krisis: il valore di una sfida alle soglie della terza repubblica
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[Online Edition] N. 2-3/2012
http://www.sturzo.it/civitas/index.php?option=com_content&view=category&id=77&Itemid=117
Krisis:
il valore di una sfida alle soglie della Terza Repubblica
(di Laura Balestra)
Una critica elegia
L’Italia del 2012 è stata l’Italia della techne e della presunta ratio oeconomica risanatrice, che mal
ha svolto i propri conti con il pathos, il sentimento, le passioni, le aspirazioni, le speranze e le
illusioni dei nuovi martiri indistinti, straziati alle porte della Terza Repubblica. Il “pareggio di
bilancio” forzoso sforza e sferza tuttora corpi dall’anima infranta, in nome d’una auspicata
risoluzione però inefficace, che viziosamente sfiorisce e asseta, generando, infeconda, insolute
questioni all’orizzonte, per chi ha ancora vigore d’uno sguardo. La nazione, seppur ne esista un
cardine spirituale unitario sempre di là da venire, è affamata, sfinita demoralizzata.
«Ahi serva Italia[…]»1: quante cose da fare! In questo agendae rei tempus, nessuno spirito d’Italia
pare così ardito da ergersi a vessillo d’una nuova idea che sia rinascita e fede in un futuro
apparentemente non più in vista. Sapere in quale direzione incitare il galoppo, fare, spronare senza
avere sentiero dinanzi agli occhi che possa essere seguito, dove ogni rotta è nebbia. L’Italia, oggi,
incipiente destriero che turbina su se stesso, chiedendo senso e direzione alla corsa. Senso smarrito,
1 Dante, Pg. VI, 76
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volto contrito, cuore in tempesta, animo in folle mania dolorosa, gocce battenti che cancellano ogni
traccia di via.
Dove andare, cosa fare? Come spezzare le catene del sopravvivere comune? Ognuno avverte
potente il dolore d’un ostello di solitudine e la ragione non ha più ragionevoli pensieri da sottoporre
alla mente sconvolta. Tutto è vaghezza. Luci, voci, attese d’una oscurità che si rincorrono furiose in
quella foschia di vapori ferrigni che inonda, solerte, l’inquietudine di uomini e donne d’Italia.
Dove andare, cosa dover fare? Il da farsi e il darsi da fare lungimirante di un’Italia fiaccata dalla
crisi mondiale avrebbe avuto un solo nome, nel passato glorioso, da opporre all’angoscia: agenda,
termine del cui valore attivo solo gli antichi conoscevano il senso. Agire per non essere agiti.
Agenda: “cose da fare”, ciò che inesorabilmente, inevitabilmente, necessariamente deve essere
fatto, ma in quale modo e a che scopo? Celebrare una nova aetas, una novitas rinascente contrastiva
d’un buio periodo da rischiarare, laddove tutto appare critico.
“Crisi” è la parola-simbolo divenuta stendardo dello stato presente di eventi, che hanno attanagliato
nella morsa i nostri mondi, da un capo all’altro di quelle terre che si distinguono e s’affratellano per
innumerevoli ragioni, sebbene sovente irragionevolmente sottaciute. Eppure quest’emblema che,
pronunciato, sembra, assoluto, sciogliere in una ormai accettata realtà soccombente frustrazioni
purtroppo incombenti, ha una radice ben più robusta delle nostre fiacche paure. I Greci definivano
krisis una scelta, dettata da decisiva capacità di giudizio e discernimento. Krisin poieisthai2 era per
l’Ellade semplicemente l’atto di compiere una valutazione e non aveva nulla di per sé angosciante,
se non le conseguenze derivanti dal distinguere e decidere una via piuttosto che un’altra, una volta
postisi in direzione d’essa. Cos’ha condotto oggi al cambiar mente, considerando krisis, non come
istante del progresso, attimo della decisione, bensì efferato artiglio negativo?
Tutto dipende dalla prospettiva con cui si scruta il Reale e, forse, si necessiterebbe di un genio, un
ingenium, capace di vedere l’inconcesso.
«A crisis can be a real blessing to any person, to any nation[…]»3
2 Trad. it. «fare, operare una scelta; decidere» 3 A. Einstein, The world as I see it, trad. it. W. Mauro, Il mondo come lo vedo io, Newton Compton, Roma 2010,
passim. «Let’s not pretend that things will change if we keep doing the same things. A crisis can be a real blessing to
any person, to any nation. For all crises bring progress. Creativity is born from anguish, just like the day is born from
the dark night. It’s in crisis that inventiveness is born, as well as discoveries made and big strategies. He who
overcomes crisis, overcomes himself, without getting overcome. He who blames his failure to a crisis neglects his
own talent and is more interested in problems than in solutions. Incompetence is the true crisis. The greatest
inconvenience of people and nations is the laziness with which they attempt to find the solutions to their problems.
There’s no challenge without a crisis. Without challenges, life becomes a routine, a slow agony. There’s no merit
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The world as I see it è il titolo di un saggio, «un’antologia di scritti sull’uomo» di Albert Einstein.
Ecco, forse, l’uomo di genio che dal passato prossimo della cultura europea e mondiale sovviene a
riflettere un lume razionale e passionale sulla tenebra del tecnicismo apatico.
