il circo delle lingue. sul cinema di fellini

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Lingue e linguaggi del cinema in Italia a cura di Marco Gargiulo Contributi di Massimo Arcangeli Silvia Capotosto Luca Di Vito Federica Ditadi Antioco Floris Cosetta Gaudenzi Vera Gheno Federico Giordano Ivan Girina Rosina Martucci Myriam Mereu Giulia Pierucci Gianluca Pulsoni Laura Ricci Andrea Rinaldi Michele Ronchi Stefanati Fabio Rossi Marcello Seregni

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Lingue e linguaggi del cinema in Italia

a cura di

Marco Gargiulo

Contributi diMassimo Arcangeli

Silvia CapotostoLuca Di Vito

Federica DitadiAntioco Floris

Cosetta GaudenziVera Gheno

Federico GiordanoIvan Girina

Rosina MartucciMyriam MereuGiulia Pierucci

Gianluca PulsoniLaura Ricci

Andrea RinaldiMichele Ronchi Stefanati

Fabio RossiMarcello Seregni

Copyright © MMXVIAracne editrice int.le S.r.l.

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via Quarto Negroni, Ariccia (RM)

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I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: maggio

Lingue e linguaggi del cinema in ItaliaISBN 978-88-548-8964-4DOI 10.4399/97888548896447pag. 119–135 (maggio 2016)

Il circo delle lingue

Sul cinema di Fellini

M G

. Felliniesque

Il cinema di Fellini è fatto di vignette, di facce, di colori, di visioni,di menzogne, di spettacolo in senso etimologico, cioè è strumento eluogo di azione e attrazione dello sguardo. Uno sguardo infantile che simuove a scoprire e sorprendere «figure ectoplasmatiche che fluttuanoin una dimensione sospesa tra realtà e sogno» (Brunetta : ).Uno sguardo apertamente umoristico, sfacciato e innocente, divertitoe innocentemente provocatorio che nasce e si forma tra i fumetti etra i ricordi di una irriverente insofferenza, di una giovinezza vissutanella ricchezza della lentezza, dell’amicizia e dell’umanità popolare.

Come efficacemente fa notare Calvino (: xxi) quello di Felliniè «cinema rovesciato, macchina da proiezione che ingoia la platea emacchina da presa che volta le spalle al set». La creatività felliniana,muovendosi dall’esperienza neorealistica e mettendo al centro il film,nasce nell’ombra che la tragedia staglia di se stessa nel fatto comico onel divenire comico di ogni tragedia portata all’esasperazione estetica,nel ritorno alle origini del dramma come azione dionisiaca. Il suocinema — neorealista, realista, surrealista — basato sull’attore e suldiscorso narrativo come componenti del reale, porta al massimo

. «“Felliniesque” has come to mean a certain Italian sophistication yet earthiness, afascination with the bizarre yet a love of simplicity all wrapped in a flamboyant Mediterra-nean approach to life and art. The words ciao and paparazzi have entered everyday Englishthrough Fellini movies» (Hammel : ).

. «I volti di Fellini, è stato detto, appartengono ad una razza nascosta che vive solo perinterpretare i film di Fellini. Per quanto abbia chiesto, nessuno dei personaggi ha saputospiegarmi qual è la sua parte. Docilmente aspettano di essere inventati», Sergio Zavoli neldocumentario Zoom su Federico Fellini ().

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grado un’idea nuova e personalissima di realismo cinematografico —anche quando eccessivo, stravagante, barocco, è arte che interpretaaristotelicamente la realtà, non come realmente è ma come potrebbeessere.

Scrive Gianfranco Angelucci (: –), infatti, che

Fellini ha capito molte cose, molte ce ne ha fatte capire: per esempio che larealtà, nel cinema, è soltanto il risultato della finzione, anzi è la perfezionedella finzione. Perché l’arte, quella visiva ancora più intuibilmente, è tuttasimbolica e procede per associazioni, come accade nei sogni, tanti fram-menti da ricomporre in un discorso coerente e convicente. Il resto è spessoequivoco, mistificazione (o impostura).

