il problema del testo e delle sue implicazioni filosofiche nell'opera di arnold schönberg

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1 UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO Facoltà di Lettere e Filosofia Il problema del testo e delle sue implicazioni filosofiche nell’opera di Arnold Schönberg Relatore Chiar.mo Prof. Carlo Sini Candidato: Alessandro Carrera Matr. 129259 ANNO ACCADEMICO 1979-80

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO

Facoltà di Lettere e Filosofia

Il problema del testo e delle sue implicazioni filosofiche nell’opera di Arnold Schönberg

Relatore Chiar.mo Prof. Carlo Sini

Candidato: Alessandro Carrera

Matr. 129259

ANNO ACCADEMICO 1979-80

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Indice Premessa Il rapporto testo-musica in Schönberg come tema filosofico p. 4 Capitolo I Testo e musica nella cultura romantica. La transizione da Mahler a Schönberg p. 6 Capitolo II Il rapporto testo-musica all’interno della specificità del pensiero musicale p. 22 Capitolo III Analogie e differenze tra testo e musica. Il rapporto con Schopenhauer p. 39 Capitolo IV Testo ed espressione. Il superamento dell’eredità wagneriana. p. 57 Capitolo V Parola e musica in Wagner. La critica schönberghiana al concetto di dramma interpretata attraverso la mediazione di Nietzsche p. 74 Capitolo VI Il nodo Wagner-Hanslick-Nietzsche e l’affacciarsi della sua risoluzione in Schönberg p. 92 Capitolo VII La natura sonora della parola come punto d’incontro tra Nietzsche e Schönberg. Il rapporto con Stefan George p. 108 Conclusione Espressione e significato dopo il superamento dell’espressionismo p. 129 Bibliografia p. 134

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Premessa

Il rapporto testo-musica in Schönberg come tema filosofico Scopo di questo lavoro è la trattazione del rapporto tra testo e musica in Arnold Schönberg come problema attinente alla filosofia. Esiste una vasta letteratura critica sull’argomento che però lo affronta quasi sempre dal punto di vista dell’analisi musicale; meno frequenti sono gli interventi che tendono a mettere in luce come attraverso questo rapporto si inveri la sostanza di un pensiero. Ma l’attenzione estrema, la minuziosa filologia che una certa scienza musicologica ha dedicato a questo problema può già costituire una spia del fatto che l’incontro tra testo e musica non è, in Schönberg, risolvibile con la sola analisi musicale, e nemmeno solo con l’estetica.

Tali e tante appaiono le scoperte, le corrispondenze e i segreti che si trova davanti chi si ponga con attenzione all’esame delle opere vocali-strumentali di Schönberg, da convincere immediatamente che in esse si gioca un’avventura fondamentale del pensiero dell’inizio del secolo, sullo stesso piano delle contemporanee rivoluzioni che nella scienza e nella filosofia hanno Vienna come punto di partenza.

E la molteplicità di interessi, ipotesi e sguardi che Schönberg sperimenta nella sua opera, e che sono gli stessi dei suoi grandi contemporanei, si ritrova tutta, puntualmente, all’interno del rapporto tra testo e musica. Tutte le sollecitazioni culturali e tutte le invenzioni che agitano la mente di Schönberg si prefigurano lì.

Schönberg viene a concludere tutta un’epoca di modi di pensare questo rapporto, fin da quando, nelle sue svariatissime ramificazioni, era stato impostato alla fine del Settecento. Attraverso Schönberg è possibile risalire tutto il cammino a ritroso che va da Mahler a Wolf a Schubert fino a Beethoven e Mozart, cioè il pensiero musicale che vede la musica come arte autonoma nella forma e nel contenuto anche rispetto alle strutture del linguaggio parlato che gli fa da testo, così come è possibile risalire da Richard Strauss a Wagner a Liszt, a Schumann fino all’Illuminismo che riscopre il canto popolare — vale a dire le estetiche che vedono la musica vocale grosso modo subordinata all’incontro con il contenuto del testo — con Goethe che si pone come sofferto spartiacque all’origine delle due vie. Schönberg è dalla parte della prima concezione, eppure in lui questa lotta si decide e non perché si risolva in sintesi, ma perché muta significato e funzione, e con la forza delle sue formulazioni dichiara obsoleta ogni normativa precedente.

Dopo Schönberg si ricomincia daccapo, ma appunto perché ciò che era messo in gioco non implicava solo una questione di evoluzione della musica, bensì l’intera rifondazione di una filosofia del linguaggio. E questo, in fondo, è lo Schönberg che oggi ci interessa di più. Espressionismo, religiosità, dodecafonia, sono grandi scelte che oggi cominciamo a vedere come parti di una vastissima problematizzazione dell’intero campo del linguaggio. Schönberg parla costantemente dell’unità, la ricerca ovunque e angosciosamente. La sua tendenza sarebbe il monismo puro, nella religione come nell’arte. La logica non può esistere senza unità; non è religione quella che accetta che insieme a Dio sia adorato il suo simbolo, il suo vitello d’oro; il politeismo gli appare un concetto impossibile: se vi è tonalità in un brano, essa non può essere che una, eppure Schönberg sa che una logica non esiste, e anche chi crede nell’unicità e irraffigurabilità di Dio scopre la tragedia di un linguaggio che non può dire questa unità: “la parola che manca” chiude la musica del Moses und Aron. In un frammento di uno dei più importanti manoscritti ancora inediti si può leggere:

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Ma voglio dire questo: molto di ciò che è stato detto sulla logica, presentazione dell’idea, unità motivica, ecc., non si adatta affatto a molti brani (...) Qui per la prima volta si fa il tentativo di estrarre una logica musicale dai fatti della tecnica musicale di presentazione dell’idea.1

Ma la musica stessa è presentazione dell’idea, non ne è né espressione né traduzione, l’idea

non la precede né cronologicamente né logicamente:

Ciò che importa veramente in Schönberg è come la musica viene progettata, in un modo che coinvolge una visione della società. Il fare musica è Darstellung dell’idea. Uso la parola tedesca perché non saprei se tradurla con “presentazione” o “rappresentazione”. In tutta la sua opera Schönberg ha cercato di costruire una Darstellung dell’idea, anche se non l’ha mai fatto in modo sistematico.2

E l’idea è “un modo di ristabilire l’equilibrio”, la forma è “una situazione di riposo tra due

forze contrastanti”. Le varie definizioni che Schönberg progetta partono tutte dal fondo irriducibile del movimento della contraddizione, che dovrebbe sanarsi, giungere forse all’equilibrio, ma di fatto non vi giunge mai. Ciò che oggi ci fa sentire vicini a Schönberg è forse questo sogno di unità, ma in quanto è già da tempo infranto, perché solo la molteplicità è reale, è ciò che è possibile sperimentare — e da qui una musica che quanto più tende all’Uno tanto più è polisensa e inesauribile e non sa che procreare sempre nuovi percorsi e diramazioni. Per questo allora la scelta del rapporto testo – musica. Perché in questa bipolarità si ritrova il modello dell’intero pensare schönberghiano, perché è nello scontro di queste due forze “contrastanti”, di questi due linguaggi che viene misurata la capacità di comprensione, di formalizzazione e di uso del linguaggio che è stato scelto. Il testo viene musicato per verificare la musica, per rispondere alla domanda circa il che cosa essa può dire e che cosa non può non tacere. La forma può ristabilire un equilibrio, ma la contraddizione è tutta lì, nella trasparenza di questo equilibrio che non cela la lotta che sta alla sua origine.

L’indagine condotta ha seguito un metodo, per così dire, a spirale. Ogni problema che si presentava è stato trattato immediatamente come Schönberg lo aveva trattato. Dopo di che si sono cercati i possibili antecedenti, in positivo o in negativo, delle sue posizioni. Questo ha provocato dei ritorni dello stesso soggetto, in contesti mutati. Ad esempio il saggio Das Verhältnis zum Text, del 1912, viene analizzato nei primi tre capitoli sotto tre punti di vista: nel primo in rapporto alla storia dell’incontro tra musica e testo nella cultura romantica, nel secondo in rapporto alla critica dell’estetica naturalistica, come la si ricava dalla Harmonielehre, e nel terzo sulla base di un rapporto Schönberg-Schopenhauer come risulta dai rimandi offerti da Schönberg stesso. I Georgelieder del 1908 sono stati invece analizzati nel quarto e nel settimo capitolo, la prima volta in relazione alla funzione del testo come fattore di forma della musica, e la seconda volta come esemplificazione del rapporto tra la musica e la sonorità della parola in riferimento alle osservazioni che a questo argomento ha dedicato Nietzsche.

E proprio Nietzsche è il nome chiave di questo lavoro: fin dall’inizio, le argomentazioni sono state condotte in base all’ipotesi che un possibile rapporto su una base di filosofia del linguaggio, tra Schönberg e Nietzsche, avrebbe potuto spiegare o proiettare in una luce più viva i problemi che agitavano Schönberg durante e immediatamente dopo la cosiddetta fase espressionista.

1 “Ich will damit sagen: Vieles was über Logik, Darstellung des Gedankens, Motiv-Einheit, etc. hier gesagt würde, passt auf viele Stücke gar nicht (…) Hier wird zum ersten mal der Versuch gemacht aus den Tatsachen der musikalischen Technik der Gendankedarstellung eine musikalische Logik zu extrahieren.” (Arnold Schönberg, frammento di Der musikalische Gedanke und die Logik, Technik und Kunst seiner Darstellung, citato in Alexander Goehr, Schönberg’s Gedanke Manuscript, in “Journal of the Arnold Schönberg Institute”, Vol. II, n. 1, October 1977, Los Angeles, University of Southern California, pp. 6-7). 2 A. Carrera, L’attività dello Schönberg Institute di Los Angeles. Intervista a Leonard Stein, “Laboratorio Musica”, II, 9, febbraio 1980, p. 25.

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Così il primo capitolo vede nell’uso che Malher fa del testo e nel suo tendere verso un’ascesi dal contenuto il più immediato rapporto tra l’Ottocento e Schönberg. Il secondo e il terzo capitolo interpretano questa ascesi dal contenuto (che poi è posizione di contenuto pensato in altro modo) come superamento del naturalismo attraverso la critica alla naturalità all’armonia, e a ciò che di naturalistico vi è ancora nelle teorie sulla musica di Schopenhauer. Il quarto capitolo affronta il problema della forma e dell’espressione all’interno della critica e del superamento di Wagner. Tutto ciò porta ad indagare il rapporto tra parola e musica e la critica che ne fa Nietzsche (quinto capitolo), in rapporto alla concezione drammatica di Schönberg, ormai completamente indipendente da quella di Wagner. La critica a Wagner conduce a Hanslick, ma per mostrare quanto vi sia ancora di idealisticamente irrisolto in Hanslick stesso e che allontana anche i punti di contatto possibili con Schönberg. Nietzsche, a questo punto, appare il più prossimo antecedente di Schönberg, e proprio sul tema parola-musica (capitolo sesto). Il settimo capitolo è dunque dedicato ad analizzare come la concezione della natura sonora della parola nel Nietzsche del 1870-1873 si colleghi, magari attraverso la mediazione poetica di Stefan George, alla rivalutazione che Schönberg compie della funzione significativa della sonorità della parola proprio nei Georgelieder. La conclusione indica qualcuna delle vie sulle quali l’analisi, così impostata, potrebbe proseguire.

Il rapporto con Nietzsche, ma questa volta con il Nietzsche di Umano troppo umano e di Zarathustra e più in là fino ai frammenti postumi, si rivelerebbe fecondo anche nell’analisi delle opere successive all’individuazione dodecafonica, e valga per tutte il Moses und Aron, dove il conflitto non è tra pensiero e azione, teoria e prassi, ma tra parola-metafora (Aronne) e parola-preghiera (Mosé), entrambe potenti eppure entrambe vuote, perché nessuna di esse può dire valori, dire il Dio.

Ma questa è appunto solo un’indicazione. Il presente lavoro tratta invece i problemi ad essa precedenti e perciò analizza le opere di Schönberg solo dal 1900 al 1915, da Verklärte Nacht op. 4 ai Vier Lieder op. 22, cioè dal tramonto dell’eredità wagneriana al tramonto dell’espressionismo. Per quanto riguarda invece l’opera teorica, sono stati presi in esame quasi tutti gli scrittori finora editi, anche successivi al 1915, se davano utili informazioni o integrazioni al tema che si stava trattando. I brani tradotti direttamente dagli originali sono stati riportati in nota.

Maggio 1980

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Capitolo I

Testo e musica nella cultura romantica. La transizione di Mahler a Schönberg

I. A detta di Bertolt Brecht, che lo incontrò più volte negli anni americani, Schönberg lamentava spesso che la musica non possedesse un “apparato concettuale puramente musicale”.3 Il problema dell’intersezione e della eventuale confusione della musica con altri linguaggi, altre forme di ordinamenti sintattici e semantici, continuava ad occupare la sua mente e non avrebbe mai cessato di sollecitare il suo pensiero. La distanza temporale non bastava ad allontanarlo dai problemi che avevano accompagnato la sua prima maturità. Ciò che lo spingeva era una costante preoccupazione di chiarezza; nel 1937, scrivendo di Alban Berg, Schömberg ebbe ad affermare ciò che avrebbe potuto riferire anche a se stesso, e cioè che “... la musica per lui era un linguaggio e che in tale linguaggio egli effettivamente si esprimeva”.4

Ma risultava chiaro questo? Risultava comprensibile ai suoi ascoltatori, sostenitori o critici che fossero? La concezione della logicità del discorso musicale si era evoluta in lui, lentamente e tenacemente, nel mezzo di un’età che si faceva vanto della riscoperta-esaltazione dell’immediato, dell’onirico, dell’espressione dell’ineffabile e del profondo, come anche del virtuosismo ornamentale, signore assoluto del proprio oggetto di rappresentazione. E Schönberg non è estraneo a questo tempo. Le testimonianze di quegli anni (dal 1908 al 1914) danno l’immagine di un uomo che sostiene di comporre musica in stato di trance, che parla esplicitamente di estasi della composizione (Taumel des Komponierens) ma che, in questa sua esaltazione estetica e magica, non cessa di cercare le origini logiche dell sua metodologia artistica:

Quando compongo decido soltanto in base al mio sentimento della forma, che mi dice quello che devo scrivere, mentre tutto il resto rimane escluso. Ogni accordo che scrivo corrisponde ad un’impellente costrizione: ad una costrizione della mia esigenza espressiva, ma forse anche ad una logica, inesorabile, ma inconscia, insita nella costruzione armonica.5

Questo “irrazionalismo” di Schönberg sembrerebbe dunque solo la superficie, l’apparenza di

un’imperiosa necessità di ordine, di formulazione di principi, ma non per questo potrebbe essere rifiutato come puro epifenomeno, terminologia e situazione di passaggio. Al contrario, ciò che importa vedere è come Schönberg stia compiendo lo sforzo di riassunzione delle tematiche del decadentismo e dell’espressionismo sotto le ragioni di una nuova visione del mondo, di una nuova sistemazione di un punto di vista sull’arte e sull’uomo che non le neghi ma le superi, incorporando ciò che hanno conservato di propositivo e anche di esplosivo. È quindi il problema del significato che si impone, significato dell’arte e del perché si fa arte:

L’arte è il grido d’allarme di coloro che vivono in sé il destino dell’umanità: che non l’accettano, ma che si misurano con esso; che non azionano ottusamente il motore a cui si dà il nome di “oscure potenze”, ma si gettano nell’ingranaggio in movimento per comprenderne la struttura.6

3 Hanns Eisler, Con Brecht, intervista di Hans Bunge, Roma, Editori Riuniti, 1978, p.196. 4 Arnold Schönberg (d’ora in poi A. S.), Zeugnis des Lehrers (1937), pubblicato postumo da Will Reich, cit. in Paolo Petazzi, Alban Berg, l’uomo, l’opera, i testi musicati, Milano, Feltrinelli, 1977, p. 28. 5 A.S., Manuale di armonia, Milano, Il Saggiatore, 1963, a cura di Luigi Rognoni, p. 523. 6 A.S., Aforismi, aneddoti, massime, in Luigi Rognoni, La scuola musicale di Vienna, Torino, Einaudi, 1966, p. 381.

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Se la musica può essere questo grido ciò è possibile perché è anche linguaggio e anche

logica, e non perché si risolva ancora tutta nel naturalistico Urschrei; altrimenti potrebbe indicare, metaforizzare l’umanità, ma non potrebbe dir nulla su di essa. Per questo a Schönberg interessa sgombrare il campo dalle ideologie che ostacolano la natura autonoma e autosufficiente che spetta alla musica. La strada passa, ed è obbligatorio, per il confronto con la parola, e con i modi dell’incontro parola-musica che sembrerebbero avere il potere di spiazzare la portata semantica della seconda. Da ciò il carattere perentorio e provocatorio delle tesi sostenute nel saggio Il rapporto col testo (Das Verhältinis zum Text) del 1912, che non a caso viene depositato in una posizione chiave, in quel manifesto programmatico che è il numero unico di “Der Blaue Reiter”. Qui le due tendenze, al disordine e all’ordine, alla trance e all’autocontrollo, all’immediatezza e al rigore, vengono a confluire. Ma non é un incontro pacifico e, come si cercherà di vedere, viene a porsi addirittura allo sbocco di un secolo di elaborazione culturale.

L’eccezionale densità di questo breve scritto non è infatti il risulato del tentativo di sistemazione della materia trattata, bensì emerge dal suo essere un confluire anche caotico di vari retaggi culturali, un crocevia situato all’incontro di tante e tali suggestioni, indicazioni e progetti, da costituire il punto d’arrivo di una crisi che porterà Schönberg a quel silenzio durato più di cinque anni, al termine del quale sarà raggiunto il problematico traguardo della dodecafonia. Questa densità fa sì che per ognuna delle tesi che Schönberg esprime in Das Verhältnis sia possibile risalire, ripercorrere a ritroso il problema del rapporto testo-musica in tutta la cultura romantica. Due sono i temi che si intrecciano nello scritto: quale peso, quale quantità di significato si trasferisce nel testo scritto all’insieme testo-musica? E quale può essere, all’interno di questo rapporto, il contenuto della musica, posto che essa “parla” solo in termini musicali?

Un paio d’anni fa io provai profonda vergogna scoprendo che per alcuni Lieder di Schubert, a me ben noti, non avevo mai avuto idea dell’argomento trattato dal testo poetico. Ma quando poi ebbi letto le poesie, mi accorsi che non ne avevo ricavato alcun elemento per la comprensione di quei Lieder, perché esse non mi costringevano minimamente a modificare l’idea che mi ero fatto della musica. Al contrario, mi accorsi che, senza conoscere la poesia, ne avevo afferrato il contenuto, il contenuto vero, forse più profondamente che se fossi restato aderente alla superficie dei veri e propri pensieri espressi dalle parole.7

Esiste quindi un “contenuto vero” del testo che puó essere colto attraverso la musica

altrettanto e a volte meglio ancora che attraverso la lettura? È svalutazione, sfiducia nella parola, nella sua capacità di comunicare alcunché? È qui l’irrazionalismo? Rispondere a queste domande significa rivedere quello che è stato il rapporto storico fra musica e testo, almeno a partire da quando la musica ritorna prepotentemente sulla scena culturale europea, uscendo dal ruolo di arte minore (perché priva di contenuto determinativo) che una parte dell’illuminismo le assegna ponendola, quando è priva di supporto nella parola, “all’ultimo posto nell’ordine dell’imitazione” (prefazione all’Enciclopedia, stesa da D’Alembert).

Che il compito della musica sia quello di rendere comprensibili le parole del canto è un’esigenza mai venuta meno dai tempi di Palestrina e Monteverdi, anzi, essa ha contribuito a trasformare la musica in una rete di figure retoriche in cui ogni sentimento (ogni affetto) può essere espresso secondo regole determinate. Ma proprio quando questa grammatica dell’espressione in musica sembra definitivamente consolidata, inizia un nuovo periodo, databile grosso modo intorno al 1750, in cui sarà proprio questa semplicità, questa comprensibilità che deve istituirsi tra musica e testo a porre le basi del rovesciamento del rapporto. Decisiva è, a questo punto, la rivolta di Ch. W. 7Il rapporto col testo, in L. Rognoni, op. cit., p. 396. Si è adottata qui la traduzione curata da Rognoni in quanto corrispondente all’edizione originale tedesca del 1912 (Das Verhältnis zum Text, in AA.VV., Der Blaue Reiter, München, Piper Verlag, 1912). L’edizione americana, rivista dallo stesso Schönberg, che compare in Style and Idea (Stile e idea, Milano, Feltrinelli, 1975), differisce in quanto tratto. Si citerà comunque l’originale tedesco ogni volta che la traduzione si scosterà dal senso letterale.

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Gluck contro la spirito del rococò. Sebbene Gluck cerchi un teatro capace di realizzare un “parlare cantando” in cui la musica segua fedelmente il senso delle parole, e quindi si ponga nella linea che vede la musica obbedire all’oratio, il suo neoclassicismo non chiede affatto che la musica sia tenuta in sott’ordine. Se la musica deve seguire il testo è perché essa non è un gioco, non è accompagnamento generico e intercambiabile. Gluck affida quindi alla musica un compito drammatico che si trasferirà ben presto dalla musica vocale a quella strumentale, ormai lontanissima dalla sua pur recente posizione d’inferiorità. Ma, per quanto riguarda l’opera, sarà Mozart a esercitare una più efficace azione, e partendo da presupposti contrari a quelli di Gluck. Per Mozart la poesia deve essere “figlia obbediente” della musica, come scrive in una lettera del 1781, e non perché il testo sia privo d’importanza, bensì perché esso va pensato appositamente per la musica “e non per amore di questa o di quella miserabile rima...”. Ora quello che qui importa è che

... questa chiara affermazione delle ragioni della musica rispetto a quelle del testo letterario è alla base della rivalutazione non solo del liguaggio musicale, ma anche della scoperta della musicalità della poesia.8

Se ogni affetto, posto in poesia, aveva il suo corrispoindente in musica, diventava facile

rintracciare nel canto popolare il momento dell’unione naturale dei due elementi, l’immediata espressione dell’esserci dell’uomo naturale. Nell’Aesthetica in nuce del 1762, Hamann scrive che la poesia è la lingua madre del genere umano (Poesie ist die Muttersprache des menschlichen Geschlechtes) ma aggiunge di essere rimasto affascinato dai canti popolari di stirpi non tedesche e che sarà certamente da lì che potranno sorgere i poeti di quei popoli (...sollte ein Dichter unter ihnen aufstehen...) Herder, suo allievo, dirà che la poesia e musica sono nate assieme, e che il linguaggio dei greci era musica in sé, il che significava che tra musica e parola (tra metrica e ritmo) vigeva un accordo a priori che calmava qualsiasi Spannung, qualsiasi tensione.9 Nello stesso periodo (1768), Rousseau tenta di dare una fondazione linguistica alla musica. Essa non è autonoma dal linguaggio ma anzi ne è un’emanazione: si ha musica quando la lingua si carica di elemento passionale.10

Parole e musica formano quindi un’unità naturale, la cui espressione compiuta è il Lied. Suoi elementi saranno la chiarezza della struttura gravitazionale sulla quale la melodia è costruita e la percettibilità delle successioni armonico-tonali che si legano alla struttura ritmica. Johann Abraham P. Schulz, che intorno al 1785 sostiene questa tesi, insiste sulla sorprendente affinità del tono musicale con quello poetico del Lied. La progressione musicale non si solleva mai sopra il testo nè gli scende al di sotto, ma gli si aggrappa come un bambino alla madre (wie ein Kind am Körper). Solo in questo modo il Lied ritorna allo spirito del non-ricercato, del non-artistico Volkston. La messa in pratica di queste teorie sarà proprio la più celebre canzone di Schulz, Der Mond ist aufgegangen, omaggio totale alla ballata da Matthias Claudius. Ma questo ritorno al Volkston è appunto un ritorno, non intende presentarsi come progresso:

I canti di questi musicisti [Hiller, Schulz, Neefe] manifestano propositi schiettamente restauratori: poco aggiungono alla tradizione, e nessuna via aprono al futuro. Sicchè, una lettura dei barocchi ci permette di riscontrare, fra la vocalità seicentesca e il Lied romantico, solo marginali affinità e nessuna convergenza essenziale (...) Il grande scoppio dello Sturm und Drang elide quindi ogni collegamento, fa saltare i ponti con la cultura della vecchia Germania.11

8 Enrico Fubini, L’estetica musicale dal Settecento ad oggi, Torino, Einaudi, 1964, p. 75. 9 Joseph Müller-Blattau, Das Verhältnis von Wort und Ton in der Geschichte der Musik, Stuttgart, J.B. Metzlersche Verlagsbuchhandlung, 1952, p. 1. Analizzeremo dal quinto capitolo in poi come Nietzsche stravolgerà questa concezione armoniosa del linguaggio greco come “musicale” in sé. 10 Evandro Agazzi, La musica come punto di incontro delle arti nell’età romantica, in Alberto Caracciolo (a cura di), Musica e filosofia, Bologna, il Mulino, 1973, pp.11-40. 11 Mario Bortolotto, Introduzione al Lied romantico, Milano, Ricordi, 1962, pp.18-19.

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Ma lo Sturm und Drang saprà cogliere, da quelle posizioni, ciò che vi era di nascostamente innovatore. In realtà il mutamento di prospettive che sta avvenendo è di eccezionale importanza culturale poiché, nel rinnovato interesse per “l’uomo del popolo”, contribuisce alla caduta dell’“uomo teologico” e afferma le premesse della visione naturalistica che dominerà nel secolo XIX.12

Questa nuova unità di parola e musica porta con sè l’inedito elemento della Stimmung, che è appunto il risultato della loro unità. Sempre secondo Herder, nel canto popolare non si possono pensare le parole senza la musica, e il compositore di Lieder deve espressamente attenere la sua opera a questa unità di sentimento (gefühlmassige Einheit) che si può imparare solo dal popolo.13 Ma nella Stimmung è vista anche la possibilità di esprimere il senso nascosto, più profondo del testo. Da qui alla rivendicazione della musicalità del verso anche al di là della sua componente semantica il passo sarà breve. I romantici opereranno un completo rovesciamento delle posizioni di Rousseau. Per Wackenroder e August Schlegel il destino delle arti è di travasarsi nella musica, come per Novalis l’unica salvezza del linguaggio è la trasmutazione nella musica. E la musica si avvia così ad occupare il primo gradino di quella scala che nell’estetica dell’illuminismo la vedeva bene in basso, e proprio per le caratteristiche che l’avevano resa sospetta, cioè l’abitare il regno dell’asemantico, del più profondo, dell’indicibile.14 II. A proposito della Quinta Sinfonia di Beethoven (1808), E.T.A. Hoffmann afferma che in quell’opera sta la dimostrazione che l’unico oggetto della musica è l’infinito. Qualche anno più tardi Bettina Brentano scrive a Goethe:

... non ci dovrebbe essere anche una Rivelazione intuitiva della poesia che più profondamente, più emozionalmente penetrasse fino al vivo, senza i limiti prestabiliti dalla forma?15

L’arte è ormai diventata una lotta contro la forma: la poesia va liberata dalla determinatezza

della parola e consegnata all’illimitata indeterminatezza della musica. Ma è proprio Beethoven, quello stesso Beethoven che aveva suggerito quelle interpretazioni alla Brentano e a Hoffmann, a porsi in una posizione di rifiuto davanti a questa nuova estetica. Se da una parte si vuole trasformare la poesia in musica, ecco che Beethoven, soprattutto nel suo ultimo periodo, drammatizza lo scontro delle figure musicali, tenta di “far parlare” il suono attraverso una forma di recitativo melodico che giunge, nel Largo della Sonata Op. 106, ad abolire perfino le sbarre di misura, e nella Sonata Op. 110 fa precedere l’Arioso dolente da un declamato culminante in un inaudito la ripetuto per quindici volte.16 Ma Beethoven, quando sembra voler dare una lingua ai suoni, è comunque mosso da un’esigenza di assoluta chiarezza razionale, proprio per non sfiorare nemmeno l’indeterminato di cui Hoffann lo vede profeta. I momenti in cui la musica sembra cozzare contro i confini della parola creano una Spannung, una tensione che deve risolversi in termini formali. Alla domanda che il recitativo strumentale pone (quali sono i miei limiti? che cosa posso dire?), Beethoven risponde prima recuperando e piegando a sé la forma della fuga, nell’op. 106 e op. 110, e poi con il testo cantato (Nona Sinfonia), ma è proprio quest’ultima soluzione che non lo soddisfa, che gli appare un compromesso, e che gli fa pensare di ripetere l’esperimento in termini diversi in una decima sinfonia che non potrà mai scrivere.

12 Luigi Nono, Text-Musik-Gesang, in Texte. Studien zu seiner Musik, a cura di Jürg Stenzl, Zürich, Atlantis Verlag, 1975, pp.41-60. 13 J. Müller-Blattau, op. cit., ibidem. 14 E. Agazzi, op. cit., ibidem. 15 Bettina Brentano, cit. in Giovanni Carli Ballola, Beethoven, Milano, Sansoni-Accademia, 1967, p. 171. 16 Idem, p. 181.

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Eppure anche Beethoven è convinto che la musica sia una rivelazione e che possa non solo dire quello che poesia non dice, ma anche svelarne ciò che è implicito. Sempre secondo Bettina Brentano, e posto che le si debba credere, cosa che, come si sa, non è sempre pacifica, per Beethoven la lingua di Goethe portava in sè il “segreto dell’armonia” e ispirava a comporre la musica: “La melodia è la vita sensibile della poesia. Il contenuto spirituale di una poesia non diventa sentimento concreto mediante la melodia?”17

Ma questa è un’estetica anti-goethiana. E proprio nel sofferto, impossibile incontro tra Beethoven e Goethe sta la chiave di volta della storia che va dallo scontro tra Gluck e Piccinni allo schönberghiano “rapporto col testo”. Sia Goethe che Beethoven si professano antiromantici. Ma sia l’uno che l’altro hanno piena coscienza della nuova potenza che la musica può dispiegare. Goethe ha timore di questo potere, poiché vede risorgere in esso il fantasma di quell’inclinazione al “demonico” così combattuta e mai completamente soggiogata dai tempi della sua giovinezza. Così, se il Goethe fine-settecento sembra accordarsi con l’estetica naturalistica di uno Schulz, in realtà il suo desiderio andrebbe più in là, fino al ritorno della musica al ruolo di ancilla orationis. Così si esprimeva infatti a proposito dei Lieder del suo “consigliere musicale” Carl Friedrich Zelter:

L’originalità delle sue composizioni è, per quanto posso giudicare, che non vi è mai una “trovata”, bensì una radicale riproduzione delle mie intenzioni poetiche.18

Ciò che Goethe accettava a malapena in Mozart e che non tollerava in Beethoven era che il

loro aggiungere e svelare ciò che era “implicito” nel testo finiva in realtà per esaltare soprattutto la musica. L’ideale di Goethe era la musica strofica, la canzone, che ricordasse in ogni momento all’ascoltatore l’unità del testo. Si immagini cosa può avere pensato alla scoperta che Mozart aveva aggiunto di suo pugno un verso finale a Das Veilchen, poiché questo gli sembrava necessario alla conclusione musicale del brano, mentre si sa che di come Beethoven e Spohr avevano musicato Mignon ebbe a dire:

Non posso comprendere come Beethoven e Spohr abbiano interamente frainteso il Lied, così da averlo durchkomponiert (...) Mignon può cantare il suo essere in un puro Lied, non in aria.19

Eppure né Beethoven né Spohr avevano composto un’aria. Ma in Beethoven la metrica

musicale diviene indipendente dalla regolarità dei pentametri goethiani, e

... sotto l’inaccettabile giustificazione di Goethe, si deve leggere probabilmente il malcontento e l’imbarazzo per una musica che si faceva più autonoma quanto più cedeva in apparenza alle ragioni del testo.20

Per questo non gli poteva piacere l’Erlkönig musicato da Schubert, che “di una canzone da

lavandaia ne aveva fatto una tragedia”. In realtà la musica doveva restare serva dell’orazione perché altrimenti il suo potere avrebbe potuto annientare quello della poesia. Nessun rapporto paritetico tra parola e musica era possibile per Goethe, perché la prima gli appariva come pura ragione e la seconda come pura irrazionalità. Eppure niente più di questo timore potrebbe sancire il potere della musica nell’età romantica. Come per Beethoven la musica “si estende più oltre, in altre sfere” rispetto al pur immenso potere mimetico della poesia, così per Goethe dalla musica “emana una forza che tutto domina”, che tutto sconvolge, e dalla quale, perciò, bisogna difendersi.

17 Ludwig van Beethoven, riportato da Bettina Brentano, cit. in Luigi Magnani, Goethe, Beethoven e il demonico, Torino, Einaudi, 1977, p. 17. 18 “Das Original seiner Kompositionen ist, soviel ich beurteilen kann, niemals ein Einfall, sondern es ist eine radikale Reproduktion meiner poetischen Intentionen” (Johann Wolfang Goethe, lettera a A. W. Schlegel del 18 giugno 1798, cit. In J. Müller-Blattau, op. cit., p. 12). 19 Cit. in M. Bortolotto, op. cit., p. 42. 20 Ibidem.

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Trascurando il fatto che Hoffmann, se parla di Beethoven demoniaco e romantico, lo fa però mettendo in rilievo la saldezza formale delle sue composizioni, Goethe dà credito al giudizio corrente sulle opere di Beethoven, che le indicava come caotiche e folli, e spende tutta la sua attenzione nell’evitarle il più possibile. Se per Hoffmann il termine “romantico” è divenuto ormai una vera e propria categoria dello spirito, per cui gli stessi Bach, Haydn e Mozart gli appaiono romantici, per Goethe, come del resto per Hegel, il romanticismo è barbarie. All’origine di questa definizione è Schiller:

È un gran vantaggio poter passare dal puro all’impuro, invece di elevarsi dall’impuro al puro, come accade di solito nella barbarie.21

Lo Streben dei romantici consiste infatti nel voler trasformare in puro ciò che è impuro,

salire dalle passioni all’Empireo, ritrovando una purezza originaria perduta nel recupero della quale non credono nè Goethe nè Beethoven, che entrambi avrebbero potuto concordare su posizioni più realistiche:

Mantenerci valorosamente sull’alto di queste posizioni barbariche avanzate, poiché non raggiungeremo mai quelle dei classici, è nostro dovere.22

Essere classici in coabitazione col demonico, questo è il programma di Goethe e Beethoven,

ma la loro ricerca di assoluta unità di ispirazione, di equilibrio stabile eppure aperto sui territori che gli si stendono davanti, è destinata ad essere abbandonata dai loro contemporanei. È in Schubert che il deterioramento dell’equilibrio parola-musica così come appare nei compositori del Goethekreis costituisce il più decisivo passo in avanti per l’emancipazione della musica. Non sempre Schubert ha sottomesso il testo alla musica, nondimeno in lui l’unità è perduta, perché proprio quando la più grande concentrazione di sentimento viene raggiunta, la forza della musica si fa sempre più forte, il suo spazio sempre più grande, fino a che è la parola che risuona al margine della musica, am Rande der Musik (Schubert-Eichendorff, In der Fremde).23

Questa unità, questo parallelismo di intenti è ormai impossibile per ragioni storiche. Schubert comincia la stesura dei suoi grandi cicli nel 1814, quando l’ondata letteraria del romanticismo è già in riflusso. La musica romantica si presenta così come il dissolvimento di un’eredità. C’è ormai incolmabile distanza tra la produzione poetica e quella musicale, che è già commento, discorso sulla poesia romantica. Alla musica viene affidato il compito di mantenere acceso il lume dell’idealità nei tempi bui della restaurazione. “Almeno i suoni non possono essere censurati,” dice Franz Grillparzer a Beethoven, lamentando la propria posizione di autore drammatico sempre in lotta con la censura.

Schubert si pone all’inizio di questa nuova fase: la sua drammatizzazione del Lied non poteva trovare consenziente Goethe, ma Beethoven avrebbe ancora potuto seguirlo. Schubert infatti si comporta con grande libertà nei confronti del legame formale del testo. Convinto, come del resto, Beethoven, che la musica scopre un’altra poesia nella musica delle parole, già nell’Erlkönig e nel Gretchenlied si serve tranquillamente del canto come del recitativo, del grido e del parlato. Nella Gretchen am Spinnrade

... un’apparenza di melodia popolare può illudere sul principio: ma l’incuranza di simmetria metrica, e ancora più il sovraccarico di emotività, la passionalità crescente e esacerbata delle modulazioni, che si impadroniscono della linea vocale, subito ci disingannano. Al pensiero della fatale “stretta”, del “bacio” di Faust, il Canto si frantuma nell’interiezione, e l’arcolaio pianistico si arresta.24

21 Friedrich Schiller, cit. in L. Magnani, op. cit., pp. 53-54. 22 J. W. Goethe, Note al Nipote di Rameau di D. Diderot, cit. in L. Magnani, op. cit., p. 54. 23 J. Müller-Blattau, op. cit., p. 21. 24 M. Bortolotto, op. cit., p. 5.

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E qui si svelano le contraddizioni e la vitalità del Lied romantico. Nato da presupposti illuministi in riferimento a un popolo idealizzato e “naturale”, proprio prendendo alla lettera questo mito lo trasforma fino ad annullarlo. Non c’è “popolo” in Schubert, e meno che mai in Schumann, o almeno non nel senso herderiano. Essi sono compiutamente e totalmente musicisti e non sentono il dovere di collaborare necessariamente alle intenzioni del poeta perché non lo servono ma lo usano. Per questo, molti dei migliori Lieder di Schubert si basano sui testi di poeti mediocri; per questo Schumann cadrà qundo, soprattutto nei suoi ultimi cicli, vorrà per l’ultima volta subordinare la musica al testo. Ma è ormai il 1840 e Schumann, il primo compositore compiutamente borghese, mezzo libertario e mezzo filisteo, assiste sempre più impotente alla borghesizzazione del Lied, ormai finito come genere realistico e in attesa della coscienza critica con cui Mahler lo riprenderà alla fine dell’Ottocento.25

Proprio analizzando il rapporto tra Schumann e Eichendorff, appare con estrema chiarezza il passaggio tra l’autonomia, la padronanza dei propri mezzi della musica del primo romanticismo e i dubbi e i ritorni del secondo. A proposito del Liedekreis Op. 39, Adorno ha scritto:

Giustamente questi Lieder vengono detti congeniali. Ma ciò non significa che essi ripetono il contenuto lirico del loro soggetto perché in questo caso, in base alla suprema economia artistica, sarebbero superflui. Al contrario essi liberano un potenziale delle poesie, quella trascendenza verso il canto che nasce nel movimento che oltrepassa tutto ciò che è determinato in maniera immaginifica e concettuale, nel mormorio della parola.26

Ma questa trascendenza verso il canto si perderà man mano nei cicli successivi. Sempre più

Schumann presterà attenzione alle regole che il testo si è dato e cercherà di far sì che la musica non le “tradisca” più: nel suo ultimo Lied, Schumann abolirà persino le indicazioni di tempo, perché esso va stabilito solo sulla base della pronuncia del testo.

La lettura musicale non potrebbe arrivare più in là: a far germinare il tempo stesso, il nuovo tempo della musica, del primitivo tempo poetico. Nach den Sinn des Gedichts (secondo il senso della poesia) è appunto quanto si legge all’inizio del Lied. Per questo, ogni variazione ritmica è espunta, e la composizione riprende da cima a fondo una formula immota.27

Per tutti questi motivi si può capire in che senso Luigi Nono abbia sostenuto che il modo

d’ascolto del Lieder schubertiani così come Schönberg lo espone corrisponde a una verità storica.28 Il Lied di Schubert è “autonomo” rispetto al testo quando i due elementi, infiammandosi, compenetrandosi reciprocamente, riescono a dar vita a un nuovo intero (Ganz). Secondo Luigi Nono, l’interazione tra l’elemento fonetico-semantico della parola e l’invenzione musicale si è sviluppata, nel corso della storia della musica, in analogia prima con la retorica, poi con la dizione, con l’emozione (teoria degli affetti), con il canto popolare e infine con il parlato comune. Come si è visto, con Schubert ci troviamo nell’estrema transizione verso l’ultima di queste fasi. L’abbandono graduale dell’ideologia naturalistica del Volkston si trasforma nella scopoerta del Mitmensch e del suo linguaggio, della lingua dell’uomo comune, che viene studiata sia nella sua struttura che nel suo rapporto col canto. C’è quindi un filo che in seguito verrà a collegare Verdi, Mussorgskij e anche Janaĉek, con Schönberg erede e innovatore di questo rapporto.29 Ma l’obiezione più immediata è legittima: forse che Schönberg non afferma di voler prescindere dalla semantica, dal peso significativo delle parole del testo? Nono risponde che sebbene a prima vista si potrebbe concludere che Schönberg non si preoccupi più del contenuto del testo, ciò è poi smentito da tutta la sua opera,

25 Ladislao Mittner, Storia della letteratura tedesca, Torino, Einaudi, 1978, vol. II, tomo III, pp. 30-31. 26 Theodor W. Adorno, In memoria di Eichendorff, in Note per la letteratura (1943-1961), Torino, Einaudi, 1979, p. 83. 27 M. Bortolotto, op. cit., p. 116. 28 L. Nono, op. cit., p. 41. 29 Idem, p. 42.

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che si richiama direttamente all’esigenza di chiarezza strutturale e di comprensibilità di ogni materiale impiegato che prima di lui è stata di Beethoven.

Questo può certamente essere condiviso, ma non servirebbe a chiarire il nostro problema: se Schönberg tiene effettivamente conto dei “significati” del testo, perché ha fatto le affermazioni contenute nel Verhältnis zum Text? In altre parole quale necessità è adombrata nel testo? Affrontando questo problema, Massimo Cacciari suggerisce, considerando come sia del tutto evidente che il testo come discorso che “significa direttamente alcune situazioni” non può aggiungere nulla alla comprensione dei Lieder di Schubert, che il vero problema stia in ciò che il testo fa emergere, e cioè la voce:

Poiché di ciò appunto si tratta: è necessario il testo del Lied di Schubert, ma non per essere meglio “informati” intorno a ciò che il musicista “vuol dire” per conoscere il “programma”, bensì per intenderne chiaramente l’intera composizione, sotto un profilo non solo e non tanto formale, quanto culturale e filosofico. Una nuova avvertenza della necessità del testo si intuisce lungo tutta la “linea” schubertiana. Non “ciò che si dice” fa problema, ma la chiarezza dell’emergere della voce.30

III. Non possiamo approfondire ora questa indicazione, perché molti elementi ancora devono essere considerati al fine di verificarla. Bisognerà quindi tornare alla crisi del Lied romantico e ai suoi sviluppi. Ma già un primo elemento per continuare in questa direzione ci viene continuando la lettura di Das Verhältnis zum Text. È lo stesso Schönberg a sostenere che ancora più decisivo dell’essersi accorto di ascoltare Schubert senza badare al contenuto del testo fu per lui il fatto di

... scrivere molti dei miei Lieder nell’ebrezza della sonorità iniziale delle prime parole, senza preoccuparmi minimamente dell’ulteriore sviluppo della composizione poetica, anzi senza neppure comprenderlo nell’esaltazione della creazione (Taumel des Komponierens) e solo qualche giorno dopo rendendomi ragione del contenuto poetico del Lied. Con mio profondo stupore, risultò che mai avevo reso omaggio tanto bene al poeta come quando, trasportato dal primo e immediato contatto con la sonorità iniziale, intuivo tutto ciò che da questa doveva, con assoluta necessità (mit Notwendigkeit) derivare.31

Se ancora più decisivo del testo è il suo suono, la sua risonanza, è chiaro che ci troviamo

all’interno di un rapporto che concepisce l’autonomia del testo e della musica in una materia anche molto più radicale di come poteva intenderla Schubert. In quel romanticismo la dialettica che si instaura tra musica e testo prevede sempre che una superiore unità sia comunque ricomponibile: il Lukács di Die Seele und die Formen dirà che i testi di Heine o di Mörike sarebbero “inimmaginabili” senza la musica dei grandi romantici, appunto perché quella poesia era nata come stilizzazione del canto popolare e raggiungeva la propria completezza nel suo essere-chiamata dalla musica. Dal canto suo, Cacciari ha scritto che “...nella tradizione romantica il testo è davvero il ‘fenomeno’ del Linguaggio musicale...”.32 Cioè il materiale della composizione è, idealisticamente, proiezione dell’Ego o, si potrebbe aggiungere, espressione dell’Idea, scrittura derivata da un linguaggio uno e fondamentale.

Vi è “affinità elettiva” tra Lied e Testo, una disposizione al Lied da parte del testo musicato: il testo appare a priori “musicabile” (...) Ma non è già più così né in Brahms né in Wolf. Schönberg ha ragione, quando afferma che il testo non aggiunge nulla alla comprensione dei Lieder di Schubert –

30 Massimo Cacciari, Dallo Steinhof. Prospettive viennesi del primo Novecento, Milano, Adelphi, 1980, p. 77. 31 A. S. Il rapporto col testo, cit., p. 396. 32 M. Cacciari, “La Vienna di Wittgenstein”, Nuova Corrente, nn. 72-73, 1977, p.83.

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ma questa situazione non è solo precedente ai problemi compositivi dello stesso Schönberg, ma anche a quelli di Brahms, di Mahler e di Wolf. Non immediatamente la “qualità” del testo ma la presenza del testo diviene così decisiva.33

Questo insistere sulla pura presenza pone parecchi problemi. Intanto questa presenza si

concreta solo nell’aspetto quantitativo-fonetico o la voce che la porta non nasconde altre profondità, altri segreti? È semplicemente esistendo che il testo si fa già problema per la forma? Secondo Cacciari, che invece giunge subito alle conclusioni, la presenza del testo pone una dialettica di elementi in cui ciascuno è limite dell’altro; dialettica quindi sempre rinnovantesi, non ricomponibile in nessuna unità romantica, e che viene vista a fondamento di tutta la “filosofia” schönberghiana. Il rapporto musica-testo viene così a coivolgere tutto il lavoro musicale:

La presenza del Testo mostra un limite invalicabile al linguaggio musicale: questo linguaggio non può risolvere in sé il testo, discioglierlo in sé. La presenza del testo impedisce al linguaggio musicale di illudersi di nuove universalità.34

Quando Hugo Wolf riprende testi di Goethe già musicati da Schubert, e sostiene che vanno

rinterpretati con maggiore approfondimento, non è alla ricerca di una nuova psicologizzazione dei personaggi goethiani; piuttosto non può credere che un’interpretazione del testo possa esaurirlo, e comprende anche che quelle passate composizioni non erano interpretazioni ma prodotti autonomi e completi, basati tuttavia su un materiale pre-esistente e quindi sempre trasformabile. La sollecitazione che il testo ormai offre va nella direzione di una non terminabile opera di svelamento che non si compie tanto dalla musica sul testo quanto sul nuovo insieme musica-testo che si è venuto a creare. Nessuna musica può esaurire quei testi perché la distanza temporale e culturale ha reso impossibile ogni affinità elettiva. Ogni nuova versione potrà solo mostrare non la caratteristica psicologica del testo ma la sua ambiguità—l’ambiguità anche della singola parola. Solo all’interno di questo universo sfuggente si potranno tirare le fila dell’articolazione di questo discorso musicale.

Per cui è forse impreciso affermare, come fa Vito Levi, che Wolf mira ad “un’interpretazione dei valori nascosti nel testo verbale”.35 Più che interpretarli, la musica li rende espliciti, non tanto nel senso in cui Hermann Bahr sostiene che la musica di Wolf rende udibile secondo una legge “naturale e spontanea” ciò che vi era già nei versi, ma comportandosi secondo quella che Bortolotto chiama “gelosa indipendenza” anche davanti alle più celebrate liriche goethiane.36 Vero è invece che Wolf non si lascia andare ai “modi inquieti” dei testi (ancora Levi), e reagisce con una semplificazione del materiale musicale che è, nella sua consapevolezza, lontanissima da ogni tradizionalismo. Il problema dei Mörikelieder stava nel far sì che la musica rendesse cosciente l’ascoltatore che essa aveva perfettamente compreso

... quel fermento cioè di modernissima irrequietezza, che non è ritorno all’irrequietezza romantica, ma è piuttosto un ripudio del realismo e come tale fu interpretato dalla musica – notevolmente posteriore e quindi più “moderna” di Wolf.37

Proprio per non smarrirsi “in infinite catene allegoriche, in allusioni, nella velleità di

esprimere l’ineffabile” (ancora Cacciari), la musica di Wolf, là dove il testo giunge ala soglia dell’indicibile, al rapporto tra la vita e la morte (e vi si ferma, non pretendendo di proseguire), riporta l’indicibile alla forma, alla strofa, alla comprensibilità della cadenza.38

33 Ibidem. 34 Ibidem. 35 Vito Levi, Hugo Wolf, Max Reger. Tra l’Ottocento e il Novecento, in AA.VV., La musica Moderna, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1969, vol. 4, p. 33. 36 M. Bortolotto, op cit., p. 158. La citazione di Hermann Bahr è a p. 53. 37 L. Mittner, op. cit., vol. III, parte I, tomo II, p. 465. 38 M. Cacciari, art. cit., pp. 84-85.

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Ma, va precisato, può agire anche in senso contrario, dove la disperazione sia già stata costretta dal poeta nella più tersa delle forme e aggiungervi la rassicurante chiusura strofica potrebbe smorzare, anzichè mostrare, l’intensità dell’espressione. Così nel primo degli Harfenspieler Lieder dal Wilhelm Meister (1888), ai versi

So überschleicht bei Tag und Nacht Mich Einsamen die Pein, Mich Einsamen die Qual ... (Così giorno e notte s’impossessa di me solitario la pena, di me solitario il tormento...)

la voce si alza su Qual, dopo avervi concluso la frase, e svelando così, con un vero e proprio

“gesto” musicale, la passione che ha preso forma nella musica, e che non era compresa nella forma strofica. È un’indicazione di metodo che potrebbe già introdurre a molti dei Georgelieder di Schönberg.

A questo punto, che spazio trovare per Mahler? Se la musica dice quello che la parola non può dire, vale anche il rapporto inverso. Se il bisogno di esprimersi musicalmente comincia là dove abitano le “emozioni oscure”, “al limitare dell’altro mondo, il mondo in cui le cose non sono separate da tempo e spazio” (sono parole di Mahler stesso), ciò avviene perché musica e parola gli appaiono linguaggi irriducibilmente diversi. Come Mahler scrisse in una lettera a Max Marschalk:

In quanto a me so che non posso far musica fintanto che la mia esperienza si può raccogliere in parole (...) Come trovo volgare inventare musica su programmi prestabiliti, così considero insoddisfacente e sterile voler dare un programma a un’opera musicale (...). Anche io mi sono cosruito un “sistema” e su di esso ho lavorato; ma dopo aver scritto alcune sinfonie, con autentiche doglie, e dopo essermi imbattuto sempre negli stessi malintesi e negli stessi problemi, finalmente per quel che mi riguarda, ho raggiunto questa visione delle cose.39

Non c’è possibilità che un linguaggo si faccia mediatore dell’altro: né la parola può essere

assoggettata al dominio della musica, né la musica a quello della parola. La materialità dei linguaggi non può essere superata ma soltanto lavorata. La composizione continua da cima a fondo, quel Durchkomponieren che irritava Goethe ma che circolava anche tra i compositori più indipendenti della sua cerchia (Bortolotto fa il nome di Zumsteeg), a questo punto è l’unica organizzazione formale per il Lied mahleriano.

La complementarietà cui Mahler arriva nel fondere, pur distinguendo rigorosamente, parola e musica, nota e fonema, è tanto alta da far pensare ch’egli sia riuscito a realizzare ciò che per Wolf fu sogno e tragedia: il ricupero musicale del senso profondo della parola poetica per sempre ancorata all’uso quotidiano, un recupero musicale che nell’universo del suono le avrebbe dato l’unica possibile base ontologica. Ed egli in effetti sembra aver vinto proprio dove Wolf fu sconfitto, percorrendo la via opposta: quella della rinuncia a credere a tutto ciò che non sia puro e semplice fenomeno.40

“Imparare a vedere gli abissi lì dove sono dei luoghi comuni”,41 la massima di Webern che

Cacciari pone a commento dell’intera opera mahleriana, può chiarire come nell’universo mahleriano ogni linguaggio abbia diritto di cittadinanza, e sia caduta ogni distinzione tra arte

39 Gustav Mahler, cit. in Ugo Duse, Gustav Mahler, Torino, Einaudi, 1973, p. 178. 40 U. Duse, op. cit., pp. 128-129. 41 Anton Webern, Verso la nuova musica, Milano, Bompiani, 1963, p. 21.

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altomimetica e bassomimetica. Questa coscienza non dà luogo all’occasionalità dei linguaggi vissuti, ma alla chiarificazione delle forme che la percezione e memoria potranno assumervi.

Non: da una parte “linguaggi” (memoria-percezione “individuo”), dall’altra la musica “profonda”, la verità nascosta dietro il velo di Sais. Non: da una parte il “sensibile” il “mondano”, dove la forma può a volte solo tradirsi, dall’altra la riduzione logco-linguistica alla purezza a priori di questa Forma, nelle sue strutture necessarie, nelle sue Leggi. Ma Vissuto e Forma come ormai indissociabili: il linguaggio come unicamente questo liguaggio, e la forma come sua proprietà, che la composizone deve rivelare, dimostrare e comunicare comprensibilmente.42

Nei Fünf Lieder e nei Kindertotenlieder, entrambi su testi di Friedrich Rückert, Mahler tratta

il testo in maniera ancora più radicale di Wolf, ne distrugge completamente la forma strofica, addita e addensa il significato nei luoghi che in forza della musica divengono decisivi, ed è questo il Mahler che più di ogni altro sarà modello a Schönberg, ma le sue radici stanno nelle opere precedenti, in quegli “anni del Wunderhorn” il cui corpus di sinfonie e Lieder costituisce il risultato del ripensamento di Mahler stesso sul suo retroterra culturale e umano. Mahler è un continuatore della concezione herderiana secondo la quale la musica è una disciplina filosofica.43 La musica è quindi uno strumento di conoscenza, e se deve ricorrere alla “parola che chiarifica” ciò avviene, come si è visto, quando il contenuto affidato alla parola è realmente intraducibile in musica. Ma che questa parola sia quella di un ciclo di canti popolari, quel Des Knaben Wunderhorn raccolto da Achim von Arnim e Clemens Brentano, significa che le parole che possono chiarificare la musica sono solo quelle in cui l’oggetto che assumono è lo stesso soggetto che le compone. Se, come dice Schopenhauer proprio prendendo in esame il Wunderhorn, nell’epica rappresentante e rappresentato coincidono, ecco che qui il rappresentato è un’intera cultura, il che rende possibile a Mahler il trattare l’oggettività delle sue rappresentazioni, il concepirle come parola chiarificatrice appunto perché sono epica e non lirica, non più lirica romantica.

Egli pone questi Lieder sulle labbra di altri rispetto al processo compositivo, ed essi non cantano di se stessi, ma raccontano, sono una lirica epica al pari dei canti infantili (...) In questo nella storia del Lied tedesco da Schubert fino a Schönberg e a Webern egli è un outsider.44

Mahler non ha bisogno di scavare il “senso nascosto” di questa parola, perché non può

ammetterne ambiguità o ambivalenze romantiche. E questo che lo porta a musicare testi suoi o a intervenire sui testi che mette in musica – e i suoi interventi sono sempre, come scrive Duse, “nella direzione di un preciso contenuto ideologico, di una puntuale chiarificazione della morale che vi è implicita”:

Comunque si considerino questi interventi sui testi, è chiaro che Mahler non ha bisogno della parola per sostenere la sua musica ma ricorre alla musica perché quelle sono parole sue e quelle parole vuole che gli altri intendano, e gli altri dicano come egli stesso è, quello che è, ma lo dicano nell’unica forma artistica nella quale egli può dire parole che si facciano ascoltare. Perciò le riveste di musica.45

Le sue sinfonie quindi abbondano di temi liederistici, popolari, perfino diatonici e modali

perché sono essi che danno “razionalità” alla composizione. A Mahler è totalmente estranea quella tendenza, che Duse vede nei Lieder di Brahms, a “interiorizzare il passaggio, a trasfomare in idea la vita, a simbolizzare ogni cosa, ad evitare accuratamente ciò che contrassegna” – tendenza che porta all’annichilimento del Lied. In Mahler, se la musica vuol farsi ragione dovrà farsi canto, o suono di

42 M. Cacciari, Krisis. Saggio sul pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 117. 43 U. Duse, Gustav Mahler. Musica come concezione del mondo, in AA.VV., La musica moderna, cit., pp. 49-60. 44 Th. W. Adorno, Wagner Mahler, Torino, Einaudi, 1966, p. 206. 45 U. Duse, Gustav Mahler, cit., p. 89.

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natura, fenomeno, ma questo non incrina il rapporto paritetico che, senza alcun a priori, deve essere installato tra i diversi elementi del Durchkomponieren, poiché per Mahler la “ragione” non è affatto al culmine del processo della conoscenza. Che la musica si faccia natura non è affatto il termine del processo o il télos infinito. Avrebbe forse voluto esserlo: ma dalla Terza Sinfonia che vuole ancora essere suono di natura, alla Settima, in cui qualunque possibile colore di “autenticità”, qualunque “suono di natura” è rovesciato nel sarcasmo, si è operata una trasformazione radicale: il panteismo anti-estatico di Mahler si è risolto nell’anti-naturalismo proprio perché ha descritto fino in fondo la natura, e ha constatato come essa ormai sia recuperabile solo all’interno del linguaggio che l’ha descritta, e che non può più suscitare alcun “sentimento”. E il 1907, anno della Settima, è anche l’anno della Kammersymphonie op. 9 di Schönberg. IV. E Schönberg, al quale ormai possiamo ritornare, poiché il rapporto che ha con Mahler costituisce la svolta della sua maturazione (di cui il primo frutto è l’abbandono di Richard Strauss e di tutto ciò che Strauss comportava), interpreta Mahler alla luce di Schopenhauer.46 All’accusa di sentimentalismo rivolta a Mahler bisogna rispondere con la distinzione schopenhaueriana tra sentimento e vero dolore. Il primo si lamenta e si dispera fino a smarrire “terra e cielo assieme”, ma il secondo sa elevarsi fino alla rassegnazione:

E come s’innalza alla rassegnazione Mahler! Qui sono forse smarriti “terra e cielo assieme”, o non vi è piuttosto rappresentata, per la prima volta, una terra su cui merita di vivere, e non vi è forse glorificato un paradiso per il quale ancora di più merita di vivere? Pensate alla Sesta Sinfonia, allo spaventoso tumulto del primo movimento. Ma, subito dopo, il lacerante singhiozzo si trasforma spontaneamente nel suo contrario, nel celestiale passaggio dei campanacci il cui freddo, glaciale conforto proviene da un’altezza raggiungibile soltanto da chi si è elevato nella rassegnazione: solo chi comprende il mormorio delle voci celesti prive di ogni calore animale, può udire questa musica.47

Schönberg commenta una lettera in cui Mahler spiega alla moglie come intende la scena

finale del Faust: tutto ciò che passa non è che somiglianza, la quale, una volta liberata dalla corporeità terrena, diventerà reale: “Te lo posso dire di nuovo attraverso un paragone: l’Eterno Femminino ci ha portato in alto”. E conclude Schönberg:

Questa è una via giusta! Non già con la ragione, ma con il sentimento di vivere già lassù. Chi guarda alla terra in questo modo, non ci vive più: è già stato portato in alto.48

L’evoluzione di Mahler musicista si presenta “come un’ascesa continua” aggiunge

Schönberg. O meglio, come un’ascesi, disperata e solitaria, certo, ma anche sottilmente felice, là dove si proibisce ogni malinconia, ogni decadenza, ogni sentimentalismo, e si dispiega invece in tutta la sua potenza di principio d’organizzazione esistenziale e formale. Perché questa rassegnazione, prima ancora di essere schopenhaueriana, è goethiana e beethoveniana: “Rinunciare tu devi, rinunciare tu devi, questa è l’eterna canzone”, così Goethe. “Rassegnazione, rassegnazione, la più profonda al tuo destino (...) Oh Dio, dammi la forza di vincermi. Niente più deve legarmi alla vita”. Così Beethoven, nel testamento di Heiligenstadt.49 Dall’entbehren di Goethe all’Ergebenheit di Beethoven, prima dell’Entsagung di Schöpenhauer, la rinuncia è il necessario punto di partenza

46 “Ma non posso neanche passare sotto silenzio che, da quando ho compreso Mahler nel mio intimo non più potuto accettare Strauss (e non capisco come potrebbe essere altrimenti)”. A. S., Lettera a destinatario ignoto del 22 aprile 1914 in Lettere, Firenze, La Nuova Italia, 1969, pp. 45-46. 47 A.S., Gustav Mahler, in Stile e idea, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 27 (il saggio è del 1912). 48 Idem, p. 40. 49 L. Magnani, op. cit., p. 11.

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per giungere a dominare il demone, per non farsi catturare dagli oggetti del mondo a smarrirsi in essi. Non amare la vita per possederla, per dominarla. Per Mahler e Schönberg rassegnazione significherà, immediatamente assoluta intransigenza: se la sentimentalità tende a confondersi col suo oggetto e ne avverte la mancanza come un vuoto che porta a vacillare la sua organizzazione formale, i limiti del suo linguaggio (i sentimenti dipingono a grandi spatolate, dice Schönberg), invece

... l’Entsagung che qui si manifesta “tien duro” alla differenza e alle contraddizioni disperatamente apparse nello sviluppo del linguaggio musicale.50

Allo stesso modo, non è con il linguaggio della ragione che questi contenuti possono essere

elaborati, appunto perché la ragione non è tutto, non è tutto il linguaggio e non è l’esaurimento del rapporto con il reale. “Ma a riversarsi nella musica è sempre il tutto, sentimento, pensiero, respiro, sofferenza umana”.51 Così Mahler. E Schönberg esemplifica: mentre ascoltava per la prima volta la Seconda Sinfonia fu preso da un violento eccitamento fisico che, a concerto finito, cercò di negare a se stesso, rconducendo la musica ascoltata ai metri di giudizio da lui posseduti in qualità di musicista. Ma poi si accorse che così trascurava “il fatto più importante”, cioè proprio quell’“impressione straordinaria” che dall’autore era riuscita a trasferirsi allo spettatore. Né sarebbe valso ribattere, con obiezione tipica dell’intelletto, che esistono molti modi, e non tutti “artistici”, di provocare emozioni. In musica non c’è mai

... un fatto capace di avvincere in se stesso, perché la sua materia è puramente musicale (...) quando l’alternarsi di suoni alti e bassi, di ritmi veloci e lenti, di sonorità intense e lievi, ci parla della cosa più irreale che esista – solo allora siamo trascinati alla più intensa partecipazione.52

In altre parole, attraverso la musica non si dà falsa coscienza perché, nel momento in cui

essa si trasmettesse, lo farebbe con i mezzi extra-musicali. Trascurando il circolo vizioso a cui conducono affermazioni come queste, ci interessa piuttosto richiamare l’attenzione sul riferimento all’intelletto, che può rendere praticabile una nuova strada per comprendere questa critica della ragione musicale. Perché è proprio a Kant che ci si può rifare, sebbene di passaggio, per capire che la razionalità che la parola porta in dono alla musica è, sia per Mahler che per Schönberg, tutt’altro che la soluzione al problema dell’organizzazione formale.53 Mahler era solito dire che la ragione sbaglia ma il sentimento (non il sentimentalismo) no. E leggeva Kant negli stessi anni in cui componeva il Des Knaben Wunderhorn. A Mahler tutto questo serve per concludere che davanti al disfacimento della cultura romantica le uniche soluzioni potevano venire dalla fantasia e dalla fede che erano però (e va notato), quelle degli oppressi, del popolo schiacciato dalla guerra dei cent’anni,54 mentre a Schönberg, ancora nel pieno vigore della sua “prima maturità”, serve per sostenere che “... esistono indizi, che inducono a supporre come perfino le altre arti, apparentemente più legate al contenuto, tendono a superare la fede dell’onnipotenza dell’intelletto e della coscienza”.55

50 M. Cacciari, op. cit., p. 122. 51 G. Mahler, cit., in A. S. Gustav Mahler, cit., p. 38. 52 Ibidem, pp 19-20. 53 “D’altra parte il testo è molto adatto a determinare l’articolazione formale di un pezzo” (A. S., Discussione alla radio di Berlino con il dottor Preussner e il dottor Strobel, in Analisi e pratica musicale, Torino, Einaudi, 1974, p. 135). È una funzione del testo, non è la forma della musica. Ma sulle importanti questioni che la forma del testo solleva il discorso verrà ripreso nel quarto capitolo. 54 U. Duse, art. cit., idem. 55 A.S., Il rapporto col testo, cit., p. 397. Questa frase non compare più nell’edizione americana, e non è certamente un caso.

