hopper, l'architettura templare e le origini del classicismo

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Hopper, l'architettura templare e le origini del classicismo Nicolò Savarese 1. Premessa 1 L'inizio della modernità è identificato convenzionalmente, dalla storiografia occidentale, con la scoperta del nuovo mondo nel 1492. In verità i paradigmi fondamentali della modernità si affermeranno definitivamente nei secoli XVII e XVIII, quantomeno nei due campi del sapere che più ci interessano in questa sede: la teoria della figuratività e la teoria dello spazio. Ciononostante è col Rinascimento, all'inizio del 400 a Firenze, che vengono poste le basi di una moderna concezione e rappresentazione dello spazio, ed è nel 500 a Roma che vengono definiti i modelli figurativi che diverranno poi canonici per tutto l'Occidente. Se, come sostenuto in un precedente saggio 2 , le città stanno al linguaggio figurativo come le lingue a quello naturale, la formazione della città moderna riveste un interesse molto speciale, di cui intendo nel seguito analizzare alcuni caratteri particolarmente importanti ai fini di un approccio di tipo semiotico. Per fare questo occorre però affrontare anche altri aspetti della semiosi figurativa ed in particolare quello che ritengo tuttora fondamentale per una sua piena legittimazione: ovvero la cosiddetta "articolazione di secondo livello", cui nel passato non fu mai data risposta convincente, sino ad un progressiva espunzione del problema prima, e della stessa architettura poi, dal campo dei sistemi semiotici. Il che non ha però impedito di continuare a discutere e trattare di una semiotica del visibile, anche se limitatamente alla pittura e all'arte o all'intero spettro dei fenomeni urbani interpretati in chiave prevalentemente socio-semiotica 3 . 2. Il tema "stanza con finestra e figura": da Hopper a Vermeer La Pop Art è stata forse l'ultima grande espressione organica della pittura e della plastica figurative, ma non sarebbe pensabile senza quel trait d'union con l'800 rappresentato dai realisti americani ed in particolare dal suo più insigne rappresentante, Edward Hopper, il quale dai suoi inizi artistici sino alla morte, ha lavorato su pochi temi, uno dei quali – forse il più significativo e per certi versi il più enigmatico – è stato quello che definirei della "stanza con finestra e figura" 4 .

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Hopper, l'architettura templare e le origini del classicismo Nicolò Savarese 1. Premessa1 L'inizio della modernità è identificato convenzionalmente, dalla storiografia occidentale, con la scoperta del nuovo mondo nel 1492. In verità i paradigmi fondamentali della modernità si affermeranno definitivamente nei secoli XVII e XVIII, quantomeno nei due campi del sapere che più ci interessano in questa sede: la teoria della figuratività e la teoria dello spazio. Ciononostante è col Rinascimento, all'inizio del 400 a Firenze, che vengono poste le basi di una moderna concezione e rappresentazione dello spazio, ed è nel 500 a Roma che vengono definiti i modelli figurativi che diverranno poi canonici per tutto l'Occidente. Se, come sostenuto in un precedente saggio2, le città stanno al linguaggio figurativo come le lingue a quello naturale, la formazione della città moderna riveste un interesse molto speciale, di cui intendo nel seguito analizzare alcuni caratteri particolarmente importanti ai fini di un approccio di tipo semiotico. Per fare questo occorre però affrontare anche altri aspetti della semiosi figurativa ed in particolare quello che ritengo tuttora fondamentale per una sua piena legittimazione: ovvero la cosiddetta "articolazione di secondo livello", cui nel passato non fu mai data risposta convincente, sino ad un progressiva espunzione del problema prima, e della stessa architettura poi, dal campo dei sistemi semiotici. Il che non ha però impedito di continuare a discutere e trattare di una semiotica del visibile, anche se limitatamente alla pittura e all'arte o all'intero spettro dei fenomeni urbani interpretati in chiave prevalentemente socio-semiotica3. 2. Il tema "stanza con finestra e figura": da Hopper a Vermeer La Pop Art è stata forse l'ultima grande espressione organica della pittura e della plastica figurative, ma non sarebbe pensabile senza quel trait d'union con l'800 rappresentato dai realisti americani ed in particolare dal suo più insigne rappresentante, Edward Hopper, il quale dai suoi inizi artistici sino alla morte, ha lavorato su pochi temi, uno dei quali – forse il più significativo e per certi versi il più enigmatico – è stato quello che definirei della "stanza con finestra e figura"4.

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Fig. 1 - The Open Window (acquaforte, 18x21). Fig. 2 - A Woman in the Sun (olio su tela, 102x152). Fig. 3 - Morning Sun (olio su tela, 71x102). Fig. 4 - Rooms by the Sea (olio su tela, 74x102). Fig. 5 - Night Windows (olio su tela, 74x86). Fig. 6 - New York Office (olio su tela, 102x140). Fig. 7 - Summertime (olio su tela, 74x112).

