il mecenatismo artistico dei colonna nel xvii secolo tra pittura, teatro e lettere

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IL MECENATISMO ARTISTICO DEI COLONNA NEL XVII SECOLO TRA PITTURA, TEATRO E LETTERE Natalia Gozzano (Roma) Contaminazioni fra pittura, teatro nelle sue varie forme, in particolare teatro musicale, e letteratura contraddistinguono il mecenatismo di uno dei massimi protagonisti dell’aristocrazia romana di secondo Seicento, il prin- cipe Lorenzo Onofrio Colonna. Nelle sue scelte artistiche – i dipinti che colleziona per la sua quadreria, i libri che acquista per la sua biblioteca, le opere musicali che promuove e fa allestire nei suoi due teatri romani, o in quelli pubblici veneziani, e in varie altre occasioni legate soprattutto al carnevale –, il Colonna manifesta una spiccata predilezione per la teatralità tutta. All’interno di questo fortissimo interesse verso il teatro si riscontra un repertorio che declina dalla Commedia dell’arte alle tematiche della lette- ratura eroica, dal libertinismo fino all’esoterismo di stregonerie e bam- bocciate. Tra gli artisti a cui si rivolge per queste committenze e acquisizioni ci sono personaggi che, essi stessi, intrecciano fra loro strette relazioni, stabi- lendo una circolarità di interessi tale da esprimere una visione culturale che si dipana parallelamente attraverso diversi medium artistici; la considera- zione globale di questi fenomeni dimostra ancora una volta quanto l’approccio settoriale alle arti (pittura, musica, teatro, letteratura) sia lon- tano dalla realtà della loro elaborazione, concezione e fruizione. Principe di una della casate di più antica nobiltà romana, Lorenzo Ono- frio Colonna (fig. 1) succede al padre Marcantonio V nella linea ereditaria del contestabilato che, nell’agone dell’aristocrazia romana, distingueva i Colonna in una duplice prestigiosa appartenenza all’élite sia romana che spagnola, essendo i contestabili sudditi del Regno di Napoli. Ma, ancor più di questa continuità familiare, che pure viene esaltata e le cui prerogative vengono strenuamente difese in ogni occasione nella quotidiana guerra dell’etichetta e dell’ostentazione di status e comportamenti, Lorenzo Ono- frio profonde tutte le sue energie e impegno finanziario per rilanciare la sua casata e cercare di conquistarle un ruolo di primo piano, se non di vera protagonista, nel “gran teatro del mondo”.

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IL MECENATISMO ARTISTICO DEI COLONNA NEL XVII SECOLO TRA PITTURA, TEATRO E LETTERE Natalia Gozzano (Roma) Contaminazioni fra pittura, teatro nelle sue varie forme, in particolare teatro musicale, e letteratura contraddistinguono il mecenatismo di uno dei massimi protagonisti dell’aristocrazia romana di secondo Seicento, il prin-cipe Lorenzo Onofrio Colonna. Nelle sue scelte artistiche – i dipinti che colleziona per la sua quadreria, i libri che acquista per la sua biblioteca, le opere musicali che promuove e fa allestire nei suoi due teatri romani, o in quelli pubblici veneziani, e in varie altre occasioni legate soprattutto al carnevale –, il Colonna manifesta una spiccata predilezione per la teatralità tutta. All’interno di questo fortissimo interesse verso il teatro si riscontra un repertorio che declina dalla Commedia dell’arte alle tematiche della lette-ratura eroica, dal libertinismo fino all’esoterismo di stregonerie e bam-bocciate.

Tra gli artisti a cui si rivolge per queste committenze e acquisizioni ci sono personaggi che, essi stessi, intrecciano fra loro strette relazioni, stabi-lendo una circolarità di interessi tale da esprimere una visione culturale che si dipana parallelamente attraverso diversi medium artistici; la considera-zione globale di questi fenomeni dimostra ancora una volta quanto l’approccio settoriale alle arti (pittura, musica, teatro, letteratura) sia lon-tano dalla realtà della loro elaborazione, concezione e fruizione.

Principe di una della casate di più antica nobiltà romana, Lorenzo Ono-frio Colonna (fig. 1) succede al padre Marcantonio V nella linea ereditaria del contestabilato che, nell’agone dell’aristocrazia romana, distingueva i Colonna in una duplice prestigiosa appartenenza all’élite sia romana che spagnola, essendo i contestabili sudditi del Regno di Napoli. Ma, ancor più di questa continuità familiare, che pure viene esaltata e le cui prerogative vengono strenuamente difese in ogni occasione nella quotidiana guerra dell’etichetta e dell’ostentazione di status e comportamenti, Lorenzo Ono-frio profonde tutte le sue energie e impegno finanziario per rilanciare la sua casata e cercare di conquistarle un ruolo di primo piano, se non di vera protagonista, nel “gran teatro del mondo”.

Natalia Gozzano

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Fig. 1: Ritratto di Lorenzo Onofrio Colonna, in: Domenico De Santis, Columnensium pro-cerum imagines, Roma 1675

E’ con lui infatti che la collezione d’arte avviata già dai suoi predeces-

sori – il padre Marcantonio V e lo zio il cardinale Girolamo I – si amplia enormemente fino a diventare una delle principali di Roma e, soprattutto, il suo mecenatismo si rivolge anche, e in misura straordinaria, al teatro. Nella

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sua biblioteca tutto ciò trova riscontro e ulteriori testimonianze di una cul-tura eterogenea ed eterodossa 1.

