la flepa dal pret e dal vilan

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Silvio Cevolani e Paola Corni

LA FLÉPA DAL PRÉT E DAL VILÁN

atto unico

della tradizione spilambertese

pressochè dimenticato

e per questo ora pubblicato

sulla base di una attenta ricostruzione del testo

arricchendolo di note e commenti

nonché integrandolo

con una traduzione in lingua

ISTITUTO ENCICLOPEDICO SETTECANI

Spilamberto, MMIX

Il presente volume è stato realizzato grazie all’impegno di

Giulio De Maria

e alla collaborazione di Angela Bergonzini.

L’immagine di copertina è di Fabiano Amadessi,

quella sul foglio di guardia di Emilio Giusti.

© Copyright 2009 by Istituto Enciclopedico Settecani,

Spilamberto (Mo), Italy.

INDICE

Introduzione pagina 1

La trama pagina 1

Epoca di composizione pagina 2

Le due versioni originali e quella ricostruita pagina 4

La parola flépa pagina 7

Al Vagg pagina 8

La Flépa bolognese pagina 11

La trama de La Flépa bolognese pagina 13

Affinità fra le due trame pagina 14

Conclusioni

pagina 16

Norme di trascrizione del dialetto

pagina 17

La Flépa dal Prét e dal Vilàn

pagina 19

Appendice I: Testo della prima versione pagina 24

Appendice II: Testo della seconda versione pagina 26

1

Introduzione

La Flépa dal Prét e dal Vilàn è un atto unico di autore ignoto

ma di sicura origine spilambertese, ancora rappresentato o

quanto meno recitato nel secondo dopoguerra (anni quaranta e

cinquanta del Ventesimo Secolo1) ma in seguito pressoché di-

menticato.

Nel 1976 Paola Corni raccolse due versioni di questa operetta

dalla viva voce di chi ancora la ricordava e le trascrisse, un atto

lungimirante che permette agli Spilambertesi di oggi di risco-

prire questo piccolo gioiello della cultura popolare.

Alla lettura del testo è doveroso e in parte opportuno premette-

re qualche riflessione ed incominciamo con un breve riassunto

della trama.

La trama

La vicenda narrata nella Flépa dal Prét e dal Vilàn ha origine

dalla morte pressoché contemporanea di un prete e di un conta-

dino, due personaggi che in vita si sono fronteggiati sul piano

politico-sociale. Giunti alle porte del Paradiso, davanti a Gesù,

chiamato da San Pietro, ciascuno dei due espone le ragioni per

le quali si sente in diritto di entrare in Paradiso ma soprattutto

insiste sui motivi per i quali l’altro dovrebbe invece esserne e-

scluso. La discussione si scalda sempre più fino all’intervento

del Salvatore, che avoca a sé il giudizio. Che sarà di assoluzio-

ne per il Contadino e di condanna (a trent’anni di Purgatorio)

per il Prete. La vicenda si conclude con il discorso di trionfo

del Contadino e l’amara recriminazione del Prete.

1 Si veda la nota di Paola Corni in Appendice I.

2

Epoca di composizione

Da quanto appena visto, appare chiaramente come la Flépa dal

Prét e dal Vilàn sia di matrice sostanzialmente socialista: il

prete accusa infatti il contadino di aver voluto sovvertire

l’ordine sociale, questi rinfaccia al sacerdote l’essersi schierato

con i padroni ai danni dei lavoratori.

L’ordine a cui il prete si riferisce non è proprio quello medie-

vale, nel quale il sacerdote prega, il contadino lavora ed il sol-

dato difende entrambi, ma è comunque un ordine rigido, nel

quale ognuno occupa un posto ben definito e deve rispettarne i

doveri.

Allegoria dell’ordine sociale feudale

in un disegno d’epoca

Un ordine messo in dubbio dalla Rivoluzione Francese ed in

seguito dalle idee socialiste. E non per caso nella seconda ver-

sione di cui disponiamo si parla esplicitamente di socialismo,

nonché di guerra fra partiti. Quest’ultima espressione richiama

3

immediatamente il secondo dopoguerra, un momento caratte-

rizzato da un fortissimo scontro sociale.

