a Rez), e che
continuerà sul solco delle sue intuizioni, le quali entrano a far parte del
patrimonio videoludico: pubblico, collettivo, o protetto da brevetto che esso
sia.
Se volessimo trovare un autore per Rez saremmo costretti a non cercarlo sul
piano estetico, ma sul piano della coordinazione degli elementi ritmici,
interattivi ed estetici: in poche parole, in un game designer come
Mizuguchi. Ma anche se non volessimo ricorrere alla nozione di autore,
preferendogli in questo modo quella di grande tecnico del videogioco,
Mizuguchi rimarrebbe il filo rosso che unisce i “suoi” giochi. Non
un’etichetta a ritroso ma, al contrario, un punto di partenza per i testi. E, a
ben vedere, anche per una rifondazione sensata della critica videoludica,
con l’espulsione delle parti di essa che appaiono ancorate a viete
impostazioni che la condannano all’eterno stato di appendice commerciale
del sistema di produzione e distribuzione
6.5.2 Hideo Kojima: meta-gioco e cinefilia
Mentre Rez divide le diverse anime della critica, presentandosi alieno
alla sua componente più ingenua e tradizionalista, quest’ultima si è rivelata
sostanzialmente concorde nel ritenere un autore Hideo Kojima, producer
sotto etichetta Konami della serie di Metal Gear e Metal Gear Solid, la cui
fama ha raggiunto il picco sulle console di Sony, Playstation e Playstation
2. Kojima, che inizia la sua carriera su NES, la console a otto bit di
Nintendo, conosce il maggior successo da quanto la serie Metal Gear
guadagna l’aggettivo Solid, sancendo il passaggio a una rappresentazione
tridimensionale.
L’autorialità di Kojima è stata fatta risalire in parte allo sviluppo
delle meccaniche dello stile di gioco cosiddetto stealth, caratterizzato dal
ricorso alla strategia nella gestione dello spazio e dello sguardo nel
controllare il simulacro del giocatore, generalmente al centro di processi di
201
infiltrazione o di fuga in ambienti in cui il percorso sicuro per la vittoria
dipende dalla non-visibilità rispetto al fuoco e allo sguardo nemico. Questo
stile di gioco ricorre come meccanica centrale nell’evoluzione dell’intera
serie di Metal Gear, tanto per gli episodi rappresentati bidimensionalmente
che in quelli raffigurati a mezzo di poligoni in tre dimensioni.
Un altro aspetto tipico della produzione di Kojima è quello dello
sfondamento dei presupposti enunciativi, e della ricerca di cortocircuiti tra
enunciazione e giocatore che mettano la seconda in una situazione di
esplicita rottura con il presupposto di sospensione del principio di realtà che
è tipico dell’ingresso nella soglia dell’opera. Non sono pochi i casi in cui i
personaggi delle serie curati da Kojima si interrogano sulle proprie azioni,
mettendo in esplicito la il dubbio sulla propria consapevolezza in quanto
marionette di un gioco; o ancora i casi in cui Kojima sposta l’attenzione
dall’interno del mondo di gioco alla tecnologia della macchina di gioco o
addirittura alla confezione del prodotto, che appare ineliminabile
presupposto per il proseguire nel gioco155.
L’aspetto finale della cosiddetta “poetica” di Kojima è l’ossessione
per la narrazione, per la compenetrazione tra visione e interazione in
progetti ludici che si presentano come costanti ricerche dello stato dell’arte
della spettacolarità narrativa videoludica dalla vocazione fortemente
cinematografica. Il mezzo videoludico ha in effetti tutta la capacità di ri-
mediare le forme narrative filmiche, tanto incorporando l’immagine
cinematografica quanto muovendo i propri simulacri senza un intento
interattivo ma con uno di tipo narrativo, proprio come una regia
muoverebbe i propri attori di fronte alla telecamera.
Il ricorso al linguaggio filmico nel videogioco ha conosciuto una
evoluzione tale da far guadagnare al secondo una crescente abilità di
imitare, incorporare e persino sostituirsi al secondo, grazie da un lato a
supporti di memoria sempre più capienti e, dall’altro, alla sempre maggiore
sofisticazione dei motori rappresentativi a disposizione degli artisti, che 155 Si tratta di una riproposizione del meccanismo del numero seriale, ben noto a chiunque acquisti software originale e già diffuso nei giochi per personal computer dai tempi dei floppy disk. Kojima, tuttavia, lo tematizza incorporandolo nel mondo di gioco, operando un ponte verso quello del giocatore.
202
maneggiano strumenti capaci di far sfumare il confine tra il videogioco in
tempo reale e l’animazione digitale. Quest’ultima, d’altro canto, rappresenta
il piano di mediazione tra il mezzo filmico e il campo digitale, con i
videogiochi a costituire uno dei terreni di maggiore interesse per analizzare
i prestiti linguistici tra immagine in movimento e gioco per immagini.
Il ricorso alla narrazione di Kojima è cresciuto continuamente, di
pari passo con le possibilità dell’hardware. Il secondo episodio della serie
Solid, per Playstation 2, ha costituito per molti il limite di tollerabilità dello
sbilanciamento narrativo del gioco digitale, e ha incontrato le resistenze e
reazioni contrastanti nel settore della critica e da parte del pubblico. A
Kojima è stato imputato l’errore di dimenticare la natura interattiva del
videogioco, sacrificandola troppo sull’altare delle lunghe sequenze
narrative e sulla dimensione cinematografica della trama. I giocatori, così, è
stato lamentato, diventano praticamente spettatori passivi della debordante
componente narrativa del testo videoludico.
Dall’Aprile del 2005, quando il team di Konami facente capo a
Kojima diventa “Kojima Productions”, assumendo l’autore come etichetta
coincidente con la casa di produzione, l’ossessione di Kojima per l’aspetto
narrativo sembra essere cresciuta ulteriormente, nonostante un terzo
episodio meno sbilanciato nel rapporto tra interazione e osservazione. La
pubblicazione di Metal Gear Solid: Digital Graphic Novel rappresenta un
sintomo dell’interesse di Kojima per il versante delle possibilità narrative,
visive e in definitiva cinematografiche di un mezzo sempre più potente
sotto il profilo della capacità di mettere in scena mondi verosimili. Metal
Gear Solid 4, episodio che verrà pubblicizzato su Playstation 3, costituisce
del resto il nuovo stato dell’arte della rappresentazione grafica videoludica.
Il suo trailer, che si apre con il logo della Kojima Productions ed è seguito
dalla dicitura in apertura “a Hideo Kojima game”, non è, appunto, (o non è
ancora) una dimostrazione delle caratteristiche di gioco, ma un vero e
proprio trailer cinematografico che assolve al compito di affascinare
attraverso la storia narrata, la spettacolare presentazione audiovisiva e il
blasone d’autore.
203
Ora, è innegabile che il lavoro di Kojima non si risolve sul piano
dall’interesse cinematografico, ma è storicamente documentato su
meccaniche di gioco, forme ludiche e soluzioni a volte originalissime, che
in alcuni casi mettono in discussione o esplicitano il confine tra gioco e
giocatore: come nel caso di Boktai, un gioco per GameBoy basato sulla luce
e che incorpora una fotocellula sensibile alla quantità di luce. Nel lavoro di
Kojima si assiste anche, molto spesso, a una costante riflessione meta-
ludica, generalmente molto ironica sul piano dell’illusione di realtà
dell’opera. Tuttavia, la crescente ossessione per la narratività di Kojima sta
mostrando quanto sia possibile pensare che questo game designer sia piu
capace di citare l’universo cinematografico, producendo e dirigendo storie a
metà strada tra l’anime cyberpunk apocalittico e il thriller tecnologico
d’azione statunitense, che non di lavorare ulteriormente sul piano di forme
originali di interazione all’interno della testualità videoludica.
Se il citazionismo cinematografico, l’autocitazionismo ironico,
l’ossessione sulle possibilità narrative e sui temi cyberpunk e sci-fi thriller
possano concorrere a una definizione autoriale, diventando stilemi per una
poetica piu o meno riconoscibile, è fatto da discutere: la storia videoludica
ne è da sempre ricca, dal citazionismo distopico alla Verhoeven in Smash
TV di Jarvis fino ai cameo dei programmatori di Mortal Kombat dentro al
testo opportunamente sollecitato, dalla pionieristica commistione linguistica
di Flashback e delle avventure grafiche di Lucasarts fino al naufragio
letterario-videoludico di Captain Blood.
Per Kojima si è ricorsi alla formula cinematografica della “cifra
d’autore”. Sostenendo che Kojima appare alla continua ricerca degli stessi
temi, della stessa estetica, dello stesso gioco, come diceva Renoir a
proposito della regia, si è forse tentato al contempo di proporre fiducia nel
“metodo” autoriale e di nobilitare il videogioco elevando il designer allo
stesso livello del regista. Ma questo, come abbiamo già avuto modo di
discutere a proposito della nozione autoriale nel contesto cinematografico,
non è un criterio valido per l’assegnazione dello statuto di autore, ne per la
comprensione del cinema o del gioco digitale. La “cifra d’autore” appare
204
invece pericolosamente costruita in collaborazione dal pubblico, dalla
critica e dalla stessa compagnia di produzione: Konami, in fondo, non fa
altro che attestare la sopraggiunta fama pubblica del personaggio Kojima,
vedendo di buon grado e a tutto vantaggio della compagnia la presenza di
una figura dalla matrice autoriale per una serie così fortemente connotata in
senso cinematografico. Fondata sulla ricerca perenne della stessa formula,
la nozione di autore rischia da un lato di operare una cristallizzazione
indebita degli stilemi e dei presupposti tecnici che sono esito, nel
videogioco come nel cinema, di un lavoro pubblico, difficilmente pensabile
come solipsistico. In questo caso, si attribuirebbe al solo Kojima il merito di
sviluppare un’intera serie di stilemi interattivi che, nonostante il chiaro
debito nei confronti di questo designer (che ironizza persino sui suoi
imitatori, in un famoso trailer in cui prende in giro la serie di Splinter Cell),
non si risolvono certo nel suo contributo come programmatore o designer,
ma andrebbero inquadrati nel contesto di ricerca di una grande compagnia
come Konami.