Non pretendiamo che le cose cambino, se continuiamo a fare sempre le stesse cose. Una crisi può essere la
migliore benedizione per ogni persona, per ogni nazione, per tutto, perché la crisi porta progresso. La
creatività nasce dall’angoscia, proprio come il giorno nasce dall’oscura notte. È dalla crisi che nasce
l’inventiva, così come le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere
superato. Chi attribuisce alla crisi i propri insuccessi e disagi, inibisce il proprio talento e ha più rispetto dei
problemi che delle soluzioni. La vera crisi è la crisi dell’incompetenza. La convenienza delle persone e dei
Paesi è di trovare soluzioni e vie d’uscita. Senza crisi non ci sono sfide e senza sfida la vita è una routine, una
lenta agonia. Senza crisi non ci sono meriti. È dalla crisi che affiora il meglio di ciascuno. Senza crisi ogni
vento è una tenera carezza. Parlare della crisi significa promuoverla. Non nominarla vuol dire esaltare il
conformismo. Invece dobbiamo lavorare duro. Fermiamo, una volta per tutte, l’unica crisi che ci minaccia,
cioè la tragedia di non voler lottare per superarla.4
Arduo è il tentativo d’attribuire un significato ai fenomeni in atto. Nell’indistinta, fosca realtà
odierna l’Italia ha vissuto e continua a vivere divelta, ghermita, afferrata fra due scelte
costantemente in atto, che sorgevano per gli antichi, al tempo del gladio e dell’arena, a ricordar
come l’inerzia fosse incapacità a sopravvivere volontariamente alla sfida. To act or to be acted
upon: questa la legge dell’anfiteatro, bivio critico fra l’agire e l’essere agiti da qualcuno o qualcosa
d’altro che non sia il proprium. Manca la lucida analisi del cambiamento epocale che il mondo sta
vivendo o a cui, meglio, pur tentando, non sta sopravvivendo, perché «il fare sempre le stesse cose»
– avrebbe detto Einstein – o forzare subitaneo il mutamento di rotta, altro non produce se non
dirottamento, una dantesca «nave sanza nocchiere in gran tempesta».5
La techne, per sua natura predisposta al metodo, all’espediente che è, a volte, tranello e inganno,
s’è, a mio parere, ingannata della maniera smaniosa e d’eccessiva potenza capace che, nei fatti, l’ha
sopraffatta, macchinando e decidendo cosa tecnicamente poteva e doveva, forse, essere fatto, ma
senza preparazione abile a percepirne le macchinose conseguenze. L’Italia in crisi ha affidato se
stessa al téchnema degli antichi chrestòi6, le persone valide, realmente capaci e dabbene cui
delegare incarichi di responsabilità. Può, tuttavia, questa essere la soluzione? La physis della polis e
dei politikoi quale logos opporrà, in futuro, alla techne? La classe politica italiana è chiamata ora ad
una metanoia senza precedenti, un ripensamento, una conversione, una rivoluzione morale e
without crisis. It’s in the crisis where we can show the very best in us. Without a crisis, any wind becomes a tender
touch. To speak about a crisis is to promote it. Not to speak about it is to exalt conformism. Let us work hard instead.
Let us stop, once and for all, the menacing crisis that represents the tragedy of not being willing to overcome it» 4 Ibid., passim. 5 Dante, Pg. VI, 77 6 S. Gastaldi, Introduzione alla storia del pensiero politico antico, Laterza, Bari 2008, pp. 39-40
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spirituale, che sia finalmente comprensione e comunione di intenti e di azioni, il cui fine ultimo si
rivolga a quell’araba fenice che è il Bene comune, primaria «ragion d’essere dell’autorità politica».7
Se il governo dei technikoi ha contrastato la crisi, valutando esclusivamente la res oeconomica,
successivamente un governo adveniens di politikoi competenti ed eticamente ispirati da una
renovatio senza precedenti dovrà agire premurandosi di tutelare le res humanae e la dignitas, più in
generale la res politica, affinché si stabilisca nel Paese un “Nuovo Rinascimento” e non un eterno
affastellante ritorno dell’identico, tutt’intento a mercanteggiar tra piazze e strade della finanza.
L’intellettuale Piero Gobetti, assorto e attento a de-finire il finis, che è scopo e limite, tra politica e
scienze (technai) strumentali ad essa ancillari, così s’espresse nel saggio La Rivoluzione Liberale:
Se la parola decisiva spetta, senza appello, al politico l’indagine economica non ci darà lo specifico
infallibile, ma appena dei punti di riferimento. Tutto il valore della tecnica si deve esaurire nel suo carattere
di strumento e di coefficiente. L’uomo di Stato starà attento al consiglio dell’economista, ma lo subordinerà
agli altri fattori storici.8 […] L’economista rimane fedele al suo limite scientifico, suggerisce criteri di buona
amministrazione, espone i risultati della sua esperienza isolata e ristretta secondo ipotesi e astrazioni quasi
matematiche, o secondo misure semplicemente descrittive. L’economista constata l’esistenza di un problema
finanziario, burocratico, monetario, offre l’anatomia dei processi di produzione della ricchezza in un
determinato momento storico: ma la sua osservazione resta sul terreno delle premesse e dei sintomi.9
La politica è un’«attività autonomamente direttiva»10, così ne avvertì la natura precipua Max
Weber, una vis activa, vòlta a dirigere e a influire sulla direzione dello Stato; le scienze ancillae rei
politicae recano un potenziale consultivo, mirabile, ma non direttivo: la nostra Italia, ora, ne è lo
specchio che riflette e impone una riflessione. Tuttavia, la voce della nazione sembra ancora tacere
e nessuno, di certo, si considera “benedetto” da krisis o dal tentativo d’economia risanata! Gli
italiani hanno mente e cuore per reagire? Esiste un reale potere della nazione, una forma mentis
politica protesa alla felicità e al Bene comune? Dall’armonia disfatta chi ricomporrà l’homonoia?