Don Camillo e Peppone, disegno di Fabio Amadessi.

Ma se la stesura di quella seconda versione va probabilmente

collocata attorno alla metà del Ventesimo Secolo, non altrettan-

to può dirsi del canovaccio originale: si tenga infatti presente

che tensioni analoghe ebbero a verificarsi a partire dalla fine

dell’Ottocento fino all’avvento del Fascismo.

In conclusione, sembra lecito collocare la composizione

dell’opera fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.

4

Le due versioni originali e quella ricostruita

La prima delle due versioni della Flépa dal Prét e dal Vilàn

delle quali disponiamo è dovuta alla signorina Annetta Setti e

la pagina di quaderno sulla quale Paola Corni la trascrisse dalla

viva voce di questa reždora spilambertese è mostrata nella fi-

gura posta alla pagina che segue. Una successiva trascrizione a

macchina è poi riportata in Appendice I. Va detto che nello

stesso periodo Paola Corni raccolse da altra fonte una seconda

versione della Flépa dal Prét e dal Vilàn pressoché identica a

quella qui presentata.

Come si può vedere, il testo è in dialetto spilambertese, con

qualche brano in lingua nel parlare di Cristo e del Prete.

Si noti comunque la differenza fra i due: Cristo parla in ottimo

italiano, con un solo verso in dialetto, e ricorda immediatamen-

te i vecchi medici di campagna, quelli che, pur padroneggiando

benissimo l’italiano, tendevano ad impiegare frasi ed espres-

sioni dialettali per mettere a proprio agio i pazienti. L’italiano

del Prete, come risulta ancor più dalla seconda versione, è più

macchinoso, non privo di scorrettezze, e dà subito l’idea di

quei piccoli burocrati di un tempo, che pensavano in dialetto

ma si sforzavano di parlare in lingua, con risultati spesso ridi-

coli.

Come si è visto, nella Flépa dal Prét e dal Vilàn il Cristo rap-

presenta il giudice giusto mentre il Prete gioca il ruolo del “cat-

tivo” ed è dunque possibile che questi effetti linguistici siano

stati introdotti ad arte dall’Autore. Non si può comunque e-

scludere che essi derivino da scarsa conoscenza della lingua o

dal contributo di differenti autori di diversa competenza lingui-

stica.

Si noti inoltre l’estrema brevità del testo, dovuta probabilmente

al fatto che quelli erano gli unici brani ricordati dall’Annetta.

5

La trascrizione del racconto della Signorina Annetta Setti

fatta da Paola Corni

6

La seconda versione della quale disponiamo, narrata a Paola

Corni dal signor Ciro Roli e qui riportata in Appendice II, è in-

fatti decisamente più articolata, presentando alcuni episodi che

non figurano nella prima. Come accennato, in essa compaiono

ad esempio quei riferimenti espliciti alla politica che mancano

nella versione dell’Annetta. Ciro Roli fu infatti uno dei prota-

gonisti della Sinistra spilambertese dell’epoca.

Notevolmente diversa è poi la lingua, con un impiego molto

maggiore dell’italiano, utilizzato anche in versi che nell’altra

versione sono in dialetto. Il Novecento è stato secolo di grandi

cambiamenti nell’uso del dialetto ed è sintomatico il fatto che in

entrambe le versioni si sia più o meno parzialmente sostituita la

parola villano con un più moderno contadino. Anche per me il

significato di villano è stato per lungo tempo maleducato, sgar-

bato, buzzurro e solo grazie alla scuola ho scoperto che in realtà

significa (o in origine significava) abitante di una villa, ovvero

proveniente dalla campagna, campagnolo, dunque contadino.

Per la ricostruzione del testo si sono fuse assieme le due ver-

sioni. In linea di principio si è seguita la seconda, la più artico-

lata, aggiungendovi alcuni brani che compaiono solo nella pri-

ma. Quando poi si son trovati periodi in italiano che nella pri-

ma versione sono in dialetto, si è scelta la versione dialettale.