Si rischierebbe anche di fondare il principio autoriale sulla scorta dei
contenuti (in questo caso, il riferimento all’universo narrativo e
cinematografico e non solo al suo linguaggio), ma questo non farebbe altro
che istituire una gratuita elevazione di questi precisi contenuti (guerra
futuribile, spionaggio, thriller investigativo) rispetto ad altri, oppure
risolvere il portato del gioco digitale nella sola rappresentazione di
contenuti e nell’appiattimento su un possibile “genere” cinematografico che
potrebbe convincere qualcuno della sua artisticità, ma non tutti. In effetti, il
Kojima più interessante appare di gran lunga quello capace di piegare i
tecnici e gli artisti del suo team alla massima efficienza, di costruire
l’immagine mitologica a venire con l’hype sui suoi prossimi giochi.
Soprattutto, appare più interessante il Kojima dell’opacizzazione
dell’enunciazione e dello scherzo sul rapporto tra giocatore e interfaccia
rispetto a quello dell’appassionato regista di storie interattive tecnoludiche,
la cui controparte attoriale delle star del cinema si incarna nel personaggio
205
di Snake156. Ma queste sembrerebbero essere proprio le componenti della
“poetica” di Kojima destinate a latitare maggiormente nella sua recente
produzione157.
6.5.3 Tom Clancy’s ghost writing
Il caso di Kojima, che si presenta problematico tanto per la
riflessione sul cosa concorra in una “poetica” videoludica quanto per la sua
trasformazione in star e in etichetta commerciale, garanzia per il
consumatore del blasone di stampo tutto cinematografico delle sue “opere”,
costituisce anche, con l’ossessione cinematografica del game designer, un
ulteriore ponte verso nuove discussioni che seguono il filo rosso dei
rapporti tra gioco digitale e altri mezzi espressivi, in primo luogo il cinema.
Un caso interessante per l’analisi dell’etichetta autoriale, con un
richiamo di artisticità che non proviene dal campo cinematografico da
quello letterario, è quello della serie di Splinter Cell, fortemente debitrice
nei confronti di Metal Gear Solid. Splinter Cell viene presentato con la
firma di Tom Clancy, scrittore canadese autore di romanzetti thriller dal
tema spionistico e militare, generalmente ambientati nel periodo della
guerra fredda, la cui conversione filmica più famosa è Caccia a Ottobre
Rosso. Splinter Cell si presenta con una firma che dovrebbe trascinare sul
videogioco una dignità letteraria (sic), ma è in realtà un puro espediente di
copertina per un testo videoludico che si presenta come uno dei migliori
esempi di assemblaggio industriale di un brand, del tutto privo di una
componente di ricerca espressiva, personale, o d’autore. Non è solo la firma
ad apparire gratuita. Persino il motore del gioco non è proprietario. Non lo
sviluppa Ubi Soft Montreal, compagnia che produce il gioco: si tratta,
invece, similmente a quanto succede in “area Carmack”, del motore di
Unreal, sviluppato dalla Epic Games di Tim Sweeney e Cliff Bleszinski.
Ubi Soft è, del resto, una compagnia che verrà ricordata nella storia molto 156 Su Kojima confronta Fraschini (2003) 157 L’esperimento più interessante di Kojima nello sfondamento del presupposto di trasparenza delle interfacce è costituito da Boktai, un singolare gioco dotato di una fotocellula sensibile alla luce ambientale.
206
più per il suo sapiente ricorso a personaggi carismatici, licenze di sicura
attrattiva o stereotipiche produzioni-polaroid rispetto quanto è in voga a
livello estetico nel campo dell’animazione, del cinema e del fumetto che per
la sua effettiva innovazione nel solco del linguaggio videoludico, che viene
costantemente presa in prestito.
Splinter Cell è una serie assemblata industrialmente e, pur non
essendovi alcun pregiudizio a priori sulla testualità che emerge da questo
contesto (molti dei giochi della serie si rivelano assolutamente gradevoli e
con vasti nugoli di appassionati), è arduo non riconoscere il fatto che i titoli
come questo o Rainbow Six (sempre Ubi Soft, sempre Tom Clancy’s) non
vadano oltre l’utilizzo di un motore già pronto, la commistione di elementi
di design mutuati da altri titoli di maggiore qualità (primo tra tutti, Metal
Gear Solid), un buon lavoro di grafica e marketing e l’utilizzo di una firma-
garanzia di genere-contenuto appiccicata a priori sul testo.
Non è questo, però, lo spazio o il momento per una critica della
qualità del testo videoludico: tornando al problema autoriale, Tom Clancy’s
Splinter Cell si presenta come uno dei casi più evidenti di etichettatura
gratuita dell’autore. Su un prodotto che riesce a intrattenere molti giocatori
medi, attratti dai temi e dalla stereotipia delle situazioni, ma dalla mediocre
innovazione stilistica e dalla sostanza ludica non miracolosa, il ruolo di
Tom Clancy su un gioco di questa serie potrebbe essere pari a quella del
defunto Walt Disney su un recente prodotto della compagnia. E se la
constatazione sulla inutile gratuità della firma dell’autore letterario sul
prodotto videoludico non dovesse bastare (come se, tra l’altro, si dovesse
accettare che quella d’autore fosse nozione da accettare
incondizionatamente nel campo letterario158), una piccola indagine sulla
firma di Tom Clancy chiuderebbe rapidamente e coerentemente il cerchio
delle considerazioni attuate sino a questo momento. Tom Clancy, infatti, da
reale scrittore dei suoi testi, è diventato da tempo uno dei brand più noti 158 È paradossale che, mentre nel campo letterario le varie teorie sulla morte dell’autore e la endemica accettazione del rapporto non diretto tra testo e firma spingono verso la considerazione critica della stessa, e verso la crescente formazione di house syndacates, nel campo videoludico si assista al percorso inverso. Splinter Cell è anche un punto di contatto disarmante tra letterarietà e codice videoludico, visto che gli incontri piu nobili tra questi regimi espressivi risalgono ai tempi della ricerca sulla narrativa ipertestuale.
207
dietro ai quale si celano dei ghost writers: questo termine, inizialmente
utilizzato per descrivere i responsabili alle comunicazioni e alla
corrispondenza dei personaggi celebri e specialmente dei politici, è stato
trasportato sugli scrittori che utilizzano un nome più famoso per consentire
la produzione di testi su maggiore scala industriale. La firma, tanto nel
gioco quanto nel libro, è niente altro che un’etichetta, di uno svolazzo
seduttivo per l’acquirente del centro commerciale.
“Blame Canada”, dunque, come cantano in prima persona i
mastermind della serie South Park nella colonna sonora del film
d’animazione tratto dalla propria serie tv? No, perchè il Canada è anche la
patria di un regista che opera, con il film eXistenZ, la più coerente e
profonda esplorazione della natura e dei limiti del videogioco e dei rapporti
tra linguaggio filmico e cinematografico: David Cronenberg.
6.6 David Cronenberg: il regista videoludico
Se dovessimo accettare la nozione di autore, anche con tutte le riserve del
caso, David Cronenberg rientrerebbe nel novero di questa categoria. David
Cronenberg, tuttavia, non è un game designer, un programmatore o un
artista del codice videoludico, come gli altri soggetti incontrati in queste
pagine. Cronenberg è un regista cinematografico, famoso per film come
Videodrome, La Mosca, Il pasto nudo, Crash, Scanners .
L’opera di David Cronenberg, nella fattispecie il testo filmico eXistenZ, non
ci interessa in questa sede perché in essa riscontriamo le marche di coerenza
di Cronenberg come autore, ne intendiamo riflettere su Cronenberg
assumendo questa valutazione come conclusione di - o premessa per - un
discorso sul suo cinema. Quel che ci interessa di David Cronenberg è il suo
lavoro su eXistenZ, un testo filmico dalla rara finezza concettuale che
tematizza, con una prospettiva capace di fondere la visione artistica e la
profondità teoretica, il problema della definizione della natura videoludica,
del suo autore-demiurgo, e dei rapporti tra videogioco e realtà.