Per dare la misura dell’entità di questo collezionismo, celebrato già dai contemporanei che ammirano la sontuosa Galleria costruita per esporre, secondo i criteri dell’allestimento “a incrostazione”, i capolavori della pit-tura cinque e seicentesca, e sulla cui volta si dispiegava la celebrazione dell’eroica impresa di Lepanto di Marcantonio II, basti dire che alla sua morte, avvenuta nel 1689, nel palazzo romano si contavano circa 1560 fra quadri, disegni e stampe, un migliaio dei quali acquisiti solo da lui; complessivamente, comprendendo anche i dipinti conservati nei palazzi dei feudi della famiglia a Paliano, Marino, Genazzano, alla fine del ‘600 la raccolta ammontava a più di 4400 opere. Ad esse andavano ad aggiungersi le sculture antiche, i preziosi mobili, gli arazzi, oltre ai numerosi manufatti quali orologi e suppellettili pregiate.2

Nel suo complesso, l’intensa attività collezionistica del Colonna si attaglia alla nuova fisionomia del nobile della società di corte di antico regime, che trovava nel prestigio delle onorificenze, nell’ostentazione delle ricchezze, nel puntiglio sul trattamento, il terreno su cui giocare l’afferma-zione del proprio potere. Un sapido episodio che testimonia tali contro-versie legate all’etichetta ebbe luogo nel 1666 in occasione di un suo viaggio a Venezia per il Carnevale insieme alla moglie Maria Mancini e al loro seguito. Alle lamentele dell’ambasciatore spagnolo che non ne era stato personalmente avvisato, il Colonna risponde che non riteneva di dovergli comunicare un viaggio di pochi giorni, e che in ogni caso questi ne era perfettamente a conoscenza non essendo egli “un verme che in Roma non si sappia della sua partenza” (fig. 2).3

E’ proprio il matrimonio con Maria Mancini, celebrato nel 1661, a segnare l’inizio di quello che gli avvisi dell’epoca registrano come uno dei periodi più esuberanti e innovatori nella vita sociale romana del secondo Seicento, tale da imprimere uno straordinario impulso all’attività teatrale, di cui la coppia diventò brillante protagonista per un decennio.4 Per poter allestire i numerosi spettacoli promossi dal contestabile, questi, come ha dimostrato Elena Tamburini, fece costruire dall’architetto Carlo Fontana un teatro nel suo Palazzo di SS. Apostoli e un altro in quello di piazza Scossa-1 La biblioteca del principe Colonna spaziava dalla trattatistica politica e storica al teatro e

melodramma, dalla poesia e letteratura artistica alle scienze, e comprendeva molti testi di autori libertini messi all’indice. Natalia Gozzano, Il principe e i libertini. La biblioteca di Lorenzo Onofrio Colonna, in: Aprosiana n.s. XI–XII (2003–2004), pp. 111–126.

2 Edward A. Safarik, Palazzo Colonna, Roma 1999; Natalia Gozzano, La quadreria di Lorenzo Onofrio Colonna. Prestigio nobiliare e collezionismo nella Roma barocca, Roma 2004.

3 Gozzano, La quadreria (cfr. n. 2), p. 62. 4 Elena Tamburini, Due teatri per il principe. Studi sulla committenza teatrale di Lorenzo

Onofrio Colonna (1659–1689). Con un’ipotesi di ricostruzione del teatro “piccolo” elabo-rata in collaborazione con Sergio Rotondi, Roma 1997.

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cavalli in Borgo, eludendo così le forti restrizioni imposte in tal campo da papa Alessandro VII prima e Innocenzo XI poi.

Fig. 2: Giuseppe Vasi, Palazzo Colonna, incisione, 1748 Queste iniziative in ambito teatrale – che sono state oggetto di studio

approfondito da parte di Elena Tamburini e, più recentemente, per quanto riguarda il teatro musicale, da Valeria De Lucca – furono improntate a un forte entusiasmo guidato anche dalla volontà di rinnovamento – aprendosi all’esperienza veneziana e francese, e favorirono una vasta produzione di opere e l’allestimento di cortei in maschera e balli in occasione di carnevali e altre festività.5 Il periodo di maggior sviluppo di tale attività si concentra nel decennio che va dalle nozze con la Mancini nel 1661 fino alla avventu-rosa fuga di quest’ultima da Roma nel 1672 (anch’essa degna di una mise en scène, nel suo allontanarsi dal palazzo, nottetempo, mascherata da uomo), e si svolge in larga parte a Venezia, i cui carnevali erano occasione di spettacoli e festeggiamenti non permessi nella Roma papale.

Un primo elemento di congiunzione tra l’esperienza teatrale e quella collezionistica si colloca proprio a Venezia: ai lunghi soggiorni veneziani dei Colonna infatti, fra 1663 e 1667, è plausibile riferire alcuni importanti acquisti per la collezione romana: l’inventario del 1679 – uno dei pochi a

5 Valeria De Lucca, “Dalle sponde del tebro alle rive dell’Adria”: Maria Mancini and Loren-

zo Onofrio Colonna’s Patronage of Music and Theater Between Rome and Venice (1659–1675), Phil. Diss. Princeton University 2009.