Ci si è poi presi la libertà di trasporre in dialetto alcuni versi

che compaiono in italiano solo nella seconda versione, una

scelta legata al fatto che essi danno l’impressione di una imba-

razzata traduzione dal dialetto. Si consideri ad esempio la pri-

ma coppia di versi pronunciati da San Pietro:

Sentite signori, io non so che cosa avete fatto,

se siete galantuomini o se siete pazzi…

La rima come si vede manca, ma in dialetto fatto e matti rima-

no e dunque si è preferito ricostruire i versi nella forma:

Mè an so, i mé sgnor, s’avidi fat,

s’a si galantamm o s’a si mat..

7

La parola flépa

La cosa che lascia più perplessi in questa operetta è quella pa-

rola flépa che compare nel titolo, un sostantivo dal significato

non chiarissimo e comunque privo di legami apparenti con la

vicenda.

Nell’Ottocento, si veda ad esempio il Galvani2, questa parola

indicava una pronuba, ovvero la donna che accompagna la

sposa all’altare; una figura o un ruolo immagino ormai scom-

parsi, dei quali non ho mai sentito parlare.

Sempre in passato flépa valeva anche paraninfa, cioè sensale,

procacciatrice di matrimoni, ed anche in questo senso la parola

non mi suona famigliare. L’unico significato simile nel quale

mi sono imbattuto è testimone di nozze, probabile evoluzione

dei significati precedenti. In ogni caso non si riesce però ad i-

dentificare alcun legame fra una simile figura e la vicenda nar-

rata nella Flépa spilambrtese.

Si può osservare che la parola flépa è anche una delle numero-

se espressioni “volgari” per indicare quelle che un tempo veni-

vano dette vergogne femminili. Ed è questo il significato della

parola oggi più diffuso, come testimoniato dal Bellei, il più

moderno fra i vocabolaristi dialettali modenesi3, che assegna a

flépa quale primo significato organo sessuale femminile.

Finalmente trovo la parola flépp impiegata nel significato di

soldi, denaro ne La ciaqlira dla banzola, una raccolta di favole

in dialetto bolognese risalente al Settecento4.

2 Giovanni Galvani, Saggio di un glossario modenese, Tipografia

dell’Immacolata Concezione Editrice, Modena (1868) 3 Sandro Bellei, A m'arcòrd. Dizionario enciclopedico del dialetto modene-

se, Edizioni CDL, Finale Emilia (1999). 4 Il volume in mio possesso (La Ciaqlira dla banzola, Editoriale Insubria,

Milano, 1979) è la ristampa anastatica di un’edizione del 1883 ma possiedo

anche (in formato elettronico) un’edizione del 1813 ed un’altra del 1777.

Questo libro è la traduzione in bolognese del Lo cunto de li cunti, una rac-

colta di cinquanta favole scritta in dialetto napoletano da Giambattista Basi-

8

Ma anche a partire da questi significati non si riesce a cogliere

alcun legame con l’operetta spilambertese.

Paola Corni testimonia però che Annetta Setti assegnava alla

parola flépa il significato di decisione saggia e da questo indi-

zio è possibile giungere ad una spiegazione molto interessante

che affonda le proprie radici nell’antichissima usanza del vagg.

Al Vagg

Quando non esistevano ancora televisione, radio, cinema, per

non parlare dell’illuminazione elettrica, la gente non andava

necessariamente a letto colle galline: in città si recava a teatro,

nei paesi all’osteria e nelle campagne al vagg.

Questa parola deriva dal latino vigilia, con la quale condivide il

significato di veglia, ed esprimeva il ritrovarsi a sera della fa-

miglia contadina nella stalla, unico ambiente di tutto il fabbri-

cato colonico riscaldato (dal calore animale delle bestie). Qui le

donne filavano, gli uomini facevano manutenzione agli attrezzi

o giocavano a carte e nel frattempo si chiacchierava. Dei fatti

del giorno, immagino, poi dell’organizzazione dei lavori per il

giorno dopo, poi delle novità dal mondo esterno e dei pettego-

lezzi.