208
Ecco la sinossi. eXistenZ si apre in una imprecisata località di
montagna del Nord America, durante la presentazione dimostrativa del
gioco eXistenZ a un pubblico di beta-tester selezionati da parte di una
multinazionale produttrice di videogiochi. Allegra Geller, game designer
del gioco, ne sta spiegando il funzionamento, come la capacità del gioco di
spingersi oltre quanto prima sperimentato nel campo, quando un ragazzo tra
il pubblico estrae una pistola – composta di cartilagine e carne, e dotata di
denti umani come proiettili – e spara addosso ad Allegra, urlando “Morte a
eXistenZ. Morte al demone Allegra Geller”. L’attentatore fa infatti parte di
una minoranza di “realisti” ostili al gioco “biologico” della Geller, la cui
esperienza è capace di mettere in discussione la nettezza e riconoscibilità
dello statuto ontologico della realtà. Ferita, Allegra scappa con Ted, un
funzionario della compagnia, e si rifugia in un hotel. Allegra è preoccupata
per il possibile danneggiamento del suo controller di gioco, le cui
condizioni di esistenza biologica e fisica (questo appare come un vero e
proprio organo/organismo vivente, fatto di carne e nervi) sono alla base
della preservazione del suo mondo di gioco. L’unico modo per testare la
salute della sua creatura è quello di giocare al gioco tramite essa. Ma per
farlo è necessario essere in due e Ted, prima di allora del tutto a digiuno di
videogiochi, non è provvisto di una bioporta, un orifizio artificiale simile a
un jack audio-video che viene collocato nella spina dorsale e funge da
interfaccia definitiva tra programma e sistema nervoso del giocatore. Ted
viene così convinto da Allegra a farsene impiantare una, cosa che avviene
tramite Gas, un gestore di una pompa di benzina nella vita reale e giocatore
incallito, che idolatra Allegra per avergli consentito l’esperienza di una
seconda vita videoludica eternamente riconfigurabile. Gas è però allettato
dalla taglia sulla testa dei due e, dopo avere impiantato la bioporta di Ted
(che si infetta da li a poco), li minaccia con un fucile e li costringe a
eliminarlo. A quel punto Ted e Allegra sperimentano il gioco, ma le
condizioni fisiche del game controller / feto videoludico iniziano a
deteriorare visibilmente, mentre i due sperimentano una serie di situazioni
di gioco (la sparatoria al ristorante, con un’arma composta sul momento con
209
le ossa di un piatto “speciale” a base di rane, l’allevamento di trote mutanti,
e così via) che si compenetrano l’una con l’altra e rendono impossibile
determinare la loro collocazione, come quella dei loro attori, nella realtà
piuttosto che nella finzione. In questo labirinto fenomenico, eXistenZ si
rivela alla fine come un probabile sottomondo di transCendenZ, un gioco
più ampio le cui regole appaiono ignote alla sua stessa, dubbia inventrice e
la cui stessa identificazione con la cornice ultima del film è messa in
dubbio.
Dal punto di vista filmico e semiotico eXistenZ è, come fa notare
Canova, un “saggio sull’economia del visibile e sulla semiotica della
percezione nell’epoca della virtualità” che già dal titolo, rinunciando alla
maiuscola (e quindi alla comune demarcazione di un inizio di un qualcosa
che è sancita dall’uso di questa) e mettendo come tali una incognita e una
variabile (X, Z), rifiuta l’intenzione di essere qualcosa di riconosciuto o
riconoscibile. eXistenZ è allora “un rebus percettivo, un enigma alfabetico”,
il momento in cui viene a schiudersi una voragine del regime di
rappresentazione che mette in discussione il principio di realtà. Canova fa
notare come Cronenberg, accusato dai critici nostalgici di una nozione
“realistica” del cinema di produrre immagini che generano la deriva dello
sguardo e provocano il naufragio dello spettatore, produca in eXistenZ una
tappa di estremizzazione di un processo sulla indecidibilità dello sguardo
già avviato con Videodrome e Il pasto nudo, e giunto con eXistenZ con un
rigore e una lucidità portati alle estreme conseguenze.
Canova159 fa notare come questo scopo venga raggiunto tramite una
compenetrazione del piano tematico e linguistico di eXistenZ. Da un lato, il
film tematizza il discorso sulla indecidibilità tra reale e immaginario nelle
parole della creatrice Allegra Geller, nella rappresaglia dei “realisti”
contrapposti al demone ludico, nella commistione tra l’interfaccia di gioco
(carnale e introiettata nel sistema nervoso piuttosto che rispondente a un
semplice rapporto di spettatorialità) e il giocatore. Dall’altro lato, lavora
sulla indecidibilità tra il reale e l’immaginario sul piano linguistico del 159 cfr. Canova, G. (2000)
210
cinema, rinunciando ai dispositivi della grammatica filmica che si sono
imposti nella storia del mezzo come marcatori delle transizioni tra diversi
regimi diegetici, narrativi, enunciazionali. Artifici retorici come flou,
dissolvenze, transizioni, e esplicitazioni del passaggio tra i diversi piani
ontologici vengono rifiutati in toto in eXistenZ, nel quale il reale e il
virtuale combaciano sino al naufragio della visione. I personaggi del
film/gioco incarnano questa politica programmatica, presentandosi come
feticci in bilico tra realtà e finzione che, se non sollecitati con la giusta
interazione, si producono in una stasi potenzialmente infinita, ripetendo la
stessa battuta e oscillando lievemente proprio come un personaggio non
giocabile di un videogioco. Eppure, neppure questo tratto spiega
completamente la loro appartenenza a un ordine finzionale, visto che anche
lo statuto delle vere persone, calato in un contesto in cui l’avatar si
confonde con la persona reale, si presenta come parte di una delle possibili
subdole strategie del sistema, che tenta di convincere il giocatore di essere
nella realtà. Ogni mossa, anche di apparente conferma dello statuto di
realismo, potrebbe infatti essere prevista all’interno del gioco: gli stessi
protagonisti “sentono” ciò che devono fare senza spiegarsi il perché, e
anche la messa in pausa del gioco può essere niente altro che “un trucco del
gioco, una sua trappola astuta e insinuante”. eXistenZ, allora, è un eterno
ritorno degli stessi gesti, che si srotola “in una circolarità spiraliformi che
finisce per produrre la vertigine di un’infinita mise en abyme”, secondo un
programma in cui la tecnologia è deprivata dalla sua stereotipica asetticità
positivista per divenire il luogo di fusione problematica con il corpo.
Per Canova, eXistenZ è uno dei modi più radicali e riusciti con cui
Cronenberg lavora sullo statuto delle immagini, sul presupposto di realtà e
finzione dell’opera filmica, e al contempo porta avanti la personale
ossessione sulla visibilità dell’organico nel suo dolorosissimo
incontro/scontro e con-fusione con l’inorganico e il tecnologico.
eXistenZ, tuttavia, è anche di più: letto all’interno del nostro
percorso, è un testo filmico in cui l’autore – che non esitiamo a definire
videoludico - appare al contempo sul piano del soggetto enunciatore, della
211
istanza enunciativa e, infine, tematizzato nella figura di uno dei
protagonisti. Sotto il profilo del soggetto enunciatore, eXistenZ è allora
davvero un film di autore: è l’opera di un regista capace di esprimere una
propria visione e poetica lavorando all’interno del sistema di produzione, di
cui padroneggia le risorse e controlla i processi con un margine di controllo
sufficiente a raggiungere un proprio obiettivo, relativamente al riparo dalle
logiche dello star system e del regime di visibilità degli attori, e dentro a un
percorso caratterizzato da una ricerca tematica e linguistica sul mezzo
filmico. Sul piano enunciativo, si assiste a un’istanza demiurgica il cui fine
ultimo si rileva votato solo apparentemente alla costruzione della
percezione: di fatto, essa lavora per il naufragio di quest’ultima, contro
quest’ultima, effettivamente per quest’ultima nel solo senso della sua
negazione. Infine, l’autore è tematizzato nella figura di Allegra Geller, a sua
volta eventuale traslato testuale del ruolo di Cronenberg come regista dei
suoi mondi filmici, in un singolare rapporto meta-filmico e intermediale
[immagine 26].
La caratteristica di un regime di intermedialità, tematizzata nello
stesso presupposto del testo filmico-videoludico, è la considerazione-
cardine sulla quale fondiamo la considerazione di Cronenberg e di eXistenZ
come di un autore e di un’opera almeno tanto videoludici quanto filmici.
In eXistenz, infatti, si realizza uno dei fini costitutivi della ricerca del
gioco elettronico, di uno degli orizzonti vocativi dell’arte dei mondi
possibili digitali: il raggiungimento di mondi possibili dalla matrice di
eventi di volta in volta più complessa, dalla presentazione estetica ed
estesica sempre più verosimile e dalla sensazione di immersione crescente,
tale da non fare rimpiangere il mondo reale e di presentare l’accesso a sue
alternative verosimili e coerenti160.
eXistenZ postula il raggiungimento di uno stato dell’arte
rappresentativa tale da rendere indecidibile il giudizio sulla natura “reale” o
“videoludica” del mondo possibile in termini di percezione estetica ed
estesica: il mondo fittizio che discende dal livello di tecnologia del 160 cfr. http://www.associazionesemiotica.it/ec/contributi/carbone_21_03_05.html
212
cronotopo eXistenZ ha la stessa definizione, le stesse proprietà fisiche, la
stessa esistenza passionale, estesica di quello reale, su cui innesta
eventualmente una serie di possibilità ulteriori, ma che può imitare alla
perfezione: vi si può sostituire, eventualmente tentando di ingannare il
giocatore sul suo stato (loggato/non loggato). L’embrayage nel mondo di
eXistenZ è quindi un vampirismo estesico, per il quale l’unico rimedio a
disposizione del giocatore è un labile potere di giudizio cognitivo sui limiti
ontologici della sua descrizione come mondo. La brillante lettura del film di
Cronenberg come descrizione del regime del visibile cinematografico
contemporaneo da parte di Canova, allora, non esaurisce il portato di
eXistenZ, che si rivela anche una delle migliori indagini sullo statuto del
mezzo videoludico in quanto matrice di mondi, sulla finitezza di questi,
sull’inganno dell’ingresso e dell’uscita dalla soglia. Il loop infinito dei
personaggi non sollecitati lungo lo snodo narrativo e interattivo previsto
dagli script a loro disposizione è allora, prima di tutto il resto, l’eterno loop
della matrice del mondo possibile. Se non vi è distinzione tra la realtà reale
e quella simulata, l’unica strada percorribile è quella del risalire alla sua
matrice.
Cronenberg non si limita, tuttavia, a fare da teorico videoludico.