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riportare i nomi degli artisti – registra infatti dipinti di importanti pittori veneti quali Tiziano, Palma il Vecchio e Palma il Giovane, Bassano. Ma forse la più clamorosa acquisizione veneziana è la celebre tavola di Antonello da Messina, San Girolamo nello studio (Londra, National Galle-ry) che, documentata nella città lagunare nel 1529, aveva fatto perdere le sue tracce fino al 1848, quando compare in Inghilterra. Un dipinto di medesimo soggetto, supporto e dimensioni è registrato nell’inventario del Colonna del 1689 in modo così analitico da avermi portato a riconoscerlo proprio nella tavola di Antonello.6

Per quanto riguarda la quadreria, più che alle opere raffiguranti musici e strumenti musicali elencate negli inventari (in quello successivo alla morte del contestabile, del 1689, se ne contano 26, purtroppo prive del nome dell’autore), più interessante mi sembra cogliere quel circuito di temi e quella rete di relazioni fra artisti di vari ambiti che caratterizza il mecena-tismo esuberante e prodigo del Colonna.

Questa straordinaria passione per il teatro in tutte le sue forme – così manifesta nella profusione di opere, cortei in maschera, cantate, opere per burattini – costituisce, infatti, il nucleo intorno al quale i Colonna intessono una rete di relazioni che lega fra loro artisti specializzati in diversi campi: pittori, letterati, musicisti. Rete che doveva avvantaggiarsi di una tradizione già consolidata in famiglia, come attestano le varie dediche a Marc-antonio V (padre di Lorenzo Onofrio) e al cardinale Girolamo (suo zio) rin-tracciate nella drammaturgia teatrale romana studiata da Saverio Franchi.7

Tra gli autori di opere musicali con cui più strettamente i Colonna si legarono figurano Antonio Cesti, Francesco Cavalli, Alessandro Melani, Alessandro Stradella, i librettisti Giovanni Filippo Apolloni, Filippo Acciaioli, Giacinto Andrea Cicognini, Nicolò Minato. In particolare, alcuni di loro, come Antonio Cesti, Filippo Acciaioli e Giacinto Andrea Cicognini sono in relazione con pittori, con dipinti, con letterati che formano gli altri attori della ricca e anticonformista scena di cui i Colonna sono i protago-nisti.8

Il musicista Antonio Cesti, personaggio singolare, sacerdote non alline-ato, è legato a due altri artisti che gravitano intorno alla corte colonnese: il pittore Salvator Rosa e il poeta Sebastiano Baldini, entrambi autori dei testi di alcune sue cantate.9 6 Gozzano, La quadreria (cfr. n. 2), pp. 179–181. 7 Saverio Franchi, Drammaturgia romana. Repertorio cronologico dei testi drammatici

pubblicati a Roma e nel Lazio. Secolo XVII, Roma 1988 (Sussidi eruditi 42). 8 Elena Tamburini, Due teatri (cfr. n. 4); De Lucca, “Dalle sponde” (cfr. n. 5). 9 Salvator Rosa scrive La Strega e La corte di Roma; i testi di Baldini sono di carattere

umoristico. Un diretto riferimento alla collezione di oggetti d’arte di palazzo Colonna è contenuto in una lettera che Baldini indirizza a Lorenzo Onofrio da Napoli nel 1684: scrive che ha composto, fra gli altri, un sonetto “sopra tanti orologgi [sic] che sua eccellenza tiene per tutte le stanze”. Archivio Colonna (d’ora in poi AC); l’archivio Colonna è in deposito

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E’ soprattutto l’opera di Rosa a porsi in relazione con le varie e-spressioni del gusto e della cultura teatrale dei Colonna. Come ho potuto ricostruire attraverso gli inventari secenteschi, messi a confronto con quelli successivi, i Colonna avevano collezionato diversi dipinti del pittore napo-letano aventi per soggetto – cosa alquanto rara nella pittura del tempo – maschere della commedia dell’arte, oltre a tele ispirate a quelle stesse atmosfere notturne, magiche, stregonesche che – come vedremo – ricorro-no anche in alcuni volumi della biblioteca del principe e, a loro volta, si riallacciano a un altro protagonista del loro mecenatismo teatrale, cioè Giovanni Filippo Apolloni.10

Le opere attribuite a Rosa negli inventari Colonna sono una trentina: le prime risalgono al tempo del contestabile Lorenzo Onofrio (1637–1689), a cui si deve l’acquisizione di dodici tele e due disegni del pittore napole-tano.11 A queste andranno sommati i dipinti registrati negli inventari suc-cessivi: quello del 1714 relativo all’eredità di Filippo II, figlio di Lorenzo Onofrio, che ne elenca diciassette e infine l’inventario del 1783 di Filippo III, in cui i quadri attribuiti a Rosa sono ventinove, a testimonianza della duratura fortuna che la pittura del pittore partenopeo (o comunque a lui riferita) ebbe nella collezione romana.12 Il contestabile Lorenzo Onofrio fu dunque il primo Colonna a collezionare le opere di Rosa.