Oppure un anziano raccontava storie, magari favole per i bam-

bini, ma anche narrazioni di vicende passate. E per alcuni di

questi narratori particolarmente abili il dialetto ha anche conia-

to un vocabolo specifico, cuntador, colui che racconta. Una fi-

gura che spesso arrivava ad avere una piccola fama, a seguito

della quale veniva invitato ai vagg di altre case.

A questa categoria appartenevano di frequente gli ambulanti,

artigiani o venditori, che si sdebitavano dell’ospitalità (anche)

raccontando qualcosa di diverso, di nuovo, di lontano.

le (1566-1632). Una cosa piuttosto curiosa, per quanto mi risulta non esi-

stono altre traduzioni dal napoletano al bolognese.

9

Negli ultimi tempi poi, con l’introduzione dell’obbligo scola-

stico, succedeva che qualcuno (qual c’l’ha studié) leggesse un

libro, magari il Guerin Meschino, un pezzo per sera, a puntate,

proprio come una telenovelas.

Donne al vagg

Immagine tratta da un’edizione del 1813 de

La Chiaqlira dla banzola

Se poi in quella casa c’erano un paio di ragazzotte da marito,

non era improbabile che al vagg partecipasse qualche preten-

dente e, siccome da cosa nasce cosa, magari venivano anche

ragazze dai poderi vicini, e con loro altri giovanotti, e magari

10

qualcuno portava una fisarmonica o un fisarmonicista, ed allora

si poteva anche ballare.

Ballo contadinesco

Incisione di Abrecht Dürer (1471-1528)

A questo proposito mi si permetta di aprire una parentesi: in al-

cuni dialetti emiliani il vagg viene chiamato filózz5, vocabolo

diffuso anche in Veneto nella forma filò6, ed entrambe queste

5 Ad esempio a Parma, come appare dal Dizionario Parmigiano-Italiano di

Ilario Peschieri (Parma, 1828); e a Reggio Emilia, come risulta dal Vocabo-

lario Reggiano-Italiano di Giovan Battista Ferrari (Reggio Emilia, 1832). 6 Si veda ad esempio: Giuseppe Boerio, Dizionario del dialetto veneziano,

Tipografia Andrea Santini e Figlio, Venezia (1829).

Si noti che il vocabolo filò era diffuso fino a Ferrara, come testimoniato dal

Vocabolario Portatile Ferrarese-Italiano di Francesco Nannini (Ferrara,

11

parole vengono fatte derivare dal filare, attività come abbiamo

visto la più diffusa nei vagg. Ed è probabilmente dai balli rusti-

ci che si svolgevano nei filózz che deriva l’attuale espressione

ballo alla filuzzi, impiegata per indicare balli appunto

all’antica, tradizionali.7

Chiusa la parentesi e riprendendo il filo del discorso, nei vagg

si svolgevano anche piccole rappresentazioni teatrali, in realtà,

per quello che ne so, una sola: La Flépa.

La Flépa bolognese

Si tratta di una rappresentazione molto antica eseguita da com-

pagnie estemporanee di dilettanti (i cosiddetti Flipant) nei di-

versi vagg prevalentemente durante il Carnevale8. Immagino

che la ricompensa fosse costituita da qualche pezzo di crescen-

ta e qualche bicchier di vino, se non dalla sola possibilità di

avvicinare le ragazze.

La prima versione scritta de La Flépa è dovuta a Giulio Cesare

Croce (1550-1609), l’autore del Bertoldo9, che la presenta in

un libretto pubblicato nel 1608. Si noti che non è certo che La

Flépa sia opera originale del Croce, è anzi probabile che egli si

sia rifatto ad un canovaccio già diffuso ai suoi tempi. Va infatti

tenuto presente che il Croce proveniva da una famiglia mode-

sta: il padre era fabbro ed egli stesso lavorò come fabbro, af-

1805) mentre a Mantova filò e filózz erano impiegati contemporaneamente,

come risulta dal Vocabolario Mantovano-Italiano di Francesco Cherubini

(Milano, 1827). 7 A parere di altri l’espressione trarrebbe origine da un musicista di nome

Filuzzi. 8 Si veda la nota di Paola Corni in Appendice I, dove si menziona esplici-

tamente il Carnevale. 9 Prendo questa informazione da: Giovanni Santunione, La Flépa, TEIC E-

ditrice, Modena (1982). Da questo lavoro è stata tratta gran parte delle noti-

zie sulla Flépa qui riportate.