Canova traccia un filo rosso nell’opera di Cronenberg che consente di
ritenere questo regista come una specie di ricercatore metalinguistico
sull’aggressione al senso del reale da parte dei mezzi di comunicazione,
della loro fusione o sostituzione placida o violenta con l’apparato cognitivo
e la carne umani. Questo “germe metalinguistico” parte da The Parasite
Murders e affronta il cinema, arriva a Rabid toccando la fotografia e la
televisione, raggiunge l’agghiacciante apice con la radio e il
videoregistratore di Videodrome e con la macchina da scrivere di The
Naked Lunch, e conosce definitiva riflessione teorica in eXistenZ. In questo
percorso l’invito a dubitare dello statuto delle immagini, il regime di
instabilità enunciativa e lo sfondamento del mezzo cinematografico verso le
ossessioni di altre pratiche comunicative, che discendono da precise
213
tecnologie, appaiono costanti di una ossessiva ricerca intermediale attuata a
partire dal mezzo filmico, che trova in eXistenZ un culmine ideale.
Se dovessimo accettare che, secondo il precetto baziniano, l’autore è
una visione del mondo attuata con un mezzo, dovremmo poi constatare
anche come il mezzo di comunicazione appaia una idealità nel regime
mediale contemporaneo, dominato da enunciazioni che presuppongono
l’intermedialità praticamente come norma e in cui tale è lo scambio
linguistico tra i diversi mezzi. Allora ne discenderebbe la considerazione di
Cronenberg come di un autore che ha riflettuto non solo sul potere di
fagocitarci delle immagini (ben esemplificata da alcune scene di
Videodrome, in cui il coito tra realtà e finzione è tematizzato in una scena
di vampirismo psichico e sessuale degna della mitologia del succubus), ma
anche sui ponti che un mezzo di comunicazione può operare verso altre
forme rappresentative, verso una negazione delle barriere mediali e, nel
nostro caso, verso una riconsiderazione dei rapporti tra cinema e gioco
digitale.
6.7 Cinema videoludico / videogioco cinematografico
I rapporti tra cinema e gioco elettronico sono decisamente complessi,
tanto nei presupposti linguistici che nella storia degli incontri tra i due
mezzi, e si presentano secondo una variegata serie di modalità che non è
possibile affrontare qui con una pretesa di completezza o di sistemazione
teorica definitiva. Gli incontri/scontri tra cinema e gioco includono le
influenze e citazioni reciproche a livello tematico, le intersezioni
linguistiche, i prestiti di contenuti e stilemi, le riflessioni da un mezzo sui
presupposti dell’altro, ma anche enunciazioni industriali in cui i tratti di
comunanza e il rapporto tra i due mezzi sono previsti a monte da un’unica
enunciazione industriale.
Nel periodo pionieristico del gioco elettronico la figuratività di
questo era costretta a cannibalizzare paratestualmente i temi dell’universo
cinematografico: i videogiochi, composti da poche stanghette, sopperivano
214
alla povertà estetica dei propri formanti con il ricorso, tramite paratesto,
titoli, grafica esterne e, in questo caso, licenze cinematografiche più o meno
ufficiali o in odore di plagio e riferimento indebito, a universi estetici
comprensibili per connotare il testo agli occhi del giocatore161. La
vocazione del videogioco nel non limitarsi a un ammennicolo interattivo, e
nel farsi veicolo per raccontare storie, raffigurare personaggi reali e
immaginari e mondi fantastici o verosimili, è oggi consentita dalle
possibilità di memoria e sofisticazione grafica, ma questa non nasce come
una caratteristica immediata del gioco elettronico. Dopo una fase in cui il
videogioco, grazie ai supporti più capienti, ha ceduto alla tentazione di
alternare alle fasi di gioco lunghe sequenze cinematografiche non
interattive, addirittura dallo stile avulso a quello delle parte giocabili e
quindi foriero di una frattura e di un senso di incoerenza nella percezione
complessiva del testo, il gioco digitale ha conosciuto un’evoluzione
tecnologica che, oggi, consente un discreto livello di somiglianza con una
certa parte dell’animazione digitale.
6.7.1 Shinji Mikami e l’orrore videoludico
Conquistata forte capacità figurativa, i videogiochi fanno parte di
una situazione mediale contemporanea in cui i singoli media si rivelano
tasselli di un unico panorama. Il caso di Shinji Mikami, designer principale
della serie di Resident Evil, testimonia l’innesto sul campo videoludico
della dimensione di tensione dell’horror movie nelle sue variegate forme
(specialmente lo zombie movie, ma anche il modello di Non aprite quella
porta e de la Cosa), che avviene con la creazione di un vero e proprio nuovo
genere videoludico, fondato su estetica e impianto narrativo horror,
immersione in ambienti ostili e labirintici e dimensione ludica
claustrofobica: il survival horror. Affermatosi come tra i generi dominanti
per una decina di anni di storia videoludica, il survival horror avrebbe a sua
volta costituito materiale di conversione per opere filmiche basate sulla sua 161 cfr. http://www.associazionesemiotica.it/ec/contributi/benoit_25_10_06.html
215
licenza. Da Romero a Mikami, e da questo a Anderson, hanno luogo una
serie di transiti intermediali, di rielaborazioni espressive e di semplice brand
exploitation che non si limitano a testimoniare la progressiva vicinanza di
cinema e gioco nel sistema dell’intrattenimento e della produzione, ma
mettono in luce la sostanziale parità dell’influenza e del peso di cinema e
gioco nella cultura e nell’immaginario popolare, che non può risolversi
nell’etichettatura del “cinema videoludico”, ne dell’applicazione dei metodi
critici del cinema sui prodotti videoludico, ma nella ricerca di un approccio
capace di attraversare barriere mediali che esistono solo per la critica e per
la sua incapacità di trascendere un proprio modello esclusivo.
6.7.2 Il cinema-videogioco
In un simile contesto la dispregiativa accezione di “cinema
videogioco” per indicare opere di puro intrattenimento, dai presupposti
estetici, narrativi e registici minimali, è una formula dietro alla quale si cela
come minimo una vieta semplificazione dei complessi rapporti che
intercorrono tra le due forme espressive. Frutto di una critica
cinematografica giustamente pronta a stroncare le varie, pietose versioni
filmiche da serie videoludiche di successo, eppure così a digiuno di
videogiochi da non cogliere neppure degli indizi sulla portata generale di
questo trend, e di una critica videoludica inetta, la formula è partorita da
una critiche incapaci di agire senza compartimenti stagni, dandosi una
forma mentis per una comprensione parallela di gioco e film.
Una cosa da far notare è del resto lo scambio critico vizioso
intercorso tra cinema e videogioco al livello critico e presunto teorico: la
percezione della critica del mezzo altrui è sintomatica di un limite nel
considerare i rapporti tra i due mezzi. Dal canto suo, la critica
cinematografica ha creato la dicitura “cinema-videogioco” e l’ha divulgata
216
partendo dalla constatazione del videogioco come mezzo di pura evasione
priva di riflessione e, quindi, connotando questa accezione di una
connotazione che appare del tutto fuori luogo nel contesto videoludico, ma
criticabile pure su quello cinematografico. Così Total Recall, visto da una
certa prospettiva, è puro cinema video-gioco162, inteso come gioco di
immagini, ma non per questo è vacuo: la categoria del “puro
intrattenimento” in ogni caso non va confusa con quella di “pessimo film”,
magari infierendo sulla produzione di pessimi film tratti da giochi. I critici
cinematografici non conoscono il gioco elettronico, come è possibile vedere
da piccole, granitiche, fastidiose marche come il ricorso a playstation come
sinonimo di videogioco o console (rimaniamo nel campo, rispondendo a
beffa con la beffa: utilizziamo così bertolucci come sinonimo di regista, o
spielberg come sinonimo di cinema, o besson come sinonimo di cinema
autoriale) o il modo in cui il mezzo è sempre considerato en passant come
manifestazione espressivamente minore della controparte cinematografica,
senza prendere in considerazione le caratteristiche di una enunciazione
contemporanea tra film e gioco che potrebbe portare il critico a capire
molto di più del film stesso.
La critica videoludica, invece, opera il confronto con il mezzo
cinematografico con un eccesso di riguardo, riscontrando nelle marche della
“complessa narratività”, del linguaggio e dell’estetica “quasi
cinematografiche” e nel ricorso ai temi e alle licenze di quell’industria dei
motivi per elevare il videogioco a una mutuata dignità, di una luce riflessa
dal cinema. Su questo piano, la critica contemporanea ha ceduto alla
complessità grafica ed estetica dei mondi di gioco,visto che quando i giochi
erano meno “realistici” le pessime conversioni dei film sul piano ludico
venivano stroncate, mentre oggi appaiono ben più tollerate163.
In entrambi questi modi di riflettere c’è una visione unilaterale, ma il
ciclopismo in un regime intermediale a livello produttivo, e in cui i mezzi
iniziano a scambiarsi i linguaggi, è destinato a perdere di vista in maniera 162 Cfr. Bettetini (1991) 163 Di recente Reservoir Dogs e Scarface sono diventati giochi con una trasposizione decisamente “in differita” rispetto ai film di origine.
217
irrecuperabile la profondità dei singoli testi come del fenomeno
complessivo.