«Causa quae sit, videtis: nunc, quid agendum sit, considerate»11, tuonerebbe un antico amante della
respublica, quale fu Cicerone. Ma si può con certezza sostenere che tutti abbiano percepito la causa
che ha condotto alla crisi, a Gordio, all’attimo della decisione e che ora, tutti siano in grado di
considerare, ciascuno per se stesso e per la patria, quid agendum sit? Che cosa si deve fare, quando
la tecnica sottrae potere al potere e la politica snatura il proprio impegno civile, perché fluttuante
sull’onda di un disimpegno politico imperante? S’è finalmente desta l’Italia della crisi? Si pugna, si
7 Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, LEV, Città del
Vaticano 2005, n. 168 8 P. Gobetti, La Rivoluzione Liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, RCS, Milano 20113, p. 181 9 Ibid., passim 10 Cfr. M. Weber, La politica come professione, Mondadori, Milano 2009, passim 11 Cicerone, De imperio Cn. Pompei ad Quirites oratio, 6 (www.thelatinlibrary.com)
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vince per superare e affrontare la scelta? Chi cavalca quest’ora e raccoglie la sfida? Posta la meta
come limite valicabile, quali strumenti si dispongono atti allo scopo? Tra le Alpi e il mare non s’ode
ancora alcun squillo di tromba, eppure in catene il sostrato è fremente nell’incertezza dominante!
Un miraggio politico: la Nazione
Ogni storico indaga e perlustra i meandri di memorie trascorse al fin di gettar luce sul presente.
«Nell’ampio mare nel quale ci avventuriamo», scrisse un tempo Jacob Burckhardt, «le vie e le
direzioni possibili sono molte» e «[…] in una storia della civiltà, la difficoltà più grave sta appunto
nel dover rompere la continuità del processo storico, scomponendolo in parti che spesso sembrano
arbitrarie, per giungere a darne comunque un’immagine».12 Qual è l’eidos che l’Italia riflette negli
specula altrui e nel proprio? Come riverbero d’un Dioniso fanciullo, assetato distruttore d’ogni alto
effetto, il Paese deplora un riflesso consunto, umbratile sembianza dell’antica Signora dalla
munifica cultura, corte degli spiriti magni dell’ingegno. Se solo s’accorgessero gl’Italiani d’essere
culturalmente la nazione più avanzata del mondo, allora il riafferrar le memorie di Roma e i fasti
dell’antico precorrerebbero i tempi morti di una deminutio affliggente, incapace di scuotere la natio
a farsi guida e meta delle sorti sue e d’Europa! Uscisse dallo “stato di minorità” che ella, Italia,
deve, sola, imputar a se stessa, perché incapace di valersi ora del lume vero d’una ratio che è
traditio, memoria di quei popoli che, da un capo all’altro dell’humanitas, grande fecero la Storia
d’Italia: non volgo disperso, ma unita nazione! «Solo se saremo uniti saremo forti. Solo se saremo
forti saremo liberi», tuonava De Gasperi. Il grido dell’Italia unitaria, cui tesero gli sforzi di tutti o di
molti nel Risorgimento e, ancor prima nei secoli entusiasti della letteratura dantesca e petrarchesca,
e successivamente nelle voci accorate dei moderni “patres” d’Italia e d’Europa13, non può né deve
rimanere un talento raro di spiriti magni, un entusiasmo di maestri d’arme letteraria e genio politico,
bensì costituirsi afflato comune e spirituale, fede d’unità e speranza, che colmi il vuoto abisso e
baratro della perversa mania di chi vi s’abbandona, inerte, inerme, inane.
«[…] L’idea moderna di nazione […] è coscienza piena di se stessa, della propria ‘individualità’,
costituita dal passato e dal presente, dalle tradizioni storiche come dalla volontà attuale di essere
12 J. Burckhardt, Die Kultur der Renaissance in Italien, trad. it. D. Valbusa, La civiltà del Rinascimento in Italia,
Newton Compton, Roma 1994, p. 25 13 Cfr. L. Balestra, Cos’è l’Europa? Fabbisogno di una cultura per l’unità europea, in Civitas. Rivista quadrimestrale
di ricerca storica e cultura politica, anno VIII – Nuova Serie, n. 2-3/2011, p. 133: «È forse anacronistico e singolare
designare con l’antico titolo senatorio romano di “patres”, gli ispiratori ideali e fattivi dello spirito unitario europeo?
Schuman, De Gasperi, Adenauer, Monnet, Dante: il “Senato d’Europa”».
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nazione».14 Il Medioevo, le riflessioni di Dante, l’anelito del Romanticismo, l’esortazione di
Manzoni e del Risorgimento bramarono una Italia, «una gente, una d’arme, di lingua, d’altare, di
memorie, di sangue e di cor»15, eppure il desiderio ha per secoli indugiato nella contemplazione
meramente teoretica d’un ideale, senza dar atto ad alcuna espressione visibile, concreta d’esso.