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… e quando Karl Kraus chiama la lingua “madre del pensiero”, e Vasilj Kandinskij e Oskar Kokoschka dipingono quadri, per i quali l’oggetto che ne forma il contenuto esteriore non è più altro che un’occasione per fantasticare con colori e forme e per esprimersi in un modo nel quale finora si esprime soltanto il musicista, ci troviamo di fronte a sintomi di un riconoscimento della vera natura dell’arte che si va a poco a poco diffondendo.56

Questa “vera natura” è l’opera d’arte come organismo perfetto (volkommen Organismus).

Era stato possibile musicare dei Lieder lasciandosi prendere dalla suggestione delle prime parole perché la vera opera d’arte

... è così omogenea nella sua composizione, che in ogni minimo particolare rivela la sua essenza più vera e più intima. Se si punge una parte qualsiasi del corpo umano, accade sempre lo stesso fenomeno: esce il sangue. Quando si ascolta un verso di una poesia, una battuta di un pezzo musicale, si è subito in grado di afferrare l’intera composizione.57

La gnoseologia schönberghiana ha come primo gradino la totalità. La prima percezione che

si ha dell’opera d’arte, sia essa in fieri (per l’artista) o già fatta (per l’esperto: Schönberg qui non contempla altri tipi di fruitori), è quella della sua assoluta unità. Quanto al lavoro intellettuale, esso non viene affatto escluso, ma trova il suo spazio solo successivamente. Il passaggio dalla totalità ai particolari è un giro vizioso (Umweg) ma finalizzato al momento della concezione:

Senza dubbio queste impressioni si rivolgono all’intelletto per lo più in un secondo tempo, e richiedono che esso lo adatti all’uso corrente, che le analizzi e le raggruppi, le misuri e le verifichi, che risolva in particolari ciò che si possiede in totalità.58

Una volta che l’opera d’arte sia compiuta, essa è perfettamente compatta, perfettamente

comprensibile, e tanto più lo sarà se l’artista non si sarà sforzato di renderla tale:

L’opera d’arte è un labirinto, in ogni punto nel quale l’esperto sa trovare l’entrata e l’uscita senza essere guidato da un filo rosso. (...) Le vie sbagliate (...) gli indicano la direzione giusta, ed ogni divergente mutamento di cammino lo pone in rapporto con la direzione del contenuto essenziale. Tanto completamente permeata di senso è la più grande creazione di Dio: l’opera d’arte, prodotta dall’uomo.59

E così risulta chiaro che nessun linguaggio parziale può prendersi carico dell’intero

significato, nessun linguaggio può spiegarne un altro. “Scrivere di un autore che le sue composizioni non aderiscono alle parole del poeta è quindi eludere comodamente il dilemma”.60 Non c’è nessun parallelismo assoluto, nessuna normativa che obblighi il musicista a far corrispondere a “... determinati fatti della creazione poetica (...) una certa intensità sonora e una certa velocità della musica”.61 Chi volesse in tal modo indirizzare l’ascolto, chi pretendesse di additare il luogo del significato, isolato come una cittadella all’interno dell’opera d’arte—la corrispondenza, l’affinità elettiva concepita come a priori—si condannerebbe da solo all’angoscia dell’“errore di calcolo”, all’affanno di chi concepisce l’opera non come un’idea ma come costruita intorno a un’idea.

Solo per breve tempo l’imitazione può trarre in inganno l’esperto: ben presto egli nota che il labirinto è segnato, scorge l’intenzione che presume di rendere affascinante il fine, nascondendolo

56 Ibidem. 57 Ibidem. 58 Idem, pp. 396-397. 59 A.S. Aforismi… cit., p. 382, corsivo nostro. 60 A.S., Il rapporto col testo, cit., p. 395. 61 Idem, p. 396.

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goffamente; comprende che essa vorrebbe giocare a rimpiattino, ma teme di non essere trovata (cosa alla quale non potrebbe sopravvivere) e maschera la chiarezza fornita dagli indicatori del cammino, rivelandola un espediente di una scaltrezza da contadini.62

Proprio per questo Schönberg rifiuta Strauss: ciò che Mahler non ha timore di far vedere,

Strauss lo nasconde, lo cela sotto un intreccio sontuoso al fine di rendere il suo pubblico impaziente dell’attimo della scoperta.63 Ma la musica non è un paravento dietro al quale si celi il contenuto: è questo ciò a cui ci si deve rassegnare, è questo a cui deve imporre la più rigida autodisciplina. La liberazione dal contenuto sarà perciò ascesi, e la rinuncia al “filo rosso” del significato verrà a coincidere con l’intransigenza formale.

Il significato della musica è la composizione musicale stessa, la sua forma puramente musicale. Questa forma è un organismo completo e perfetto: come tale, essa va svolta, articolata, resa coerente e comprensibile, non appellandosi a significati che le sono estranei. La poesia di George è rarefatta al “suono”; i contenuti dei Lieder di Schubert, il loro contenuto vero, è il linguaggio musicale che li esprime.64

Tra musica e testo c’è anche un accordo esteriore, fatto di declamazione, ritmo, intensità

sonora, cioè quello a cui si fermano i ricercatori del “filo rosso” per stabilire se il “sentimento” della parola sia stato “espresso” dalla composizione. Oltre al fatto che questo parallelismo può aver luogo “... anche quando all’esterno si manifesta apparentemente il contrario (come quando, per esempio, un sentimento delicato è reso da un tema rapido e vivace...)”.65 Ciò che importa a Schönberg è stabilire che questo accordo esteriore

... ha ben poco a che fare con l’accordo interiore ed è sullo stesso piano dell’imitazione primitiva della natura, come la copia di un modello e che un apparente divergere in superficie può essere necessario in vista di un parallelismo su un piano più alto.66

Si badi: è ancora un parallelismo (Parallelgehen), non una sintesi. I linguaggi restano

indipendenti. Individualmente essi possono ricadere sotto l’analisi dell’intelletto, sotto un dominio della ragione. Ma l’Organismus della composizione richiede uno sguardo, una capacità di movimento, una comprensione allargata, fisica e mentale, fisiologica e intellettuale insieme. Ciò che è caduto è la supremazia di uno dei rapporti semantici, il privilegio del dualismo, lo schema modello e copia: “Eppure questo processo è contrario a ogni razionalismo. Irrazionale è la credenza nel rapporto di riflessione soggetto-oggetto – irrazionale è il tendere in-finito all’utopia della sintesi”.67

Così Cacciari, che tira le fila della sua tesi. Si può però aggiungere, in modo più pertinente al discorso che si è fatto, che irrazionalismo è credere che la ragione possa risolvere le antinomie tra parola e significato (Wolf), tra Dio e mondo (Mahler), tra linguaggio ed espressione (Schönberg).

62 A.S., Aforismi …, ibidem. 63 È “la banalità dei Gesangsthemen” [come si dice nella lettera qui cit. a nota 46] che svela l’arretratezza dei punti di vista di Strauss, nascondendosi dietro l’“eroicità” e la “liricità”. Per la definizione di Gesangsthema si confronti A. S., Elementi di composizione musicale, Milano, Suvini Zerboni, 1969, pp. 190-191: “Sotto l’influsso di Schubert i teorici incominciarono a chiamare il secondo tema Gesangsthema, o “tema cantabile”, “lirico”. Ciò fu un errore, poiché vi sono molti temi secondari che non sono affatto lirici. Ma questa nomenclatura ha avuto una strana influenza sulla mente dei compositori, suggerendo la creazione di melodie liriche sempre più lunghe. Il carattere lirico o cantabile è il risultato di un’elasticità di struttura intimamente legata a quella della musica popolare. La “elasticità” consiste nel non tener conto di quasi nessuno degli elementi tipici ad eccezione di quelli ritmici, trascurando così le implicazioni più profonde e realizzando la ricchezza di contenuto musicale mediante moltiplicazione dei temi”. 64 M. Cacciari, op. cit., p. 151. 65 A.S., Il rapporto col testo…, cit., p. 396. 66 Idem, p. 397. 67 M. Cacciari, ibidem.

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Ma lo spazio che da un lato si stende da Kant a Schopenhauer e dall’altro tra Mahler a Schönberg non è vuoto. E quando Schönberg difende nella musica l’unità significante che essa crea solamente nel suo “alternarsi di suoni alti e bassi, di ritmi veloci e lenti, di sonorità intense e lievi” non si può non ricordare che anche Hanslick ha detto cose molto simili. Benchè nessuno più di Schönberg sia lontano dal formalismo e dalle sue metafisiche, è proprio intorno al nodo teorico che Hanslick e Wagner intrecciano dal 1850 al 1870 che molti problemi posti da Das Verhältnis zum Text potranno apparire in una luce più chiara. Ma nemmeno così il quadro si completerebbe. Occorrerà il raffronto puntuale con la tesi che, sullo stesso argomento, Nietzsche andava elaborando proprio intorno al 1870, anche se appare evidente come le mediazioni per arrivare a Nietzsche non siano poche, dal momento che un possibile rapporto Nietzsche-Schönberg non è ricavabile da dati storici, ma può essere posto solo come ipotesi di indagine culturale.

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Capitolo II

Il rapporto musica-testo all’interno della specificità del pensiero musicale

I. Das Verhältnis zum Text inizia lapidariamente ponendo una distanza, che è culturale e parrebbe perfino professionale, tra il vero esperto di musica e colui che ha bisogno di un aiuto di qualche tipo per avvicinarsi ad essa: “Poche sono, relativamente, le persone in grado di comprendere in modo puramente musicale (rein musikalisch zu verstehen) ciò che la musica ha da dire”.68 In quanto slegata da un contenuto letterale, l’espressione musicale vine definita “immediata, imperturbata e pura”,69 e si aggiunge che

... se questa capacità di visione pura è rarissima ed è riscontrabile solo in personalità eminenti, si comprenderà come certe difficoltà accidentali, che ostacolano la via del godimento musicale, pongono in una situazione imbarazzante quelli che, fra tutti gli amici dell’arte, assumono il punto di vista più banale.70

Simili affermazioni tornano periodicamente in molti scritti di Schönberg. Il senso di

solitudine orgogliosa che nasce dalla coscienza di essere depositari e custodi di un’immensa tradizione pervade ogni attività della Scuola di Vienna. Non sarebbe quindi difficile, volendo, raccogliere una rosa di citazioni che testimonierebbero di un atteggiamento piuttosto elitario e perfino scostante (più di Schönberg che della sua cerchia, però), nei confronti del pubblico. Si va così dal celebre “se è arte non è per tutti e se è per tutti non è arte”,71 ad espressioni ancora più sarcastiche e sconsolate:

La seconda questione preliminare è il riguardo dovuto all’ascoltatore. Ignoro questo riguardo, allo stesso modo di come l’ascolatore lo ignora nei miei confronti. Io so soltanto che l’ascoltatore è presente e che ciò mi disturba, anche se per motivi acustici non posso rinunziarvi (nela sala vuota infatti non c’è risonanza). In ogni caso l’ascoltatore, a cui la mia opera o una parte di essa sembrasse superflua, può sfruttare la sua situazione privilegiata e rinunciare a me in toto.72

Il tono di molte altre lettere, degli Aforismi e di numerosi aneddoti non fa che rafforzare

questa impressione,73 e si può capire Fubini quando, dopo aver ricordato che il Rapporto col testo sembra inclinare verso un rigoroso formalismo, aggiunge che

68 A.S, Il rapporto col testo, cit., p. 394. 69 Idem, p. 395. 70 Nell’edizione americana del 1950 la frase appare così: “La pura percezione è dote molto rara, e si trova solo in individui di grande levatura. Si spiega così come mai persino chi è giudice di professione, si trovi imbarazzato di fronte a certe difficoltà” (A.S., Stile e idea, cit., p. 9). 71 “Nessun artista, nessun poeta, nessun filosofo e nessun musicista il cui pensiero si libri nelle sfere più elevate, cadrebbe nella volgarità soltanto per conformarsi ad uno slogan come quello dell’arte per tutti. Perché se è arte non è per tutti, e se è per tutti non è arte” (A.S., Stile e idea, cit., p. 55). 72 A.S., Lettera ad Alexander von Zemlinsky del 23 marzo 1918, in Lettere, Firenze, La Nuova Italia, p. 49-50. 73 Nel suo bellissimo scritto su Schönberg, John Cage lascia osservazioni impressioni per comprendere questo lato della personalità del suo maestro (le parole in corsivo sono parole di Schönberg): “... io .... provo soltanto disprezzo per chiunque trovi la minima pecca in qualunque cosa io pubblichi. Un solo Dio (...) Aggressività. Era uno che si era fatto aristocratico da sé (...) Quando prese la cittadinanza americana non abbandonò la sua ripugnanza per la democrazia e

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... ci si accorge ben presto che questo atteggiamento si traduce in realtà in una concezione aristocratica della musica e dell’arte (...) Questo senso dell’aristocrazia e della vocazione artistica domina in tutti i suoi scritti (...), e insieme al concetto del valore profetico del messaggio artistico dà al suo pensiero un’inevitabile venatura romantico-espressionista, che non scompare neppure nei suoi scritti più tardi, molto lontana da quell’apparente formalismo cui egli sembrava propendere.74

Ma, ad osservare attentamente, le cose appaiono più sfumate. In un’intervista rilasciata il 10

gennaio del 1909, Schönberg sembra assumere posizioni più concilianti:

D. Crede che il pubblico sia in grado di seguire questa evoluzione? Io penso che la grande massa fiirà col restare sempre legata a certe forme musicali. R. Credo che il livello medio dell’educazione dovrà elevarsi notevolmente, ovvero che l’artista diventerà di nuovo ciò che era una volta, e cioè una faccenda riservata a una élite delle persone più colte del tempo. Ma sinceramente mi auguro il contrario.75

Qui Schönberg sembra auspicare l’avvento di una “élite di massa”. In ogni caso non è

difficile avvedersi che l’aristocrazia da lui propugnata ha caratteristiche tutte particolari. È noto che Schönberg accolse con sospetto e un certo fastidio alcuni brevi periodi di successo che gli toccarono. L’accostamento al linguaggio musicale da parte dei non competenti (o meglio dei non “portati”) doveva essere un processo graduale, lento e senza bruschi salti (mentre l’artista, come si è già visto, afferra immediatamente la totalità della forma). Per questo Schönberg non poteva ammettere che una musica fino allora negletta trovasse d’un tratto le masse concordi. Poiché il cambiamento era stato repentino, esso doveva essere avvenuto per cause extramusicali, legate alla contingenza storico-esistenziale del pubblico, e non per un’avvenuta comprensione. E non era questo il successo che poteva interessarlo. In un breve scritto del 1930 Schönberg ripercorre il periodo di interesse dimostrato verso di lui alla fine della guerra, attribuendo a “... quelle poche centinaia di giovani che, non sapendo a che santo votarsi, si adoperarono per documentare una mentalità che si riconoscesse in tutto ciò che non è di facile avvicinamento”.76

Quando questa tendenza raggiunse la musica, “gli ottimisti”, aggiunge Schönberg, affermarono che lui ormai aveva un pubblico.

Io contestai questa affermazione, poiché non comprendevo come si potesse capire la mia musica dalla sera alla mattina senza che quello che avevo scritto fosse nel frattempo diventato banale e più insipido. Il rapido declino di questi radicali che continuavano a non sapere a che santo votarsi ma sapevano benissimo giudicare gli altri, mi ha dato ragione: la mia musica non era mai stata insipida.77

Ma Schönberg non era affatto ostile al successo e alla popolarità, a patto che queste fossero,

per così dire, “musicali”. Un messaggio extramusicale passibile di larga diffusione, ad esempio il tutta quella roba lì. (...) I suoi allievi non lo giudicavano arrogante quando diceva, e lo diceva spesso: “Con questo materiale Bach ha fatto così così; Beethoven, così e così; Schönberg, così e così” (…) Le lettere di Schönberg rivelano una fiducia in se stesso quasi assoluta: qualcosa che aveva posseduto molto precocemente. Pensando a Lippold e a Stockhausen, si ricade subito al comune denominatore: Germania. Ma Schönberg era austriaco, e non era ariano”. John Cage, Silenzio, Milano, Feltrinelli, 1971, pp. 58-62. 74 E. Fubini, L’estetica musicale dal Settecento ad oggi, cit., pp. 127-128. 75 A.S., Intervista con Paul Wilhelm, in Analisi e pratica musicale, Torino, Einaudi, 1974, pp. 4-5. 76 A.S., Il mio pubblico, in Analisi…, cit., p. 99. Si confronti anche con il seguente passo: “Ma appena la guerra finì, venne un’altra ondata che mi procurò una popolarità mai più superata in seguito. Le mie composizioni erano eseguite dovunque e acclamate in modo tale che cominciai a dubitare del valore della mia musica. Perdonatemi questo scherzo, ma indubbiamente in esso c’è qualcosa di vero: se prima la mia musica era difficile da capire a causa della pecularietà delle mie idee e del modo in cui le esprimevo, come poteva avvenire che ora improvvisamente tutti potevano capirle e apprezzarle? O la musica o gli ascoltatori erano privi di valore” (A.S., Come si resta soli, in Analisi…, cit., p. 212). 77 Ibidem.

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tronfo dell’amore sulla moda (tema che vantava nobili ascendenti in Beethoven e Wagner) avrebbe dovuto aiutare la comprensione di Von Heute auf Morgen, l’opera con la quale Schönberg sperava di rendere popolare la dodecafonia, ma solo in quanto questo messaggio restasse saldamente legato alle ragioni della logica musicale più avanzata. Il rapporto di comprensione reciproca tra artista e massa poteva venire a mediazioni solo riguardo al contenuto visibile, con un’operazione di trasferimento nella vita quotidiana di tematiche il cui luogo di sviluppo era sempre speculativo o etico. Nello scritto appena citato, (1930), Schönberg parla con compiacimento dichiarato dei suoi casuali incontri con un sarto, un portiere, un autista, un’inserviente e un addetto all’ascensore che dichiararono di essere ammiratori della sua musica.78 E il 1930 è appunto l’anno in cui Von Heute auf Morgen viene presentata, anche per quel pubblico. Il successo che Schönberg si aspettava avrebbe dovuto così essere sia musicale che di contenuto. L’artista separato vuole che il lavoratore inserito in un altro ramo della divisione del lavoro riconosca la sua separatezza, e cioè il suo diritto a esprimersi in un linguaggio specializzato. Ma il riconoscimento dovrebbe avvenire al di fuori della divisione del lavoro stesso, in una zona neutra dove il rapporto non si istituisce certo tra musicista e lift-boy, bensì tra spirito e spirito. Quello che infatti ha di particolare l’aristocrazia di Schönberg è che essa non vuole sottomettersi a connotati di classe. Davanti alla musica le differenze sociali devono scomparire e nessuna classe, nessuna professione ha più diritto di un’altra a comprenderla (e meno che mai, come si vedrà, la corporazione della critica). Ma come creatore Schönberg sconta l’ingenuità del protagonista della sua Glückliche Hand: si rifiuta di ammettere la divisione del lavoro e si volta davanti agli uomini vestiti con tute di operaio:

L’ingenuità oggettiva di questi avvenimenti è semplicemente quella dell’uomo che “non vede” gli operai. Egli è alieno dal reale processo produttivo della società, e non è più in grado di riconoscere la connessione tra lavoro e forma dell’economia: il fenomeno del lavoro gli appare assoluto.79

Ma se nella finzione scenica il suo voltarsi li fa scomparire, nella realtà il tentativo di

collegare allo spirito del tempo una tematica sentita come sovratemporale lascia inalterata ogni partizione dei ruoli. Il fatto che proprio da Von Heute auf Morgen, opera in cui la severità della partitura sta come una testa da gigante sul debole pretesto scenico, Schönberg si aspettasse il successo, la dice lunga sull’irriducibile naïveté di tutta la scuola di Vienna.

La coscienza letteraria e teorica di Schönberg è molto indietro rispetto al contenuto profondamente critico della sua musica. Non solo nel suo patrimonio associativo di idee si potrebbero agevolmente individuare tratti piccolo borghesi, ma il terminus ad quem di questa musica, il suo ideale era tradizionalistico, legato alla fede borghese nella autorità e nella cultura (...) E lo stesso Webern obbediva al concetto tradizionale, affermativo della musica: e ciò che nella sua produzione si scosta recisamente dalla cultura borghese era profondamente celato a quella stessa; allo stesso modo Schönberg non riusciva a capire come mai la sua opera comica Von Heute auf Morgen non fosse diventata un successo di cassetta.80

Eppure questa assoluta fiducia in un’arte che si fa e si comunica in un modo che è mezzo

artigianale e mezzo profetico costituisce la base sulla quale si sviluppa una delle più feconde contraddizioni della scuola. Proprio la convinzione che la comprensione del linguaggio musicale è 78 Si ricordi che intorno al 1895 Schönberg aveva avuto contatti con il movimento socialista ed era stato direttore di un coro operaio. Su questo periodo della sua vita cfr. Albrecht Dümling, Im Zeichen der Erkenntnis der sozialen Verhältnisse. Der junge Schönberggund die Arbeitersängerbewegung, “Zeitschrift für Musiktheorie”, Stuttgart, Ichthys Verlag, n. 1, 1975. Poco prima della morte, Schönberg ricordò quei tempi: “A quell’epoca, quando la socialdemocrazia lottava per l’estensione del diritto al voto, avevo forte simpatia per alcune delle sue finalità. Ma prima dei 25 anni avevo già scoperto la differenza che c’è tra me e un operaio: avevo scoperto di essere un borghese, e abbandonai tutti i contatti politici. Ero troppo occupato con il mio sviluppo di compositore...” (A.S., cit. in Giacomo Manzoni, Arnold Schönberg, L’uomo, l’opera, i testi musicati, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 15). 79 Theodor W. Adorno, Filosofia della musica moderna, Torino, Einaudi, 1959, p. 82. 80 Th. W. Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, Torino, Einaudi, 1971, p. 82.

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una “grazia” riservata a pochi, ma che niente e nessuno può stabilire a priori chi siano questi pochi, permette a Schönberg di essere un aristocratico piccolo borghese in politica e di essere estremamente avanzato nella pedagogia. Un saldissimo legame corre dalla frase di apertura della Harmonielehre (“Questo libro l’ho imparato dai miei allievi”) fino alle pagine finali in cui Schönberg si rifiuta di dare valutazioni o istituire normative sull’armonia che esca dai confini classici della tonalità, confidando che l’allievo dotato saprà trovare da solo la via. L’insegnamento non aveva altro scopo che portarlo fino al punto in cui poteva essere lasciato libero in quanto

... l’artista deve imparare perché non tutti devono incominciare daccapo e sperimentare di persona tutti gli errori che accompagnano il cammino del sapere umano: fino a un certo punto ci si può e ci si deve affidare all’esperienza dei predecessori.81

Quello che avviene dopo è lasciato alla responsabilità dell’allievo: il dialogo si conclude

lasciando a lui l’ultima parola. In questa concezione della scuola come atelier, come laboratorio, ma anche come massimo livello dell’azione etica, non c’è solo il ricordo di una tradizione, non importa quanto reale e quanto mimetizzata, o di una trasmissione del sapere che avviene quasi per selezione naturale, dove l’eletto è fatalmente destinato a incontrare il suo maestro (come c’è la prefigurazione di una prassi scolastica vigorosamente anti-accademica): il principio del dialogo che sta alla base della pedagogia schönberghiana si apparenta per vie neanche tanto traverse a un filone sotterraneo della cultura ebraica che a Vienna, negli stessi anni in cui vede la luce la Harmonielehre, emerge nell’opera di Martin Buber. II. Intorno al 1900 abitavano a Vienna circa 150.000 ebrei, di ascendenza cittadina o immigrati a partire dal 1840 (tra questi gli Schönberg). Nonostante un certo antisemitismo diffuso, l’integrazione avveniva ancora senza troppe scosse. La situazione si aggravò dopo il 1905, quando masse di ebrei poveri si trasferirono nell’Europa Occidentale per sfuggire ai pogrom della Russia zarista. Nel 1910 gli ebrei viennesi erano ormai 176.000, cioè l’8% della popolazione, e il problema dell’assimilazione si fece scottante perché i nuovi arrivati avevano poco da spartire con i costumi degli ebrei viennesi, e portavano con sé la tradizione di frugalità, intransigenza e misticismo anti-razionalista e anti-illuminista del chassidismo orientale.82 È intorno al 1906-1908 che la cultura chassidica trova cittadinanza viennese nell’opera letteraria di Buber, poco più giovane di Hofmannstahl e Rilke e influenzato da Dilthey, Bergson e Nietzsche.83 E uno dei principi base del chassidismo è proprio il dialogo:

Il “chassid” non si isola nella solitudine, come l’asceta bramano o cristiano, ma sviluppa le proprie forze spirituali nel colloquio con altri credenti; non insegna ai suoi allievi verità acquisite ma cerca con essi una verità che deve essere sempre più approfondita. Uno dei principi più originali di questo misticismo del dialogo è che all’allievo spetta sempre l’ultima parola, affinchè dal dialogo esca arricchito il maestro non meno dell’allievo.84

81 A.S., Manuale d’armonia, cit., p. 521. Come altra faccia delle precedenti osservazioni sull’“aristocraticità” di Schönberg si legga il seguente passo: “L’arte – questo è impossibile poterlo ignorare – è un fattore di civiltà, e perciò appartiene a tutti coloro che allungano le mani verso di essa: alla collettività” (A.S., Prefazione, in A. S., Testi poetici e drammatici, Milano, Feltrinelli, 1967, p. 26). 82 Ambretta Ottani, La dimensione ebraica nell’opera letteraria di Arnold Schönberg, tesi di laurea, Milano, Università Cattolica, a.a. 1970-1971, per concessione dell’autrice. 83 Ladislao Miitner, Storia della letteratura tedesca, cit., vol. III, parte II, tomo I, p. 1116. 84 Ibidem. I testi in cui Buber esprime compiutamente queste tesi sono Ich und Du (1922) dove il dialogo paritetico deve stabilirsi tra fedele e Dio, e Zwiesprache (1932).

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Contatti tra Schönberg e Buber non risultano, ma l’ebreità di Schönberg, anche molti anni prima del suo ritorno alla religione degli antenati, è testimoniata da chi lo conosceva allora. Secondo Zemlinsky, Schönberg aveva una personalità che attirava e respingeva allo stesso tempo, un carattere difficile, vicino al collerico, ma in modo che ricordava i rabbini talmudisti.85 La concezione del mondo di Schönberg, col suo intreccio di conservazione e utopismo, con la sua sfiducia verso la società compensata dall’altissimo rango riservato alla comunicazione interpersonale, al dialogo tra maestro e allievo, è il frutto di un isolamento culturale e sociale che non era dovuto solo a orgoglio, ma era anche condizionato storicamente. Mahler, che nell’intimo era sempre rimasto ebreo, nella sua inquietudine e nel suo misticismo, e che frequentava più ebrei di quanti non ne conoscesse Schönberg, tuttavia aveva abbandonato la sua religione ed era riuscito a “integrarsi” molto di più di quanto non riuscì a Schönberg. Mahler potè, lui boemo, trasformarsi in viennese, ma Schönberg viennese non lo fu mai, anche perché non ne ebbe più il tempo: intorno al 1910 il dilemma degli ebrei immigrati, integrazione o separatezza, perdeva di senso nella misura in cui le possibilità di integrazione diminuivano sempre di più.86 Per molto tempo Schönberg non avvertì il senso politico dei mutamenti che erano nell’aria e continuò a definirsi “musicista tedesco”. Intorno al 1900 si era dichiarato per “l’integrazione dell’intelligenza”, sulle orme di Karl Kraus.87 La sua fede assoluta nel potere della cultura e nella comprensione che si stabilisce tra persone colte gli faceva considerare razionalmente superabile un problema che, molto tempo dopo, si sarebbe abbattuto su di lui con la forza di un tragico risveglio.88 Ma, come si è visto, quella fede nella trasmissibilità della cultura è anche la ricchezza specifica dell’ambiente schönberghiano, il terreno sul quale può svilupparsi la convinzone che la vocazione artistica non ha altro scopo se non quello di perseguire con la più assoluta coerenza la ricerca della sua verità. Come ha scritto Hanns Eisler, “... in realtà è stupefacente il fatto che un musicista, che pure era politicamente un filisteo, sia potuto pervenire a una estrema raffinatezza di pensiero, e muovendo soltanto dal suo proprio campo”.89

Ma questo “muovere dal proprio campo” significava coscienza della vastità come dei limiti del campo stesso, e significava quindi che all’interno dei due rapporti, tra il maestro e l’allievo prima e tra l’allievo e la sua opera poi (e infatti l’allievo potrà comporre ignorando le regole ma solo dopo che le avrà apprese) vi era uno spazio tale che l’educazione risultante si configura come una vera e propria educazione al linguaggio persino come germe di un’utopia sociale; torniamo a Buber:

Il principio del colloquio – meditazione e pedagogia, ma anche e nello stesso tempo azione benefica – si estendeva alla comunità intera dei credenti e vi si diffondeva soprattutto nella forma di parabole.90

85 Cfr. Jan Meyerowitz, Arnold Schönberg, Berlin, Colloquium, 1967, p. 22. 86 P. Gradewitz, Mahler and Schönberg, Publication of the Leo Baeck Institute, London, Year Book, 1960, p. 265, cit., in A. Ottani, op. cit., p. 82. 87 A. Ottani, idem, p. 82. Nel 1919, tracciando un programma per un’immaginaria regolamentazione dell’amministrazione musicale, su proposta di Adolf Loos, Schönberg aveva scritto: “Il compito più importante della sezione musica è di consolidare la superiorità della nazione tedesca nel campo della musica, superiorità radicata nel talento popolare”. (A.S., La musica, in Analisi..., cit., p. 37). Ancora nel 1924, Schönberg fece ristampare l’articolo senza mutare la frase. 88 Ne sono testimonianza le sue drammatiche lettere a Kandinsky del 20 aprile e 4 maggio 1923, fondamentali anche per la comprensione della “seconda maturità” di Schönberg e nelle quali tra l’altro si legge: “Quel che sono stato costretto a imparare in quest’ultimo anno, infatti, mi è finalmente entrato in testa, e non lo domenticherò mai. Cioè che non sono un tedesco, un europeo, e forse neanche un essere umano (gli europei preferiscono a me anche i peggiori della loro razza), ma soltanto un ebreo” (A.S., Lettere, cit., p. 89). 89 H. Eisler, Con Brecht, cit., pp. 196-197. Un’interessante discussione sulle posizioni politiche di Schönberg si trova in Leonardo Quaresima (a cura di), Conversazione con Jean-Marie Straub e Daniéle Huillet, in “Cinema e cinema” n. 11, pp. 63-72. VI si tratta delle lettere a Kandinsky e del Moses in riferimento ai film che i due registi hanno dedicato a Schönberg, cioè Moses und Aron e Begleitungsmusik zu einer Lichtspielszene. 90 L. Mittner, op. cit., ibidem.

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La Harmonielehre, testo che travalica continuamente se stesso, che non teme la ripetizione, la digressione, la divagazione più insospettata (le “parabole”, che qui prendono la forma di lunghe note ed esempi che sconcertano per la loro eterogeneità e apparente causalità rispetto al soggetto generale), rappresenta precisamente un esempio di come, “partendo dal proprio campo” e restandoci fino alla fine, si possa tracciare un profilo fenomenologico-genealogico dell’intero linguaggio musicale. La musica si fa così principio di organizzazione sociale poiché la “peripezia” che l’allievo deve compiere per giungere alla padronanza dei suoi mezzi l’ha, nel contempo, educato al dialogo e alla libertà. La coscienza dell’autonomia dei linguaggi anche e soprattutto rispetto ale regole che li determinano, regole che vengono svelate come storiche e non naturali, non può trasformarsi né in chiusura nella propria “specializzazione” né in feticismo del materiale. A uno studente che gli aveva portato un’idea melodica con troppo arricchimenti armonici Schönberg chiese se quelle figure che erano state aggiunte successivamente per rivestire la struttura armonica, così come le facciate sono aggiunte agli edifici. E allo studente che, perplesso, rispondeva che la prima idea era stata puramente armonica, Schönberg replicò:

Allora veda di mantenere il Lied su armonie semplici. Apparirà semplice ma sarà più genuino. Quello che lei ha qui è un puro ornamento. Questa è un’invenzione a tre parti abbellita da una parte vocale. Ma la musica non deve essere ornata, deve essere vera.91

Lo scopo del dialogo è che la verità sia raggiunta, ma non deve essere il maestro a

pronunciarla, poiché essa si irrigidirebbe immediatamente in formula. Solo se appare sulla bocca dell’allievo essa può rimanere in movimento, mantenere la sua forza produttiva. Ma se nel dialogo religioso il termine medio che permette a maestro e allievo di dialogare su un terreno comune è la fede, ne campo dell’arte questo termine medio deve essere dato dalla combinazione della scienza e dell’istinto. L’incessante dialettica è ancora quella già esaminata sotto un’altra angolazione nel primo capitolo, tra forma e immediatezza, rigore e trance, o (e possiamo dirlo perché seguiamo la stessa terminologia schönberghiana) tra conscio e inconscio.

L’attività dell’artista è istintiva: poca influenza vi prende la coscienza, ed egli ha la sensazione che ciò che fa gli sia dettato da dentro, che egli lo faccia solo obbedendo alla volontà di qualche forza che è in lui e di cui ignora le leggi. Egli non è l’esecutore di una volontà a lui celata, dell’istinto e dell’inconscio che è in lui, di cui non sa se è nuovo o vecchio, bello o brutto: sento solo l’impulso a cui deve obbedire.92

D’altra parte viene ammesso che “anche questo istinto dipende da determinate condizioni,

da tutto ciò insomma che v’è in me di cultura innata e conquistata con la studio”.93 Né la lotta tra la forma e l’istinto è risparmiata al maestro: mentre parla dell’allievo parla in se stesso e combatte in se stesso. Ma chi lo osserva può imparare molto anche da questa lotta.94 Così, al termine dell’apprendistato, l’allievo avrà fissato “nella scienza” le osservazioni e le esperienze dei suoi predecessori, e si troverà libero di affidarsi all’istinto. “Farsi indipendenti dall’istinto è difficile quanto pericoloso” sostiene Schönberg, ma ancora una volta il vigile senso dialettico lo tiene lontano dalla tentazione di privilegiarlo assolutamente. Bisogna saper usare l’istinto poiché esso è

91 “Than see that you keep your song to plain harmonies. It will appear simple, but will be the more genuine. What you have here is mere ornament. This is a three-part invention embellished with a voice part. Music, however, should not be adorned, but should be true”. Cit. in Egon Wellesz, Arnold Schönberg. The Formative Years, London, Galliard, 1971, edizione ampliata rispetto all’originale tedesco (Wien, 1921). È proprio rispetto alla “critica dell’ornato” che si può indagare il rapporto tra Schönberg e Adolf Loos. Cfr. Adolf Loos, Parole nel vuoto, Milano, Adelphi, 1972, e A.S., “Adolf Loos, zum 50 Geburtstag, am 10 Dezember, 1930 (“Casabella”, n. 233, novembre 1959, p. 43, numero speciale dedicato a Loos). 92 A.S. Manuale d’armonia, cit., p. 521-522. 93 Idem, p. 523. 94 Ibidem.

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una “capacità in divenire che è la conoscenza del futuro”.95 Se ne può dedurre che ciò che per noi oggi è tradizione e scienza non è che l’istinto dei tempi passati sedimentato e trasformato in “spirito oggettivo”. Per questo la tradizione, per bocca del maestro che la rivive e la ricrea, non è cosa morta ma anzi costituisce l’indispensabile bagaglio di fedi passate che lentamente si sono trasformate in scienza, come di scienze di oggi che a loro volta si traformeranno in fede, cioè nella fiducia nell’istinto che sopravvede al momento creativo. Ma, senza la conoscenza della tradizione che passa dalla bocca del maestro, il puro affidarsi all’istinto porterebbe a ricadere negli errori già affrontati e superati dalle passate generazioni.96 E qui si è detto fede e non più istinto perché è il problema della tradizione considerata come scienza e fede che tocca Schönberg nel momento in cui questi, per un’unica volta, si dedica a considerare la posizione dell’allievo meno dotato. Se pochi sono in grado di comprendere la musica “in modo puramente musicale” che ne è degli altri? Schönberg afferma allora che è soprattutto il mediocre ad imparare:

Deve invece imparare ciò che non ha bisogno di scoprire, perché è già scoperto, altrimenti entrerebbe nel novero di chi sta in alto (…) e vale la pena insegnare al fine di condurlo almeno a giudicare esattamente quello che producono gli altri, dal momento che lui stesso non è in grado di produrre qualcosa di valido.97

Ma se per l’artista l’insegnamento ha come fine la creazione, per il mediocre

l’apprendimento è fine a se stesso, “… ed il suo compito è di ricevere come scienza ciò che in realtà è solo una fede: è la scienza che lo fa forte, mentre all’altro basta la fede”.98 Il mediocre può così imparare ad apprezzare l’arte, ma questo risultato non è raggiunto servendosi delle “regole della bellezza”, cioè da estetiche precostituite, ma ampliando la sua “sfera di cognizioni”. Il mediocre prende ad ostacolare il corso della musica quando vuole contrabbandare le cognizioni così apprese come regole e si trasforma in insegnante di teoria o in esteta, “… perché non esiste custode più geloso dei suoi averi di chi sa di essi, in fondo, non gli appartengono”.99

La polemica contro il teorico, contro colui che, per citare la massima di Busoni, segue le leggi invece di porle,100 così come occupa il primo capitolo della Harmonielehre, si collega poi direttamente alla scarsissima considerazione che Schönberg, come abbiamo già visto, esprime nei confronti della critica, sia in Das Verhältnis zum Text che nello scritto A proposito della critica musicale, che risale all’ottobre 1909.101 III. Nell’Harmonielehre viene detto esplicitamente che il teorico non ha il diritto di farsi chiamare “maestro” perché non ha capacità pratiche, ed in questo è senz’altro inferiore a un maestro falegname. La tradizione non rivive in lui, ma nelle opere dei maestri che lui espone agli allievi. Ma se gli allievi impareranno qualcosa sarà direttamente da quelle opere e non da lui. Il teorico, “che di solito non è artista o è un cattivo artista (che è quanto dire che artista non è)”, si accorge benissimo di questo, e cerca un surrogato “ponendo la teoria, il sistema, al posto del modello vivo”.102 Non accontentandosi di una “onesta ricerca”, il teorico in combutta con l’esteta pretende di elevare i fenomeni che mostra (e che sono i soli a poter vantare un certo carattere di “scientificità”, poiché

95 Idem, p. 521. 96 Perché anche nell’istinto sta un “tesoro di sapienza antica che si fa valere senza volerlo” (idem, p. 522). 97 Ibidem. 98 Ibidem. L’equivalenza dialettica tra scienza e fede sembrerebbe qui incrinarsi. Cfr. nota 38. 99 Idem, p. 8. 100 “Die Aufgabe des Schaffenden besthet darin, Gesetze aufzustellen, und nicht, Gesetze zu Folgen” (Ferruccio Busoni, Ästhetik der Tonkunst, Frankfurt, Suhrkamp, 1974, p. 40). 101 A.S., Analisi…, cit. pp. 6-12. 102 A.S., Manuale di Armonia, cit. p. 8.

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sono gli unici ad essere conosciuti veramente), al rango di leggi eterne.103 Ecco allora che all’osservazione del fenomeno subentra la “legge della bellezza” che fa credere di “… aver trovato una norma per determinare il valore d’arte anche nelle opere future”.104

Se nel Manuale il discorso si mantiene generale e cerca di esporre quali sono i meccanismi costanti della reificazione della prassi musicale (i teorici hanno dimenticato e voluto dimenticare l’origine pratica delle regole e ne hanno fatto dei feticci, degli assoluti) nello scritto A proposito di critica musicale Schönberg tenta una dimostrazione storica del perché dell’involuzione della critica. Il bersaglio non è più il teorico bensì il giornalista inesperto e abborracciato. Sembrerebbe a prima vista una preda fin troppo facile, eppure c’è un filo profondo e nascosto che lega i due “reificatori” della musica, ed è la stretta analogia dei loro apprendistati. Come il teorico si affaccia sulla scena della musica in un ben preciso momento della sua evoluzione, ne apprende i risultati storici, che di per sé sono in movimento, e li eleva a leggi originarie perché sa che è solo feticizzandoli che potrà assicurarsene il possesso, fermandone il moto, cosi’ il “critico moderno” si è formato in uno stadio ben preciso della storia della musica, e non intende progredire oltre quello. “Il secolo scorso ha indubbiamente sopravvalutato il valore del sapere”.105 Così inizia lo scritto sulla critica musicale. Sopravvalutato perché la maggior parte di ciò di cui si andava orgogliosi come sapere non altro che memoria, abilità nell’uso delle analogie.106 Oppure, potremmo aggiungere, storiografia positivista, perché è infatti probabile che qui Schönberg avesse in mente i monumentali studi della Musikiwissenschaft, con il cumulo di erudizione che comportavano. Dall’altra parte Schönberg non può accettare che il rifiuto di quel positivismo si tramuti nell’esaltazione di una falsa verginità:

Altro è infatti rinunciare al proprio sapere, alla propria memoria, per affrontare le cose come se si fosse i primi a vederle, liberarsi di tutte le premesse fornite dalle teorie e dalle esperienze acquisite per intuire le cose in modo nuovo, altro invece non avere a priori nessuna premessa solo perché non si ha un retroterra culturale.107

Un simile atteggiamento è, secondo Schönberg, un risultato dello spirito del tempo. La

caduta del sapere formalistico ha prodotto un gran numero di Weltanschauungen che si sommano e si annullano e dalle quali chi emerge è sempre “l’uomo senza premesse” e perciò disponibile a tutto. Nel campo musicale tutto ciò ha significato che il profano è diventato critico d’arte. Schönberg riconosce che ciò, all’inizio, aveva un significato positivo. La musica di Wagner risultava incomprensibile alla “corporazione musicale”, per cui poteva capirla molto meglio la massa di coloro “che sentono l’efficacia della parola, della poesia, del teatro”; e continua Schönberg:

103 “Poiché li conosciamo con certezza, avremmo più diritto a chiamar ‘scienza’ quello che sappiamo di loro che non tutte le supposizioni con cui cerchiamo di spiegarli” (ibidem). Sembra che qui venga a chiarimento l’intrigo terminologico schönberghiano: solo i fenomeni sono scientifici. Le regole, quali che siano, non meriterebbero il nome di “scienza” con cui le gratifichiamo. Esse sono simboli, modelli (“creerò simboli, ma non ne farò una teoria,” è più o meno l’avvertimento di Schönberg nel primo capitolo), regole pratiche alle quali si presta fede in vista della loro utilità. L’artista lo sa, ed è per questo che “gli basta la fede”, ma si vede facilmente come questa fede sia profondamente radicata nella pratica. È il mediocre che senza le leggi si sente perduto. Negli stessi anni, Schönberg unirà, con un ardito salto gnoseologico, la fede scientifica e quella religiosa: entrambe appariranno disincantate e scettiche. “La fede del disilluso” come le chiamerà. In Schönberg la fede, quale che sia, non ha mai funzione consolatoria. L’argomento verrà ripreso nel settimo capitolo. 104 Idem, p. 9. 105 A.S., A proposito di critica musicale, in Analisi… cit., p. 6. 106 Si annuncia qui quella critica dell’analogia che si rivelerà fondamentale in seguito. Si veda alla fine di questo capitolo e il prossimo. 107 A.S., ibidem.

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Si acquisì la capacità di percepire l’effetto dell’atmosfera poetica, ci si mise in grado di lasciar perdere gli artifici concedendosi alle impressioni suscitate dalla musica, che è il linguaggio del subconscio…108

O l’ideologia del subconscio, avrebbe detto Adorno parafrasando Nietzsche, che aveva in

mente la capacità di impressionare che Wagner aveva inaugurato nel teatro. Ma la formulazione schönberghiana è coerente nel suo delineare la figura sociologica dell’ascoltatore tardo-romantico, la cui propedeutica è costituita precisamente dall’ascolto di Wagner. E Schönberg riconosce un valore di completezza e quella propedeutica, se riferita a quella musica: l’ascolto basato sulle impressioni era perfettamente adeguato, permetteva di distinguere l’artista dall’imitatore, permetteva di sviluppare l’orecchio assoluto e il senso formale, fino a

… tener dietro all’individuo creatore anche là dove pure per gli artisti più dotti incomincia la poesia e deve finire l’eccesso di professionalismo: nacque così la figura del critico che si basa sulle sensazioni.109

Questo ascoltatore aveva appreso a riconoscere i “fenomeni” della musica attraverso quella

su cui si era formato. Ma a questo punto invecchiò, e pretese di dare valore eterno alle leggi ricavate dai fenomeni osservati. Così anch’egli si convinse di avere trovato le norme delle opere d’arte future e all’apparire del nuovo si chiuse in una reazione persino più ottusa di quella antica. E poiché era rimasto ignorante di un metodo che non fosse quello basato sulla sensazione o il contenuto poetico, alla venuta di artisti realmente nuovi si trovò “in una posizione assai più precaria di quella dei suoi predecessori”.110 Perché questo? Perché era avvenuto un mutamento di significato all’interno della musica. Essa si era a poco a poco sganciata dal dramma, dal contenuto e dalle sensazioni esteriori:

La reazione naturale a Wagner, il musicista di teatro, avevo prodotto una fioritura di musica cosiddetta assoluta, in un primo tempo nella forma del Lied e della musica a programma, ma poi in veste sempre più chiaramente sinfonica di una musica che non voleva più esser serva del testo poetico, evitando così la via traversa consistente nell’esprimere le sensazioni inconsce dapprima con il linguaggio della coscienza, per poi ritrasferire questo processo nel linguaggio dell’inconscio. Qui il nostro critico fece completamente fiasco.111

Ed ecco come, attraverso molte vie, la discussione sulla pedagogia e sulla critica della teoria

ci ha ricondotto al testo. Testo che si rivela una volta di più il problema capitale del pensiero schönberghiano, giacché tutta la fase che dal tardo romanticismo conduce all’espressionismo è qui indicata attraverso un mutamento del rapporto tra testo e musica, rapporto che si presenta così come la chiave dei diversi modi di pensare la musica. Se ritorniamo al Verhältnis zum Text vediamo che la proposizione successiva a quella in cui si afferma che pochi sanno capire la musica musicalmente suona come un seguito delle tesi espresse nello scritto sulla critica:

108 Idem, p. 7. In Schönberg, la definizione della musica come linguaggio del subconscio si presenta molto raramente con la stessa perentorietà. Cfr. ad esempio: “… i principi costruttivi escogitati sono sempre in minor numero di quelli trovati inconsapevolmente. Se c’è un di più, al di là di quello che si è pensato, questo di più non può avere origini che dall’inconscio”. La musica “… esprime la natura inconscia di questo e di altri mondi” (A. S., comunicazione personale a Josef Rufer, cit. in J. Rufer, Teoria della composizione dodecafonica, Milano, Mondadori – Il Saggiatore ,1962). In genere però la costituzione della musica appare mediata tra scienza e istinto. 109 Ibidem. 110 Ibidem. 111 Idem, pp. 7-8.

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L’opinione che un brano musicale debba suscitare immagini e pensieri di una qualche sorta e che, se questi mancano, il brano non sia stato capito o non valga nulla, è tanto ampiamente diffusa, come può esserlo soltanto un’idea falsa e banale.112

La capacità di comprensione della “classe intellettuale media” (des geistigen Mittelstandes)

viene denunciata come limitata non quindi in senso assoluto ma storicamente. È la classe che si è formata su Wagner e che ha fossilizzato il suo tipo d’ascolto su una musica che forniva sempre qualche appiglio extramusicale (il dramma, l’imitazione dei suoni della natura, il programma) e si trova quindi incapace di intendere la musica sic et simpliciter. “Poiché alla musica come tale un contenuto immediatamente riconoscibile manca, gli uni, dietro i suoi effetti, cercano una bellezza puramente formale, gli altri, procedimenti poetici”.113 Il critico che emerge da quella classe media

… si trova in uno stato di assoluta impotenza di fronte all’effetto puramente musicale, e si comprende come preferisca scrivere di una musica che si riferisce, in qualche modo, ad un testo: musica a programma, Lieder, opere, ecc…114

“Non v’è più musicista col quale si possa discorrere di musica!” esclama Schönberg. Cioè,

nessuno crede che la musica possa essere un linguaggio autosufficiente e completo in se stesso, che attraverso la musica il pensiero possa realmente comunicarsi, anche se “in modo puramente musicale”. E non serve appellarsi a Wagner, continua Schönberg, perché egli stesso ha scritto moltissimo su argomenti di musica pura “…ed io sono certo che sconfesserebbe queste malintese interpretazioni dei suoi sforzi”.115 Non potendo capire la musica, il critico parte dal testo e scrive che la composizione non aderisce alle parole del poeta. E in tal modo elude il vero problema, che è la sua incapacità a pensare musicalmente. Il compositore viene così condannato “per mancanza di prove”, condannato per difetto, ma per un difetto che è del critico e non del musicista. Ma qual è la categoria che realmente permette di distinguere tra chi è in grado di ascoltare realmente e quindi di pensare musicalmente, e chi no? Come si è visto una simile esperienza è legata all’esperienza dell’ascolto così come si è storicamente sviluppata. Essa non dipende né dalla classe sociale né dall’erudizione, quanto piuttosto da una disposizione, una consonanza con lo spirito del tempo;

…tra i profani ha trovato individui che avevano organi di percezione assai più raffinati della maggior parte dei professionisti; e so di sicuro che vi sono musicisti più sensibili alla pittura di molti pittori, come vi sono pittori più sensibili alla musica della maggior parte dei musicisti.116

Questa facoltà di percepire è quindi assolutamente indipendente dalle categorie estetiche:

“… chi è in grado di distinguere col palato un frutto buono da uno cattivo, non deve saper esprimere questa differenza in formule chimiche, e non ne ha bisogno per rendersene conto”.117 E qui, se vogliamo uscire dalla metafora al senso del gusto bisognerà sostituire il senso dell’udito. L’orecchio è ciò che manca sia al teorico invecchiato sulle sue leggi sia al critico perso nell’affannata ricerca del “significato”. Il critico che Schönberg accusa è diventato incapace di ascoltare. Egli deve tradurre la musica nel linguaggio verbale, tradurla in un testo, per illudersi di capirla. È costretto a seguire quella via traversa che ormai la musica ha rifiutato: “Esprimere le sensazioni inconsce dapprima con il linguaggio della coscienza, per poi ritrasferire questo processo nel linguaggio dell’inconscio”.118

112 A.S., Il rapporto col testo, cit., p. 394. 113 Ibidem, corsivo nostro. I primi sono ovviamente gli hanslickiani. 114 Idem, p. 395. 115 Ibidem. 116 A.S., Manuale di armonia, cit., p. 520. 117 Ibidem. 118 La “traduzione” non può avvenire che per mezzo di analogie ed è contro questo che Schönberg si scaglierà.

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Con la nuova musica, è nella seconda parte dell’operazione che diventa impossibile far quadrare i calcoli. La nuova musica si è impadronita del proprio campo di linguaggio esclusivamente con i propri mezzi, mentre il critico cerca ancora corrispondenze, affinità elettive, concordanze fisse tra le parole e le note. E l’orecchio, dal canto suo, si sta impadronendo di tutto quanto il campo sonoro, nella sua qualità di istinto cosciente, cioè evoluto ed educato. Nessun sospetto di naturalismo, qui: è l’estetica a essere ignorante, non l’orecchio, che ha appreso la sua libertà misurandosi con il lento progresso della tradizione fino a stabilire, più in là di ogni teoria del bello, che tra consonanza e dissonanza vi è solo una differenza quantitativa e non qualitativa.

Per me poi è stato, in un certo senso, più facile che per quegli studiosi che non sono compositori. La loro estetica per me non era un elemento dato, non foss’altro per il fatto che la fantasia, l’orecchio e il senso formale me ne imponevano un’altra (…). Mi saliva così spontanea alle labbra la domanda se l’estetica fosse nel giusto; e non fu la riflessione a decidere inizialmente a suo sfavore, ma la sensibilità musicale (…). Il mio orecchio aveva risposto affermativamente… e tutta l’intelligenza di un musicista sta proprio nell’orecchio.119

Ma la percezione dei rapporti sonori è, come si è visto, un primum tutt’altro che immutabile,

e condizionato storicamente dall’evoluzione dell’armonia: la percezione degli armonici più lontani è una lenta riscoperta dopo “l’armistizio a tempo indeterminato” posto dal temperamento equabile. D’altra parte questa percezione ha una base alla quale può rifarsi in ogni momento della sua storia. Questa base è per Schönberg la natura, ed è partendo da qui che il problema del rapporto con la natura andrà affrontato: “In base a tale supposizione si spiega la scala intensa come un’imitazione orizzontale e gli accordi intesi come imitazione verticale (più o meno fedele) del modello in natura, cioè del suono”.120 IV. La filosofia del suono schönberghiana, come appare nella Harmonielehre e che si può far partire da qui, riprende formule anche troppo collaudate, divenute in certi casi dei luoghi comuni piegabili a tutti i significati. Essa non è esposta in modo organico e non si presenta con pretese di sistemazione. Serve più che altro come base per più impegnative avventure teoriche, e in questo senso si può paragonare la sua funzione a quella della teoria degli armonici, a proposito della quale Schönberg avvisa che se ne serve per la sua comodità, ma non intende affidargli un credito incondizionato.121 Ce ne serviremo quindi a queste condizioni, premettendo che il fine a cui miriamo è la formulazione del concetto di arte come espressione interiore. Del resto è proprio con questa conclusione che sembra già preannunciata in una posizione programmatica, cioè dall’inizio del terzo capitolo, intitolato “Consonanza e dissonanza”:

Sul gradino più basso l’arte è semplice imitazione della natura. Ma ben presto diventa imitazione della natura nel senso più ampio di questo concetto, cioè non solo imitazione della natura esteriore ma anche di quella interiore.122

Il concetto di imitazione della natura sembra qui ripreso più che altro in obbedienza alla

portata storica che ha avuto (anche nel significare cose diversissime), e come tale non viene sottoposto a critica. Si tratta quindi di “usarlo” così come lo stesso Schönberg ha fatto, tenendo presente che ciò che importa nella sua formulazione è più la conclusione che l’inizio. Si affaccerebbe il problema del rapporto con Schopenhauer, che del resto è citato poche righe dopo, 119 A.S., Manuale di armonia, cit., p. 513. 120 Idem, p. 482, corsivo nostro. 121 Idem, p. 23. 122 Idem, p. 20.

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ma è Schönberg stesso a dichiarare di voler evitare una discussione sull’estetica della soggettività, dal momento che la sua spiegazione non aspira al rango di teoria. Così si può affermare che

Materiale della musica è il suono che, in primo luogo, agisce sull’orecchio. La percezione sensibile provoca delle associazioni e mette in relazione suono, orecchio e mondo delle sensazione: dal concorso di questi tre fattori dipende tutto ciò che si avverte nella musica in quanto arte.123

Ciò è possibile perché l’orecchio “… nella sua qualità di organo ricettivo dato, ha comunque

una disposizione naturale per il suono che sta a quella del suono stesso come parti concave stanno alle relative convesse”.124 Queste affermazioni vengono per altro ridimensionate subito dopo, dove si dice che partire da una ipotesi giusta o sbagliata ha poca importanza poiché essa verrebbe comunque confutata: “… l’unica cosa che può avere importanza è di basarsi su supposizioni che, senza voler essere considerare leggi di natura, soddisfano la nostra necessità formale di senso e coerenza”.125 Resta però, come punto fermo, che materiale della musica è il suono: “… esso va dunque considerato con tutte le sue caratteristiche e con tutti i suoi effetti, come elemento capace di dar luogo a fenomeni artistici.126 Tutto ciò conduce a una prospettiva, questa sì davvero rivoluzionaria, cioè all’emancipazione del timbro, che per la prima volta verrà considerato elemento primo anche rispetto all’altezza.127 Gli armonici più lontani, quelli che vengono percepiti appunto come timbro, hanno effetto prima di tutto nell’inconscio. Quando salgono “alla superficie della coscienza”, allora “ne viene stabilita la relazione con la sonorità nel suo insieme”.128

Siamo così giunti in una zona teorica alquanto ardua da padroneggiare. Poche pagine prima o stesso Schönberg aveva anticipato la cosa, avvertendo che “… l’analisi incontra insormontabili difficoltà quando per la ricerca si prendono le mosse dall’impressione esercitata sul soggetto contemplante”.129 D’altra parte risalire al soggetto, cioè all’orecchio, “sarebbe l’unico modo di fondare una vera teoria dei suoni”, in modo analogo a come Schönberg, sulle orme della Farbenlehre goethiana, ha esaminato i colori come fenomeni fisiologici, “come condizioni, modificazioni dell’occhio”.130 Schönberg non intende qui mettere in discussione la preminenza del soggetto, ma la sua “filosofia” è lontana da qualsiasi adaequatio intellectus ad rem. La concordanza tra soggetto e oggetto, tra imitazione e natura, è problematica anche nel gradino più basso:

A tutti i livelli dell’evoluzione l’imitazione del modello, dell’impressione o dei complessi di impressioni, è di esattezza relativa, da un lato a causa della limitatezza delle nostre facoltà, dall’altra – in maniera più o meno cosciente – perché nel materiale in cui avviene la riproduzione, l’imitazione è diversa dal materiale o dai materiali da cui è costituita la cagione stessa.131

Al livello più alto, quello in cui “l’arte si occupa solo di riprodurre la natura interiore”, il

processo si chiarifica:

Qui le impressioni si sono associate tra loro e con le altre impressioni sensibili, collegandosi con nuovi complessi e nuovi movimenti: in questo stadio l’unico compito dell’arte è di riprodurre queste nuove impressioni, e il tentativo di risalire alla cagione esterna è praticamente vano.132

123 Idem, p. 21. 124 Ibidem. 125 Ibidem. 126 Ibidem. 127 La Harmonielehre si chiude con l’apologia della melodia dei timbri, la Klangfarbenmenlodie. Sulle implicazioni rivoluzionarie della concezione schönberghiana del timbro, che poi sarebbero state accantonate con la svolta della dodecafonia, cfr. Daniel Charles, Il timbro e il tempo, “Achab” n. 3, supp. a “Scena”, febbraio 1980. 128 Idem, p. 24. 129 Idem, p. 20. 130 Idem, pp. 21-22. 131 Idem, p. 20. 132 Ibidem.

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E con questo ogni pretesa naturalistica viene liquidata. Tentare il risultato tra il

collegamento interiore e la sua causa esteriore è vano. Più che sulla “riproduzione”, l’accento va posto sul nuovo insieme che così si crea. Come ha scritto Cacciari: “Il nuovo linguaggio compositivo comprende le linee di forza e di tensione, la molteplicità di domande, che dal materiale linguistico promana, che la sua storia ha prodotto”.133

Ciò significa che d’ora in poi la composizione non si dovrà più occupare di trovare una corrispondenza fra il dentro e il fuori. Essa non ha “cause” e, se ne ha avute, il loro ricordo si è perso nell’occasionalità delle biografie. Ma nel linguaggio ne rimangono le tracce. Esse parlano e possono essere organizzate in discorso. La loro storia sta in quello che esse dicono. Il resto? Vale a dire il sentimentale, il simbolico, “l’espressivo” stesso nel senso dell’Expressionismus? Stanno rapidamente scomparendo all’orizzonte. Eppure questo distacco pesa, ed è giusto che sia così perché è tragico. Ed ecco che Schönberg sente ancora il bisogno di difendere questa “nuova noumenicità” dell’arte presentandola come speculare alla noumenicità della natura:

Anche il nostro sistema è infatti una esposizione artificiosa (dunque imperfetta) di una cosa probabilmente naturale (dunque perfetta) (…). Bisogna aver coscienza però che, a causa della nostra incapacità di comprendere ciò che non ha regola ci sforziamo di rappresentare il tradizionale artigianato della nostra arte nella forma di una teoria rigorosa, supponendola basata nella natura, e che questa teoria è qualcosa che effettivamente si può basare anche nella natura: ma nulla di più (…) Soprattutto l’arte non è un elemento dato, come la natura, ma qualcosa di divenuto: il che significa che avrebbe potuto diventare qualcos’altro.134

La natura è quindi inconoscibile, ma il divenire della storia dell’arte a volte sembra ancora

tendere a un’utopia riunificazione: gli accordi elementari appaiono come “imitazioni imperfette del materiale di natura” in quanto troppo primitivi e senza prospettiva in confronto alle ben più progredite dissonanze.135 Certo, il rovesciamento della tradizione “teorica” è totale: è capovolta la concezione secondo cui è l’accordo perfetto ad essere “naturale” al massimo grado: “… alla volontà della natura ci si è avvicinati, questo sì, ma se ne è ancora ben lontani…”.136 Alla natura ci si può avvicinare perché l’idea artistica è sempre “in movimento”, ma si badi, l’idea non è naturale:

… essa non esiste in noi come qualcosa di immutabile, come un dato naturale che non è suscettibile di modifiche o di evoluzione, ma come un elemento che è capace di modificarsi con gli indirizzi del gusto e addirittura con la moda [!] seguendo lo spirito dei tempi.137

L’ottimismo che anima l’intera Harmonielehre andrebbe più considerato, soprattutto da chi

costantemente riduce Schönberg alla figura dell’“angoscia dell’uomo contemporaneo”. La rinuncia da cui si origina il nuovo linguaggio può convertirsi nella felicità dell’accresciuto potere sul materiale, dal crollo dei divieti interni. Essa permette non l’originale, che è una categoria occasionale ed opinabile, ma il nuovo:

Credo invece al nuovo, credo che il nuovo sia quanto di buono e di bello noi bramiamo involontariamente ed irresistibilmente con il nostro essere interiore, così come tendiamo al futuro: ci dev’essere nel nostro futuro una perfezione sovrana, a noi ancora ignota, dal momento che tutto il nostro essere associa ad essa le sue speranze.138

133M. Cacciari, Krisis, cit., p. 127. 134 A.S., Manuale di armonia, cit., p. 116. 135 Idem, p. 527. 136 Idem, p. 119. 137 Idem, p. 158. 138 Idem, p. 302.

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Questa tensione interiore troverà, verso le ultime pagine della Harmonielehre, la sua formulazione più precisa:

Avevo dunque ragione quando mi opponevo istintivamente al “ritorno alla natura” (…) meravigliandomi che un Debussy non si accorgesse come, volendo arrivare alla natura, non si debba tornare indietro ma andare avanti. Avanti, verso la natura! Se avessi uno slogan, potrebbe essere questo: ma penso che esista ancora qualcosa di più elevato della natura.139

Qui Schönberg si riferisce alla notizia che gli è pervenuta delle teorie di Carl Stumpf, sulla

possibilità di elevare al rango di consonanze anche i rapporti più complessi all’interno dell’ottava. La legittimazione delle consonanze lontane acquisterebbe così un carattere scientifico che permetterebbe di collegarla a fatti “naturali”. Ma è chiaro che Schönberg non sta pensando solo a questo. Qui il concetto di natura ha perso ogni eredità illuministica e romantica. Schönberg si pone oltre alle stesse speculazioni di Kulbin che, proprio sul numero unico del “Blauer Reiter”, propugnava l’abbandono della scala partendo dal presupposto che la natura produce intervalli ben più complessi (il canto di un usignolo non è temperabile).140 Si pone altresì oltre ogni significato del materiale garantito a priori (prima della lavorazione, del Durchkomponieren),141 tale cioè che prescinda della sua propria storia per autopresentarsi come un vergine campo di possibilità.142 Qui la natura è trasformata in un vettore in fuga, dislocazione continua di ogni risultato pacificante, che non c’è più, come non c’è più teoria.143 Nemmeno la dodecafonia potrà esserlo (né del resto lo voleva: una “faccenda privata” la definì sempre Schönberg).

Le ambivalenze teoriche riscontrate nelle pagine precedenti trovano qui e nelle pagine finali la loro soluzione, il loro punto di verità. Il debito nei confronti del naturalismo è pagato trasformandolo in una forza produttiva, in richiesta di progresso e di novità. Bisogna essere musicali, non naturali: “Un cantante che produce degli acuti naturali non è musicale, proprio come è immorale chi agisce “naturalmente” in mezzo alla strada”.144

E così Adolf Loos fa eco a Schönberg: il bambino e il selvaggio sono amorali, ma l’uomo è morale, e se si orna non fa altro che scimmiottare il selvaggio; allo stesso modo, la croce è stato il primo simbolo erotico, ed era arte, ma tracciare, oggi, oscenità sui muri è da degenerati.145 Non esiste una purezza a cui fare ritorno. Come per Schiller ogni tentativo di riguadagnare il “puro” non può che tramutarsi in barbarie, così per Schönberg il programma operativo si delimita solo all’interno delle possibilità offerte da un linguaggio che ha assunto su di sé tutta la sua storia e tutti i suoi peccati, tutto il suo estenuato alternarsi di tensioni e risoluzioni, che d’ora in poi saranno fatte valere di per se stesse e per quello che valgono, tanto o poco che sia, senza più alludere o simboleggiare altre realtà ed altri linguaggi. V.