È questo il linguaggio che Fellini usa per mettere in scena e portaresu uno schermo postmodernista i propri ricordi, i propri paesaggi in-timi, il proprio flusso di coscienza. Un linguaggio fatto dei frammentidi uno specchio frantumato, i quali si intersecano uno nell’altro ancheriflettendosi a vicenda. Il tutto attraverso immagini intertestuali appa-rentemente caotiche, in «una visualizzazione infantile, disincarnata,precinematografica d’un mondo ”altro”» (Calvino : ibidem) e d’unmondo cinico e malinconico capace di prendersi gioco dell’artista.

Fellini racconta il mondo reale attraverso le visioni di un mondo“altro”, partendo dalle immagini e non direttamente dalla realtà, comefa ogni grande bugiardo. Grande bugiardo è la definizione che eglidà di se stesso, sapendo probabilmente di mentire ancora. Un uomoin cui la bugia è fantasia, semplicemente ciò che gli altri non riescono

. In questo senso La dolce vita segnerà un momento fondamentale nel percorso versoil «film puro» che porterà alla realizzazione di Otto e mezzo (Cfr. Rossi : ) e di Ela nave va, che li riprende entrambi (cfr. Burke : ). Scrive Zagarrio (: ) cheproprio l’atmosfera della Dolce vita, «a ben vedere, è insieme “moderna” e “postmoderna”,soprattutto per il mescolamento di arredi e di scenografie, di musiche e di culture (l’orientee l’occidente, il rock ’n’ roll e l’impero romano, l’aereo e l’elmo medievale, ecc.)». Inoltre,occorre tener presente che «Fellini’s postmodern sensibility comes through in variousinterviews, especially the ones he gave during the production of Satyricon, in which heexpressed great skepticism over, for example, art’s ability to represent history» (Sharrett :).

. Questo il titolo di un film documentario del diretto da Damian Pettigrew(Fellini: I’m a born liar). Bugiardo era per Ennio Flaiano, l’uomo più bugiardo del mondoper Alberto Sordi, suo compagno di ventura negli anni del trasferimento a Roma e suoattore nello Sceicco bianco () e nei Vitelloni (), e uomo sì bugiardo, ma timido epieno di dubbi per la grande Giulietta Masina.

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a vedere. Una verità altra, una verità da fumetto, da caricatura, quasicome se sotto ipnosi l’artista riproducesse su pellicola ciò che la suapsiche esprime in un linguaggio da decifrare a posteriori. Una fanta-sticheria che piano piano esplode e si realizza nel sogno, il mondoonirico condiviso dall’artista con il suo spettatore, attraverso la crea-zione negli attori, cui dà luce e voce. Un dialogo continuo tra dentro efuori, intorno, sopra e sotto, con una telecamera che fruga ovunque,nel mondo sospeso dello spettatore.

Grande provocatore, onesto e culturalmente ribelle, timido masfacciato e meticoloso, esploratore delle fantasie e delle paure umane,nel suo cinema ha condotto un gioco continuo, portando l’immagina-zione al grado più alto. Ha giocato con la spiritualità e con il desiderio,con la sessualità prorompente e allegra, spesso indolente, la sessualitàprovocatoria e carnevalesca, pornografica, carnale e irriverente finchénon apre alla malinconia consolatoria.

Lo schermo goliardico, il circo, la nostalgia, la malinconia del co-mico, la maschera, sono tutti elementi fondamentali del linguaggiocinematografico di Federico Fellini.

Tutti i personaggi felliniani parlano una lingua unica e scompostanelle diversità estreme del paesaggio interiore dell’artista, illuminatoe reso reale attraverso il cinema. Un paesaggio a tratti boccaccesco,fatto di figure iperrealistiche, di strati apparentemente caotici di pluri-linguismo, di un alfabeto di dettagli somatici ricchi di simbologie, dibrutture, di bellezza esagerata.

La poesia della vita è lo scherzo, la mutevolezza dell’umore, ladebolezza dell’essere umano nella gioia della vita a qualunque costo enell’impossibilità di trovare una lingua sicura e certa.