Dov’è la nazione? Da più voci s’invoca responso. Dove mai la libertà sì cara alberga nel fato d’un
popolo che possa proclamarsi tale, unitario, identitario? Quale identitas, quale idea ha e dà di se
stessa l’Italia all’Europa, al mondo delle nazioni e degli Stati? La nozione formale, che è specie e
criterio del proprio carattere individuale, ha aspetto fugace e ingannevole in Italia, nazione solo di
nome, purtroppo non consegue da tempo il fatto, l’agito, l’edificazione spirituale, manto manifesto
sul Paese reale. L’Italia è vittima della medesima crisi d’identità e cultura cui soccombe incosciente
l’Europa, grandioso fragile organismo disarticolato, colosso di res oeconomicae senz’humanitas,
fiacca nel senso morale, lacera nelle categorie che la resero immortale patria di Pericle e del
grand’Alessandro, di Cesare e d’Augusto, del Rinascimento e del secolo di Louis XIV, dell’inno
accorato della Bastiglia e della volontà di nazione risorgimentale. Se Roma, nel suo vasto dominar
antico propugnava il divide et impera, quale dogma politico che efficiente rendeva l’amministrar
nationes diversae, senza cura però dell’anima spirituale e fraterna delle genti, il mondo dopo Roma
conobbe la fides e l’agape, la novitas del Cristianesimo affratellante, che edificò l’Europa moderna
su colonne invisibili e trascendenti, innegabilmente greco-romane, irrefutabilmente cristiane. Tali
fundamenta riconquistano per anamnesi il senso proprio d’Europa, che «è senso di solidarietà
morale e di connessione spirituale».16 L’Europa ha bisogno di definire se stessa con chiarezza, così
come le nazioni che s’armonizzano in essa e, solo afferrando il carattere individuale di sé e
dell’Altro, si potrà finalmente nomare l’identità europea posita e ascosa nella screziata varietas di
dissonanze armoniche, che sono pròblema e agòn e, al contempo, logos unitario.17
Politica e Visione
«Il soggetto dell’autorità politica è il popolo»18, ma laddove quest’ultimo perda di vista l’orizzonte
valoriale della propria dignità umana e autorità sovrana, quale soteria si porrebbe come salutare via
14 F. Chabod, L’idea di nazione, Laterza, Roma-Bari 199911, pp. 19-20 (nota 2) 15 A. Manzoni, Marzo 1821, vv. 29-32 16 F. Chabod, Storia dell’idea di Europa, Laterza, Roma-Bari 19952, p. 171 17 Cfr. M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994 18 Compendio della dottrina sociale…, cit., n. 395
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per risanar le coscienze? Quale facies politica si prospetterà in Italia dal 2013? In questo frangente,
al vero uomo politico s’impone il compito e il dovere di avere, pensare, agire secondo una visione
di natura politica. Ogni singolo aspetto della società va ora meditato, visionato, immaginato,
auspicato, prospettato con acribia meticolosa, perché si agisca poi, in via successiva, con criterio.
«Sempre la pratica dev’essere edificata sopra la bona teorica», sosteneva quel genio mirabile di
Leonardo e mai affermazione fu più vera e calzante nella politica che s’intende far nuova in questo
momento: politica pratica e teorica, praxis e theoria. Bisogna farsi visionari laddove il quadro
d’insieme sfumi indistinguibile i propri profili: corre l’obbligo morale di rinascere teorici di mai
create realtà possibili. Theorein in greco vuol dire vedere e il teorico è colui che, teoreticamente,
informa il proprio agire pratico sulla base del senso dato ai fenomeni, còlto per immagini, nella
propria mente. Ogni teoria, dalla letteratura alla scienza, passando per tutti i campi trasversali del
sapere che richiedano quale premessa ad una buona azione una altrettanto buona visione,
sovrastruttura idealmente le dinamiche propriamente attive. Considerare, riflettere, giudicare,
cogliere e comprendere il senso nascosto di ciò che è o dovrebbe essere, nel tentativo di imprimere
forma alla sostanza, azione al pensiero: cos’è e che funzione può avere, adesso, una teoria in
politica? Intuire o definire la veste concettuale d’una contemplazione, che è parimenti
partecipazione e meditazione dirimente la critica impasse italiana, equivale a sistematizzare un’idea
per cui «il caos della vita politica viene plasmato in base alla visione ordinatrice del Bene».19
Armonia, pace, buon governo, equilibrio, giustizia, per non citare qui i greci eunomia, homonoia,
isonomia o i latini pax, ordo, concordia, etc, i quali cos’altro connotano, dal passato al presente, se
non un’intima esigenza ordinatrice dell’intelletto pensante? È necessario, in questa fase di
supplenza amministrativa in Italia, che i politici si facciano filosofi, cacciatori amanti di Verità, che
ponderino e tengano la rotta tracciata sulle mappe del buon governo.
La visione del filosofo politico è improntata al kosmos: adaequatio rei ad intellectum. Adeguare la
cosa all’idea di essa, l’agire al pensare, secondo una disposizione regolata da armoniose leggi
teoriche, viste in nessun altro luogo che nella mente dell’avente visione.
Cosa vuol dire, dunque, avere visione politica? Vuol dire avere un’immagine della realtà, della
realtà politica nello specifico e, in base a tale eidos, progettare un sistema migliorativo di ciò che è,
tentando di approssimarlo a come esso dovrebbe essere, in via realizzativa. Visione è una via
prospettica dei fenomeni politici, ma non va confusa o semplicemente ridotta al puro atto percettivo
della vista, fondamentale infatti sarà il connubio associativo di percezione fisica e immaginazione
19 Cfr. S.S. Wolin, Politics and Vision. Continuity and Innovation in Western Political Thought, Little Brown, New
York 1960, tr. it. R. Giannetti (a cura di), Politica e visione. Continuità e innovazione nel pensiero politico
occidentale, il Mulino, Bologna 1996, p. 61
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intellettuale. Immaginare un modello e ad esso conformare una realtà, declinata nelle sue istanze
pratiche, colmare la distanza naturale che si interpone fra teoria e prassi, sanare il divario fra il
possibile immaginato e il reale da iconizzare è impresa ostica e faticosa. Il vero uomo politico
possiede, quasi connaturata al suo essere, un’ontologica dimensione progettuale e, sebbene egli non
sia un teorico, un filosofo, tuttavia, nihil obstat che possa essere chiamato a farsi tale, qualora una
necessità imperante lo richieda, al fine di restituire un volto condiviso e credibile alla classe cui
appartiene e alla gestione del Paese che gli pertiene.