139 Idem, pp. 494-495. 140 Cfr. Hans Heinz Stuckenschmidt, La musica moderna, Torino, Einaudi, 1960, p. 16. È lo stesso Stuckenschmidt a puntualizzare come, distaccandosi dal naturalismo in direzione dello spirituale, l’arte si presenta come costruzione di una forma che ha il compito di inverarsi (p. 55). È così che la logica, implicita nella sospensione della tonalità, si serve del sentimento (dell’istinto, della trance), per trovare la sua legge. Ma la dodecafonia, che così apparirebbbe come l’inveramento della forma, non era affatto un destino, come sembra incline a pensare lo Stuckenschmidt, bensì un’ulteriore scelta. 141 F. Busoni, op. cit. 142 Alcune delle implicazioni del problema del “materiale” saranno riprese nel settimo capitolo. 143 “E chi ardirà mai qui di pretendere una teoria!” Con queste parole si chiude la Harmonielehre. 144 A.S., cit, in Josef Rufer, Das Werk Arnold Schönbergs, Kassel, Bärenreiter, 1959, p. 143 (qui ripreso da Allan Janick, Stephen Toulmin, La grande Vienna, Milano, Garzanti, 1975, p. 111). 145 Cfr. Adolf Loos, Ornamento e delitto, in Parole nel vuoto, op. cit., pp. 217-229. Come critica molto vicina alle posizioni loosiane e ache schönberghiane sull’europeo barbarizzato che continua a credersi sacerdote dell’arte si può indicare il personaggio del direttore d’orchestra in Josef Roth, Fuga senza fine, Milano, Adelphi, 1976.

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Così è proprio l’aver seguito fino agli estremi il processo che porta Schönberg dall’imitazione della natura all’antinaturalismo che possiamo ritornare alle formulazioni di partenza e scoprirvi sensi nuovi. A proposito dell’accordo di settima diminuita e dell’impulso che esso aveva dato alla trasformazione dell’armonia, Schönberg scrive:

… era stato l’accordo di settima diminuita a mettere in moto questo meccanismo che non può fermarsi prima di soddisfare l’esigenza della natura, prima cioè che l’uomo non abbia raggiunto nella imitazione della natura l’estrema perfezione: solo allora potremo abbandonare il modello esteriore per rivolgerci sempre più a quello interiore.146

Qui Schönberg considera il processo di raggiungimento del totale cromatico come la

realizzazione di ciò che è implicito nel sistema temperato. Così il raggiungimento di quell’obiettivo verrebbe a coincidere con la fine del processo di imitazione della natura. Esso era quindi storico, e in attesa di lasciare il suo posto al linguaggio non-naturalistico dell’interiorità. Abbiamo già visto in che modo Schönberg abbia evitato, alla fine, di portare questo pensiero alle estreme conseguenze, che voleva dire postulare un luogo privilegiato della storia in cui la natura fosse finalmente “raggiunta”: al contrario essa è posta sempre avanti, e chi la segue ha perlomeno un’ampia libertà sul modo di seguirla. Ma qui interessa far notare come non debba illudere la ripresa della distinzione, fatta ormai a viva forza, tra il primo e il secondo gradino della creazione artistica, esteriore dapprima e interiore poi, poiché, se così fosse, l’intera storia della musica fino all’espressionismo si troverebbe di colpo collocata sul gradino più basso. In realtà il processo dell’arte è sempre anche interiore: nel primo dei suoi Aphorismen, Schönberg aveva dato una descrizione del processo creativo nella quale gli artisti erano coloro con gli occhi bene aperti sulla società (e questo frammento è stato già citato nel primo capitolo), ma erano anche coloro

… che però chiudono spesso gli occhi per percepire ciò che i sensi non rivelano, per guardare di dentro ciò che solo apparentemente accade di fuori. E dentro di loro è il moto del mondo; fuori ne trapela l’eco soltanto: l’opera d’arte.147

Simili dichiarazioni finirebbero per gettare ombra anche su quelle che sono ad esse

contrastanti e complementari allo stesso tempo, e che rivendicano presenza e impegno etico, se non fosse che Schönberg ha saputo poi riformularle in un linguaggio meno disarmante e più spoglio di soggettivismo. Nella Harmonielehre l’arte è certamente un “processo interiore”, “riproduzione delle impressioni interiori”, ma è anche e soprattutto quell’imitazione che è sempre diversa dal materiale che l’ha “causata”. E proprio l’irriducibilità dei due materiali, imitazione e realtà, o meglio dei due linguaggi, può far sì che l’arte possa essere esercizio d’apparenza all’interno della cui autonomia si genera la possibilità del suo esser vera. L’arte deve essere vera, e può esserlo solo se accetta di essere, fino in fondo e senza rimpianti, convenzione.

Il rapporto con la natura si chiarisce così definitivamente. La natura è un concetto-limite. Qui e ora, non si dà mai. Ma, più ancora che essere perduta o irraggiungibile, condizioni nelle quali la nostalgia o l’utopia potrebbero imporre un rinnovato dominio, la natura è lasciata come altra, – alla deriva l’uomo da lei sempre e di nuovo: “Capita a volte nella natura, che essa ci faccia sentire come un piacere ciò che obbedisce solo a lei stessa, anche se questo piacere è dovuto soltanto al nostro struggimento interiore”.148 Così il rapporto con la natura non è mai dato né programmabile, va continuamente riconquistato, e non cessa di rimanere precario oltre ogni risultato.

Ma, per tornare al problema della critica e del testo, questo, definitivamente, è il motivo per cui il critico wagneriano non può raccapezzarsi nella musica nuova e cerca un testo che gliela

146 A.S., Manuale di armonia, cit., p. 302. 147 A.S., Aforismi…, cit. in L. Rognoni, op. cit., p. 381, corsivo nostro. 148 A.S., Manuale di armonia, cit., p. 313.

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spieghi. Il rapporto denotativo musica-parole è caduto, ma è caduto anche ogni aggancio che potesse indirizzare il pensiero verso un rapporto ugualmente denotativo tra musica e natura. E, ritraendosi dal dramma wagneriano come dalla musica a programma, la musica non ha fatto altro che svelare come le costruzioni intellettuali elaborate per garantire in ogni caso la permanenza della corrispondenza di linguaggio musicale e linguaggio verbale volessero ingenuamente sovrapporre i teoremi di congruenza a quelli di somiglianza:

È naturale che i paragoni zoppichino, se ci si aspetta che gli oggetti paragonati si possano portare in ogni situazione a completa sovrapposizione; infatti paragonare non significa dichiarare due oggetti uguali (=) ma simili (~).149

Ma il metodo del paragonare sovrapponendo è proprio quello del critico che “manca, in

genere, della capacità di rappresentarsi, in un modo vivo, una partitura”,150 e che quindi è costretto a ricorrere al paragone, all’analogia, per occupare quello spazio di carta a cui il suo mestiere lo obbliga:

I tentativi di ricondurre indiscriminatamente i fenomeni dell’arte a quelli della natura continueranno a naufragare per un bel pezzo; e quindi gli sforzi tendenti a scoprire le leggi dell’arte potranno tutt’al più raggiungere i risultati che ottiene un buon paragone, nel senso di acquistare influenza sul modo in cui l’organo del soggetto osservante si adegua alle peculiarità dell’oggetto osservato (…). Non è oggi possibile attribuire alle leggi dell’arte un valore superiore a questo; ma è già molto (…) Tuttavia non si dovrebbe pretendere che il lettore prenda tali miseri risultati per leggi eterne o per qualcosa di simile alle leggi naturali. Infatti (…) le leggi della natura non conoscono eccezioni, mentre le teorie dell’arte constano sostanzialmente di eccezioni.151

Le immagini e i pensieri che un brano musicale suscita sono dell’ascoltatore e non del brano

musicale. I due mondi restano distinti, ed è in questo che sta la loro reciproca potenza. E proprio a partire da qui è delineabile una nuova metodologia dell’ascolto, che superi quella sensazione e del contenuto:

Per poter percepire un’impressione artistica bisogna che la propria fantasia collabori creativamente (…) L’opera d’arte dà solo il calore che chi ascolta è in grado di produrre, e in definitiva quasi ogni impressione artistica è in realtà qualcosa che è creato dalla fantasia dell’ascoltatore. Certo, questo è determinato dall’opera d’arte, ma ciò solo quando si dispone di un apparecchio ricevente sintonizzato con l’apparecchio trasmittente.152

Come trasformare allora l’impressione artistica in un giudizio artistico? Schönberg sostiene

che bisogna abituarsi a interpretare le proprie sensazioni inconsce, conoscere bene sia le proprie inclinazioni sia il modo di reagire alle impressioni esterne. Questo serve a precisare “l’impressione artistica”: non confondere le sensazioni, non pretendere per proprio ciò che è dell’opera, e soprattutto non confondere natura e cultura. A questa propedeutica di carattere schiettamente psicanalitico, Schönberg aggiunge poi che bisogna imparare a paragonare le impressioni fra loro, e poi trovare, in base alle proprie peculiari natura e cultura, un punto di vista che permetta di avvicinarsi all’essenza dell’opera (bisogna anche avere “sensibilità per il passato e presentimento per il futuro”). Coerentemente alla formulazione (che compare nello stesso saggio qui citato), secondo la quale la musica è il linguaggio del subconscio, qui Schönberg propone una vera e propria introduzione all’uso del subconscio.

149 A.S., Aforismi…, in op. cit, p. 383. 150 A.S., Il rapporto col testo, cit., p. 395. 151 A.S., Manuale di armonia, cit., pp. 11-12. 152 A.S., A proposito di critica musicale, cit., p. 9.

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Ma nel subconscio giocano solo le impressioni: il giudizio di valore non è di sua pertinenza, e va affidato alla mediazione di natura e cultura. E siccome sappiamo che la natura è sempre avanti e la cultura è sempre “in cammino”, ne deriva anche qui una formulazione il più possibile aperta e fiduciosa sulle sorti di un eventuale futuro nuovo rapporto tra arte e società.

Si noti che c’è un termine che non compare in questa didattica dell’ascolto, ed è l’analogia, cara invece alla critica romantica, anche alla migliore. Se il linguaggio della musica non è quello dell’intelletto o della ragione, nel senso che essi non sono sufficienti a contenerlo, a maggior ragione non dovranno tentare di ridurlo alle loro dimensioni trasformando l’esperienza dell’ascolto in un formulario di soluzioni retoriche. Quello che Schönberg rimprovera a Schopenhauer è proprio l’aver ceduto a questa tentazione. Nel Verhältnis zum Text, dopo averlo lodato per aver affermato la non-razionalità della musica, gli criticherà il ricorso alle analogie. Ed è proprio da questo pro e contro che possiamo chiarire qual è il rapporto, di dipendenza e superamento, che lega Schönberg a Schopenhauer, che è poi l’unico filosofo che il musicista citi con relativa frequenza. Le pagine precedenti, con il loro tentativo di ricostruzione di una gnoseologia schönberghiana del “pensiero musicale”, avevano lo scopo di aprire lo spazio a questa indagine.

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Capitolo III

Analogie e differenze tra testo e musica. Il rapporto con Schopenhauer I. All’affermazione secondo la quale la “classe intellettuale media”, incapace di accostarsi alla musica musicalmente, ne cerca il contenuto in una bellezza formale o in procedimenti poetici, Das Verhältnis zum Text fa seguire un riferimento a Schopenhauer:

Schopenhauer ha detto qualcosa di veramente esuriente sulla natura della musica con questo mirabile pensiero: “Il compositore rivela l’essenza più intima del mondo ed esprime la saggezza più profonda, in un linguaggio che la sua ragione non comprende; così come una sonnambula, nel suo sonno magnetico, dà spiegazioni intorno a cose delle quali, da sveglia, non ha idea alcuna…”.153

Il rimando al celebre paragrafo 52 del Mondo come volontà e rappresentazione, luogo di

passaggio obbligato per citazioni sull’essenza della musica, si rivela però tutt’altro che tranquillizzante o riducibile a pezza d’appoggio. Schönberg cita spesso Schopenhauer, ma ne cita più il nome che le opere, poiché non gli interessa tanto discuterne le tesi quando portarlo implicitamente a testimone di un termine culturale, di limite posto nel passato, a partire dal quale è possibile, a Schönberg, elaborare i suoi frammenti di estetica.

Schopenhauer rappresenta così il confine di quello spazio culturale di cui Schönberg sa di essere all’altro versante. Schopenhauer ha emancipato la musica dalle altre arti. Schönberg comincia a intravedere che il suo sarà quello di emanciparla da se stessa, o meglio dalle regole che le erano un tempo funzionali e che oggi la fanno prigioniera. Così non vi è nemmeno l’abbozzo di una ripresa del sistema schopenhaueriano: proprio nei momenti in cui più profondamente è avvertito il fascino di uno, di quel sistema, tanto più profondamente (e l’abbiamo visto analizzando la Harmonielehre, là dove si parte dall’imitazione della natura per arrivare a tutt’altro) è posta l’inevitabilità del distacco.

A Schopenhauer ci si riferisce per superarlo, ma è il superamento della metafisica dell’arte e delle sue regole che qui è in gioco, ed è la serietà stessa di questo progetto a rendere altamente problematico il peso specifico di ogni riferimento, di ogni “scala” che Schönberg prende in prestito al filosofo, per gettarla via subito dopo: già qui, nel Rapporto col testo, la citazione favorevole sarà immediatamente seguita dalla critica all’uso delle analogie di cui Schopenhauer si adatta a servirsi: “… ma lo stesso Schpenhauer, più tardi, si perde, nel tentativo di tradurre in concetti certe particolarità di questo linguaggio “che la ragione non comprende…”.154

Ma quello della critica all’analogia è già uno stadio successivo del discorso. La specificità del rapporto Schönberg-Schopenhauer si situa ancora prima. Schönberg arriva a quella citazione al fine di corroborare la sua affermazione sulla difficoltà che l’uomo medio incontra nel comprendere la musica. Ma in effetti non è questo un concetto che si ritrovi in Schopenhauer, per il quale la musica è sì un linguaggio che “la ragione non comprende” ma, forse anche per questo, la sua comprensione è possibile a tutti:

153 A.S., Il rapporto col testo, cit., p. 394. Si noti che l’edizione americana del 1950 non riporta più “classe intellettuale media” bensi’ “chi è intellettualmente mediocre”, e all’espressione “contenuto riconoscibile” (erkennbares Stoffliches) si sostituisce “soggetti materiali” (material subjects, ma anche Stofflich ha il senso di “materiale”). 154 Ibidem.

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E nondimeno la musica è un’arte così sublime e meravigliosa, di efficacia così grande sui sentimenti più intimi dell’uomo, così facile a comprendersi interamente e profondamente quasi lingua universale oltrepassante in chiarezza la stessa evidenza del mondo intuitivo, che senza dubbio ci dobbiamo vedere ben più di un puro “exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare animi”, come la definiva Leibniz.155

E continua ancora Schopenhauer: “Bisogna che la relazione di copia e modello tra la musica

e il mondo sia molto intima, di un’esattezza e di una puntualità estrema, poiché viene compresa immediatamente da ognuno…”156

A prima vista sembrerebbe quindi che Schopenhauer affermi proprio quella caratteristica di universalità, di immediata comprensibilità del linguaggio musicale (la musica è completamente staccata dalle arti, viene precisato) che Schönberg nega prima alla “classe media” formatasi nel culto della musica drammatica e che in seguito negherà a tutti i “mediocri”. Ma basta proseguire nella lettura per avvedersi che in realtà per Schopenhauer i livelli di comprensione della musica sono più di uno: “Si è sempre fatto della musica, senza mai riuscire a rendersene conto; paghi di intenderla immediatamente non si ottenne mai una comprensione astratta della sua intellegibilità immediata”.157

Una cosa è l’intellegibilità immediata, altra è la comprensione cosciente di questa intellegibilità. È questo secondo livello, come si vedrà, che non è di tutti e che è raggiungibile solo con fatica, attraverso le connessioni che l’intelletto istituisce tra musica e mondo, che restano però sempre al di sotto del livello di precisione raggiunto dal contenuto musicale. Ma l’inaffidabilità della musica sta proprio in ciò, che questo livello di precisione è già presente anche nel gradino inferiore della comprensibilità immediata:

… la musica lascia riconoscere una certa infallibilità in questo, che la sua formula è riconducibile a regole aritmetiche rigorose, dalle quali non si può scostare senza cessare affatto di essere musica. Pure, l’analogia fra la musica e il mondo, il senso in cui quella è un’imitazione o una ripetizione di questo, rimangono profondamente nascosti.158

Sono proprio quelle “regole aritmetiche rigorose” a costituire il primo livello di

comprensione. Secondo Schopenhauer è il formalismo matematico dei rapporti sonori che costituisce questo primo livello, immediatamente percepibile. Su questo punto Schopenahauer è chiarissimo: Leibniz era nel vero a definire la musica “exercitium arithmeticae” “… in quanto non ne considerava che il senso immediato ed esteriore; per così dire, la scorza”.159 Certo, è ben vero che a Schopenhauer interessa soprattutto andare al di là di questa “scorza”, perché

… se la musica non fosse nulla di più, la soddisfazione che ci procura non dovrebbe differire dalla soluzione esatta di un problema di calcolo: non potrebbe essere quella gioia intima in cui sentiamo vibrare le corde piu’ profonde dell’essere nostro.160

Eppure, questa sfera di puri rapport formali, di combinazioni numeriche calcolate e risolte è non solo l’aspetto esteriore della musica, ma anche la rete su cui si appoggia la sua possibilità di esprimere il mondo, il supporto materiale della sua stessa superiore comprensibilità:

La musica in quanto espressione del mondo, è una lingua universale al massimo grado: e con la sua generalità dei concetti, sta in quella relazione, a un dipresso, in che i concetti stanno con le cose particolari. Ma l’universalità della musica non ha a che fare con la vuota universalità dell’astrazione:

155 Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Milano, Mursia, 1969, p. 298. 156 Ibidem. 157 Idem, p. 299. 158 Idem, p. 298. 159 Ibidem. 160 Ibidem.

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la musica è di tutt’altra natura: è d’una precisione, di una chiarezza insuperabile. Somiglia, in ciò, ai numeri e alle figure geometriche.161

La musica non esaurisce il suo compito, che è quello di manifestare la volontà,

semplicemente indicandone la generalità astratta. Essa, proprio grazie alla sua salda e geometrica precisione, può esprimere ogni sfumatura della realtà:

Le aspirazioni della volontà, i suoi impulsi, le sue possibili estrinsecazioni; tutto ciò che vibra e si agita nell’intimo del cuore umano, e che la ragione abbraccia nel vasto concetto negativo di sentimento, tutto può venire espresso nelle innumerevoli possibili melodie; sempre, però, nell’universalità della pura forma, senza misura di materia; sempre nell’in sé, non mai nel fenomeno; l’espressione musicale ci dà, in qualche modo, l’anima senza il corpo.162

È chiaro quindi che i due livelli sono fusi in un intero dove formalismo di rapporti e

“contenuto” (che poi qui è la manifestazione della volontà) sono in realtà un tutto unico. Detto questo appare immediatamente perché Schönberg abbia avvicinato, tra quelli che non sanno accostarsi alla musica “musicalmente”, coloro che cercano una bellezza “puramente formale” a coloro che invece si servono di procedimenti poetici.

Il formalismo di cui Schönberg, secondo malintese interpretazioni, si farebbe qui paladino, ne risulta così vanificato. Già si è esaminata nel capitolo precedente la critica storica alla quale Schönberg ha sottoposto il modo d’ascolto del critico drammatico. Se qui ribadisce quella critica, si spinge però ben più avanti, bloccando la strada del ritorno anche all’utopia formalista, paga della percezione dei rapporti matematici tra i suoni. Una simile preoccupazione lo assillerà sempre, massimamente quando l’aver elaborato il metodo dodecafonico lo esporrà all’accusa di costruttivismo. Ma per ora interessa attraverso quali influssi culturali, espliciti o meno, Schönberg sia potuto arrivare a queste posizioni. E soprattutto: è esauriente questo riferimento a Schopenhauer e alla sua propedeutica? O già qui non si pongono problemi di difficile risoluzione? II. È innegabile che il cammino dei due si mantenga per un certo tratto parallelo. Come Schopenhauer, Schönberg non ammette di dover dividere l’aspetto formale da quello spirituale, nell’opera d’arte. Parlando dei limiti di Liszt, nello stesso periodo in cui scrive Das Verhältnis zum Text, Schönberg gli rimprovera la sua mancata comprensione dei valori della forma:

Egli, che avvertiva la forma come formalismo, creò un formalismo molto peggiore, un formalismo inevitabile poiché nelle sue forme, inventate dall’intelletto, non ha mai abitato una creatura vivente.163

Nessuna forma può essere creata al suo scopo di opporsi a un’altra forma. È come voler

tracciare un labirinto e poi segnare la via.164 Ma, a rigore, nessuna forma può essere creata come forma, indipendentemente dal suo rapporto con l’espressione:

È lecito, anzi è opportuno capire, ma meglio ancora intuire – che una forma non soddisfa una necessità espressiva, o anche solo non vi corrisponde. Ma poi bisogna abbandonarsi tranquillamente al flusso di questa necessità espressiva, non bisogna impedirgli di crearsi da sé la sua forma, bisogna evitare che l’intelletto, sempre preoccupato e timoroso, ci si metta di mezzo creando intralcio (…) La

161 Idem, p. 304. 162 Idem, p. 305. 163 A.S., L’opera e l’essenza di Franz Liszt, in Analisi e pratica musicale, cit., p. 21. 164 Cfr. Cap. I, par. IV.

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forma di Liszt è un ampliamento, una combinazione, una saldatura, un ulteriore sviluppo matematico-meccanico delle vecchie componenti formali; ma la matematica e la meccanica non possono produrre esseri viventi.165

Il saggio su Liszt è del 1911. Un anno dopo Schönberg tornerà sul problema della

composizione-percezione dell’opera d’arte come totalità in quello che è il più schopenahueriano dei suoi scritti, il Gustav Mahler. Ci si affida troppo poco, sostiene Schönberg, alla capacità di “ricevere l’impressione di un oggetto come totalità”:

Noi analizziamo perché non ci accontentiamo di comprendere natura, effetto e funzione di una totalità come totalità, e quando non siamo capaci di rimettere esattamente insieme ciò che avevamo scisso, allora diventiamo ingiusti con quella capacità che ci aveva fatto cogliere il tutto nel suo spirito, perdiamo la fiducia nel nostro più prezioso potere, il potere di ricevere un’impressione totale.166

Ma tutto questo avviene, dice Schönberg, poiché si crede di capire ciò che è naturale, cioè si

vuole imporre l’operato della ragione anche là dove l’azione dell’istinto sarebbe sufficiente a trovare la strada. E qui non è difficile trovare il massimo punto di convergenza tra Schönberg e Schopenhauer. Prima della frase che Schönberg avrebbe riportato nel Rapporto col testo, leggiamo infatti:

Inventare una melodia, rivelare per suo mezzo i suoi più profondi segreti della volontà e del sentimento umano; questa è l’opera del genio; qui, più che altrove, il genio agisce evidentemente fuori di ogni riflessione, di ogni intenzione cosciente; qui abbiamo la vera e propria ispirazione.167

Si sono già citati i passi della Harmonielehre in cui Schönberg riconduce all’istinto la

maggior parte dell’attività creatrice. Basterà qui richiamare il saggio su Liszt:

Ma l’opera, l’opera compiuta del grande artista è generata dagli istinti, e quanto acutamente egli sa auscultarli, quanto più direttamente li sa esprimere, tanto più grande è l’opera sua. La fede, la fede indipendente dall’intelletto, sta proprio in tale rapporto, anzi in un rapporto ancora piu immediato con la vita degli istinti.168

Eppure, proprio nel luogo di massima vicinanza, a partire da questo ridimensionamento

dell’intelletto, le strade di Schönberg e Shopenhauer cominciano impercettibilmente a divergere. Parlando della percezione della musica, Schpenhauer scrive:

… potrei dimostrare che la sua percezione si effettua unicamente nel tempo, e che lo spazio, la casualità e quindi l’intelletto non vi hanno la minima parte. Infatti, l’impressione estetica dei suoni è data immediatamente dal loro effetto, né c’è alcun bisogno di risalire alle cause; il che è invece necessario nell’intuizione.169

Che nella percezione dell’arte non ci sia bisogno di risalire alle cause è un’affermazione che,

fatta da Schönberg, conosciamo già, e precisamente a partire dal terzo capitolo della

165 Idem, p. 20. 166 A.S., Gustav Mahler, in Stile e idea, cit., p.19. 167 A. Schopenhauer, op. cit., p. 302. 168 A.S., L’opera e l’essenza di Franz Liszt, cit., p. 18. Si chiarisce qui, una volta di più, il rapporto scienza-istinto-fede che occupa alcuni dei passaggi teoricamente fondamentali della Harmonielehre (cfr. Cap. II). A riprova di quanto si è già trattato, ecco come Schonberg inizia il saggio: “il significato di Liszt va ricercato dove solo può risiedere il significato di uomini grandi: nella fede, in quella fede fanatica che distingue nettamente dall’uomo normale chi è trasportato da lei. L’uomo normale possiede un convincimento, l’altro è posseduto da una fede”. 169 A. Schopenhauer, op. cit., p 309.

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Harmonielehre, là dove si dice che, nell’imitazione della natura interiore “…l’unico compito dell’arte è di riprodurre queste nuove impressioni, e il tentativo di risalire alla cagione esterna è praticamente vano”. E il saggio su Liszt specifica che è vano ricercare le cause dell’agire proprio dell’artista illuminato e “credente”: “...il fare di coloro che vivono secondo istinti oscuri ma ambiziosi, deve rimanere incomprensbile a chiunque riconduca un’effetto tutt’al più alle cause naturali”.170

Schopenhauer ha posto una distinzione tra l’impressione estetica e l’intuizione: riguardo a quest’ultima, risalire alle cause appare legittimo. Ma a cosa ci conduce il riferimento all’intuizione? Precisamente al “primo gradino”, a tutti comune, della comprensibilità della musica. Ecco infatti cosa si legge nelle pagine precedenti, dopo che si è letto che la musica è simile ai numeri e alle figure geometriche:

Benché siano forme universali di tutti gli oggetti possibili di esperienza, benché applicabili a priori ad ogni cosa, né gli enti geometrici, né i numeri, non si possono dire cose astratte: anzi, sono intuitivi e pienamente determinati.171

Se è qui che si situa il livello di comprensibilità universale della musica, Schönberg si è già

discostato da questo sentiero. È vero che Schopenhauer postula la necessità successiva di comprendere questa comprensione, ma essa esiste comunque e rimane, mentre in Schönberg è detto a chiare lettere che non si danno i primi e secondi gradini, non si danno gradualità: se l’ascoltatore non si accosta al brano musicale nella sua totalità di organismo articolato e completo, nel suo inscindibile rapporto di costruzione formale-espressione, non può illudersi di capirlo. Non esiste nessun livello di comprensione comune che si arresti allo scheletro della composizione, e non solo perché l’ascoltatore-tipo dell’epoca di Schönberg viene dall’opera e dal dramma e ha perso perciò ogni sensibilità ai puri rapporti formali, ma perché Schönberg non ammette nessun tipo di regole a priori, valide ante rem, che in qualche modo garantiscano il rapporto con l’opera d’arte. Se non si può capire ciò che è naturale, non si può nemmeno naturalizzare l’arte. E non si tratta più, allora, dell’aristocraticismo o delle componenti piccolo-borghesi dell’educazione schönberghiana. È in gioco molto di più, e precisamente il ritrarsi del linguaggio da ogni armonia prestabilita, il suo riconoscersi come spietata convenzione – quella stessa che afferma la non naturalità, la non-intuitività del sistema tonale – solo all’interno della quale si costituisce il significato, o ciò che ne resta. Lo spazio che Schönberg ha scelto di abitare, e che è privilegio forse, ma soprattutto tragedia di pochissimi abitare con lui, è lo spazio delle Bagatellen Op. 9 di Webern che, e sono parole di Schönberg stesso, potranno essere comprese solo da “…chi ha fede che sia possibile esprimere mediante suoni qualcosa che solo coi suoni si può dire”.172

Non si potrebbe basare una discussione sulle divergenze tra Schönberg e Schopenhauer sulla base dei pochi cenni che quest’ultimo dedica all’intuizione matematica della musica. In realtà questi accenni sono solo la spia di un problema ben più vasto, che coinvolge l’intero sviluppo della filosofia del linguaggio così come Schönberg, dal suo campo specifico di musicista, si trova ad affrontarlo. È ovvio che qui Schopenhauer è solo il primo anello della catena, ma d’altra parte è anche l’autore che Schönberg stesso ha scelto come termine negativo, e la ragione, se vogliamo, sta proprio nella priorità storica che il discorso di Schopenhauer si trova a rappresentare.

Se Schopenhauer è il primo che abbia riconosciuto la vera e completa autosufficienza della musica, a maggior ragione bisognerà ricercare in lui gli elementi spurii di questa concezione. Per Schopenhauer la “matematica” insita in un brano, cioè la sua forma logica, si può intuire perché riconducibile a numeri, cioè a priori intuitivi. Ma così si rende possibile la ricostruzione di uno schematismo di varianti trascendentali che vanno a collegare automaticamente il soggetto all’opera.

170 A.S., L’opera e l’essenza…, cit., p. 18. 171 A. Schopenhauer, op. cit., pp. 304-305. 172 A.S., Prefazione alle Bagatellen Op. 9 di A. Webern, Wien, Universal Edition, 1924, p. 2, qui cit. in L. Rognoni, op. cit., p. 321.

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È vero, manca la coscienza che si è di fronte al dispiegarsi della volontà, che può darsi solo a livello di comprensione superiore, ma questo livello superiore a sua volta si fa improponibile senza il tappeto postogli sotto da quello schematismo, poiché, come abbiamo già visto, i due livelli sono strettamente connessi; la comprensione della forma matematica dell’opera è la garanzia della sua comprensione filosofica. In essa, tramite l’armonia prestabilita dell’intuizione dei rapporti numerici, è possibile “risalire le cause”, compiere quel salto tra il linguaggio e il mondo che Schönberg giudicherà impossibile. In questo sottinteso schematismo schopenhaueriano, in apparenza i margini del linguaggio vengono solo accostati, ma in pratica si pongono le basi per una formalizzazione del linguaggio “naturale” della musica. Non è tanto la traduzione in numeri della forma logica di una composizione a richiamare di per sé una metafisica, quanto la possibilità che, sulla base di essa, si sviluppi una casistica di corrispondenze precostituite la cui validità è però indimostrabile musicalmente, perché deve fondarsi su strutture che appartengono esclusivamente al soggetto. È su questa strada che Schopenhauer giunge all’analogia, ma intanto può dire:

… la melodia ci racconta, per conseguenza, la storia della volontà illuminata dalla riflessione, il cui manifestarsi nella realtà costituisce la serie degli atti umani; di più; ce ne racconta la storia più segreta, ci dipinge ogni impulso, ogni slancio, ogni movimento della volontà, quanto la ragione abbraccia sotto il vasto concetto negativo di sentimento, ma che non riesce a tradurre nelle sue astrazioni. E perciò, sempre si disse che la musica è il linguaggio del sentimento e della passione, come la parole sono la lingua della ragione.173

Non è certo l’affermare che la musica è il linguaggio della passione che può far arretrare uno

Schönberg, che per parte sua ha già sostenuto la musica essere il linguaggio del subconscio. La vera differenza sta nel fatto che in Schönberg, una volta che un moto espressivo si dà, per mille ragioni, come linguaggio, esso è ormai del tutto autosufficiente, e volerlo ricondurre alle sue origini intuitive è fatica sprecata. Anzi è regressione. Tutto il lavoro intellettuale che porta Schönberg alla Harmonielehre, dalla sottomissione iniziale all’arte come imitazione della natura al conclusivo anti-naturalismo, non è che un aspetto del radicale capovolgimento della filosofia del linguaggio che sconvolge l’orizzonte culturale europeo a cavallo del nuovo secolo. Non è più possibile spingere il “realismo” in musica fino ad affermare che a una certa configurazione della natura, o che a una certa configurazione del linguaggio verbale deve corrispondere un’adeguata risposta della musica:

Né la notazione di “oggetto” è riducibile a quella di direttamente “denotabile”, né noi disponiamo di nomi in corrispondenza univoca con singole cose; non esiste per una sola cosa un solo nome. Il linguaggio naturale appare perciò in Frege, come nel Wittgenstein che riscopre la problematicità e la crisi del Tractatus, intrinsecamente non logicizzabile. L’idea di una essenziale logicità del linguaggio non è un’idea “metafisica”, ma la metafisica stessa.174

Ciò che di Schopenhauer va rifiutato è proprio il suo credere di capire ciò che è naturale,

credenza che si rintraccia al di là della sua professione di fede nell’essenza extra-linguistica della musica, e questo, ovviamente, non per dire che la musica sia “naturale”, ma per rimarcare la riduzione al naturale che lo sviluppo del discorso di Schopenhauer comporta là dove fa ricorso alle analogie. A questo punto si comprenderà il senso profondo della critica dell’analogia che Schönberg fa seguire all’apprezzamento positivo della tesi secondo cui la musica è inaccessibile alla sola ragione: ancora, ciò che va respinto in Schopenhauer è il suo indulgere ad “affinità elettive” tra logica e fenomeno, o, come dice Schönberg con chiarezza wittgensteiniana, tra lingua dell’uomo e lingua del mondo:

… lo stesso Schopenhauer, più tardi, si perde, nel tentativo di tradurre in concetti certe particolarità di questo linguaggio “che la ragione non comprende”; sebbene debba essergli chiaro come in questa

173 A. Schopenhauer, op. cit., p. 302. 174 M. Cacciari, La Vienna di Wittgenstein, “Nuova corrente”, cit., p. 60.

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traduzione in concetti e nella lingua umana (in die Sprache des Menschen), in questa astrazione e riduzione al conoscibile, vada perduto l’essenziale, il linguaggio del mondo (die sprache der Welt), che forse deve restare inintellegibile e accessibile solo al sentimento (nur fühlbar).175

Una volta ammesso che la musica è il linguaggio del sentimento ne discende che non se

potrà parlare con il linguaggio dell’intelletto. Schönberg non ne fa, qui, una questione di priorità: essi sono semplicemente intraducibili l’uno dall’altro. Ma la “lingua del mondo”, definizione che sembra porsi a meta’ strada tra la Lebenswelt di Husserl e il Mystische di Wittgenstein, non è il “contenuto” dell’opera d’arte: come si è già visto, la musica si risolve nella totalità del suo linguaggio che, è vero, non ha falsi pudori nel mostrarsi carico di passato e tradizioni. Ma da questa “storia” che giace al fondo di ogni parola, come di ogni accordo, come uno scrigno che non può essere visto aperto, viene a mostrarsi, ineffabilmente, il mondo. Parla un linguaggio straniero: nell’opera se ne raccoglierà l’eco dell’accento. Ma guai a chi tenti di tradurlo: si condanna per ciò stesso a perderlo, perché l’ineffabile si manifesta solo laddove non ci si sforza di dirlo, dove, per riprendere l’aforisma già citato, non si costruisce un labirinto per poi “segnarlo”, per additarvi il luogo del significato.176

Schopenhauer non cade ad occhi chiusi in questa situazione; anzi, prima di introdurre i suoi tentativi di “traduzione”, avvisa che in ogni caso non possono essere più di una guida, resa necessaria dall’oscurità del soggetto trattato. È per la sua stessa consequenzialità che Schopenhauer giunge a quelle conclusioni. Come ha scritto Fubini:

La musica sta fuori dalla gerarchia, sopra la piramide, e si pone come linguaggio assoluto, come limite insuperabile, raggiungibile solo dal genio artistico. Come si potrà allora parlare della “musica”, se data la sua posizione privilegiata rispetto alle altre arti, sarà a maggior ragione al di là dei concetti che non non giungono che al mondo fenomenico, da cui la musica è totalmente indipendente? Se ne potrà parlare per metafore in quanto esiste un parallelismo tra la musica e le idee…177

Questo parallelismo è dato dal fatto che la volontà che si oggettiva nelle idee è identica a quella che si oggettiva nella musica (vi è solo una differenza di forma, dice Schopenhauer) e che quindi tra musica e idee deve necessariamente sussistere una sorta di parallelismo analogico. Che le le analogie proposte risultino bislacche, banali o errori grossolani (così le definisce il Fubini) non toglie nulla al fatto che la loro introduzione è legittimata da una premessa teorica che si lega a tutta l’impostazione generale. Esse sono “errori” ma non deviazioni del sistema, lo stesso sistema che cerca la possibilità di una traduzione in extremis che compensi l’audacia di avere postulato un linguaggio che la ragione non può e non potrà mai comprendere.

175 A.S., Il rapporto col testo, cit., p.394. Cfr. Schopenhauer: “Segue da tutto ciò, che il mondo fenomenico (la natura) da una parte, la musica dall’altra, si possono considerare come due differenti espressioni di una medesima cosa, che è il termine medio fra l’uno e l’altra, e la cui conoscenza è indispensabile per ben comprendere la loro analogia” (op. cit., p. 304). 176 “Ed è cosi: quando non ci si studia di esprimere l’inesprimibile, allora niente va perduto. Ma l’inesprimibile è – ineffabilmente – contenuto in cio’ che si è espresso” (Ludwig Wittgenstein, lettera a P. Engelmann del 1917, cit. in M. Cacciari, Krisis, cit., p. 96). 177 E. Fubini, L’estetica musicale dal settecento ad oggi, cit., p. 96.

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III. Perché di audacia, a nemmeno vent’anni dalla fine del Settecento, si può ben parlare. È vero, c’è stata la rivoluzione romantica, già Hoffmann e Novalis hanno espresso idee simili, ma Schopenhauer non è di quella chiesa: il suo ideale è Rossini, non mira all’ambiguità della musica nei confronti del singolo fenomeno, ma alla sua indifferenza. Nel cercare precedenti culturali, all’interno del romanticismo, della sua fede tutta particolare nella capacità comunicativa della musica, bisognerebbe rifarsi a un romantico tradizionalista come Mendelssohn: “Per me i pensieri che la musica esprime non sono troppo indefiniti, ma troppo definiti per esser descritti con parole”.178 È evidente il legame tra queste tesi e Schopenhauer, anche là dove Schopenhauer sostiene che la musica

…non esprime la tal gioia, la tale afflizione, il tal dolore, il tal raccapricco, il tal giubilo, la tale allegria, la tale calma di spirito; ma dipinge la gioia, l’afflizione, il dolore, il terrore, il giubilo, l’allegria, la calma di spirito, tali quali sono in sé, nella loro universalità in abstracto…179

Poter esprimere il sentimento nella sua “essenza priva di ogni accessorio” significa appunto

esprimerlo con precisione molto maggiore di quanto non potrebbe fare il linguaggio parlato. Siamo qui agli antipodi del romanticismo schumanniano che ha già di mira l’unificazione delle arti, e pertanto sostiene la perfetta e completa traducibilità in parole di ogni sfumatura musicale.180 La concezione schopenhaueriana dell’espressività della musica perde così alcuni tratti di romanticismo estremo e riguadagna profondità settecentesche: è Diderot, a questo punto, uno degli ascendenti indiretti; il Diderot per il quale il piacere della musica consiste “nella percezione dei rapporti tra i suoni”. E sarebbe formalismo, sottomissione al “matematico”, se non fosse che proprio questo privilegiare il momento fisico-percettivo può rovesciarsi in vitalismo, proprio perché lascia libera la percezione di basarsi su ogni incontrollabile empatia inconscia e sentimentale.

E infatti già nelle Leçons de Clavecin del 1771 la musica viene definite grido animale (cri animal),181 termine che sarà ripreso nel Neveau de Rameu del 1774, dove la rivalutazione della musica si accompagnerà apertamente al dispiegarsi delle passioni più oscure. Come una cattiva coscienza, il formalismo porterà sempre con sé questa contraddizione: l’oscillazione tra geometria e istinto, la mancata e impossibile conciliazione tra Affekte e Affektenlehre, andrà a fecondare Schopenhauer e perfino Hanslick, tormenterà Wolf e Brahms ed esplorerà infine nell’espressionismo. Il solo Nietzsche le opporrà resistenza. I paragrafi dedicati alla musica di Umano, troppo umano, che esamineremo in seguito, costituiranno il più saldo tentativo di spiegazione genealogica (che insieme varrà come autodifesa) del perché di questo dualismo e di come superarlo. Ma nemmeno di lì verrà la soluzione: sarà a Schönberg che bisognerà tornare per ritrovare l’intero problema impostato su nuove basi, forte della deflagrazione delle opere composte intorno al 1910. Schopenhauer si trova al crocevia. Come per Mendelssohn, ma già con meno sicurezza, il pensiero dei “rapporti tra i suoni” vuole avere in lui una connotazione solare, affermativa, 178 Felix Mendelssohn Bartholdy, cit. in Massimo Mila, L’esperienza musicale e l’estetica, Torino, Einaudi, 1976, p. 20. In realtà un altro precedente esiste. Il fascino che la sicurezza di rapporti che dà l’elemento matematico insito nella musica ha avuto il potere di intrecciare formalismo ed estetica del sentimento fin dagli inizi del romanticismo. Da questo punto di vista il più diretto precursore di Schopenhauer è Wackenroder. Dai pitagorici a Rameau, il concetto di musica come matematica non si è mai risolto in una riduzione al numero, ma al contrario ha sempre costituito la porta d’accesso per concezioni mistiche del fatto musicale. In Wackenroder “… la musica (…) ha un carattere sacro, che le deriva proprio dall’elemento matematico che la regge dall’interno. Quest’elemento però non deve essere analizzato ulteriormente, per non varcare quei sacri recinti inviolabili oltre cui c’è il mistero” (E. Fubini, op. cit., p 83). 179 A. Schopenhauer, idem, p. 304. 180 Cfr. Robert Schumann, la musica romantica, Milano, Mondadori, 1958 p. 63, sulla concordanza delle Romanze senza parole di Mendelssohn con un testo immaginario che potrebbe essere desunto dalla musica stessa. 181 Cfr. E. Fubini, op. cit., p. 47.

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rossiniana, appunto. Ciò che sarà oscuro e “simbolico” per la decadenza, e che già egli stesso contribuisce a rendere oscuro, vuole tuttavia mantenere un’origine razionale: della musica in senso stretto non si può più parlare, ogni Empfindungskeit, ogni normativa dell’espressione è tramontata, ma essa può ancora essere trasferita nel campo profughi dell’analogia, alla quale è ancora concesso di parlare a nome della musica. E in questo c’è, forse, della nostalgia: quella musica che un tempo era chiara e semplice ora si va facendo irraggiungibile, incomprensibile, lontana: “Lo sviluppo di tale analogia tra la musica e le idee sarà la guida con cui potremo più facilmente comprendere una spiegazione resa così difficile dall’oscurità del soggetto”.182 Eppure non si può disconoscere, e infatti Schönberg non lo farà, il peso storico della guerra per l’indipendenza che Schopenhauer combatte a favore della musica. Se essa viene equiparata all’idea, vuoi perché entrambe oggettivazioni della volontà, vuoi per qualunque altro motivo, ciò significa che non è più ex-pressione dell’idea, ma si fa idea essa stessa, e il suo Logos non sarà più costantemente “al di fuori” bensì ad essa immanente. Non altro infatti è il senso della correzione che Schopenhauer apporta a se stesso, dopo aver divagato tra le più peregrine comparazioni:

Non dobbiamo però dimenticare che la musica non ha, con le nostre analogie, che una relazione indiretta: la musica, infatti, non esprime il fenomeno, ma soltanto l’intima essenza, l’in sé di ogni fenomeno, la volontà stessa. 183

Se Schopenhauer non ha saputo tacere dopo aver compreso questo, se con le sue alchimie

verbali l’ha offuscato, ciò non gli toglie il merito di averlo formulato. Naturalmente non si tratta qui, per Schönberg, di difendere l’identificazione tra musica e volontà, che è parte di un sistema particolare e come tale può essere superata (anche se, a ben guardare, l’accostamento musica-incoscio ne è la prosecuzione), ma di rendere totalmente indipendente la musica da un’idea ad essa trascendente. Per questo, anche se non solo per questo, Schönberg è incline a “perdonare” le disgressioni analogiche:

Tuttavia un tale modo di procedere è per lui legittimo, poiché, come filosofo, egli ha lo scopo di rappresentare l’essenza del mondo, cioè la ricchezza incommensurabile, mediante concetti, mediante una povertà fin troppo palese.184

Senonché, il seguito del testo schopenhauriano, dopo la frase appena citata, e che pone in causa, con un ruolo centrale, il problema del testo nella musica, induce ad altre considerazioni. Torniamo a Diderot. Anche nel Nipote di Rameu e il rapporto testo-musica che decide dell’espressività di quest’ultima, che ne costituisce il banco di prova. Alla domanda di Diderot: “Ogni arte di imitazione ha un modello nella natura. Qual è il modello di un musicista quando compone un canto?”, il nipote risponde:

Il canto è un’imitazione, mediante suoni, di una scala, inventata dall’arte o ispirata dalla natura (…) dei rumori fisici o degli accenti della passione espressi per mezzo della voce e degli strumenti (…) Qual è il modello del musicista o del canto? La declamazione, se il modello è vivo e pensante; il rumore se il modello è inanimato. Bisogna considerare la declamazione come una linea e il canto come un’altra linea che serpeggia sulla prima. Più la declamazione, base del canto, sarà forte e vera, più il canto che vi si conforma l’interromperà in un maggior numero di punti, più il canto sarà vero e bello.185

Il nipote prosegue esemplificando da varie opere, soprattutto italiane, alcuni frammenti dove la musica si adeguerebbe perfettamente all’espressione della corrispondente declamazione testuale.

182 A. Schopenahuer, idem, p. 300. 183 Idem, pp. 303-304. 184 A.S., Il rapporto col testo, cit. p. 394. 185 Denis Diderot, Il nipote di Rameau, Milano, Rizzoli, 1957, p. 91.

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La musica raggiunge così il suo scopo quando la linea melodica viene a coincidere con la linea della declamazione. A tal fine è necessario che il cantante sia anche un attore, un attore spontaneo e non accademico, poiché è suo compito annullare la differenza che sta tra l’espressione parlata e il movimento del canto. Viene a incrinarsi la distinzione tra aria e recitativo (“da ogni bel motivo si può trarre un bel recitativo, e da ogni bel recitativo un artista abile può trovare un motivo”),186 poiché “… non vi è nulla di più evidente di questa definizione che ho letto in qualche posto: musices seminarium accentus, l’accento è il vivaio della melodia”.187 Come si vede, siamo nel solco di Rosseau, per il quale è la lingua caricata di passione che genera la musica, e siamo anche nella direzione di Gluck, ma sarebbe un errore inscrivere le posizioni di Diderot in una generica “adeguazione al testo”. In realtà ciò a cui la musica qui si sottomette è l’espressione delle passioni, non la parola. Quella muscalità verbale che negli stessi Hamann e Herder cercavano nella poesia popolare, e che Rousseau cercava nel linguaggio della passione, viene qui collocate nel grido: la parola si riduce a esclamazione, interiezione, invocazione. Essa non è che il supporto materiale, il veicolo della passione. Occorre ora citare per esteso, poiché è qui che nasce un nodo teorico che, man mano che si andrà avanti, potrà condurre molto lontano:

Solo il grido animale della passione può dettarci la linea che fa per noi. Occorre che le espressioni si incalzino; che il musicista possa disporre del tutto e nello stesso tempo di ciascuna delle sue parti, omettere una parola o ripeterla, aggiungerne un’altra che gli occorra, voltarla e rivoltarla come un polipo, senza tuttavia distruggerla (…) “Barbaro, crudele, pianta il tuo pugnale nel mio seno. Eccomi pronta a ricevere il colpo fatale. Colpisci. Osa… Ah! Languisco, muoio…Un fuoco segreto mi si accende nei sensi … Crudele amore, che vuoi da me? Lasciami la dolce pace di cui godetti …. Rendimi la ragione …” Occorre che le passioni siano forti, e la tenerezza del musicista e del poeta lirico sia estrema. L’aria corrisponde quasi sempre al momento della perorazione: occorrono, quindi, esclamazioni, interiezioni, sospensioni, interruzioni, affermazioni, negazioni; e noi chiamiamo, invochiamo, gridiamo, gemiamo, lacrimiamo, ridiamo con franchezza. Niente spirito, niente epigrammi, niente pensieri leggiadri: tutte cose troppo lontane dalla natura schietta.188

Si può ancora parlare, qui, di sottomissione della musica al testo? Quale testo è rimasto, oltre quell’ammassata di scheletri retorici che vengono tranquillamente denunciati come tali, ma solo perché essi possono, meglio di ogni poesia tornita o dotata di “stile”, sopportare il peso della passione animale cje attraverso loro si manifesta?

Qui sono le fondamenta stesse dell’illuminismo in musica a vacillare: sono aperte le porte al demonismo romantico, come è aperta la porta all’avvento dell’aconcettualità musicale, perché queste passioni che la musica può rappresentare con sempre maggiore fedeltà non sono sempre riconducibili a una sistemazione discorsiva-intellettuale. Non si trae un gran discorso da un insieme di interiezioni. Ed è aperta altresì la strada alla musica assoluta. Che cosa ne è rimasto del testo, se non un puro strumento di cui la musica si servirebbe come di un violino solista? Eppure la musica può giungere a questa estrema, disincarnata autopresentazione, solo in quanto la sua stessa libertà è rovesciamento dialettico della precisione assoluta con la quale si vogliono interpretare i moti dell’animo. Per Diderot, come poi per Schopenhauer, ogni sfumatura del sentimento può trovare la sua adeguata espressione in musica. Ma non sarà mai quel sentimento in quella determinata situazione (e infatti si basa, in Diderot, su un testo che è il più generico possibile) bensì, come si è già visto, l’universalizzazione che ha quella sfumatura solo per pretesto.

Simili scene isolate della vita umana non sono mai connesse necessariamente, né in corrispondenza rigorosa con il linguaggio universale della musica in cui sono tradotte; non c’è, fra l’uno e l’altro elemento, altra relazione che quella intercedente fra un esempio scelto a caso e un concetto

186 Idem, p. 92. 187 Idem, pp. 91-92 188 Idem, p. 100.

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universale: gli elementi associati con la musica rappresentano, con la precisione della realtà, ciò che la musica enuncia nell’universalità della pura forma. 189

Questo escludere la musica dal dovere della rappresentazione immediata è ciò che le dà il definitivo potere sul testo. Ancora una volta il formalismo della rappresentazione, portato ai suoi estremi, si è risolto nel suo opposto: nella precisione con cui la musica può, o crede di potere dar voce a un dominio estraneo al linguaggio discorsivo (la “lingua della ragione”) si va rivelando lo spazio del suo proprio linguaggio, delle sue proprie regole. La curva che porta da Diderot a Wackenroder a Schopenhauer traccia il nascere e il giungere ai primi sintomi di autocoscienza del processo. Eppure siamo ancora alle prime tappe: la musica-servo, imparando a conoscere e misurare matematicamente (la base intuitive di Wackenroder e Schopenhauer) il campo che dall’esterno le è stato associato, cioè il “linguaggio del sentimento”, ha conquistato il diritto di guardare pari a pari la parola-padrone, di usarla quand’essa viene a invadere quel campo, sotto forma di immediatezza lirica o di interazione espressiva. Ma, avendo dovuto circoscrivere il proprio spazio al di fuori di quello del linguaggio verbale, essa sente ancora questo spazio abbandonato come mancanza, come esclusione necessaria ma dolorosa. Il senso della potenza sintattica del nuovo linguaggio reso indipendente è ancora meno forte della sensazione di ciò che si è perduto: i critici romantici che per primi esaltarono il potere della musica, i vari Wackenroder, Tieck, Novalis, Friedrich Schlegel, erano tutti dei letterati, e lo stesso Hoffmann era più letterato che musicista. Tra i musicisti romantici quasi nessuno li seguì: certo non Berlioz, non Schumann, e meno che mai Liszt, che anzi teorizzò l’insufficiente potere comunicativo della musica pura.190 Ma questi letterati vennero a trovarsi nella contaddizione, che fu poi di Schopenhauer, di essere i soli a parlare di un linguaggio che, per loro definizione, non poteva sopportare nessun metalinguaggio. E l’imbarazzo di cui dà prova Schopenhauer nell’introdurre le sue analogie ne è la dimostrazione più evidente:

… in presenza di una scena qualsiasi, di un’azione, di un avvenimento, di una qualche circostanza, una musica, il cui suono ci convenga e ci faccia sentire, sembra che ce ne riveli il senso più profondo, e ci dia il commento più preciso e più chiaro. Questa medesima reazione ci spiega ugualmente l’altro fatto: che, mentre siamo tutti assorti nell’esecuzione di una sinfonia, pare che ci sfilino dinanzi agli occhi tutti gli avvenimenti possibili della vita e del mondo, e tuttavia, per quanto ci sforziamo di rifletterci, non ci riesce di scoprire nessuna analogia fra i motivi eseguiti e le nostre visioni.191

IV. Eppure la ragione non riesce ancora a fare a meno di sentire il bisogno di quelle analogie. La stessa perfezione espressiva che la musica ha raggiunto fa sorgere il desiderio di possederla anche a costo di impoverirla in un linguaggio che non è il suo.

E tuttavia la comprendiamo perfettamente, in tutta la raffinatezza della sua quintessenza. Ecco perché l’immaginazione viene così facilmente eccitata dalla musica: la nostra fantasia cerca di dare una figura a quel mondo di spiriti invisibile, eppur così mosso e animato, la cui parola vibra direttamente nell’animo nostro; si sforza di dargli carne e ossa, cioè di incarnarlo in un esemplare analogo. Donde l’origine del canto con parole, e dell’opera.192

189 A. Schopenhauer, op. cit, p. 305. 190 Questi musicisti venivano già dopo tale romanticismo letterario. E la musica sulla quale quest’ultimo si era formato non era quella romantica (sempre con l’eccezione di Hoffmann), bensì l’arte di Palestrina e Mozart, e per Schopenhauer anche quella di Rossini. Ma è il “formalismo” di questa musica, il suo effettivo potere, a convincerli della sua raggiunta indipendenza, non la romantica tensione verso l’infinito che saranno essi ad aggiungere. 191 A. Schopenhauer, ibidem. 192 Idem, p. 304, corsivo nostro.

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Ed ecco che ora è il testo che nasce direttamente dalla musica: il rovesciamento delle posizione di Rousseau è così completato, ma si è visto quanto ad esso abbia contribuito proprio quell’estetica che ha come base lo stesso Rousseau, e che ne ha sviluppato ben presto dei motivi i quali, ancora impliciti nell’ultimo illuminismo tedesco e parzialmente impliciti in Diderot, giungono ora a svelarsi. Il testo nasce dalla contemplazione attiva dell’immaginazione e della fantasia, posta davanti all’indicibile della musica: è, se vogliamo, la nascita della poesia dallo spirito della musica (ma non è Nietzsche; le sue tesi, e lo vedremo, non sono riconducibili a queste). È così che Schopenhauer può scrivere che

… al significato universale della melodia, che venne associata con una poesia, possono corrispondere nello stesso grado altri esempi scelti a caso dell’universale in qella espresso; perciò la stessa composizione può adattarsi a molte strofe (donde anche il vaudeville).193

Sembra quasi che il testo possa ridursi a una sorta di onomatopea della musica:

Quindi, chi si sforza di accomodare la musica alle parole, e di adattarle agli avvenimenti, ha l’assurda pretesa di farle parlare una lingua che non è la sua. Da tale difetto nessuno si conservò immune più di Rossini; la musica del quale parla il proprio linguaggio in modo così distinto e così puro, da non avere bisogno di parole; bastano dei semplici strumenti per farcene gustare tutto l’effetto.194

Sembrerebbe agevole, qui, richiamare in causa Schönberg: forse che il suo rapporto col testo non prescinde dal significato delle parole per consegnarsi al loro “suono”, cioè solo a ciò che in loro c’è di musicale? Eppure, è proprio seguendo alla lettera Schopenhauer che appare come la somiglianza non sia nemmeno qui, nonostante gli evidenti punti di contatto, risolvibile pacificamente. Dopo avere detto che il canto e l’opera nascono dalla necessità della fantasia di impadronirsi in qualche modo della musica, Schopenhauer aggiunge:

… s’intuisce che né il canto né l’opera debbono mai dimenticare la loro posizione subordinata, per assurgere a quella principale; in tal caso, la musica degraderebbe a semplice mezzo d’espressione…195

Schönberg avrebbe potuto concordare sul fatto che il testo non deve assumere il ruolo principale, ma avrebbe potuto ammettere che la musica cantata ha comunque un ruolo subordinato? Seguendo le indicazioni date fin qui, dobbiamo rispondere di no. Ma la differenza è più profonda: Schopenhauer dice esplicitamente che la fantasia, creando un testo, si sforza di incarnare la musica in un esemplare analogo. In tal modo il testo viene accomunato proprio al meccanismo di quuell’analogia che era solo l’incauto strumento di cui si serviva la limitata ragione per “appropriarsi” della musica. Ma siccome si è già visto quanto l’analogia fosse inadeguata ai suoi stessi scopi e qual è l’impoverimento che ne deriva (e che Schopenhauer stesso ammette), appare chiaro come il testo, in questa situazione, non può essere altro che un pessimo “traduttore”, capace solo di smussare la precisione e la potenza del linguaggio musicale. L’indimostrabile processo analogico che dovrebbe collegare musica e impressioni viene qui elevato al rango di creatore di un organismo che poi, in quanto ha senso compiuto ed è comunque frutto di un lavoro artistico, è a sua volta suscitatore di sensazioni, che si troverebbero così ad essere sensazioni “di seconda mano”. La creazione del testo appare già a priori un processo secondario e, in fondo, estraneo proprio a quell’intero di cui dovrebbe essere parte. Ma in Schönberg il testo non è né prodotto della musica né da essa stravolto: solo, la musica non invade il suo dominio, non pretende di svelarlo o interpretarlo. 193 Idem, p. 306. 194 Idem p. 304. 195 Ibidem.

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Esattamente come la natura, nel processo gnoseologico che collega le percezioni interiori, esso è lasciato come altro, e non perché esso sia la natura, ma poiché il suo è uno dei dominî separati di cui si compone la totalità dei linguaggi. Pare quindi legittimo avanzare l’ipotesi che, se Schönberg critica in Schopenhauer l’inutile ricorso alle analogie – giustificabile solo in quanto esse rappresentano semplici ferri del mestiere dell’officina del filosofo – una lettura sintomale “alla rovescia” svela in realtà che è questa analogia di fondo, questo rapporto analogico subordinato del testo rispetto alla musica, che Schönberg combatte. E infatti, come Schopenhauer ricorre all’immaginazione che gli fornisce le analogie (e il testo) così il critico musicale non riesce a parlare di una musica che si basa solo sugli “effetti” del materiale”, ma anzi ha bisogno che essa si basi su un testo, sia esso un Lied, un libretto d’opera o un programma.196 A ciò si aggiunga che il critico appagato di queste traduzioni giunge a sostituirle alla musica, e pretende di poter dire, con il linguaggio, come la musica deve essere:

Questo vale pure nel caso di un compositore, anche di valore, che si mette a fare il critico; infatti, nel momento in cui scrive di critica, non è compositore, non è musicalmente ispirato: se lo fosse, non descriverebbe come il pezzo debba essere composto, ma lo comporrebbe; cosa che riesce anche più spiccia e convincente per chi sa farla.197

La lingua dell’uomo non può sovrapporsi alla lingua del mondo: “non i teoremi di congruenza sono da applicare, ma quelli di somiglianza”.198 Come per Wittgenstein il che del mondo è l’indicibile del linguaggio, così per Schönberg il che dell’arte è l’indicibile della sua critica: il mondo non si dice, si mostra: e l’opera d’arte non si teorizza ma si compone.199 D’altra parte Schönberg ha di mira il critico musicale e non Schopenhauer, poiché riconosce a quest’ultimo di aver usato delle analogie mettendole tra mille virgolette. È il critico invece che ha sfruttato senza ritegno il meccanismo dell’analogia e ne ha fatto una legge. Il carattere trascendente e solenne della noumenicità dell’arte è diventato cosi’ la giustificazione per ogni spericolata avventura analogico-associativa. Su questa “confusione delle lingue” Schönberg non abbasserà il tono neanche in seguito:

Ogni volta che l’intelletto umano ha cercato di scoprire le leggi che governano le opere divine, ha scoperto soltanto le leggi che caratterizzano e distinguono la nostra capacità di conoscere attraverso il pensiero e la fantasia. Ci muoviamo in un circolo chiuso, vediamo soltanto noi stessi o al massimo il nostro stesso essere, tutte le volte che ci illudiamo di aver descritto l’essenza di qualcosa esistente al di fuori di noi; e di queste leggi che nel migliore dei casi sono quelle della nostra capacità intellettiva, noi ne facciamo un metro per giudicare l’opera del creatore! In base a queste leggi giudichiamo l’opera del grande artista!200

V. Se dopo queste parole, sufficientemente chiare, tornimao al Rapporto col testo, e precisamente là dove Schönberg spiega perché comprende la posizione di Schopenhauer, possiamo restare sorpresi nel leggere che:

196 A. S. Il rapporto col testo, cit. p. 394. 197 Idem, p. 395. 198 A.S. Aforismi… cit. in L. Rognoni, op. cit, p. 383. 199 “V’è davvero dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il mistico” (L.Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 6.552, Torino, Einaudi, 1968, p. 81). “E il Signore vide che era fatto bene, ma soltanto dopo aver finito di crearlo.” (A. S., Aforismi… cit., p. 383). 200 A.S., Gustav Mahler, cit., p. 21.

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… anche Wagner, quando volle offrire all’uomo medio un’idea mediata di ciò che egli, come musicista, aveva intuito immediatamente, fece bene a spiegare con “programmi” le sinfonie di Beethoven.201

C’è forse, in questa concessione paternalistica, una rizzata d’orgoglio dell’anima aristocratica-piccolo-borghese di Schönberg? In parte sì, ma non solo. A questo riguardo, Luigi Nono ha osservato che l’incontro tra testo e musica che avviene alla fine del Settecento con la scoperta del Volkslied portò in qualche caso all’appiattimento della musica (ridotta, l’abbiamo già visto, a “riproduzione” del testo) ma d’altra parte potè anche arricchire l’invenzione musicale autentica, la forma stessa, di nuovi “segni distintivi”. Di ciò ne dà testimonianza tutta la musica della prima metà del diciannovesimo secolo, “… in misura tale che anche nella pura musica strumentale la strutturazione melodica può permettere l’addizione di un testo”.202 Nono ricorda che Hermann Scherchen, per rendere più chiaro agli orchestrali il senso di alcune partiture romantiche, usava interpretarle con dei testi scelti appositamente da lui stesso, e aggiunge:

Non solo: la musica strumentale poteva anche permettere una chiarificazione puramente contenutistica nel senso di un programma, come – per parlare con Schönberg – la diede Wagner, quando volle dare all’uomo della strada un’idea indiretta di ciò che egli ne aveva ricavato immediatamente come musicista.203

Il testo, e al limite anche il programma, possono farsi fattori di forma, elementi tra gli altri che il musicista può usare senza per questo concedergli il dominio sul “significato”. Non diversa è la posizione di Schönberg. Quello che Schönberg rimproverava a Liszt non era tanto il suo continuo rifarsi a sollecitazione extra-musicali, ma il non essere riuscito a trasformare questa attitudine in un elemento formale:

Liszt aveva la giusta nozione che il musicista è sì una personalità che si esprime con la musica, ma è una personalità (…) che sente poeticamente (…) Ma trasponendo questa idea nel linguaggio della musica si verificarono per così dire alcuni errori di traduzione: egli tradusse la personalità direttamente intuitiva mediante quella che sente poeticamente, questa mediante il poeta e infine il

201 A.S. Il rapporto col testo, cit., p.394. 202 “… in solchem Ausmass, dass auch in der reinen Instrumentalmusik die melodische Strukturierung die Beifügung eines Textes gestatten kann.” (L. Nono, op. cit., p. 44). 203 “Nicht nur das: die Instrumentalmusik konnte auch eine rein inhaltiliche Erklrärung im Sinne eines Programms zulassen. Wie sie – um mit Schonberg zu sprechen – Wagner gab, wenn er einem Durchschnittmenstchen eine mittelbare idee von den geben wollte, was or als muskier unmittelbar empfurssen hatte … “ ( ibidem). L’osservazione di Nono può essere rafforzata dal seguente passo di Friederich Schlegel: dopo aver affermato che compito della musica non è solo l’espressione dei sentimenti, bensì il tendere al pensiero e alla filosofia, Schlegel continua: “Non deve la pura musica strumentale crearsi un testo? E in esso non viene il tema così svolto confermato, variato, contrastato, come l’ogetto della meditazione in una serie di idee filosofiche?” (F. Schlegel, Frammenti critici e scritti di estetica, Firenze, Sansoni, 1937, p. 444). È così che la musica si sta avvicinando all’Idea. La creazione di un testo, iniziata come ricorso a un analogo, finirà totalmente interna alla forma. È a partire da qui, e non da Liszt e dal suo poema sinfonico che si può comprendere il senso della “musica a programma” che Schönberg ha effettivamente scritto intorno al 1900. Verklärte Nacht e Pelleas und Melisande sono opere dove il “programma” lotta continuamente contro la tentazione dell’esteriorità. Esso è interiore, nel senso di Mahler, che definiva inneres Program la traccia delle sue sinfonie. Anticipando un discorso che verrà ripreso nei prossimi capitoli, menzioniamo le annotazioni che Schönberg scrisse a margine dell’Entwurf di Busoni: “… la musica può imitare l’uomo com’è interiormente, e in questo senso è possibile una musica a programma” (“Die Musik kann den Menschen nachahmen, wie er innerlich ist, und in diesem Sinn ist eine Programm-Musik möglich”). “Poème musical è una poesia il cui materiale è quello della musica. Un uomo musicale consiste di musica. È una questione d’onore!” (“Poème musical ist ein Gedicht, dessen Material das der Musik ist. Ein musikalischer Mensch ist einer – der aus music besteht. Es ist also eine Ehrensache!” Anmerkungen von Arnold Schonberg, in F. Busoni, Ästhetik der Tonkunst, cit., pp. 63-66).