presso la biblioteca del Monastero di Santa Scolastica a Subiaco (I-SUss), Carteggio di Lorenzo Onofrio, busta anno 1684, lettera del 13 giugno da Sebastiano Baldini a Lorenzo Onofrio Colonna. Sulle composizioni per musica di Baldini vedi Sebastiano Baldini, Le poesie per musica nei codici della Biblioteca Apostolica Vaticana. Incipitario e fonti musicali, a cura di Giorgio Morelli, Roma 2000 (Studi, cataloghi e sussidi 5). Lorenzo Bianconi, voce Cesti, Pietro (in religione Antonio) in: Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 24, Roma 1980, pp. 281–293; cfr. anche Tamburini, Due teatri (cfr. n. 4), p. 182. Jonathan Scott, Salvator Rosa. His Life and Times, New Haven/London 1995, p. 42; per la satira di Rosa La corte di Roma vedi Umberto Limentani, Salvator Rosa. Nuovi studi e ricerche, in: Italian Studies VIII (1953), pp. 29–34.

10 Natalia Gozzano, Salvator Rosa, i Colonna e la Commedia dell’arte: il mondo del teatro dipinto e recitato nella Roma del Seicento. Con una nota sui conti bancari del pittore, in: Salvator Rosa (1615–1673) e il suo tempo, a cura di Helen Langdon e Caterina Volpi, Roma 2009, pp. 103–122.

11 Come ho illustrato in un mio articolo (Natalia Gozzano, Nuovi documenti per la datazione del ‘Paesaggio con la fuga in Egitto’ di Claude Lorrain [LV 158] con la sua cornice e altre note sui pendants “misti”, in: Storia dell’arte 121 [n.s. 21] [2008], pp. 139–152), l’inventario Colonna pubblicato da Safarik con la datazione 1654 (da me seguita nel mio volume sulla collezione di Lorenzo Onofrio Colonna) è in realtà un brogliaccio che si estende cronologi-camente oltre la data 1654 riportata sulla coperta e, anziché al contestabile Marcantonio V, va riferito a suo figlio Lorenzo Onofrio. Edward A. Safarik, Collezione dei dipinti Colonna. Inventari 1611–1795, a cura di Anna Cera Sones, The Provenance Index del Getty Art History Information Program, Monaco ecc. 1996 (Documents for the History of Collecting. Italian Inventories 2), pp. 76–83; Gozzano, La quadreria (cfr. n. 2), pp. 217–219.

12 Tra l’inventario del 1714 e quello del 1783 l’archivio Colonna conserva altri due registri, datati 1730 e 1740, i quali tuttavia non riportano novità, relativamente ai dipinti di Salvator Rosa, rispetto a quelli precedenti. Come accadde per i maggiori capolavori della raccolta, quasi tutte le tele di Salvator Rosa furono vendute tra la fine del Settecento e i primi

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E’ proprio nei soggetti di alcuni dipinti e disegni presenti nella raccolta colonnese che più esplicito è il rapporto con l’universo teatrale praticato in prima persona sia dal mecenate sia dal pittore. In questa collezione, infatti, sono comprese opere aventi per soggetto maschere della Commedia del-l’arte: Pulcinella, Pantalone, Coviello, Scaramuccia (fig. 3).

1679 1689 1714 1783 1848 Salvator Rosa, Pulcinella (palmi 2 e 1/2)

[Salvator Rosa], Pulcinella (palmi 2 e 1/2)

Salvator Rosa, Pulcinella (palmi 2 e 1/2)

Salvator Rosa, Pulcinella (palmi 2 e 1/2)

Callot [?], Coviello

Salvator Rosa, Disegno di un mascarone (palmi 1)

Tre Maschere, cioè Scaramuccia, Pulcinella, et una Donna (palmi 6 e 4)

Salvator Rosa, Maschera di Dottore (palmi 1 e 1/2)

Pulcinella (mezza testa)

Salvator Rosa, Maschera di Coviello (palmi 1 e 1/2)

Un Capitano Spaccamonti vestito per commedia (palmi 1)

Salvator Rosa, Pulcinella (palmi 2 e 1/2)

Diciassette disegni in carta d’un palmo in circa con cornicette color di noce varie comparse di personaggi di Commedia

Fig. 3: Opere di Salvator Rosa raffiguranti maschere della Commedia dell’arte registrate negli inventari Colonna

Nell’inventario di Lorenzo Onofrio del 1679 sono elencati:

“Un Quadro di palmi 2 e 1/2 con un Pulcinella con cornice stretta dorata opera di Salvator Rosa. Un Disegno di un mascarone di palmi 1 fatto in pastelli, con vetro davanti e cornice intagliata e dorata opera di Salvator Rosa.”

dell’Ottocento, nell’onda di alienazioni scatenata dalle gravose tasse imposte al ceto nobiliare durante il periodo della Repubblica Romana del 1798–99. Le uniche due tele rimaste in collezione sono il S. Giovanni Battista in una grotta e la Predica di S. Giovanni Battista nel deserto.