L’“avere una visione” non vuol dire, certo, esseri visionari in senso negativo, immaginare è ben
diverso dal fantasticare, c’è una sorta d’amorosa corrispondenza fra Ideale e Reale e, in tal senso,
fondamentale, risulterà essere la «dimensione futuristica» della visione, che proietta l’ordine
politico in un tempo a venire.20 Tra i nostalgici del temps perdu e i pionieri del futuro, le teorie
riorganizzano la tradizione nell’innovazione e l’innovazione nella tradizione. «Proprio come la
storia non ripete mai se stessa, così l’esperienza politica di un’epoca non è mai assolutamente
identica a quella di un’altra» e sovente si incontrano «pensatori politici, collocati in due differenti
momenti storici, che usano gli stessi concetti attribuendo loro significati diversi […]. Il risultato è
che ciascuna teoria filosofica importante contiene in sé qualcosa di unico […] così come qualche
elemento tradizionale».21
Ogni tradizione è l’esito di una pratica memoriale incessantemente attiva nel recupero inventariale
del passato, teso a meta ultima di trasmissione innovativa nel presente e futuro. Nel 2007 il cardinal
Angelo Scola, nell’opera Una nuova laicità, in una bella immagine descrisse ‘il Nuovo’ come
inventario dell’antico e dall’antico, scoperta della tradizione nell’innovazione e dell’innovazione
nella tradizione: «l’etimo della parola inventario […] (si ricollega ad) invenio, un verbo latino che
indica la scoperta di qualcosa di prezioso. Il significato di tale scoperta ha in sé una duplice valenza.
Da una parte richiama un fattore di novità – su questo elemento fa leva l’uso della parola invenzione
per indicare qualcosa che non c’era prima. […] D’altra parte la scoperta propria dell’invenzione può
fare riferimento alla messa in luce di qualcosa di già presente, anche se in qualche modo in forma
non esplicita. In questo senso si può dire che l’inventario è un esercizio di memoria che
approfondisce la presa di coscienza della propria identità. Quell’identità che non potrà mai essere
individuata se con miope presunzione si prescinde dal passato».22
È lecito nella modernità resuscitare paradigmi o dogmi antichi? Nell’accezione originaria di dogma,
ciò che sembrava bene o opportuno agli antichi, potrebbe avere una valenza utile anche per i tempi
20 Ibid., p. 36 21 Ibid., p. 43 22 A. (card.) Scola, Una nuova laicità. Temi per una società plurale, Marsilio, Venezia 2007, pp. 169-170
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attuali? Nutrirsi di siffatta azione sarebbe anacronistico e traviante o, come consigliò Machiavelli,
vitale e incitante? L’antichità è una visione passata ma non passiva e la mole di esempi cui ispirarsi
parrebbe sterminata. Un corpus organico ed eterogeneo di modelli si dispiega dinanzi alla
modernità e, nella tipica prospettiva imitativa rinascimentale, il Machiavelli statista e letterato non
poté fare a meno di interrogare l’Antico per vedere se ancora, ai suoi tempi, questo rispondesse e
corrispondesse lezioni validamente declinabili e attive.
Il metodo è fondere la teoria nella prassi, unendo l’«esperienza delle cose moderne» e la «lezione
delle antique». Nella mente del sottile diplomatico fiorentino, la politica pratica non è
l’applicazione della teoria, bensì è quest’ultima a scaturire dalla prassi come speculum di essa e non
viceversa, altrimenti tutti gli Stati ideali progettati dalle immaginazioni degli uomini sarebbero stati
realizzati «in vero». Si vedano anche i progetti utopici di La città del Sole di Tommaso Campanella
e Utopia di Thomas More. L’immaginazione della cosa è discorde dalla «verità effettuale» di essa.
Machiavelli non è un “visionario”, la sua idea è in realtà una pratica e la sua politica è tutta
improntata a un concreto e fattivo realismo. Eppure un principio immaginifico, una visione ideale,
emerge tra le pagine private del politico-scrittore, quando libero dall’«ingaglioffarsi» quotidiano si
soffermava a meditar l’humanitas delle «antique corti degli antiqui huomini».23
Cos’è questo se non un vigile rapimento estatico? Un dialogo familiaris fra il nuovo e l’antico, in
cui la ragione in-tuisce, ficca lo sguardo nella visione dell’antica corte e ne attinge mirabilia. Non
c’è affanno o noia, la dimensione è sospesa nel tempo e nello spazio, non v’è luogo (ou-topos), non
v’è più tempo, eppure mai il Machiavelli politico cede il passo all’u-topia, mai vuole abbandonarsi
ad una immagine irriproducibile nell’esperienza e, nella corrispondenza di sensi fra sé e gli antichi,
egli esperisce la lezione dei classici e la traduce in un’opera, il cui carattere fondamentale è l’utilità
pratica: il Principe, essere bifronte, volpe e leone, mezzo uomo e mezzo animale, centauro,
paragone mitico non mitizzato, incatenato alle leggi logiche della prassi. La politica machiavellica è
scienza pratica che dirige il corso delle azioni.
La visione propria dell’arte del governo, tuttavia, permane pur sempre come un cardine
immaginativo-progettuale che, a partire dallo Stato ideale teorizzato da Platone, si protrae nel corso
dei secoli come iter di sintesi fra pensiero e azione e dimensione attiva e ordinatrice della politica
stessa. Visione è riflessione per immagini. «Dove si troverà dunque il sentiero della politica?