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poeta mediante le forme letterarie. Creò così una letteratura di seconda mano, invece di far esprimere esclusivamente con la musica la propria intuizione, il poeta che era in lui.204

Ma questa letteratura di seconda mano non potrebbe essere la stessa in cui scade Wagner nelle sue interpretazioni beethoveniane? Secondo Schönberg il procedimento della traduzione in un programma

… diventa fatale quando si trasforma in uso generale: si cerca di riconoscere nella musica fatti e sentimenti, come se essi dovessero esservi contenuti, mentre invece in Wagner, la cosa, in realtà, procede in questo modo: l’immagine “dell’essenza dell’universo” evocata attraverso la musica, diviene in lui produttiva e suscita un processo poetico col materiale di un’altra arte.205

Nel giudizio di Schönberg, Wagner non ha voluto fare il “critico”, non ha cercato di tradurre la musica in un’altra arte. Per parlare della musica si è fatto poeta, cioè ha utilizzato un altro linguaggio, è entrato in un altro mondo, si è reso indipendente da essa (gli esempi che fa in effetti sono tratti dal Faust). Solo grazie a questo ne ha potuto parlare, all’uomo della strada, per “programmi”. Naturalmente non si potrebbe immaginare un’interpretazione piu’ anti-wagneriana di Wagner, più indipendente dal totalitarismo del Gesamtkunstwerk. Ma una simile interpretazione è quella di tutto l’espressionismo più cosciente. In Über das Geistige in der Kunst, che Schönberg cita come modello proprio nel Verhältnis zum Text, Kandinskij affronta lo stesso problema e quasi con le medesime parole:

Vale a dire: un’arte deve imparare da un’altra in che modo quest’ultima proceda coi mezzi che le son propri e deve imparare ciò, per usare poi nello stesso modo i propri mezzi secondo il proprio principio, cioè nel principio che ad essa sola è peculiare.206

C’è di più: sempre a proposito dell’immagine “produttiva” costituita dai programmi wagneriani, Schönberg aggiunge:

Ma i fatti e i sentimenti, che ricorrono in questa, non erano contenuti nella musica, sono soltanto il materiale costruttivo, del quale il poeta si serve solo perché alla poesia, arte ancora legata al contenuto, è negata un’espressione così immediata, imperturbata e pura.207

Al di là dell’ultima affermazione, che risente in egual misura dello Streben espressionistico come della necessità, tutta ottocentesca, della classificazione delle arti, questa formulazione suona come l’addio a Schopenhauer: il testo, anche quando sia stato ispirato dalla musica, ne risulta, alla fine, completamente indipendente. Anche se nato con l’intenzione, forse, di fare da analogo (una “spiegazione” costruita come programma), nulla di ciò che si dice è il contenuto della musica; fatti e sentimenti sono ridotti a materiali di costruzione.208 Il testo non è né al servizio della musica né una sua immagine. Esso è, semplicemente, altro.

204 A.S., L’opera e l’essenza…, cit., p. 19, corsivo nostro. Il passo è illuminante anche in riferimento alle argomentazioni svolte nel II paragrafo del presente capitolo: in Schopenhauer era evidentemente il testo a subire errori di traduzione e a risultare di “seconda mano”. 205 A.S., Il rapporto col testo, cit., pp. 394-395. 206 Vasily Kandinsky, Scritti intorno alla musica, Fiesole, Discanto edizioni, 1979, p. 22. 207 A.S., Il rapporto col testo, cit., p. 395. 208 Ed è una riduzione che ha già stretto parentela con Nietzsche. Anticipiamo qui una citazione sui problemi della quale il discorso sarà brevemente ripreso nella Conclusione: “Di per sè la musica non è né profonda né significativa, non parla della ‘volontà’, della ‘cosa in sé’; questo l’entelletto potè immaginarlo solo in un’età che aveva acquistato al simbolismo musicale tutta la sfera della vita interiore. È stato lo stesso intelletto che ha introdotto nei suoni questo significato” (F. Nietzsche, Umano, troppo umano, Vol. I, 215, Milano, Mondadori, lic. Adelphi, 1970, p. 130).

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VI. Nonostante ciò, il rapporto con Schopenhauer non può dirsi esaurito. In un punto della sua trattazione Schopenhauer ammette che la relazione tra una composizione musicale e una “esposizione intuitiva” (che qui sta per “testo”), avviene in quanto esse sono “differenti espressioni della medesima essenza del mondo”.209 E la relazione si realizza quando i moti della volontà che formano il “nocciolo di un avvenimento” sono tradotti nel “linguaggio universale della musica”. Allora la melodia cantabile risulterà espressiva. Ma dove sta la differenza? Nel fatto che al testo è dato di porre la “particolarità”, il nocciolo del fatto che la musica dovrà poi universalizzare. Ma in quest’operazione (che ha a che fare con l’analogia, poiché è il compositore che deve porsi il problema, anche se solo a livello iniziale, del “rapporto col testo”) bisogna stare ben attenti a non lasciarsi prendere prigionieri da questa particolarità:

Ma bisogna che l’analogia trovata dal compositore derivi da una conoscenza immediata (cioè tale che non avverte il suo fondamento razionale) dell’essenza del mondo; e non sia già un’imitazione costruita per via di concetti, e con una consapevolezza intenzionale; altrimenti la musica non esprimerebbe l’essenza intima, la volontà in sé, ma non farebbe che imitare perfettamente in fenomeno.210

Qui Schopenhauer interseca i piani della musica con testo e della musica descrittiva, che infatti coincidono con gli oratori di Haydn che cita (La creazione, Le stagioni). Ma se vogliamo ricondurre queste osservazioni al problema del testo ci rendiamo conto che un testo che risponda alle caratteristiche qui richieste deve essere di natura particolare. Non potendo aspirare all’universale, esso dovrà, riconducendosi al “nocciolo”, esprimere solo i puri moti della volontà che sono entrati a costituire l’avvenimento. Su questa riduzione all’essenziale atomizzato la musica interverrà, libera da ogni problema di rapporto che non sia l’elevazione all’universale di un dato che già si presenta come nuda volontà particolare. Se però proviamo a tradurre in un linguaggio più “primi del Novecento” il formulario schopenhaueriano, al posto di “un’espressione dei puri moti della volontà” potremmo trovare “pulsione”, e l’estrema riduzione al dato minimo e insuperabile trasformerà l’avvenimento in qualcosa di simile a un verbale psicanalitico. Ma un’opera di Schönberg così costruita esiste, ed è l’Erwartung. L’analisi che ne fa Adorno rafforza questa tesi, soprattutto dove dice che la protagonista del monodramma

… viene consegnata alla musica quasi come una paziente psicanalitica. La confessione di odio e bramosia, la gelosia, il perdono, e ancora l’intera simbolistica dell’inconscio le vengono letteralmente estorte; e la musica si ricorda del proprio diritto di opporsi e di consolare solo al momento della pazzia della protagonista. Ma la registrazione sismografica di chocs traumatici diviene nello stesso tempo la legge tecnica della forma musicale, che proibisce ogni continuità e sviluppo.211

Sembra allora l’Erwartung l’inveramento delle richieste di Schopenhauer: “l’analogia trovata dal compositore”, e cioè il modo in cui egli trasforma in legge della forma musicale la disposizione del materiale extramusicale dato, qui par derivare veramente da qualcosa di simile a una “conoscenza immediata dell’essenza del mondo”, perché cos’altro si esprime, nel testo dell’ Erwartung, se non la volontà, anzi le volontà, gli impulsi, le pulsioni che devastano la donna che attraversa il bosco notturno? Non è più mero dato biografico il fatto che l’opera sia stata compiuta

209 A. Schopenhauer, idem, p.306. 210 Ibidem. 211 Th. W. Adorno, Filosofia della musica moderna, cit., p. 49.

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in pochi giorni, in stato di vera e propria trance del compositore, che musicava febbribilmente i versi dell’autrice man mano che lei glieli passava.212 Nonostante questo, sarebbe problematico affermare che l’Erwartung sia un’opera “schopenhaueriana”. Ciò che veramente Schopenhauer vuole è una musica che si distacchi dalle passioni, che le rappresenti nella loro indifferente universalità. Ma in questo Schopenhauer non esce dalla tradizione della musica ficta che, attraverso il gioco delle convenzioni teatrali, offriva un modo di espressione che era precisamente l’apparenza delle passioni. Nel momento in cui la musica voleva uscire da questo suo stato,

… pretendendo una sostanzialità al di là dell’apparenza dei sentimenti espressi, questa pretesa non era legata a singoli moti musicali, che dovrebbero rispecchiare quelli dell’anima, ma era garantita unicamente dalla totalità della forma (…) Ben diversamente stanno le cose in Schönberg. L’unico mutamento veramente sovversitore in lui è il mutamento di funzione dell’espressione musicale. Non sono più passioni ad essere simulate, ma piuttosto moti corporei dell’inconscio, chocs, traumi, nella loro realtà non deformata, che vengono registrati nel medium musicale. 213

Tutto ciò non puo’ essere confuso con esaltazione intuizionistica. Ancora una volta la trance si rovescia nel rigore, l’istinto nella logica, così come i rivolgimenti della Harmonielehre ci hanno insegnato. Schönberg rifiuta quindi una natura puramente intuitiva dell’arte: essa resterebbe apparenza. Al contrario ricerca un’arte che sia conoscenza. L’arte borghese voleva essere “cieca” poiché si affidava alla “cecità” dell’intuizione aconcettuale,214 ma Schönberg ha capovolto le posizioni proprio prendendo sul serio

… quell’espressione la cui sussunzione nell’universalità conciliante è il principio più intimo dell’apparenza musicale: la sua musica smentisce la pretesa che l’universale e il particolare siano conciliati.215

Il “protocollo psicanalitico” dell’Erwartung non viene né redento né universalizzato dalla musica. Esso rimane nella sua inconciliabilità atomistica perché la musica ha fatto propria, e a livello assolutamento formale, questa inconciliabilità: è la prima grande opera atematica di Schönberg. Nessun tema la attraversa; nessun tentativo, sia pur minimo, di sintesi. Il rapporto che l’Erwartung intrattiene con Schopenhauer dovremo allora cercarlo altrove, ma senza andare lontano, perché lo troviamo precisamente nel testo. È questa una delle pochissime opere di Schönberg, se non l’unica, dove la presenza del testo è molto più significativa della sua qualità. Infinite volte sono state ripetute le critiche al lavoro letterario di Marie Pappenheim, che non farebbe altro che assemblare le tecniche del teatro espressionista riducendole a clichés. Si è osservato meno come non sia nonostante i limiti del testo ma grazie ad essi che Schönberg vi ha elevato sopra il monumento di ghiaccio dell’op.17. Che, a distanza di tempo, il testo della Pappenheim non sfiguri poi tanto, accostato a consimili e abbondanti banalità che anche Stramm, Kaiser o Bronnen spargevano a piene mani, non muta il senso del discorso: proprio il fatto di essere costituito da un insieme di formule retoriche anche già consumate in abbondanza lo rendeva straordinariamente adatto ad essere usato o manipolato. Ma a questo punto è possibile chiarire il vero senso della lunga citazione di Diderot riportata nel terzo paragrafo. Che cos’erano quelle 212 G. Manzoni, op. cit. p. 51. Anche Adorno a proposito dell’Erwartung parla di trance, scrittura automatica non dissimile da quella dei surrealisti, e di “esplosione dell’inconscio” (Difficoltà, in Impromptus, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 100). 213 Th. W. Adorno, Filosofia…, cit., pp. 45-46. 214 Idem, p. 125. Sull’indifferenza espressiva della musica in Schopenhauer cfr. Fubini: “Però la musica non si assimila mai alla materia, al contenuto, per esempio al dramma in cui opera. Si manterrà sempre un poco estranea al di sopra, al di là dell’azione scenica, mostrando una ‘completa indifferenza’ verso di essa. La musica esprimerà in egual modo l’ira di Achille o l’alterco di una famiglia borghese, ‘giacché per lei esistono solo le passioni le affezioni della volontà, ed ella vede, come Dio, solo i cuori’” (E. Fubini, op. cit., p. 100). 215 Th. W. Adorno, op. cit., p. 47.

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interiezioni, esclamazioni, invocazioni inanellate dal nipote di Rameau se non la schiuma del llibrettismo dell’epoca? E se esse si rivelavano le più adatte a far erompere il “grido della passione” non era certo in virtù delle loro qualità poetiche, ma proprio grazie al loro essere ormai ischeletrite, vuotate di ogni semantica indipendente dal grido stesso. E trattandole come materia inanimata la musica poteva esprimere la sua potenza su di esse e grazie ad esse. E che cosa si ripete nell’Erwartung se non lo stesso meccanismo, con il linguaggio aggiornato di cento e più anni? Le formule dell’espressionismo hanno preso il posto del prontuario librettistico, la passione – anzi la pulsione – ha soppiantato l’affetto, ma la struttura non è mutata:

Una panca… devo riposarmi… Ma da tanto tempo non lo vedo… No, questa non è l’ombra della panca! Qui c’è qualcuno… Non respira… del bagnato… qui scorre qualcosa … un rosso vivo… Ah, le mie mani son ferite… No, c’è ancora del bagnato, viene di là. Non posso… È lui … il chiaro di luna… no, là… è quella testa orrenda… lo spettro… Se sparisse finalmente … come quello nel bosco… Un’ombra dall’albero… un ridicolo ramo… La luna è insidiosa… Perché lei è senza sangue, dipinge sangue rosso…216

Schopenhauer lo ritroviamo qui, perché questo testo si presenta davvero come subordinato a priori a ciò che la musica ne può fare. Ma non solo: proprio nel suo essersi volontariamente ridotto alla elencazione dei “puri moti dell’anima” esso appare veramente come il corrispettivo “razionale” (in quanto verbalizzato) di una situazione che, una volta assunta dalla musica, cesserà di essere razionalizzabile. In questo modo viene a costituirsi come il vero e proprio analogo della musica. Ma a questo punto ci si può chiedere come si concilia tutto ciò con le posizioni schönberghiane sul rapporto testo-musica che abbiamo analizzato finora. Rispondere che l’Erwartung è un’opera limite non basterebbe. Piuttosto bisogna chiedersi: era un testo la collana di esclamazioni infilata dal nipote di Rameau? Ed è un testo quello scritto dalla Pappenheim? In entrambi i casi la risposta è no. Essi danno solo un tenue legame a una semplice raccolta di quelle che Verdi avrebbe chiamato “parole sceniche”: puri materiali da costruzione in attesa di una coerenza interna che solo la musica può dargli. Schönberg distingue i testi per musica da quelli con musica, e dei primi ne parla in questo modo:

Questi sono testi per musica; vale a dire che solo insieme con la musica costituiscono qualcosa di compiuto (…) La qualità di un risultato definitivo che si abbia di mira non dipende infatti dalla qualità delle sue componenti: ciascuna di queste, presa a sé, non deve essere migliore di quanto richieda la sua soluzione parziale…217

Quando si riferisce a un vero testo, Schönberg pensa sempre però a qualcosa che abbia completa autosufficienza. Tre anni dopo aver composto l’Erwartung, Schönberg si rivolgerà a Richard Dehmel, proponendogli di scrivere un oratorio per lui. Ma per questo non gli interessa un testo che sia in funzione della musica, e del resto, non oserebbe mai chiederlo a un poeta:

Voglio premettere subito che, se Lei accettasse, il testo poetico non dovrebbe in alcun modo essere condizionato dalla futura composizione musicale. Ciò sarebbe non soltanto superfluo, ma addirittura dannoso. Il testo dovrebbe essere completamente libero, come se non esistesse per nulla la possibilità che esso venga musicato. Un’opera di Dehmel in fatti posso metterla in musica così com’è, poiché riesco a rivivere il senso di ogni parola.218

216 Marie Papperheim, Attesa, in G. Manzoni, op. cit., pp. 189-191. 217 A.S., Prefazione, in Testi poetici e drammatici, cit., p. 25. 218 A.S., lettera a Richard Dehmel del 13 dicembre 1912, in Lettere, cit., p. 28.

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Capitolo IV

Testo ed espressione. Il superamento dell’eredità wagneriana I. In uno scritto del 1925, quando ormai la raggiunta individuazione dodecafonica gli permette di ripensare all’insieme della sua opera in termini più sistematici, Schonberg mette in relazione le posizioni espresse all’epoca del Blauer Reiter con una totale trasformazione delle possibilità della musica intesa come arte dell’espressione. Quell’“intuizionismo” di cui allora si era fatto portavoce non era che la prima formulazione di un impianto teorico che solo nella pratica dell’espressionismo (e nel suo superamento) sarebbe giunto alla coscienza di se stesso:

… si ricordi che, nel mio saggio Das Verhältnis zum Text, pubblicato nel “Blauer Reiter” forse per primo mi allontanai, dapprima teoricamente, dalla musica d’espressione, poco dopo aver mosso i miei primi passi in un campo nuovo, in cui mi ero servito di essa in misura larghissima sebbene inconsciamente.219

La portata storica di questa dichiarazione non può sfuggire; essa va, tra l’altro, a rafforzare

la già citata tesi di Adorno, secondo cui la vera rivoluzione schönberghiana consiste “nel mutamento di funzione dell’espressione musicale”.220 Ma se, seguendo Adorno, dall’espressione dei sentimenti si è giunti all’elencazione dei traumi, ciò può solo significare che il campo dell’espressione romanticamente intesa è stato a tal punto battuto, esplorato e cartografato, che solo i suoi elementi primi, atomizzati, possono ormai presentarsi come risultato senza che l’opera si areni nel già codificato, in una nuova Affektenlehre che già Wagner aveva ri-elevato a stile e insieme portato sulla strada dell’esaurimento. E proprio questo è il senso dell’opera schönberghiana fino al 1908, fino al Buch der hangenden gärten escluso. Egli stesso ammette di essersi servito della musica “d’espressione” il più largamente possibile e inconsciamente, cioè senza teorizzarla, poiché essa non era altro che il suo retroterra immediato, lo strumento più alla mano di cui poteva servirsi. Quando Schönberg parla di “musica d’espressione” non intende riferirsi né ad un metodo di composizione né ad una disposizione naturale della musica ma precisamente a un periodo della sua storia. Se la tonalità non è una legge eterna, nemmeno l’espressività lo è. Non solo ogni composizione musicale, ma ogni frammento richiede soluzione e interpretazione, a partire dall’immanenza dei suoi rapporti interni: nessun “codice” dell’espressività pertanto può essere applicato alla musica.

Il materiale musicale offre possibilità inesauribili; ma ogni nuova possibilità, a sua volta, richiede una nuova forma di trattamento, perché presenta problemi nuovi, oppure, in ogni caso, richiede una soluzione nuova del trattamento vecchio. Ogni progressione tonale, ogni progressione anche in due sole note suscita un problema che richiede una soluzione speciale (…) In nessuna arte, parlando propriamente, si può dire “la medesima cosa”, la medesima cosa che si è già detta prima, e meno che mai in musica.221

219 A.S., Partito preso o convinzione? (1925), in Analisi..., cit., p. 56. 220 Th. W. Adorno, Filosofia della musica moderna, cit., p. 46. 221 A.S. Problemi di armonia, in Analisi..., cit., pp. 66-67.

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Nulla è stasi. Alla base del sistema schönberghiano sta il movimento. Contro quell’istinto “relativamente basso, di animale da preda, quello del possesso”,222 che è tipico dei mediocri che “vogliono possedere la bellezza”, ignorando che essa si dà solo “al’artista che non l’ha voluta, perché ha aspirato solo alla veridicità”,223 va fatto valere che “...la vita è movimento, e non è possibile simboleggiarla in questa maniera”, cioè con le leggi formali ridotte a un’aritmetica.224

Ed ecco che i musicisti di tutti i tempi svelano sempre nuovi segreti, e producono modelli sempre più fedeli, poiché ogni nuovo gradino raggiunto permette una più profonda penetrazione: l’orecchio primitivo intende il suono come una entità indivisibile, ma la fisica scopre che è un elemento composto. Intanto i musicisti hanno scoperto che esso è passibile di continuazione; che in lui c’è del moto; che nasconde problemi contrastanti; che vive e si vuole propagare.225

È sulla base di queste convinzioni che l’espressività nella musica può apparire come una

delle possibilità aperte dal suono e dalla sua evoluzione, non una qualità a priori intrinseca alla “natura” della musica. Vi è dialettica tra musica ed espressione: se l’allargamento di potere degli accordi vaganti ha permesso l’ampliamento dello spazio di azione della musica, l’espressività si servirà a sua volta dei dati raggiunti dall’armonia per consolidarsi e influenzarla a sua volta (come potrà verificarsi il movimento inverso).

A ciò [agli accordi vaganti] si aggiunse un altro elemento propulsore: la tendenza, manifestatasi con la massima intensità in Beethoven, della musica come espressione. Limitatasi, da principio, ad alcuni elementi dell’esecuzione (tempo, carattere, mutevolezza, ecc.) e della dinamica (accenti, crescendo, diminuendo, bruschi cambiamenti e simili) essa si servì sempre più anche dell’armonia e specialmente dell’insolito impiego di questa a tale scopo.226

E Schönberg elenca le trasformazioni che furono sollecitate dall’espressività: modulazioni improvvise, strane successioni d’accordi, successioni insolite d’intervalli, mutamenti nel ritmo, nella saldatura delle parti minori:

È chiaro che tutte queste tendenze, agenti in direzione eccentrica, operavano in senso opposto alla tendenza mirante a fissare, a rendere percettibile sensibilmente e a mantenere efficace un senso armonico, e che i compsitori posteriori a Wagner furono costretti, ben presto, a fissare le loro forme in modo diverso da prima.227

Se si voleva che la musica continuasse a “esprimere”, diveniva obbligatoria l’infrazione alle

regole, perché a quel punto erano esse stesse a impedire l’espressione:

Un’idea, in musica, consiste principalmente nella relazione reciproca delle note. Ma ogni rapporto che sia stato usato troppo spesso, sia pure con modificazioni, alla fine deve essere considerato esaurito; non ha più il potere di comunicare un pensiero degno d’espressione.228

Ciò che a questo punto avviene di singolare è che il mutamento di ordine linguistico non

viene avvertito immediatamente come tale. La “musica d’espressione” finisce così per apparire tale al di là dello stesso rigore delle sue formulazioni, poiché essa ha preceduto l’evoluzione stessa dell’orecchio, il quale non ne avverte ancora la nuova portata semantica all’interno dei rapporti musicali, bensì mediante mezzi ausiliari ed extramusicali: 222 A.S., Manuale di armonia, cit., p. 60. 223 Idem, p. 411. 224 Idem, p. 412. 225 Idem, p. 396. 226 A.S., Partito preso…, cit., p. 56. 227 Ibidem. 228 A.S., Problemi di armonia, cit., p. 67.

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L’emancipazione della dissonanza (...) avvenne inconsapevolmente, col presupposto che la sua comprensibilità può essere garantita quando venga favorita da determinate circostanze. Non bastando l’orecchio da solo a riconoscere e a comprendere i rapporti e le funzioni, tali circostanze si trovarono nel campo dell’espressione e in quello, fino allora poco considerato, della sonorità.229

L’espressione si è così trovata a compiere un giro vizioso. Nata insieme alle possibilità

formali dell’armonia e del discorso musicale, nel corso della vicenda del romanticismo se ne è trovata estraniata, ma a causa della sua stessa potenza, della rapidità del suo sviluppo, ha dovuto sobbarcarsi il peso di garantire “dall’esterno” una certa qual omogeneità alla moltiplicazione del materiale che essa stessa aveva contribuito a dispiegare. Privata del suo habitat, l’espressione deve così cercare alloggio nel programma o nel testo: “Si noti anche, a questo proposito, che il ricorso al “testo” in opere, canzoni e poemi sinfonici va considerato come uno dei tentativi di stabilire un rapporto tra elementi eterogenei...”.230

Ma a questo punto ci si può chiedere: se molto spesso è nel testo il luogo in cui l’espressione pone, per così dire, il suo quartier generale (non realmente, ma solo in quanto essa non è ancora coscientemente riconoscibile nella semplice tessitura sonora), come può il Verhältnis risultare un allontanamento dalla musica d’espressione? Forse che la richiesta d’indipendenza coesistente di testo e musica viaggiava nella direzione di un recupero formalista? Si è già visto che non era così: delimitando i confini, e quindi il potere, della musica, il testo le lasciava la più grande libertà d’intervento, il più ampio Durchkomponieren espressivo, a patto che la musica non pretendesse di avere il compito di rivestire di senso, di “far dire” alla poesia come poesia quello che le sue parole non dicevano, il suo indicibile. Nondimento è sorprendente come tutto ciò sia visto come distacco dalla musica d’espressione, e per giunta nel 1912, quando si può dire che l’espressionismo non ha ancora conosciuto la sua età adulta.231 Ma, se questa funzione storica e teorica dell’espressione musicale si rovescia in potere di organizzazione formale, se si risolve in un rapporto testo-musica in cui nessuno dei due elementi è luogo espressivo privilegiato, neanche temporaneamente e in attesa di tempi migliori, ciò può significare solo che Schönberg, per parte sua, nelle sue opere precedenti ha già bruciato l’esperienza dell’extra-linguistico espressionista. Il rapporto testo-musica emerge dunque come superamento di un’antica e a suo modo fruttifera sudditanza alle ragioni di un testo (fosse programma o poesia) che si assumeva il peso di “giustificare” le arditezze e gli sperimentalismi della partitura. Il saggio del 1912 testimonierebbe così il raggiungimento di un equilibrio, di una parità di forze, mentre il precedente rapporto, ancora pregno di incertezze tardoromantiche, può essere rintracciato, oltre che nei Lieder giovanili, in quella musica a programma che Schönberg scrisse, ancora in qualche modo credendoci. Se musicalmente e stilisticamente i due poemi musicali di Schönberg, Verklärte Nacht e Pelleas und Melisande, si dovrebbero porre, per esplicito richiamo dell’autore, più nello stile di Brahms e di Mozart che in quello del Tristan,232 il debito espressivo, il gesto nel quale si inscrivono resta ovviamente Wagner. È quindi attraverso il rapporto con Wagner che è possibile ripercorrere il cammino schönberghiano del poema sinfonico (musica come espressione di un’Idea) al superamento dell’espressionismo (musica come Idea). Per questa via può essere chiarito in che misura il nuovo rapporto col testo condiziona ed è condizionato dall’allontanamento dall’espressione. 229 A.S., Partito preso…, cit., p. 57. 230 Idem, p. 56. 231 Vari autori tendono a fissure l’inizio dell’espressionismo intorno al 1910. Fritz Martini e Ladislao Mittner optano per il 1907 come inizio e il 1926 come conclusione (cfr. L. Mittner, L’espressionismo, Bari, Laterza, 1965, p. 9). 232 A.S., Discussione alla Radio di Berlino con il dottor Preussner e con il dottor Strobel (1931), in Analisi..., cit., pp. 133-134.

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II. Parlando del suo primo periodo creativo, Schönberg insiste sull’unità di ispirazione che era comune a lui come ai musicisti del suo ambiente (Zemlinsky), e che si traduceva in una estrema rapidità di scrittura: per un Lied bastava qualche ora, una settimana per un tempo di sonata. Ma aggiunge:

Vi sorprenderà dunque che su una battuta dela Verklärte Nacht io abbia lavorato un’ora intiera, mentre tutta la partitura di quattrocentoquindici battute la scrissi in tre settimane. Ciò stupì anche i miei amici quando mostrai loro quella battuta. In effetti essa è un po’ complessa perché, volendovi esprimere, secondo le convinzioni artistiche dell’epoca (post-wagneriana), l’idea che stava dietro il testo poetico, m’era sembrato che il sistema migliore per giungere allo scopo fosse una complicata combinazione contrappuntistica: un Leitmotiv e la sua inversione suonati contemporaneamente.233

Ciò che viene a frenare la scrittura, ma anche ad arricchire la portata formale, è proprio

l’ingombrante presenza del non-traducibile, del non-musicale: “Questa combinazione non nasceva dall’ispirazione spontanea, ma da un proposito extramusicale, da una considerazione cerebrale”.234

Un siffatto intervento esterno del “cervello” sulla scrittura musicale si rende comprensibile nel quadro di quello spostamento dei campi di significazione che proprio Wagner e i post-wagneriani hanno aperto. Si è già visto nel secondo capitolo come la musica wagneriana si creasse il suo spazio nell’integrazione con la parola, con la scena e con il dramma, perché proprio queste forze esterne le permettevano di forzare le regole a cui essa era ormai irriducibile. Ora è tempo che il movimento si inverta e che il suo potenziale progressivo si ripercuota sulla musica.

Questo ritorno si svolge in tre momenti: l’illustrazione di particolari naturali (e siamo ancora alla musica a programma tradizionale, o addirittura al Tongemälde); l’espressione dei sentimenti (e da qui ci si può più facilmente staccare—solo che si pensi a Schopenhauer—dal programma e dal testo, che sono sempre particolari e mai universali), e infine la trasformazione di queste esigenze in soluzioni musicali inedite che, pur nate sotto la spinta dell’extramusicale, si rendono poi compiutamente musicali in forza della loro novità formale. Schönberg percorre tutta questa scala, ed è anche per questo che, in scritti anche molto tardi, non si fa scrupolo di allineare minuziosamente (in obbedienza al primo momento) i Leitmotive con i quali ha inteso “illustrare” il testo sottinteso della Verklärte Nacht: il primo tema illustra l’atto di passeggiare in un parco; il secondo “la chiara e fredda notte di luna”; un terzo la confessione della donna all’uomo; addirittura un duo tra violino e violoncello

... esprime lo stato d’animo di un uomo il cui amore, in armonia con lo splendore e la radiosità della natura, è capace di ignorare la tragica situazione: “Il bimbo che tu porti non deve essere un peso per la tua anima”.235

Analogamente, nel Pelleas und Melisande Schönberg cerca, e sono ancora parole sue, di

“riflettere ogni particolare” del dramma di Maeterlinck. Anche qui vi sono scene puramente illustrative (descrizione di Melisande che fa pendere i capelli fuori dalla finestra) ed espressioni di sentimenti (la gelosia di Golaud ha un suo tema), finché è proprio l’esigenza di precisione descrittiva che dà origine a soluzioni tecniche nuove (il glissando dei tromboni).236 È sufficiente questo per tracciare il percorso compiuto attraverso i tre momenti, per mostrare in che modo la musica che si sottomette a un “testo” diventa musica che si crea un testo?237 In effetti non è in

233 A.S., Cuore e cervello nella musica (1947), in Stile e idea, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 152. 234 Ibidem. Schönberg aggiunge, e lo vedremo poi meglio, che questa cerebralità non è da condannarsi. Si può anche cominciare a scrivere senza “ispirazione”, perché essa può giungere in seguito, “naturale e insospettata, a dare la sua benedizione” (p. 153). 235 A.S., Note di programma per Verklärte Nacht (1950), in Analisi..., cit., p. 306. 236 A.S., Introduzione a Pelleas und Melisande (1949), in Analisi..., cit., pp. 290-292. 237 Cfr. la cit. da F. Schlegel, cap. III, nota 203.

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queste opere che il passaggio si compie, anche se Schönberg potrà a buon diritto affermare, sempre a proposito della Verklärte Nacht, che

... questo pezzo era forse un po’ diverso da altre composizioni descrittive (...) perché non illustra nessuna azione né dramma, ma si limita a descrivere la natura e a esprimere sentimenti umani. Sembrerebbe che grazie a questo atteggiamento la mia composizione abbia acquistato delle qualità che possono bastare all’ascolto anche se non si sa che cosa essa illustra o, in altre parole, essa offre la possibilità di essere apprezzata come “musica pura”.238

Ma c’è di più: il tema che esprime un sentimento determinato compare per la prima volta in

connessione alle’esigenza di nominare quel sentimento in quel luogo, ma quando ritorna viene variato o alterato, ciò non avviene più in obbedienza a una trama che vada rispettata, bensì unicamente per la necessità formale che richiede a quel punto il ritorno di quel tema. “Nessuna azione né dramma”: questo non è già più il Leitmotiv wagneriano, perché in Wagner

... il Leitmotiv non deve veramente caratterizzare persone, emozioni o cose – sebbene sia sempre stato interpretato così – ma piuttosto, nel senso della concezione propriamente wagneriana, deve elevare gli avvenimenti scenici nella sfera dei significati metafisici. Quando nel Ring risuano nelle tube il tema del Valhalla, esso non sta a indicare la residenza di Wotan; Wagner volle con esso esprimere invece la sfera del sublime, della volontà del mondo, del principio primordiale.239

In altre parole: il Leitmotiv wagneriano è ben al di là dei primi due momenti, ben oltre la

semplice descrizione o espressione di stati d’animo, ma è proprio su questo “al di là” che Schönberg comincia ad operare la sua critica; è a partire da questa trascendenza, ricompresa nel linguaggio musicale, che Schönberg inverte il movimento in direzione di una nuova immanenza. Come avrebbe detto Nietzsche, per Wagner la musica doveva essere “più che musica, infinitamente di più”. A vent’anni dalla morte di Wagner (1883), Schönberg guarda già con scetticismo storico a questa pretesa. E ritornando sui problemi del rapporto tra musicale ed extramusicale, nel trattato sulle funzioni dell’armonia, scritto alla fine degli anni ’30, Schönberg dà l’interpretazione pressoché definitiva di questa trasformazione:

I compositori del periodo romantico ritenevano che la musica dovesse “esprimere” qualcosa; come già era spesso avvenuto in epoche precedenti, avevano acquistato influenza sulla musica tendenze extramusicali: intenzioni poetiche e drammatiche, emozioni, azioni, e anche problemi filosofici di Weltanschauung.240

Quello che a Schönberg interessa far notare è che questa concezione di fondo, questo filo

rosso della musica romantica si è pertò trasformato in arricchimento della sostanza musicale, in una maggior “ricchezza modulante”. Certo, ritmi, dinamiche e melodie vennero a simboleggiare oggetti extramusicali “invece di nascere da stimoli puramente musicali”, e

... l’origine di queste nuove forme può essere contestabile in sede estetica, se non anche in sede psicologica; tuttavia, quale che sia stata la fonte dell’ispirazione musicale, ne sono risultati dei notevoli sviluppi (...) Queste influenze extramusicali diedero luogo al concetto della tonalità allargata.241

238 A.S., Note di programma…, cit., p. 302. 239 Th. W. Adorno-Hanns Eisler, La musica per film, Roma, Newton-Compton, 1975, p. 23. 240 A.S., Funzioni strutturali dell’armonia, Milano, Il Saggiatore, 1967, p. 119. 241 Idem, pp. 119-120.

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III. È in questa interpretazione delle trasformazioni del post-wagnerismo che va analizzato il rapporto che lega Schönberg e Wagner. “Nel suono c’è del moto”, e il moto che porterà il suono fuori da se stesso, che gli farà cercare l’appiglio di un testo come elemento connettivo, è lo stesso che farà riprecipitare questo testo nella musica, nell’immanenza dei rapporti formali.242 Ma se Wagner si pone come tappa essenziale di questo processo, non sarà certo in forza della disposizione generale del suo sistema, che anzi rappresenta il momento in cui, per sfruttare fino in fondo il vocabolario dialettico, il suono appare maggiormente alienato da se stesso, bensì alle controforze, alle opposizioni minori e dislocate, senza ordine né sistema, che già nello stesso Wagner contraddicono la totalità del Wort-Ton-Drama. È per questo che esaminando con le stesse parole di Schönberg ciò che egli ha imparato da Wagner si ritrovano precisamente quei tre momenti già individuati, dall’espressività intesa come adaequatio della musica alla situazione (già in crisi, peraltro, nella Verklärte Nacht) fino all’adorniano “mutamento di funzione” nell’espressione musicale. In uno scritto del 1931, dopo aver dichiarato che i suoi maestri erano stati prima Bach e Mozart, e quindi Beethoven, Brahms e Wagner, Schönberg elenca ciò che ha imparato da ciascuno di loro:

Da Wagner: La capacità di trasformazione dei temi in rapporto all’espressione, e la loro esatta applicazione a tale scopo; l’analogia tra i suoni e gli accordi; la possibilità di intendere i temi e i motivi come se fossero ornamenti, in modo da poterli usare come dissonanze rispetto alle armonie.243

Il primo di questi punti corrisponde alla risposta che molti anni prima Schönberg aveva dato

a una domanda di Paul Wilhelm:

Wagner ci ha lasciato sostanzialmente, per quanto riguarda l’evoluzione attuale, tre cose: innanzitutto la ricchezza armonica, poi la brevità dei motivi, e quindi la loro possibilità di influire sul discorso musicale con la rapidità e la frequenza richieste dal minimo dettaglio espressivo; nello stesso tempo ci ha lasciato, in terzo luogo, l’arte di costruire brani di grande ampiezza e la prospettiva di sviluppare ulteriormente tale capacità.244

Non è certo il Wagner di Bayreuth, il Wagner dell’impalcatura contenutistica del Ring

quello che emerge da queste parole: il Leitmotiv viene apprezzato per la sua brevità, per la sua capacità di costituirsi come cellula logica e formale, principio di unità interna della composizione. Nessun rimando alla “sfera del sublime”, alla “volontà” o al “primordiale”: è ben vero che per Wagner la musica è un mezzo perché lo scopo è il dramma, ma se la sua opera risulta effettivamente una coerente unità, ciò non è tanto dovuto al “dramma” che si svolge né alla capacità “evocativa” del Leitmotiv, bensì al fatto che proprio il Leitmotiv, obbedendo all’esigenza di precisione del “minimo dettaglio espressivo”, deve crearsi un principio formale interno che gli permetta di introiettare nel suo organismo quello stesso “scopo” a cui deve servire. Per questo Schönberg può rifarsi idealmente a Wagner nella conclusione dello scritto in cui presenta i fondamenti della dodecafonia:

242 “…la rinuncia a utilizzare i mezzi tradizionali della struttura rese da principio impossibile affrontare le forme di una certa ampiezza, poiché queste non possono sussistere senza una precisa articolazione. È per questa ragione che le uniche opere alquanto ampie di quest’epoca sono solo composizioni con testo, dove appunto la parola costituisce l’elemento connettivo” (A.S., Partito preso..., in op. cit., p. 59). 243 A.S., Musica nazionale, in Analisi…, cit., p. 107. 244 A.S., Intervista con Paul Wilhelm, cit., p. 3.

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Prima di Richard Wagner le opere erano quasi escusivamente formate di pezzi indipendenti legati fra loro, almeno all’apparenza, da relazioni di ordine non strettamente musicale. Ma, personalmente, mi rifiuto di credere che nei grandi capolavori i vari pezzi siano uniti soltanto dalla superficiale coerenza dell’azione drammatica. Per quanto quei pezzi possano essere stati dei semplici “riempitivi” tratti da opere precedenti dello stesso compositore, costui deve avere ben obbedito, nello sceglierli, a un senso della forma e della logica. Forse siamo noi a non essere capaci di scoprire questo senso, ma esso non può non essere presente. Nella musica non c’è forma senza logica e non c’è logica senza unità. Penso che quando Richard Wagner introdusse il suo Leitmotiv – con lo stesso scopo per cui io ho introdotto la mia Serie Fondamentale – deve aver detto: che l’unità sia fatta.245

Se Schönberg ha potuto tornare a Wagner, rintracciando proprio in lui uno degli antecedenti

della sua concezione della Grundgestalt, ciò è stato possibile in quanto il movimento che l’armonia di Wagner ha generato si è esteso, ipertrofizzandosi, fino alla completa interiorizzazione del contenuto nell’immenso vocabolario espressivo ormai predisposto.

Sembra che tutto questo si sia sviluppato nella successione che ho detto, per poi rovesciarsi nel suo opposto. La prima cosa che ha cominciato a entrare in fermento pare essere stata l’armonia dell’espressione, e in questa fase la brevità dei motivi che ha portato direi a una simbolizzazione della tecnica.246

Proprio nel momento di massimo trionfo dell’espressione in musica, proprio quando sembra

che nulla più sia rimasto di altro, di indicibile, e un prontuario di soluzioni espressive, un Lexicon che colleghi automaticamente musica e mondo sembra ormai redatto, ecco che ha inizio l’inversione di tendenza. O almeno la inizia Schönberg: egli vede che la corrispondenza garantita di musica e mondo non può non essere falsa in quanto trasferisce il mondo stesso sotto il dominio della tecnica compositiva. L’accorgimento descrittivo incorporato nella tecnica si affina e si specializza fino a farsi simbolo, il quale, una volta consolidata la sua presenza, pretende di valere come regola, come legge per il presente e per il futuro. La sua presenza garantisce che l’espressione potrà ripetersi, che lo stesso moto dell’animo potrà ripresentarsi. Ma in musica non si dà mai due volte la “medesima cosa”, e allora sarà proprio la “simbolizzazione della tecnica” che, contraendosi, irrigidendosi nella sua atomicità, si farà, da sentimento e descrizione che era, trauma e choc, e se ripetizione vi fosse ancora (ma non vi sono ripetizioni tematiche nell’Erwartung) non potrebbe che configurarsi come “ritorno del rimosso”. Tra i post-wagneriani, Strauss va rifiutato proprio perché non si è avveduto che l’era della musica a programma è definitivamente esaurita. In uno scritto del 1958, Eisler esemplifica i motivi più immediati per cui non si poteva, già allora, non prendere le distanze da Strauss:

Per giunta quell’orribile tecnica illustrativa wagneriana. Se si parla di un cane nell’orchestra si abbaia, se si parla di un uccello nell’orchestra si cinguetta, se si parla della morte d’incomodano i signori trombonisti, per l’amore ci sono i violini divisi in mi maggiore e per il trionfo si ricorre alla percussione di sicuro effetto. È insopportabile.247

Strauss non si avvede, non vuole avvedersi, che la sua fedeltà assoluta al “testo”, cioè al

“programma”, si è già rovesciata nel freddo magistero di una tecnica che non esprime più nulla perché non può che ripetersi all’infinito nei simboli che la rendono formula e ripetizione del medesimo. In questo modo l’intervento “cerebrale” dell’intelletto sulla musica rimane interrotto in 245 A.S., Composizione con dodici note (1941), in Stile e idea, cit., p. 140. A proposito della “superficiale coerenza dell’azione drammatica” anticipiamo un’altra citazione da Nietzsche, sulla quale il discorso verrà ripreso: “...il valore dell’opera sarà tanto più alto quanto più libera, incondizionata, dionisiaca si svolgerà la musica, e quanto più essa disprezzerà tutte le cosiddette esigenze drammatiche” (F. Nietzsche, Sulla musica e la parola [1871], in Scritti minori, Napoli, Ricciardi, 1916, p. 15). 246 A.S., Intervista…, cit., pp. 3-4. 247 H. Eisler, Sulla stupidità in musica (1958), in Musica della rivoluzione, Milano, Feltrinelli, 1978, p. 262.

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una vera e propria “coazione a ripetere” che non gli permette di superarsi, di dissolversi nella forma. Giustificando le intrusioni extramusicali della Verklärte Nacht, Schönberg aveva scritto che

... in effetti, il desiderio dell’artista di elaborare profondamente le sue idee, e soprattutto se ciò rende più difficile il suo compito, e anche quello dei suoi ascoltatori, non dovrebbe essere condannato nemmeno se il trattamento cerebrale compromette la bellezza superficiale.248

Ma la simbolizzazione illustrativa, la “simbolizzazione della tecnica”, sono all’opposto di

ogni vera elaborazione di idee, poiché sono opera dell’intelletto, isolato e parziale, non dell’unione di sentimento e ragione senza la quale non esiste l’opera d’arte.249 È quando tutto è stato intellettualizzato che l’esistente diventa simbolo, ma quando il simbolo occupa il posto di un’assenza, ecco che la musica si fa esercizio di vuota trascendenza, si fa evocazione di un mondo e di un sistema di valori e riferimenti a cui può alludere ma in cui non può mai essere.250 IV. E allora perché Wagner? È solo il peso del suo magistero formale che agisce su Schönberg, o ancora il fascino del “grande corruttore”? Né una cosa né l’altra sarebbero sufficienti a chiarire il rapporto, poiché è solo nel segno di Mahler che esso avviene, anzi, che viene riguadagnato.

Ci fu un periodo, negli anni della mia formazione, durante il quale assunsi un atteggiamento negativo, quasi ostile, nei confronti di Wagner che pure avevo in un tempo precedente esaltato e incensato. Sembra che abbia espresso la mia opinione a Mahler in termini violenti e arroganti. Pur rimanendo visibilmente scosso, egli mi rispose con grande calma che capiva questa posizione, che egli stesso aveva attraversato simili fasi evolutive, ma che ciò non sarebbe durato a lungo perché si ritorna sempre a chi è veramente grande.251

Ed essere veramente grandi significa, per Schönberg, nient’altro che esprimere

completamente se stessi.252 Il vero significato di una espressione altrimenti non certo originale Schönberg lo impara proprio da Mahler. È a un giovane direttore che aveva attaccato Wagner che Mahler risponde così (è Schönberg che lo cita):

“... non si può negare che la nostra musica riflette il puramente umano (e tutto quanto vi attiene, compreso l’intelletto). Come in ogni arte, è questiuone di mezzi appropriati! Ma a riversarsi nella musica è sempre il tutto, sentimento, pensiero, respiro, sofferenza umana.” Contro tutto ciò, proseguiva [Mahler], non vale l’obiezione che un musicista deve esprimere se stesso, non un poeta, un filosofo, un pittore.253

Si può essere poeti, filosofi, pittori, a patto che tutto ciò si riversi nella musica. Né solo

sentimento, né solo ragione, né solo forma, né solo contenuto, l’opera è la sola giustificazione che 248 A.S., Cuore e cervello, cit., p. 153. 249 Si rimanda qui al tema dell’insufficienza della ragione, trattato nel primo capitolo. 250 “Quanto più capaci di pensiero l’occhio e l’orecchio diventano, tanto più essi si approssimano al limite al quale diventano insensibili: il godimento viene trasferito nel cervello, gli stessi organi del senso diventano ottusi e deboli, ciò che è simbolico occupa sempre più il posto di ciò che è – e così arriviamo per questa via alla barbarie altrettanto sicuramente che per qualsiasi altra. Intanto si continua a dire: il mondo è più brutto che mai, però significa un mondo più bello di quel che sia mai stato” (F. Nietzsche, Umano, troppo umano, cit., af. 217, p. 140). Diamo la citazione solo come indicazione, poiché non è ancora il luogo per istituire un confronto con Nietzsche. Si vedrà in seguito come la lettura wagneriana operata da Schönberg sia stata profondamente nietzschiana. 251 A.S., Gustav Mahler, cit., p. 38. 252 “In effetti vi è un solo grande obiettivo a cui l’artista tende con tutte le sue forze: esprimere se stesso. Se vi riesce (...) tutto il resto è senza importanza” (Idem, p. 23). 253 Idem, pp. 37-38, cfr. cap. I, par. IV.

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l’artista può addurre. In questo, Wagner è stato maestro, perché tutto il suo impianto speculativo si risolve poi nella coerenza formale della sua opera. E Mahler, che riconduce Schönberg al rispetto per Wagner, è proprio colui che, indipendente da ogni pretesa straussiana di rappresentare in musica anche “il movimento di una matita”, ha trasformato il programma in programma interiore, cioè interno alla totalità del moto psichico, personale e irripetibile, ma comprendente il tutto dell’artista, sottraendolo alla codificazione simbolizzante. Come scrisse Schönberg, molto tempo dopo:

La musica parla, nel suo linguaggio, di questioni puramente musicali: o forse, come crede la maggior parte dei critici, di questioni di sentimento e di fantasia. Si può anche passar sopra alla boutade di Richard Strauss: “Potrei rappresentare in musica il movimento di una matita da un punto all’altro”; ma non è questo il linguaggio in cui il musicista esprime inconsapevolmente se stesso, quando formula delle idee che potrebbero addirittura spaventarlo se non sapesse che nessuno può scoprire ciò che si nasconde in lui mentre le dice.254

A Wagner si ritorna, per collocarlo nella sua giusta posizione di cerniera tra la musica come

espressione dei sentimenti e la musica come idea, in nome di una critica della ragione, a condizione che l’accento venga posto sul sostantivo più che sul genitivo: perché l’irraazionale, a questo punto, sta proprio nell’eternizzazione della fase dialettica dell’intelletto simbolizzante, sta nel credere che la riassunzione formale del momento espressivo nello svolgimento dell’idea possa arrestarsi sulla soglia, condannarsi alla ripetizione del proprio codice. Irrazionale è, quindi, postulare già dato, già conciliato, il posto dell’opera d’arte nel mondo, il conflitto che la sua apparizione instaura tra linguaggio e non-linguaggio, e credre già risolta una sua “totalità” che non è mai reale, non si annulla mai nel mondo né del resto lo fa suo, poiché il suo stesso simbolismo la precede, ne fonda dall’esterno le regole e sopravvive al suo stesso consumarsi. Dunque se Schönberg, dopo il Pelleas, si rende conto che la via della musica a programma è ormai sbarrata, non è certo perché miri a un’improbabile esclusione dall’opera di ciò che è “extramusicale”, poiché tutto può farsi fattore di forma. Ma se nella musica questo tutto, mahlerianamente, deve riversarsi, il travaso dovrà essere completo, senza residui, senza simbolismi sopravvissuti all’opera. Se a questo punto le “grandi” forme vengono a cadere, e il tessuto connettivo dell’opera passa definitivamente da un programma a un testo che compare, letteralmente, nell’opera, il mutamento è per Schönberg decisivo: il testo non è il sostituto ampliato del programma, bensì un organismo autonomo, che ha delle leggi proprie, e che, qualora l’incontro avvenga, sarà fruttuoso solo tra uguali in potenza. Questa è la ragione per cui, nel trattato sulle funzioni strutturali dell’armonia, il problema dell’allargamento della tonalità, dovuto anche a influenze extramusicali, viene unito ad alcune fondamentali osservazioni sul problema del testo:

Nella musica descrittiva lo sfondo dell’azione, l’atmosfera e gli altri elementi caratteristici del dramma, della poesia o del racconto, venivano incorporati nella struttura compositiva come fattori costitutivi e formativi, divenendo quindi inseparabili da quella. Staccati l’uno dall’altra, né il testo né la musica esprimono pienamente il loro significato: la loro unione è una fusione paragonabile a una lega i cui componenti possono essere separati solo mediante complicati procedimenti.255

Qui il testo si fa “fattore costitutivo” nello stesso senso in cui ne parla Nono, nel suo già

citato saggio su tyesto, musica e canto, ma si badi, più che di testo bisogna parlare di programma (è la musica descrittiva a venire chiamata in causa), cioè di una traccia che non ha autonomia al di fuori della sua unione con la musica. Oppure, anche di un testo si potrebbe parlare, ma nella misura in cui fosse analogo della musica, nel senso in cui lo era l’Erwartung. E abbiamo già visto come il problema muti aspetto quando ci si trovi davanti ad un vero testo, nato indipendentemente dalla musica. La fusione tra le componenti musicali ed extramusicali dell’opera si ricostruisce su altre basi. È un nuovo “gioco” di rimandi e di significazioni che viene ad istituirsi. 254 A.S., Diritti dell’uomo (1947), in Stile e idea, cit., pp. 204-205. 255 A.S., Funzioni strutturali dell’armonia, cit., p. 119.

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Il dramma e la poesia offrono al compositore ricchi temi d’ispirazione, ma molto di ciò che fanno con una mano se lo riprendono con l’altra. Se una melodia segue solo i dettami della propria struttura musicale può svilupparsi in una direzione diversa da quella verso cui è spinta dal testo. Può risultare più breve o più lunga, raggiungere il suo culmine prima o dopo (o farne a meno del tutto): richiedere contrasti meno vistosi, un’enfasi molto minore, una minore accentuazione. A questo si aggiunge che di solito il testo è così ricco d’espressione di per se stesso da arrivare a mascherare i punti deboli di una melodia.256

Il testo, come si vede, è già di per sé ricco d’espressione: l’espressività non gli viene elargita

dalla musica. Ma più importante ancora è che il contrario di ciò, cioè che l’espressività ricada dal testo sulla musica, non è affatto augurabile. Il musicista deve porre attenzione al carattere incantatorio del testo, scudo per far passare la povertà della sua musica. Ma allora sarà il momento di chiedersi: in che misura il testo diventa fattore formale, ausilio formale della composizione? Da quanto si è detto fin qua appare chiaro che non è adagiandosi sui nessi strofici e sintattici, non è contornando di melodia un’unità espressiva testuale, che la musica riguadagnerà il potere di dominare saldamente la forma, quel potere che l’allargamento della tonalità ha fatto vacillare. Se fra testo e musica vi è un conflitto, sono le sue strategie che ormai sono mutate. V. “Poesia come surrogato formale?”257 è precisamente la domanda che K. H. Ehrenforth si pone, analizzando il ruolo delle strutture metriche e strofiche dei Georgelieder, e avvedendosi immediatamente che sarebbe fatica sprecata cercare la risposta nei suggerimenti che la forma strofica delle poesie potrebbe dare; Schönberg non sviluppa affatto la ripartizione di momenti “significativi” che il testo offre:

Una bipartizione così appariscente come ad esempio la mostra la XIII poesia (versi 1-4 riferiti a un “DU”, versi 5-8 riferiti a un “ICH” viene da lui totalmente ignorata. In compenso egli assume la doppia apparizione dell’immagine del salice (battuta 2 “Silberweide”, battuta 10 “die Weiden seh’ ich...” e la connette tematicamente.258

È perciò a buon diritto che Ehrenforth può affermare che “… la rigidità formale nella rima e nella successione metrica, essenziale per George, diventa invece prosastica, asimmetrica libertà formale dissolvente i confini del verso”.259

La “prosa musicale”, cioè, in altri termini, l’indipendenza della musica da quei “doni” formali e strutturali che la poesia dà con una mano e si riprende con l’altra, è precisamente ciò che Schönberg cerca negli anni dei Georgelieder. La linea musicale distrugge la forma strofica proprio per rimanere libera di svilupparsi anche in una direzione diversa da quella che il testo potrebbe suggerire. Il suo culmine non coincide necessariamente con gli höhepunkte del verso (gli “ich” und “du” della poesia citata), ma soprattutto un testo così smontato e rimontato non può più mascherare

256 Idem, p. 120. 257 “Dichtung als Formsurrogat?” (Karl Heinrich Ehrenforth, Ausdruck und Form. Arnold Schönbergs Durchbruch zur Atonalität in den George-Liedern op. 15, Bonn, Bouvier, 1963, p. 31). 258 “Eine so augenscheinliche Zweiteilung, wie sie z. b. das XIII Gedicht aufweist (Vers 1-4 gilt einem “DU”, Vers 5-8 dem “ICH”) wird von ihm gänzlich ignoriert. Dafür greift er das zweimalige Auftreten des Bildes von der Weide auf (Takt 2 “Silberweide”, Takt 10 “Die Weiden she’ ich…” und verknüpft sie thematisch” (Idem, p. 34). Va però sottolineato che questa connessione avviene in uno stato di sospensione e di attesa. Sulle due immagini del salice il pianoforte tace. La musica non rinforza l’immagine del salice. Sulle implicazioni di un simile procedimento si rimanda al settimo capitolo. 259 “Die für George wesentliche Formstraffheit in Reim und metrische Abfolge wird dagegen zur prosanahen, asymmetrischen, die Versgrenzen auflösenden Formfreiheit” (Idem, p. 49).

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nessun punto debole melodico-formale. Se è vero che il testo funziona come elemente connettivo, ciò non significa che esso venga a salvare la musica dall’“anarchia” conseguente all’abbandono della tonalità. L’unità della composizione si costituisce col testo e non semplicemente dal testo. Webern aveva appunto sostenuto che la coerenza dell’op. 15 non era tematica, ma vi si poteva rintracciare un “chiaro disegno architettonico interiore” (innere architektonische Anlage), ma a questo proposito risultano interessanti le osservazioni di Jan Maegaard, là dove dice che

... i pochi accenni in Stein, Adorno, Stuckenschmidt ed Ehrenforth fanno presumere che Webern abbia ragione, ma non danno prova dell’intera misura del “disegno architettonico”. D’altra parte è giusto anche il porre l’accento di Adorno sull’unità di ogni singolo Lied. Ogni Lied ha il suo proprio, non intercambiabile motivo. Non è sempre un Gesangnmotiv ma, tranne due, sono tutti cantabili.260

Ma ben più importante, anzi decisiva, è la tesi che Maegaard espone subito dopo. Quello che

Webern definiva “disegno architettonico interiore” viene da Maegaard riferito ai rapporto strutturali (strukturelle Beziehungen) che governano l’insieme del ciclo, mentre sono i rapporti motivici (motivische Beziehungen) a caratterizzare il singolo Lied. I rapporti strutturali sono a loro volta determinati non solo da rimandi e da analogie dinamiche e armoniche tra le varie parti, ma addirittura da un unico tema:

La melodia pianistica a una sola voce dell’inizio può essere considerata come forma fondamentale dell’intera opera (battute 1-6). Si divide in tre arcate (Bögen), la seconda delle quali rappresenta una variante temporalmente ristretta e intervallarmente dilatata della prima, mentre la terza pone una specie di chiusa. La serie che così ne risulta consiste di 7+5+6=18 note.

Il materiale motivico di ogni singolo Lied si limita di solito a un singolo motivo, che può

avere il carattere di motivo principale (Hauptmotiv) o essere semplicemente il motivo iniziale (Kopfmotiv). Nel caso del primo Lied

... il motivo iniziale del preludio serve quasi come motivo principale del Lied, però divide questa funzione con il motivo che entra con la parte vocale, cioè una trasposizione (+1) delle note 11-12-13, che qui viene inteso come il vero e proprio motivo principale del Lied mentre il primo [Kopfmotiv, n.d.a.] viene stimato equivalente alle altre derivazioni della serie. Questo fa in tutto 18 motivi principali e iniziali, dei quali molti sono propri di un Lied, mentre altri compaiono in altri Lieder e perciò contribuiscono alla rete di rapporti superiori dell’intero.261

In questo modo Maegaard ricava 27 motivi:

260 “Die wenigen Hinweise bei Stein, Adorno, Stuckenschmidt und Ehrenforth lassen nur ahnen, daß Webern recht hat, weisen aber nicht das volle Ausmass der ‘architecktonischen Anlage’ nach. Andererseits ist Adornos Betonung der Einheit jeden einzelnen Liedes auch richtig. Jedes Lied hat sein eigenes, unverwechselbares Motiv; ist es nicht immer ein gesangsmotiv, sind doch alle ausser zweien gesanglich” (Jan Maegaard, Studien zur Etnwicklung des dodekaphonen Satzes bei Arnold Schönberg, in 3 Bd., København, Wilhelm Hansen Musik Forlag, 1972, Vol. II, p. 127). Il giudizio di Webern è tratto da Anton Webern, Schönbergs Musik, in AA. VV., Arnold Schönberg in höchster Verherung, München, Piper, 1912, p. 40. Per il riferimento a Adorno cfr. Nachwort, in A.S., Georgelieder, Wiesbaden, Insel Verlag, 1959. 261 “Als Grundgestalt des Ganzen Werkes darf die einstimmige Klaviermelodie am anfang angesehen warden, I T. 1-6. Sie zefällt in drei Bögen, deren zweite eine zeitlich gedrängte und intervallisch erweiterte Variante des ersteren darstellt, während der dritte eine Art abgesang ausmacht. Die daraus resultierende Reihe besteht aus 7+5+6=18 Tönen (…) hier dient das Kopfmotiv des Vorspiels gewissermassen als Hauptmotiv des Liedes, teilt jedoch diese Funktion mit dem beim Vokaleinsatz eintretenden Motiv, einer Transposition (+1) von R 11-12-13, das hier als das eigentliche Hauptmotiv des Liedes verstandes wird, während das erstere ebenbürtig mit den übrigen R-Ableitungen zum Netz der übergeordneten Beziehungen des Ganzen beitragen (J. Maegaard, op. cit., p. 128).

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I 27 motivi sono tutti rapportabili sia ai gruppi di note della serie, motivicamente e strutturalmente, o sono motivicamente derivati da altri motivi; spesso sono entrambe le cose. Solo nel XV Lied si può parlare di un vero e proprio tema principale.262

Si è detto tema, ma sarebbe opportuno dire un’unica serie, applicando il termine Reihe, che

lo stesso Maegaard usa tranquillamente, poiché ciò che di straordinario emerge da questa analisi è che Schönberg, quindici anni prima di teorizzare l’uso della serie di dodici note come Grundgestalt del brano, e sette-otto anni prima di trovarla spontaneamente lavorando alla Jakobsleiter, scriveva già, “come in sogno”, una musica che a buon diritto si può chiamare seriale. L’unità formale che il suo pensiero andava strenuamente cercando in Bach come in Wagner, nel superamento della musica a programma come nel confronto con le forme del testo poetico era già presente, nel segreto dei puri rapporti intervallari, in una strenua e assoluta razionalità che era tale prima di ogni intervento della “ragione” e che solo a chi ne coglieva la mera superficie poteva apparire come irrazionalismo. E si ponga attenzione al fatto che la Grundgestalt di diciotto note che costituisce l’inizio del primo Lied e insieme la base dei rapporti strutturali dell’intero ciclo è eseguita dal solo pianoforte: il testo non vi compare. Solo nel motivo che appartiene strettamente al primo Lied entra una parte del canto, che, a sua volta, è la trasposizione di un brano della serie. L’unità formale dell’intera opera è quindi garantita senza un diretto intervento delle parole? Tutto ciò ci conduce a concludere che il testo non è affatto un ausilio formale? La risposta non può essere che complessa, e altri elementi occorrono perché possa essere data. Ma bisogna chiedersi in che misura il testo è di sostegno alla forma, e se davvero l’unità dell’opera è ricavabile da un’analisi semplicemente musicale. E quale peso dare a una delle conclusioni a cui giunge Ehrenforth?

Il supporto formale della poesia non gioca nessun ruolo decisivo nei Georgelieder. Il prendere in aiuto un surrogato formale extramusicale non si realizza in questa forma (...) Nello stesso tempo il verso diviene inudibile, e la coerenza della frase è suprema legge della declamazione.263

Si potrebbe osservare che il fatto che la frase poetica subentri al verso non coincide di per sé

con l’instaurazione di una prosa musicale (è Schönberg stesso che parla di prosa a proposito dei lavori di questo periodo): la frase ha pur sempre leggi costruttive proprie, difficilmente separabili da un eventuale supporto formale. È vero che la declamazione non è il discorso, ne è solo una componente, e che altrove Ehrenforth specifica che il saldo asse strutturale dei Georgelieder si impone al di là di ogni interpretazione irrazionalista che si poteva dare delle prese di posizione schönberghiane sul rapporto testo-musica, ma quello che si è fin qui cercato di dimostrare è che non vi è separazione tra lo Schönberg esteta e lo Schönberg compositore. Le sue affermazioni non sono “contraddette”, anche se fortunatamente contraddette, dalla sua opera: pur senza attribuirgli un inesistente pensiero sistematico, va rimarcato come la coerenza delle sue tesi sia la stessa delle sue opere, e come si manifesti nello stesso modo, cioè enunciando in forma prima ellittica e intuitiva ciò

45 “Die 27 Motive sind alle entweder auf Tongruppen von R, motivisch oder strukturell, beziebahr, oder sie sind von anderen Motiven motivisch abgeleitet; oft sie sind beides. Nur in XV kann man von einem eigentlichem Hauptthema sprechen” (J. Maegaard, op. cit., p. 128). Lo Hauptthema finale si riferisce all’ultimo Lied e non va confuso con la Grundgestalt iniziale, che altrove Maegaard chiama anche Tonreihe. Cfr. p. 447: “La maggior parte dei motivi sono derivabili dalla serie (“Die meisten Motive [sind] aus der Reihe ableitbar”). L’uso del termine motivo in Maegaard (motivo che a volte è di sole due note), corrisponde alla suddivisione posta da Schönberg nel suo Models for Beginners in Composition, New York, Schirmer, 1947. Così lo definisce, sulla scia di Schönberg, Leibowitz: “...the smallest melodic unit. It contains one or more intervals based on a single rhythmic figure” (René Leibowitz, Schoenberg and His School, New York, Da Capo, 1975, trad. dall’edizione francese, Paris, Janin, 1947). 263 “Die Formhungshilfe der Dichtung spielt in den Georgeliedern keine entscheidende Rolle. Die Heranziehung außermusikalischer Formsurrogate trifft in dieser Form nicht zu (…) Zugleich wird der vers überhörbar, der Zusammenhang des Satzes ist oberstes Gesetz der Deklamation” (K. H. Ehrenfort, op. cit., p. 48). È esistita una musica seriale predodecafonica? Esempi se ne potrebbero trovare oltre a Schönberg e, ovviamente, a J. M. Hauer, il fondatore della teoria dei “tropi”. George Perle indica Voiles di Debussy come un esempio di questo tipo (G. Perle, Serial Composition and Atonality, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 1962, p. 41).