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Grazie all’inventario del 1679 registrato per ambienti, sappiamo che il Pulcinella si trovava nella “Prima Stanza dei Quadri”, dunque un luogo deputato alla collezione.13

Nell’inventario di Lorenzo Onofrio Colonna del 1689 sono registrati, purtroppo senza il nome dell’autore, altri dipinti raffiguranti maschere, di cui almeno uno dei due Pulcinella è identificabile con quello di Rosa del precedente inventario:

“Un Pulcinella in tela di mezza testa cornice indorata“ (c. 858) “Un Capitano Spaccamonti vestito per commedia in tavola di un palmo con cornice di velluto verde e due filetti d'oro” (c. 624) “Un altro di palmi 6 e 4 in Circa Con tre Maschere, cioè Scaramuccia, Pulcinella, et una Donna, Cornice nera profilata d'oro” (c. 1034) “Un altro di mezza testa con figura di Pulcinella Cornice dorata” (c. 1049)14

Ad essi si aggiungono: “Diciassette disegni in carta d’un palmo in circa con cornicette color di noce varie comparse di personaggi di Commedia” (c. 871)

Nuove maschere sono elencate nel catalogo della Galleria Colonna edito nel 1783:

“Due quadri sopra la porta di palmi 1 1/2 per alto rappresentanti due Maschere di Dottore, e Coviello = Salvator Rosa.”

Infine, nell’inventario di Giovanni Andrea Colonna del 1848 troviamo un Coviello attribuito a Callot, che però è plausibile sia lo stesso già segnalato nel catalogo del 1783 come Salvator Rosa.15

13 I-SUss, AC, III QB 16, c. 262. Per completezza ho riportato anche il Disegno di mascherone,

sebbene il soggetto potrebbe riferirsi ad una decorazione all’antica e non ad una maschera teatrale. Altro dipinto di ambito teatrale registrato nel 1679, privo però dell’indicazione dell’autore, è il “Quadro di palmi 4 e 4 con l’effigie d’un buffone con cornice alla spagnola dorata” (AC, III QB 18, c. 177). Questo, insieme a un “Ritratto d'un buffone che ride con berrettino bianco in testa, in tela maggiore di un palmo, cornice di noce”, si trovavano già elencati nell’inventario del 1664 (AC, III QB 13, rispettivamente a c. 37 e c. 41) e, quest’ultimo, anche nel brogliaccio di inventario convenzionalmente datato 1654 ma in realtà 1664 (AC, III QB 26 a, c. 233). L’iconografia di questi quadretti richiama il singolare Ragazzo che ride di Annibale Carracci della Galleria Borghese a Roma (1583), registrato negli inventari Borghese dal 1693.

14 I-SUss, AC, III QB 19. Riconducibile a questa tipologia iconografica è anche la serie di quattro dipinti così registrata nello stesso inventario, c. 857: “Quattro Bambocciate in tele simili di quattro palmi con cornici negre per traverso con filetti bianchi, e quantità di figure per ciascuno in tre vi sono gli Saltimbanchi“, nonchè il “Carnevale” bislongo di palmi 5x3 (c. 916).

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Nell’arte del XVII secolo la raffigurazione di queste maschere ha uno degli esempi più celebri nella serie di incisioni di Callot I Balli di Sfessania, nelle cui tavole tali personaggi sono presentati a coppie; tuttavia ben più rare sono le testimonianze a tutt’oggi esistenti di dipinti di questo stesso periodo in cui, anziché le consuete scene di rappresentazioni teatrali allestite nell’ambito di fiere e mercati, siano effigiate le singole maschere.16

La consuetudine di molti artisti figurativi del tempo con la recitazione è attestata dalle fonti non solo per Rosa (il cui nipote, Michelangelo Fracanzano, lascerà la pittura per diventare un celebre Pulcinella nella Parigi di Re Sole), ma anche per pittori acclamati come il Cavalier d’Arpino e, caso ben più noto, Gian Lorenzo Bernini.17 Significativamente, Rosa si autoritrae come Pascariello Formica, il personaggio con cui im-provvisava commedie ‘ridicolose’ la cui satira, come ricorda Baldinucci, nel carnevale del 1639 prese di mira proprio lo strapotere di Bernini.18

Le maschere della Commedia dell’arte, oltre ad essere protagoniste, accanto ai personaggi ‘nobili’, delle commedie e drammi rappresentati o pubblicati a Roma in quegli anni, sono anche impersonate dagli stessi promotori e partecipanti ai vari carnevali, festini e ‘commedie all’improv-viso’ che contribuivano ad animare la scena romana del tempo.19 In una lettera scritta a Ricciardi il 26 gennaio 1670, Rosa parla delle commedie che si facevano in casa del contestabile Colonna, “recitate all’improvviso

15 Catalogo dei Quadri, e Pitture esistenti nel Palazzo dell'Eccellentissima Casa Colonna in

Roma Coll'indicazione dei loro Autori Diviso in sei Parti Secondo i rispettivi Appartamenti, Roma 1783, p. 44. Inventario di Giovanni Andrea Colonna, 1848, c. 144, in: The Getty Provenance Index Database, http://piprod.getty.edu/starweb/pi/servlet.starweb (consultato 10 ottobre 2008).