Occorre infatti trovarlo e, dopo averlo separato dagli altri, imprimergli il sigillo di una sola idea e
contrassegnare le altre diramazioni con un’unica altra forma»24, scrisse Platone. Un sentiero e una
23 N. Machiavelli, Lettera a Francesco Vettori (10 dicembre 1513), passim 24 Platone, Politico 258C
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visione, è sufficiente alla politike techne questo binomio di una via che diviene meth-odos ed eidos
tendente a meta ultima, per agire e reagire alla disfatta contemporanea?
Molte menti e molti uomini ebbero visioni dal passato al presente, immaginarono vie oniriche e
reali per ascendere e trascendere l’entelechia propria dell’umana essenza. Ci fu un uomo, una volta,
che prigioniero in un carcere ebbe una visione, «I have a dream»: il suo nome era Martin Luther
King. La sua non era una visione illusoria, aleatoria, utopica, svincolata dalla realtà, e come l’uomo
della caverna platonica, filosofo prigioniero che s’allontana e libera dalle catene della doxa
(opinione) per dirigersi verso una luce, verso un sogno che è poi realtà e verità, l’aletheia greca,
così King seguì uno stesso sentiero, un odos precorrente verso un’idea-visione: a dream. Se ben si
ricorda, il “philosophos” di Platone, che è già ontologicamente politikos, una volta uscito dalla
caverna e contemplato il Sommo Bene, ebbe quest’impulso poi a rientrare nel luogo oscuro da cui
provenne per illuminare gli altri compagni suoi, per un innato spirito di servizio, uno spirito politico
di servizio, di diakonia, un servizio al servizio del Bene comune, che è essentia e substantia di ogni
agire politico.
La filosofia politica e il filosofo politico, da non confondere con l’arte politica né con il politico,
possono avere un ruolo di chiarificazione e di valutazione di ciò che è, approssimandolo a ciò che
dovrebbe essere, all’Ideale, ma il compito del teorico non è quello di occuparsi della praxis, della
veste pratica dell’agire politico, bensì solo della theoria. La politica è una cosa estremamente seria,
è l’ambito della nostra vita umana in cui la responsabilità decisionale ha carattere vitale, vincolante
e i filosofi politici hanno un ruolo delicatissimo oggi, perché una visione “visionaria”, che accechi
la mente del teorico, può costantemente correre il rischio di indurre all’errore e l’errore teorico, se
riverberato sulla prassi, ha un impatto negativo. Basti citare su tutti Aristotele che teorizzò la
politica come arte esclusivamente maschile e “libera”, relegando donne e schiavi, i non liberi, a una
dimensione extra-politica. L’Ideale ha una funzione regolativa, la Visione ha una dinamica cosmica,
ordinatrice, ma il suo ambito è consultivo, la pratica è ben altra cosa, ma può trarre dalla visio
progetti, ispirazione: a dream, il sogno e la speranza della rinascita etica, culturale, spirituale,
sociale d’Italia e d’Europa.
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La ricerca della felicità
Tutti desiderano vivere felici in questo momento più che mai, ma «a vedere con chiarezza che cosa
renda la vita felice, hanno la vista annebbiata».25 L’intento tecnico-teorico, fattivamente utopico
eppur imposto reale, di porre un freno economico alla crisi che, apparsa primariamente come crisi
finanziaria, si è invece rivelata crollo e disfacimento d’una fragile facies nazionale e dunque
spirituale, coincide forse con ciò che comunemente viene definito ‘prosperità, felicità’ di un Paese?
Il benessere socio-economico è legittimato a farsi categoria spirituale o reggente suppletivo di
quell’universale dimensione valoriale che è il Bene comune? Il 18 marzo del 1968, Robert
Kennedy, in maniera accorta ed evidente, sostenne come non si potesse allora - né si possa oggi,
aggiungerei - possedere esatta percezione o misura dello spirito di una nazione sulla base degli
indici di borsa o del PIL, perché tali indicatori arrecano ad ogni Paese il torto d’arrogarsi una
visione d’insieme, presupposta metron d’ogni cosa, scientificamente forse infallibile in tutto ad
eccezione di «ciò che rende la vita veramente degna d’essere vissuta»26: salute delle famiglie,
qualità della loro educazione e gioia, bellezza della conoscenza e della saggezza di un popolo e del
suo coraggio. Nel salto temporale e spaziale dagli USA all’Italia, recentemente, si segnala il
46esimo Rapporto annuale del Censis sulla situazione sociale del nostro Paese, il quale ha
tratteggiato un quadro greve, un’icona decadente il cui centro emotivo connota un divario insanabile
fra «le strategie istituzionali di rigore dei conti pubblici […] e le affannose strategie di
sopravvivenza dei vari soggetti sociali». Lo stesso Giuseppe De Rita, presidente del Censis, in
un’esortazione, che è in parte ammonizione e in parte sollecitazione, ha chiarito come sia «ora di
25 Seneca, De vita beata, I, 1 26 R. Kennedy, Discorso del 18 marzo 1968 (Università del Kansas): «Non troveremo mai un fine per la nazione né una
nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell'ammassare senza fine beni
terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base
del Prodotto Interno Lordo. Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le
ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature
speciali per le nostre porte di casa e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che
valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e
testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli
equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si
ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro
educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei
valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della
giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro
coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese.
Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull'America, ma
non se possiamo essere orgogliosi di essere americani».
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trovare un modo di governare che si connetta ai processi reali, in una nuova sperimentazione di
unità di governo e di popolo».27
Chi attende, dunque, all’edificazione della felicità d’Italia: l’oeconomia o l’humanitas, la nazione o
la nozione tecnica?