6.7.3 Peter Jackson’s King Kong
Un esempio della complessità delle vicende è il caso di Peter
Jackson’s King Kong, che si presenta con la marca di remake autoriale che
abbiamo imparato a riconoscere tanto nella sua forma filmica che
videoludica ed è un prodotto industriale la cui forma ultima non si risolve
nel singolo testo/medium di riferimento. Il testo videoludico Peter
Jackson’s King Kong aderisce a un doppio livello alle logiche filmiche. Da
un lato c’è l’incorporazione della retorica paratestuale dell’autore, che
investe l’intero brand e di conseguenza anche il gioco digitale (la cui opera
di game design è invece, ovviamente, affidata non a Peter Jackson, ma a
Michel Ancel, ovviamente in UbiSoft). Dall’altro, il testo videoludico
risponde a una politica di trasparenza immersiva capace di imitare la
visione filmica in maniera totale e fornire una controparte interattiva. In una
lunga storia di ibridazioni, incontri e scontri tra gioco elettronico e film,
Peter Jackson's King Kong è destinato a essere ricordato come una tappa
obbligata per chi voglia tracciare un percorso ragionato delle vicende. King
Kong può essere considerato come una delle decisioni più radicali del
videogioco di farsi film: la mancanza di interfaccia visibile sullo schermo
perché resa totalmente trasparente, l'immersione del giocatore come
primaria missione estetica e ludica del testo, la filiazione totale alla
narrazione e al progetto filmico sono tratti di un videogioco capace di farsi
film, con la differenza che il pad vibra nelle mani del giocatore, e questi
può avere un ruolo attivo nello svolgimento di una trama - pur nella sua
eventuale chiusura prestabilita. In questo senso, King Kong non rappresenta
per niente una evoluzione reale nel recit, nella matrice videoludica: è
semplicemente lo stato dell'arte dell'immersività videoludica a mezzo
emulazione cinematografica. L'interfaccia è spazzata via, le indicazioni al
giocatore sono di natura intuitiva e fluida, quasi naturali, senza marche a
218
schermo. Anche a volerlo spregiativamente descrivere come l'affitto
definitivo del film nel contesto videoludico o, peggio, il vuoto del gioco nel
fumo della narrazione, il suo compito è riuscito: lo svolgimento delle azioni
segue una logica diegetica, sempre pronta a far chiedere al giocatore cosa
sia necessario, e non a richiedergli un surplus di tecnica sul controller, in
accordo con la contemporanea tendenza di massa del gioco digitale che lo
porta a farsi più user-friendly e meno sport estremo a mezzo dita.
Al di la della rimediazione filmica giocabile, è proprio l'intera
operazione, il progetto a suscitare il vero interesse teorico: gioco e film
possono essere considerati, ormai, nella pratica di enunciazione industriale,
nella tecnica come arte della distribuzione delle forme sulle sostanze in
cambio di economia, quasi un unico testo che si articola in forme e mezzi
diversi. L'epitesto filmico e quello videoludico sono unificati e parlano lo
stesso linguaggio nel presentare il film e il videogioco: il primo parlando di
incredibili emozioni, e il secondo proponendo di provarle in prima persona.
Sono passati i tempi in cui Nintendo la faceva franca con Donkey Kong per
il copyright infringement: oggi l'industry ha raccolto la gavetta del gioco
elettronico, reietto forse accademicamente fino a poco tempo fa ma ormai
economicamente leader. Game designer talentuoso e regista del momento,
insieme, sono al contempo soggetti e pedine di una logica in cui
l’autorialità, a prescindere dall’effettivo loro talento o ruolo, è un’etichetta.
Al di la della considerazione di questi designer, produttori e creativi come
autori o meno, quel che è evidente è il rischio che la dimensione
comunicativa e mitopoietica dell’enunciazione industriale prevalga
sull’aspetto metatestuale e la componente critica della teoria videoludica,
che in larga parte si presentano come carenti. L’industria del videogioco,
come quella cinematografica, è pronta per foraggiarci di testi autoriali, ma
chiunque lavori su un solo lato di macroenunciazioni plurimediali come
King Kong non potrà che opporvi una critica terribilmente ristretta.
6.7.4 Cinema, gioco e critiche
219
eXistenZ e Peter Jackson’s King Kong possono poi servirci, tenendo conto
di quanto detto sinora a proposito di questi testi, per un’ultima
considerazione: il cinema è il primo, vero video-gioco, perché è una
manifestazione espressiva su una sostanza della visione. In quest’ottica,
film e gioco elettronico appaiono come tappe diverse, contraddistinte da
diverse sostanze, storie e pratiche espressive, dell’unica avventura
semiotica umana, iniziata con le sagome di bufali fatte con colori naturali
sulla nuda roccia e oggi dominata dallo smistamento del digitale su ogni
sostanza espressiva. Qualsiasi ricognizione della storia dell’arte secondo
una prospettiva simile apparirebbe titanica. Del resto, neppure esaurire la
sola questione dei rapporti tra gioco e cinema appare impresa facile, e
questa appare anzi una missione al di fuori della portata di questo lavoro.
Ciononostante, è nostra intenzione indicare alcuni aspetti del rapporto tra
gioco e cinema, sottolineandoli come altrettante direzioni ideali di ricerca.
Un primo aspetto da considerare è la questione della falsa differenza
tra “apertura” del gioco e “chiusura” di altri mezzi, come ad esempio il film
o il romanzo, a livello “interattivo”, così come è stata presentata da quanti
hanno radicalizzato l’assunto della contrapposizione tra narrazione e
interazione. Ogni testo, infatti, ha un grado di “apertura” rispetto al lettore,
che vi “interagisce” completandolo, operando passeggiate inferenziali,
corrispondendo o meno con un certo lettore modello, eventualmente
forzando e traviando le intenzioni comunicative del testo. Se dovessimo
sostenere che il testo videoludico si distingue per la maggiore apertura
rispetto ad altre forme di testo, trasformando la peculiarità del mezzo
videoludico in una scusa per ritenerlo “più aperto” e “meno concluso” di un
libro o un film, opereremmo una indebita frattura nel modo in cui la
semiotica concepisce la testualità, attuando un ragionamento deterministico
rispetto al dato tecnologico del mezzo o confondendo il dato
dell’interattività dell’interfaccia videoludica con la posta segnica in gioco.
Ogni testo ha una soglia di apertura, come dei limiti dell’interpretazione164.
Per questo motivo, una contrapposizione tra interazione e narrazione che 164 cfr. Eco (1990)
220
scambiasse lo specifico interattivo del videogioco con una sua presunta
“maggiore apertura” rispetto al cinema o ad altre forme di testualità si
presterebbe alla fallacia teorica165. Sul piano testuale, lo specifico
videoludico non va definito in base a una presunta maggiore “apertura” in
termini semantici: questa non va confusa con la forte componente cognitiva
e interattiva sul piano fisico, in base alla quale è quasi possibile equiparare
molte forme di il gioco digitale a degli sport166.
Il secondo aspetto da sottolineare è il regime di ibridazione tra i
mezzi, che appare dominato dalla vicinanza della tecnologia di base e dalla
tendenza di contaminazione dei linguaggi. Il digitale ha cambiato i modi di
intendere, consumare e produrre cinema a tutti i livelli: dal riprendere ed
esportare facilmente in digitale al file sharing, dal conflitto tra “ciò del
mondo che era li davanti” e ciò che è ricreato al computer alla
riconfigurazione dei modelli di consumo e distribuzione..
Il terzo aspetto deriva allora dai primi e consiste nel riconoscere che,
se l’analisi cinematografica non è in grado di affrontare l’oggetto
videoludico se non attraverso il filtro di una sua errata equiparazione al
dispregiato “cinema-videogioco”, la critica videoludica non è in grado di
superare il pur utile ma banale e troppo generico distinguo tra “interazione”
e “narrazione”. Sul primo caso, basti leggere cosa pensa il recensore
cinematografico medio del videogioco dalle recensioni delle conversioni in
testo filmico di licenze e brand famosi nati nel contesto del gioco
elettronico (per esempio, Resident Evil). Accanto alle dovute stroncature
dei testi filmici, è quasi sempre possibile leggere in filigrana un diffuso
pregiudizio di natura strutturale sulle possibilità del videogioco. Questo
atteggiamento testimonia quanto questa critica sia impreparata a raffrontarsi
con oggetti testuali il cui fine, quello di intrattenere interagendo, appare
ancora meno legato a un’idea di espressione autoriale o di arte nel senso
drammatico e riflessivo del termine rispetto al cinema, ma che non per 165 Un esempio di superamento dell’empasse narrativo-interattivo che ha dominato la ricerca videoludica del primo periodo è presente in Maietti (2004) 166 Il deathmatch che ha reso famoso Doom è presto entrato nel novero delle pratiche che avvicinano il videogioco a uno sport cognitivo più o meno estremo. In questo senso, l’istituzione di diverse leghe di digital sports e di tornei videoludici non andrebbe sottovalutata.
221
questo vanno considerati secondo una diversa accezione o scala artistica. Il
contesto mediatico contemporaneo, tuttavia, richiede una critica capace di
comprendere entrambi questi versanti della testualità.
La critica videoludica, dal canto suo, non è esente da critiche: è
evidente che una grossa parte di questa ha finito in primo luogo per
accettare in maniera semplicistica la distinzione tra narrazione e
interazione, incensando i giochi più “cinematografici” e cedendo spesso alle
lusinghe di modelli autoriali di stampo cinematografico: il tutto, attingendo
a una mitologia vieta degli stessi, ben smascherata dalla teoria, e senza
un’adeguata riflessione sui presupposti tecnologici, industriali, di
produzione, consumo ed evoluzione comparata dei linguaggi videoludici e
filmici.