12

fiancando a questa attività quella di cantastorie, proprio di

quelli che giravano per fiere e mercati.

Un cantastorie al lavoro

E le storie che cantava erano spesso basate su tematiche già

diffuse a livello popolare, anche il Bertoldo è in larga misura

fondato su vicende e motivi tradizionali10.

Opera originale o meno del Croce, La Flépa è diffusa in una

zona geografica piuttosto limitata, una striscia di territorio bo-

lognese11 al confine con la Provincia di Modena, striscia che va

da San Giovanni in Persiceto (non a caso luogo di nascita del

Croce) fino a Bazzano, passando per Castelfranco e Piumaz-

zo12. Ed è (era) diffusa sotto forma di canovaccio, ovvero una

10 Si veda ad esempio il Dialogus Salomonis et Marcolfi di tradizione me-

dievale. 11 Si veda la nota di Paola Corni in Appendice I dove si parla esplicitamente

di gruppi bolognesi. 12 Ricordo che Castelfranco è storicamente bolognese e venne trasferito alla

Provincia di Modena nel 1929. Anche Piumazzo è bolognese e fu Comune

autonomo fino al 1861, quando venne unito a Castelfranco, seguendone poi

le vicende (Wikipedia).

13

trama ed un nucleo di versi sui quali le singole compagnie ap-

portavano modifiche, aggiunte, abbellimenti.

Si noti che in questo caso la parola Flépa, non ha nessuno dei

significati visti in precedenza ma, come esplicitamente affer-

mato dal Croce, rappresenta un nome proprio, Filippa, e preci-

samente il nome del personaggio femminile attorno al quale

ruota tutta l’azione. Una cosa molto ragionevole, anche se non

mi sentirei di escludere che già ai tempi del Croce si giocasse

sull’ambiguità del significato di questa parola.

La trama de La Flépa bolognese

La vicenda è anche in questo caso molto semplice: si incontrano

due giovani contadini, Gaspar (Gaspare) e Mingoun (Domenico)

entrambi innamorati della stessa giovinotta, appunto la Flépa.

Ciascuno dei due è sicuro della preferenza della ragazza nei pro-

pri riguardi ed invita il rivale a farsi da parte. Si accende una vi-

vace discussione, nel corso della quale i due espongono i propri

meriti, discussione che si scalda sempre più fin quando si arriva

al limite dello scontro fisico, addirittura balenano i coltelli. A

questo punto compare in scena un terzo personaggio, una perso-

na dotata di indiscussa saggezza ed autorità, che calma gli esagi-

tati e dispone che sia la Flèpa a decidere una volta per tutte. La

cosa viene accettata, la Filippa deciderà a favore di Mingoun

(perché ha il naso più lungo13) e la rappresentazione si chiude

con il discorso di trionfo del vincitore e l’amara recriminazione

dello sconfitto.

Una vicenda come si vede davvero semplice sulla quale, ancora

in modo molto semplice, si innestano le variazioni: la presenza

di un capocomico-narratore, quella dei genitori della Flépa, op-

pure di una vecchia zia della ragazza o di un’amica di famiglia.

13 Dal testo traspare che la Flépa non è precisamente un’ingenua verginella

e sembra pertanto lecito pensare che ciò che Mingoun ha di lungo non sia

propriamente il naso.

14

Affinità fra le due trame

A questo punto si ritorni con la mente alla trama della Flépa

spilambertese e si individuerà immediatamente una stretta affi-

nità formale con quella bolognese: in entrambi i casi la vicenda

è fondata sullo scontro fra due rivali ed è risolta dall’intervento

di un personaggio al quale viene attribuita una indiscussa sag-

gezza ed autorità.

L’idea che sorge è che, attraversando il Panaro, la parola flépa

abbia perso la natura di nome proprio per assumere quella di

sostantivo comune indicante un particolare tipo di rappresenta-

zione teatrale, quello appunto dello scontro fra due rivali.