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che poi apparirà in tutto il suo rigore. Istinto e scienza, ancora una volta. Si dice questo perché riteniamo che vadano accantonate quelle sistemazioni storiche di Schönberg che dividono il periodo atonate, “di transizione”, da quello dodecafonico, “di sistemazione” dove questa sistemazione non appare altro, in fine, che rifiuto progressivo del “disordine” in vista di un ordine sintetico e totalizzante. Ora, se la presenza del testo è decisiva, è anche vero che

... il musicista è in grado di porsi vicino al suo testo con relativa impassibilità. Esso gli necessita allo scopo soprattutto di organizzare il succedersi delle vocali e delle consonanti, secondo principi che per lui hanno comunque valore tassativo. La sua musica sarebbe a volta più veloce e più lenta, più alta e più bassa, più forte e più leggera anche senza il testo...264

Ma se la presenza del testo mostra il limite della musica, cioè mostra che la musica non può

dire il verso e la frase, vale anche il contrario, e cioè che la presenza della musica mostra il limite del testo, cioè mostra che il testo non può, incorporando una inesistente “mancanza di leggi” della “musica di transizione”, dettare la sua legge alla musica, farsi musica esso stesso. Se il rifiuto della grande forma è il momento della negazione, esso però si presenta contemporaneamente alla positività di un linguaggio che elabora le proprie leggi dall’interno della sua critica alla ragione:

Faticosamente matura il passaggio dal negativo-immediato della “sospensione”, dall’a-tonale al potere di mostrare il silenzio ai nuovi ordini, infine, che non sono l’Ordine, che non sono linguaggio “inventato”, che non esprimono la libertà dell’Arte o il Moderno, ma nuova comprensibilità, nuova comprensibile combinazione di segni, in grado di allargare il dominio sul materiale, lavorarlo e trasformarlo, senza mai presumere che esso sia mero fenomeno, semplice proiezione dell’Ego, – teorizzando, invece, la sua Gegen-ständlichkeit...265

Ma se il testo è “Gegen-stand per il linguaggio musicale” anche la musica è Gegen-stand per

un testo: essa non si trova in uno stato di debolezza d’ordine tale da imporsi le regole del testo anche al di là della sua presenza, perché la “transizione” cosiddetta ha le sue leggi nascoste, le stesse che danno la compattezza motivica dei Georgelieder, e che daranno l’unità di ispirazione di Erwartung e di Glückliche Hand. Commentando negativamente il fatto di essere costretto, per motivi editoriali, a dare titoli programmatici ai Fünf Orchesterstücke op. 16, Schönberg aveva scritto:

La musica è meravigliosa proprio in quanto riesce ad esprimere tutto. L’ascoltatore riesce così a capire tutto, ma non vengono divulgati i suoi segreti, quelli che nemmeno a noi stessi osiamo confessare. Il titolo è un insieme di parole inutili [ma l’originale riporta Titel plaudert aus, lett. “il titolo confessa, spiattella”], ciò che c’era da dire l’ha già detto la musica... Se fossero necessarie delle parole sarebbero contenute in essa... [Wären Worte nötig, wären sie drin...].266

264 A.S., Prefazione, in Testi poetici e drammatici, cit., p. 25. Per quanto riguarda il concetto di “prosa musicale” si confronti la cit. seguente: “‘Ritmi bizzarri’ sono usati più frequentemente nella musica primitiva che nella musica d’arte. Nella musica d’arte ci potrebbe essere piuttosto un più elevato e più composito fraseggio, che renda più difficile l’intelligibilità. Spiegherei questo come un approccio verso quello che chiamavao abitualmente ‘prosa musicale’, che mi sembra una forma più elevata della versificazione: può rifiutare il primitivo espediente per la memoria del ritmo unificato e della rima” (“’Bizarre rhythms’ are more frequently used in primitive music than in art music. In art music it might rather be a higher and more compound phrasing, which makes intelligibility more difficult. I would explain this as an approach towards what I used to call ‘musical prose’, which seems to me a higher form than versification: it can renounce the primitive makeshift to the memory of the unified rhythm and the rhyme.” A.S., lettera a Andrew J. Twa del 29 luglio 1944, in A.S., Letters, London, Faber & Faber, 1964, p. 218. La lettera, che è originariamente in inglese, non è compresa nell’edizione tedesca del 1958). 265 M. Cacciari, La Vienna di Wittgenstein, cit., pp. 82-83. 266 A.S., cit. in Arnold Schönberg. Catalogo della mostra, Milano, Nuove Edizioni, 1975, p. 105, edizione ridotta di Arnold Schönberg Gedenkausstellung, Wien, Universal Edition, 1974 (Redaktion: Ernst Hilmar), in cui la cit. riportata è a p. 254. Ora anche in A.S., Berliner Tagebuch, hrsgg. Von J. Rufer, Frankfurt-Berlin, Propyläen Verlag, 1974.

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Anche se i brani di cui qui si parla sono strumentali, non va dimenticato che si tratta di

parole scritte durante la composizione del Pierrot lunaire, e che il problema del testo attraversa tutto il “diario berlinese” da cui sono tratte. Alla musica non sono “necessarie” delle parole. Esse, però, la possono stimolare, interrogare:

Tra Musica e Testo accade un rapporto – rapporto tra due linguaggi – non dialetticamente superabile in una più alta unità. Il Testo pone un limite – ma, ponendolo, interroga. Il rapporto non è tra due linguaggi “pacificamente” contrapposti o parallalelamente disposti. Il testo è assunto radicalmente: come presenza da interrogare e alla quale rispondere – presenza che pone domande e dà risposte (...) Il Testo è, dunque, problema che la forma musicale avverte come suo proprio limite, che essa deve affrontare, rielaborare, trasformare: durch-arbeiten – un complesso di segni, di indici, di memorie, di conoscenze che la musica deve riprendere e riportare a forma comprensibile e organica ma che, a sua volta fa comprendere, e rende-visibile, i problemi della forma musicale.267

Torniamo a Ehrenforth, là dove dice che alle possibilità di connessione offerte dalla forma

strofica Schönberg ha “sorprendentemente” rinunciato, perché “...per lui era più importante la libertà della forma della composizione continuata.”268 Ehrenforth ci suggerisce qui una traccia preziosa: forse che la rinuncia alle connessioni strofiche non è che una parte di quella rassegnazione alla “mancanza di contenuto” schpenhauerianamente e mahlerianamente intesa – il risultato di quell’ascesi anti-wagneriana, anti-straussiana, che sola potevqa porre le basi di una rinnovata disposizione di significato ora finalmente risolvibile nell’immanenza della forma? Di fatto

... la complessa rete di allusioni, di significati culturali e formali, che costituisce il ciclo gheorgiano (1895) non è ricompresa immediatamente nel fatto musicale. Non c’è corrispondenza tra struttura significante-formale del testo e quella della musica schönberghiana.269

Fin qui possiamo seguire la tesi di Cacciari. Ma è impreciso affermare, come fa poi, che “...

soltanto i valori metrici fondamentali – il testo come generatore d’ordine – vengono assunti nella musica”.270 A questo potrebbe ribattere Ehrenforth:

Però non si può parlare di un radicale distacco dalla battuta nei Georgelieder di Schönberg. Schönberg non si lascia portar via la possibilità formativa di staccarsi, in punti particolari, da un metro determinato: a) in punti che vogliono render chiaro il porre resistenza contro determinate barriere b) in punti di irreale, sognante sospensione.271

Il metro permane, ma nemmeno i suoi valori fondamentali sfuggono alla problematicità.

Essi non sono affatto garanti del benché minimo ordine. Sono essi stessi problema perché le unità musicali, le Stimmungseinheiten, non sono ricavabili da un metro, né da una frase che è tale solo per chi ascolti i Lieder con il testo sott’occhio, sommando la lettura all’ascolto, ma che nella musica risulta nullificata o comunque ricomposta su altre basi, perché, anche senza seguire Nietzsche fino in fondo nella sua affermazione che ogni musica è assoluta perché il testo è tale per chi lo canta ma non per chi la percepisce, è chiaro che con i Georgelieder ci si trova di fronte a ciò che nell’estetica

267 M. Cacciari, idem, pp. 84-86. 268 “Die Freiheit der Durchkomponierten war ihm wichtiger” (K. H. Ehrenforth, op. cit., p. 31). 269 M. Cacciari, idem, pp. 87-88. 270 Idem, p. 88. 271 “Dennoch kann man von einer grundsätzlichen Lösung vom Takt bei Schönbergs George-Liedern nicht sprechen. Die gestalterische möglichkeit, sich von einem bestehenden Metrum an besonderen Stellen zu lösen, läßt sich Schönberg nicht nehmen: a) bei Stellen, die das Ankämpfen gegen gesetze Schranken verdeutlichen wollen b) bei Stellen unwirklichen, traumhaften Schwebens (K. H. Ehrenforth, op. cit., pp. 48-49).

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del tempo prendeva il nome di musica assoluta o, come avrebbe preferito dire Busoni e forse anche Schönberg, musica dell’assoluto. Là dove Schönberg effettivamente rispetta il metro di George, facendo coincidere completamente frase e declamazione, ciò non avviene perché il testo abbia generato l’ordine della musica, ma al contrario perché è proprio lì che la musica mostra di prendere distanza dal testo, e il rispetto per l’ordine stesso che il verso si è dato è il miglior commento e insieme la migliore critica che la musica possa esprimere. Analizzeremo gli esempi nel settimo capitolo, dove si tornerà a George sulla base di altre acquisizioni. Qui ci limitiamo a riprendere Cacciari: “... la musica raggela, nel suo metro, i residui simbolisti del testo, la ricchezza floreale che continuamente vi traspare, e, soprattutto, l’esasperato, esangue, raffinatissimo cromatismo”.272 Sintetizzando, la posizione del testo è allora questa: “Il Testo permane autonomo, ma pregno di problemi che il linguaggio musicale affronta e rielabora – non testo della musica, ma domande-risposte all’articolazione della forma musicale”.273

Nella “Discussione alla Radio di Berlino” del 1931, la questione del testo come supporto formale ritornerà con insistenza. Secondo Strobel, uno dei partecipanti alla conversazione, nei Georgelieder

... l’eliminazione della consonanza, vale a dire l’equiparazione della consonanza alla dissonanza (...) è arrivata al punto che l’ascoltatore può seguire la musica solo basandosi sul testo; e questo non è romanticismo?274

E Preussner, l’altro interlocutore, incalza: caduta l’antitesi tra consonanza e dissonanza,

“cosa dovrebbe subentrare al loro posto come elemento di articolazione?” E se anche la “grande forma” è esaurita, perché si basava appunto sulla garanzia formale data dalla consonanza-dissonanza, è possibile pensare che alla musica d’ora in poi sia aperta solo la via della composizione aforistica? Schönberg risponde:

Forse è per questo che ci siamo sentiti spinti fortemente verso la musica con un testo, dato che il testo – come già dice il teorico Bernhard Marx – è molto adatto a detgerminare l’articolazione formale di un pezzo. Il carattere a quanto pare così “espressivo” di questi pezzi non dipende quindi da idee romantiche, ma presumibilmente dall’aspirazione ad articolare una forma: un ausilio per l’orientamento di chi ascolta, un ausilio per l’articolazione formale del compositore.275

Una contraddizione con quanto sostenuto finora? No, una prima spiegazione, se mai, del

perché della scelta di George, del perché di una poesia che proprio attraverso la perfezione artificiale del suo “paesaggio”, la minuzia del suo botanicizzato dato naturalistico, fa erompere la lama della disincarnazione, l’utopia della “morte e trasfigurazione” nella pura e assoluta forma. Ed ecco allora che se “la musica ricompone, riorganizza il senso, la tendenza del testo” è perché, in quel testo “... la tendenza fondamentale è quella alla forma, come Hofmannstahl stesso sottolineava”.276

Ma questa riassunzione sarà critica, non sarà continuazione, perché se rifiuta morbosamente storia e peccati del linguaggio, Schönberg al contrario ne farà tesoro “... poiché non esiste nulla di assolutamente nuovo – e non nel senso volgare che tutto è radicato nella tradizione, ma in quello, che abbiamo a lungo fin qui seguito, che il linguaggio non si inventa”.277 Così c’è anche del romanticismo in tutto ciò, come ci sono anche Wagner e Brahms: “Accetto di buon grado che mi si definisca romantico: soprattutto, non mi trovo poi in cattiva compagnia”.278 Ma se di romanticismo

272 M. Cacciari, ibidem. 273 Idem, p. 85. 274 A.S., Discussione… (1931), in Analisi…, cit., p. 134. 275 Idem, p. 135. 276 M. Cacciari, idem, p. 88. 277 M. Cacciari, Krisis, cit., pp. 123-124. 278 A. S., Discussione…, cit., p. 140.

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si tratta, esso è ormai completamente assorbito, linfatizzato nella ricerca di nuove articolazioni e nuove forme. VI. Dobbiamo chiederci ancora: qual è l’unità formale minima, quell’atomo di forma che rende il testo adatto all’articolazione del pezzo, al di là dei suoi problemi culturali e delle tensioni espressive in esso contenute? Non il metro, non la frase. Per anticipare la risposta bisognerà ritornare al Verhältnis zum Text, e precisamente in quel luogo in cui Schönberg afferma di aver capito “... i Lieder di Schubert e il loro testo poetico, partendo solo dalla musica, e le poesie di Stefan George attraverso il puro suono...”.279

È dunque questa la risposta? È solo la monade non-significante (apparentemente non-significante) del suono della parola che influisce sulla musica? Rispondere affermativamente non significa ridurre il problema al minimo comun denominatore, bensì impostarlo su nuove basi, poiché esso non è affatto riducibile a una riduzione fonetica della parola. Il fatto è che Schönberg va preso alla lettera molto più di quanto non sia stato sempre fatto, perché è solo seguendolo sul suo terreno che emerge la vertiginosa e nascosta complessità culturale delle sue posizioni. Ma la risposta alla questione posta dal suono potrà essere data solo alla fine di questo lavoro. Ritorniamo quindi alla discussione con i due critici. Il romanticismo che Strobel rimproverava a Schönberg è fuori luogo se presume di appoggiarsi su un rapporto col testo dove la mancanza di regole della musica sarebbe compensata dalle regole del testo. Ciò potrebbe verificarsi solo se il programma, la frase o il verso si facessero effettivamente regole per la composizione: non è il caso di Schönberg, ma è il caso dell’accostamento alla musica tipico della generazione cresciuta nell’ascolto di Wagner: è a Wagner in realtà che il “rimprovero” andrebbe rivolto, se poi è lecito rimproverare qualcuno del costume culturale di un’intera epoca; si rammenti che Schönberg giustificava anche questo modo d’ascolto, a patto che esso riconoscesse i suoi limiti. A ciò si aggiunga che Schönberg esaurisce il suo rapporto con Wagner con problemi sinfonici e con un oratorio come i Gurrelieder del quale Adorno ha scritto che considerarlo wagneriano sarebbe come definire Mozart un post-haydniano – e non con l’opera lirica, quindi con il cuore del rapporto parola-musica in Wagner.

Quando Schönberg giunge all’Erwartung e alla Glückliche Hand è in possesso di una tale sicurezza nel trattare il suo rapporto testo-musica e dramma-musica che può trasformare le sue prime prove teatrali in una totale liquidazione del wagnerismo. Di più: Erwartung e Glückliche Hand si pongono come entrata e uscita di uno spazio all’interno del quale sta tutto Wagner, spazio nel quale l’op. 17 si pone come introduzione e l’op. 18 come postfazione. È Eisler che (nel 1924!) rileva il carattere pre-wagneriano dell’Erwartung:

Dal punto di vista formale può essere paragonata al finale o alla “scena con aria” di un’opera prewagneriana. C’è anche qui l’alternarsi di brani ariosi in sé conchiusi con brani dalla struttura più libera. Schönberg rinuncia quasi completamente al Leitmotiv, gesto quasi reazionario. Ma qui la musica ritrova un compito che non è quello di illustrare. Non si accontenta, ogni volta che il protagonista fa capolino dalle quinte, di suonargli il suo Leitmotiv (...) Ma proprio questi mezzi, nonostante la differenza e la novità del materiale, sono radicati nello spirito della musica classica più che lo stereotipo del Leitmotiv; come del resto tutto il dramma è piuttosto riconducibile a un tipo di opera esistita prima di Wagner.280

Quanto alla Glückliche Hand, non è solo l’aver messo in scena un Sigfrido sconfitto, che

foggia diademi invece di spade, e che canta la sua contratta aria amorosa senza avvedersi che la sua

279 A.S., Il rapporto col testo, cit., p. 140. 280 H. Eisler, Arnold Schönberg, il reazionario in musica (1924), in Musica della rivoluzione, cit., p. 130, corsivo nostro.

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Brunilde se ne va con un borghese – non sono solo questi elementi a farne la più spietata delle riletture wagneriane. Certo, se nell’Erwartung Schönberg sembra aver messo Isotta sotto la lente d’ingrandimento, qui ha guardato alla Tetralogia con un cannocchiale rovesciato. Per questo si può concordare con Adorno quando scrive che nell’op. 18

... il testo è un appiglio insufficiente quanto si vuole, ma non può comunque essere distaccato dalla musica. Sono proprio i grossolani accorciamenti del testo a imporre alla musica una forma concisa, e per conseguenza anche la sua forza incisiva e la sua densità: ed è proprio criticando questa grossolanità del testo che si giunge al centro storico della musica espressionista.281

L’insufficienza e anche la banalità del simbolismo di cui Schönberg fa mostra nello stendere

i minuziosi dettagli scenici dell’opera esaltano la funzione di una musica che non ha più il compito di illustrarli; il testo vero e proprio è ridotto a una sorta di biglietto da visita del protagonista. Il Gesamtkunstwerk espressionista, sia l’op. 18 di Schönberg, sia Der Gelbe Klang di Kandinskij, abbonda di istruzioni per l’uso perché altrimenti si sa irrappresentabile: quale concordanza vi è tra le intenzioni compiutamente interiori e le convenzioni storiche del teatro? Anche per questo l’unità è impossibile: non è certo la fusione delle arti ciò a cui conducono il teatro di Kandinskij o di Schönberg, bensì la loro compresenza separata:

L’opera è un dramma cui viene aggiunta, come elemento principale, la musica, cosa di cui risentono negativamente in misura notevole la finezza e la profondità della parte drammatica. Le due parti sono connesse tra loro in modo totalmente esteriore. In altri termini, o la musica illustra (ovvero rafforza) l’evento drammatico, oppure questo viene utilizzato per spiegare la musica.282

Le indicazioni di regia si fanno persino maniacali perché ormai si sa, e il saperlo è tragico,

che ciò che non verrà detto non ci sarà, e che l’allusione non allude più a nulla. La “felicità terrena” a cui aspira l’uomo della Glückliche Hand è precisamente questa totalità, e la sua sconfitta è restare oppresso dall’angoscia per la sua assenza. Ma la musica torreggia sopra lo sfacelo, perché alla totalità vi ha già rinunciato. Per questo l’op. 18 diviene “... la visione di una totalità tanto più valida in quanto non si realizzò mai come sinfonia compiuta”.283 E se nell’Erwartung “...la musica come protocollo dell’espressione non è più ‘espressiva’”, su di essa non si libra più in un’incerta lontananza ciò che viene espresso a conferirle il riflesso dell’infinito, nella Glückliche Hand

... quanto più (...) si evolvono le singole sezioni del materiale, e magari anche si fondono (...) tanto più si delinea con chiarezza l’idea di una totale organizzazione razionale di tutto il materiale musicale (...) Essa era già parte integrante del Gesamtkunstwerk wagneriano [ma, per Schönberg, nel senso dell’unità formale del Leitmotiv!] e viene portata a compimento da Schönberg, nella cui musica non solo sono ugualmente sviluppate tutte le dimensioni, ma tutte sono prodotte in modo talmente distinto da convergere.284

Questa riassunzione-esaurimento di Wagner ha predisposto prima a recuperato poi tutto

“Wagner il progressivo” (nel senso—alla Max Weber—di una storia della musica occidentale vista come progressiva razionalizzazione dei suoi materiali), escludendo il rapporto testo-musica. Così come appare in Wagner, esso non ha più nulla a che fare né nell’op. 17 né nell’op. 18. Si tratta a questo punto di dimostrare la verità di questa asserzione, e di vedere dove ci porterà la ricerca. 281 Th. W. Adorno, Filosofia della musica moderna, cit., p. 50. Sull’Erwartung si confronti con quanto ne dice lo stesso Schönberg: “In Erwartung c’è l’intenzione di rappresentare quanto si svolge in un secondo di massima eccitazione spirituale, diluito nel tempo, per così dire al rallentatore, per una mezz’ora” (A. S., Lascito, cit., in A.S. Catalogo della mostra, cit., p. 52). 282 Vasilij Kandinskij, op. cit., p. 68 (la cit. è tratta dallo scritto Über Bühnen-Komposition). 283 Th. W. Adorno, op. cit., p. 50. 284 Idem, pp. 56 e 59.

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Capitolo V

Parola e musica in Wagner. La critica schönberghiana al concetto di dramma interpretata attraverso la mediazione di Nietzsche

I. Il rapporto parola-musica è il perno intorno al quale ruota tutto il pensiero musicale di Wagner. Anche se in negativo, esso ci servirà per verificare attraverso quali mediazioni vada rintracciata l’origine del pensiero di Schönberg intorno a questo tema. Un’utile traccia, che potrà condurci agilmente attraverso l’opera teorica di Wagner e infine farci approdare al polo opposto del wagnerismo, sarà costituita dalle riflessioni che Wagner dedica alla Nona Sinfonia di Beethoven.

Già nel racconto Una visita a Beethoven, del 1843, Wagner imposta la sua interpretazione dell’incontro di musica e parola, ma con un’intonazione che non sempre manterrà in futuro. Vi è infatti una oscillazione teorica in Wagner, dovuta precisamente al suo “sguardo” sulla parola, che vorrebbe essere filosofico ma che fa emergere prepotentemente il musicista. Mettendo sulle labbra di un immaginario Beethoven le sue riflessioni, Wagner pone una distinzione tra strumento e voce come specchio della separazione uomo-natura, separazione a cui la nuova arte dovrà porre fine. “Gli strumenti rappresentano gli organi primordiali della creazione e della natura”, cioè l’indeterminato, i sentimenti ancora primitivi, mentre la voce “rappresenta il cuore umano e la sua precisa sensazione individuale”.285 Il principio di determinazione che la voce inserisce può così placare il conflitto tra i sentimenti primordiali. Ma qui Wagner sembra dare decisamente la prevalenza alla voce a scapito delle parole. Esse non possono che essere deboli davanti alla poesia “derivante dall’unione di tutti gli elementi” e la scelta del testo schilleriano non è stata che il male minore.

Come poi si vedrà, le opere mature di Wagner sembreranno rinnegare queste posizioni ancora vicine al primo romanticismo: sarà nell’àncora della parola che Wagner vedrà la sola salvezza della musica, e merito di Beethoven sarà proprio quello di esservisi abbandonato. Sarà solo in uno degli ultimi scritti, il Beethoven del 1870, che si riaffacceranno le tesi giovanili, in una feconda contraddizione.

Wagner, intanto, in uno scritto del 1846 dedicato espressamente alla Nona Sinfonia, mentre dà alla musica ciò che è della musica, comincia a spostare lo sguardo sulla forza significativa della parola. Secondo le sue indicazioni, il passaggio cruciale “Seid umschlungen Millionen” dovrebbe essere più esclamato che cantato. La questione è sottile, perché subito dopo Wagner aggiunge che, avendo dato l’esempio egli stesso di come si sarebbe dovuto formulare quel passo col canto, trascinò tutti “in uno stato d’animo veramente eccezionale”: “… né cessai finché io stesso, mentre prima mi si udiva sopra tutte le voci, non mi udii più ed ebbi l’impressione di essere affondato in quel caldo mare di suoni”.286

Le parole sembrano qui essere servite da semplice stimolo, spinta verso l’estasi musicale. L’impressione si rafforza se, proseguendo nella lettura, giungiamo all’introduzione del “Programma”, quel programma di cui si è già altrove discusso, che Wagner applica alla sinfonia. Qui viene detto chiaramente che “… bisogna riconoscere che l’essenza della più elevata musica strumentale consiste nell’esprimere coi suoni quello che non si può esprimere con le parole…”287—

285 Richard Wagner, Una visita a Beethoven, in Ricordi, battaglie, visioni, Milano-Napoli, Ricciardi,1995, p. 100. 286 R. Wagner, Rapporto sull’esecuzione della IX Sinfonia di Beethoven a Dresda nel 1846, in op. cit., p. 187. 287 Idem, p. 188.

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e che, se ci si riferisce a Goethe per trovare un corrispondente poetico non si deve pretendere che il riferimento possa garantire una più vasta comprensione di una “creazione puramente musicale”.

Qui si illumina nel suo più vero significato la giustificazione che Schönberg dava di come Wagner aveva applicato programmi letterari alle opere di Beethoven: giustificazione legittimata dal fatto che qui Wagner bada ancora a tenere ben distinte la sfera della musica pura e della poesia pura, e quindi non pretende di spiegare con la poesia il contenuto o l’essenza della musica. Siamo insomma nel campo di quello che Schopenhauer chiama l’attività dell’intelletto riflessivo, che non avrebbe piacere di restarsene ozioso nella contemplazione di un’arte che lo trascende.

A guardar bene, però, anche in questo scritto si intravedono segni che deviano il discorso verso le future teorizzazioni della musica drammatica. Già l’invito a esclamare il “Seid umschlungen” più che a cantarlo è un espediente drammatico: la figurazione musicale retrocede per far posto non tanto al significato del testo quanto alla spettacolarità del grande coro in unisono; con quell’atto esso diviene davvero il personaggio-coro che irrompe sulla scena. Per gli stessi motivi (e lo dirà in uno dei suoi scritti tardi, Finalità dell’opera, del 1871), Wagner apprezzava moltissimo la scelta della più famosa interprete del Fidelio, Wilhelmine Schröder-Devrient, di dire, invece che cantare, la parola tot nella scena della prigione del secondo atto, là dove Leonora, impugnando la pistola; si rivolge a Don Fernando con “Ancora un passo e sei morto!” Wagner ricordava l’effetto formidabile che l’inserimento di una parola parlata in un punto così altamente drammatico procurava agli spettatori. La funzione del dramma, quello della parola e quello della voce appaiono così inestricabilmente intrecciati. Nello scritto del ’46, Wagner sta cercando i possibili antecedenti di una teoria del dramma che è ancora da formulare. È per questo che dopo aver affermato che l’essenza della musica sta nell’esprimere coi suoni quello che non si può esprimere con le parole, può proseguire così:

Con questo inizio dell’ultimo tempo [il quarto della Nona] la musica di Beethoven assume un carattere decisamente più parlante: abbandona il carattere puramente strumentale mantenuto nei primi tre tempi, che è manifestazione di un’espressione infinita e indecisa; lo svolgersi del poema musicale richiede una soluzione che soltanto il linguaggio umano può esprimere.288

L’intervento della voce e del linguaggio appaiono così una “necessità”; lo testimonia il recitativo dei contrabbassi, quasi abbandonando ormai il terreno della musica assoluta e chiedendo una decisione…289

Il rapporto tra musica e parola è posto così, ancora una volta, come scontro tra il primordiale

e il determinato, tra il caos e l’individuo. È a partire dall’analisi della Nona Sinfonia che si delinea l’interpretazione che Wagner darà della mitologia greca. Come principium individuationis, l’ingresso della parola nella musica coincide col trionfo di Apollo sulle forze del caos. O almeno questa è una delle interpretazioni che appaiono possibili alla lettura di L’arte e la rivoluzione dove, in effetti, cercare una coerenza sistematica sarebbe problematico e in fondo inutile. Vi si dice infatti che il poeta tragico era ispirato da Dioniso quando dava la parola agli elementi di tutte le arti, creando il dramma, ma in questa visione ciò che contemplava era Apollo:

Apollo, che aveva ucciso Pitone, il drago del caos (…) e a chi era in procinto di compiere una azione esaltata porgeva così lo specchio calmo e limpido della sua più intima natura immutabilmente greca: Apollo era l’esecutore della volontà di Zeus sul suolo Greco, era il popolo greco.290

Ma se il caos è una condizione negativa, e la grandezza del popolo greco sta proprio

nell’averla superata, qual è il vero posto di Dioniso? Notiamo per inciso che questa interpretazione 288 Idem, p. 194, corsivo nostro. 289 Ibidem. 290 R. Wagner, L’arte e la rivoluzione, in L’arte e la rivoluzione e altri scritti politici (1848/1849), Rimini- Firenze, Guaraldi, 1973, p. 69.

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del dionisismo è esattamente l’opposto di quella che si ritrova in Nietzsche, per il quale l’elemento dionisiaco e barbarico è posteriore ad Apollo. Capacità e genio dei greci è stata proprio quella di non negare, bensì di accettare, assimilare il dionisismo barbarico, senza pretendere di ricomporre l’armonia spezzata, senza ridurlo a puro momento negativo da superare ed esorcizzare.291 Ma per Wagner l’esplosione del caos verrà ad indicare solo l’urgenza con la quale il caos stesso va superato, e le revisioni che in seguito apporterà al quarto tempo della Nona Sinfonia, e di cui ci occuperemo più avanti, saranno per l’appunto rivolte a questo scopo.

Intanto, è proprio la tematica del rifiuto del caos e dell’esaltazione del principium individuationis che percorre le due maggiori opere teoriche di Wagner. In Opera e Dramma del 1853 si chiarisce che l’individualità in musica è rappresentata dalla melodia. Essa è “L’uomo finito”, l’uomo che è nato, esteriore ed interiore.292 Oltre tutti quei musicisti che non hanno fatto altro che estorcere la melodia al popolo, che ne era rimasto l’unico depositario, “… in Beethoven al contrario noi riconosciamo l’impulso naturale di trarre la melodia dall’organismo interiore della musica”.293

Beethoven ci mette davanti all’atto di generazione della melodia. Esso è naturalmente l’inizio del quarto tempo della Nona, là dove i contrabbassi fanno scaturire la meloldia della gioia dal recitativo con cui hanno zittito la musica “pura”, ma anche indefinita, dei primi tre tempi. Ma questa melodia non potrebbe realmente generarsi se non fosse da sempre consegnata alla parola. La musica è donna è la parola è uomo. Così dice Wagner, ed è per questo che il musicista deve farsi donna:

Ma ciò, che è quanto mai decisivo in Beethoven, e che il maestro ci mostra infine nella sua opera principale, è la necessità che egli sente come musicista di gettarsi nelle braccia del poeta per compiere l’atto della procreazione della melodia vera, immancabilmente efficace e salutare.294

È così superata, secondo Wagner, la posizione totalmente falsa di fronte alla poesia in cui si

trova il compositore d’opera il quale pretende che il poeta si assoggetti alla forma in cui la melodia si dovrebbe manifestare. Queste forme non possono essere già date. Recitativo e aria sono schemi che ingabbiano la libertà di movimento dell’espressione musicale. La melodia vera è un organismo che deve stabilire da sé la propria forma: oltre il recitativo e l’aria, si tratta quindi di creare nuove forme. Questa esigenza di libertà espressiva sarà ciò che più di ogni altra cosa avrà una prosecuzione diretta nell’espressionismo schönberghiano. Ma non si dimentichi il problema già posto: perché Schönberg qualifica la svolta dei Georgelieder e delle opere successive come “allontanamento” dalla musica d’espressione”?295

Ora, è proprio nella ricerca di “nuove forme” che Wagner imbocca una strada dalla quale Schönberg si allontanerà decisamente, perché per Wagner queste nuove forme non possono essere risolte nell’immanenza della musica, perché Wagner non concepisce la storia della musica né come dialettica di cultura e materiali e neanche come evoluzione in linea retta.296 Essa gli appare come un unico sterminato errore, un tradimento perpetrato alla musica dalla fine dell’età tragica e mai più riparato. Da questi inferi i grandi geni si sollevano, ma stretti nelle catene. Bach, Mozart, Haydn, 291 “La maestria artistica dionisiaca non si rivela in un’alternanza di assennatezza ed ebbrezza, bensì nella loro coesistenza. Questa coesistenza caratterizza il punto culminante della grecità: in origine soltanto Apollo è il dio ellenico dell’arte, e fu la sua potenza ad ammansire Dioniso che veniva all’assalto dall’Asia, al punto che fra essi poté sorgere la più bella lega fraterna” (Friedrich Nietzsche, La visione dionisiaca del mondo, in Opere, Vol. III, tomo II, Milano, Adelphi, 1973, p. 52). 292 R. Wagner, Opera e dramma, Torino, Fratelli Bocca, 1894, p. 132. 293 Idem, p.135. 294 Idem, p. 136. 295 Cfr. La prima nota del Cap. IV. 296 Potremmo dire non possono ancora, se immaginiamo un movimento dialettico di estraniazione e ritorno del suono in se stesso in cui Wagner è appunto il fuoco di un’immaginaria ellisse; ma a patto di specificare, e qui non ce n’è il tempo, in che misura si può intendere e delimitare storicamente questo ritorno: in nessun caso esso potrebbe essere confuso con una qualche sorta di formalismo.

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Gluck: essi hanno reso grande la musica anche nella sua miseria, ma non l’hanno redenta. Perché non è di progresso, evoluzione e sviluppo che ha bisogno la musica, quanto di redenzione. Come l’uomo conficcato nel peccato originale, essa aspira a un divino mediatore. Per questo le nuove forme, che saranno gli strumenti della redenzione, non potranno essere solo musicali. La musica non si salva da se stessa: le occorre una forza produttiva fecondatrice esterna, cioè la parola, perché la donna-musica può concepire, ma non procreare. Per questo Beethoven, che “presenta l’atto per il quale la melodia viene alla luce” appare nella luce di un Precursore. Egli la fa intuire nel corso del brano, spezza la forma, mostra le connessioni tematiche: “Per tal modo Beethoven non fa che rivelarci l’organismo interiore della musica assoluta”.297

E per far questo deve costringere la musica assoluta a rivelare la sua “officina” (è sempre dell’inizio del quarto tempo della Nona che stiamo parlando), ma proprio così, smontando (liberandone) le forme, ri-svela la capacità produttiva della musica. E a questo punto è la musica stessa, cosciente di non potersi redimere coi suoi mezzi, che esige la ricerca del poeta: “…l’organismo della musica non può dare alla luce la melodia vera e vivente, che quando esso venga fecondato dal pensiero del poeta”.298

Il solco è così tracciato, e sembrerebbe ben netto: una musica sviluppata su queste basi non potrà trovare la sua verità, la sua idea, che sta costantemente “al di fuori”, altrimenti che in una redenzione che trascenderà sempre e comunque le sue regole di linguaggio. Eppure, il pensiero di Wagner pone questo sistema ma non lo chiude. È vero, interviene la massima, più volte ricorrente, secondo cui la musica non è scopo ma mezzo del dramma, ma se le enunciazioni generali balzano perentorie, più sfumate appaiono le osservazioni particolari. Come non vedere le implicazioni di una simile proposizione?

Così la stessa sua [di Beethoven] melodia della gioia non appare ancora concepita sulle parole o mediante le parole del poeta, ma composta solo in considerazione della poesia di Schiller, nella eccitazione ricevuta dal suo concetto generale.299

E ancora: è così che avviene che le combinazioni melodiche per conto proprio, sposano il

significato, “il senso per certo il più elevato della poesia e della parola”.300 Pur nell’esigenza di conciliarsi in un nuovo ordine, qui non viene detto che la musica debba

articolare la sua forma sulla struttura immediata del testo. Essa è composta in vista del concetto generale ivi contenuto: il significato del testo appare così l’orizzonte non tanto strutturale quanto culturale in cui prende forma la melodia. Insensibilmente, esso tende già a trasformarsi in presenza qualitativa, in programma non più narrativo ma filosofico. Non si sottovaluti questa ambivalenza wagneriana, perché la si ritroverà ancora, e in forme più esplicite. Intanto, non appaia azzardata un’ipotesi che faccia intravedere qui l’origine di quello che Mahler potrà chiamare “programma interiore”. Ma lo stesso Schönberg dei poemi sinfonici, delle opere dove si tenta per l’ultima volta la convergenza prestabilita di “lingua dell’uomo” e “lingua del mondo” potrebbe rintracciare le sue origini in queste radure wagneriane. Ma si può dire di più: la riduzione del testo a concetto generale, che, rivissuto dal compositore, genera idee melodiche che, “per conto proprio” ma sotto la sua influenza ne interpretano il senso, può essere riferita alla prima produzione liederistica di Schönberg, se si pensa al rapporto che in tutto il suo primo periodo (dal 1899 al 1905) Schönberg intrattiene con la poesia di Richard Dehmel. La lettera a Dehmel che avemmo occasione di citare alla fine del terzo capitolo inizia infatti così:

Stimato Signor Dehmel,

297 R. Wagner, idem, pp. 139-140. 298 Idem, p. 141. 299 Idem, pp. 140-141. 300 Idem, p.141, corsivo nostro.

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non so come esprimerle finalmente la mia gioia per il rapporto personale che finalmente sono riuscito a stabilire con Lei. Le sue poesie infatti hanno esercitato un influsso decisivo sulla mia formazione musicale. Esse per prime mi spinsero a cercare una nuova tonalità nel Lied, meglio, la trovai senza cercarla, limitandomi a rispecchiare nella musica ciò che i suoi versi suscitavano in me. Le persone che conoscono la mia musica potranno confermarle come nei primi tentativi di comporre Lieder su suoi testi, più che in altre composizioni posteriori, si riscontrano le premesse del mio sviluppo futuro.301

Rispecchiare nella musica ciò che suscitano i versi: siamo qui nel pieno della “musica

d’espressione” storicamente intesa, così come si distende dal finire del Settecento agli inizi del ventesimo secolo. Seguendo Schopenhauer, abbiamo già visto come il movimento dal testo alla sua traduzione in musica spogli il testo stesso di ogni connotazione particolare, di ogni significato che non sia universalizzabile in una galleria di sentimenti puri. Ma, seguendo Schönberg, abbiamo anche rilevato la sua critica a chi, nel corso di questa delicata operazione, indulgeva a “errori di traduzione”, che lasciavano trasparire dalla musica più il poeta e il pensatore che il musicista. Se “traduzione” deve essere, sia allora totale: il sogno, che era di Schumann, di poter risalire al testo partendo esclusivamente dalla musica ad esso ispirata, si è infranto. Schönberg ha reso irreversibile il meccanismo. C’è un programma che ha dato origine a Verklärte Nacht e a Pelleas und Melisande, come pure vi è completa corrispondenza fra trama e musica nei Gurrelieder, ma non è un programma che possa servire a spiegare l’opera una volta che essa è compiuta, e tantomeno a giustificarla. In una lettera a Zemlinsky del 1918 (è la stessa in cui Schönberg dichiara di non nutrire nessun rispetto per lo spettatore), Schönberg difende il suo Pelleas und Melisande dall’accusa di prolissità, sostenendo che con i tagli non si migliora un’opera, perché “la prima ispirazione è quasi sempre quella giusta”. Ma, a proposito di una ripresa con variazione prima della fine, Schönberg precisa:

A prescindere dal fatto che essa è conseguente al dramma (cosa ache oggi non mi sembra più tanto necessaria) essa per me si fonda (ciò che per me è più importante di una giustificazione in base ad uno schema formale) sul senso della forma e dello spazio che, unico e solo, mi fu sempre di guida nella composizione e in base al quale sentii che questo gruppo era necessario. In questo bisogna credermi, e credermi ciecamente, e questo può farlo solo chi accetta che io abbia aggiunto questa parte non solo per via della ripresa, ma soprattutto perché l’ho creduto necessario dal punto di vista formale.302

II. Quello che per Schönberg è un periodo strettamente legato ai suoi anni d’apprendistato, è invece il cuore del pensiero di Wagner. Da questo punto di vista, considerare il testo come base alla quale la musica deve assoggettarsi oppure considerare il “concetto generale” del testo ben più importante delle singole parole – tutto ciò non è una contraddizione, ma il diritto e il rovescio della stessa medaglia. In entrambi i casi la musica è sempre al servizio della rappresentazione del concetto. Essa infatti non ha il compito, che Schopenhauer le voleva affidare, di tradurlo universalizzandolo. La posizione di Wagner non è affatto schopenhaueriana, né prima né dopo il 1850, poiché vi manca la fiducia nell’autosufficienza logica e concettuale della musica. Nel Wagner che invoca la redenzione della musica dal suo egoismo, cioè dalla sua autosufficienza linguistica, non vi è traccia dello Schopenhauer che considerava negativamente qualsiasi tentativo di adeguare una musica a un testo. All’origine di queste posizioni wagneriane sta piuttosto la crisi e la scomparsa di quel

301 A.S., lettera a Richard Dehmel del 13 dicembre 1912, in Lettere, cit., p. 27. 302 A.S., lettera ad Alexander von Zemlinsky del 23 marzo 1918, in op. cit, pp. 50-51. La lettera del resto continua però fugando i sospetti di formalismo: “…trovo che tu hai ragione, quando dici che il valore di quest’opera non risiede nella compiutezza formale…”.

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romanticismo che consumò il suo fallimento sognando l’impossibile conversazione in musica di tutte le arti: Weber e Liszt segnano il più deciso mutamento di rotta, ed è soprattutto a loro che Wagner può essere ricondotto. Come ha scritto Ugo Duse,

…in due scritti successivi, il primo del 1840, il secondo del 1855, A Berlioz e Berlioz e L’Aroldo in Italia si trova l’esaltazione della ricerca di nuove forme di espressione che affondino nelle unità delle arti e viene esasperata la polemica antilessinghiana per quel tanto, o poco, che di illuministico l’autore del Laoocoonte e i suoi seguaci avevano portato in terra tedesca. E non solo da Liszt muove Wagner, ma anche da Carl Maria von Weber. I limiti della musica pura, strumentale, vengono individuati nella sua incapacità di darsi una logica discorsiva afferrabile dall’ascoltatore. Se il musicista non è anche poeta è impossibile superare l’incomunicabilità della musica pura tutta intessuta di una logica interna, linguaggio criptico per specialisti (…) Una volta l’unità delle arti era garantita dalla musica pura, ora questa stessa purezza è il limite all’unità delle arti.303

In questo senso L’opera d’arte dell’avvenire, che Wagner completa nel 1859, è il punto

d’arrivo teorico di tutto il secondo romanticismo. In esso la polemica contro i pretesi valori puramente musicali s’ingigantisce nella proposta dell’alternativa radicale del Wort-Ton-Drama. Una “filosofia del linguaggio” e una “filosofia dell’armonia” costituiscono la base della formulazione wagneriana. Con una visione del linguaggio primitivo che sembra risentire di Rousseau, le vocali vengono definite melodie spontanee e le consonanti elemento intellettuale e riflesso:

Con operazione tipicamente sillogistica ne consegue che fondere la moderna lingua con la musica, ripercorrendo verso le fonti tutto un processo di formazione storica, alla ricerca delle leggi originarie della allitterazione, delle rime, della prosodia e dei ritmi, significa ritrovare l’innocenza perduta, condizione dell’espressione piena e totale.304

Con il Wort-Ton-Drama, già “previsto” da Beethoven, la musica, compiuto il suo cammino

di alienazione, si reifica (l’espressione è di Duse): “Una reificazione che è anche redenzione e punto d’approdo della teoria del linguaggio primitivo: il linguaggio redento è lingua dei suoni, la reificazione della musica è quindi lingua dei suoni”.305 La lingua dei suoni è il puro umano oltre la storia, cioè il mito. E sarà quindi il mito la base del dramma.

Dal punto di vista dell’evoluzione dell’armonia, il processo si presenta altrettanto stringente e necessario. Dopo la separazione dei generi ebbe origine l’armonia, che aveva il compito di trovare da se stessa le proprie leggi, ma tradì questo suo compito da un lato sottomettendosi all’ordine artificiale ed esterno del contrappunto e dall’altro trasformando il canto popolare in romanza d’opera.306 È solo con Haydn, Mozart e Beethoven che lo spirito popolare riesce a strappare la danza armonicizzata (la sinfonia) dalle regole del contrappunto, e già in Mozart vi è tensione verso la vocalità umana. Quanto a Beethoven, il percorso va dall’esigenza di una risposta morale (Sinfonia n. 5), al patto con la natura (Sinfonia n. 6) all’apoteosi della danza (Sinfonia n. 7). Secondo Wagner, qui Beethoven cerca di creare un mondo di danzanti, ma ciò è impossibile perché il tentativo è fatto ancora solo con i suoni. Il nocchiero aveva bisogno di un’àncora, e l’àncora è la parola. Non una parola, bensì la parola gioia, e con questa si compie la “redenzione”: “L’ultima sinfonia di Beethoven è la redenzione della musica dal suo elemento più peculiare verso l’arte universale”.307

303 Ugo Duse, La musica nel pensiero di Nietzsche e di Wagner, in Alberto Caracciolo (a cura di), Musica e filosofia, cit., p. 146. 304 Idem, p. 147. 305 Idem, p. 147-148. 306 R. Wagner, L’opera d’arte dell’avvenire, Milano, Rizzoli, 1963, p.71. 307 Idem, pp. 80-81.

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Bisogna ora chiedersi se il problema che qui emerge è quello di una più o meno generica sottomissione della musica al testo (alle parole del testo) oppore se viene chiamato in causa l’intero rapporto ontologico tra il mondo e la sua rappresentazione. Certo, proseguendo nella lettura dell’Opera d’arte dell’avvenire, il tema della parola intesa come testo appare come il vero Leitmotiv dell’argomentazione. Riprendendo la dicotomia di cui si è vista l’origine nella Visita a Beethoven, viene affermato che la musica, più delle altre arti, ha avuto bisogno dell’Unione perché essa era solo fluido elementare, incapace o meno capace di precisione e individualismo. Ma nel suo orgoglio la musica creò l’opera, punto d’incontro solo apparente, campo di battaglia di tre egoismi, dove la parola è completamente sottomessa all’arbitrio della musica.308

Dal canto loro, Gluck e Mozart non hanno potuto che rivelare il potere della musica. Ma solo quando uno spirito identico soffierà dalle tre arti potrà esserne distrutta la pretestuosa “autonomia”. Il mimo, ultima incarnazione dell’artista, per esprimersi dovrà essere poeta, e per essere poeta dovrà essere musicista (è il discorso di Liszt, caricato di maggiori ambizioni).

E non è tutto: Wagner specifica che al poeta che si domandi se la musica non finirà sempre col soffocare la parola, va risposto che nel dramma dell’avvenire la musica non farà la parte del leone: essa dovrà chinare la fronte tutte le volte che più necessario apparirà il linguaggio drammatico, e su di esso dovrà modellarsi.309 Il linguaggio drammatico però non è la parola, bensì la fusione di parola, musica e danza. Wagner è lontanissimo da ogni tipo di estetica (si pensi al Settecento) che teorizzi la supremazia assoluta del testo, appunto perché ciò sarebbe ancora separazione, autonomia, egoismo. Il vero problema sta nel nuovo potere rappresentativo che la fusione delle arti sembra promettere. Nel momento in cui il dramma si assume il compito di rappresentare il mito, quel mito che è l’essenza dell’uomo, il suo fine diventa quello di creare un analogon del mondo che viva con esso in un rapporto di reversibilità reciproca. Si può allora essere d’accordo con Cacciari quando afferma che “… non è del tutto esatto, perciò, affermare l’esistenza di una priorità ontologica della parola in Wagner”.310

Ma è errato attribuire questa inesattezza a Ugo Duse, il quale, se ricostruisce il cammino teorico wagneriano dal solo punto di vista della filosofia del linguaggio, è legittimato in ciò prima di tutto da Wagner stesso, e in secondo luogo dal fatto che l’argomentazione wagneriana mette inequivocabilmente capo al dramma. Riportando poi delle tesi esposte nel 1929 da Felix M. Gatz, Duse lascia intravedere una possibile e ancora più complessa classificazione di Wagner nella storia dell’estetica, tale per cui Wagner si collocherebbe nel campo di coloro

… che considerano la musica dal punto di vista di un’estetica tutta protesa alla conquista di una sua autonomia, pur muovendo originariamente da alcune posizioni di contenutismo funzionalista. L’oscillazione del pensiero wagneriano è continua tra una pretesa tendenza empirica e un ibrido speculativismo, e in quest’ultima area si situerebbe il punto di convergenza con La nascita della tragedia di Nietzsche. Il pensiero del quale troverebbe invece la propria espressione più compiuta nell’orientamento empirico della musica pensata come arte assolutamente autonoma, e quindi non perennemente tesa alla conquista di un’autonomia che in realtà le è invece essenziale.311

E cos’è la ricerca di una nuova autonomia (che in Wagner assume l’ambiguo volto di una

fusione) se non l’invocazione di redenzione? Non è la parola che salva la musica. Sono poesia, musica e danza che si salvano tramutandosi in dramma. Cacciari indugia in alcune confusioni terminologiche quando usa alternativamente “parola” o “musica” dove l’unico termine appropriato è dramma, anche se la coerenza del discorso è ripresa quando afferma:

308 Idem, p.106. 309 Idem, nota 82, p. 183. 310 M. Cacciari, Krisis, cit., p. 99. 311 U. Duse, art. cit., p. 149. La tesi sostenuta da Duse è che comunque punti di contatto tra Nietzsche e Wagner non ne esistono. Ma vedremo come questa affermazione dovrà essere mitigata.

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Nel “dramma” soltanto la musica ha un senso—allorchè essa finalmente conquista una dimensione temporale effettiva, diviene una storia, le sue parole designano. Qui essa rivela, mostrandolo, un mondo al quale è perfettamente coerente. Tra il suo linguaggio e tale modo non v’è differenza (…) Vi è, invece, perfetta sintesi tra parola e realtà. La musica è l’immagine speculare di un mondo: essa vive di tal rapporto semantico; a esso spetta l’effettiva priorità ontologica nella composizione wagneriana.312

Ma se è questo rapporto di perfetta adaequatio verbi ad rem il vero primum ontologico

wagneriano, la conseguenza non può essere che l’assoluta sussunzione del mondo sotto l’opera d’arte – sia anche solo per la durata finita del dramma, che diviene così l’unità di misura della messa in pratica del rapporto. L’opera d’arte si fa mito, e il mito è l’analogo del mondo. In tutto ciò, ovviamente, non vi è neppure un’oncia di Schopenhauer. Abbiamo già visto come il meccanismo dell’analogia costituisse, per Schopenhauer, soprattutto il tributo da lui pagato ai sistemi estetici precedenti. Ma, al di là di questo, la musica in Schopenhauer non si assume certo il compito di significare alcunché del mondo. Essa ne mostra la rappresentazione più alta e disincarnate, ma non

… come simbolo di una ricerca in-finita oltre il fenomeno, ma come perfetta forma. Segno in sé compiuto, assolutamente non rapportabile a un significato, la musica è, in Schopenhauer, negazione della volontà-alla-vita, o inizio del suo rovesciamento.313

Nei suoi Dialoghi sulla musica, Wilhelm Furtwängler abbozzava così una distinzione fra

dramma e tragedia: se la seconda trova la sua risoluzione nella catarsi, il primo è tale in quanto nessuno scioglimento viene a risolvere la sua tensione. Al di là della sua validità storica, un simile giudizio sarebbe perfettamente applicabile al contrasto fra la tragedia nietzschiana e il dramma wagneriano: quello che gli impedisce la risoluzione tragica, lo scioglimento nel “destino”, la catastrofe della collisione del linguaggio contro le barriere del mondo, è precisamente l’impianto simbolico del suo vocabolario espressivo. Nel suo tentativo di farsi mondo, il dramma appronta un insieme di soluzioni che garantiscano in ogni evenienza la costanza del rapporto semantico tra scena e realtà. Di fatto, la barriera non viene saltata: il dramma è sempre e soltanto rappresentazione del dramma.314 Le arti si fondono, ma la barra che divide la struttura scena/realtà non si piega. Al posto del mito che crea i simboli, qui abbiamo un insieme di simboli tesi nello sforzo di dar vita al mito.

Nel percorso così invertito il mito non può risultare che una somma di rappresentazioni postume, anch’esso quindi rappresentazione postuma del reale. Perché come dramma simbolico, il mito viene a perdere ogni valore originariamente creativo-normativo, cioè etico. Al contrario, esso si fa rimemorazione perenne, ricerca del tempo passato, seduta d’analisi forse (i Leitmotiven che erompono come ricordi rimossi), non certo cultura di vita nel senso che Nietzsche voleva indicare nella Filosofia nell’età tragica dei greci. E tutto ciò ha un preciso riscontro, quantomai illuminante, nell’interpretazione che Wagner dà, ancora nell’Opera d’arte dell’avvenire, della nascita della tragedia greca. Alla base vi sarebbe l’esuberanza, la straboccante energia creativa del popolo ateniese, il quale “agisce e poi si rallegra ripensando al suo atto”.315

Nulla di veramente tragico vi è qui: non la riflessione sul destino, non l’impatto con il dionisismo barbarico, non, infine, il senso di spaesamento dell’io, il confondersi del sé con l’altro, il poter essere altri da sé che è l’essenza, secondo Nietzsche, dell’atto dell’indossare la maschera. Nel frammento Il dramma musicale greco, Nietzsche partirà da una tesi non dissimile da quella di Wagner (l’origine del dramma in un’abbondanza d’energia, da ricercarsi forse nel risveglio delle forze naturali della primavera) ma per giungere a ben altre conclusioni: il dramma nasce quando l’uomo è fuori di sé, e ne conclude di essersi trasformato, per incantesimo, in un altro. Sentendosi proiettati in un altro essere, ci si comporta diversamente, ci si maschera, si diventa attori, ma è 312 M. Cacciari, Idem, p. 99. 313 Idem, p. 101. 314 Wilhelm Furtwängler, “III Dialogo”, in Dialoghi, sulla musica, Milano, Curci, 1950. 315 R. Wagner, L’opera d’arte dell’avvenire, cit., p. 89.

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proprio tutto ciò che riempe di stupore e paura: io posso diventare un altro, cioè l’io può cessare di essere io, e “…il terreno vacilla, viene meno la fede nell’indissolubilità e nella rigidità dell’individuo”.316 L’esuberanza di cui parla Wagner più che al cittadino greco sembra appartenere al bourgeois che va a teatro a contemplare lo spettacolo della propria classe. Questo dramma non può né scuotere né spaesare, perché è rappresentazione di ciò che è già avvenuto, finzione e non evento. Ancora Nietzsche:

Gli attuali autori drammatici muovono spesso da un falso concetto del dramma, e sono “drastici”: nelle loro opera bisogna a tutti i costi che si gridi, si faccia fracasso, si picchi, si spari, si uccida. Ma “drama” significa “evento”, factum in contrapposto a fictum. Neppure l’etimologia storica dà loro ragione. Tanto meno poi la storia del dramma: infatti i Greci evitarono proprio la rappresentazione del “drastico”.317

Chi si rallegra, dopo, della propria azione, la celebra. E per Nietzsche nient’altro che

celebrazione è per l’appunto il dramma wagneriano, non intervento, non critica, ma gigantesca celebrazione dell’esistente. Non fosse che per questo, ogni catarsi non può che essergli negata. Strumento di questa celebrazione è il simbolo, perché solo un arsenale simbolico convenientemente attrezzato può tranquillizzare lo spettatore sul fatto che sulla scena accadrà esattamente “la stessa cosa” avvenuta nella realtà, senza sorprese, senza precipitazione della materia simbolica nell’immanenza formale.

Si scoprirà allora che Wagner opera una manipolazione caratteristica del linguaggio musicale volta a “voler ravvivare a qualsiasi costo” (…) “Ravvivare” è essenziale per esprimere ogni motivo – ogni proposizione del linguaggio musicale – come un simbolo. La forma linguistica deve costantemente alludere, spingersi oltre, pro-gettare la sintesi tra sé e il suo mondo: e perciò tradirsi.318

Ancora una volta si può toccare con mano con quanta lucidità Schönberg abbia compreso

che la conseguenza immediata di questo farsi simbolo del dramma e della musica poteva metter capo solo alla simbolizzazione della tecnica. Non che il processo in sé fosse immediatamente negativo. Anzi, la simbolizzazione della tecnica è conseguenza anche della maggior importanza assunta dalla brevità dei motivi. E proprio il Wagner che fa di questa brevità una cifra stilistica ed espressiva impressiona positivamente Schönberg; ma prima di Schönberg, Nietzsche. Wagner è grande e veramente drammatico precisamente là dove non voleva esserlo, e cioè nel fallimento dell’onnicomprensività del suo simbolismo. Wagner ne è rimasto schiavo. Schiavo di tutti i significati che esso promette e non realizza. Il dramma è lo scopo e la musica solo il mezzo, ma mezzo “… per chiarire, illustrare, descrivere – e, soprattutto, ex-primere, far sentire il mondo della rappresentazione. La musica “mima” questo mondo”.319

Se il rapporto è sempre e comunque di rappresentazione, ne discende la necessità di una tecnica della rappresentazione posta al servizio del simbolismo, col risultato che, affinandosi sempre di più la tecnica stessa, sarà sempre più difficile dividere il simbolo dalla soluzione adottata per rappresentarlo. È il caso, e Schönberg lo ricorda più volte, degli accordi vaganti, delle settime diminuite e di tutti quegli accorgimenti il cui uso continuato li ha resi incapaci di comunicare ancora dei pensieri degni di espressione.

Il passaggio è dei più delicati, perché mette alla prova tanto l’estetica contenutista quanto quella formalista: qui il nesso tra mondo e linguaggio è portato al punto di rottura: un accordo 316 F. Nietzsche, Il dramma musicale greco, in Opere, vol. III, tomo II, Milano, Adelphi, 1973, p. 13. 317 F.Nietzsche, Frammento del 1876-1877, cit. da Mazzino Montinari in Note al testo di “Il Caso Wagner”, in F. Nietzsche, Scritti su Wagner, Milano, Adelphi, 1979, p. 256. 318 M. Cacciari, op. cit., p.100. 319 M. Cacciari, Idem, p. 100.

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gravato da decenni di interpretazioni simboliche non è più percepibile come pura forma, né del resto è possibile attribuirgli un contenuto che non sia immediatamente ricompreso e annullato nella infinita serie di contenuti che la sua forma ha incorporato.

Come ha scritto Adorno nella Teoria estetica, l’affermazione di Beethoven secondo cui il carattere così espressivo di molti passaggi musicali è dovuto solo all’uso accorto della settima diminuita, farebbe già giustizia di molte cose. È qui del resto che Schönberg coglie come la simbolizzazione della tecnica non sia altro che l’estremo approdo delle due facce del tardo romanticismo, cioè il primo ostacolo da superare: liberarsi dal contenuto e da quell’arsenale retorico che lo ingabbia; liberarsi dalle forme come feticizzazione formalistica di contenuti a loro volta assimilati e sedimentati e non più percepiti come tali. La soluzione sarà un taglio netto: non più Strauss ma Mahler, e, più oltre, non Dehmel ma George. Rinunciando alla garantita, perfetta identità di musica e significato, Schönberg, come vedremo analizzando il rapporto con George, rinuncia al potere denotativo dell’immagine musicale che illustra le parole del testo. Vi sono ancora, nei Lieder giovanili, corrispondenze sinestesiche (nel senso letterale di unione di percezioni di diverso tipo); non ve ne saranno più nei Georgelieder. Ciò che si è compreso è che l’unione troppo intima di simbolo e tecnica sottrae quest’ultima al suo status di libera invenzione umana, e quindi di prodotto sempre modificabile del lavoro e della fantasia. Legata da una sorta di corrispondenza biunivoca al simbolo, ogni nuova soluzione tecnica resterebbe “ingiustificata” se non potesse collegarsi a un ben preciso “significato” – il che, detto per inciso, equipara chi ha avvertito la dissonanza solo come proiezione dell’“angoscia dell’uomo contemporaneo” allo spettatore d’opera che ad ogni settima diminuita sa che deve avvertire il brivido di paura.

Schönberg, l’abbiamo già visto, non fa mai menzione dei simbolismi musicali né dell’impalcatura contenutistica del Ring o del Parsifal. Preferisce parlare di Wagner come di colui che ha anche scritto moltissimo “di argomenti specificamente musicali” (Das Verhältnis zum Text); lo interessa il rigore formale dei suoi temi, la tendenza all’unità; in breve, Wagner lo interessa come musicista puro. Come Nietzsche, Schönberg comprende la grandezza di Wagner là dove nessuno la cerca, nel suo fallimento. Ne esce quel Wagner autunnale, nascosto, epigrammatico e impressionista, più Verlaine che Baudelarie, che Nietzsche non cesserà mai di amare:

Sia detto ancora una volta: ammirevole, amabile è Wagner soltanto nell’invenzione del minimo, nell’invenzione del dettaglio – si ha dalla propria parte tutte le ragioni per proclamarlo su questo punto un maestro di prim’ordine, il nostro più grande miniaturista musicale (…) Ma prescindendo dal Wagner magnetizzatore e affrescatore, esiste anche un Wagner che mette da parte piccole, preziose cose: in nostro più grande malinconico della musica, con la sua pienezza di sguardi, di dolcezze e di parole consolatrici quali nessuno ha saputo cogliere prima di lui, maestro nelle sfumature di una mesta e languida felicità… Un lessico delle più intime parole di Wagner, soltanto brevi cose da cinque a quindici battute, tutta musica che nessuno conosce…320

E ancora: “… sì, egli è il maestro dell’assolutamente piccolo. Ma non lo vuole essere! Il suo carattere ama invece le grandi pareti, i temerari affreschi!...”.321 Anche se Nietzsche non sembra disposto a riconoscere la saldezza formale che circola tra questi frammenti da dieci a quindici battute (impressionisti, anche, ma non riducibili all’impressionismo), la vicinanza della sua lettura wagneriana con quella di Schönberg appare evidente. In questo Wagner, il peso delle teorizzazioni sembra spazzato via. Lo stesso avvilupparsi troppo facile di simboli e tecnica, quello stesso che farà dire prima a Kandinskij e poi a Adorno che la funzione del Leitmotiv era paragonabile a quella di un’etichetta di bottiglia, è come accantonato. Fallito il bersaglio, le frecce del dramma, della parola e del contenuto si sono perse, ed è rimasta la musica, proprio perché (astuzia della ragione) non era stato demandato ad essa il compito di conferire il significato più profondo del “dramma”.

320 F. Nietzsche, Il caso Wagner, in op.cit., pp. 181-182. 321 F. Nietzsche, Nietzsche contra Wagner, in op. cit., p. 214.