Appare una constatazione sorprendere, eppure veritiera, il fatto che
nessuno, tanto tra coloro che sono attratti dal videogioco come nuovo e
fertile campo teorico quanto tra i critici videoludici di avanguardia, si sia
interessato al recupero di quanto nel contesto del cinema si sia detto
sull’autore. Piuttosto che elogiare la capacità del videogioco di pervenire a
uno statuto espressivo degno del cinema o dei musei d’arte, o di agitare le
ossessioni iper-analitiche che specificherebbero i tratti comuni e le
differenze tra i mezzi espressivi, i teorici del videogioco farebbero bene ad
aggiornarsi a quanto si è fermamente additato a livello di smascheramento
della retorica industriale e critica, evitando molte facili ingenuità senza
necessariamente rinunciare all’affermazione della dignità della pratica
videoludica. È preferibile, a questo stadio della ricerca, procedere per
insegnamenti storici e meta-teorici piuttosto che sulla base di mistiche
intuizioni sulla singolarità del mezzo videoludico (questo senza appiattire le
due storie e pratiche l’una sull’altra, ma per evitare di prodursi in errori di
anacronismo teorico). La nevrosi per la definizione e delimitazione teorica
del mezzo e per il suo autore caratterizza la ricerca sul videogioco oggi,
come ha fatto parte di quella cinematografica ieri. Ma la teoria del cinema
ha saputo presto liberarsi dei falsi fardelli della nozione di arte elaborata in
epoche e contesti diversi, pervenendo a una sua soluzione capace di
222
illuminare anche il prodotto artistico nell’accezione di quegli ultimi. Dal
cinema non vengono però la diffidenza verso la retorica autoriale – nella
quale la critica videoludica casca spesso in pieno – m anche alcune delle
migliori interpretazioni del gioco digitale. Come quella di Cronenberg, che
abbiamo illustrato, o quella di Lynch, che anticipa il regista canadese con il
suo spot per Playstation 2, dal titolo di Bambi. Un camion si scontra contro
un cerbiatto dopo una classica narrazione alternata che vede proseguire i
due, ignari dell’imminente incontro sul luogo dell’impatto. Quando questo
avviene, è il camion ad accartocciarsi e devastarsi contro l’illesa, immobile,
minuta figura del cerbiatto. Il motivo? Different place, different rules.
6.8 Ludologia vs. Semiotica
Esiste un’ultima considerazione da fare, che deriva dalla nostra
constatazione sui rapporti tra cinema, gioco e altri mezzi espressivi. Il
discorso portato avanti in relazione al regime di inter-medialità
contemporaneo non può non far riflettere sull’esigenza di una teoria dotata
di strumenti potenti e flessibili, adattabili alle diverse forme testuali,
sistematizzabili in modelli elastici che non rinchiudono i testi in categorie
gratuite, non si limitano a descriverli uno ad uno, e possono mantenere un
equilibrio teoricamente ideale tra l’esigenza di spiegare il testo e l’eleganza
nell’offrirsi come teoria capace di applicarsi su vaste porzioni del
continuum testuale. Questa teoria è offerta da un uso accorto dei molti
strumenti a disposizione della semiotica nelle sue molte correnti di
pensiero, e la strada migliore per procedere appare quella del recupero
oculato, dell’adattamento degli ottimi strumenti già esistenti, del confronto
tra problemi nuovi le cui istanze non sono del tutto dissimili da quelle
riscontrate su altri ambiti espressivi, mediali e testuali.
La continuità scientifica appare come una necessità per la critica e la
teoria videoludica di oggi. Un’idea dei possibili semplicismi teorici che
deriverebbero da una non-continuità con le tradizioni di studio
223
narratologiche, semiotiche ed estetiche può forse essere data proprio dai
tentativi di fornire una definizione circoscritta del gioco digitale che
potrebbero discendere da una teoria rigidamente sistemistica della
cosiddetta “ludologia”. Si tratta di una nuova disciplina, propostasi in
parallelo all’ascesa dell’interesse accademico suscitato dal videogioco, che
si è contrapposta all’approccio semiotico al gioco con la volontà di
rivendicare l’autonomia del videogioco da una presunta volontà egemone
della semiotica.
Gli approcci ludologici affrontano i videogiochi come sistemi
formali, più come giocattoli che come porzioni testuali e secondo una
prospettiva più o meno unificata sotto l’egida del termine “Ludologia”167.
Gli approcci ludologici però non sono esenti da potenziali rischi teorici,
dato che pretendono di istituire una disciplina su un oggetto liquido come il
gioco digitale senza l’adeguato, enorme background teorico che appare
necessario per una simile operazione, e senza la consapevolezza epistemica
che questo tentativo dovrebbe prendere in carico. Da questa ingenuità,
giustificabile solo sul piano “attivistico” della considerazione accademica
suscitata e sul piano “politico” dell’interesse culturale investito sui
videogiochi, seguono una serie di cadute nell’abisso: il problema di studiare
i giochi come “sistemi” andrebbe rimandato a discipline specifiche; il
problema di creare una disciplina ad hoc sui videogiochi è epistemicamente
mal posto168; la volontà di istituire un discorso ludologico unificato non già
sul gioco tout court ma anche sul “solo” videogioco appare, semplicemente,
soverchiante, e ben al di la del paradigma della ludologia.
Se la ludologia intende configurarsi come uno studio sulla
componente logico-sintattica dei sistemi formali, o come un’anima logico-
formale dell’analisi del gioco, avrà certamente una ragione per continuare i
propri studi, ma dovrà confrontarsi con il punto dell’analisi raggiunta da
discipline che si occupano da molto tempo di questi aspetti. Come una
specie di ludofilia, consapevole delle questioni multidisciplinari sollevate
167 Un punto di riferimento per gli studi ludologici è costituito dal sito www.ludology.org 168 Cfr. Marradi (1980)
224
dai videogiochi, la ludologia potrebbe certamente avere un ruolo importante
di mediazione, attivismo culturale, entusiasmo sul mezzo, critica
dell’ideologia. La ludologia non può però pretendere di spiegare il gioco o i
videogiochi secondo una prospettiva sistemica, univoca o strutturata ad hoc,
perché il gigante si reggerebbe su dei piedi d’argilla: quelli di una
definizione restrittiva e cristallizzante della complessa testualità del
videogioco.
Tra le critiche mosse agli “approcci tradizionali” dai ludologi vi è in
primo piano l’accusa di non potere inquinare un nuovo mezzo di
comunicazione, precostituendone la natura su paradigmi creati altrove. Ma,
come abbiamo sostenuto a lungo nel corso di questo lavoro adducendo
esempi di ibridazione tra linguaggi e testi videoludici e quelli di altri ambiti
espressivi, la semiotica è in grado di spiegare i videogiochi come oggetti nei
quali si negoziano e consumano significati e pratiche più di approcci che,
nel tentativo di chiarire la loro natura sistemico-logica, rischiano, a
differenza dell’approccio semiotico, di sconfinano dal territorio di analisi
più adatto per quell’oggetto169. Al contrario, la semiotica è una disciplina
capace di estendere i propri strumenti verso zone “di confine disciplinare”
di competenza di altre discipline più specializzate, riuscendo a mantenere
espliciti e a riflettere sui confini di queste accorte peregrinazioni. La
semiotica spiega il videogioco nei suoi meccanismi fondamentali,
superando i determinismi tecnologici e studiandoli ora come testi mediali
imparentati con il cinema e ora come giocattoli tecnologici; ricorrendo di
volta in volta all’analisi della metaforizzazione digitale delle interfacce e
della loro trasparenza piuttosto che dei programmi d’uso dell’impugnatura
degli oggetti; mantenendo in ogni caso attiva la considerazione delle matrici
e delle sceneggiature di quel mondo possibile che è il testo; e riuscendo a
169 Un semiologo, posto di fronte a un termosifone, tenterebbe di esprimere le proprie considerazioni sulla stufa come un testo da analizzare secondo i propri strumenti e la propri episteme e in cui sono iscritti e negoziati dei significati, o persino il fatto che non ve ne siano. Sembrerebbe invece che il ludologo si mostrerebbe tentato di rigettare l’uso di strumenti pregressi, sostenendo la necessità di una disciplina ad hoc per le stufe e, di conseguenza, gettando a mare fisica, termodinamica, chimica, estetica. L’assunto epistemologico che ognuna di queste discipline costituisca una dimensione analitica diversa per una porzione di realtà non lo convincerebbe neppure a evitare di analizzare la stufa come un “sistema”, esponendosi al lavora ai fianchi della fisica, teoricamente più robusta.
225
delineare i confini di questa analisi spiegando il modo in cui producono e
negoziano senso, proprio ciò che sembra sfuggire ad altri approcci.
I limiti che derivano dal considerare i giochi secondo una prospettiva
isolata, alla maniera della ludologia, diventano ancora più macroscopici di
fronte al paradosso enorme di una situazione dell’intrattenimento globale
che mette in crisi definitiva e irreversibile i compartimenti stagni tra i mezzi
di comunicazione e gli strumenti da utilizzare per analizzarli.
I tentativi condotti dalla parte della semiotica appaiono assai più
fondati di quelli ludologici e più capaci di spiegare il fenomeno videoludico
con pregnanza e lucidità per due motivi. In primo luogo, non istituiscono
una frattura epistemica o ontologica tra il gioco elettronico e le altre forme
espressive, e anzi colgono le loro parentele. In secondo luogo, gli strumenti
teorici utilizzati sono sufficientemente passibili di essere tarati, ri-
dimensionati, fatti evolvere proprio per mantenere continuità teorica con gli
oggetti di studio su cui sono stati approntati da un lato e, dall’altro, per
affrontare testi nuovi, a tutto vantaggio della evoluzione complessiva della
disciplina in un progetto di comprensione del senso170. Nel momento storico
in cui il fenomeno digitale e mediale appare più che mai caotico e convulso
sul piano testuale, la semiotica può innestare sulla sua tradizione nuovi
problemi in maniera profonda, pregnante, mentre la tentazione tutta
cattedratica di altri approcci di fare indebitamente tabula rasa intorno al
testo videoludico è destinata al naufragio. Dalla parte della semiotica si
tratta di far rientrare il videogioco nella più ampia visione della testualità: di
per se, questo, un indizio chiaro di una mancanza di intento tirannico sul
“mezzo”, chè la stessa deterministica visione del “mezzo” è negata dalla
disciplina.