Il cinema di Federico Fellini, al di là di tutto ciò che ha lasciato nelvocabolario dell’italiano comune, attraverso tutta la serie di elementilessicali nuovi o che dal suo cinema si sono diffusi, come bidone, dolcevita, paparazzo, ecc. . . e dell’aggettivo felliniano stesso, sinonimo digrottesco, surreale, onirico — è un cinema fatto di poesia plurilinguee rivoluzionaria. Il suo modo tutto particolare di raccontare la com-

. «Fin da La strada, lo spettatore felliniano comincia ad avvertire la presenza dellamacchina da presa, non più zavattinianamente interessata al mero pedinamento del perso-naggio, bensì a chiamare in causa lo spettatore stesso, a partire dal celeberrimo sguardo incamera del finale delle Notti di Cabiria» (Rossi : ).

. Si vedano Rossi : – e Rossi : –.

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plessità della realtà contemporanea, trova nella intertestualità e nelplurilinguismo semiotico, la possibilità di portare al massimo grado dicreatività il complesso sistema di segni linguistici e sovra–linguistici asua disposizione.

Andando in verità oltre, mettendo in scena parole e seguendo per-corsi pericolosi segnati dalla letteratura. Allo stesso modo in cui fecerogià Boccaccio o Joyce, Fellini lo fa riempiendo lo sguardo e coniu-gando Botticelli e Michelangelo, per i riferimenti a canoni esteticiricchi di spiritualità e sensualità — per quei corpi enormi sempre inbilico tra il maschile e il femminile — con le visioni di Picasso, conl’ironia furbesca di Toulouse–Lautrec, con l’amaro grottesco di OttoDix e il fascino per la deformità e l’autorappresentazione inquieta diFrancis Bacon, per citare soltanto alcune delle possibili suggestioni chele immagini felliniane possono provocare in ognuno di noi.

. Il caos come luogo erotico e poetico

Con Bachtin (: –) possiamo comprendere quanto il cinemadi Fellini abbia contribuito a rivoluzionare la forma del racconto e delgrottesco in senso contemporaneo, quanto sia importante la formaracconto che si snoda attraverso visioni che si incastrano in scenee tableaux vivants, dal circo come luogo primordiale e sublimazionedello spazio sociale, nella trasformazione dello spazio teatrale e deisuoi protagonisti:

Nei fabliaux, negli Schwanken, nelle farse, nei cicli satirici parodici si conduceuna lotta contro lo sfondo feudale e la cattiva convenzionalità, contro la men-zogna che ha impregnato tutti i rapporti umani. Ad essi si contrappongonocome forza di smascheramento l’intelligenza lucida, allegra e astuta delfurfante (sotto forma di villano, di piccolo apprendista cittadino, di giovaneclerico vagante ed in generale di vagabondo declassato), i dileggi parodicidel buffone e la bonaria incomprensione dello sciocco [. . . ] Questa lottacontro la convenzionalità è continuata dal romanzo su una base più profondae coerente. [. . . Le maschere] danno il diritto di non capire, di confondere,di scimmiottare, di iperbolizzare la vita; il diritto di parlare parodiando, dinon essere letterale, di non essere se stesso; il diritto di far passare la vitaattraverso il cronotopo intermedio del palcoscenico teatrale [del teatro ri-

. Cfr. Rossi e il saggio di Rossi pubblicato in questo volume.

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preso dal cinema, nel nostro caso], di raffigurare la vita come commedia egli uomini come attori; il diritto di strappare la maschera agli altri; il dirittodi bestemmiare con bestemmie radicali (quasi cultuali); infine il diritto direndere pubblica la vita privata con tutti i suoi segreti più intimi.

Ribaltando ancora una volta la situazione, Fellini compie il piùgrande degli effetti comici: crea il sostituto comico costringendo ilsignore, il personaggio dell’alta borghesia e l’intellettuale di corte, cosìingessati e bloccati nella loro ridicola superiorità, a vestire i panni delclown, del buffone, eliminando il gradino di separazione estetica trale classi sociali.

Lo stesso avviene nel rapporto tra artista e critico: il primo semprein crisi, il secondo sempre troppo sicuro di sé e troppo distante dallarealtà per comprendere che l’arte è miscuglio di popolare e colto, dicarnalità e spiritualità.