Cambio di significato forse facilitato dal fatto che, come ab-

biamo visto prima, il sostantivo comune flépa possiede già di-

versi significati.

Un simile cambiamento può sembrare strano, ma ritorni ancora

il Lettore alla trama della Flépa spilambertese: in quale genere

teatrale riterrebbe egli più corretto collocarla? L’argomento è

troppo serio per classificarla come farsa, la forma senza dubbio

più diffusa e conosciuta di teatro dialettale. Farsa potrebbe es-

ser definita la Flèpa bolognese, non certo la nostrana. E per lo

stesso motivo non è corretto chiamarla commedia, senza conta-

re che l’operetta è molto breve ed in rima. E non si tratta nem-

meno di un dramma o di una tragedia, vocaboli per giunta pro-

babilmente ignoti a dialettofoni semianalfabeti.

Si noti che non si sta qui sostenendo che flépa nel dialetto spi-

lambertese abbia anche significato rappresentazione teatrale,

ma solo supponendo che l’anonimo autore abbia scelto quel ti-

tolo a partire da affinità strutturali fra il proprio e l’altro lavoro,

magari anche perché influenzato dal significato non chiarissi-

mo della parola flépa.

Un’idea supportata dal fatto che il passaggio del Panaro da par-

te della Flépa bolognese si è effettivamente verificato, come

testimoniato da Giovanni Santunione che, nel lavoro citato, a

15

questo proposito fa esplicitamente i nomi di San Cesario e, ap-

punto, Spilamberto.

Di questo sconfinamento troviamo testimonianza indiretta nelle

informazioni aggiunte da Annetta Setti alla versione della Flé-

pa spilambertese di Appendice I, nelle quali si fa esplicito rife-

rimento a gruppi bolognesi. Poiché il testo della nostra Flépa è

sicuramente in dialetto spilambertese (o comunque in un dialet-

to che è decisamente più modenese che bolognese) si ritiene

improbabile che l’operetta sia di origine bolognese, anche per-

ché non ne sono state trovate tracce all’infuori di Spilamberto.

Probabilmente il riferimento della signorina Setti a quei gruppi

bolognesi è frutto di confusione fra la Flépa nostrana e quella

bolognese, giunta come si è visto anche oltre Panaro.

Un cantastorie

16

Conclusioni

Con l’interpretazione del termine Flépa concludiamo questa fin

troppo lunga introduzione, legata in parte alla soddisfazione di

curiosità sorte nei Curatori, in parte alla necessità di rimpolpare

un testo che di per sé non avrebbe richiesto più di un foglietto

volante, proprio come quelli che i cantastorie distribuivano nei

mercati in cambio di un soldino.

Un’ultima cosa: al testo è stata affiancata una traduzione in ita-

liano, che vogliamo pensare sia dovuta non tanto al fatto che il

dialetto sta scomparendo, quanto alla ben nota difficoltà di leg-

gere e scrivere questa lingua. A questo proposito si ritiene utile

riportare qui di fronte una tabella con le semplicissime norme

di trascrizione adottate, veramente pochissime, quello che giu-

dichiamo essere il minimo indispensabile.

17

Norme di trascrizione del dialetto

esempi in italiano esempi in dialetto

é méla, ménta, pélo quérta, avérta, zérta

è apèrto, cèrto, cèlla pèla, bèla, surèla

ó pólli, aquilóne, azióne mói, arvój, sói

ò mòla, diplòma, vòglia incòsa, pcòun, òli

s serpente, sapore, simbolo spanezz, scales, surnacer

š roša, ašilo, marcheše roša, meš, marcheš

z pozzo, alzo, lenza zuler, zirudela, zacla

ž žanžara, žaino, žona žuvnot, žavaj, žnocc

s’c forma inesistente in italiano s’ciapèin, s’ciavo, s’cifler

18

19

La Flépa dal Prét e dal Vilàn

In un paeš chè poch luntan

l’è mort un prét con un vilan:

al vilan a Màsa an g’andeva

e al prét an le vleva.14

Però a gh’è capitè

che tott du in d’na volta i ein carpè

e i ein partì tott du preciš

par ander in Paradiš.15

Al vilan, apèina arivé là,

‘na gran buséda al dà:

al diš coun San Péder al guardian:

«Gnim a vrir, ch’a soun un vilan».16

14 In un paese poco lontano da qui / è morto un prete con un villano / il vil-

lano non andava a Messa / e il prete non ce lo voleva.