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E la musica di Wagner fu feconda perché seppe svilupparsi tutta intera in questa contraddizione, non solo perché vi sfuggì a tratti e miracolosamente nelle braccia dell’impressionismo. Come ha scritto U. Duse, Nietzsche

… aveva capito che le cose si contraddicono a vicenda ma non volle capire che ogni cosa in sé contraddice se stessa, e che il contraddirsi a vicenda è solo la conseguenza e non la premessa dell’essersi prima contraddetta in sé. Anche per questo dall’istrionesco dilettantismo estetico di Wagner è potuta uscire una soluzione valida al problema sinfonico; appunto per questo dal catastrofico pessimismo della decadence nietzschiana è potuta uscire proprio quella nuova musica, totalmente assoluta, senza la quale è impensabile l’arte dei giorni nostri.322

È proprio alla luce di questa generale contraddizione che va collocata la lettura wagneriana

di Schönberg. Se torniamo a Cacciari, troviamo:

La musica che deve rappresentare l’idea, fallendo, torna a farsi segno. Il dramma, esaurendosi nell’imperativo, ricostruisce, nei suoi motivi, puri ordini linguistici. Ci sono momenti in cui l’intera teatralità wagneriana si “de-costruisce” e appaiono quegli annunci della musica “assoluta” futura, che Nietzsche riconosce. Saper ascoltare questo Wagner sarà caratteristica di Mahler e Schönberg…323

Ma Mahler e Schönberg andranno oltre lo stesso Nietzsche, perché sapranno ascoltare non

solo “questo” Wagner, ma sapranno ri-ascoltare tutto Wagner, il tutto dell’uomo-Wagner che si riversa nella sua musica, ma senza farsene sedurre. È tendenzioso Nietzsche quando afferma, in lode del Wagner impressionistico: “Io ammiro Wagner ogni qualvolta egli mette in musica se stesso”.324 Perché Wagner è “se stesso” non solo quando mette da parte le sue piccole e preziose cose, ma anche quando travisa Schopenhauer, quando progetta Bayreuth e quando medita su Parsifal. Mahler e Schönberg ascolteranno anche questo Wagner, ma sapranno difendersene perché impediranno a questo tutto di pretendere la via del ritorno. Il testo, il programma, qualunque sollecitazione culturale, qualunque Weltanschauung, possono riversarsi nella musica, ma una volta che ciò si sia compiuto, il processo si fa irreversibile. Il mondo entra nell’opera d’arte, ma non per questo l’opera d’arte si fa mondo. Una volta disciolto nell’immanenza della forma esso è, per l’opera d’arte, perduto. Ne rimarrà la memoria: i canti popolari, i “suoni della natura” in Mahler: la canzone Oh du lieber Augustin inserita nello Scherzo del Quartetto n. 2 op.10, con cui Schönberg liquida i suoi conti con Vienna, prima di “sentire l’aria di un’altro pianeta”.325 Il rapporto simbolico che avrebbe dovuto garantire sia il movimento dal mondo al linguaggio che quello dal linguaggio al mondo, si è interrotto a metà: la sintesi, ogni sintesi, non può che apparire sempre più improbabile. 322 U. Duse, art. cit., pp. 156-157. Accettiamo la validità storica di questo giudizio, senza però sottoscrivere in toto il “catastrofico pessimismo” di Nietzsche, o la sua mancanza di visione della contraddittorietà delle cose in se stesse. 323 M. Cacciari, Idem, pp. 104-105. 324 F. Nietzsche, Nietzsche contra Wagner, cit., ibidem. 325 “Ich fühle Luft von anderem planeten”; primo verso di Entrückung di George, musicata nell’ultimo tempo del quartetto e primo brano di Schönberg a non portare indicazione di tonalità. La transizione Wagner-Schönberg è vista da Adorno proprio alla luce di questo quartetto nella pagina conclusiva del suo Versuch über Wagner: “Le parti febbrili nel terz’atto di Tristan contengono musica nera, scabra, dentellata, che non tanto dipinge la visione quanto la maschera. La musica, la più incantatoria di tutte le arti, impara a spezzare l’incantesimo di cui essa stessa avvolge tutte le sue figure. (…) è la ribellione della musica (…) la quale (…) di nuovo acquisisce conoscenza di sé. Con fondamento le figure che nella partitura di Tristan segnano le parole ‘der furchtbare Trank’ [il terribile filtro] sono alla soglia della Neue Musik, nella cui prima opera canonica, il Quartetto in fa diesis minore di Schönberg, appaiono le parole ‘Nimm mir die liebe, gib mir dein glück’” (Wagner Mahler, cit., p. 206.) “Toglimi l’amore, dammi la tua felicità!” è l’ultimo verso di Litanei, uno dei due testi di George musicati nel Quartetto n. 2. Si veda anche la Conclusione, nota 502.

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III. Sulla base di questi risultati, possiamo ora riprendere l’analisi delle ambivalenze wagneriane, così come si articolano intorno all’analisi della Nona Sinfonia. Due importanti scritti del 1870 trattano questo tema: Per l’esecuzione della “Nona Sinfonia” di Beethoven e Beethoven. Nel primo, Wagner spiega le ragioni per cui si è sentito in diritto di ritoccare in alcuni punti la partitura della Nona. Molte di queste correzioni hanno una giustificazione tecnica (il progresso della tecnica strumentale da Beethoven in poi), ma la motivazione delle variazioni apportate all’inizio del quarto tempo non è solo tecnica:

Si tratta della paurosa fanfara degli strumenti a fiato all’inizio dell’ultimo tempo: lo sfogo caotico di una furiosa disperazione si riversa in un grido e in tumulto che ognuno capisce immediatamente quando segue il passo sull’andamento dei legni in un tempo velocissimo, mentre noterà subito che questa travolgente sequenza di suoni non ha, per così dire, un ritmo.326

Negli stessi anni, Nietzsche scriveva appunto che nella musica il suono è Dioniso e il ritmo è

Apollo.327 È il ritmo ciò che introduce il principium individuationis nella “forza sconvolgente del suono” e, sembra aggiungere Wagner, il caos è là dove il ritmo viene a mancare.

Io però ho trovato che neanche il ritmo più ardito riusciva a chiarire questo passo, né l’andamento melodico dei fiati all’unisono: e nemmeno lo liberava dal vincolo della battuta ritmica che deve sembrare eliminata. Il guaio stava anche qui nella lacunosa elaborazione delle trombe, della quale però, secondo le intenzioni del Maestro, non si può fare a meno (…) Nella mia disperazione corrispondente al carattere di questo passo terribile ricorsi alla decisione di far eseguire interamente dalle trombe le battute dei legni (…) Finalmente si era fatta luce: la terribile fanfara ci assalì col suo ritmo caotico e tutti comprendemmo perché si dovesse finalmente arrivare alla “parola”.328

Se Nietzsche distingue un principio d’ordine e un fattore di caos entrambi interni alla

musica, Wagner sposta questa suddivisione nel rapporto musica-parola, affidando alla seconda il compito di fare ordine, di esorcizzare il caos. Ancora una volta, la musica è incapace di salvarsi con i suoi mezzi, incapace di razionalità propria. La parola, dal canto suo, è all’origine del canto, e il canto è base della melodia. Sarà nella melodia, dunque, che la sintesi si compirà.

Ora, secondo me questa chiarezza consiste soltanto nel far emergere nettamente la melodia. In altra occasione ho già fatto notare come i musicisti francesi, a preferenza dei tedeschi, siano riusciti a scoprire il segreto di questa difficile esecuzione; essi infatti, appartenendo alla scuola italiana, intesero la melodia, il canto, come unica essenza di ogni musica.329

Wagner perciò non riesce assolutamente a comprendere Beethoven là dove egli, mille miglia

più lontano dei problemi dell’espressività romantica, indaga le travature della struttura musicale. A proposito di un passo del primo tempo della Nona, afferma che, davanti all’imbarazzo di dover modificare le note vere e proprie scritte da Beethoven

… persino Liszt desistette questa volta dall’ardito tentativo e lasciò vivere il passo come quella mostruosità melodica che è per chiunque, nelle nostre esecuzioni orchestrali della sinfonia, avverte qui per ben otto battute una lacuna melodica segnalata dall’assoluta mancanza di chiarezza.330

Né questo è sufficiente a fermare Wagner, che dopo aver modificato il passo, commenta:

326 R. Wagner, Per l’esecuzione della “Nona Sinfonia” di Beethoven, in Ricordi…, cit., p. 208. 327 F. Nietzsche, La visione dionisiaca del mondo, cit., p.53. 328 R. Wagner, idem, pp. 208-210. 329 Idem, p. 202. 330 Idem, p. 217.

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Se consideriamo quanto sia importante in ogni discorso musicale che la melodia, magari presentata dall’arte del compositore attraverso le più piccole frazioni, ci tenga avvinti senza posa, e che la correttezza di questo linguaggio melodico non debba essere da meno della correttezza logica del pensiero concettuale che si esprime con la parola, per non confondersi con quella imprecisione che nasce da un incomprensibile periodo parlato, dobbiamo riconoscere che nulla merita la nostra fatica quanto il tentativo di eliminare l’oscurità di un passo, di una battuta, magari di una nota nel discorso musicale rivelatoci da un genio come Beethoven.331

Questa esigenza di rendere tutto chiaro va di pari passo con quella di rendere tutto

simbolico. Ogni zona d’ombra va accuratamente delimitata ed esorcizzata, poiché nel suo rifiutarsi di pervenire a una armoniosa sintesi rende evidente l’irriducibilità della musica al tutto-significato. Questo, e non la melodia, è il vero problema. Quanto a Nietzsche, nella Nascita della tragedia vedrà anch’egli la melodia come forma originaria della musica, in quanto base del canto popolare che per primo, nella figura di Archiloco, unì apollineo e dionisiaco, ma in seguito, quando nella Visone dionisiaca del mondo indagherà le contraddizioni della musica in se stessa, riconoscerà il puramente musicale solo nell’armonia. Ma solo con Schönberg il rovesciamento si compirà totalmente:

La melodia è la forma di espressione più primitiva della musica. Il suo scopo consiste nel rappresentare un pensiero musicale mediante molte ripetizioni (lavoro tematico) o con uno sviluppo quanto più possibile lento (variazione), in modo tale che perfino chi è tardo nel comprendere possa seguirlo. Essa tratta l’ascoltatore come l’adulto tratta il bambino o l’intelligente l’idiota. Per l’intelletto veloce questa è una pretesa offensiva; ma per i nostri adulti la melodia costituisce, appunto, l’essenza della musica.332

La convinzione che solo nella melodia il pensiero musicale possa manifestarsi aveva portato

Wagner a specificare, nello scritto Musica dell’avvenire del 1860, che la melodia deve essere costruita poeticamente, cioè essere già contenuta in potenza nel testo. Siccome “l’unica forma della musica è la melodia”333 e la forma, cioè l’opposto del caos, può essere conferita alla musica solo dal suo incontro con la parola, ecco che la forma musicale deve essere “già preparata interamente nella poesia”,334 e

… nell’esecuzione musicale del Tristano non vi è più nessuna ripetizione di parole, ma tutta l’estensione della melodia è già predisposta nel tessuto delle parole e dei versi, la melodia è già costruita “poeticamente”.335

Eppure questo scritto inizia il nucleo delle sue argomentazioni riconoscendo la validità del

discorso lessinghiano sui limiti delle arti, ed è Wagner a scrivere che

… mi parve di scoprire che ogni ramo dell’arte si evolve verso un’estensione delle proprie possibilità la quale finisce col portarla al limite di esso, e non può oltrepassare questo limite senza correre il rischio di perdersi nell’incomprensibile, nel fantastico e addirittura nell’assurdo.336

A maggior ragione però, Wagner cercherà a partire da qui la motivazione della fusione delle

arti:

331 Idem, p. 218. Le correzioni introdotte da Wagner sono entrate a far parte del costume concertistico e vengono utilizzate ancora oggi. 332 A.S., Aforismi…, in L. Rognoni, La scuola musicale di Vienna, cit., p. 381. 333 R. Wagner, “Musica dell’avvenire”, in Ricordi…, cit., p. 383. 334 Idem, p. 382. 335 Idem, p. 381. 336 Idem, p. 358.

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A questo punto mi parve di notare chiaramente il desiderio di ogni arte di porgere la mano alle altri affini (…) Credetti infine di poter scoprire queste tendenze, con la massima chiarezza, nel rapporto fra la poesia e la musica.337

Questa non è solo la dimostrazione, peraltro superflua, che il cuore della filosofia

wagneriana sta nel rapporto parola-musica. Il problema che qui Wagner pone va al di là della sua personale soluzione, e coinvolge tutta la dimensione storica del “potere del linguaggio” così come giungerà, attraverso Nietzsche, fino a Wittgenstein e oltre. Wagner è l’esponente più sicuro e agguerrito di una cultura orgogliosa, tardo-romantica e positivista insieme, affascinata in ugual misura dal mito e dal progresso tecnologico, e che ha come programma non tanto la fusione di poesia e musica quanto la costruzione di un sistema teoretico autoregolato, dove la traducibilità o la sostituibilità dei linguaggi viene a garantire della cessazione delle contraddizioni esterne al sistema. Ciò che non si può dire non si può nemmeno pre-dire, e l’indicibile lascerebbe aperto il varco all’imprevedibile. Ma in un sistema dove mito e tecnica si compenetrano, dove il teatro è la celebrazione della vita sociale, dove il pessimismo ha l’esatto compito di mostrare che non vi è altro ordine possibile, dove l’ascesi dalla vita è solo il risultato della sua totale simbolizzazione, non vi può essere posto per l’indicibile.

In verità la grandezza di un poeta si valuta specialmente da ciò che egli tace per far dire a noi, pure tacendo, l’indicibile; il musicista invece fa risonare queste cose taciute, e la forma sicura del suo squillante silenzio è la melodia infinita.338

Secondo Mahler la musica dice ciò che le parole non possono dire. Ma si tratta appunto di

altro rispetto a ciò che le parole possono dire. Wittgenstein dirà che il suo Tractatus si componeva di due parti: la prima scritta e la seconda non scritta. Ma si tratta appunto di una parte che non c’è, e non potrebbe esssere espressa né con la musica né con il teatro. Musicando Dehmel, Schönberg cerca ancora di ricreare con la musica ciò che il testo gli ha ispirato. Musicando George non può più farsi suggerire dal testo la struttura musicale. Deve difendersi dal testo, lottare con esso. Nell’Introduzione ai Quattro quartetti, scritta nel 1949, si può leggere:

Litanei è strutturata nella forma di Tema con Variazioni (…) La tecnica wagneriana del Leitmotiv ci ha insegnato come variare questi motivi e altre frasi al fine di esprimere ogni mutamento di atmosfera e di carattere di una poesia.339

Ma non vi è remissione al wagnerismo, perché Schönberg continua così: “Garantite così l’unità, la logica tematiche, il prodotto compiuto non mancherà di soddisfare le esigenze di un formalista”.340 Ma sopratutto aggiunge:

Le variazioni, grazie al ripresentarsi di un’unità strutturale, presentano di questi vantaggi. Ma devo confessare che fu un’altra ragione a suggerirmi questa forma. Temevo che la grande emotività drammatica della poesia potesse indurmi a superare il limite di quello che dovrebbe essere ammesso nella musica da camera: e pensai che la rigorosa elaborazione richiesta dalla variazione mi evitasse di diventare troppo drammatico.341

337 Ibidem. 338 Idem, p. 388. 339 A.S., Introduzione ai quattro quartetti per archi (1949), in Analisi…, cit., p. 257. 340 Ibidem. La critica storica all’espressività e alle sue forme in Schönberg non ha nulla a che fare comunque con la negazione dell’espressione: “Ciò che fa vera musica è unicamente ed esclusivamente la capacità inventiva, l’immaginazione e l’ispirazione di una mente creatrice se e quando un creatore ‘ha qualcosa da esprimere’. Nondimeno uno studente non dovrebbe mai scrivere semplici note vuote. Sempre egli deve cercare di ‘esprimere qualcosa’” (A.S., Modelli per principianti di composizione, Milano, Curci, 1951, compendio, p. 4). 341 A.S., Introduzione…, cit., ibidem.

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Il vero motivo per cui lo spazio teorico che si stende da Wagner a Schönberg e che ha come

asse portante il rapporto testo-musica è fondamentale, è che esso offre lo specimen di un rivolgimento culturale che ribalta i fondamenti della metafisica del linguaggio, così come ci è stata consegnata dalla metafisica occidentale. Alla domanda “che cosa si può dire?” Wagner risponde “tutto”, nel linguaggio delle parole o dei suoni poco importa, perché il “ciò che si può dire”, il Concetto, l’Idea, sono in realtà esterni al linguaggio, il quale non ne è che la più o meno adeguata espressione. Se poi l’Idea ha un suo linguaggio, che poi è Logos, quindi Sistema di discorsività logiche, quindi filosofia, gli altri linguaggi ne risultano automaticamente garantiti in quanto traduzioni di questo linguaggio privilegiato. Ma dove Schönberg parla dei ‘limiti’ della musica da camera sta parlando dei limiti reciproci, mai combacianti senza residui, che separano poesia e musica. E che questo limite sia riconosciuto come invalicabile, che due discorsività possano liberamente incontrarsi restando autonome, vuol dire che è venuta a mancare la preminenza metafisica del linguaggio dell’Idea, perché la rappresentazione dell’Idea è ormai un processo che prende forma e struttura all’interno del singolo linguaggio, del singolo sistema discorsivo.

Da parte mia considero la totalità del pezzo come l’idea: l’idea che il suo creatore intendeva presentare. Ma, in mancanza di termini migliori, mi vedo costretto a definire il termine idea nel modo seguente (…) Il metodo con cui viene ristabilito un equilibrio è, secondo me, la vera idea della composizione.342

Il fallimento del Gesamtkunstwerk è così la spia del crollo, ben più vasto e tragico,

dell’unificazione dei linguaggi sotto il controllo del Logos. Questo è il senso profondo del riferimento a Kraus che Schönberg fa nel Verhältnis zum Text, dove dice che è “… quando Kraus chiama la lingua “madre del pensiero” che ci si trova di fronte a un sintomo di riconoscimento della vera natura dell’arte”.343

Appunto perché è Kraus che, con la maggior chiarezza possibile, insiste sul fatto che non è il linguaggio a rivestire il pensiero, bensì è il pensiero a crescere dentro il linguaggio. Sono i linguaggi ad avere pensiero, a lasciar dimorare presso di sé le molteplici forme di discorsività. Ciò che è possibile tra questi linguaggi non è la sintesi, ma l’incontro fra le autonomie. Essere disponibili alle più diverse modalità d’incontro senza occupare il campo altrui è la proposta schönberghiana. In un momento in cui la scelta di queste modalità d’incontro si fa terribilmente seria, perché ne va dell’intera rifondazione filosofica del linguaggio, affidarsi a un testo che sia già disposto all’incontro con la musica, già disposto a farsi musicare, che suggerisca la stessa prosodia musicale come il Tristano o più semplicemente suggerisca il concetto generale, il campo di sentimenti e impressioni intorno al quale si articolerà la messa in musica, come in Dehmel, non è più possibile.

La scelta di George, come poi lo sarà la scelta di Trakl per Webern, è allora una dichiarazione di guerra, l’apertura di un conflitto fra un testo chiuso nella sua forma e una musica che non intende esprimerlo o interpretarlo, ma metterlo a nudo, criticarlo. Non è più questione di dramma, qui: di una cantante la cui interpretazione dei Georgelieder non lo aveva del tutto soddisfatto, Schönberg scrisse che “… cantava i Lieder più vecchi, ed in particolare i George-Lieder con troppa drammaticità, facendo risaltare tutto dalla parola, invece che dalla musica”.344

Nel dramma wagneriano non vi è catarsi perché il suo vero soggetto, cioè il rapporto semantico che lega rappresentazione e mondo, è già risolto a priori, non si mette in discussione, non entra in conflitto nel corso dell’opera. È per tutti questi motivi che la battaglia di Nietzsche contro Wagner si delimita nel campo di due opposte filosofie del linguaggio. Non è una questione né di 342 A.S., Musica nuova, musica fuori moda, stile e idea, in Stile e idea, cit., p. 54. 343 A.S., Il rapporto col testo, cit., p. 397. Si confronti anche il seguente passo: “‘La lingua madre del pensiero’, dice Karl Kraus. È sbagliato come dire che la gallina esisteva prima dell’uovo, ed è altrettanto esatto. Perché così stanno le cose nella vera opera d’arte: tutto sembra originario perché tutto è nato contemporaneamente. Il sentimento è già forma, il pensiero già parola” (A.S., Problemi dell’insegnamento dell’arte, in Analisi…, cit., pp.16-17). 344 A.S., cit. in Arnold Schönberg. Catalogo della mostra, cit., p.82 (ora anche in A.S., Berliner Tagebuch, cit.).

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estetica né di Anticristo contrapposto al Graal: perderebbe altrimenti di senso l’affermazione di Heidegger secondo cui la lotta tra Nietzsche e Wagner è di capitale importanza per la storia dell’uomo moderno tout court: lottare contro Wagner, contro la pretesa che non esista l’indicibile, è una lotta contro Dio, nel senso in cui Dio e la grammatica sono inestricabilmente uniti, e non vi è morte dell’uno senza morte dell’altra. Su questo terreno Nietzsche aprirà il fuoco, e con la coscienza di essere stato vicinissimo a cadere nel tranello. Il Richard Wagner a Bayreuth è una singolarissima apologia perché è estremamente facile, mutandone l’angolo di lettura, trasformare i suoi giudizi positivi in altrettante condanne – cosa che Nietzsche farà poi nel Caso Wagner: appunto una Quarta Inattuale con segno rovesciato. E il rovesciamento si attua sul terreno del linguaggio. Così si legge nel Wagner a Bayreuth:

A lui si è innanzitutto aperta la conoscenza di una situazione critica, vasta quanto la civiltà che congiunge i popoli: dappertutto il linguaggio è malato (…) il linguaggio ha dovuto percorrere tutta la scala delle sue possibilità per abbracciare il regno del pensiero, cioè l’esatto opposto del sentimento, allontanandosi in tal modo proprio dalle forti manifestazioni del sentimento, che esso alle origini poteva esprimere in tutta la loro schiettezza (…) Così l’umanità aggiunge a tutti i suoi dolori anche la sofferenza della convenzione, ossia del concordare in parole ed azioni ma non nel sentimento.345

E alcune pagine più avanti:

Ma quando gli eroi e gli dei di drammi mitici, come quelli che Wagner compone, devono farsi chiari anche in parole, nessun pericolo è più vicino di quello che questo linguaggio di parole risvegli in noi l’uomo teoretico, trasformandoci in tal modo in un’altra sfera non mitica, sicchè noi non finiamo, per mezzo della parola, col capire magari più chiaramente cò che si è svolto davanti a noi, bensì col non capir più niente. Perciò Wagner fece arretrare il linguaggio a uno stadio primitivo, in cui quasi ancora non pensa per idee, in cui è ancora esso stesso poesia, immagine e sentimento…346

Ma la conclusione del Caso Wagner dirà che, assumendo come inevitabile questa malattia,

Wagner è divenuto il “grande malato”: “È Wagner, in generale, un uomo? Non è piuttosto una malattia? Egli ammala tutto ciò che tocca – egli ha ammalato la musica”.347

Cioè ha inteso la convenzionalità, il limite del linguaggio come mancanza di potere, stato di debolezza eterna invece che ricchezza specifica del linguaggio stesso: dominio, non redenzione, terra promessa di ciò che è muto. Tornando al Wagner a Bayreuth:

Di Wagner musicista si potrebbe dire in generale che ha dato un linguaggio a tutto ciò che nella natura non aveva ancora voluto parlare: egli non crede che ci debba essere qualcosa di muto (…) Se il filosofo dice che nella natura animata e inanimata c’è una volontà che è assetata di esistenza, il musicista aggiunge: e questa volontà vuole, in tutti i gradi, un’esistenza sonora.348

E nel Caso Wagner troveremo:

Wagner non era musicista d’istinto. Lo dimostrò sacrificando ogni normatività e, per esprimerci con maggior precisione, ogni stile nella musica, per fare di essa ciò di cui aveva bisogno, una retorica teatrale, uno strumento dell’espressione, del potenziamento mimico, della suggestione, dell’elemento psicologico-pittoresco (…) – egli ha aumentato smisuratamente la possibilità di linguaggio della musica –: è il Victor Hugo della musica in quanto linguaggio. Sempre nell’ipotesi che si consideri

345 F. Nietzsche, Richard Wagner a Bayreuth, in Scritti su Wagner, cit., pp.103-104. I problemi che solleva questa interpretazione del rapporto linguaggio-sentimento saranno ripresi nei paragrafi sulla musica di Umano, troppo umano, ma con diversa prospettiva. 346 Idem, p. 136. 347 F. Nietzsche, Il caso Wagner, in op. cit., p. 174. 348 F. Nietzsche, Richard Wagner a Bayreuth, cit., p. 141.

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principalmente valido il fatto che, in determinati casi, la musica possa essere non musica, bensì linguaggio, strumento, ancilla dramaturgica.349

IV. Se tutto ciò è condivisibile, come può risultare valida o stimolante l’ipotesi di chi, come il già ricordato Felix Gatz, sostiene che se l’estetica musicale di Nietzsche parte dalla radicale autonomia della musica quella di Wagner cerca di raggiungere questa autonomia, e un punto di convergenza è perciò possibile? Per rispondere bisogna affrontare il Beethoven del 1870, l’ultima della summae teoriche di Wagner, dove l’ambizione sta nel riprendere Schopenhauer innestandovi una continuazione che riapre problemi già apparentemente risolti dallo stesso Wagner.

Nel Beethoven, con una intuizione che sembra, ma non è—e lo vedremo—pre-espressionista, Wagner afferma che all’origine dell’arte, come elemento fondamentale della comunicazione uditiva, vi è il grido e, per essere più precisi, il grido col quale ci si risveglia dal sogno, cioè la travagliata volontà che, non più rivolta verso l’interno dell’uomo, erompe all’esterno.

Ma come può questo grido essere arte, se l’arte nasce solo nel distacco dalla volontà, nel rifiuto della volontà-di-vita? In realtà questo nella musica può essere possibile, ma solo nella musica, perché è lì che “l’oggetto del suono percepito coincide direttamente col soggetto del suono stesso”. Per cui il grido, il lamento, la gioia, possono essere accolti senza alcuna mediazione concettuale. Non c’è distanza tra suono ed espressione; interno ed esterno sono uniti, è questo il “caso” unico della musica. Il musicista non deve prima contemplare e poi creare, perché la sua musica è la presentazione dell’essenza del mondo. È per questo che, per riprendere l’espressione schopenhaueriana che anche lo Schönberg del Verhältnis accetterà, il musicista esprime la sua sapienza in un linguaggio che la sua ragione non intende. La musica fa cadere in uno stato magico (in una trance…) e il fatto che Beethoven fosse sordo e musicista è la dimostrazione che il musicista è un veggente, è il mondo fattosi uomo.

La sorpresa che dà questo Wagner, più schopenhaueriano che in tutti gli altri suoi scritti, è destinata ad aumentare man mano che l’analisi della Nona Sinfonia viene ripresa da un punto di vista che per Wagner è alquanto inedito. Ma fermiamoci per ora sul concetto di grido quale origine delle arti (e senza dimenticare il cri animal di Diderot): nel 1895 Edvard Munch apporrà a una litografia sul tema L’urlo la didascalia “Sento il grido della natura!”350 Ma la natura, nella storia dell’espressionismo, avrà sempre due facce: panica e materna, dionisiaca e pastorale. Per questo l’Urschrei degli espressionisti potrà valere sia come grido d’allarme del soggetto a cui la civiltà ha estorto l’inconfessabile (e siamo all’Erwartung, ma allora la natura si ritrae nell’inconscio: fuori, non c’è più natura: solo le deformate geometrie dei giardini dove vaga la donna e dove di lì a poco passerà Pierrot; ma l’inconscio si svela ben presto come natura, e il grido dell’Erwartung è il grido senza di essa), oppure può apparire come purezza aurorale, come per il Kokoschka degli stessi anni.351 Oppure, questo grido andrà inteso come l’ultima parola della natura, poiché di lì a poco l’espressionismo si rovescerà nell’arte della discrepanza assoluta tra l’io e la realtà (né questo è necessariamente soggettivismo, anche qui vanno ricercati i semi della Neue Sachlichkeit, appunto perché ogni formulazione che in qualche modo si proponga di avere per oggetto e l’uomo e la natura, dopo Wagner e dopo Nietzsche, non può che risultare ambivalente). E proprio il grido di cui parla Wagner è massimamente ambivalente, perché appare contemporaneamente come eruzione della volontà, perciò indipendentemente dalla coscienza del soggetto, e come individuazione, specificazione, quasi una razionalizzazione di quella volontà. Per Schopenhauer, come anche per

349 F. Nietzsche, Il caso Wagner, cit., p.183. 350 Cit. in Mario De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Milano, Feltrinelli, 1966, p.44. 351 L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, cit., vol. III, Seconda Parte, tomo II, pp. 1206 e sgg.

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Schönberg, il compositore si esprime “… così come una sonnambula, nel suo sonno magnetico, dà spiegazioni intorno a cose delle quali, da sveglia, non ha idea alcuna”.352

Nessun risveglio è qui previsto, che sintetizzi in un grido in quale direzione si è convogliata la “volontà”. Ma Wagner, per spiegare lo scandalo del salto di Beethoven nel regno della parola, afferma che

… in realtà questo inaudito procedimento artistico somiglia al repentino risveglio dal sogno; noi sentiamo però ad un tempo il suo benefico effetto sull’uomo estremamente spaurito dal sogno stesso…353

Dunque questo brusco risveglio, questo grido, è precisamente il gettarsi tra le braccia della

parola, cioè il principium individuationis per eccelenza del dramma. La conclusione sembra essere solo una: non più Schopenhauer, non più nemmeno natura. Il passaggio da urlo a geometria, per usare la formula di Mittner, si brucia così nell’istante della sua comparsa. Ma Wagner aggiunge dell’altro. Il fatto di aver individuato nella musica e solo nella musica – per la specificità del suo rapporto tra interno ed esterno, tra formulazione ed espressione – la capacità di racchiudere l’idea del mondo gli fa affermare che nella Nona Beethoven non esce mai dal “cerchio della musica”:

In verità all’entrata della voce umana non siamo presi dal significato della parola, ma dal carattere di questa voce. Né ci occupano i pensieri espressi nei versi di Schiller, bensì il suono familiare del canto corale al quale ci sentiamo invitati a partecipare (…) È evidente che le parole di Schiller sono aggiunte in qualche modo e neanche tanto abilmente alla melodia principale: questa melodia, infatti, si è svolta in tutta la sua ampiezza da sola, eseguita dai soli strumenti…354

È qui, per un breve istante, che la convergenza con Nietzsche si fa palese? È qui che

ritroviamo le posizioni espresse in Una visita a Beethoven, arricchite di uno sguardo che ci rimanda direttamente all’irruzione della voce così come l’avevamo incontrata nei Lieder di Schubert? Verificare il quesito non serve solo a chiudere il rapporto Nietzsche-Wagner, ma anche a collegarsi con Schönberg con meno mediazioni di quanto non sia stato finora necessario.

352 A. Schopenhauer, cit. da A.S. in Il rapporto col testo, cit., p.394. 353 R.Wagner, Beethoven, in Ricordi…, cit., p.266. Anche Schönberg, nello scritto che presenta i principi della composizione con dodici note, parla di risveglio dal sogno, ma lo intende come la presa di coscienza nei confronti delle leggi formali che agivano anche durante il sogno: “Un tempo l’uso dell’armonia fondamentale si basava, in via teorica, sulla scoperta degli effetti determinati dalle progressioni ‘naturali’. In pratica questo uso si tradusse in un inconsapevole senso della forma che dava al vero compositore una sicurezza quasi sonnambolica (…) Ma il bisogno di un consapevole controllo dei nuovi mezzi e delle nuove forme sorgerà in ogni artista, che dunque vorrà coscientemente conoscere le leggi e le regole che governano le forme da lui stesso concepite ‘come in sogno’” (A.S., Composizione con dodici note, in Stile e idea, cit., p.109). Ancora una volta, è l’istinto che si fa scienza. Alla luce di quanto si è detto sulla “serie nascosta” che governa la struttura dei Georgelieder questa affermazione riceve l’importanza che merita. 354 Idem, p. 267.

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Capitolo VI

Il nodo Wagner-Hanslick-Nietzsche e l’affacciarsi della sua risoluzione in Schönberg

I. Come si è già detto, il Beethoven di Wagner è del 1870. Nello stesso periodo, i temi del sogno e del grido compaiono più volte negli scritti di Nietzsche. Nietzsche non si chiede quale sia l’origine della musica, ma perché la musica ha avuto origine. A quale bisogno essa è venuta incontro, qual è l’esigenza che ha cercato di soddisfare? L’uomo si identifica con l’energia della natura nell’eccitazione dionisiaca, ma contemporaneamente svela a se stesso la debolezza di volontà del suo principium individuationis. Per questo la lacerazione dionisiaca è ambivalente, gioiosa e tragica insieme, esuberanza di energia e insieme ammissione di impotenza (mentre Wagner si limita all’esuberanza del popolo che celebra il suo agito). Ma quando avviene che il piacere e il dolore si trasformino in musica? “Soprattutto nei supremi stati di piacere e di dolore della volontà, quando la volontà tripudia oppure è mortalmente atterrita, in breve nell’ebbrezza del sentimento, nel grido”.355

Con vicinanza maggiore a quello che sarà l’espressionismo, qui Nietzsche dice a chiare lettere che il grido è la forma primordiale dell’arte, ma non, come sosteneva Wagner, in quanto “repentino risveglio dal sogno”. Anche Nietzsche si pone il problema di chiarire in che senso l’arte, che è tale solo se distaccata dalla volontà, possa nascere proprio dalla volontà. L’artista puramente “soggettivo” non può esistere, “… e in ogni forma e grado dell’arte pretendiamo soprattutto e innanzitutto superamento del soggettivo, liberazione dall’“io” e assenza di ogni volontà e capriccio individuale...”.356

La spiegazione proposta di questa identità impossibile parte da una testimonianza di Schiller, il quale sosteneva che prima di formulare chiaramente un’idea poetica ne aveva davanti a sé una forma vaga, senza oggetto. Ciò che si formava per prima cosa era una “disposizione d’animo musicale”. Solo poi sarebbe venuta la poesia. L’unione greca di lirico e musicista può essere compresa solo partendo da qui: l’artista dionisiaco diviene una cosa sola con il dolore e la contraddizione, con l’uno originario, “e genera l’esemplare di questo uno originario come musica”.357 Ma se il dionisiaco è l’ebbrezza, quell’ebbrezza del sentimento in cui ci si fa uno con la contraddizione, e da cui nasce il grido, l’apollineo è invece il sogno, culla della parvenza, della fantasia e della parola divinante. Così, all’artista dionisiaco che ha creato la musica, “… in seguito, sotto l’influsso apollineo del sogno, questa musica gli ridiventa visibile come in un’immagine di sogno simbolica”.358

La soggettività dell’artista, continua Nietzsche, si è già perduta nel processo dionisiaco. Il sogno, che prende posto in questa perdita della soggettività, ha la funzione di dare una figura sensibile alla contraddizione originaria. Il ragionamento di Wagner è così rovesciato: non è la volontà prigioniera nel sogno che si esprime col grido del risveglio, ma è il grido, confuso nella contraddizione delle cose, che cerca le immagini del sogno per darsi una parvenza, per ristabilire l’equilibrio tra Dioniso e Apollo, e questa parvenza sarà precisamente il testo poetico:

355 F. Nietzsche, La visione dionisiaca del mondo, in Opere, cit., p. 74. 356 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 40. 357 Idem, p.41. 358 Ibidem.

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… il canto popolare rappresenta per noi prima di ogni altra cosa uno specchio musicale del mondo, una melodia primordiale, che cerca poi per sé un’apparenza di sogno parallela e la esprime nella poesia (…) La melodia genera da sé la poesia, ossia la genera sempre di nuovo; nient’altro vuol dire per noi la forma strofica del canto popolare…359

Siamo già all’opposto del Wagner di Opera e dramma e di Musica dell’avvenire, ma

altrettanto facilmente si può vedere come questo rapporto tra grido e sogno racchiuda in sé molte delle ambivalenze espressioniste: non solo la complementarietà dell’angoscia e della purezza è qui preannunciata, ma anche il successivo rovesciamento dell’urlo in geometria. Né del resto è difficile scorgere come la genealogia dell’“allontanamento dall’espressione” che Schönberg rivendicherà a partire dal Verhältnis zum Text trovi proprio qui la sua radice. Nessun “grido” sveglia il musicista che parla dal suo “sonno magnetico”, e la sua parola è precisamente la divinazione apollinea che trova la forza di parlare dal fondo della condizione dionisiaca che è coscienza dell’irreparabile separazione, della contraddizione originaria. E non ci si faccia ingannare dalle metafore ispirate che aleggiano intorno a queste formulazioni. Il senso ne resta assolutamente gnoseologico-teoretico: “L’“io” del lirico risuona dunque dall’abisso dell’essere: la sua “soggettività” nel senso dell’estetica moderna è un’immaginazione”.360 E non si può fare a meno di pensare alla trance espressionista quando si legge (contro Schopenhauer, per il quale la lirica è fusione di soggettività e oggettività), che

… in quanto però il soggetto è artista, esso è già liberato dalla sua volontà individuale ed è diventato per così dire un medium, attraverso il quale l’unico soggetto che veramente è celebra la sua liberazione nell’illusione.361

Durante il suo servizio militare, a un ufficiale che gli chiedeva se lui fosse il compositore di

cui si parlava, Schönberg rispose: “Nessuno voleva farlo, allora mi sono offerto io”.362 Una convinzione quasi positivista dell’ineluttabilità del progresso musicale si mescola qui al senso tutto schönberghiano dell’impotenza del puro intelletto a controllare il fenomeno del fare artistico. Sono poi numerose le affermazioni in cui Schönberg rimette la sua musica non alla sua volontà ma agli ordini ricevuti dal “Comandante Supremo”. Non si vuol fare violenza al pensiero schönberghiano, che a partire dal 1912 è anche mitico e orientato verso quell’ebraismo che sarà abbracciato vent’anni dopo: si vuole solo far notare che molte delle sollecitazioni culturali che accompagnano Schönberg su quella strada erano ancora parecchio legate alla genealogia dell’espressionismo. Se Schönberg accetta che l’artista sia medium lo fa dal punto di vista del suo misticismo, ma la sua soluzione personale si sovrappone a un’esigenza filosofica che affonda le sue radici ancora una volta in Nietzsche. E il senso originario di questa svolta è ancora tutta interna alla critica della metafisica del linguaggio: è ancora la lotta di Nietzsche contro Wagner che è qui in gioco, la lotta contro un linguaggio che vuol essere espressivo a priori, grido a priori, minaccia e implorazione in sé. Wagner, l’eclettico, il senza stile per eccellenza, è ossessionato proprio dall’eclettismo e dalla mancanza di stile: non ammette che il linguaggio non si inventa, che l’artista sia medium di parole che non sono sue, e si scaglia contro gli “ebrei della musica” che hanno un loro Dio ma non hanno un proprio linguaggio e parlano qualunque lingua come stranieri363 (e quale straordinaria anticipazione, sia pure in negativo, dell’orgoglio tutto ebreo di Schönberg che rivendica al suo

359 Idem, p.46. 360 F. Nietzsche, idem, p.41. Si sostituiscono a “soggettività” le categorie dell’espressionismo e si avrà la chiave per proseguire sulla strada del superamento dell’espressione. 361 Idem, pp. 44-45. 362 L’aneddoto è narrato sia da Egon Wellesz che da Hanns Eisler, con lievi differenze nella risposta, ed è ripreso da tutti i biografi di Schönberg. 363 Cfr. L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, cit., vol. III, parte prima, tomo II, pp. 669 e sgg. Della Stillosigkeit di Wagner e di come Nietzsche la interpreta (nel Caso Wagner) parla anche Adorno in Klassik, Romantik, Neue Musik, in Nervenpunkte der Neuen Musik, (Ausgewählt aus Klangfiguren), Reinbeck bei Hamburg, Rowohlt, 1969, p. 24).

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popolo, nel Moses und Aron, l’orgoglio di rifiutare un linguaggio privilegiato che permetta di dire il Dio!).364

È tutto l’affacciarsi del misticismo in Schönberg che, alla luce di queste ascendenze culturali, va riconsiderato. Esso cresce intorno al 1912, quando il ciclo delle grandi opere espressioniste sta per concludersi. In via di esaurimento il rapporto con “l’espressione”, Schönberg è alla ricerca di un “nuovo spazio” nel quale situare il potere del linguaggio. Lo troverà nel cielo di Swedenborg, dove “non vi è né sopra né sotto, né destra né sinistra”, ma anzi tutte le dimensioni sono ugualmente compresenti (parole che, come vedremo nel prossimo capitolo, saranno anche di Nietzsche: “Ecco, non c’è né sopra né sotto!” dice l’uccello “saggezza nello Zarathustra). È già il problema della futura dodecafonia, ma la strada che vi arriva parte proprio dai nuovi problemi posti dal rapporto col testo. Schönberg scopre Swedenborg attraverso l’utilizzazione che ne fa Honoré de Balzac nel suo Séraphîta. Ma Séraphîta è anche il libro che August Strindberg trova su una bancarella di Parigi nel 1896, due anni dopo aver deciso di seguire il precetto di Tertulliano credo quia absurdum, (proprio quello che Nietzsche vedeva alla base di tutto l’idealismo tedesco, compreso il suo giovanile amore per Wagner…),365 e che diventa il suo Vangelo, ispirandogli Giacobbe lotta – proprio quello Strindberg che è l’autore prediletto di Schönberg. Per occupare questo nuovo spazio Schönberg progetta un grande oratorio, di cui dapprima chiede il testo a Dehmel e poi tenta di stendere con le sue forze. Il progetto iniziale è di unire Séraphîta e Jakob ringt. La tesi: il ritorno a Dio dell’uomo moderno, il ricupero della fede dopo le illusioni delle ideologie e della modernità. In uno schizzo preparatorio così viene tracciata la quinta ed ultima parte:

Conclusione: Preghiera V. La fede del “disilluso”. Riesce l’unione della disincantata, scettica coscienza della realtà con la fede. Isaia 58 pagina 711 66 718 Nel più semplice spunta il mistico Geremia 7 726 17 737 366

Forse solo ora possiamo chiarire definitivamente ciò che Schönberg intendeva con la parola

fede, così largamente usata nella Harmonielehre. Ancora una volta, essa non è un consegnarsi della coscienza a una autorità esterna. La base di questa fede è tutt’altro che il pessimismo o la rassegnazione. Essa nasce precisamente come uno dei possibili incontri a cui è aperta la “scettica coscienza della realtà”. È una fede nutrita di storia e di consapevolezza. Non commette l’ingenuità di dichiararsi “profonda”. Essa sta sul terreno del semplice, e il mistico che la abita non può non richiamare Wittgenstein: la “semplicità” del mondo appunto, il suo essere “semplicemente” indicibile, e perciò “mistico”, e questa è, naturalmente, l’interpretazione che ne dà Cacciari:

Il “mistico” non si dice. Perciò il mistico è “disincantato”. E proprio da tale disincanto nasce l’atto di fede: esso si mostra nella piena comprensibilità, nella misura in cui questa è ottenibile soltanto

364 L’antiutopia del Moses diviene così opposta, detto per inciso, all’utopia positiva e conciliatrice del Giuseppe della tetralogia di Thomas Mann, che riposa appunto sulla convinzione che al di sopra della parzialità dei linguaggi permanga il Linguaggio. 365 U. Duse, La musica nel pensiero di Nietzsche e di Wagner, cit., p. 156. 366 “Schluss: Gebet – V. Der Glaube des ‘Desillusionierten’. Es gelingt die Vereinigung Nüchtern, skeptischen Realitätsbewusstseins mit dem Glauben (…) In Einfachsten steckt das Mystische (…)” (A.S., cit. in Jan Maegaard, Studien zur Entwicklung des dodekaphonen Satzes bei Arnold Schönberg, cit., vol. I, p. 81). H.H. Stuckenschmidt (Schönberg, cit., p. 217) e L. Rognoni. (Note a A. S., Testi poetici e drammatici, Milano, Feltrinelli, 1967, pp. 230-231) riportano lezioni leggermente diverse.

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riconoscendo il non-dicibile (...) l’unione della coscienza del reale, fredda, sobria, critica, con la fede.367

Ma ci sembra un eccessivo forzare la mano a Schönberg il sostenere che ciò che lo

interessava in Séraphîta erano questi rapporti wittgensteiniani tra profondità e misticismo: “L’esistenza di questi rapporti in Séraphîta di Balzac affascinava Schönberg: il massimo del realismo rappresentativo vi appare come ‘mistico’”.368

Che cosa promette realmente Séraphita, come intende riempire lo spazio di Swedenborg? In esso le visioni di Swedenborg vengono descritte come “dettatura degli angeli”, ma l’angelo che annuncia le visioni non è nient’altro che l’uomo interiore, e Gesù parla il linguaggio del cielo. Lo spirituale non è fuga dalla corporeità: esso si invera nel naturale (si pensi alla formula schönberghiana: avanti verso la natura!). L’illuminazione linguistica è preludio all’unione dei corpi angelici che nel cielo non può dare figli, ma che sulla terra fa nascere Séraphîta-Séraphîtus, l’ermafrodito che con la sua presenza mostra l’unità celeste e spinge gli uomini verso quel cielo in cui

... ogni modo aveva un centro cui tendevano tutti i punti della rispettiva sua sfera. Quei mondi erano essi medesimi dei punti che tendevano al centro della loro specie. Ogni specie aveva il proprio centro verso grandi regioni celesti che comunicavano con l’inesauribile e fiammeggiante motore di tutto ciò che è. Così (...) tutto era individuale, e tuttavia tutto era uno.369

Qui il nuovo spazio della dodecafonia è intravisto, ma non sussiste ancora. Questi centri

dislocati tendenti a un unico centro hanno ancora bisogno di una sintesi già data che ne garantisca l’accesso, un’autorità tangibile—qui simboleggiata dall’ermafrodito—già in grado di mostrare quale sarà il risultato finale. Certo, se scrostiamo quanto di letterariamente fanciullesco c’è in questa cosmologia, ritroviamo tematiche tutt’altro che estranee alla Vienna di Schönberg. Le metafisiche del sesso di Kraus e Weininger sono i primi nomi che sorgono alla mente, e (senza dimenticare il più appartato Meyrinck) Musil che ne appare come conclusione e superamento – ma perché vedervi del” realismo rappresentativo”? Ciò che si cerca qui, attraverso la metafora del superamento dell’odio tra i sessi (Strindberg e Weininger appunto, e Schönberg li amava entrambi), è in realtà la speranza che questo nuovo spazio che si apre sia uno, che non ci disperda nella sua infinitezza. In altre parole, che vi sia unità nella non-tonalità, o pantonalità. Ma qui vi è già sintesi, non disposizione, sempre ridiscutibile, dell’unità del materiale. Una contraddizione in Schönberg?

Precisamente. Ma si tenga presente che questo oratorio non fu mai scritto e la Jakobsleiter che ne derivò, peraltro incompiuta anch’essa, è comunque altra cosa. Schönberg non esclude una certa qual sintesi, una soluzione, una “morale” alle sue utopie. Ma ogni volta, prima di mettervi mano, si arresta. Ultima e definitiva: il terzo atto del Moses. Non rinunciò mai all’idea di terminarlo, e non lo terminò mai. Per il primo fatto, non è pessimista: per il secondo, non è idealista. Davanti all’Uno, Schönberg si fermerà sempre. Credendoci, ma senza dirlo.

Far violenza a Schönberg è del resto molto facile. La sua profondità teoretica unita alla sua ingenuità, per così dire, sociologica, hanno prodotto un amalgama pressoché unico nella cultura del nostro secolo, e lo stesso si può dire per la compresenza di elementi anti-metafisici in coabitazione con misticismo e religiosità. Nessun aspetto di Schönberg può essere riducibile a una sola interpretazione, ma se un denominatore comune esiste, ed è quello che gli permette di non rinnegare nulla della sua opera, è la sua coscienza del linguaggio, liturgia del suo buono e cattivo uso, scelta etica e sociale impensabile senza la presa di coscienza della crisi del Logos. Il problema del linguaggio è l’unico terreno sul quale la sua opera, oltre le ideologie e le sollecitazioni culturali,

367 M. Cacciari, Krisis, cit., p. 112. 368 Ibidem. 369 Honoré de Balzac, Séraphîta, in I Capolavori della Commedia Umana, Roma, Casini, 1960, p. 181.

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mantiene una totale coerenza. E questo è, in effetti, l’unico aspetto (ma non è poco, e forse è tutto) che lo accomuna realmente a Nietzsche.370 II. Se il senso della distanza che separa Nietzsche da Wagner è l’affermazione dell’intraducibilità dei linguaggi (la musica non è linguaggio nel senso in cui lo è la parola) il senso della riflessione di Schönberg sul rapporto parola-musica verterà invece sul come sia possibile lavorare sui due linguaggi mantenendoli in assoluta equivalenza. Questa è la continuità-superamento tra Nietzsche e Schönberg che si dovrà dimostrare. Avevamo lasciato Nietzsche dove affermava che è la melodia a generare la poesia e non viceversa; e così continuava:

Nella poesia del canto popolare vediamo dunque il linguaggio teso al massimo per imitare la musica: perciò con Archiloco comincia un nuovo mondo di poesia, che nelle sue radici più profonde contraddice quello omerico. Con ciò abbiamo determinato l’unico rapporto possibile fra poesia e musica, fra parola e suono: la parola, l’immagine, il concetto, cercano un’espressione analoga alla musica e subiscono poi in sé la violenza della musica.371

Anche se Beethoven ha chiamato Pastorale una delle sue sinfonie e ha dato dei titoli ai

singoli tempi,

... queste sono del pari soltanto rappresentazioni simboliche nate dalla musica – e non già di oggetti imitati dalla musica – rappresentazioni che per nessun verso ci possono istruire sul contenuto dionisiaco della musica...372

È la musica che si “si scarica in immagini” ed è attraverso l’imitazione della musica che un

popolo linguisticamente creativo elabora le strofe del canto popolare. Non più, dunque, dal particolare del testo all’universale della musica ma dal sentimento giusto (come viene detto in Richard Wagner a Bayreuth), generale, non gravato dalla convenzione del linguaggio dell’intelletto, nascerà poi il particolare della poesia.

In questo testo così creato la musica è un’apparenza, ed è precisamente l’apparenza della volontà. Di per sé la musica non è volontà, poiché come tale non avrebbe il distacco senza il quale non v’è arte, ma, imitata, specificata e particolarizzata nel testo, essa appare come volontà. È attraverso le immagini apollinee che la musica si fa desiderio e anelito. Ma ecco allora che chi interpreta la musica con immagini, chi “si fa un’immagine” della musica, non esce assolutamente 370 Il rapporto tra Nietzsche e Schönberg è stato richiamato come degno di considerazione da vari autori, tra cui Adorno (Arnold Schönberg 1874-1951, in Prismi, Torino, Einaudi, 1972, p. 165), ma non è mai stato realmente studiato. Va detto, in ogni caso, che si tratta di un rapporto puramente teoretico, non storico. Il nome di Nietzsche compare pochissime volte negli scritti (finora editi) di Schönberg, e solo di passaggio. C’è l’eccezione di un breve passo dove vengono prese in considerazione i concetti di dionisiaco e apollineo (A.S., Funzioni strutturali dell’armonia, cit., p. 259 sgg.). Neanche uno sguardo sulla biblioteca schönberghiana ci aiuta molto. Nel catalogo dei propri libri, che Schönberg compilò prima di trasferirsi a Berlino nel 1912, Nietzsche occupa quattro titoli insieme a Bergson e Platone, contro i ventotto di Strindberg, i diciotto di Maeterlinck, i dodici di Kraus e Balzac, gli undici di George e Kant, i dieci di Dehmel, i nove di Rilke, i sei di Schopenhauer e Hauptmann e i cinque di Ibsen (H.H. Stuckenschmidt, op.cit., p. 168). J. Maegaard, che ha catalogato la biblioteca di Scönberg a Los Angeles, ha annotato un volume contenente Il caso Wagner, Il crepuscolo degli idoli, Nietzsche contra Wagner, Trasmutazione di tutti i valori e Poesie (vol. VIII di Nietzsche Werke, Leipzig, Naumann, 1904) e un volume di Gedichte und Sprüche (Leipzig, Naumann,1901). Si veda J. Maegaard, op. cit., p. 19 del vol. I. 371 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 47. Si tenga presente che questo “cercare un’espressione analoga”, che sembra debitore di Schopenhauer, si protende anche avanti nel tempo. La lingua che cerca in sé la sua musica ci rimanda, come si vedrà nel prossimo capitolo, a George. 372 Idem, p. 48.

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dai confini dell’apollineo. Essendosi fatta un’immagine anche di questo desiderio insoddisfatto, il lirico lo vede come simbolo, e con esso interpreta la musica.

Questo è precisamente, fuor di metafora, l’atto di nascita di quella simbolizzazione dell’arte, che qui vive in coabitazione col dionisiaco ma che in seguito Nietzsche vedrà come nemica dell’arte, appunto perché ha voluto assolutizzare il momento lirico-apollineo, non ha saputo accettare-assimilare la vera barbarie dionisiaca. Si rammenti il programma di Goethe: mantenersi saldi sulle posizioni barbariche raggiunte e da lì guardare ai classici...

Tutta questa discussione si tiene ferma al principio che la lirica è altrettanto dipendente dallo spirito della musica, quanto la musica invece, nella sua assoluta illimitatezza, non ha bisogno dell’immagine e del concetto, ma solo li tollera accanto a sé.373

Il lirico non può dire nulla di più di quanto non vi sia nella musica—che lo costringe a

parlare. Rispetto all’universalità della musica, ogni apparenza del linguaggio non è più che un simbolo:

... quindi il linguaggio, come organo e simbolo delle apparenze, non potrà mai e in nessun luogo tradurre all’esterno la più profonda interiorità della musica, ma rimarrà sempre, non appena si accinga a imitare la musica, solo in un contatto esteriore con la musica, mentre neanche con tutta l’eloquenza lirica potremo avvicinarci di un solo passo al senso più profondo di essa.374

Non è difficile cogliere quella che può essere la posizione di Wagner in tutto questo: egli è

precisamente colui che, restringendo la musica all’immagine delle passioni suggerite dal testo, l’assolutizza in una supremazia dell’apollineo; è, quindi, il barbaro inconsapevole per eccellenza. Implicito fin che si vuole, ma questo è il Nietzsche della Geburt der Tragödie, il Nietzsche wagneriano. Ancora di più aumenta la distanza se si prende in esame uno scritto molto meno noto, eppure contemporaneo: Über Musik und Wort, del 1871.

Qui, una correzione di Schopenhauer diventa la premessa indispensabile per pensare il nesso tra parola e musica. Il pensiero di Schopenhauer restava impreciso sul vero rapporto tra musica e volontà. Qual era il ruolo giocato dal meccanismo della rappresentazione? Ora, la parola non simboleggia la cosa, bensì la sua rappresentazione. E questo significa che il simbolo-parola non corrisponde all’essenza della cosa. Solo la rappresentazione può essere conosciuta, sia che si riferisca al mondo (cose), sia all’interno dell’uomo (sentimenti, affetti) – il che ovviamente fa scomparire la distanza tra soggetto e oggetto:

… anche tutta la vita impulsiva, il gioco di sentimenti, sensazioni, affetti, atti di volontà, è da noi conosciuto – come a me tocca affermare contro Schopenhauer – anche nel più preciso esame soggettivo solo come rappresentazione e non secondo il suo valore; noi possiamo ben dire che anche la “Volontà” di Schopenhauer, non è niente altro che la forma fenomenica più generale di qualche cosa che del resto rimane per noi del tutto indecifrabile.375

Non solo—come si è già visto nella Nascita della tragedia—la musica non può essere la

Volontà (appare solamente come tale), ma anche la volontà stessa non è che forma fenomenica, non essenza. Questo allora significa che il “linguaggio della volontà” non ha diritto a nessuna essenzialità, a nessun privilegio: come ogni altro linguaggio, esso prende corpo nella sfera simbolica di una apparenza. Certo, la sfera della volontà resta fondamentale per tutto l’insieme della lingua, poiché comprende tutte le espressioni riguardanti le sensazioni di piacere e di dolore, e su questo infatti Nietzsche baserà le sue argomentazioni successive, ma il senso profondo di questa “correzione” sta nell’annullamento delle scale gerarchiche: l’incontro di parola e musica non ha più 373 F. Nietzsche, Idem, p. 49. 374 Idem, p. 50. 375 F. Nietzsche, Sulla musica e la parola, in Scritti minori, Napoli, Ricciardi, 1916, p. 3.

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il carattere di un rapporto tra essenza e metafora, tra il Logos e la sua analogia. Che poi il ruolo dell’essenza sia incarnato dal dramma (Wagner) o dalla musica (Schopenhauer) non ha più importanza, perché la forma del rapporto non ne viene modificata. Piuttosto, ora Nietzsche giudica come “naturalismo esteriore” il fatto che Schopenhauer afferri come l’intelletto percettivo e riflessivo, non provando piacere a restarsene ozioso ascoltando musica, trova un’occupazione adeguata nel farsi un’immagine percettiva della musica stessa. È vero, e qui Nietzsche concorda, che in tal modo “sarà accresciuta l’impressione sulla musica”, ma le motivazioni dell’incontro non sono quelle. Non vi è prima la musica assoluta e poi il gioco dell’immagine che le verrebbe applicata dall’intelletto: il meccanismo della creazione si sposta all’interno della lirica, nella inscindibile compresenza di dionisiaco e apollineo, cioè di ebbrezza e sogno, che supera d’un balzo la contrapposizione tra la comunità e il singolo, tra l’oggettivo e il soggettivo, tra l’irrazionale e l’intelletto. Quando il poeta lirico dice “io” non è soggettivo, non sta parlando di se stesso, perché l’io è un’immagine come le altre.

Vi è piuttosto nell’essenza dell’arte dionisiaca di non conoscere riguardo alcuno per l’ascoltatore (...) Egualmente sarebbe innaturale chiedere al poeta lirico che le parole del suo canto siano comprensibili, innaturale perché è l’ascoltatore che chiede, il quale non ha alcun diritto di pretendere una effusione lirica.376

Non è possibile pensare, continua Nietzsche, che l’estrema complessità di lingua e di

pensiero di Eschilo e Pindaro, che anche senza la distrazione della musica è di difficilissima penetrazione, potesse in qualche modo servire a rendere più chiara la musica stessa. Com’è possibile pensare che testi così ardui avessero la funzione di “interpretazione figurativa e concettuale della musica”? La verità è che il lirico “non ha niente da comunicare all’ascoltatore”, e allo stesso modo chi canta nel coro canta per sé, senza curarsi se ciò che canta sia comprensibile a chi non canta con lui.

Pensiamo un po’alle nostre proprie esperienze nel campo della musica d’arte: che cosa riusciamo a capire del testo di una musica di Palestrina, di una cantata di Bach, di un oratorio di Händel, se noi stessi non cantiamo insieme? Solo per il cantore vi è una lirica, una musica vocale, l’ascoltatore le sta di fronte come ad una musica assoluta.377

A questo punto già potrebbe ricevere una luce diversa l’atteggiamento di uno Schönberg che

scrive per se stesso e per il suo gruppo in un’atmosfera d’incrollabile ascetismo, e che dichiara di ignorare il “riguardo dovuto all’ascoltatore”. Ma, se ci si fermasse qui, si resterebbe alle rispettive biografie. Il legame vero tra Schönberg e Nietzsche, che forse solo ora possiamo intravedere realmente, scorre molto più in profondità. Quello che vi è da dimostrare è che l’evoluzione schönberghiana, da Dehmel a George, è precisamente la conquista di questa lirica assoluta, che non ha contenuti da comunicare o sentimenti da esprimere, ma che semplicemente mostra il campo d’azione e di scontro dei due linguaggi, musica e testo, irriducibili l’uno all’altro eppure necessariamente compresenti, come ebbrezza e sogno, caos e divinazione. In altre parole: perdita della supremazia onto-metafisica dell’io e cosciente rappresentazione di questa perdita sono necessarie perché vi sia tragedia, perché l’opera non consumi se stessa nella cattiva infinità del dramma, impotente nel suo tentativo di annullare le contraddizioni di un sistema in cui, se uno dei due linguaggi è assenza, gli altri non possono che esserne metafora.

La storia del rapporto tra lingua e musica è invece caratterizzata da un doppio fenomeno: le rappresentazioni che riguardano il piacere e il dolore sono simboleggiate “nel suono del loquente; mentre le rimanenti rappresentazioni sono indicate dal simbolo mimico di lui”. Ne deriva che si

376 Idem, p. 12. 377 Idem, p. 13.

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deve guardare alla molteplicità delle lingue come a “... un testo strofico per la melodia originaria della lingua del piacere e del dolore”.378

Così, man mano che la lingua originaria giunge a espressioni simbolico-musicali sempre di più adeguate, si cerca sempre di più di parafrasare la musica con delle immagini. A questo punto, come si può pensare che la musica possa illustrare una poesia? È un’impresa che “par simile a quella di un figlio che vuol generare suo padre!” La musica può generare immagini come esempi del suo contenuto generale. Ma come può l’immagine, la rappresentazione, come anche il concetto o l’idea poetica, partorire della musica?

Perché se un ponte conduce sicuramente dal misterioso borgo del musicista al libero paese delle immagini – ed il lirico passa su di esso – è d’altra parte impossibile che si possa percorrere il cammino inverso... 379

Come sarà per Mahler e per Schönberg, la musica può comprendere tutto, a patto che accetti

ciò che questo comporta: una volta fattosi musica, il mondo è, per essa, perduto: le immagini vi si sono disciolte, vanificate, innervate nella forma. A questo punto,

... se dunque il musicista compone un canto lirico, egli come musicista non è eccitato né dalle immagini né dalla lingua del sentimento del testo; ma un’eccitazione musicale che viene da tutt’altre sfere sceglie quel testo come espressione allegorica di se stessa. Non si può dunque parlare di un legame necessario tra canto e musica, poiché i due mondi di cui si tratta, del suono e dell’immagine, si trovano troppo lontani per poter avere tra loro più che un legame esteriore; il canto è solo il simbolo e sta alla musica, come il geroglifico egizio del valore sta al guerriero valoroso.380

Era stato F. Schlegel, in un passo che abbiamo già citato nel terzo capitolo, a sostenere che

la musica la quale voglia darsi un contenuto si crea da sola il testo, ma non è nelle incertezze della musica a programma né nella gerarchia del dramma wagneriano che ciò può avvenire: è nel rapporto dionisiaco della lirica assoluta che la musica sceglie un testo come proprio apollineo; e citare di nuovo il Verhältnis zum Text diviene qui obbligatorio, quando a proposito dei Lieder di Schubert, Schönberg dice che “... senza conoscere la poesia, ne avevo afferrato il contenuto vero, forse più profondamente che se fossi restato aderente alla superficie dei veri e propri pensieri espressi dalle parole”.381

Appunto perché il contenuto vero del Lied è la musica e solo la musica. Il contenuto del testo, composto indipendentemente dalla musica, è già fissato nelle parole, e la musica non gli aggiunge né gli toglie nulla. Per la musica, il testo è assunto solo come materiale da lavorare e trasformare. Non è il testo che è all’origine della musica, ma la musica che è all’origine della scelta di quel testo. Rispondendo a chi gli aveva inviato un brano poetico nella speranza che lo musicasse, Schönberg rispose:

E ora veniamo al sodo: non mi è chiaro in che senso Felix Braun richieda della musica per la sua composizione [Hertz der Toten]. Ma quello di non capire è un fatto che mi succede abbastanza spesso. E comprensibile poiché a me succede questo: io sento un contenuto prima solo come fatto musicale, e se non la trovo sono ridotto a mettere in fila una dopo l’altra povere parole che diano spazio alla mia musica. Non è che tutto sia sempre così schematico come lo descrivo qui, ma è pur sempre vero che io sono legato a un determinato modo espressivo...382

La ragione più profonda di tutto ciò sta nel fatto che, ed è ancora Nietzsche che parla,

378 Idem, p. 4. 379 Idem, p. 5. 380 Idem, p. 9. 381 A.S., Il rapporto col testo, cit., p. 396. 382 A.S., Lettera a Leo Feld, Berlino, 14 gennaio 1945, in Arnold Schönberg. Catologo della mostra, cit., p. 113.

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... la musica non può mai divenire un mezzo, per quanto la si spinga; la si chiuda, la si torturi (...) La musica più cattiva può sempre, di fronte alla migliore poesia, significare il fondamento dionisiaco del mondo e la più cattiva poesia essere specchio, copia, riflesso di questo fondamento accanto alla migliore musica: così certamente il singolo suono, di fronte all’immagine, è già dionisiaco, e la singola immagine, insieme al concetto e alla parola di fronte alla musica, è già apollinea.383

E con ciò il distacco da quel Wagner per cui la musica è un mezzo e il dramma lo scopo, è

totale. Quanto all’opera lirica, viene detto che essa è nel migliore dei casi, solo musica, e da tutto quello che la riveste “l’uomo di giudizio si allontanerà ridendo”. La “musica drammatica”, quella che vuole ridursi al servizio dell’azione e che quindi non può esercitare alcuna potenza dionisiaca, è quella a cui la convenzione ha succhiato le forze naturali, e che serve solo come segno di ricordo, richiamo per la memoria, e come causa di riflessi condizionati nello spettatore (il Leitmotiv!). Ma la stessa riduzione ad arsenale retorico vale anche per la poesia, anch’essa usata solo come ricordo o eccitamento, perché nel dramma wagneriano non contano né la musica né la poesia ma solo l’azione, o meglio il “drastico”, cioè proprio ciò che i Greci escludevano dalla tragedia:

È stata una vera disgrazia per l’estetica che si sia sempre tradotto la parola dramma con “azione”. A questo riguardo Wagner non è stato il solo a sbagliare; tutti sono ancora in errore (...) L’antico dramma aveva di mira grandi scene di pathos – esso escludeva principalmente l’azione (la collocava prima dell’inizio o dietro la scena). La parola dramma è di origine dorica: e secondo l’uso linguistico dorico significa “evento”, “storia” (...) - dunque nessun fare, soltanto un accadere: drãn non significa affatto, in dorico, “fare”.384

Commentando Über Musik und Wort, Ugo Duse ha quindi potuto affermare (anche se

caricando in po’ i toni) che

... si può pensarla come si vuole ma una requisitoria più violenta di questa contro il Wort-Ton-Drama non è mai stata scritta. Il Wort-Ton-Drama è indicato come paradiso artificiale per gli ultimi decadenti e come materiale ideologico scurrile per gli imbecilli (...) In questo senso la cattiva coscienza filosofica di Adorno ha egregiamente funzionato: là dove gli indica che Nietzsche scoprì per primo la musica come ideologia dell’inconscio.385

III. Duse nota anche che non solo vi è opposizione a Wagner, “... ma soprattutto qualcosa di più: L’adesione quasi totale ai punti di vista di Hanslick e forse più di un preludio a Il rapporto col testo di Schönberg”.386 Che ci fosse “più di un preludio” l’abbiamo già visto, e le scoperte non sono ancora finite. Ma è il riferimento a Hanslick che ci obbliga ad allargare il campo d’indagine, per dimostrare appunto in che misura possono esservi (o non esservi) dei legami, che da alcune parti sono stati ipotizzati, tra il formalismo di Hanslick e il cosiddetto “intuizionismo” di Schönberg. A questo scopo bisogna puntare l’attenzione sull’analisi che Nietzsche, sempre in Über Musik und Wort, fa della Nona Sinfonia. Occorre qui citare diffusamente:

… che pel ditirambico giubilo redentore del mondo di questa musica, sia del tutto incongruente l’inno di Schiller “Alla gioia”, che come pallida luce lunare è inondato da quell’oceano di fiamme, chi potrà togliermi questo mio sicuro modo di sentire? Chi potrebbe soprattutto contestarmi che quel sentimento nell’ascoltazione di questa musica non arriva ad una espressione rumorosa solo perché

383 F. Nietzsche, cit., p.14. 384 F. Nietzsche, Il caso Wagner, cit., p. 185. 385 U. Duse, art. cit., pp. 155-156. 386 Idem, p. 151.