Questa rappresentazione sottilmente ridicola appare in molte scene.Valga come esempio l’efficace monologo di Dumier ( Jean Roujeoul),l’intellettuale che parla in un buon italiano accademico con accentofrancese, rivolto a Guido Anselmi (Marcello Mastroianni), il regista incrisi, nella scena finale del film Otto e mezzo ():

Siamo soffocati dalle parole, dalle immagini, dai suoni che non hannoragione di vita che vengono dal vuoto e vanno verso il vuoto. A un artistaveramente degno di questo nome non bisognerebbe chiedere che quest’attodi lealtà educarsi al silenzio. Ricorda l’elogio di Mallarmè alla pagina biancae di Rimbaud?Un poeta, mio caro, non un regista cinmatografico lo sa di Rimbaud qual è lapiù bella poesia? La sua rinuncia a continuare a scrivere, la sua partenza perl’Africa. Se non si può avere il tutto, il nulla è la vera perfezione. Mi perdoniquest’eccesso di citazioni, ma noi critici facciamo quello che possiamo. Lanostra vera missione è spazzare via le migliaia di aborti che ogni giorno,oscenamente, tentano di venire al mondo.E lei vorrebbe addirittura lasciare dietro di sé un intero film, come lo scian-cato si lascia dietro la sua impronta deforme? Che mostruosa presunzionecredere che gli altri si gioverebbero dello squallido catalogo dei suoi errori.E a lei che cosa importa cucire insieme i brandelli della sua vita, i suoi vaghiricordi, o i volti delle persone che non ha saputo amare mai?

Il caos linguistico felliniano «serve a esprimere il disorientamentodei personaggi come anche la carica visionaria dell’autore» (Rossi: ). È luogo di ricchezza creativa e di consolazione erotica,

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dove la donna è sempre personaggio archetipico concreto e specchiodell’artista, del desiderio evolutivo di unire maschile e femminile inun unico individuo.

A cominciare dal personaggio di Wanda, sposina timida e sognatrice«infantile e pura, immersa in un romanticismo più che modesto»(Verdone : ) nello Sceicco bianco () o da quello della timidaSandra, sorella di Monaldo nei Vitelloni ().

Restando sul tema del femminile, l’aggettivo felliniano se riferito aduna donna può significare prosperosa, come prosperose e generoseerano le donne del sogno erotico di Fellini. Come Sandra Milo indiversi film, come le celeberrime signorina Gradisca e la tabaccaiadi Amarcord (). O ancora, come Anita Ekberg, Silvia giunonica ebellissima, che parla una lingua che l’accento straniero rende ancorapiù sensuale e più infantile, nella Dolce vita (), e vestita di via lattea,enorme e fantastica nell’episodio Le tentazioni del dottor Antonio inBoccaccio ’ ().

Enorme come Edra Gale nel ruolo di Saraghina in Otto e mezzo.Può significare anche iperespressionista e grottesca, come le donne

che affiancano la protagonista di Giulietta degli Spiriti (). Possonoessere le prostitute, le generose donne consolatrici della strada —come nella Dolce vita o nelle Notti di Cabiria ().

Cabiria, però, con la sua ingenuità, si prende gioco di tutte le don-ne, chiamandole dall’automobile del divo Alberto Lazzari (AmedeoNazzari):

A fanatiche, dico a voi oh!Ecchime qua!A pappagalle

e vince su tutte, anche su quelle che saranno protagoniste dei filmsuccessivi. Vince sulla telecamera, riscatta la Gelsomina della Strada e,con il celebre sguardo di Giulietta Masina (fig. ) — che non è soltantodi Cabiria — che esce dallo schermo ad incrociare lo sguardo dellospettatore, anticipa il gioco del rovesciamento tra sala e schermo chesarà caratteristica di tutto il cinema felliniano.

Come nota Mario Verdone (: ), «il fine ultimo di questolampo di regia, e che mi fa gridare al genio, è che Cabiria passa moltevolte sull’obiettivo della cinepresa senza mai esattamente fermarvisi.