16 A questa tipologia appartengono due piccoli dipinti anonimi databili al XVII secolo, con-servati nel Museo teatrale del Burcardo a Roma, raffiguranti rispettivamente Arlecchino e Brighella; entrambi olio su tavola, inv. 2838, inv. 2840.

17 Elena Tamburini su Bernini: Ut Theatrum ars: Gian Lorenzo Bernini attore e autore, in: Culture teatrali, XV (2006), pp. 67–108, e, qui citato, Tomaso Montanari, Bernini e Rem-brandt, il teatro e la pittura. Per una rilettura degli autoritratti berniniani, in: Bernini e la pittura, a cura di Daniela Gallavotti Cavallero, Roma 2003, pp. 187–201. Un nesso diretto tra teatro e pittura è ancora suggerito da Elena Tamburini in Commedia dell’arte, in: Culture teatrali XV (2006), pp. 7–14. Voce Fracanzani Michelangelo, in: Enciclopedia dello spetta-colo, Roma 1954–66, vol. V, coll. 577–578.

18 Giuseppe Martucci, Salvator Rosa nel personaggio di Formica, in: Nuova Antologia, 16 ottobre 1885, p. 648; Isabella Molinari, Il teatro di Salvator Rosa, in: Biblioteca teatrale XLIX–LI (1999), p. 218. L’episodio del 1639 è raccontato da Filippo Baldinucci, Notizie de’ professori del disegno da Cimabue in qua, Firenze 1728, p. 555, e Giovan Battista Passeri, Vite de’ pittori, [Roma 1772], pp. 421–422; sullo scontro Bernini-Rosa in campo teatrale cfr. anche Jackson I. Cope, Bernini and Roman Commedie Ridicolose, in: PMLA 2 (1987), pp. 177–186. Musso era intendente di pitture per il duca Francesco I di Modena. Molinari, Il teatro di Salvator Rosa, in: Biblioteca teatrale 49–51 (1999), p. 218

19 Franchi, Drammaturgia romana (cfr. n. 7), pp. 105, 148, 199.

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da’ Cavalieri”.20 In un festino organizzato in casa dell’abate Cellesi nel febbraio 1665, lo stesso contestabile aveva partecipato mascherato da Coviello.21 Anche questo personaggio viene raffigurato da Callot nei Balli di Sfessania secondo la tipologia del danzatore-mimo-attore (fig. 4).22

Fig. 4: Jacques Callot, da I Balli di Sfessania, collezione privata I conti conservati nell’archivio Colonna, e già resi noti dalla Tamburini,

ma mai, a quanto mi risulta, messi in relazione con i dipinti di Salvator Rosa presenti nella raccolta, documentano l’acquisto di maschere da Coviello, Pulcinella, Narciso, Traccagnino, Trappolino, nonché numerose barbe e parrucche, comprate dal mercante di materiale teatrale e di quadri, Pellegrino Peri.23

L’inserimento di maschere all’interno di drammi, risalente al teatro spagnolo, si diffonde a Roma nel Seicento per mezzo di autori che ricavarono le loro traduzioni da opere già conosciute e pubblicate.24 Tra

20 In Salvator Rosa, Lettere, raccolte da Lucio Festa, a cura di Gian Giotto Borrelli, [Bologna]

2003, p. 394, la data 1666 dell’autografo – già segnalato dalla Tamburini (Due teatri [cfr. n. 4], p. 117) – viene corretta in 1670.

21 Tamburini, Due teatri (cfr. n. 4), p. 94. 22 Maurice Sand, Masques et buffons (Comédie italienne), Paris 1860, vol. II, p. 288. 23 Tamburini, Due teatri (cfr. n. 4), p. 117. Su Pellegrino Peri vedi Loredana Lorizzo,

Pellegrino Peri: il mercato dell’arte nella Roma barocca, Roma 2010. 24 Roberto Ciancarelli, Drammaturgia dei principianti. Notizie su una raccolta manoscritta di

opere sceniche romane del Seicento, in: Teatro e Storia IX, n. 16 (1994), p. 396.

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questi ritroviamo uno dei librettisti menzionati in precedenza, Giovan Andrea Cicognini, a cui si deve anche la traduzione di autori spagnoli quali Tirso de Molina e Calderòn de la Barca. La biblioteca di Lorenzo Onofrio Colonna, il cui inventario avevo pubblicato nel mio libro sulla quadreria colonnese e a cui ho poi dedicato un articolo,25 elenca numerose commedie spagnole e italiane: gli autori sono Lope de Vega, Calderòn de la Barca, Agustìn de Salazar y Torres, Agustìn Moreto y Cabana, Monrois, Montalian, e Miguel de Cervantes; ad essi si aggiungono molti volumi indicati solo come “Comedias”; dello stesso Cicognini troviamo natural-mente l’Orontea, e proprio la qualità fortemente visiva delle ambientazioni descritte nelle opere di Cicognini offre un suggestivo collegamento con i paesaggi di Rosa che tanto piacevano al Colonna. Ad esempio, nelle muta-zioni di scene del Giasone (musicato da Francesco Cavalli) si susseguono scogli, capanne, una grotta per l’incanto e ancora scogli e mare, che evocano l’‘orrida bellezza’ dei paesaggi del pittore partenopeo, fra cui proprio quelli comprati da Lorenzo Onofrio Colonna, come il Ritrovamento di Mosè.26