La seconda coppia di versi compare solo nella seconda fra le versioni di-

sponibili e l’ultima parola è vliva (voleva). Non c’è dubbio che oggi si dica

così, ma chi scrive è ben sicuro di aver sentito dagli anziani la forma vleva,

qui preferita all’altra per ragioni di rima.

Si ricorda inoltre che il significato originale della parola villano è abitante

di villa, ovvero abitante della campagna, così come il paesano è l’abitante

di un paese. 15 Però è loro capitato / che tutti e due in una volta sono crepati / e son

partiti tutti e due contemporaneamente / per andare in Paradiso. 16 Il villano, appena arrivato là / dà una gran bussata [al portone] / dice a

San Pietro il guardiano / venitemi ad aprire, che sono un villano.

Qui viene richiamata la figura tradizionale del villano di modi rustici, figura

che attraverso il Bertoldo del Croce risale fino al Marcolfo del Dialogus Sa-

lomoni et Marcolfi di tradizione medievale. Ed è proprio attraverso questa

figura che, immagino, la parola villano ha finito per assumere il significato

attuale.

20

Al diš al Prét:

«Dio et mésa d’un ciù,

dégh bèin ch’agh samm in du!»17

San Péder l’avers al cancel

e l’armeš surpreš in dal pió bel!18

Dice San Pietro:

«Mè an so, i me sgnór, s’avidi fat,

s’a si galantamm o s’a si mat.

A gli ein dó facc ch’an ho mai vést,

speta ch’a vagh a ciamer Gesù Crést.»19

Si presenta Gesù:

«Buona sera i miei signori,

siete due lavoratori,

un par la religioun

e cl’èter par al padroun.»20

Al diš al Prét:

«Si, o Redentore,

son tuo ministro, o Redentore!

Ho fatto sacrifici con costanza

e poi quel che ho fatto di più

ho fatto penitenza per te, o mio Gesù!

Poi, domandalo a questo villano,

che è mio parrocchiano!»

17 Dice il prete / dio ti maledica barbagianni che non sei altro / digli bene

che siamo in due! 18 San Pietro aprì il cancello / e rimase sorpreso sul più bello! 19 Io non so, miei signori, cos’abbiate fatto / se siate galantuomini o se siete

matti. / Sono due facce che non ho mai visto. / Aspetta che vado a chiamare

Gesù Cristo. 20 … uno per la religione / e l’altro per il padrone.

21

Villano:

«Sèint, Gesò, mè a sòun un credèint,

qual ch’al diš al prét an è vera gnint.

Ló, la so peniteinza

l’era ed magner di galatt e di capoun

e tott al spal ed nueter cajoun!»21

Prete:

«Non dare retta, caro Signore,

questo villano è un impostore.

È un ignorante senza istruzione,

vorrebbe stare bene lui come il suo padrone.

È un socialista, vuol l’uguaglianza,

alla religione c’è contrario abbastanza!

Se io fossi nel Padreterno

lo manderei dritto all’inferno!»

Villano:

«Seint mo chè, Gesò, che bel mod ed parler!

Se par chèš l’avess da cmander,

in piaza viv am farev brušer,

cum i fenn a vò, Gesò:

parchè alvési un poch la vóš

i v’inciuldénn subét sovra ‘na cróš…»22

21 Senti Gesù io sono credente / [di] quel che dice il prete non è vero nien-

te./ Lui, la sua penitenza / era di mangiare galletti e capponi / e tutto alle

spalle di noialtri ingenui.

Anche la figura del prete o frate crapulone ha una lunga tradizione lettera-

ria. 22 Senti dunque, Gesù, che bel modo di parlare! / Se per caso dovesse co-

mandare / in piazza vivo mi farebbe bruciare / come fecero a voi, Gesù: /

poiché alzaste un po’ la voce / subito vi inchiodarono sopra a una croce.