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Figura . Giulietta Masina in Le notti di Cabiria, scena finale

Le luci si accendono su questa meravigliosa ambiguità». Il brano diNino Rota che fa da colonna sonora a quest’ultima scena e accompagnalo sguardo di Cabiria oltre lo schermo, si intitola, non certamente acaso, Ma la vita continua. Il film si sarebbe potuto concludere con lascena in cui Cabiria viene derubata, ma come osserva Bondanella(: ), «il regista, ancora una volta, aggiunge una breve coda alfilm, sufficiente però a elevare Cabiria di quel tanto oltre l’istantetragico d’impasse e condurla in una dimensione altra, e da un puntodi vista estetico ad un punto di vista filosofico».

Cabiria non ci fa capire come continuerà, sappiamo solo che tuttocontinuerà.

Parzialmente è vero ciò che dice Sam Rohdie (: ): «(s)he issmall, neither boy or girl, slightly deranged, with the movements of apuppet, wears dresses of horizontal stripes [. . . ] Cabiria is not sexy, nortarty nor seductive [. . . ] Cabiria as an oxymoron, her own antithesis».Ma l’ossimoro è un paradosso apparente, una acuta follia che riesce asuscitare un fascino enorme, un corto circuito della seduzione, unavittoria dell’intelligenza umana.

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Sono felliniane anche le secche signore annoiate ed eccentriche,impegnate nella ricerca di una estrema eleganza intellettuale che sfocia,sguazzandoci, nella lingua patetica dello standard irreale e gigionesco,annientato dall’innocenza dello sguardo infantile.

Sono anche le donne dell’harem plurilingue in Otto e mezzo, ognunacon una sua lingua diversa, una lingua che diventa sempre più espres-siva e colorata. Un miscuglio di varietà a cui fa da contraltare la calmavoce di Marcello Mastroianni, Guido, un Ulisse solo apparentementedistaccato e distante da tutto.

Per tutte vale la scena di Jacqueline Bonbon — nomen omen — chestrilla e piagnucola, in costume da soubrette di lustrini, accessori epiume di struzzo che si appiccicano ovunque, le finiscono in boccamentre parla, la costringono a incespicare. Scalza e impacciata, per viadelle decorazioni feticcio, si rifiuta di lasciare il gruppo delle giovaniper andare tra le donne oramai vecchie. Secondo il regolamento,infatti, «chiunque abbia superato i limiti di età passa ai piani superiori,dove verrà trattata ugualmente bene [. . . ] ma vivrà nella luce delricordo». E da qui scoppia la chiassosa ma innocua rivolta del gineceobabelico: tutte insieme che urlano in una lingua diversa per riaffermarela propria dignità. Tutto torna in ordine, le urla smettono, ma le parolenon tacciono, con Guido che crede di essere al comando di ogni cosa.La scena si chiude con la hostess danese che congeda definitivamentela capricciosa Jaqueline.

C’è una poesia della parola nei film di Fellini. Una poesia che nascegià nei disegni preparatori delle scene. «Via via Federico, bisognavolar via da qui» (fig. ), sono le parole della figura femminile, ancoraAnita, dai lunghi capelli biondi in uno dei disegni che compongono lacollezione «di segnacci, appunti affrettati e sgrammaticati».

E volare è uno dei sogni di Fellini. Vola Giulietta diverse volte nellarecita ecclesiastica e sull’albero che simboleggia l’erotismo libero, ed èla nostalgia del volo quella del nonno malato in Amarcord, nel celebre epoetico «voglio una donna» urlato dalla cima dell’albero in campagna.

Vola anche Venezia, trascinata nell’ascesa evocativa, oltre la foschiache avvolge la laguna e il Canal Grande, dai versi scritti in «venezianoonirico» (Marcato : ) del Recitativo veneziano di Zanzotto erecitati nella scena di apertura del Casanova () per quella scena

. Cfr. Rossi : –.