170 Cfr. Fabbri (2003)
226
Capitolo 7 Conclusioni: Ars Videoludica “…il pubblico d’avanguardia è attento a tutto. I suoi zelanti esponenti […] si precipitano a organizzare mostre e a fornire etichette esplicative prima ancora che il colore si sia asciugato sulla tela o la materia plastica indurita. I critici cooperano perlustrando gli studi come segugi, pronti a scoprire l'arte del futuro e a prendere l'iniziativa nel consolidare reputazioni.” (Harold Rosenberg, The New Yorker)
Nei capitoli precedenti ci siamo interessati all’autore partendo da
testi importanti per l’evoluzione delle forme videoludiche, concentrandoci
di volta in volta sull’aspetto della tecnologia, della tecnica come cultura
condivisa, della componente commerciale e del progetto enunciativo.
Abbiamo inteso ogni tappa della nostra ricerca come un momento
per problematizzare la nozione di autore nel gioco digitale, cercando di
rilevarne la presenza, la validità e i limiti partendo sempre non da categorie
estetiche, ma da occasioni e occorrenze testuali che mettessero alla prova e
testassero la tenuta della nozione.
Dopo avere dato una definizione provvisoria del gioco elettronico
abbiamo fatto arretrare la questione autoriale e l’abbiamo fatta coincidere
con quella dell’invenzione del videogioco. Successivamente, abbiamo
riferito delle condizioni industriali e dell’evoluzione delle configurazioni
enunciative dei videogiochi dei primordi, occupandoci di come non soltanto
il ruolo, ma anche l’identità e l’idea autoriale del soggetto nell’enunciazione
e nell’ambiente produttivo dei giochi risultino denegati o apertamente
esaltati rispetto ai testi a seconda dei paradigmi commerciali imperanti.
227
Abbiamo poi cercato, a partire dai testi, il vero rapporto tra l’istanza
enunciativa e i soggetti, così come l’idea semioticamente condivisa di
autore che ritornava sui/nei testi, suggerendo un discrimine tra le possibilità
di questa nozione e i possibili “abusi” apologetici o commerciali a cui essa
potrebbe sottendere. Ne è risultato un panorama frammentato, dominato
testualità alla ricerca di autore, da una serie di contraddittorie politiche
autoriali, e da esempi di totale annullamento dell’autore, come nel non-testo
Second Life.
La ricognizione sulla nozione autoriale e sul ruolo del game designer
nel contesto videoludico, che abbiamo portato avanti nel corso dei capitoli
precedenti, ha messo in luce la tendenza alla ri-mediazione costante e
generica del gioco digitale e una serie di importanti paralleli tra il
videogioco e il cinema. Entrambe le forme espressive, nonostante le
specificità e differenze, si presentano con un carattere corale
dell’enunciazione, e con una storia espressiva egualmente travagliata,
contraddistinta alle origini dal dibattito sullo statuto artistico e sulla
specificità dei due mezzi.
Il videogioco, arte “collettiva” come il cinema, appare in bilico tra il
potenziale per l’uso espressivo dell’individuo, che deriva da uno sfondo di
sapere-potere fare condiviso nello stato dell’arte del mezzo, e l’assenza di
un uso individuale di questa tecnica o il ripiegamento del primo rispetto a
logiche produttive e commerciali che lo narcotizzano. Come al cinema, il
videogioco assume sistematicamente la forma di sistema di produzione tale
che il soggetto non indipendente sul piano tecnico non può fare a meno di
annullare il tentativo di una espressione autoriale forte, oppure tentare di
giocare strategicamente all’interno di questo sistema.
Mentre le estetiche e le forme del gioco digitale sfuggono a una
definizione, la “cifra d’autore” e la “poetica artistica” appaiono concetti
deboli, da usare con molta cautela. I testi presi ad esempio nei capitoli
precedenti dimostravano la sostanziale impossibilità, nonostante la
profonda convinzione della centralità dei soggetti nel fare artistico e una
visione dell’enunciazione come una nozione non tirannicamente testualista,
228
di pervenire a una definizione univoca dell’autore videoludico, così come a
una definizione per il mutevole e liquido oggetto videoludico. Per ognuna
tra le svariate forme in cui si esprime l’agglomerato codice-interfaccia-
pratica del testo ludico-digitale, infatti, è possibile rintracciare un’idea
diversa di autore e una specifica configurazione enunciativa, per testi a
plurimi livelli di scrittura.
A questa considerazione si è aggiunto il monito offerto dalla storia
della teoria cinematografica e la sua elaborazione critica della figura
registica: gli anticorpi teorici così sviluppati rendono possibile un approccio
severo e sospettoso nel riscontrare dei presupposti per il discorso autoriale
spesso dati per scontati dal pubblico e da una parte della critica, ma ben
pianificati dall’enunciazione industriale. L’autore videoludico è stato finora
poco più di un grimaldello critico.
Non vi è però soltanto il rischio di cedere alle lusinghe di una
enunciazione industriale pronta a scodellare l’autore sul piatto del
consumatore: è in corso un processo critico-teorico di più ampia portata,
incentrato sulla destinazione del videogioco nel novero delle arti.
Accanto alle firme degli autori in copertina sono in voga una serie di
fenomeni collaterali. Per esempio, la tematizzazione della figuralità
videoludica da parte di artisti accademici desiderosi, evidentemente, di
aggiornare la riflessione avant-pop incorporando sulle tele, nelle copertine,
nelle action figures disposte in mostre museali e convegni di studiosi
l’immagine dello zeitgeist videoludico, i “landscapes” e i personaggi, i
linguaggi visivi e la “risoluzione percettiva” del videogioco171.
In questo ambiente culturale si fa strada persino una mistificazione
industriale e pubblicitaria di alta portata, come la presentazione di
Playstation 3 da parte di Sony in una casa-museo dedicata, il Playstation
Dome, in mezzo a sculture, opere d’arte e una atmosfera da ricercato salotto
di intenditori d’arte contemporanea. Mistificazione non certo perché si
intende negare al videogioco la possibilità artistica, ma perché la
171 È il caso dei lavori di Mauro Ceolin, visionabili all’URL www.rgbproject.com
229
promozione in prima classe di questo nel pantheon artistico implica
evidentemente una gerarchia delle muse [immagini 29-30].
Il videogioco è arte? Secondo l’approccio di questo lavoro, che
abbiamo esplicitato nel corso dell’introduzione e dei capitoli, sì. Ma lo è
secondo una nozione debole ed elastica di arte, non romantica e suddivisa in
livelli di blasone, e legata al fare e al significare di ogni testo: una visione
per la quale non si può elevare ad arte il videogioco rispetto ad altri ambiti
espressivi perché questo corrisponderebbe a istituire livelli nel dominio
artistico e tecnico.
Se la semiotica dell’arte ha abbordato il testo artistico con la
profondità di un approccio attento alla fenomenologia, nell’ottica di una
antropologia delle culture e del fare artistico172, la semiotica nella totalità
dei suoi approcci e delle sue metodologie si è da sempre occupata del
significato rifuggendo le contrapposizioni culturologiche e ideologiche in
favore di un approccio totale al testo, e favorendo con l’atteggiamento dei
suoi maggiori esponenti una apertura all’arte priva di preconcetti173.
Nel mezzo dell’infuriare del dibattito sul prodotto culturale e sulla
cultura di massa la critica cinematografica, inseguendo le immagini rapide
del cinema, ha recuperato in termini problematici e scettici il problema
dell’autorialità nella nostra epoca partendo dalla concretezza di un mezzo
espressivo di massa. Nello stesso periodo, la critica dell’arte
“d’avanguardia” rigettava il problema, aderiva ad atteggiamenti apocalittici
o si rifugiava in mille, sterili rivoli di meta-teorica fumosa, rinchiusa nelle
soffitte delle accademie a sventolare la bandiera della morte dell’arte174.
Abbiamo provato a inserirci in questa forma mentis, non potendo
fare a meno di notare come il videogioco risollevi tutte le problematiche
tipiche dell’estetica contemporanea: il rapporto tra tecnica e arte, tra autore
172 cfr. Basso (2002) 173 Cfr. Eco (1964) 174 Per una attenta disamina degli ultimi grandi artisti contemporanei, nella quale l’immane influenza di Giger non trova tristemente alcuno spazio, cfr. Dorfles (ed. agg. 2002). Gli studi di estetica, paralizzatisi nei problemi dello statuto e dell’utilità della nozione d’arte, capaci di esaminare nel dettaglio i singoli esponenti delle avanguardie concettuali para-accademiche, hanno tralasciato interamente un ambito di pesante consumo estetico come quello, magari secondo la giustificazione della mancanza della novità sul “piano linguistico”.
230
singolo e collettivo, tra opera situata e riproducibile, tra pratica artistica e
sua funzione. Ma in questo senso il bisogno di pervenire a una teoria
dell’autore videoludico non deriva tanto da una necessità critica della
nozione, quanto dalle forte necessità di pervenire a una teoria della
testualità adatta al nuovo panorama mediale.