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noi, per mezzo della musica completamente liberati dalle immagini e alle parole, non udiamo proprio niente della poesia di Schiller? Tutto il nobile slancio, la sublimità dei versi di Schiller agisce a fianco alla sincera ingenua innocente melodia popolare della gioia disturbandola, agitandola in modo addirittura crudo ed offensivo; solo il non udirli, nello sviluppo sempre più pieno del coro dell’orchestra, può tener lontana da noi la sensazione di quella incongruenza. Ma che dobbiamo pensare di quello straordinario pregiudizio estetico secondo il quale Beethoven stesso avrebbe fatto con la quarta parte della Nona una solenne confessione di confini della musica assoluta, ed avrebbe in un certo qual modo schiuse le porte di una nuova arte, nella quale la musica sarebbe atta a rappresentare perfino l’immagine ed il concetto, così da essere aperta allo “spirito cosciente”? E che ci dice Beethoven stesso, introducendo questo coro con un recitativo? “O amici, non questi suoni, ma intoniamone di più piacevoli e più pieni di gioia!” per questo egli aveva bisogno del convincente suono della voce umana, per questo aveva bisogno della ingenua maniera del canto popolare. Non la parola, ma il “più piacevole” suono, non il concetto ma il suono più intimamente più ricco di gioia cercava di raggiungere il sublime maestro anelando alla musica più vibrante e piena di anima della sua orchestra. E come potevasi fraintenderlo?387

La cosa più sorprendente è che per corroborare questa sua tesi Nietzsche continua citando, e

appropriatamente, Wagner. Ma non il Wagner di Opera e Dramma, illustre vittima di quello “straordinario pregiudizio estetico”, bensì quello, che già ci aveva colpito, del Beethoven. Nel passo in questione, che riguarda la Missa Solemnis, Wagner afferma appunto che in essa le voci sono trattate come strumenti, nel senso inteso da Schopenhauer; che il testo è pura “materia di canto” e non disturba la sensibilità musicale “... solamente perché non suscita in noi concetti razionali, ma, come vuole anche il suo carattere ecclesiastico, ci dà l’impressione di ben note simboliche formule di fede.388 Se a questo punto ritorniamo al Beethoven, è perché ormai possiamo chiarire in che senso questo saggio rappresenta il massimo punto possibile di convergenza tra Wagner e Nietzsche (e coincide, peraltro, con gli anni più intensi della loro frequentazione). Così continua il testo wagneriano:

D’altro canto l’esperienza che una musica non perde nulla del suo carattere quando anche le si adattino testi molto diversi, ci fa capire che il rapporto fra la musica e la poesia è del tutto illusorio: quando infatti si canta seguendo una data musica, non si afferra il pensiero poetico – che, del resto, specie nel canto corale non è neanche articolato in modo intelligibile; ma tutt’al più ciò che esso ha suscitato nel musicista, in quanto musica e pretesto di musica. Perciò l’unione della musica e della poesia finirà sempre col far sfigurare quest’ultima...389

Qui la questione si fa molto sottile: su alcuni punti sembra effettivamente esservi un accordo

con Nietzsche, e la cosa è ulteriormente suffragata da ciò che viene aggiunto poco più avanti:

… la musica che non rappresenta le idee contenute nei fenomeni del mondo ma è essa stessa un’idea complessa del mondo, racchiude in sé il dramma [corsivo nostro] poiché questo a sua volta esprime l’unica idea del mondo corrispondente alla musica.390

Se però si riflette su questa affermazione, non si può reprimere il sospetto di essere davanti a

un abile gioco di parole: la musica è idea e racchiude il dramma, ma il dramma esprime l’idea della musica, quindi, in pratica, è ancora il dramma che racchiude la musica, e infatti questo è quello che si legge alcune pagine dopo:

Noi sappiamo che i versi, fossero anche di Goethe o di Schiller, non possono determinare la musica: può farlo soltanto il dramma e non già il poema drammatico, ma il dramma che realmente si svolge

387 F. Nietzsche, Sulla musica e la parola, cit., pp.10-11. 388 R. Wagner, Beethoven, in Ricordi…, cit., p. 269. 389 Ibidem. 390 Idem, p. 271.

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davanti a noi come visibile riscontro della musica, dove le parole e il discorso appartengono piuttosto all’azione, non già al pensiero poetico.391

E così cadiamo in pieno in quello che poi Nietzsche denuncerà come equivoco, come

confusione dell’azione col dramma. Nietzsche potrebbe tranquillamente aggiungere che a Wagner non interessa il carattere mitopoietico, di puro accadimento, di “evento” non comunicante e non espressivo del dramma, bensì quello mitagogico, tendente a esprimere, a dimostrare: un dramma teoretico, socratico, in una parola metafisico. Eppure, la vicinanza tra i due c’è stata, e la storia ha pure il suo peso; ma ciò è spiegabile più agevolmente se ripensiamo alla già menzionata distinzione di Felix Gatz: effettivamente Wagner è colui che più di ogni altro, nel suo tempo, si pone il problema di come garantire un ruolo attivo alla musica, e così vanno interpretate le sue oscillazioni di pensiero sulla gerarchia fra dramma e musica. Sotto questo punto di vista la riflessione wagneriana è infinitamente più avanzata di quella, poniamo, di un Liszt. Ma se Nietzsche se ne distacca è perché comprende che la sua propria speculazione non mirava a far sì che la musica divenisse autonoma, quanto a dimostrare come l’autonomia della musica, come delle arti e dei linguaggi, fosse il dato fondamentale, la condizione indispensabile per poterla pensare. Ma non era una preoccupazione estetica che lo muoveva, perché l’estetica in sé a Nietzsche non interessava affatto (l’estetica è solo una fisiologia applicata, dirà poi nel Nietzsche contra Wagner), come poi non interesserà affatto a Schönberg: nella Visione dionisiaca del mondo è detto chiaramente che la differenza fra il dramma e le altre arti sta nel fatto che in esso vi si deve apprezzare il contenuto, che vi è in gioco la verità (e Schönberg dal canto suo dirà che l’arte deve essere vera, non “bella”).

Il fatto è che il bisogno di redimere e di essere redenti, ossessione di Wagner, è esattamente speculare al suo pessimismo metafisico. In effetti nulla può garantire a priori che il rapporto semantico per cui la musica significa la realtà, funzioni realmente: le utopie politiche ed artistiche basate sulla metaforizzazione del reale (metaforizzazione che non si accetta come tale, nel suo nominalismo) sono le più grandi e le più fragili insieme, appunto perché si muovono nel circolo vizioso di dimostrare la loro effettualità sulla saldezza di un rapporto semantico che è nello stesso tempo il loro presupposto. Così, la lotta, (che è di Nietzsche e poi sarà di Schönberg) per affermare e difendere la reciproca autonomia dei linguaggi, parte come estetica, ma via via si trasforma in politica: il percorso che va da Uber Musik und Wort a Also Sprach Zarathustra è parallelo a quello schönberghiano dai Georgelieder al Moses und Aron.392

Le vicende del rapporto testo-musica che qui stiamo indagando non sono altro che all’origine dell’intero rapporto tra l’uomo e il linguaggio: ogni minima variazione di pensiero, ogni sfumatura nella riflessione, potrà avere in seguito conseguenze radicali. Ed è per questo che è essenziale vedere come la differenza tra Nietzsche e Wagner, cioè tra due complete Weltanschauungen, prende le mosse proprio da qui, impercettibilmente ma irreversibilmente, nel momento in cui massima sembra la loro vicinanza. Proprio là dove dice che un rigido rapporto tra musica e poesia è illusorio, Wagner, l’abbiamo già visto, aggiunge che “... seguendo una data musica, non si afferra il pensiero poetico (...) ma tutt’al più ciò che esso ha suscitato nel musicista, in quanto musica e pretesto di musica”.

“In quanto musica”: ma il testo non è musica; il musicista non va in cerca della sua “musicalità” (ma di questo se ne riparlerà); pretesto di musica: la musica non si serve, non ha bisogno, almeno per Schönberg, di pretesti letterari, ma la vera affermazione sulla quale Nietzsche non avrebbe potuto consentire è quella che afferma che si coglie nella musica ciò che il testo ha suscitato. E come risposta a Wagner, si può leggere:

Ci si opporrà, fondandosi su di un amato modo di vedere estetico, il concetto che “non la poesia, ma il sentimento manifestato nella poesia è quel che vien generato dalla composizione”. Io non condivido tale opinione: il sentimento, la leggera o forte commozione di quel sostrato di piacere e di

391 Idem, pp. 277-278. 392 Ovviamente tutto ciò va accolto solo come suggerimento. Non intendiamo approfondire la questione in questa sede.

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dolore, è in generale nel campo dell’arte produttiva il non artistico in sé e proprio la sua completa esclusione rende possibile il pieno immergersi e la contemplazione disinteressata dell’artista.393

L’affermazione ha un indubbio sapore hanslickiano. È qui che dobbiamo cercare allora

questo rapporto? E in che misura esso sarà produttivo per il nostro discorso? IV. In Nietzsche il rifiuto dell’estetica del sentimento e dell’effetto muove dalla differenza originaria tra l’in-sé “al di là di ogni individuazione” e la forma fenomenica che prende il nome di Volontà. “La volontà è oggetto della musica, ma non origine di essa” perché l’origine vera sta “... nel grembo di quella forza, che sotto la forma della “Volontà” genera da sé un mondo di visioni: L’origine della musica è al di là di ogni individuazione...”.394 Meno che mai i sentimenti, che già rispetto alla volontà sono impregnati di rappresentazioni (frutto dell’apollineo), possono dare origine alla musica – né la musica può averli come oggetto:

La “Volontà” stessa e i sentimenti (...) sono assolutamente incapaci di generare da se stessi musica: come d’altra parte alla musica è assolutamente negato di rappresentare sentimenti, di avere per oggetto sentimenti, essendo la volontà il suo unico oggetto.395

I sentimenti tutt’al più possono simboleggiare la musica, e così infatti fa il lirico, quando

“traduce nel mondo allegorico dei sentimenti” il regno della volontà che, come tale, è concettualmente inaccessibile. Ma queste allegorie non hanno il potere di mostrare la musica, e gli ascoltatori che risentono della musica sui loro affetti si fermano in un interregno che è soltanto una precognizione simbolica della musica vera.

Anche per Hanslick il punto di partenza è costituito dal problema della rappresentazione: in sé e per sé la cosa, qualunque cosa, non rappresenta nulla:

... la foresta offre ombrose frescure, ma non rappresenta il sentimento delle ombrose frescure (...) “Rappresentare” qualcosa coinvolge sempre l’idea di due cose distinte e diverse, delle quali l’una è in relazione con l’altra solo per un atto particolare ed espresso.396

Cioè per un rapporto allegorico comunque estraneo alla cosa, potrebbe dire Nietzsche. Ora,

l’estetica non ha mai fatto altro che occuparsi di questo rapporto allegorico, mistificandolo però come scopo e contenuto della cosa musicale in sé. In pratica, per l’estetica del sentimento ciò che si gode della musica è sempre il significato (peraltro preteso) e mai il significante. Ma questo significante è, per Hanslick, sempre multiplo, polisenso. La musica può sussurrare, ma non può dire se il sussurro sia di gioia o di dolore, perché un sentimento, per determinarsi, ha bisogno di un contenuto “storico” che deve essere necessariamente concettuale (si pensi al sentimento di cui parla Nietzsche, così impregnato di rappresentazioni da non poter essere più oggetto della musica). Così la musica diventa “dinamica dei significati”, loro movimento interno. Indica modificazioni quantitative, non “qualità”. L’elemento che la musica ha in comune con gli stati affettivi è solo il “movimento”. Il richiamo a un passo di Schönberg è immediato:

Nessuno è mai ucciso o ingiustamente torturato, in musica, né mai c’è, in essa, un fatto capace di avvincere in se stesso, perché la sua materia è puramente musicale. E solo quando quei fatti riescono a parlare da sé – soltanto quando l’alternarsi dei suoni alti e bassi, di ritmi veloci e lenti, di sonorità

393 F. Nietzsche, idem, pp.6-7. 394 Idem, p. 8. 395 Idem, pp. 8-9 396 Eduard Hanslick, Il bello musicale, Milano, Martello, 1970, p. 4.

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intense e lievi, ci parla della cosa più irreale che esista – solo allora siamo trascinati alla più intensa partecipazione.397

Per tutti questi motivi è facile capire che per Hanslick l’essenza della musica sta nella

musica strumentale. E con questo arriviamo al problema del testo. Per Hanslick il concetto di musica non si adatta completamente a un brano composto con un testo. Nietzsche, ma anche Schönberg, potrebbero ribattere che ogni musica è in realtà “assoluta”, e in effetti anche Hanslick ammette che nella musica vocale “non è possibile determinare l’importanza dei singoli fattori”, e afferma altresì che “… l’unione con la poesia allarga il potere della musica ma non i suoi limiti”.398

A chiarimento di questa importante affermazione, Hanslick rifiuta categoricamente che la musica possa farsi linguaggio, nel senso di assumere le regole della lingua parlata. Prova ne è il recitativo, dove effettivamente la musica fa tutt’uno col testo, ma perché è ridotta al rango di serva. Per questo, ed è ovvio, “l’opera è anzitutto musica, non dramma”: “Nella musica c’è senso e logica, ma “musicali”; essa è una lingua che noi parliamo e comprendiamo, ma che non siamo in grado di tradurre”.399 Per questo va combattuta la tendenza di quei cantanti “… i quali, nei momenti della massima effusione sentimentale, dicono parole o intere frasi “parlando”, e credono di rendere in tal modo la più alta concitazione della musica”.400 Ugualmente vanno combattute tutte le teorie, da Rameau a Rousseau a Wagner, che vogliono applicare alla musica le leggi dello sviluppo e della costruzione del linguaggio:

I confini della musica non sono stretti, ma delimitati esattamente. La musica non può assolutamente “innalzarsi a linguaggio” – abbassarsi, bisognerebbe dire propriamente dal punto di vista musicale -, poiché evidentemente la musica dovrebbe essere un linguaggio più elevato.401

Almeno fino a questo punto, il campo dei parallelismi che il confronto Nietzsche-Hanslick-

Schönberg ha aperto appare stimolante. Ma la domanda fondamentale che qui bisogna porsi è: partendo dal rapporto testo-musica, quali sono i confini di quest’ultima?

Tornando alle pagine del Bello musicale dedicate al problema del testo, si può leggere:

La musica colorisce il disegno della poesia (…) Ma appena non si tratti più del “che”, ma del “come” delle composizioni musicali, quella frase cessa d’essere giusta. Soltanto in senso “logico” (stavamo quasi per dire “giuridico”) il testo è l’essenziale e la musica l’accessorio, ciò che si esige esteticamente dal compositore è molto di più: si richiede bellezza musicale autonoma (naturalmente al tempo stesso corrispondente al testo). Se quindi non ci si domanda più astrattamente come si comporti la musica di fronte a un testo, ma come essa “deva” agire nel caso concreto, non si può limitare la sua dipendenza dalla poesia entro confini così angusti, come quelli che il disegnatore traccia al coloritore.402

Hanslick continua sostenendo che Gluck, nella sua celebre prefazione all’Alceste, dove si

dice che il testo è “il disegno giusto e ben tracciato” che la melodia deve seguire, non seppe cogliere 397 A.S., Gustav Mahler, in Stile e idea, cit., p. 30. 398 E. Hanslick, op. cit, p. 30. 399 Idem, p. 54. 400 Idem, p. 72. Proprio quello che Wagner ammirava nella Schröder-Devrient e che raccomandava ai suoi cori. Cfr. l’inizio del Cap. V. 401 A parte la concessione romantica della chiusa, Nietzsche avrebbe potuto condividere questa affermazione. Ma per rafforzarla Hanslick prende in esame proprio la Nona Sinfonia, criticandone il ricorso al coro. Seguendo David Strauss, Hanslick parla di “mostruosità estetica che fa sbocciare in un coro una composizione strumentale in più tempi”, ma coglie nel segno quando afferma che la Nona è stata posta all’apice della musica non per il suo risultato ma per la sua intenzione. Perché è effettivamente così che si comporteranno, sedici anni dopo, Nietzsche e Wagner: il primo darà risalto unicamente alle sue implicazioni teoretiche, il secondo giungerà ad affermare che “…il punto più alto nello sviluppo del genio beethoveniano non è quindi costituito dalla sua opera, bensì dall’atto artistico inaudito che in essa è contenuto…” (R. Wagner, Beethoven, cit., p. 278). 402 Idem, p. 32.

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il “giusto mezzo” e andò troppo in là nella sua riforma (come fece poi Wagner). Secondo Hanslick, la musica deve ridurre le parole a “una semplice spalliera d’edera”, ma la sua argomentazione appare fragile: non si coglie il passaggio tra la “coloritura” e l’autonomia, poiché quest’ultima non è sufficientemente, teoricamente necessitata. Infatti è proprio la questione del contenuto la debolezza di Hanslick, debolezza che lo porta ad affermare: “Poiché il compositore è costretto a pensare in suoni, ne consegue la mancanza di contenuto della musica: infatti ogni contenuto concettuale si dovrebbe poter pensare in parole”.403 È vero, Hanslick aggiunge che “… di contro all’accusa di mancanza di contenuto, la musica ha dunque un contenuto, ma musicale…”.404 Ma questo contenuto è raggiunto, poco chiaramente, “astraendosi da ogni realtà oggettiva”. Il formalismo si dibatte nei suoi equivoci. Come ha scritto Fubini:

… Hanslick ha liberato la musica da ogni suo contenuto emotivo, sentimentale, descrittivo o letterario, ma ha lasciato aperto il problema del come lo spirito “si plasmi” nelle “forme sonoramente mosse”; di come si configuri nell’esperienza umana questa “attività obbiettiva e formatrice…405

Sarà il chiarimento della questione del contenuto in rapporto con la presenza del testo che ci

darà gli strumenti per andare oltre Hanslick. Ma per far questo, bisogna notare come la connessione non spiegata di musica come coloritura del testo eppure autonoma rispetto al testo sarà in futuro (Del bello musicale è del 1854), anche di Nietzsche, del Nietzsche non ancora libero dai fantasmi wagneriani. Questo Nietzsche di transizione appare nello scritto sul dramma musicale greco, ed è di transizione perché le posizioni che vi si trovano saranno superate proprio approfondendo le stesse categorie lì impiegate.

La posizione dello scritto in questione sembra arretrata rispetto allo stesso Hanslick: vi si dice che riguardo alla posizione della musica nell’antico dramma, “rimane perennemente valido, come esigenza”, ciò che ha dichiarato Gluck nella prefazione all’Alceste, e cioè che la musica deve sostenere la poesia, “rafforzare l’espressione dei sentimenti e l’interesse delle situazioni”, deve essere per la poesia ciò che il colore è per il disegno:

Perciò la musica è stata usata unicamente come un mezzo per raggiungere il suo scopo [!]: il compito consisteva nel convertire le sofferenze del dio e dell’eroe nella più forte compassione degli ascoltatori.406

E poco più oltre, Nietzsche aggiunge che

La primissima esigenza era di far comprendere il contenuto della poesia recitata; e se un canto corale di Pindaro o di Eschilo, con le sue temerarie metafore e i suoi audaci salti di pensiero, era realmente compreso, ciò presuppone una mirabile arte dell’esporre, e al tempo stesso un’accentuazione musicale e un ritmo estremamente caratteristici.407

Come colmare la distanza che separa questo Nietzsche da quello, di poco successivo e che

abbiamo già analizzato, in cui la comprensibilità di quelle metafore e di quei salti di pensiero viene dichiarata irrilevante rispetto al momento dionisiaco della lirica? Intanto poniamo attenzione al fatto che Nietzsche parla di comprendere il “contenuto della poesia” ma non specifica se questo contenuto sia limitato alle parole. Certo, il seguito della citazione non lascia dubbi, eppure è a partire da qui che si può innescare il meccanismo del rovesciamento, perché la prospettiva comincerà a mutare non appena Nietzsche si chiederà dove veramente si costituisca il contenuto. È soltanto nelle parole che esso va cercato? 403 Idem, p. 133. 404 Idem, p. 134. 405 E. Fubini, L’estestica musicale dal settecento ad oggi, cit., p. 141. 406 F. Nietzsche, Il dramma musicale greco, cit. p. 20. 407 Idem, p. 22.

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Torniamo a Hanslick. Il celebre esempio che porta, applicando dei testi diversi al lamento dell’Orfeo ed Euridice di Gluck, dovrebbe dimostrare l’indifferenza, la superiorità della musica rispetto al contenuto particolare del testo: “La musica può cercare di imitare soltanto il fenomeno esteriore, non il sentimento specifico da essa suscitato”.408 Così, bisogna fare appello alla capacità di astrazione dell’ascoltatore, perché egli sia in grado di rappresentarsi in forma puramente musicale e senza riferimenti a un testo, “una qualche melodia di effetto drammatico”. Ma questo avviene perché “… in un pezzo vocale non sono i suoni che rappresentano un contenuto, ma il testo. Non il colorito, ma il disegno determina l’oggetto rappresentato”.409

Le incertezze hanslickiane sul contenuto si riassumono tutte qui, e derivano precisamente dal fatto che Hanslick non crede, non solo che la musica possa mantenere un contenuto autonomo quando è a contatto con le parole, ma nemmeno che il suono possa avere un contenuto autonomo, ed è perciò costretto a ricorrere a strutture psico-fisiologiche in grado di garantirglielo. L’irrisolto problema dell’autonomia del contenuto musicale, che Hanslick non riesce mai a dimostrare nonostante proprio quello fosse il suo scopo, costituisce così la spia del suo idealismo, che rimanda ancora a strutture naturali di piacere in grado di giudicare cos’è bello e cos’è piacevole. È ancora Fubini che rileva come il testo hanslickiano sia cosparso di affermazioni “che lasciano interdetti”, come quando parla di “rapporti originari degli elementi musicali” o di “segrete relazioni ed affinità elettive basate su leggi naturali”. Tutto ciò conduce poi Hanslick a postulare quali “necessarie determinazioni spirituali siano collegate con ogni elemento musicale, e in che rapporto stiano reciprocamente”.410

Certo, Hanslick voleva dare a queste tesi un fondamento scientifico e positivista, e si appoggiava in particolare su Helmholtz, il quale parlava della caratteristica che hanno i suoni di imitare “le proprietà dinamiche degli stati psichici”.411 Ma il passaggio dalla fisica alla metafisica qui si fa strettissimo, perché ancora una volta le “determinazioni spirituali”, pur se ridotte al loro aspetto quantitativo, fungono da Logos dispensatore di affinità elettive. Il formalismo diviene così garante di rapporti assoluti, non inquinati dal mondano, e si fa così vicino a tentazioni misticheggianti che non sono di Hanslick ma di parecchi formalisti ad oltranza venuti dopo di lui.412 Altro sarà quello che Schönberg, dopo il superamento del wagnerismo, troverà nello stesso ambiente scientifico su cui Hanslick si appoggiava. Nella Harmonielehre vi sono parole di ammirazione per Carl Stumpf, ma in quanto Stumpf ha liberato scientificamente la percezione dei suoni da ogni rapporto pre-dato, da ogni affinità elettiva:

Per Stumpf, infatti, poiché le Gestalten sono immediatamente date e non costruite, la fusione percettiva di un accordo non è atto di sintesi attiva, ma apprensione diretta di una relazione immanente ai suoni; perciò è indipendente dalla tonalità.413

Vi è in effetti una componente non solo di derivazione wagneriana ma anche positivista nel

primo Schönberg, che si potrebbe ricavare anche dalla precisione meticolosa con cui traccia la corrispondenza tra dinamica dei suoni e oggetti di rappresentazione nello stendere i temi portanti dei suoi poemi sinfonici. Ma sarà questa stessa meticolosità, unita al processo che abbiamo già analizzato, a vanificargli sotto le mani proprio l’“oggetto”, e a lasciargli il suono.

E questo è appunto ciò che divide Schönberg da Hanslick, cioé la scoperta del contenuto del suono. Ma questo è anche ciò che dividerà Hanslick da Nietzsche, che nella Visione dionisiaca del mondo chiarirà precisamente che nell’esperienza della lirica il contenuto che giunge ad espressione

408 E. Hanslick, op. cit., p. 37. 409 Idem, p. 32. 410 E. Fubini, op. cit., p. 140. 411 Idem, p. 152. 412 Idem, p. 155-156. 413 Floriana Cagianelli, Tra fenomenologia e strutturalismo. L’opera teorica di Arnold Schönberg, Perugia (senza ediz.), 1971, p. 44.

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non è dato dal significato delle parole, ma dal loro suono. È su questa base allora che potremo impostare il rapporto tra il Nietzsche della Visione dionisiaca e lo Schönberg del Rapporto col testo.

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Capitolo VII

La natura sonora della parola come punto d’incontro tra Nietzsche e Schönberg. Il rapporto con George.

I. Nei pensieri che Nietzsche dedica al tema della parola si intrecciano una pars construens e una pars destruens. Quando lo sguardo è rivolto alla pienezza d’espressione di cui il popolo greco è stato capace, sono l’eccesso e la sovrabbondanza ad essere visti come genitori della parola: “Un popolo che si è formato in una tale lingua, la più adatta di tutte alla parola [die Sprechbarste] fu insaziabile di parole…”.414

La parola è la potenza, la ricchezza specifica del popolo greco. Nessun altro ha mai coltivato con tale rigore l’eloquenza, nessun altro ha mai fatto un uso così eccessivo della parola. Non è certo la penuria o l’indigenza che può essere all’origine della parola greca:

E si crede realmente di udire nelle sonorità sovrane di una lingua l’eco della povertà che ne sarebbe stata la madre? Non è tutto nato piuttosto nella gioia e nell’esuberanza, liberamente e sotto il segno della profondità dello spirito? (…) Un popolo che ha sei casi e coniuga i suoi verbi con cento forme possiede un’anima totalmente collettiva e traboccante; e il popolo che ha potuto crearsi una tale lingua ha diffuso la pienezza della sua anima su tutta la posterità…415

Questo linguaggio è un’arte, anzi è la prima delle arti e il popolo che la parla è, per elezione,

un popolo di artisti. Ma è un’arte, una téchne. Vale a dire che non è suo compito quello di “dire la verità”, ma di costituirla all’interno della catena di giudizi che le parole, artisticamente, hanno composto. Se le parole, come i numeri e quindi le proposizioni scientifiche, mantengono un rapporto costante con ciò che indicano, e permettono in questo modo lo scambio dei discorsi, ciò consente di usarle almeno finché non si incontra quel limite al di là del quale è svelato il loro carattere arte-fatto.416

In seguito, quando alla scoperta dell’ebrezza creativa dionisiaca subentrerà la “chimica dei sentimenti”, il convenzionalismo della parola apparirà anche nella sua funzione di mediazione universale. Ma, in quanto tale, farà emergere ciò che di mediocre, di piatto, vi è nella parola, ciò che in esso annulla la differenza, la ricchezza originaria, per farsi segno del gregge:

Perché, lo ripeto ancora una volta: l'uomo, come ogni creatura vivente, pensa continuamente, ma non sa; il pensiero che diviene cosciente ne è soltanto la più superficiale e peggiore: infatti soltanto questo pensiero consapevole si determina in parole, cioè in segni di comunicazione, con la qual cosa si rivela l’origine della coscienza medesima (…) la natura della coscienza animale implica che il mondo, di cui possiamo aver coscienza, è solo un mondo di superfici, di segni, un mondo generalizzato, volgarizzato; che tutto quanto si fa cosciente, diventa per ciò stesso piatto, esiguo, relativamente stupido, generico, segno, segno distintivo del gregge…417

414 Friedrich Nietzsche, Corso sull’eloquenza, cit. in Philippe Lacoue-Labarthe, La svolta. Nietzsche e la retorica, in “Il Verri”, nn. 39/40, Milano, Feltrinelli, novembre 1972, p. 175. 415 F. Nietzsche, Leggere e scrivere 1 (fr.), cit. in Ph. Lacoue-Labarthe, op. cit., p. 176. 416 Come poi verrà detto in Umano, troppo umano: nelle determinazioni scientifiche si calcola con grandezze false, ma esse sono costanti e permettono il rigore dei risultati: “…su di essi si può continuare a costruire – fino a quell’ultimo limite, dove le erronee promesse, quegli errori costanti, riescono in contraddizione con i risultati, come per esempio nella dottrina atomica” (Umano, troppo umano, Libro I, af. 19, Milano, Mondadori, lic; Adelphi, (1970, p. 28). 417 F. Nietzsche, La gaia scienza, af. 354, Milano, Mondatori (lic. Adelphi), 1971, pp. 210-211.

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Ma, ancora una volta, è l’artista colui che sembra ricattare questa medietà del linguaggio, e

potrà farlo solo facendosene signore nell’ultimo modo possibile, cioè dissipandolo:

… laddove il bisogno, la necessità hanno lungamente costretto gli uomini a comunicare tra loro, a comprendersi l’un l’altro in maniera rapida e sottile, esiste alla fine un eccesso di questa forza e arte della comunicazione, per così dire una facoltà che si è gradatamente potenziata, e che aspetta ora soltanto un erede che ne faccia prodigo uso ( i cosidetti artisti sono questi eredi, similmente i predicatori, gli oratori, gli scrittori: tutti gli uomini che vengono sempre alla fine di una lunga catena, ogni volta “nati in ritardo” nel senso migliore della parola e, come si è detto, dissipatori per natura).418

Sembra così posta una distinzione tra la lingua della povertà e la lingua della ricchezza, tra

la comunicazione e l’arte. Ma in seguito Nietzsche supererà questa dicotomia: il linguaggio apparirà irrevocabilmente oblio dell’essere, ma proprio per questo fonte di una ricchezza, di un potere totalmente nuovi: nella parola l’uomo crea il suo mondo e se fa signore, l’uomo è l’animale che dà nomi,419 ma solo riconoscendo la frattura iniziale—l’inesorabile convenzionalità delle parole—vi sarà dominio. Non ci si potrà più comportare come gli antichi:

Ovunque i primitivi stabilivano una parola, credevano di aver fatto una scoperta (…) Essi avevano toccato un problema e illudendosi di averlo risolto, avevano creato un ostacolo alla sua risoluzione. Oggi, ad ogni conoscenza, si deve inciampare in parole dure come sassi, eternizzate…420

L’uomo è un “creatore di parole”, ma solo se non darà a queste parole che ha creato una

sostanzialità che non gli spetta, il mondo, come dice Zarathustra, gli si stenderà davanti “come un giardino”. 421 L’uomo comunica, ma senza superare alcuna frattura: “Dolce è che vi siano parole e suoni: non son forse, parole e suoni, arcobaleni e parvenze di ponti tra ciò che è separato dall’eternità?”422 Ma il “Convalescente”, che è la condizione in cui Zarathustra fa questa ammissione, è una ripresa della parola. Accettata l’irrimediabile frattura tra essa e il mondo, essa prelude allo scioglimento nel canto:

… ma l’uccello “saggezza” parla così: “Ecco, non c’è né sopra né sotto! Slanciati e vola: in giro, in avanti, all’indietro, tu che sei lieve! Canta! Non parlare più! Non sono le parole, tutte, fatte per i grevi? Non mentono tutte le parole per chi è lieve? Canta! Non Parlare più!423

Ora, questo scioglimento dell’intero linguaggio nel canto sarà ciò che George cercherà in

Nietzsche, ma senza riuscire a trovarlo:

Quando la fiera e tormentata voce Come un inno si leva nella notte E tra i flutti, dice: cantar doveva Non parlare quest’anima novella!424

418 Idem, p. 209. 419 Roberto Escobar, “Linguaggio e coscienza”, paragrafo di Nietzsche e il tragico, di prossima pubblicazione, p. 51 del manoscritto, consultato per concessione dell’autore. 420 F. Nietzsche, Aurora, af. 47, Milano, Mondadori (lic. Adelphi), 1971, p. 40. 421 “Ich bin nur ein Worte-macher”, dice un frammento dell’autunno 1888, e aggiunge: “che importa delle parole, che importa di me” (F. Nietzsche, Ditirambi di Dioniso e poesie postume 1882-1888, Milano, Adelphi, 1970, p. 210. 422 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Milano, Adelphi, 1968, p. 265. 423 Idem, p. 282. 424 Stefan George, Nietzsche, in Rodolfo Paoli (a cura di), Da Nietzsche a Rilke. La moderna poesia tedesca, Milano, Sansoni-Accademia, 1970, pp.220-201.

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C’è da chiedersi perché George non riusciva a sentire come canto l’invocazione di

Zarathustra, poiché evidentemente lo sentiva ancora come discorso. Il fatto è che George, che mirava all’annullamento nella lirica, e aspirava, e lo vedremo meglio in seguito, a diventare “solo un rombo della sacra voce’, coglie davvero nel segno: il canto di Zarathustra non è affatto uno scioglimento dai limiti della parola. Anche desemanticizzato, ridotto a puro fonema, esso non sfuggirebbe al suo destino, all’oblio e al nascondimento dell’essere. Sempre nel “Convalescente” si legge: “Per me – come potrebbe esistere un al – di – fuori – di – me? Non esiste un fuori! Ma questo noi lo dimentichiamo in ogni suono che emettiamo; com’è dolce che noi dimentichiamo!”425

Qui la prospettiva si dilata vertiginosamente: questo linguaggio ha occultato la differenza originaria tra sé e il mondo per far sì che l’uomo sopravviva, che dimentichi di essere estraneo al mondo, e così facendo ha reso disponibile l’intero spazio, dove non c’è né sopra né sotto, né avanti né indietro, cioè non c’è una direzione privilegiata che indirizzi il gioco linguistico. Ma questa sua azione non lascia nessuna nostalgia dietro di sé, non ha nessun bisogno di essere riscattata. Se ritorniamo all’aforisma della Gaia scienza già citato, comprendiamo come l’artista non sia affatto colui che redime il linguaggio, perché anzi, egli lo dissipa. L’artista sparge il linguaggio sugli uomini, non piange l’indicibile origine perduta. È colui che più di ogni altro diviene cosciente della ricchezza, del potere che sono resi disponibili all’uomo attraverso il linguaggio, ma, conoscendone la convenzione, il patto che ne sta alla base, non lo tesaurizza ma anzi lo dona. E no si creda che questo dono sia la benevolenza dell’“uomo superiore”. Esso non è un atto gratuito: è una necessità che sale dall’“abisso dell’essere”: “Luce io sono: ah, fossi notte! Ma questa è la mia solitudine, che io sia recinto di luce”.426

Chi ha scelto di parlare, chi ha scelto la luce dell’apollineo nella notte dionisiaca ha acquisito contemporaneamente coscienza della propria solitudine:

Ma io vivo nella luce mia propria (…) Io non conosco la felicità di colui che prende (…) Questa è la mia povertà, che la mia mano mai si riposi dal donare: questa la mia invidia, che io veda occhi in attesa e le notti rischiarate dal desiderio. Oh, infelicità di tutti coloro che donano! Oh!, eclisse del mio sole! Oh, brama di bramare! Oh, famelicità nella sazietà!427

Ma chi dona, non dona del suo: dimenticare che il linguaggio non ci appartiene coincide con

la sua feticizzazione: “Il pericolo di colui che sempre dona è di perdere il pudore; chi sempre distribuisce, la sua mano e il suo cuore si incalliscono a forza di donare”.428

Solo dal fondo di questa povertà, di questo destino, può nascere il sì a quella “parvenza di ponte” che è la parola, il sì al discorso: “È notte: ecco il mio desiderio erompe da me come una sorgente – il mio desiderio è di parlare”.429

Questo parlare, che era necessità, si è fatto anche desiderio: solo ora esso esprime, ma esprime se stesso. Non rimpiange la sua in-fanzia, non parla di valori. Se si farà canto, sarà solo per aumentare il potere del suo gioco, non per “salvarsi” dalla medietà-mediocrità della parola, per dissiparsi e non perché la più intensa sonorità del canto possa rimandare ad una espressione più intima, più “personale”, meno sottoposta al “segno del gregge”.430 425 F. Nietzsche, idem, p. 265. 426 Idem, p. 127. 427 Ibidem. 428 Idem, p. 128. 429 Idem, p. 129. 430 Come avevamo già anticipato nel capitolo precedente, non sarebbe peregrino cercare collegamenti tra il “nuovo spazio” del canto che si apre nello Zarathustra, un canto che non ha né sotto né sopra, e la visione del nuovo spazio sonoro, anch’esso “senza sotto né sopra” che Schönberg trova nello Swedenborg riassunto da Balzac e che in seguito concretizza nelle quattro forme della serie (originale, retrograda, inversa, inversa della retrograda) che realizzano appunto uno spazio sonoro dove nessuna direzione è privilegiata rispetto a un’altra. Si pensi a quello che ha scritto Pousseur: la polifonia dodecafonica crea il suo spazio. Accettando l’irruzione di nuove materie accetta che lo spazio è

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II. Questo, dunque, è il senso della ricchezza linguistica del popolo greco. Esso si erge, come “ ultimo nato”, su un fondo incommensurabile di miseria e di bisogno, ma raccoglie in sé tutto il processo di comunicazione, anzi l’eccesso di comunicazione che il linguaggio ha lentamente accumulato in secoli senza storia, e, come popolo artista, fa dell’intera sua lingua l’opera d’arte per eccellenza, non temendo di dissiparla, poiché è questo ormai il destino, la missione storica che gli è rimasta, l’esempio e il magistero che riverserà sugli altri popoli, dalla retorica latina alla predicazione cristiana.431

Le argomentazioni fin qui condotte avevano lo scopo di dimostrare che quando il canto popolare greco, nella tensione del sentimento, cerca l’imitazione della musica, non sta affatto tentando di negare la parola come limitata e volgarizzante, né sta cercando di “redimersi” nella musica. Eppure nel canto popolare la parola cerca “un’espressione analoga alla musica” e subisce una violenza della musica stessa, che a sua volta è produttiva delle strofe che, una dopo l’altra, si allineano sulla base del canto popolare. Ma questo canto è a sua volta trasposizione “della melodia originaria della lingua del piacere e del dolore”. Ora, nella Nascita della tragedia si dice a chiare lettere che la melodia è l’elemento primario e universale. Ma di che cosa? Della musica? Non viene detto. Essa è generatrice della poesia lirica, cioè di quell’immagine di sogno simbolica attraverso la quale la musica ridiventa “visibile”. L’essenza della musica, come vedremo, starà altrove, e precisamente nell’armonia. È quindi all’interno della parola (o meglio, di quel processo che attraverso suono e gesto fa del grido una parola) come compresenza di suono e verbalizzante, che va cercato il conflitto originario tra dionisiaco e apollineo, il contrasto tra ricchezza e povertà, e non in una contrapposizione, che risulterebbe solo astratta, tra musica e parola. Sarà il caso di riprendere il già citato Über Musik und Wort:

Tutti i gradi di piacere e di dolore – manifestazioni esteriori di una causa prima per noi impenetrabile – sono simboleggiati nel suono del loquente; mentre le rimanenti rappresentazioni sono indicate dal simbolo mimico di lui.432

Siccome il fondo originario del piacere e del dolore è uguale per tutti gli uomini, il “sostrato

del suono” sarà generale e comprensibile oltre la differenza delle lingue, la cui origine è quindi la mimica e la cui conseguenza è di costruire il già ricordato testo strofico della melodia del piacere e del dolore.

Consonanti e vocali, senza il suono fondamentale anzitutto necessario, non sono altro che posizioni degli organi della lingua, in una parola gesti -; non appena ci immaginiamo la parola scaturire dalla bocca dell’uomo, nasce anzitutto la radice della parola e il fondamento simbolico-mimico, il suono fondamentale, l’eco delle sensazioni di piacere e di sofferenza.433

libero e il mondo è opaco, cioé che le cose sono sempre di più di quello che si può cogliere in esse (Henri Pousseur, Musica, semantica, società, Milano, Bompiani, 1974, pp. 30-52.). Più stringente ancora apparirebbe il tema nietzschiano della dissipazione del linguaggio con quella che è la vulcanicità singolarissima dell’ispirazione dello Schönberg espressionista. Si confronti con Adorno: “A partire dalle primissime opere (…) questo linguaggio emana un calore specifico (…) continuando a procreare senza inibizioni con una fecondità quasi orientale. Non ce n’é mai abbastanza. L’insofferenza di Schönberg per ogni eccesso di bardatura ornamentale nasce dalla generosità (…) La sua musica, non-wagneriana se altre mai, nasce dall’ebbrezza creativa, non dallo struggimento che ferisce, ed è insaziabile nel dare” (Th. W. Adorno, Arnold Schönberg (1874-1951), in Prismi, Torino, Einaudi, 1972, p.148). 431 Cfr. Ph. Lacoue-Labarthe, art. cit., p. 175. 432 F. Nietzsche, Sulla musica e la parola, cit., p. 4. 433 Ibidem.

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È allora nella radice, nel radicale, in una parola che è prima della lingua, poiché di fatto nella lingua non si dà mai, che va cercata la più pura risonanza delle sensazioni? E a cosa servirebbe questa scoperta, ai fini del nostro discorso? Per rispondere, bisognerà seguire la traccia della Visione dionisiaca del mondo.

L’apollineo della musica è il ritmo, mentre il carattere della musica dionisica, o meglio della musica in generale, sta nella “forza sconvolgente del suono” e “nel mondo assolutamente incomparabile dell’armonia”. È attraverso di esso che si domina “sul caos della volontà che non ha ancora acquistato una figura”. Al necessario occultamento del dolore che opera nelle figure solari degli dèi dell’Olimpo, si oppone Dionisio come dio dell’immediatezza delle sensazioni, dell’intollerabile verità:

Mai però la lotta tra verità e bellezza fu più grande che durante l’invasione del culto di Dionisio: in esso la natura svelava e parlava con terrificante chiarezza del suo decreto, ossia con il suono, di fronte al quale la seducente illusione quasi perdette il suo potere (…) Tutto quello che sino allora valeva come limite e come determinazione di misura si dimostrò a quel punto una artificiosa illusione: l’eccesso si svelò come verità.434

In conseguenza di ciò, la ritmica si disciolse, irruppe la voce strumentale accoppiata agli

strumenti a fiato. E fu a questo punto che venne al mondo l’armonia, “che nel suo movimento fa immediatamente comprendere la volontà della natura”. Come si sa la soluzione, il rimedio che Apollo portò, fu la coabitazione, nel tragico e nel comico, di Apollo e Dioniso. Ma nella riunificazione venne persa la verità. Né il canto, né la danza, né la musica ormai sono la verità colta incosciamente. “La verità ora viene simboleggiata, si serve dell’illusione (…) L’illusione non viene più goduta come illusione, bensì come simbolo, come segno della verità”.435

E ciò che vince la forza dell’illusione e che dispone lo spettatore al simbolo è la musica. È solo dopo aver chiarito il vero ruolo della musica nella tragedia, che non è affatto, come si è visto, un’oasi di purezza originaria alla quale la parola si rivolgerebbe come a un paradiso perduto, ma al contrario uno stretto intrecciarsi di sconnessioni dionisiache e riaggiustamenti apollinei, che Nietzsche passa ad esaminare il vero luogo del conflitto, cioè la compresenza in essa di figurativo e di sonoro, di gesto e fondo tonale (Tonuntergrund). Si è già visto come il gesto, nella parola, fosse costitutivo della sua componente consonantico-vocalica. Il gesto simboleggerà quindi la rappresentazione concomitante: “un’immagine può essere simboleggiata solo attraverso un’immagine”. Ma sarà la mediazione del suono che comunicherà “la comprensione dei moti della volontà come tale”: “Per essere precisi, sono i differenti aspetti del piacere e del dolore – senza alcuna rappresentazione concomitante – che risultano simboleggiati dal suono”.436

La distinzione che ne risulta è decisiva: il simbolismo dei gesti sarà la ritmica del suono, la “quantità mutevole della gioia e del dolore” sarà la dinamica (si ricordi Hanslick), ma la vera essenza della volontà, senza immagini possibili, sarà nell’armonia. Sarà quindi solo dal punto di vista della ritmica e della dinamica che la musica potrà essere elaborata come arte dell’illusione. Ci si può immaginare quale sia il problema che qui si apre: in che misura si può sostenere una visione “musicalista” della parola, se ad essa resta ovviamente preclusa proprio la vera sostanza della musica, cioè l’armonia? Affrontando questo problema, Bernard Pautrat ha proposto l’inserimento di una “legge di impurità” della lingua, che renderebbe spiegabile la contraddizione:

Senza tale distorsione, dinamismi, ritmica e inflessione della lingua simbolizzerebbero soltanto l’immagine e il fenomeno (…) e la Sprache rimarrebbe fuori dalla significanza ottimale e ideale: cosa che avrebbe per conseguenza (…) di confondere tutti gli usi della lingua nella stessa produzione

434 F. Nietzsche, La visione dionisiaca del mondo, cit., pp. 59-62. 435 Idem, p. 69. 436 Idem, p. 73.

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dell’illusione e di togliere ogni specificità a quel tipo di discorso che è parente così prossimo della musica: la poesia lirica. Bisognava dunque produrre questa “contraddizione”.437

E l’impurità che “salva” la lingua è proprio quella di essere “occupata dal suono”, dal fatto

che “... non è possibile ricacciare perennemente fuori dalla lingua ciò che ne costituisce l’elemento primo, e cioè il suo essere vocale, la sonorità della sua voce”.438 Dopo aver detto (e l’avevamo già esaminato) che solo nel grido l’uomo naturale giunge al simbolismo del suono, Nietzsche aggiunge:

Anche le commozioni meno violente della volontà hanno tuttavia il loro simbolismo sonoro. In generale, a ogni gesto corrisponde un suono, ma soltanto l’ebbrezza del sentimento riesce a potenziarlo in un puro accordo sonoro.439

Qui Pautrat nota la necessità di superare la “contraddizione” instaurando una distinzione non

più tra armonia e ritmica ma all’interno della sonorità stessa, tra sonorità pura e sonorità parallela. Questa sonorità parallela del resto corrisponde a dei gesti, quindi rappresenta e riproduce. Assolve la stessa funzione del melodico e del ritmico e quindi è estranea all’essenza della musica. Questa essenza, che poi è l’essenza dionisiaca della volontà, si dà solo nel grido,

... che dunque sta al linguaggio come l’armonia sta alla musica in generale: ne costituisce il lato buono, quello che Nietzsche chiama ancora a questa epoca il suo “naturale”. L’armonia è il naturale della musica, il grido il naturale della lingua...440

Quello che qui viene indicato come naturale prenderà successivamente un carattere

totalmente storico-prospettico. Ma questa trasformazione è resa possibile fin d’ora proprio in forza di quella “legge d’impurità” che, sempre secondo Pautrat,

... impedisce a un segno o a un simbolo di essere assolutamente l’uno o l’altro, dal lato dell’essenza o dal lato del fenomeno, e che articola dunque sempre l’identità e l’alterità nel corpo stesso del segno, una tale articolazione interna darà poi la risorsa di pensare il passaggio da un segno all’altro come un rovesciamento sempre possibile, invece di fissare una volta per tutte i posti e anche i valori.441

Questo chiarimento è premessa necessaria per osservare quella che poi è la realtà della

lingua, così come si presenta. Ancora Nietzsche: “Nel potenziarsi del sentimento, l’essenza della parola si rivela più chiaramente attraverso il simbolo del suono: perciò la parola risuona allora maggiormente”.442

Il grido, qui, si è disciolto nella parola. Il grido è origine del radicale della lingua, non della lingua vera e propria, la quale nasce anche contro il dionisiaco, contro il grido, contro il Tonutergrund. Essa si articola, si dà una traccia e delle regole, ed è solo in questa forma (perché è solo in questa forma che l’abbiamo conosciuta, che la possiamo conoscere) che essa farà risuonare l’eco dell’immediatezza delle passioni e della volontà che ne sono all’origine. Conosciamo la lingua solo nella sua integrazione col gesto, con la rappresentazione concomitante, cioè con la scrittura in primo luogo e con la retorica come conseguenza. Inizia qui il processo di indebolimento della forza originaria della lingua, che la renderà mediatrice universale di ogni singolarità, e quindi delle differenze. Scrive a questo proposito Lacoue- Labarthe:

437 Bernard Pautrat, La voce e il velo, in “Il Verri”, nn. 39/40, cit., p. 199 (Stralcio da B. Pautrrat, Versions du soleil, figures et système de Nietzsche, Paris, Editions de Seuil, 1971.) 438 Idem, p. 197. 439 F. Nietzsche, cit., p. 74. 440 B. Pautrat, art. cit., p. 201. 441 Ibidem. 442 F. Nietzsche, idem, p. 75.

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La ragione è molto semplice: quando la retorica compare, tende a eliminare la musica e a prenderne il posto. Essa distrugge, almeno in parte, quello che, nel linguaggio, non apparteneva propriamente al linguaggio e permetterebbe di “salvare” il linguaggio: la sua natura originariamente musicale, la sua essenza sonora, quello che, nell’esercizio della parola, nell’accentuazione, conserva la forza originaria e dà il potere di esprimere.443 III. Il mutamento di prospettiva dato dall’introduzione della retorica spazzerà via tutto ciò che rousseaouiano e di schopenhaueriano si aggirava nelle tesi che abbiamo qui esposto. Se il linguaggio diviene moneta unica, legislatore universale e universale livellatore, è da qui che ricomincerà l’indagine sul suo potere e sulla sua effettualità. Zarathustra non potrebbe avere “desiderio di parlare”, l’uomo non potrebbe dire di sé con gioia “io sono un facitore di parola” se non sapesse che ogni angoscia di attaccamento all’originarietà delle passioni è solo patetica. La parola simboleggia, ma è solo il simbolo che ha perduto la sua forza simbolica che può appartenere al linguaggio, e solo come tale sarà vera moneta di scambio. Si ripete qui, e forse è questo il suo vero senso, il movimento che non vede Dioniso come “origine” sconfitta da Apollo, ma Apollo che incorpora lo straniero Dioniso. La progressiva scoperta della “originarietà” (originarietà relativa) della retorica ripete l’assimilazione del culto dionisiaco: essa rende impossibile il pensare il linguaggio a partire dall’arte: al contrario si potrà pensare l’arte solo a partire dal linguaggio, cioé da una non-origine, perché il linguaggio stesso è già da sempre una trasposizione, della quale si offre contemporaneamente come modello e applicazione, occultando però l’origine della trasposizione stessa, anzi rendendo impossibile il pensarla.

La retorica è dunque una mostruosità. Il linguaggio nasce contro natura: Apollo è anteriore ad esso, il figlio” viene prima del “padre”. È più che un “rovesciamento”. È un’aberrazione, è l’impossibile stesso.444

Apollo diventa il nome di Dioniso. Questa è la metafora originaria, e Dioniso, qui, non può

che scomparire. “Il dio non muore nella tragedia, ma nella retorica.”445 Per questo nella Gaia Scienza gli artisti appariranno non più come i creatori del linguaggio, ma i suoi prodighi eredi, e per questo i Greci, popolo di artisti, sdegneranno la “profondità”. Essa non è solo irraggiungibile, ma è impossibile, come è impossibile pensare Dioniso prima di Apollo, o il grido prima del linguaggio.446 Già il Corso sulla retorica enunciava tutto ciò con chiarezza: “Non c’è assolutamente naturalità non retorica del linguaggio alla quale ci si potrebbe richiamare: il linguaggio stesso è il risultato di arti puramente retoriche”.447

Stando così le cose, sotto quale luce possiamo riconsiderare le posizioni da cui eravamo partiti? Che la distanza radicale tra Nietzsche e Hanslick, perlomeno sul problema del rapporto tra musica e parola, stia nel fatto che Nietzsche riconosce e indaga il contenuto dei suoni, mentre Hanslick finisce per affidare il contenuto stesso, nella musica vocale, solo alle parole (confondendo così soggetto e contenuto, proprio ciò che rimproverava ai contenutisti) – è cosa sulla quale non è necessario soffermarsi: si è già dimostrata da sé. Piuttosto serve chiedersi che ne è, a questo punto,

443 Ph. Lacoue-Labarthe, art. cit., p. 184. 444 Idem, p. 191. 445 Idem, p. 192. E quando ritornerà, nella terza parte dello Zarathustra, non si chiamerà più Dioniso, ma sarà il “senza nome”. Cfr. Carlo Sini, Semiotica e filosofia, Bologna, Il Mulino, 1978, pp. 152 e sgg. 446 “Oh, questi Greci! Loro sì che sapeva no vivere! Per riuscirvi occorre arrestarci coraggiosamente alla superficie, all’increspatura, alla scorza, occorre adorare l’apparenza, credere alle forme, ai suoni, alle parole, all’intero Olimpo dell’apparenza! Questi Greci erano superficiali – per profondità… (F. Nietzsche, Nietzsche contra Wagner, in Scritti su Wagner, cit., p. 237). 447 F. Nietzsche, Corso sulla retorica 3, cit. in Lacoue- Labarthe, cit., p. 178.

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di questo contenuto, di quel “tono fondamentale” che non può essere confuso, come die Pautrat, “con la semplice vibrazione acustica o la sonorità in generale”, poiché nella separazione della lingua esso “spetta interamente al volere, al simbolismo più profondo”.448 D’altra parte si può ribattere che è solo nella sonorità della parola, precisamente nella “vibrazione acustica” che noi lo sentiamo, anzi che non lo sentiamo, ma sappiamo che vi è stato occultato a posteriori. È lo stesso Pautrat che ci dà la chiave per proseguire, dove dice che “…la parola, articolando il grido a cose fatte, vestendolo della sua forma, firma e sigilla l’impurità irrimediabile della lingua”.449

Se è la parola che è ormai giunta ad articolare il grido, ciò significa che esso si costituisce completamente all’interno del linguaggio. Non rimanda più a un’essenza che gli è estranea e precedente, non più al grido originario della passione, al di qua di ogni possibile individuazione. Non è questo, sic et simpliciter, che viene detto nei testi nietzschiani del ’70 – ’73, ma questa è la via che da essi si diparte. L’impurità essenziale della lingua, il suo essere contemporaneamente rappresentazione della volontà e rappresentazione concomitante, determina così lo spazio del gioco linguistico. Chiedersi che cosa ci sia al di fuori di questo gioco: ecco quello che al linguaggio è precluso. Eppure il linguaggio non parla di un altrove: esso è di questo mondo e il mondo, tutto il mondo, tutta la volontà che vi si esprime, vi è compreso, vi abita, ma come perduto. La precedenza, che non è cronologica ma ontologica, di Apollo su Dioniso, rende impossibile che il linguaggio, uno dei giochi possibili al linguaggio, torni ad essere inteso come privilegiato nel suo rapporto con l’in-fanzia dell’origine. D’altra parte l’infanzia esiste, e non solo come situazione cronologica: il loquente opera una continua irruzione di parole nella lingua: lo scarto temporale-esistenziale in cui l’atto della fonazione dà forma alla parola costituisce il momento eversivo del gioco linguistico, ciò che permette alla parola non di abbattere i suoi confini, ma di oscurarsi, di cessare per una frazione di tempo di essere luce piena (si ricordi Zarathustra, che parla, che dona la parola, ma che ogni tanto vorrebbe essere notte), luce apollinea, e di lasciar intravedere le forme che nel buio le si agitano intorno. Prima che una simile riflessione possa applicarsi ai giochi della scrittura, è la parola parlata ad apparire il luogo privilegiato di questa visionarietà che permane nella lingua. Per questo Nietzsche, in un frammento del 1871, scrive così:

Il linguaggio suggerisce per concetti; è dunque per mezzo di pensieri che nasce la simpatia. Questo gli pone un limite. Ma questo è vero soltanto per il linguaggio scritto obiettivo. La lingua orale è sonora e gli intervalli, i ritmi, l’andamento, la forza, l’accentuazione sono simbolici del contenuto emotivo che si deve esprimere. Tutto questo appartiene anche alla musica. Ma il complesso principale del sentimento non s’esprime a parole. E la parola stessa non fa che suggerire; è la superficie del mare agitato che rumoreggia in profondità.450

Commentando questo aforisma, Cacciari vi ha visto la prova della sua tesi, secondo la quale

la volontà di potenza della parola greca sta nel suo essere Memoria della “parola viva”. Memoria disincantata, coscienza della perdita, non certo nostalgia:

Abbiamo detto della specifica natura musicale dell’aforisma (filosofico-musicale). Qui finalmente ne comprendiamo l’intera portata (…) La natura musicale dell’aforisma è l’espressione più colma di quella Memoria della parola viva – poiché la natura originaria di tale parola è musicale, la sua essenza è sonora. L’ordo retorico non potrà sopprimere questa tensione del linguaggio verso la sua originaria musicalità. E la Memoria rimarrà, per Nietzsche, Memoria per eccellenza della parola viva.451

Ci sembra però che sia il caso di sgombrare il terreno da un equivoco possibile. Dire che il

linguaggio tende verso la sua originaria musicalità non deve significare che il linguaggio aspiri alla 448 B. Pautrat, art. cit., p. 203. 449 Idem, p. 206, corsivo nostro. 450 F. Nietzsche, Frammento del 1871, cit. in Lacoue- Labarthe, p.185. 451 M. Cacciari, Aforisma, tragedia, lirica, “Nuova Corrente”, n. 68/69, 1975-1976, p. 476.

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condizione della musica: si è già visto come l’apparente contraddizione tra musica e parola si sia ramificata nel conflitto, assai più sottile e interno alla parola stessa, tra rappresentazioni gestuali e sonore. Altrettanto bisognosa di ulteriore chiarimento ci sembra la tesi di Pautrat, là dove dice che

… musica imitativa, opera lirica, stile rappresentativo sono i nomi di forme in cui l’impurità si trova regolata a secondo una stretta economia in cui il linguaggio ha la meglio, nella musica, sulla musica; in compenso, la poesia lirica è lo stile più elevato, perché essa significa che la musica, nella lingua, ha la meglio sulla lingua.452

Bisogna invece insistere sull’intraducibilità dei singoli linguaggi, e non per farne un dogma

assoluto, ma per mostrare, e in questo caso è particolarmente importante, che la musica che l’aforisma ricorda o da cui si fa dominare (ma ancora di più la lirica), non è nient’altro che il coefficiente di musicalità che un tempo aveva nome di “lingua del piacere e del dolore” e che ora non ha forse più nome, ma permane nella struttura della lirica, precisamente nella misura in cui la lirica stessa sa raggelare-accendere la violenza che l’irruzione della parola fa nei confronti della lingua. È utile il confronto con l’analisi di F. Masini sulla “musicalità” dello Zarathustra:

Tutto lo stile dello “Zarathustra” si fonda sul presupposto che l’“intraducibile” nel modo della parola diventa “il più comprensibile” e costituisce, come tale, l’articolazione polisemica del discorso affidata agli elementi “suono, forza, modulazione, tempo”, da cui s’irradia una sorta di suggestione ipnotica. Questa tessitura musicale “dietro” la parola è il caratteristico “Hörstil” di cui Nietzsche si rivela maestro attraverso un vasto impiego di tutti gli effetti retorici …453

Ecco che il cerchio si chiude e che la retorica, che aveva distaccato la lingua dalla sua

origine musicale, costituisce ora il serbatoio musicale della scrittura, esattamente per lo stesso motivo per cui il linguaggio non è più praticabile dal punto di vista del dionisiaco ma solo come compresenza metaforica di Apollo e Dioniso. Esiste una musicalità nella e della scrittura, e solo in questo senso è davvero la lirica che più di ogni altra pratica di scrittura ha il compito di mostrarla. Ma non è forse questo il compito che il lirico George sapeva di dover indicare ai giovani poeti, quando scriveva:

Noi dobbiamo sviluppare ancora la plastica del linguaggio; noi dobbiamo creare i nostri strumenti di lavoro, insegnare ai poeti il loro mestiere di artigiani (…) ricordare loro che la parola è musica, insegnare loro che essa ha un contorno, un volume, una massa, un colore, un sapore.454

Cioè la parola è musica in quanto ha un contorno, un volume, una massa, in quanto la sua

musica è data prima di tutto dal suo essere parola. Il lirico che scrive dopo che la retorica si è impadronita del linguaggio sa che ogni rapporto originario è perduto, la “salvezza” della lirica gli verrà dalle sue sole forze, ma sa anche che sono forze bastevoli. Per questo la poesia si farà dura, impenetrabile nella sua struttura di rime e di metri, orgogliosamente “non musicabile” tanto quanto è musicale, sciolta e abbandonata nel suo scorrere puramente verbale. È Lukács che, sollecitato dalla lettura di Das Jahr der Seele, alla domanda sull’essenza di codesta nuova lirica, si era risposto che “sotto il profilo della tecnica, si tratta della prevalenza dell’accompagnamento sulla voce solista – come nella musica”. Questa particolarità costituiva la negazione di quella forma di canto popolare stilizzato che aveva la lirica di un tempo. La sua forma si completava in un canto immaginario e quindi raggiungeva la definitiva completezza soltanto “da un effettivo essere-chiamata”. Così,

452 B. Pautrat, art. cit., p. 208. 453 Ferruccio Masini, Lo Scriba del caos. Interpretazione di Nietzsche, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 258. 454 “Il nous fait developer d’abord la plastique du langage; nous devons créer nos instruments de travail, enseigner aux poètes leur métier d’artisan, leur rappeler que le mot est musique, leur apprendre qu’il a un contour, un volume, une asse, une coloeur, une saveur” (Stefan George, “Revue D’Allemagne”, novembre- dicembre 1928, cit. in Claude David, Stefan George. Son oeuvre poètique, Paris-Lyon, I.A.C., 1952, p. 44).

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quello che ormai “si sentiva” nei versi di Heine o di Mörike, era opera di Schubert o Schumann, Brahms o Wolf.

L’essenza dei nuovi componimenti letterari è di rendere superflua questa musica di accompagnamento, dare alle combinazioni di vocali e di consonanti dei suoni che ci facciano preavvertire l’eco delle cose che soltanto più tardi – o forse mai – dovranno essere espresse, cose che non possono assolutamente esprimersi con parole ma che soltanto col suono delle parole possono essere risvegliate dal loro sonno nell’anima di ognuno. La nuova lirica si produce da sé la propria musica; è al tempo stesso testo e musica, melodia e accompagnamento, qualcosa di concluso in sé, che non ha bisogno di ulteriore integrazione (…) Così doveva accadere. Quei canti divennero definitivi soltanto quando furono cantati – chi oggi scriverebbe per noi una musica del genere?455

IV. Mentre Lukács vergava queste parole, nel 1908, Schönberg stava rispondendo alla sua domanda. Ma, per il senso del nostro discorso, la ragione dell’incontro Schönberg-George viene allargandosi ancora di più. “Cose che solo col suono delle parole possono essere risvegliate”: questo, Lukács trovava in George. “Quando si parla, con il suono e la sua cadenza, la forza e il ritmo della sua risonanza, viene simboleggiata l’essenza della cosa…” Così Nietzsche nella Visione dionisiaca del mondo. Solo ora, a questa svolta dell’argomentazione che costituiva il filo nascosto di tutto il presente lavoro, possono essere illuminate di piena luce le parole di Schönberg citate nel primo capitolo, e di cui si doveva spiegare il senso:

Ma ancor più decisivo di questa esperienza fu per me il fatto di scrivere molti dei miei Lieder nell’ebrezza della sonorità iniziale (Anfangsklang) delle prime parole, senza preoccuparmi minimamente dell’ulteriore sviluppo della composizione poetica, anzi senza neppure comprenderlo nell’esaltazione della creazione, e solo qualche giorno dopo rendendomi ragione del contenuto poetico del Lied. Con mio profondo stupore risultò che mai avevo reso omaggio tanto bene al poeta come quando, trasportato dal primo e immediato contatto con la sonorità iniziale intuivo tutto ciò che da questa doveva, con assoluta necessità, derivare (…) Così avevo perfettamente compreso i Lieder di Schubert e il loro testo poetico, partendo solo dalla musica, e le poesie di Stefan George attraverso il puro suono (aus dem Klang) con una pienezza che difficilmente sarebbe stata raggiunta e certo non sarebbe stata superata dall’analisi e dalla sintesi.456

Questo, dunque, è il nucleo del primo, del più immediato rapporto teoretico che corre tra

Nietzsche e Schönberg: il riconoscimento che nel fatto sonoro vi è un contenuto, autonomo e completo. E non è importante che questo contenuto possa mascherarsi temporaneamente con le definizioni della volontà e dell’immediatezza delle passioni. Esse possono essere più o meno efficaci, transitorie più o meno. Il senso di questo contenuto sta nella sua scoperta e delimitazione, nello svelamento di memoria e intenzionalità che lo abitano, che ne fanno quindi un terreno di linguaggio, ma che rendono problema continuo, continuamente da risolvere, il suo stesso essere un simile terreno.