La politica è «la scienza architettonica» che ha per scopo il Bene comune: in questi termini la
elogiò Aristotele.28 L’uomo, per natura essere politico, realizza la sua umanità e felicità nella polis,
tempio dell’architettura civile e del senso più intimo dell’essere uomini politikoi. Quae cum ita sint,
che cos’è la felicità? Uno stato emotivo continuo di benessere? Essa è ed ha un valore assoluto o
dipende forse dagli uomini e dalle condizioni del loro vivere associati? Esiste una
superdeterminazione statale-comunitaria della felicità, intesa come universale felicità pubblica o si
tratta piuttosto di una dimensione d’acquisizione tutta interiore e personale, se non addirittura
personalizzata ed individuale per ogni uomo? È lecito parlare e definire la felicità o sarebbe più
corretto indagare e considerare le felicità? Esiste una felicità assoluta o relativa? In tempi di sfida e
di scelta, di crisi è forse bene interrogar la memoria per rinvenire e scoprire che voce avesse dato
l’antica Grecia, sostrato non unico ma unitario d’Europa, al sommo bene per l’uomo.
Il filosofo Platone era un pensatore sui generis, a-topico o, meglio a-tipico, strano per certi versi,
che però condivideva con i pensatori suoi contemporanei l’idea che solo attraverso una buona forma
di governo l’uomo potesse raggiungere la propria felicità. A parafrasare una nota citazione di san
Cipriano, potremmo accorarci, poi, al filosofo Aristotele nel suo antico, vincolante intreccio di
felicità e Stato: extra “Polis” nulla felicitas! La felicità era, per Aristotele, lo scopo ultimo della
vita umana, un’attività agita conformemente alla virtù più alta dell’essere umano, l’intelletto «realtà
divina, […] che ha nozione delle cose belle e divine», un’azione risolventesi nell’attività
contemplativa, l’energheia theoretike29, un’energia vitale e valoriale per se stessa. Il filosofo di
Stagira ravvisava nella politica l’arte capace di creare le condizioni per la felicità dell’essere umano.
Una buona comunità politica entro cui la gestione del potere e i governanti che ad esso attendano
abbiano come fine il prendersi cura dei cittadini, trasfondendo in essi valori e ideali, ispirati a
giustizia e verità, creando la perfetta comunità e dunque le precondizioni per l’originarsi di una
dimensione attiva all’esercizio dell’attività contemplativa, summa della felicità umana, costituirebbe
la migliore comunità possibile, governata nel migliore dei modi possibili. In tal senso, la politica
rivestiva un ruolo fondamentale per Aristotele, il quale ben sapeva che vivere in una cattiva forma
di governo poteva causare povertà e conseguente continua ricerca, spesso vana, dei propri mezzi di
27 Cfr. http://www.ilsole24ore.com 28 Aristotele, Etica Nicomachea 1094 b, 4-6. Cfr. S. Gastaldi, Introduzione…, cit., pp. 144-145 29 Ibid., X, 7, 1177a 12-18
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sussistenza, non riuscendo a realizzare quella potenzialità unica e tipica dell’essere umano che è
fare attività di pensiero, teoresi, speculazione. L’espressione “ricerca della felicità” non è più oggi
aspirazione a un senso di benessere assoluto, all’eccezionalità, se vogliamo, che peraltro è diventata
norma, bensì aspirazione estrema verso la normalità, che s’è invece tramutata in paradosso e meta
ultima cui tendere, spesso invano. La felicità non esiste forse più? Se per Aristotele essa coincideva
con la vita teoretica, contemplativa, resa possibile da un lavorio statale incessante, vòlto a stabilire il
complesso sereno di norme e atti garanti supremi della normalità vitale e artefici di quell’insieme
funzionale di condizioni basali per la “felice” teoresi, oggi, l’assenza di ordine e regolarità nella
società e l’impreparazione dello Stato nell’assicurare ai cittadini la garanzia minima di un vivere
dignitoso ha, paradossalmente, concorso a minare la certezza umana sul presente, la progettualità
verso il futuro e, con esse, l’aspirazione stessa alla felicità. Si sta come d’autunno sugli alberi le
foglie, ma non tutti siamo soldati, come in Ungaretti, eppure lo stato presente di cose c’induce a
scendere in piazza o in campo a schierarci come precari combattenti in lotta con una quotidianità
non più posta quale certa sicurezza, ma terra di conquista, non data e sempre anelata. Le forze
dinamiche impresse all’agire di ognuno sospingono i più come foglie al vento tra uno sciopero e
una protesta, grida assordanti nello sciabordare silente d’una società-fiume che tutto inghiotte e
trascina, senza istante di riflessione, piuttosto fulminea azione di trasporto e deposito ad altri lidi,
desolati. Grida soffocate, estenuate in cerca di risposte sociali e politiche, garanti un tempo di quelle
condizioni ab imis per la felicità, su cui ergersi nella forma divina e più compiuta dell’uomo a
contemplare l’Assoluto e oggi, apparentemente forse, incapaci di offrire la benché minima garanzia,
non tanto per la felicità come la intendevano gli antichi, quanto per i presupposti stessi del vivere
associati, che, in regressione, sono diventati essi medesimi, adesso, il sommo bene cui attendere, in
senso assoluto.