Un approccio attento ai processi di ri-mediazione e una
sociosemiotica del testo, con una semiotica dell’arte capace di recuperare il
portato estetico all’interno di un’ottica di antropologia delle culture,
possono gettare fare luce su una testualità che non risponde più al dettato
del dettato del singolo testo, ma delle costellazioni testuali dell’era del
digitale e dell’integrazione orizzontale dei mezzi.
È proprio vero, come sostenuto da Franco Casetti nel corso di una
conferenza175, che la teoria del gioco elettronico ripresenta vecchi problemi
che risorgono in maniera diversa nel mutato contesto: la mimesi
contrapposta al realistico, l’intrattenimento commerciale contro il “testo
impegnato”, “i mcmahonisti”, “i nouvelle vague”. La critica videoludica
deve affrontare problemi che altre storie delle arti hanno già affrontato, in
condizioni mutate: ma sarebbe illegittimo liquidarli come “problemi
superati” perché non si possono creare gli anticorpi senza scontare prima il
malanno.
Poco importa se la semiotica del videogioco a venire privilegerà un
approccio generativo, attento al semi-simbolico, piuttosto che uno
interpretativo, particolarmente utile per la sua validità sulla natura di
matrice dei mondi possibili. In questo senso, ci si potrà iscrivere nel solco
di chi propone di utilizzare micro-sistemi invece di macro-teorie176: con la
differenza, però, rispetto alla tendenza tutta interdisciplinare a far
proliferare la cassetta degli attrezzi, di usare i mezzi già a disposizione per
smontare i dispositivi ludici nelle loro componenti, senza sacrificare il tout
di signification del testo né il suo respiro nella semiosfera177.
175 Ci riferiamo alla conferenza Games@Iulm, tenutasi a Milano il 3 Maggio 2006. 176 Cfr. http://www.videoludica.com/news.php?news=245 177 Per il concetto di Semiosfera si rimanda a Lotman (1985). A differenza di Eco, che intende l’Enciclopedia come un deposito di nozioni e credenze, Lotman parla di sottoinsiemi culturali. Cfr. anche Eco (1984). Riferendoci al termine
231
La stessa ansia di nobilitazione critica e commerciale del videogioco
agisce sul piano accademico. Purtroppo, all’ansia e alla foga per
accaparrarsi discipline, argomenti e definizioni di apologetici videoludici e
borsaioli teorici si accompagna la frattura generazionale tra i giochi e una
classe di studiosi di altissimo livello che non hanno mai giocato e, quindi,
non possono applicare con l’adeguata consapevolezza gli strumenti
esistenti). Il crescente interesse nei confronti del gioco elettronico e la sua
rivalutata rilevanza culturale stanno probabilmente convincendo molti
studiosi qualificati a considerare i videogiochi non tanto come una tra le
tanti delle manifestazioni di una certa “nuova multimedialità”, ma come il
mezzo espressivo dominante di una nuova epoca dell’espressione e
dell’intrattenimento.
È auspicabile che questa attenzione li costringa non solo, come
hanno già fatto, a prendere atto della necessità di comprendere i testi
videoludici con valutazioni di seconda mano, ma anche a prendere in pugno
i controller, facendo da contrappunto alla proliferazione teorica e categorica
di contributi confusi e teoricamente poco accorti che pretendono di fondare
la comprensione del gioco su basi non abbastanza solide, avulse da un
consapevolezza storica sul progredire del pensiero sull’arte.
Il riconoscimento della dignità del videogioco come mezzo
espressivo ha infatti caratterizzato indelebilmente la ricerca teorica di prima
generazione, e in appena una decina di anni gli studi sul gioco elettronico
sono passati da una fase di esplorazione pionieristica a un vero e proprio
boom critico-teorico. Ma appare significativo come, nonostante la maggior
parte delle premesse di studio sul videogioco parta proprio dalla presunta
necessità di sdoganare il gioco elettronico all’interno della comunità
accademico, questo sia effettivamente già avvenuto, almeno per quanto
riguarda l’accettazione del mezzo in ambienti culturalmente vicini alla
cultura digitale e non già come una sopravvenuta e generalizzata coscienza
teorica.. La prima fase della ricerca teorica sul gioco digitale, con il suo
Semiosfera non intendiamo affatto istituire una frattura insanabile tra le due impostazioni o prendere una posizione al riguardo.
232
atteggiamento di affermazione estetica, è conclusa: il suo scopo, quello di
rendere evidente alla tradizione teorica il suo evidente ritardo nel
riconoscimento dei videogiochi come oggetti di studio elettivi per la
questione mediale, comunicativa, estetica contemporanea, è stato raggiunto.
Nonostante quanto si continui a dire nelle prefazioni della maggior parte dei
lavori sul gioco digitale e si vada sostenendo in certi dibattiti, il videogioco
ha finalmente stimolato un grossissimo interesse accademico, attirando in
prima battuta una nutrita schiera di folk theorists e critici di varia
declinazione, sollecitando i centri universitari a tenere conto di una famiglia
testuale a lungo non tanto denegata quanto trascurata e misconosciuta. I
videogiochi, ne sono la prova moltissimi eventi e indizi di natura
accademica, non sono, di fatto, più denegati: la tradizione accademica,
spalle al muro, ha deciso di affrontarli – giochi, critici e apologeti – faccia a
faccia178. Oggi, più che di una prima, pionieristica fase, sembra allora più
sensato lavorare per l’arrivo di una seconda e più matura fase critica.
L’autore è un grimaldello per una critica che vuole nobilitare il
videogioco, ma non è possibile sostenere con molto successo la tesi da
“aspiranti integrati” per cui il gioco elettronico sarebbe ostacolato nel suo
riconoscimento da apocalittici baroni di tradizioni accademiche
precostituite. I presunti baroni provengono da una generazione che ha già
combattuto la propria guerra contro i baronati, in un clima culturale
caratterizzato dalla negazione della frattura tra cultura “alta” e “bassa”.
A ben vedere, di fatto, il videogioco sta diventando un “mezzo
integrato” nella ricerca accademica senza essere mai additato come un
mezzo indegno di studio estetico, semiotico, comunicativo, sociale: il
dibattito sulla cultura di massa che ha contrapposto gli apocalittici e gli
integrati lo ha interamente preceduto179. Diverso il fatto che esso sia
largamente sfuggito a certa teoria, o l’effettiva ricerca sulla specificità del
mezzo. Alcune tradizioni di studio, come la psicologia o la pedagogia,
178 Ci riferiamo nuovamente alla conferenza Games @ Iulm, che ha visto tra i suoi interlocutori Francesco Casetti e Gianni Canova. 179 Per il vasto dibattito sulla cultura di massa si rimanda alle prefazioni delle numerose ri-edizioni di Eco (1964) e a Carboni-Montani (2005)
233
arrivate per prime all’osso perché attratte dall’odore di nuove streghe da
mettere al rogo, hanno fallito nel trovare un qualunque approccio sensato al
gioco elettronico, oscillando tra la demonologia del diseducativo dei primi
tempi e l’inutile predica sull’applicazione pedagogica del divertimento poi.
Ambiti disciplinari come la sociologia hanno contribuito allo studio
elettronico in maniera non maggiore del giornalismo più o meno
specializzato.
A un’intera generazione di critici e teorici cresciuta senza conoscerlo
di prima mano, quella a cui ci appellavamo sopra, il gioco digitale è, molto
più semplicemente, sfuggito, confuso e nascosto dai fumi della
“multimedialità”. Studiosi di semiotica, di cinema e dell’audiovisivo non
hanno mai ostacolato i giochi elettronici, ma li hanno troppo a lungo
liquidati senza effettivamente provarli, giudicando en passant la loro
manifestazione terminale secondo una declinazione generalmente di stampo
cinematografico180.
In una fase in cui i videogiochi sono passati fulmineamente da
oggetti misconosciuti a oggetto di studio in voga, mentre nascono fazioni
“ludologiche” che vogliono contrapporsi alla interpretazioni di natura
semiotica e fondare discipline ad hoc per i giochi senza portare
argomentazioni teoriche solide quanto l’entusiasmo della propria
affermazione, la necessità di una continuità del sapere appare cruciale.
Il problema di una generazione di teorici impreparati rispetto alla
continuità dei “nuovi” mezzi rispetto ai problemi teorici esistenti e il
problema di trovare per il gioco digitale una dimensione teorica che esuli
dal tentativo ingenuo di costruire nuove discipline appaiono dunque due
facce della stessa medaglia.
Ne consegue che una certa tradizione faccia i conti con un
controller, mentre chi ha interesse nel momento culturale del videogioco
sostituisca alla foga teorica o all’ansia categorizzante contributi capaci di
collocare il mezzo espressivo videoludico nel più ampio panorama teorico, 180 Sulla capacità del videogioco di articolare un doppio livello di fruizione, partecipativa del giocatore e spettatoriale dell’osservatore, cfr. la definizione e articolazione del Giocatore Modello in Maietti (2004), sulla scorta del Lettore Modello di Eco (1979)
234
evitando fondazioni teoriche ardite, categorizzazioni gratuite, confinamenti
dell’oggetto di analisi in comparti stagni epistemicamente fragili.
Su un numero recente di Segno-Cinema Roy Menarini ritorna
sull’impossibilità di eliminare l’autore sostenendo che, anche con tutte le
cautele teoriche del caso, esso rimane una necessità per la critica
cinematografica, in quanto ultima strategia residua opponibile a un sistema
di produzione mercificante181. Sarebbe bello se anche per il videogioco si
arrivasse a inquadrare la questione con questi termini, e se il videogioco
potesse diventare realmente un Occhio del Duemila.
181 Cfr. Menarini, “Fuori l’autore, dentro l’autore”, in Segno Cinema, n. 142
235
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