Ancora alle atmosfere cupe e fantastiche dei dipinti di Rosa collezionati dal Colonna rimandano i testi di un altro personaggio protagonista della scena teatrale romana, Filippo Acciaioli, autore dei libretti delle opere Il Girello (1668), L’empio punito (1669), Chi è causa del suo mal pianga se stesso (1682), e dell’opera per burattini Il noce di Benevento o sia Consiglio delle streghe, tutte rappresentate nei due teatri dei palazzi romani di Lorenzo Onofrio.27

I testi di Acciaioli sembrano descrivere i riti sabbatici e le altre ‘fanta-sticherie’ dei dipinti appesi in palazzo Colonna: i “Tremendi Spiriti / Dannati a i gemiti / Con Urli, e fremiti, / Volate al di’ / sì sì sì sì” de Il Girello28 e Il noce di Benevento o sia Consiglio delle streghe, trovano corrispondenza nei quadri raffiguranti “[…] diverse donne che assistono a una stregonaria essendovi un caldaro in mezzo et un diavolo in aria, nell'altro vi è un’altra stregonaria, una donna in camicia bacia per dietro una capra, vi è un vecchio a cavallo di un asino carico di diverse massarisie di cucine et altre diverse donne streghe”. Più avanti si incontra una tela di mezza testa “con una donna che tiene l’orinale ad un vecchio che orina con due galline et un cane cornice dorata” (f. 896), e “Una fattucchiera, da una parte vi è un vecchio [che] tiene un libraccio in mano e una verga con

25 Gozzano, Il principe e i libertini (cfr. n. 1). 26 Proprio la scena dell’incanto di Medea nel Giasone di Cicognini definisce una tipologia

drammaturgica ‘magica’ che ebbe grande successo nel teatro del tempo. Ringrazio Berthold Over per questa precisazione.

27 Franchi, Drammaturgia romana (cfr. n. 7), pp. 661–662. Tamburini, Due teatri (cfr. n. 4). 28 [Filippo Acciaioli e Giovanni Filippo Apolloni], Il Girello (Ronciglione 1668), “Prologo”.

Trascritto in De Lucca, “Dalle sponde” (cfr. n. 5), p. 276.

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serpente, in tavola meno di mezza testa e cornice nera” (f. 621); infine, facente parte di un gruppo di sei tele di grandi dimensioni (12 palmi per traverso), il “noce di Benevento con una danza di streghe sotto, et un diavolo nel mezzo”.29 Seppur anonimi, questi dipinti evocano immediata-mente le sulfuree ‘stregonerie’ di Rosa (fig. 5).

Fig. 5: Salvator Rosa, Scena di stregoneria, collezione privata

Filippo Acciaioli, oltre ad essere autore, scenografo, impresario, musi-

cista, si dilettava anche di pittura realizzando “capricciose invenzioni”. Forse proprio in affinità con questi temi fantastici, nel suo testamento Colonna gli lascia un quadro del pittore Francesco Rosa raffigurante “un drago in un paesaggio”.30 E’ inoltre interessante rilevare che nella stessa stanza in cui era appeso il “noce di Benevento” ve ne era uno con “la musica in atto di suonare il violino, da una parte la pittura che sta facendo

29 Inventario Colonna 1689, cc. 635, 896, 621, 818. Cfr. Gozzano, La quadreria (cfr. n. 2),

pp. 127–129. 30 Un dipinto di Francesco Rosa, con Cinque santi in ginocchioni è presente nell'inventario del

1714 (cfr. Safarik, Collezione dei dipinti Colonna [cfr. n. 11], p. 363); quello citato nel testa-mento, invece, non è stato rintracciato negli Inventari Colonna. Si tratta forse di un acquisto successivo all'inventario del 1679, l’ultimo redatto prima della morte del contestabile.

Il mecenatismo artistico dei Colonna

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un paese e dall’altra parte la scoltura, e dietro la musica”. Questo quadro è ancora oggi nella galleria Colonna (ricordo che infatti molti capolavori della collezione furono alienati durante il biennio di occupazione francese del 1798–99) con un’attribuzione a Matteo Rosselli. A differenza di quanto è scritto nel catalogo della galleria, che ne indica come primo proprietario Filippo II (figlio di Lorenzo Onofrio), la tela è registrata per la prima volta nell’inventario di Marcantonio, il padre di Lorenzo Onofrio, nel 1664: abbiamo pertanto un’ulteriore testimonianza del costante interesse dei Colonna per questi temi.