Life, liberty and the pursuit of happiness: nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti
d’America vita, libertà e ricerca della felicità si ravvisano quali diritti inalienabili, principi
sostanziali dell’uomo, stabiliti per esso perentoriamente. Solo la felicità pare sfuggire al canone del
positum per connotarsi come non concessa, ma bramata, aspirazione in tensione. Non si ricerca la
vita, non si ricerca la libertà, si ricerca la felicità. Perché? L’inseguimento, la caccia a ciò che
definiamo con l’aggettivo “felice” sembra essere nata, connaturata all’essenza stessa dell’essere
umano. L’uomo non nasce felice ma insegue e ricerca, lungo tutto l’arco della propria esistenza, una
condizione felice, simile, nel suo procedere, a un cacciatore, ad un indagatore, inseguitore che vive
in continua attesa di qualcosa sempre di là da venire, se non per brevi istanti, fugaci, attimi
irripetibili e passeggeri, felici appunto. Il sentiero è periglioso e impercorribile, per la felicità si
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cammina come su fil di lama e agli occhi essa è barlume che vacilla, il piede incede verso lei, lieve,
su ghiaccio che s’incrina30, in perenne trazione fra desiderio e nostalgia. A leggere i segni di questi
e altri tempi, felicitas si va cercando quale diritto di tutti, dunque è forse un ‘bene comune’?
La ‘felicità’ non è essa stessa il ‘Bene comune’ di una nazione, di un popolo, ma ne costituisce
tuttavia l’ypothesis, il substratum, il presupposto e, ad esso Bene, rinviano i principi di dignità,
unità e uguaglianza e sovente è stato definito dalla Chiesa come «l’insieme di quelle condizioni
della vita sociale che permettono sia alle collettività sia ai singoli membri di raggiungere la propria
perfezione più pienamente e più celermente».31
Conclusione
L’Italia vive ed è vittima d’un nuovo decadentismo. Essa langue come spettro d’un Impero alla fine
della decadenza, precaria ombra della propria esistenza. Tutto è bevuto, tutto è mangiato! Niente
più da dire!, cantava fiacco Verlaine. 32 Ma è davvero questa la realtà? È vano ogni impegno, ogni
prospettiva di rinascita? La krisis greca che era prospectum ed auspicium, agiva così parimenti per
Einstein, saggio scrutatore della “crisi benedicente”, forza motrice connaturata alla progressio
societatis. L’Italia della crisi non deve temere se stessa né quest’ultima, se vorrà dar più importanza
alla soluzione che al problema, dovrà altresì affrontare krisis, agire per evitare il rischio d’essere
ancora agita. Il metodo tracciato dalla techne ha mostrato una via per spezzare il ciclico ritorno
dell’arido identico, privo di visioni lungimiranti, ma le scienze ancillae della politica, se da una
parte possono suggerire i criteri del buon governo, dall’altra devono avvertire il limite scientifico -
come lo definì Piero Gobetti - della propria abilità e non cedere alla brama fascinosa d’una potestas
che è politica e d’una auctoritas che è della nazione, del popolo. «Il valore della tecnica – ammonì
Gobetti - si deve esaurire nel suo carattere di strumento», pena l’insana aspirazione alla creazione
d’una civitas utopica, che fallirà ogniqualvolta un cogitatum, una theoria astratta, nella velleità
d’essere l’esatto matematico che pone esito al problema, dimenticherà il senso della praxis politica
per cui essa idea è sorta nella mente, scatenando un divario di strategie, un’impasse insanabile fra
Ideale e Reale. Che il potere salvi il potere! In virtù di un principio di legittimità, che la techne
30 E. Montale, Felicità raggiunta, da Ossi di seppia, in Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1984, vv. 2-4 31 Compendio della dottrina sociale…, cit., n. 164; Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 26: AAS 58
(1966) 1046; cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, 1905-1912; Giovanni XXIII, Lett. enc. Mater et magistra: AAS
53 (1961) 417-421; Id., Lett. enc. Pacem in terris: AAS 55 (1963) 272-273; Paolo VI, Lett. Ap. Octogesima adveniens,
46: AAS 63 (1971) 433-435 32 P. Verlaine, Langueur, tr. it. L. Frezza, in P. Verlaine, Poesie, Feltrinelli, Milano 1964, vv. 1-11
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restituisca alla politica il trono che le è proprium, posto che però il volto di quest’ultima sia davvero
mutato, trasfigurato, innovato nella metanoia ideale del Bene comune. La parola decisiva spetterà ai
veri politici, i quali dovranno afferrare l’immutabile, incatenandolo ai dettami reali di ragione,
contemplando nella teoria politica la prassi e agendo nella prassi politica la teoria, memori della
traditio possente di questo nostro Paese. La politike techne è una scienza architettonica e direttiva,
«una sorta di esperienza artistica di tutto l’uomo»33, in cui le competenze richieste al suo esercizio
si definiscono per una funzione di supervisione generale sulla città e i suoi flussi vitali, con la figura
del politico a capo, insignito di una sorta di “investitura episcopale”, non connotata religiosamente,
bensì etimologicamente come episkopeia, sorveglianza e custodia sull’associato vivere della polis in
comunità. Scrisse Gobetti, sfiduciato, con sentore poetico e quasi profetico, che il popolo italiano è
stato per secoli «educato al parassitismo», mai sanato da un’atavica «malattia feudale» e qualunque
crisi esso si trovi a vivere altro non sarà se non la summa di tutte «le scarse attitudini degli Italiani
all’autogoverno».34 L’Italia necessita dal 2013 in avanti di dirigere il corso di un nuovo ordine, che
abbia per fundamentum un rinnovato contenuto spirituale, «un nucleo romantico di pensiero», il cui
fine sia l’inserimento del popolo italiano nella vita politica attiva della nazione e delle nazioni per
migliorare, educare il Paese e noi stessi, chiamati a farci pienamente Italiani, europei, cittadini del
“villaggio globale”, in competenza e responsabilità.
Può darsi che non siamo pienamente responsabili per la situazione in cui ci troviamo, ma lo
diventeremo assolutamente se non agiremo e reagiremo tutti, uniti, per cambiarla!35
33 P. Gobetti, La Rivoluzione Liberale…, cit., p. 13 34 Ibid., passim 35 Cfr. M.L. King, Aforismi