Negli stessi anni in cui Schönberg lavorava su George, Kandinskij si faceva affascinare dalla forza che la sonorità di una singola parola acquistava nel teatro di Maeterlinck. La parola diveniva così “risonanza interiore”, e questa risonanza derivava solo in parte dalla cosa di cui la parola era nome. Sotto la suggestione ancora intensa del Leitmotiv wagneriano (ma anche delle tecniche del nascente teatro espressionista), Kandinskij osserva che la ripetizione della parola ottiene l’effetto di aumentare la sua risonanza interiore, la quale trae luce appunto dalle “insospettate qualità spirituali” della parola stessa. Finalmente, essa perde il significato “esteriore” della sua denominazione:

455 György Lukács, L’anima e le forme, Milano, Sugar, 1972, pp. 133-134, corsivo nostro. 456 A.S., Il rapporto col testo, in op. cit., p.396.

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E verrà del pari dimenticato perfino il significato ormai astratto della cosa nominata: vien così messo a nudo il puro suono della parola. Questo suono “puro” lo sentiamo forse inconsapevolmente anche nell’accordo con la cosa reale e diventata più tardi astratta. In quest’ultimo caso, però, il suono puro viene in primo piano ed esercita una pressione diretta sull’anima.457

Anche altrove Kandinskij insiste sulla ripetizione, indispensabile per la maturazione dei

sentimenti. Ma non è questo carattere espressivo già determinato nel sentimento che Schönberg ha di mira nell’operazione che compie sui testi georghiani. È in questo senso che i Georgelieder si allontanano dalla “musica d’espressione”. Non perché non siano espressivi: più che un’intenzione, questa risulta essere una conseguenza. Ciò che qui Schönberg indaga è un territorio di significazioni, un campo di significato in cui ciò che conta non è tanto la “perdita dell’esteriorità” ma l’allargamento del potere anche contenutistico del segno. Schönberg rende a George il più alto degli omaggi, trascurando il contenuto prosastico della sua poesia (campo che pertiene alla parola e che la musica non può “dire”) e scontrandosi invece con quel contenuto della composizione poetica che emerge dalla sua propria musicalità. Perché un incontro tra due linguaggi così gelosi dei propri segreti sarà possibile solo tra uguali in potere, cioè partendo dalla certezza che le forme che verranno a scontrarsi non potranno risolversi l’una nell’altra, e precisamente perché sono contenuti da difendere. L’incontro avverrà così al limite. Come Nietzsche che nello Zarathustra dichiarava di voler essere poeta “fino ai limiti della parola”, così il George del Buch der hängenden gärten sperimenta fino alla soglia della frantumazione le possibilità della metrica e dell’assonanza – sforzatura del discorso che non fa che riscaldare al calor bianco il frammento sonoro che viene a esserne ripetuto, uguale in sé eppure ogni volta differente tanto quanto è differente la sua posizione spaziale e l’intervallo temporale che lo fa ritornare all’orecchio:

Sprich nicht immer (Non parlare sempre Von dem Laub, della fronda Windes raub, preda al vento, Vom zerschellen dello schianto Reifer quitten, di mature cotogne, Von dem tritten dei passi Der vernichter dei distruttori Spät im jahr. sulla curva dell’anno; Von dem zittern del tremito Der libellen delle libellule In gewittern nelle tempeste Und der lichter, e dei lumi Deren flimmer il cui barlume Wandelbar. muta incerto.)458

Qui i limiti della parola sono veramente vicini. Non è possibile leggere questi versi cercando

di rimandare la presa della loro sonorità: essa si impone prima di ogni possibile discorso, ma in effetti comprende tutto ciò che la poesia intendeva “dire”, e che può dire appunto perché parla dall’esperienza del limite.

Appartiene alla stessa pratica del ri-ve-lare linguistico il nostro avventurarci “contro le pareti della nostra gabbia”. Citando insieme Nietzsche e Kraus, Wittgenstein può così chiarire che se il linguaggio non naufragasse contro i suoi limiti, non li potremmo sapere e neppure, dunque, potremmo parlare sensatamente al loro interno.459

457 V. Kandinskij, Scritti intorno alla musica, cit., pp. 16-17. 458 Stefan George, in G. Manzoni, Arnold Schönberg, cit., pp. 354-355. 459 M. Cacciari, Dallo Steinhof, cit., p. 49.

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Per George, questa esperienza del limite si costituisce nei problemi teoretici che, a suo tempo, simbolismo e impressionismo avevano generato. Dopo aver bruciato l’esperienza impressionista di “nuovi rapporti tra le cose” nella ricerca di un rinnovamento dei valori formali; dopo aver intravisto una “nuova primitività, dove l’anima e le cose si dovrebbero toccare, in un gioco di simboli che è già pre-espressionista, ecco che la libertà viene rivendicata dall’interno dei soli valori formali. Nel Georgekreis460 si diceva abitualmente che ciò che contava non era il senso ma la forma “... che pure non è nulla di esteriore ma il principio di quella profonda commozione che deriva dal ritmo e dal suono”.461

Così la poesia “prende corpo” nella sfera della parola, e restituisce al suo linguaggio la sua ricchezza di sensi, precisamente quella ricchezza musicale “originaria”, perduta sotto i colpi della retorica ma che solo grazie alla retorica può essere rinventata. Il linguaggio si fa così “materia vivente” e riconquista la sua “vita interiore”, la sua potenza non più solo espressiva e comunicativa, ma evocativa. La libertà poetica consiste dunque nel fatto che l’anima non sta “di fronte” alla realtà ma riconosce nella propria interiore vitalità la propria natura (A. Banfi). Ma il concetto di anima resta ancora troppo pregno di sé, troppo radicato nella sua missione di fondare una nuova realtà: la ricerca disperata di una oggettività, per quanto trasportata nella “rappresentazione interiore”, ipostatizza un nuovo naturalismo, nuove figure che aspettano il loro oggettivo inveramento in una nuova totalità di arte e vita. Lo “spirito di vita” si trasforma così nella figura dell’“Eletto”, retorica che ancora una volta si cela, si maschera nel mito. Maximin, la stella dell’alleanza, il nuovo Reich: metafore di una “astratta sintesi spirituale” (ancora Banfi).

Schönberg non accompagna George su questo cammino. Lo coglie invece nel suo momento più avventuroso, più wanderer, nel senso romantico (la passeggiata di Lenz...) e in quello nietzschiano (il viandante di Umano, troppo umano), dove George cammina lungo i limiti della parola, non nel viaggio di ritorno. Lo scontro coi confini del linguaggio fa sanguinare, diceva Kraus, e si può aggiungere che è nel ritrarsi da questo scontro che più facile si fa la nostalgia di nuovi imperi. Così Schönberg raggiunge George là dove egli è più indifeso. Come ha scritto Adorno, per resistere alla solitudine, alla reificazione, è vano ritirarsi in un elemento che venga ritenuto “proprio” e inalienabile della soggettività; al contrario, il soggetto deve adoperare il linguaggio al fine di tacersi: “Deve per così dire rendersi recipiente dell’idea di un linguaggio puro. È a salvare questo che si dedicano le grandi poesie di George”.462 Proprio per questo non sarà credibile il tono di chi, dal fondo di questa remissione, tenterà in extremis di “salvarsi l’anima”:

George è fatiscente lì dove cerca di esercitare la forza, spacciandosi per autentico e autorizzato (...) Lì dove George si abbandona senza riserve, senza atteggiamenti statuari e consonantemente allo stile floreale, alla caducità del momento suo e di quello storico, ebbe sorte felice...463

Proprio questo floreale, questo liberty dunque, è il materiale di lavoro su cui George può

sperimentare l’inveramento della poesia nella forma, non diversamente da come, in pittura, l’esasperazione klimtiana dell’arabesco sarà uno dei ponti verso l’astrattismo, ma perché la trasformazione si compia è necessario che il materiale sia assunto in tutta la sua serietà: “Il fragilissimo come fortissimo. Questa formula non sarebbe la più sbagliata per indicare lo stile floreale”.464

Il fogliame, le mele cotogne, le libellule che tornano e tutto l’arsenale della figurazione Jugendstil vengono come coperti di lava, fissati, in una rigidissima forma strofica e metrica dove in effetti risulta scomparso, perduto proprio il loro fondo retorico, perché solo il suono di quelle

460 Cacciari distingue molto nettamente il George solitario dal George del Kreis. 461 Antonio Banfi, Avvicinamento a George, in Scritti letterari, Roma, Editori Riuniti, 1970, p. 221. 462 Th. W. Adorno, Discorso su lirica e società, in Note per la letteratura 1943-1961, Torino. 463 Th. W. Adorno, George, in Note per la letteratura 1961-1968, cit. pp. 204-210. 464 Idem, p. 210.

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immagini si ergerà alla sua superficie. Ma qui interviene Schönberg: quanto più la poesia rinchiude il suo “meccanismo”, in un materiale che non si lascia neppure più apparire come tale, tanto più la musica ignora qualunque “approfondimento” di questo segreto, ma anzi si dedica a svellere l’intera superficie. Essa rifiuta il floreale, esecita una forza senza per questo appoggiarsi a nessuna autorità: le analisi minuziosissime di Jan Maegaard hanno dimostrato che il XIV Lied dell’op. 15 è la prima composizione di Schönberg che possa definirsi completamente atematica, quasi una Erwartung alla seconda potenza e prima dell’Erwartung stessa, e non solo perché non vi si trova nessuna melodia riconoscibile, ma perché in esso non si ritrovano nemmeno quei frammenti tematici che invece circolano negli altri Lieder. Possiamo così ampliare il senso di ciò che intende Adorno quando dice che all’atteggiamento spirituale di George la musica di Schönberg è “brutalmente contrapposta” e però congeniale.465 V. Tutto ciò dovrebbe avere sufficientemente dimostrato che, se è vero che qui Schönberg usa il testo come materiale da costruzione, lo rispetta nella sua essenza, nel suo essere “cosa in sé” per la musica, esattamente nel senso in cui Adolf Loos considerava “sacro” il materiale da costruzione per l’architettura. Proprio per rispetto verso il materiale bisognava utilizzarlo fino in fondo, non sprecarne nulla. L’architetto non può dire l’essenza del materiale, il musicista non può dire l’essenza del testo, ma questo non significa che non l’abbia presa in considerazione. Non crediamo perciò che possa ritenersi una contraddizione col discorso fin qui condotto il passo di Composition with Twelve Tones in cui Schönberg, rifacendosi agli inizi del “nuovo stile”, spiega a cosa serviva assumere un testo come materiale per la musica. La realizzazione delle funzioni di interpuntazione musicale che erano sempre state realizzate dall’armonia “difficilmente avrebbe potuto essere assicurata da accordi i cui valori costruttivi non erano ancora stati esplorati”. Le difficoltà parevano insormontabili, se si voleva comporre un brano di vaste dimensioni.

Poco dopo scoprii la possibilità di costruire forme più ampie seguendo il testo di una poesia. La diversa misura e la differente forma delle loro parti, nonché il cambiamento del carattere e degli stati d’animo, si riflettevano nella forma e nella dimensione della composizione, nella dinamica e nel tempo, nella figurazione e nell’accentuazione, nella strumentazione e nell’orchestrazione. Le diverse parti del pezzo risultano così chiaramente differenziate, proprio come era stato nel passato in virtù delle funzioni tonali e strutturali dell’armonia.466

A prima vista sembrerebbe un discorso diverso e perfino opposto a quello condotto nel

Verhältnis zum Text: qui si parla di carattere, di stati d’animo. Ma, a guardar bene, si nota come tutte queste caratteristiche del testo siano assunte qui più che altro nel loro valore dinamico e quantitativo. Sono i cambiamenti che “si riflettono” nella forma della composizione; mai si parla di “esprimere il contenuto” o ricreare nella musica il concetto del testo. Si confronti del resto l’ultima citazione con quanto dice Schönberg stesso nello scritto del 1932, Analisi dei Quattro Lieder Op.22, in cui afferma che continuava a “preferire la composizione di musica su testi poetici”, basandosi in ciò sul suo senso formale ereditato dalla tradizione, anche quando le difficoltà del nuovo stile si erano ormai attenuate. E aggiunge che le composizioni su testo hanno sì implicita la tendenza a farsi determinare da esso, ma più che altro “da un punto di vista esterno”.467

Comunque, se Composition with Twelve Tones non esce dalle tracce del Verhältnis, potrebbe apparire anche come una sua estremizzazione. Certo, qui il testo è “materiale” più che mai, ma sembra non venir riconosciuto nemmeno nella sua iniziale alterità dalla musica: il legno di una

465 Idem, p. 204. 466 A.S., Composizione con dodici note, in Stile e idea, cit., p. 109. 467 A.S., Analisi dei Quattro Lieder op. 22, in Analisi e pratica musicale, cit., p. 148.

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casa, prima di essere legno, è stato albero e, come dice lo stesso Schönberg nella conversazione alla radio di Berlino altrove citata, “un poeta cinese non è solo qualcosa che suona cinese; egli dice pure qualcosa”.

Di fatto, l’interpretazione “quantitativistica” della presenza del testo si è spesso affermata nella letteratura critica, con insistenza sugli aspetti fonetici e fonologici del testo, e con una “indifferenza” più schönberghiana di Schönberg per il “contenuto”. La rigidità di George diventerebbe così, nell’analisi che ne fa Heinz J. Dill, semplicemente complementare allo “scioglimento” che ne opera Schönberg.

Ancora una volta, cioè, il rapporto viene ricercato e ricondotto fondamentalmente nella complementarietà delle opposizioni sintattiche, nell’attrazione dovuta all’opposizione “polare”. Dill giustifica quindi la presenza, la scelta di George, unicamente a partire dall’Espressionismo. George è l’alter-ego, l’altra faccia della medaglia rispetto a Schönberg, perciò vi è attrazione.468

Se questa interpretazione quantitativistica sembrerebbe suffragata dal passo schönberghiano

citato a nota 55, va però fatto notare che in tale passo anche l’armonia appare coscientemente ridotta, ai fini della chiarezza del discorso che lì intende fare, a funzioni di interpunzione. In questa riduzione pratica, episodio del processo di lavorazione, tutti i materiali divengono equivalenti. Quando ormai, nel 1916, il suo distacco dalle poetiche dell’espressionismo è quasi compiuto e attende di concretarsi in opere future, Schönberg torna, con alcune annotazioni decisive, sul problema del materiale. Davanti all’esaltazione che faceva Busoni della libertà e dell’immaterialità della musica, Schönberg risponde con un secco “come ogni altra arte”.469 Posto di fronte al materiale grezzo, da lavorare, l’artista, anche se solo per un momento, sarà simile all’artigiano. E questo per la ragione fondamentale che il materiale non va né sopravvalutato né sottovalutato:

Busoni sopravvaluta, ma Pfitzner sottovaluta di certo il valore del materiale! Quale buon artigiano non si rallegra di un buon materiale, e quale buon musicista non è anche con orgoglio un buon artigiano.470

Solo per un momento però, perché il “metodo artistico” impone, contrariamente al metodo

dell’artigianato, che l’essenza dell’idea (das Wesen des Einfalls) sia una continua scelta (Wahl).471 E così Schönberg si rimette decisamente in riga con ciò che professava Adolf Loos, a proposito della differenza tra arte e artigianato, e contro ogni alibi dell’artista che rifiuta la scelta, chiudendosi nel recinto del “mestiere”.472

Questa digressione si rendeva utile per chiarire come la riduzione del testo a materiale equivalente non sia che un momento del processo creativo. In tale momento il problema del contenuto specifico del testo può momentaneamente esser “messo tra parentesi”, ma solo in via metodologica. La questione può farsi particolarmente spinosa se consideriamo come anche 468 Alessandro Melchiorre, L’opera 15 di Schönberg. Il rapporto tra testo e musica, Tesi di laurea, Università di Bologna, anno acc. 1979/1980, pp.10-11 del Cap. III, consultato per concessione dell’autore. L’accenno a Dill è riferito a Heinz J. Dill, Schönberg’s George-Lieder. The Relationship between Text and Music in Light of Some Expressionist Tendencies, “Current Musicology”, 1974, pp. 91, 95. L’esempio limite di questa tendenza si può trovare in Jerry Mac Dean, Evolution and Unity in George-Songs op. 15, Ann Arbor, University of Michigan, Ph. D; Dissertation, 1971, studio peraltro articolato e interessante, ma dove mai una volta si fa menzione del fatto che nei George-Songs esiste anche un testo. 469 “Wie jede andere Kunst.” (A. S., Anmerkungen, in Ferruccio Busoni, Ästhetik der Tonkust, Frankfurt, Suhrkamp, 1974, p. 62.) 470 “Busoni überschatz, aber Pfitzner unterschätz gewiss den Wert des Materials! Welchen Guten Hanwerker freute nicht ein schönes Material, und welcher gute Musiker ist nicht mit Stolz auch ein gutter Handwerker” (Idem, p. 75). 471 Idem, p. 65. 472 “L’artigiano crea la forma inconsapevolmente. La forma viene assunta attraverso la tradizione e le trasformazioni che hanno luogo lungo la vita dell’artigiano non dipendono dalla sua volontà (…) Diverso è il caso dell’artista. Egli non ha committente” (Adolf Loos, Parole nel vuoto, Milano, Adelphi, 1972, p. 334. Lo scritto da cui è tratta la cit. si intitola Arnold. Schönberg e i suoi contemporanei).

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un’interpretazione così rigorosamente filosofica come quella di Cacciari può cadere nell’equivoco di considerare il testo nella sua funzione di materiale, “Altro”, ma indifferente nella sua alterità. È ben vero che il materiale non si dà che nella retorica, ma la perdita del rapporto semantico di denotazione non mina il potere aggregante della frase, fatto valere anche in opposizione al dionisiaco-trasformato (già da sempre trasformato) della sonorità. Certo, nel Buch der hängeden gärten “… la materia del sentimento non ha più “spazio Utopico” proprio: si è raggelata nella dimensione della forma linguistica”.473

Ma allora è l’artificio retorico stesso che pone il problema della sua cogenza. Non altrimenti vanno interpretate le parole dello stesso George: “’La rima’ – scrisse George in Tage und Taten, ‘è un nudo gioco di parole se in essa, attraverso il puro fatto (den Rein) delle parole collegate, non sussiste nessun legame interiore’”.474

Non diversamente poteva esprimersi Schönberg, quando, contro Busoni, il quale sosteneva che la stessa parola poetica era inferiore all’incorporeità della musica, replicava: “…ma la rima (ecc. no). Le note sono così poco (so wenig) i pensieri, come la rima”.475 Ma non tragga in inganno quel so wenig. Esso non fa che rendere omaggio all’attacco che Busoni sta conducendo contro il concetto e la ragione, con le stesse motivazioni che avrebbe potuto addurre Schönberg (le abbiamo analizzate nel primo capitolo). Il problema è che qui l’incorporeità delle note è equiparata a quella della rima, cioè di uno strumento retorico che presiede al verso e determina la frase. Quello che qui allora entra in campo, e si fa largo accanto alla sonorità, è precisamente la struttura della frase. Non altrimenti crediamo che si possa intendere la “correzione di tiro” che Cacciari ha operato dal paragrafo “Musica e Testo” incluso nel saggio la Vienna di Wittgenstein alla sua revisione che col titolo Musica, voce, testo compare in Dallo Steinhof. Nel primo scritto l’accento era posto quasi esclusivamente sul testo come presenza che mostrava il limite della musica.476 Quello che non viene detto è che questa presenza non è un muro: essa è strutturata, e in modo trasparente e comprensibile. Qualunque sia il rapporto che la musica intraprende con questa presenza, l’occultamento delle caratteristiche semantiche non farebbe che rendere ancora una volta il testo un analogo della musica, un diversivo per l’intelletto immaginativo, come pensava Schopenhauer e come il giovane Nietzsche non accettava già più. Nel testo successivo, è però la presenza semantico-significativa che viene finalmente problematizzata—e, ciò che per noi è ancora più importante, a partire dalla comparsa della voce. Una citazione significativa è già stata riportatta nel primo capitolo,477 ma dopo il discorso che qui si è condotto, possiamo perfettamente integrare questa problematizzazione della voce in un’orbita nietzschiana, sforzando in questa direzione le tesi di Cacciari. A partire da qui, la voce “si complica” con la semantica del testo, testo che non è Logos rimuovente la presenza della voce, come non è nemmeno il suo semplice pre-testo.

Il carattere utopico della voce è qui chiaramente riconosciuto – e tale carattere appare proprio col manifestare l’incoercibile autonomia del testo rispetto alla voce, la irreversibilità del processo che dalla voce conduce per noi al discorso significativo, all’ordine sintattico del linguaggio. Manifestare il “corpo proprio” del discorso significativo comporta la necessità di esibirlo con chiarezza nei suoi termini fonetici e semantici. Su questo scabro terreno soltanto appare la voce. Essa non ha luogo proprio. Ma proprio ciò va mostrato: che il luogo del testo non la esaurisce, che esso non è affatto la sua origine. La voce non è a casa nel testo, ma nel testo soltanto può “andare”.478

473 M. Cacciari, Krisis, cit., p. 148. 474 “Reim”, schrieb George in ‘ tage und Taten”, “ist bloss ein Wortspiel wenn zwischen den durch den Reim verbundenen Worten keine innere Verbindung behstet” (Carl Dalhaus, Schönbergs Lied “Streng ist uns das Gluck und Sprüde”, in AA.VV., Neue Wege der musikalischen Analyse, Berlin, Meseburger Verlag, 1967, p. 410). 475 “Die Töne sind so wenig die Gedanken, wie der Reim” (A.S., Anmerkungen, cit., p. 62). 476 M. Cacciari, La Vienna di Wittgenstein, cit., pp. 83-84. 477 M. Cacciari, Dallo Steinhof, cit., pp. 77-78. Cfr. Cap. I, nota 28. 478 Idem, p. 79.

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Ma il nostro rimando a Nietzsche ci impone di ripensare lo scarto tra suono della parola e parola non più solo nei termini di compresenza di rappresentazione della realtà e rappresentazione concomitante. Non solo ciò sarebbe impossibile dal punto di vista della predominanza effettuale della retorica, ma anche partendo dalla semplice constatazione che non si dà grido se non trasformato dalla parola, e che non si dà parola se non in una catena di parole. E per chiarire questo basta ritornare alla Visione dionisiaca:

Con la successione delle parole, cioè con una catena di simboli, deve venir rappresentato simbolicamente qualcosa di nuovo e più grande: in questa elevazione a potenza, diventano nuovamente necessarie la ritmica, la dinamica e l’armonia. Questa cerchia più ampia domina ora quella più ristretta della parola singola: si rende necessaria una scelta delle parole, una nuova disposizione di esse, e comincia la poesia. Il recitativo di una frase non consiste in una successione ordinata dei suoni delle parole: una parola ha infatti unicamente un suono tutto relativo, poiché la sua essenza, il suo contenuto rappresentato dal simbolo, è differente a seconda della sua posizione. In altri termini, in base all’unità superiore della frase e dell’essenza da essa simboleggiata, il simbolo individuale della parola viene determinato continuamente in modo nuovo.479

“L’unità superiore della frase”, cioè il concetto, è quindi ciò a cui ogni rappresentazione di

volontà, ogni grido e ogni immagine sono destinati. Quale rapporto potrà allora instaurare la musica con esso?

Il pensiero tuttavia, se è pronunciato – cioè il simbolismo del suono – agisce in modo incomparabilmente più forte e più diretto. Se, cantato, esso raggiunge il culmine del suo effetto, quando il melos costituisce il simbolo comprensibile della sua volontà: se tale non è il caso, la successione dei suoni agisce su di noi, e la successione delle parole, ossia il pensiero, ci rimane lontano e indifferente.480

Nella trasparenza, quindi, della trasformazione che la musica opera sul testo sta la possibilità

che il contenuto emerga nella sua interezza, cioè oltre il momento iniziale della sonorità. Aggiunge Cacciari:

Laddove la musica o segua il testo, o laddove lo esaurisca in sé come indifferente veicolo di voce, questa diversità non può apparire. Esiste, allora, soltanto l’ordine del linguaggio musicale, e il rapporto tra di esso e l’utopia della voce. Allorché, invece, la presenza del testo si fa presenza semantica pregnante, il rapporto tra questa presenza e quella del linguaggio musicale è il rapporto tra due autonome forme di apertura del mondo.481

Tutto questo processo è completamente percorribile nei Georgelieder, dove l’attenzione al

contenuto della sonorità non appare che l’atomo di un processo di individuazione semantica cogliente il procedere del concetto precisamente nelle sue più alte unità di verso e frase. La musica di Schönberg è una vera e propria esegesi del testo georghiano, e tanto più perché non lo giudica, ma semplicemente lo mostra, lo “smaschera”, per usare l’espressione di Stuckenschmidt.482 E lo smaschera tacendo, rifiutando al pianoforte la consolazione di accompagnare il testo dove più nudo deve apparire il cuore della contraddizione georghiana di parlare ancora della natura dopo averla totalmente urbanizzata, ridotta a parco, hortus—giardino pensile, appunto. Nel XIII Lied, il pianoforte si arresta tutt’e due le volte in cui la voce pronuncia l’immagine dei salici. Nell’XI, ai

479 F. Nietzsche, La visione dionisiaca del mondo, cit., p. 76. 480 Idem, p. 76. 481 M. Cacciari, Dallo Steinhof, cit., p. 80. 482 H. H. Stuckenschmidt, Schönberg, cit., p. 109.

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versi “Ich erinnere dass wie schwache rohre / Beide stumm zu beben wir begannen”,483 il pianoforte si interrompe su beben. Cacciari ha commentato:

Che cosa più Jugend di queste canne tremanti? Ed ecco come in Schönberg questo tremito si ricompone nel metro perfetto del verso, al di là di ogni possibile intuizione o immagine – si trattiene nel disegno di un’unica linea che voce e piano autonomamente perseguono.484

Ehrenforth, dal canto suo, ha così analizzato il passo:

Fine battuta 14 / Inizio battuta 15: sol (invece di sol diesis) – do diesis – sol diesis. Per mezzo del fatto che poco prima il sol diesis aveva risuonato proporzionatamente a lungo sulla parola accentata “schwachen”, e sta in una coerenza di senso con la del pari accentata “Rohre”, le note re e sol ricevono in un certo qual modo un significato solo accessorio. Il motivo delle quarte si chiude in una evidente unità.485

Quand’anche il pianoforte taccia, e qui del resto non tace ancora, la voce non si lascia

sfuggire nemmeno per un attimo la coerenza delle immagini. Il dirle con la più fredda chiarezza significa appunto che non si può far altro che dirle, poiché ogni corrispondenza reale con la natura che simboleggia è perduta. Sempre Ehrenforth, a proposito del II Lied, che dopo aver descritto (o meglio, nominato) ciò che è presente nel giardino, chiude con “Doch mein traum verfolgt nur eines” (Ma il mio sogno persegue solo una meta), nota che l’Eines dell’ultimo verso porta il peso delle più lunghe note dell’intero Lied e riprende il motivo del canto all’inizio. Ma questa ripresa era stata già preparata dal pianoforte alla battuta otto. Il motivo iniziale, che si ripete più volte, non compare, secondo Enrenforth, solo per preparare la ripresa.

La gioia per la natura, che si mostra all’occhio che osserva, dura solo un breve sguardo. Nel subcosciente si agita la spina, l’antica Sehnsucht: “Doch mein traum Verfolgt nur eines”. La gioia per la natura e la coscienza che essa non può essere lo scopo del desiderio, si mescolano nella battuta otto nel più artisticamente pregno dei modi.486

Ma la più completa illuminazione che la musica di Schönberg riversa sul testo geoghiano

sta, a nostro parere, nel finale del VI Lied, dove il pianoforte, ancora una volta, lascia sola la voce sull’ultimo, definitivo verso:

Solo questo nel mondo è necessario nel piangere che sempre fuggono le immagini che in belle tenebre fiorivano quando il freddo mattino chiaro minaccia.487

La luce del linguaggio annienta le immagini che l’hanno nutrito. In questa luce rimane

uguale a se stesso. Perde anzi di senso pretendere che si possa essere se stessi. Resta lo spazio 483 “Io ricordo che come deboli canne / Entrambi muti cominciammo a tremare.” E si sta parlando di ciò che avvenne quando infine gli amanti restarono soli nel giardino: il compimento amoroso è celato (e l’indicazione è di George) nella cesura che segue la nona poesia, cioè è taciuto, e ciò che ne resta è questo ricordo. 484 M. Cacciari, La Vienna di Wittgenstein, cit. pp. 88-89. 485 “Ende Takt 14/ Anfang Takt 15: g (statt gis) – cis – gis -. Dadurch, dass auf den betonten Wort ‘schwachen’ kurz vorher das ‘gis’ verhältnismässig lange erklungen war und mit dem ebenfalls betonten ‘Rohre’ in einem Sinnenzusammenhang steht, erhalten die Töne ‘d’ un ‘g’ gewissermassen nur akzessorische Bedeutung. Das Quartmotiv schliesst sich zur fassbaren Einheit zusammen…” (K. H. Ehrenforth, Ausdruck und Form, cit., p. 82.) 486 “Die Freude an der Natur, die sich dem betrachtenden Auge zeigt, währt nur einen kurzen Augenblick. Im Unterbewusstsein rührt sich der Stachek, die alte Sehnsucht: ‘Doch mein traum verfolgt nur eines.” Freude an der Natur und das wissen, dass sie doch nicht das Ziel der Wünsche sein darf, mischen sich ab Takt 8 in kunstvoller Weise” (Idem, p.. 32). 487 Trad. di Leone Traverso, in G. Manzoni, op.cit., p. 352.

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grigio di un linguaggio da cui le immagini naturali sono fuggite, smarrite nel salto della loro orbita gnoseologica. Così Nietzsche scriveva nel 1873:

La “cosa in sé” (…) è inafferrabile anche per chi costruisce il linguaggio e del tutto indegna dei suoi sforzi. Essa designa solo le relazioni delle cose con l’uomo e per esprimerle chiama in suo aiuto le metafore più ardite. Uno stimolo nervoso trasposto innanzitutto in un’immagine: prima metafora! L’immagine poi rimodellata in suono: seconda metafora. E ogni volta si ha un cambiamento totale di sfera, un salto in una sfera nuova e completamente diversa.488

Questa concezione glacialmente nominalistica afferma non solo la rigida non co-

appartenenza di linguaggi diversi a più di una sfera, ma anche, in embrione, il superamento della concezione dionisiaca della musica: qui vi è un’immagine che si rimodella in suono, il rapporto si è rovesciato, con un movimento parallelo a quello che abbiamo esaminato nella retorica. Queste nette scansioni di campo nietzschiane si fanno finita e compiuta nostalgia in George, ma è una nostalgia che tende già verso l’assoluta memoria. Essa non piange passati (le belle immagini fuggono da sempre), ma trasforma la lirica nell’unico discorso che è possibile articolare su di esse immagini. Non vuole più persuadere che nel suo metro le immagini siano ricomprese; dice solo che quel metro è l’ultimo spazio possibile per pensarne la mancanza. L’espressione che ne risulta non si proietta verso le cose: è anzi attentissima a costruirsi le sue regole. Ancora Nietzsche: “Le varie lingue messe l’una accanto all’altra stanno a dimostrare che per le parole non conta mai la verità, ma l’adeguatezza dell’espressione”.489

Ma l’adeguatezza di questa espressione non è basata su un rapporto tra coscienza e cose, bensì sull’esperienza del tramutarsi della verità in persuasione. Come scrive Lacoue-Labarthe:

… nella “esperienza” del pithanon [il persuasivo], la cosa scompare: “al suo posto” si ha una marca [Merkmal]. Per questa ragione il linguaggio designa, ma nel senso che nota [auszeichnen, bezeichnen] che marca, sostituendo. “Significa” impropriamente, connota e non denota.490

La perdita del potere denotativo della lingua: questo è il contenuto delle estenuate “frasi”

della lirica georghiana: una vicenda che si consuma senza né dramma né tragedia possibili a redimerla o a renderla più che strenuamente formulabile. La musica non interviene su questo disvelamento che il linguaggio verbale compie su se stesso. Ma la voce lo canta. Lo può cantare perché esso appare ancora nella forma di un’immagine. Non si creda che la voce possa ritornare sui percorsi a senso unico che separano le sfere dei linguaggi. E non è più essa che può rendere memoria la parola: essa rende comprensibile la tensione immaginativa che permane nel testo, attraverso il canto, ma non perché il canto porti con sé il linguaggio della “natura” della voce, ma al contrario come totalità dei suoi artifici. Assolutamente liberato da ogni dover-essere, il canto può allargare “fino agli estremi limiti” il suo sguardo, fino a riguadagnare il momento dell’esclamazione, l’integrazione col parlato, e infine il grido. VI. Lo Sprechgesang, dunque. Ma lo Sprechgesang sarà all’opposto di ogni Urschrei. Il grido della natura, che Munch “sentiva” nelle sue litografie, si è completamente ritratto nella vastità del terreno reso disponibile al linguaggio. Sotto questo aspetto, vi è qui una distanza radicale dal Nietzsche che nella Visione dionisiaca del mondo sperava ancora che l’unione della parola col simbolo del suono potesse recuperare il potere originario del grido, prima della presa di potere della retorica: “… il

488 F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, in Il libro del filosofo, Roma, Savelli, 1978, p. 74. 489 Ibidem. 490 Ph. Lacoue-Labarthe, art. Cit, p. 180.

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recitativo [der Sprechgesang] è per così dire un ritorno alla natura: il simbolo, che si ottunde con l’uso, ritrova in tal caso la sua forza originaria”.491

Ma nessun simbolo resiste all’uso: il naturalismo del parlato ritmico basato sulla quantità diviene ben presto, all’epoca di Schönberg, il punto debole del classicismo salmodiante.492 La soluzione di Schönberg è invece radicalmente anti-simbolica e anti-naturalistica: nella prefazione al Pierrot Lunaire si legge che l’esecutore deve essere

... scrupolosamente cosciente della differenza che corre tra “tono cantato” e “tono parlato” (...) L’esecutore deve però guardarsi bene dal cadere in un tipo di parlare “cantato”. Non è a questo che noi tendiamo; non si ha certo di mira un modo di parlare realistico-naturale. Al contrario, deve essere ben chiara la differenza fra il linguaggio comune ed un linguaggio che operi in una forma musicale, ma esso non deve neppure richiamare alla mente il canto.493

Eppure lo Sprechgesang non è affatto la soluzione del rapporto testo-musica. Se ogni forma

della manifestazione della parola-suono si è ritratta nel linguaggio, ciò significa il consolidarsi di una equivalenza: tra grido e concetto non c’è salto di qualità, poiché entrambi valgono, in ultima analisi, come metafora. Lo Schrei denaturalizzato, il canto antinaturalistico non hanno nessun potere da rivendicare o nessuna modernità da usarsi come bandiera nei confronti del canto vocale tradizionale. È così che lo spasmo dell’Urschrei di liberarsi dai suoi lacci e pronunciarsi in assoluta libertà, ha messo capo al ritorno di una nuova fenomenicità semplice. Facendosi segno per meglio colpire e in più luoghi, il grido è rimasto segno, e non è più nient’altro.

È chiaro che a questo punto occorrerebbe una revisione del concetto di espressività. I problemi espressivi che si pongono a Schönberg dopo il Pierrot Lunaire hanno ormai trasceso il clima dell’Expressionismus, e pongono interrogazioni storiche ancora più radicali. Qui sarebbe agevole ritrovare Nietzsche, e non più il Nietzsche del 1871, bensì quello dell’aforisma 217 di Umano, troppo umano, che si pone il problema dell’intellettualizzazione e simbolizzazione progressive dell’opera d’arte non molto diversamente da come Schönberg riaffronta il problema del “carattere espressivo della musica” nei suoi Fundamentals of Musical Composition; ma più inevitabile ancora apparirà la riassunzione che pone questioni mille miglia al di là di quella che è stata l’analisi tradizionale di opere come il Moses und Aron: non vi è nulla di più banale che vedervi rappresentato il venerando contrasto di pensiero e azione. Nel Moses sono due le filosofie e le tecniche politiche che si scontrano: Aronne, il tecnocrate, l’utopista, colui che promette la terra promessa e vi crede, canta; Mosé, anti-utopista, guida di una religione di pensatori, che rifiuta la terra promessa come rifiuta che il linguaggio possa giustificare delle immagini, non canta. I termini si sono quindi spostati dal conflitto interno alla parola all’intero soggetto dell’opera. La soluzione data ai tempi di George e del Pierrot, di una musica che doveva innanzitutto sapere come e in che misura prenderne le distanze, si ritroverà completamente innervata nel tessuto che va dal Moses all’ultima opera di Schönberg, l’incompiuto Moderner Psalm.

491 F. Nietzsche, La visione dionisiaca del mondo, cit., p. 75. 492 Cfr. L. Nono, Text-Musik-Gesang, cit., p. 46. 493 A.S., Vorwort, in Pierrot Lunaire, Wien Universal Edition, 1914, cit. in L. Rognoni, op.cit., p. 65. E Rognoni precisa che “tra immagine poetica ed espressione sonora non v’è rapporto interpretativo, ma diretta concomitanza”. Si noti inoltre che Schönberg aggiunge: “Gli esecutori non devono tentare di dar forma ed espressione allo spartito o al carattere dei singoli pezzi, basandosi sul senso delle parole, ma sempre e soltanto ispirandosi alla musica. La rappresentazione pittorico-tonale degli avvenimenti e dei sentimenti esposti nel testo si trova senz’altro nella musica, nella misura in cui è stata sentita necessaria e importante dall’autore” (ibidem). Quel “nella misura in cui” non è solo una frase di comodo, ma rivendica precisamente la libertà di utilizzare, del testo, solo il materiale necessario a realizzare una musica, e non la musica di quel testo. Il rapporto è sempre di pensiero. Non diversamente va letta l’“Autocritica”, un breve scritto posteriore di molti anni e che comparirà in Style and Idea col titolo “È colpa mia”. Là viene detto precisamente che tutti coloro che hanno pensato che fosse possibile scrivere musica con testi dove la musica fosse indifferente rispetto al testo, o diventano inepressivi come giocatori di poker, o nel migliore dei casi avevano frainteso le sue posizioni.

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“Da un certo momento” – scrisse Schönberg nell’ottobre 1932 (lascito) “George non mi piacque però più”.494 George era stato il ponte, la “parvenza di ponte” che aveva condotto Schönberg in altre terre. Non solo momento di transizione, però. Anzi un completo, e in qualche misura definitivo, rinnovamento estetico.

Con i Lieder da George mi è riuscito per la prima volta di avvicinarmi ad un ideale di espressione e di forma, che mi aleggiava davanti da anni. Per realizzarlo mi è mancata fino ad ora forza e sicurezza. Ora però che ho iniziato questa via definitivamente ho la coscienza di aver spezzato tutte le barriere artistiche di un’estetica passata...495

L’estetica passata di cui qui si annunzia il superamento non è identificabile completamente

con il tardo romanticismo, né con le primissime tumultuose affermazioni dell’espressionismo. Il senso della trasformazione avvenuta sta piuttosto nel nuovo rapporto testo-musica che coi Georgelieder si instaura, in quanto questo rapporto non è che la messa in pratica di un completo atteggiamento teoretico. Per meglio chiarire questo passaggio sarà opportuno confrontare brevemente l’ipotesi che siamo venuti svolgendo fin qui con un’interpretazione ormai classica dell’espressionismo schönberghiano, cioè quella fenomenologica di Luigi Rognoni. Trattando del Das Verhältnis zum Text, Rognoni afferma che l’importanza data da Schönberg al suono iniziale della parola si pone in relazione intersoggettiva con la parola: esso è in effetti “l’essenza nascosta” della parola che viene a rivelarsi alla coscienza intenzionale del musicista. Tutto questo viene messo in relazione con ciò che Husserl chiama, nelle Logische Untersuchungen, “sinnliche und Kategoriale Aschauung” vista sensoriale e categoriale. La sinnliche Anschauung come percezione sensibile che dall’osservazione esterna porta all’osservazione interna e la Kategoriale che consiste “... nel “vedere” immedesimandosi in ciò che si osserva e quindi nel ricreare in sé ex novo l’osservato e il percepito”.496

In questo caso la compiutezza del testo poetico si porrebbe in relazione intersoggettiva col musicista che “vedrebbe”, all’interno del testo, non solo l’immagine poetica, ma anche “al di là dei limiti della parola”:

È come un ritrovarsi e un riconoscersi, e da questo riconoscimento intersoggettivo nasce il “dialogo” che si manifesta in una nuova creazione artistica (...) Ma bisogna sottolineare che qui si tratta di un vero rapporto intersoggettivo, non metaforicamente inteso, ma vissuto come presenza reale e “corporale” (Leibhaft). Lo è già nel senso della operazione “comunicativa” indicata da Schönberg, quando parla della “lettura” dei Lieder di Schubert...497

I meriti dell’interpretazione fenomenomogica di Schönberg sono stati molti. Non si può non

vedere però come oggi, davanti ad acquisizioni più recenti, anche se ancora in buona parte da esplorare, essa appaia non tanto fuorviante o criticabile quanto esaurita. Positivamente esaurita, perché ciò che ha messo in luce non può essere accantonato – e, del resto, le componenti fenomenologiche di opere come la Harmonielehre non sono negabili.

Ma queste componenti convivono in Schönberg insieme ad altre tendenze, di cui in questo lavoro abbiamo cercato di tracciare una parziale genealogia, e che possono più facilmente e più fruttuosamente essere collegate con i contemporanei problemi di filosofia del linguaggio che si agitano nella Vienna dell’inizio del secolo, e che trovano in Nietzsche la spesso inespressa matrice comune. Col passare del tempo, ed evolvendosi sempre di più il linguaggio schönberghiano, saranno questi gli influssi predominanti, in singolarissima convivenza con il portato della mistica ebraica: l’intero Moses und Aron è un trattato di filosofia politica del linguaggio, che si gioverebbe molto di un’interpretazione alla luce non solo di Nietzsche ma anche di Heidegger. La relazione 494 A.S., in Catalogo della mostra, cit., p. 50. 495 A.S., Prefazione a un programma di sala, 1910; idem, p. 50. 496 L. Rognoni, Fenomenologia della musica radicale, Milano, Garzanti, 1974, p. 220. 497 Ibidem.

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intersoggettiva che Rognoni vede instaurarsi tra testo e musica nel Verhältnis non è sufficiente a spiegare la novità del rapporto, il coefficiente di presenza semantica e di portata sonora che la parola si trova ad assumere. Più che vedere “oltre” i limiti fonetici e semantici della parola, Schönberg vede esattamente i limiti: non vi è, nei Georgelieder, immedesimazione in e ri-creazione di ciò che Wagner (nel Beethoven) aveva definito come interpretazione del “concetto generale” della poesia: un rapporto che vede il contenuto del testo precedente a quello della musica. Nei Georgelieder vi è un “contenuto formale” autonomo che sceglie un testo poetico per misurare su di esso le proprie forze, il proprio spazio di dominio, e sceglie un testo che già per conto suo si era scelto questi problemi. Quindi George, e non più il naturalismo simbolistico di Dehmel, ma qui è Dehmel il nome chiave, perché è a quest’ultimo, e ai Lieder che Schönberg ne trasse che potrebbe essere ricondotta la tesi di Rognoni.

L’osservazione, l’immedesimazione e la ricreazione dell’osservato corrispondono infatti al modo in cui Schönberg affrontò i testi dehmeliani, prima dell’impatto contro i limiti del linguaggio, prima della decisione, avvenuta con la sospensione della tonalità, di riverificare questi limiti, e che trova una formulazione nella lettera, che già si era citata, in cui Schönberg dice a Dehmel che le sue poesie “... per prime mi spinsero a cercare una nuova tonalità nel Lied, meglio, la trovai senza cercarla, limitandomi a rispecchiare nella musica ciò che i suoi versi suscitavano in me”.498

Questa, dunque, è l’estetica che Schönberg sente di aver superato coi Georgelieder, precisamente l’estetica del “concetto generale” e dell’espressione del sentimento suscitato dal testo. Nel conflitto assolutamente paritetico tra due contenuti irriducibili l’uno all’altro e affini, se mai, nella costituzione della loro irriducibilità, si stende il nuovo spazio, popolato di nuove regole e nuove libertà, quello spazio che, come ha scritto Pierre Boulez con in mente il Pierrot, andava dall’estremo della convenzione pura all’estremo opposto del linguaggio parlato. E, sempre per citare Boulez,

... se scelgo il poema per inserirlo come fonte di irrigazione della mia musica e creare con questo fatto un amalgama tale che il poema si trovi “centro e assenza” del corpo sonoro, allora non posso limitarmi ai soli rapporti affettivi intercorrenti fra queste due entità; allora un tessuto di congiunzioni si impone e comporterà fra l’altro i rapporti affettivi includendo però tutti i meccanismi del poema, dalla sonorità pura al suo ordinamento intelligente.499

498 A.S., lettera a R. Dehmel del 13 dic. 1912, in Lettere, cit., p. 77. 499 Pierre Boulez, Suono e verbo, in Note di apprendistato, Torino, Einaudi, 1968, p. 56.

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Conclusione

Espressione e significato dopo il superamento dell’espressionismo Eppure Schönberg supera anche George. I Vier Lieder op. 22 iniziano ancora con una sua traduzione (la Séraphîta, ancora una volta, da Ernest Dowson) ma continuano con Rilke. Il mutamento di tono è brusco, e la musica non lo attenua di certo. Che cosa trova Schönberg nelle preghiere dello Stunden-Buch di Rilke, che non poteva trovare in George? La risposta ce la dà ancora la prima opera georghiana, il Quartetto op. 10. Entrambi i testi che compaiono nel terzo e nel quarto movimento sono tratti da Der siebente Ring, del 1907, quindi contemporaneo alla messa in musica di Schönberg. Nel libro, Eingang, l’ingresso nel magico giardino, nell’hortus conclusus del sogno, segna l’interruzione del verseggiare del vate. George ritrova la sua natura cittadina e assoggettata, dove il poeta si aggira sempre straniero, e ritrova il dolore per la morte di Maximin: ma la poesia che ne sorge, Entrückung, segna il distacco da ogni simbolismo soggettivo, da ogni soggettività:

In circoli mi sciolgo, in lume, in suono e senza brama al fervido respiro in lode pura grato m’abbandono (…) Di là rapito della nube estrema nuoto in un mar di cristallina luce una favilla io ormai del fuoco sacro, io sono un rombo della sacra voce.500

E nella successiva Litanei, il tono “selvaggio e febbrile”, come lo definisce Mittner,

“…purifica la passione in un senso di elezione religiosa che resta tuttavia ancora e sempre quella medesima passione sensuale”.501

Nel cuore braci ardono ancora nell’intimo fondo ancor veglia un grido… Uccidi la brama, chiudi la ferita! Toglimi l’amore, dammi la tua felicità.502

Essere “solo un rombo della sacra voce”: cioé consegnarsi alla lingua, perdervisi. Ma è una

perdita avvertita con paura angosciosa, in cui il sentimento fa emergere contenuti da esprimere, passioni da simboleggiare, e si oppone all’ascesi. Ecco quindi la preghiera ultima possibile, la “felicità senza amore”, quella felicità del linguaggio puro che è concepita qui unicamente nella forma del distacco dal “mondano” e che resta inesaudibile, appunto perché il suo esaudimento verrebbe a coincidere con una nuova conciliazione, una nuova separazione gerarchica tra puro e impuro. Perché è proprio questo che George qui vuole: purificarsi, salire “dall’impuro al puro”, non avvertire più come perdita irrevocabile ma inevitabile l’esaurita forza denotativa del simbolo, della metafora.

Schönberg reagisce a questa ascesi “impura”. La critica, non solo con la decostruzione del testo sottoposto alla variazione tematica, ma anche, più generalmente e immediatamente, invertendo l’ordine. Così, prima viene Litanei, l’implorazione che l’impossibile purezza scenda come grazia, e 500 Stefan George, Entrückung (Rapimento), trad. di L. Traverso, in G. Manzoni, Arnold Schönberg, cit., pp. 347-348. 501 L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, cit., Vol. III, parte II, tomo I, p. 969. 502 S. George, Litanei (Litania), in G. Manzoni, op. cit., p. 346.

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poi Entrückung: accettazione serena, “disincantata e scettica”, del nuovo spazio (la sospensione della tonalità, qui per la prima volta) che si apre, il nuovo spazio del linguaggio potente, articolato e comprensibile, non “inespressivo”. “Essere un rombo della sacra voce” significa allora accettarsi, bruciati i residui, cessati i rimpianti, all’interno del nuovo linguaggio. Inevitabile sarà allora, col col passare del tempo, l’allontanamento da George – il George che cerca nuovi regni. Rilke apparirà allora come l’ultima e decisiva transizione verso le grandi riflessioni sul linguaggio come sistema di potere che occuperanno il Moses. Le preghiere rilkiane che Schönberg mette in musica (n. 2 e n. 3 dell’op.22) sono totalmente, assolutamente “disincantate”. Esse non chiedono nulla, tranne che di abitare il mondo, questo mondo:

Mandami nei tuoi paesi spogli Percorsi dall’ampio respiro dei venti (…) Là mi accompagnerò coi pellegrini non separato più dalle lor forme e voci per nessun inganno.503

Altre, ormai, sono le angosce. Vorgefühl, ultimo dei Vier Lieder, è la perfetta solitudine di

chi, stando di vedetta, si contorce nell’uragano assai prima che gli altri sappiano di esserci vicini. “Io sono solo un precursore”, scrive Schönberg da Mödling, nel maggio 1923504: il nuovo spazio è fino ad ora, deserto. E nel Moses sarà il deserto. Per Egon Winkler, la validità poetica di George come di Morgenstern, stava “…non già nel padroneggiare la lingua, sibbene nel sottomettersvisi”.505 E Karl Kraus di rincalzo: “È uno che domina la lingua tedesca – questo va bene per il commesso. L’artista è un servo della parola”.506

Schönberg però non segue questa strada. Non si fa servo, né della parola né dell’idea, perché ne riconosce il concreto incarnarsi, sempre mutevole e sempre modificabile, nei sistemi estetici come in quelli politici. Alla parola, come alla serie delle dodici note, si obbedisce, ma da questa obbedienza nasce la massima libertà: “Un compositore è naturalmente guidato dall’ispirazione; ma non deve essere schiavo delle sue idee, e deve piuttosto esserne padrone”.507

Certo, il Pierrot Lunaire è l’abbandono dell’io, e la Jakobsleiter porta “imparare a pregare” come motto – atto che richiede sottomissione delle pretese dell’ego,508 ma se la sintesi non si realizza, né nella Jakobsleiter né nel Moses, ciò si deve alla dislocazione, allo spostamento di significati che la parola può operare su ogni sistema—anche nel suo essere consegnata all’atto del loquente. Il linguaggio non fonda valori al di fuori dell’uso che se ne fa. Contro Kraus e George, che si sottomettono al valore, credendo di sottomettersi alla parola, Schönberg indaga piuttosto come la parola domina e si fa dominare. La questione fondamentale, superato il problema della presenza del testo (in altre parole, superato il problema del primo confronto tra sfere linguistiche e delimitazione di partenza delle rispettive possibilità) verterà allora sulla compresenza acerbamente conflittuale di significato ed espressione.

Inaspettatamente, la fenomenologia ci torna utile ed è in grado di pore domande inquietanti. “Non c’è sensazione senza significato”: la formula di Merleau-Ponty è adottata da Nono nel suo più volte citato Text-Musik-Gesang, per dimostrare che la parola ha caratteristiche di cui non può essere derubata, anche se ci si ferma alla “sensazione” della sua sonorità. Enzo Paci cita le Ideen di Husserl (“il significato logico è un’espressione”) proprio parlando dei problemi che agitano il

503 Rainer Maria Rilke, Mach mich zum Wächter deiner Weiten (Fammi custode dei tuoi spazi), in G. Manzoni, op. cit., p. 372 (trad. di Maria Teresa Mandalari). 504 “Ich bin nur ein Vorläufer”. A. S., cit. in Eberhard Freitag, Schönberg, Reinbeck bei Hamburg, Rowohlt, 1973, p. 7. 505 Cit. nella Prefazione di Anselmo Turazza a Christian Morgenstern, Canti grotteschi, Torino, Einaudi, 1966, p. 6. 506 K. Kraus, Detti e contraddetti, cit., p. 136. 507 A.S., Esercizi preliminari di contrappunto, Milano, Suvini Zerboni, 1969, p. 95. 508 Cfr. Anthony Payne, Schoenberg, London, Oxford University Press, 1968, p. 37.

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Moses und Aron: la legge di Mosé è già espressione, e siccome questa espressione non è considerata come significato ma oggettivizzata e feticizzata, ne consegue l’idolatria. Ma

… l’invisibile, il non raffigurabile, non si può esprimere. Ciò interessa la musica stessa in quanto espressione. Schönberg è rimasto prigioniero dell’enigma (…) Avrebbe dovuto dire che Dio non è l’essere che detta la legge (…) L’errore iniziale è di attribuire a Dio l’essere (…) mentre ciò che si cercava in Dio era il significato dell’espressione e la sua vita.509

Ma il problema che Schönberg si pone nel Moses è gnoseologicamente anteriore: in quale

linguaggio, deprivato di immagini e denotazioni, in quale linguaggio esattamente delimitato potrebbe essere detto il non raffigurabile? È comprensibile, è storicamente fattivo, effettuale, un linguaggio totalmente disincarnato, al punto che si rifiuta di dire valori, di dire il Dio? È vittoria quella di Aronne, che sa persuadere, che sa essere rètore con le vecchie metafore? “La musica, nella sua fenomenicità, non porta con sé alcun significato, malgrado questo sia poi presente, per la stessa essenza di quest’arte”.510

Che vuol dire questa frase che accompagnava le istruzioni di regia per la Glückliche Hand? Forse che il rapporto tra linguaggio e significato va creato allora nel suo darsi storico? Ma che può significare che il significato è presente per essenza? Esiste un’essenza della musica, o essa è solo data dall’accumulazione di tutti i suoi “esistenti”? Qual è, allora, il rapporto tra estetica e psicologia?

Il concetto che la musica esprima qualcosa è generalmente accettato. Ma il gioco degli scacchi non racconta novelle, né la matematica causa emozioni; analogamente, dal punto di vista puramente estetico, la musica non esprime nulla di extra-musicale. Dal punto di vista psicologico però la nostra capacità di associazioni mentali ed emotive è non meno illimitata di quanto è limitata la nostra capacità di ripudiarle. Così qualsiasi oggetto comune può provocare delle associazioni musicali, e viceversa la musica può evocare associazioni con oggetti extra-musicali.511

Ma a chi riconducono simili affermazioni, se non al Nietzsche di Umano, troppo umano?

In sé e per sé la musica non è così piena di significati per la nostra interiorità, né così profondamente eccitante da poter essere considerata come il linguaggio immediato del sentimento; ma la sua antichissima unione con la poesia ha messo tanto simbolismo al movimento ritmico, nella forza e debolezza della tonalità, che noi adesso immaginiamo che essa parli direttamente all’interiorità e provenga dall’interiorità (…) La “musica assoluta” è o una forma in sé, nella fase primitiva della musica, in cui il suono ritmico diversamente accentuato produce un piacere, generico, oppure è il simbolismo delle forme senza poesia, che già parla all’intelletto, dopo che in un lungo sviluppo le due arti furono unite e alla fine la forma musicale fu tutta intessuta di fili di concetti e di sentimenti.512

Qui interrompiamo Nietzsche, perché scopo di questo lavoro era solo mostrare come

potrebbe essere impostato il rapporto Nietzsche-Schönberg. Proseguire significherebbe riprendere in esame tutti i problemi affrontati finora. Per Nietzsche, è in gioco il ripensamento di tutte le categorie dei suoi scritti giovanili. Per Schönberg, è il ripensamento dell’espressionismo alla luce del suo superamento concettuale. Per entrambi, è il problema dell’estetica che si fa politica, della metafora, dell’immagine strumento d’arte e di dominio. Vogliamo solo richiamare il fatto che Schönberg definisce apollinea l’età della “musica classica” e dionisiaca l’età romantica, ma esclude

509 Enzo Paci, Diario fenomenologico, Milano, Bompiani, 1973, p. 118. 510 A.S., Lettera a Emil Hertzka, probabilmente Berlino, autunno 1913, in Lettere, cit., p. 37. 511 A.S., Elementi di composizione musicale, Milano, Suvini Zerboni, 1969, p. 23. 512 F. Nietzsche, Umano, troppo umano, Milano, Mondadori, lic. Adelphi, 1970, p. 138, afor. 215.

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che la distinzione possa essere ancora applicata con qualche validità nel tempo in cui vive,513 e anzi giunge a negare la distinzione stessa, affermando che “… l’ebbrezza della fantasia di un’artista, sia essa dionisiaca o apollinea, aumenta la chiarezza della visione”.514

Ma cosa significa questo, se non che l’esperienza nietzschiana si è completamente inverata nel superamento dell’espressionismo? È precisamente la distruzione ontologica e grammaticale del soggetto a permettere che l’Erlebnis si faccia scienza e l’Affekt si faccia conoscenza. L’intensificarsi delle operazioni linguistiche disgreganti la sintassi aumenta a dismisura il mondo dell’espressione, la capacità della lingua stessa di permearsi di contenuti sempre più inscindibili dal suo concreto darsi come parola (la simbolizzazione della tecnica!):

È in questo modo che il contenuto si scioglie, si scheggia o si dirompe nell’espressione, diventa mondo dell’espressione, Ausdruckswelt. Ovvero (…) è così che l’Espressionismo fa del contenuto una forma. Non diversamente aveva qualificato Nietzsche il modo di essere dell’artista: “Si è artisti al prezzo di sentire come contenuto, come la ‘cosa stessa’, quello che i non artisti chiamano “forma”.515

È Gottfried Benn che formulerà con la massima chiarezza, e nel segno di Nietzsche, il

passaggio:

Sì, la coltivata assolutezza della forma il cui grado di purezza lineare e di immacolatezza stilistica non dovrebbe per altro essere inferiore al grado di perfezione contenutistica di anteriori epoche culturali (…) sì, solo dalle estreme tensioni del formale, solo dal più estremo potenziamento dell’elemento formale che giunge fino al confine dell’immaterialità, si potrebbe formare una nuova realtà etica, oltre il nichilismo.516

Ma quello che Benn non vede è che il processo non può arrestarsi nemmeno qui, che l’arte

non può arrestarsi nemmeno qui, che l’arte non può chiudersi nella equivalenza di forma e contenuto come in una vana difesa dal “mondano”: “Artistik è il tentativo dell’arte di vivere se stessa come contenuto, in mezzo alla dissoluzione universale dei contenuti”.517

Dopo Nietzsche, quello che va capito è che il tempio non si può più serrare, che il mondo non è più “giustificato esteticamente”. Proprio quando la massima perfezione nella delimitazione dei linguaggi è raggiunta, proprio quando la musica giunge a esprimere solo se stessa, essa tragicamente, esprime. Webern, nelle sue conferenze sulla nuova musica, dopo aver mostrato, fischiettandolo, che un pensiero musicale si esprime solo con la musica, aggiunge: “Questo è un pensiero musicale! L’uomo non può esistere altrimenti che nel momento in cui si esprime. La musica lo fa sotto forma di pensieri musicali”.518

Da qui, riparte il pensiero. L’autonomia della musica, raggiunta dopo due secoli di battaglie non solo estetiche, non può illudersi di nessuna pace duratura. E i Vier Lieder op. 22, forse l’opera più “delirante” di Schönberg, e a cui torniamo per concludere, mostrano con assoluta chiarezza la fine non solo dell’espressionismo ma di tutto ciò che è venuto a concludersi nell’espressionismo. Non è un caso infatti che essi abbiano ispirato a Schönberg uno dei suoi scritti decisivi sul rapporto testo-musica. I problemi di interpretazione aperti da Das Verhältnis zum Text vi appaiono completamente risolti. La funzione del testo nei Lieder di Schubert viene infine chiarita e ripresa:

513 A.S., Funzioni strutturali dell’armonia, cit., p. 260. 514 A.S., Brahms il progressivo, in Stile e idea, cit., p. 276. 515 Ferruccio Masini, Lo scriba del caos, cit., p. 311. 516 Gottfried Benn, Oltre il nichilismo, in Saggi, Milano, Garzanti, 1963, p. 85. 517 G. Benn, cit., (a sproposito, perché riferisce il pensiero anche a Schönberg) in Josef Rufer, Teoria della composizione dodecafonica, Milano, Mondadori-Il Saggiatore, 1962, p. 22. 518 A. Webern, Verso la nuova musica, cit., p. 80.

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A partire da Richard Wagner, il trattamento del testo nella musica tedesca si è allontanato sia dal canto popolare, sia dallo stile dei popoli meridionali, ad esempio degli italiani. Lo stesso Schubert non differenzia così nettamente le singole parole in base all’importanza del loro contenuto, ma si serve di una melodia di più ampio respiro, trascurando elementi rilevanti anche quando questi ultimi sono determinanti ai fini del contenuto, della sostanza poetica.519

Una melodia non può adeguarsi al senso, al percorso che il pensiero poetico impone alle

parole. E tutto è detto per meglio chiarire che nell’op. 22 vi è distacco sia da Wagner che dai musicisti latini. E come? Mediante “… un’arte della variazione che consente di porre sempre alla base del pezzo un unico inciso rendendo però possibile l’adeguamento ad ogni minima sfumatura del testo”.520

Il problema è però, ancora una volta, l’espressione: l’espressionismo era nato proprio perché, continua Schönberg, la musica, privata dell’ausilio formale della tonalità, ha guardato non semplicemente al suo materiale, ma anche all’esterno di sé, ad altri materiali, e si è servita di questo confronto per dare espressione ai propri processi interni ed esterni.521 Ma che tipo di sguardo si lasciava sul testo?

Si pensava evidentemente che io non avessi badato minimamente al testo, dato che nella mia musica non ci sono più boati di tempesta, fragore di spade, risate di scherno, e questa convinzione fu esagerata fino al punto che si scrisse musica senza nessun testo o nel migliore dei casi su un testo diverso da quello che veniva cantato in realtà. Ma la mia musica badò alle parole cariche di significato rappresentativo non meno che a quelle astratte, favorendo un’esposizione plastica dell’insieme e anche delle singole parti a seconda del loro significato nel tutto. E se dunque un oratore parlerà di un mare in tempesta con accenti diversi che di un mare tranquillo, anche la mia musica non fa diversamente, ma lo favorisce in questo e lo sostiene: la musica non si agita come fa il mare, ma diventa diversa, come diventa diverso l’interprete.522

In questo diventare vicendevolmente diversi è la chiave del rapporto musica-testo in

Schönberg: I linguaggi si guardano, si comprendono a vicenda e si modificano restando se stessi. Nessuna totalità, nessuna universalità qui si annunciano. L’opera d’arte sta tutta nella profondità, ma anche nella lievità, di questo sguardo.

Certo, la musica continua a restare priva di un “apparato concettuale puramente musicale”, perché in effetti essa non è lingua, e il suo rapporto con l’essere-linguaggio è una dialettica la cui risoluzione sarebbe solo estinzione. Eppure essa è perfettamente comprensibile, per usare il termine più caro a Schönberg. Così Hans Bunge, nel suo colloquio con Eisler, gli riferisce un’annotazione del diario di Brecht: “Schönberg definiva la forma come ‘situazione di riposo tra due forze contrastanti’. Brecht sospettava che dietro a questa definizione vi fosse un ‘concetto di campo fisico’”.523 “Semplicemente geniale, come del resto quasi tutto quello che ha fatto quest’uomo”, è il commento di Eisler.

519 A.S., Analisi dei Quattro Lieder Op. 22, in Analisi e pratica musicale, cit., p. 163. 520 Idem, p. 164. 521 Idem, p. 148. 522 Idem, p. 153. 523 Hans Bunge, in H. Eisler, Con Brecht, cit., p. 196.

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