Il collegamento tra la cosidetta ‘pittura di genere’, quali stregonerie o bambocciate, e la letteratura di area libertina, suggerito da Luigi Spezza-ferro a proposito della collezione del commediografo Azzevedi, la cui biblioteca annoverava opere spagnole del siglo de oro, può essere esteso anche al Colonna.31 Oltre ai numerosi dipinti che raffigurano temi ‘di genere’ con ampia libertà, anche i testi raccolti dal principe, pur spaziando fra diversi campi del sapere, evidenziano una chiara aderenza libertina, riconducibile essenzialmente all’Accademia degli Incogniti del veneziano Giovan Francesco Loredano, e documentati da numerosi titoli, fra i quali non mancano le opere dell’eretico Ferrante Pallavicino.32

La vastità degli interessi coltivati dal Colonna può ancora una volta collegare fra loro le diverse manifestazioni artistiche di cui fu mecenate. Tra i testi di carattere scientifico, diversi sono relativi all’astrofisica e, tra questi, oltre al Trattato della sfera di Galilei (Roma 1656) si trova almeno uno dei due trattati che Maria Mancini aveva scritto, frutto di uno spiccato interesse in questo campo a cui si era dedicata già nel giovanile periodo parigino: il Discorso astrofisico delle mutazioni de’ tempi e d’altri acciden-ti mondani dell’anno 1670 (Modena 1670), e il Discorso astrofisico delle mutazioni de’ tempi e d’altri accidenti mondani dell’anno 1672 (Modena 1672).33 E proprio agli astri e ai pianeti i coniugi Colonna dedicano una delle loro sontuose mascherate, il Carro dei pianeti – organizzata sotto la direzione di Giovan Paolo Schor nel 1668 – e il Carro delle Esperidi. Altre mascherate, come quella di Clorinda, sono ispirate al filone della letteratura eroica – in primis del Tasso – e proprio nelle vesti di un’eroina tassiana, Armida, la contestabilessa si fa ritrarre a figura intera in un dipinto attri-buito a Carlo Maratta e Fioravanti (fig. 6).34

31 Luigi Spezzaferro, Per il collezionismo dei Bamboccianti a Roma nel Seicento: qualche

appunto e qualche riflessione, in: Da Caravaggio a Ceruti: la scena di genere e l'immagine dei pitocchi nella pittura italiana, a cura di Francesco Porzio, Milano 1998, pp. 83–88.

32 Gozzano, Il principe e i libertini (cfr. n. 1), pp. 111–126. 33 Tamburini, Due teatri (cfr. n. 4), pp. 44–45. 34 Tamburini, Due teatri (cfr. n. 4), pp. 44, 57, 102, 183n, 188n; De Lucca, “Dalle sponde” (cfr.

n. 5), pp. 215–227.

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Fig. 6: Carlo Maratta/Fioravanti, Maria Mancini come Armida, Roma, Palazzo Colonna

Anche la fastosa Orontea, l’opera di Cesti che – dopo la prima rappre-

sentazione a Innsbruck nel 1656 – il Colonna scelse quale prima grandiosa manifestazione del suo potere e della sua munificenza, fu allestita da Schor nel palazzo Colonna in Borgo nel 1661 e di nuovo, dopo le nozze con la Mancini, nel carnevale 1666 a Venezia. In essa si dispiega il gusto per la ricchissima ornamentazione sia nelle scene che nei costumi, ostentando in particolare, come addobbo dei ‘berrettoni’ dei cantanti, variopinte ‘pennac-chiere’. L’uso delle piume è attestato anche nei Carri menzionati in pre-cedenza: sono accuratamente descritte nei conti come “mezze penne di Venezia” arricciate con fil di ferro. Valeria De Lucca sottolinea infatti che le ‘pennacchiere’ del dramma cestiano (l’Orontea) derivavano da modelli

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veneziani35 e questo è solo uno dei tanti elementi a indicare la precisa volontà dei Colonna di aprire la scena teatrale romana a più ampi pano-rami. Inoltre la profusione di ornamenti per costumi e accessori potrebbe avere qualche affinità anche con i costumi dei balli che la Mancini aveva visto alla corte di Luigi XIV, presso cui aveva passato la sua giovinezza; e qui vorrei azzardare un parallelo, suggeritomi dalla descrizione di queste ‘pennacchiere’, con i copricapi piumati in vari colori esibiti da Re Sole nel famoso Ballet Royal de la nuit del 1653.

Per concludere, mentre in buona parte, sebbene non più nella loro sede originaria, i dipinti restano a testimoniare ancora oggi la cultura di questo brillante mecenate dopo più di tre secoli, dei tanti apparati, costumi, gio-ielli, scenari, tessuti realizzati per il teatro e per le esuberanti mascherate (con una profusione di denaro probabilmente di gran lunga superiore a quella investita nelle arti ancora oggi cosidette ‘maggiori’), non rimangono quasi più tracce tangibili. Ma la loro eco ci giunge ancora dall’inventario di morte di Lorenzo Onofrio Colonna che, nelle ben 18 pagine intestate sotto la voce “Teatro”, elenca: “abiti, maschere, gioie ad uso di teatro, fondali, mutazioni di scena con colonnati e proscenio, anticamera e proscenio, bosco, giardino, Galleria, ‘lontani’ di boscareccia, di giardino, di palchetti; 27 pezzi di tavolette dipinte a scene servono per commedie di burattini”.36

35 De Lucca, “Dalle sponde” (cfr. n. 5), p. 118. 36 I-Ras, Notai Auditor Camerae, vol. 5900: Consignatio Inventarii Clar: me: D.D. Laurentiis

Honuphriis Columnae Pro Ill. et Exc.mo D.D. Philippo Magno Comestabili Columnae. 12 dicembre 1689, cc. 520v–529r.