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Figura . da L’album delle donne di Federico Fellini, MicroMega, /

in cui compare una grande testa di donna che rappresenta — ancorauna volta — «la femmina misteriosa che abita in ognuno di noi» (dallalettera scritta da Fellini, da cui riporto anche il brano seguente, inZanzotto : –):

vorrei tentare di rompere l’opacità, la convenzione del dialetto veneto che,come tutti i dialetti, si è raggelato in una cifra disemozionata e stucchevole,e cercare di restituirgli freschezza, renderlo più vivo, penetrante, mercu-riale, accanito [. . . ] riscoprendo forme arcaiche o addirittura inventandocombinazioni fonetiche e linguistiche in modo che anche l’assunto verbalerifletta il riverbero della visionarità stralunata che mi sembra di aver datoal film. [. . . ] C’è un’altra cosa che vorrei chiederti: il film comincia con unrito (che ho inventato) al quale assistono il doge, le autorità, il popolo diVenezia. È un rito che si svolge di notte sul Canal Grande dal cui fondo deveemergere una gigantesca e nera testa di donna [. . . ] Come ogni rituale che

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per divenire liberatorio ha bisogno di nutrirsi di un’accesa forza psichicascandita in formule verbali o mimetiche, anche l’emersione, il venire allaluce dell’oscuro simulacro femminile dovrebbe essere accompagnato da ora-zioni propiziatorie, implorazioni iterative, fonie seducenti, litanie evocatricie anche irriverenze, sfide, insulti, provocazioni, sberleffi, tutto un inquietoscetticismo esorcizzante il temuto fallire dell’evento.

Ancora più forte il gioco poetico tra il veneziano di un’altra poesiadi Zanzotto, la Cantilena londinese nel recitato–cantato di Angelina, unagigantessa di origine veneta, e il recitato in napoletano dei due nani.Una scena in cui si compone «quel mosaico di trasalimenti infantili edangosciosi, fiabeschi e terrorizzanti, che più embleticamente defini-scono il rapporto nevrotico con la donna, cioè con qualcosa di oscuro,inghiottente, soverchiante» (ibidem: ).

La poesia d’amore più grande è, forse, quella dedicata a Cinecittà, alcelebre studio , nel film Intervista (), nel brano seguente, recitatoda Fellini nella parte di se stesso:

Ecco, allora, nel sogno mi trovavo in un ambiente buio, inquietante manello stesso tempo anche familiare. Mi muovevo lentamente, l’oscurità eraprofonda e le mie mani toccavano una parete che non finiva mai. In altrifilm in sogni come questo mi liberavo volando via, ma adesso un po’ piùvecchio, un po’ più pesante, facevo una gran fatica a sollevarmi da terra.Infine ci riuscivo e mi trovavo librato a grandissima altezza. E il paesaggioche vedevo tra squarci di nubi laggiù in fondo cos’era? La città universitaria,il policlinico, sembrava un reclusorio, un rifugio antiatomico. Alla fine lariconoscevo, era Cinecittà.

La parola e l’immagine, con la luce che dà importanza ad ogni cosa— come nella scena appena citata, in cui la luce lentamente scopre lostabilimento cinematografico nel diradare di nubi nel buio — sonofondamentali nella vita di Fellini. Il cinema in tutta la sua magia èfondamentale nella vita di Fellini.

Intervista è un viaggio verso il cinema, un sogno meraviglioso.Ed è palese quando il regista rievoca La Dolce Vita (Sauro Borelli,Irraccontabile Fellini, «L’Unità», maggio ):

Mastroianni–Mandrake, infatti, e altri begli spiriti suoi pari, Fellini nonescluso, invadono la casa di campagna di Anita Ekberg. E proprio là, in untripudio sempre incerto tra volgarità e dolore, acuto rimpianto e straziantepoesia, ecco il sortilegio che tutti ammutolisce e commuove senza rime-

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dio. Su uno schermo improvvisato compaiono, magiche e indimenticabili,con la stessa Ekberg, il solito Mastroianni, bellissimi e giovani, intenti inquell’esaltante gioco d’amore sotto gli scrosci d’acqua della fontana di Trevi.

E se è vero che il cinema può essere analizzato anche mettendo inevidenza la sua parte verbale — deve essere per forza così — il cinemadi Fellini, nel rapporto che il suo autore ha con la realtà, è un cinemadi immagini fatte anche di parole.

Dove la parola è la più grande menzogna, il grande gioco psicolo-gico che permette di esprimere la compiutezza del mondo, il legametra la mente e la verità. La parola che racconta, che dice, che indica,che informa. La parola che è emblema del patto comunicativo, che èdiscorso, insieme alle immagini, alle ombre, ai rumori, alla musica.