Accusato di essere un rivoluzionario, il Villano cerca di stabilire una sorta

di complicità con Gesù attribuendo una valenza politico-sociale

all’esperienza del Redentore. Emerge qui l’altra proverbiale caratteristica

dei villani, ovvero l’astuzia.

22

Gesù:

«Senti villano, io sono Gesù,

quello che ho fatto non si cancella più:

io ho messo al mondo tutto quello che ci voleva

e anche i birboni, lo sappiamo.

Tu villano ti dovevi svegliare laggiù.

Per conto mio ci penserò quassù.»23

Villano:

«Oh perdio, Gesò, an v’savì menga frener!

A savì pórr che anch i puvratt i ein stóff ed tribulèr!

A savì che anch là in Tèra

coun tott sti partì l’è ‘na guera.

Al prét, ch’an è menga un cajoun,

al s’è méss a difander al padroun,

e i ignurant ch’in capessen un’aca

i lavoren dimandi e si magnen pulèinta e saraca.»24

Gesù:

«Zitti, silenzio, qua non si fa fracasso!

Per te, o prete, non è concesso il passo.

E per causa del tuo mal fare

trent’anni trenta di Purgatorio ti toccherà scontare!

23 La reazione di questo sanguigno Gesù al tentativo del Villano di attribuirgli

intenti rivoluzionari è netta, ma l’astuto rustico non si lascia spaventare e

cambierà subito artificio retorico, appellandosi alla misericordia. Al tempo

stesso l’ultimo verso mostra come la pietà sia già ben presente nel Salvatore. 24 Perdio, Gesù, non sapete proprio frenarvi! / Sapete pure che anche i po-

veretti sono stanchi di tribolare! / Sapete che anche là in Terra con tutti

questi partiti è una guerra. / Il prete, che non è uno stupido / si è messo a

difendere il padrone / e gli ignoranti che non capiscono un’acca / lavorano

molto e mangiano polenta e salacca.

Il mangiare polenta e salacca (aringa affumicata) era un proverbiale cibo per

poveri. Forse vale poi la pena di ricordare la notissima usanza per la quale i

commensali dovevano solamente insaporire la propria fetta di polenta

schiaffeggiando con essa la salacca sospesa con una corda al centro della

tavola.

23

E tu villano, che hai sofferto laggiù,

vieni a godere l’eterno quassù.25

Chè ans guerda né a puvratt né a poteint,

la lež l’è cumpagna par tota la žèint! » 26

Villano:

«Adio, al mé bèl curèt,

stavolta et te propria sbagliè,

coun totta la to prepotèinza.

Intant, te va a brušer a l’Inferen

e io, mè a vagh in Paradiš in eteren! »27

Prete:

«Vilan vilano,

che ti ho sempre preso per un barbagiano,

guèrda, vilan, se in Terra dovessi tornar,

ah, sè, perdio, te la farie pagar!»

Villano:

«An sé, che quand a ieren in Tèra

a pariva ed vós fer cagnera?

Usegh mò dla clemeinza,

te ch’ed vliv aplicher l’indulgèinza!»28

25 Il giudizio favorevole al Villano era scontato fin dall’inizio. Più curiosa

la situazione del Prete, per il quale qui si parla di Purgatorio, più avanti di

Inferno. Forse è un effetto della fantasia del Villano, forse siamo in presen-

za del sovrapporsi di due differenti versioni. 26 Qua non si guarda né a poveri né a potenti, / la legge è uguale per tutta

la gente. 27 Addio mio bel curato / stavolta ti sei proprio sbagliato / con tutta la tua

prepotenza. / Intanto, tu vai a bruciare nell’Inferno / e io, io vado in Para-

diso in eterno! 28 Ah sì, che quando eravamo sulla Terra / pareva che volessi far cagnara?

/ Usa adesso della clemenza / tu che volevi applicar l’indulgenza!

24

APPENDICE I

(segue)

25

26

APPENDICE II

(segue)

27

(segue)

28

Finito di stampare in proprio

in via Marconi

a Spilamberto