Non sarebbe una semplice immagine anatomica, forse pornografi-ca per alcuni, per esempio, la celebre tela L’origine du monde di GustaveCourbet () senza il suo titolo, senza la parola che la trasforma ingioco irriverente e serio e quindi in simbolo, conferendole una forzaprovocatrice molto più forte di quella portata dalla semplice e naturalenudità? Non è forse l’immagine artistica composta di parola e signifi-cato sociale quella che porta il messaggio più forte? La tabaccaia nonpotrebbe mai essere soltanto una donnona prosperosa e provocante,lo comprendiamo anche attraverso il codice linguistico.

Al gioco comunicativo contribuiscono, nel cinema di Fellini, i suo-ni, la musica, i rumori, le facce, i corpi, le luci, il trucco, le formegeometriche, tutto studiatissimo e preparato in maniera maniacale,stravagante e serissima. Come in un’opera d’arte pittorica — bastipensare alla magnifica cine–pittura a tratti caravaggesca (fig. ) delmondo scomparso in Fellini–Satyricon (), «La dolce vita in sandals»(Wiegand : ) — o in una pinacoteca intera, come ebbe a direGore Vidal descrivendo il cinema di Fellini.

. «But who are these weirdoes, this living caricatures who amble through Fellini’sfilms? They are the heirs to a long tradition of grotesque, figures out of commedia dell’arte,the attributes of the spectacle. They make up the world according to Fellini, halfwaybewteen carnival and squalor. Together, the great parade of “Circus Fellini”» (Stourdzé: ).

. Luciano Minerva, Intervista a Gore Vidal: L’inarrestabile crisi dell’Impero () in http://www.incontri.rai.it/ran/rubriche/incontri/interviste/gorevidal_intervista_.asp.Si veda anche l’interessante Aldouby sull’influenza della pittura nel cinema fellinianoe sull’idea di trasformazione del film in un’opera pittorica.

Marco Gargiulo

Figura . Max Born nel ruolo di Gitone, in Fellini–Satyricon

Il film è un testo poetico e poietico, per la sua completezza e com-plessità sintattica è forse il più vicino alla psiche umana, o almenoprobabilmente questo è il cinema di artisti come Fellini. La forza diquesta arte dipende dalla capacità generatrice di idee nello spettatore.

La poesia dedicata a Roma, lungo una vita cinematografica, alla suadecadenza, all’eterno monumentale caos, alle contraddizioni del relittodel bello, del mito del magnifico, è forse, insieme a quella dedicata alladonna, quella in cui la lingua di Fellini si esprime al meglio delle suepotenzialità. E Roma non è altro che la donna più prosperosa di tutte, lapiù materiale, la più sfacciata e la più spanciata. Quella apparentementepiù calorosa e facile da conquistare, ma in realtà più distante e indifferente.

È la Roma della festa continua della Dolce Vita, il già citato capo-lavoro del . Il film segna il punto di svolta per la sua opera ed èun momento fondamentale del cinema internazionale. Qui, già dallaprima scena, capiamo di trovarci immersi in un raffinato e lieve grotte-sco patinato, il mondo dell’alta borghesia romana e del nuovo divismocinematografico. Fellini, scrive (Brunetta : )

da questo momento comincia a compiere, nei confronti delle sue immagini,un’operazione molto simile a quella dei maestri dell’action painting ameri-cana: senza distruggere il proprio oggetto, il regista vi si immette in sensoquasi fisico, lascia che le proprie energie vitali confluiscano nelle immagini.

Il circo delle lingue

Parlando della lingua di questo film Pasolini (: ) ha detto:

(il lessico) è colorito, raro, bizzarro, superscritto, con pastiches espressiviprovenienti dai più diversi gusti, presi dai più diversi mondi. E lo stessodicasi del secondo strato stilistico, che come abbiamo visto corrispondealla sintassi: una sintassi appunto subordinante, ritardante, con rapidi volutibrividi di interiezioni e di sintagmi semplici, parlati.

Questo è, per Pasolini, neodecadentismo. Con La Dolce Vita, Fellinicomincia a destrutturare il racconto, a segmentare, a moltiplicareseguendo punti di vista sempre diversi attorno allo stesso oggetto. Ilprocesso psicanalitico che porta l’uomo Fellini ad identificarsi conl’autore Fellini in un progressivo percorso metacinematografico chenasce da un cubismo narrativo, in cui ogni lato potrebbe sembrareautonomo ma non lo è.

La destrutturazione felliniana procede in direzione di un semprepiù netto abbandono della progressione logica delle parti narrative.Nel Casanova, per esempio, tutto gioca col caos della memoria, pa-rafrasando Kezich (: ), in una allarmante e misteriosa visioneprofetica, una junghiana profezia del passato.

Ho citato Gore Vidal anche per la sua partecipazione al film del. Lo scrittore compare nella scena della Festa de Noantri, e recitaun incisivo monologo su Roma. Nella stessa scena compare anchel’attore britannico John Francis Lane, per dire solo due battute daaccompagnamento a Vidal:

Vi domandate perché mai uno scrittore americano vivea Roma.Prima di tutto perché piace i romaniche si frega niente se sei vivo o morto.Sono neutrali come i gatti.Roma è la città dell’illusione.Non a caso qui c’è la chiesa, il governo, il cinematutti cose che producono illusionecome fa tu, come fa io.Sempre più il mondo si avvicina alla fineperché troppo popolatotroppe macchine, veleni. . .e quale posto migliore di questa cittàmorta tante volte e tante volte rinataquale posto più tranquillo

Marco Gargiulo

per aspettare la fine da inquinamento, sovrappopolazioneÈ il posto ideale per vedere se tutto finisce o no.La scena si conclude col brindisi di Lane: «Alla fine!».

Il gran finale del film Roma è tutto giocato, infatti, sul rapportotra il regista e la città che l’ha adottato. Roma è Anna Magnani, inuna scena troppo celebre per non meritare di essere citata. Un brevetesto interrotto qua e là dai commenti sarcastici in romanesco dellaMagnani nella parte di se stessa, nella recitazione forse più equilibratae sincera della sua carriera, con una distanza poetica che lascia tuttosospeso e irrisolto, perché una soluzione vera non c’è mai. E questo è ilvero realismo felliniano. Dopo il caos di voci di dialettalità urbana checaratterizza tutto il film, un pacato finale, nel romanesco dell’attrice,una dialettalità genuina e lontana da qualsiasi manierismo:

F: Questa signora che rientra a casa costeggiando il muro dell’anticopalazzetto patrizio, è un’attrice romana, Anna Magnani, che potrebbe essereanche un po’ il simbolo della città.M Chi so’ io?F: Una Roma vista come lupa e vestale (Magnani: de che?) aristocrati-ca e stracciona, tetra, buffonesca, potrei continuare fino a domattina.M: Ah Federi’, va’ a dormi’ va’.F: Posso farti una domanda?M: No, nun me fido. Ciao (pausa) Buonanotte!Chiude il portone

Una scena che è la sintesi, ironica e autoironica, di tutto ciò cheè stato detto e si dirà attorno al metacinema: Federico Fellini che èil regista che interpreta se stesso; Anna Magnani che rappresenta sestessa, Roma e l’attore; l’attore che finge di non stare al gioco del pattocinematografico, che prova a ribaltare il rapporto creativo col regista;Roma che mette in soggezione, stanca, sfuggente e impenetrabile;l’affettuosa, sempre in bilico tra il simulato e il reale, mancanza difiducia attore/regista, cinema/autore, nella chiusura con la battuta«Nun me fido» pronunciata da Anna Magnani–Roma.

Fellini rompe completamente il confine tra momento creativo erealizzazione. Come nella scena finale di Otto e mezzo, in cui l’autore siunisce ai suoi stessi personaggi, scomparendo in mezzo a loro: «coluiche dovrebbe muovere il discorso, l’enunciatore, un po’ si perde; simoltiplica, si sposta, si confonde» (Casetti : ).

Il circo delle lingue

Fare il film è un godimento e uno scontro creativo condiviso trail regista, che crea e guida, e gli attori, le comparse, gli aiutoregisti, icollaboratori, i costumisti, gli addetti alla fotografia, i tecnici, e il restodelle persone coinvolte — personaggi essi stessi più degli attori, inverità.

Marco Gargiulo

Bibliografia

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