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Le prime opere in argomento sono delle acqueforti di piccole dimensioni e dall'impostazione molto simile (Fig. 1), eseguite tra il 1915 e il 19225. Ben presto, però, il tema acquista crescente plasticità, sino ad una serie di opere della maturità, tra le quali alcune davvero emblematiche6 (Fig. 2-3). In tutti questi quadri la rappresentazione poggia su alcune costanti figurative: l'interno di una stanza con finestra aperta su scorci di paesaggi generalmente urbani, ma non sempre, e la presenza di una donna, sopra o accanto a un letto, investita da un fascio di luce quasi orizzontale penetrante dalla finestra. La funzione di interfaccia tra esterno e interno – che nelle acqueforti era segnalata da una tenda agitata dal vento – in questi ultimi quadri è affidata esclusivamente alla luce, fino al punto di vanificare la presenza stessa della figura umana (Fig. 4)7. Quando la prospettiva viene invertita – dall'esterno verso l'interno - anche i valori figurali della rappresentazione vi si adeguano, conferendo sensi frammentari ed equivoci a ciò che sta al di là della parete-limite, cioè le stanze e le figure all'interno di un edificio (Fig. 5). Analogo è l'approccio, ma molto differente il contesto architettonico di alcuni fra i suoi quadri più celebri, come Nighthawks e New York Office (Fig. 6); ma anche quelli in cui la figura umana esce dalla stanza e si dispone in presenza di un ingresso con portico colonnato, mentre una finestra aperta ed una tenda svolazzante la ricollegano allo stesso tema di sempre (Fig. 7) 8. "E' molto difficile dipingere contemporaneamente un esterno e un interno" diceva Hopper9, dichiarando in questo modo il doppio ruolo che le aperture giocano nella parete limite: non solo in termini oggettivi e passivi (la luce che plasma i corpi) ma anche soggettivi ed attivi (i personaggi che guardano con intensità muta il paesaggio esterno); sino al punto di elidere ogni mediazione tra lo spazio interno del quadro, includente virtualmente lo spettatore, e il brandello surreale di paesaggio al di là della porta o della finestra aperte. Hopper si colloca, in realtà, all'interno di una convenzione figurativa che è stata elevata a paradigma della rappresentazione classicista da M. Foucault, stimolando riflessioni di carattere semiologico in molti Autori - da E. Gombrich a L. Marin, da M. Shapiro ad U. Eco - e che è stata studiata in maniera approfondita e sistematica da V. Stoichita10. E' la problematica del cosiddetto "raddoppio dell'immagine" che alcune tipologie o generi di rappresentazione in particolare determinano, e che coincide con la comparsa e la diffusione del dipinto su supporto mobile e incorniciato, ma anche con la fine della pittura antica e la nascita del classicismo. Stoichita, per l'appunto, colloca ed analizza tali convenzioni rappresentative all'interno di alcuni fondamentali generi pittorici, la cui invenzione ascrive, in maniera documentata (ma non indiscutibile), alla pittura olandese del 600: la natura morta (collocata in una nicchia), il paesaggio (visto al di là di una finestra) e l'interno domestico (guardato attraverso una porta). Una qualunque apertura (nicchia, finestra o porta), rappresentata all'interno di un dipinto, presuppone, infatti, la presenza di uno spettatore virtuale nello spazio antistante l'apertura; e l'osservatore reale vede ciò che l'osservatore virtuale, all'interno del quadro, traguarda al di là dell'apertura. Il quadro di paesaggio è la rappresentazione dello spazio esterno, visto dall'interno attraverso una finestra; così come un quadro di interni non solo è la rappresentazione di uno spazio interno, ma anche la prosecuzione dello spazio reale dell'osservatore esterno. Effetto analogo - o addirittura potenziato - può essere ottenuto inserendo la rappresentazione di un quadro nel quadro e/o di uno specchio dipinto sulla parete frontalmente opposta, nel quale si riflette non soltanto la scena dipinta dall'artista, ma anche l'immagine dello spettatore/autore virtuale/reale. In questo senso l'analisi condotta da M. Foucault su Las Meninas di Velasquez11 (Fig. 8), resta uno dei più penetranti saggi sul classicismo, e più in generale, sulla concezione del mondo come rappresentazione; cosicché le opere d'arte figurative moderne non sono altro che una rappresentazione della rappresentazione del mondo, un raddoppio della nostra di lui conoscenza. Se dovessimo effettuare un'analisi semiotica ancor più stringente, potremmo ovviare alla presenza di tali artifici rappresentativi: l'esistenza di figure umane all'interno di un quadro presuppone l'esistenza di un rapporto tra soggetto narrante e destinatario attraverso la presenza nel testo di un attante ed esplicita quel meccanismo proiettivo che sta alla base di tutte le strutture narrative, così come proposto da A.J. Greimas nella sua teoria generativa dei testi narrativi12. Una volta che tale convenzione sia stata culturalmente assimilata dal linguaggio figurativo comune, la stessa figura umana può divenire superflua – in realtà implicita - come nelle stanze vuote di Hopper.

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Fig. 8 - Las Meninas (olio su tela, 318x276). Fig. 9 - La lettera (olio su tela, 71x61). Fig. 10 - Signora alla finestra (olio su tela, 46x41). Fig. 11 - Ragazza che legge una lettera presso la finestra (olio su tela, 83x65).

Nella pittura olandese del 600 – tenendo anche conto dell'influenza su di essa esercitata dalla nascente borghesia e dalla sua concezione dell'abitare - queste convenzioni hanno avuto una vera e propria codificazione. Metà dell'opera di Vermeer (20 dipinti sui 42 di attribuzione certa) è costituita da interni domestici con finestra e una o due figure (quasi sempre femminili) impegnate in attività varie (Fig. 9-10-11). La finestra, sempre di scorcio, filtra la luce plasmando le figure, anche se non lascia mai intravedere l'esterno13. Un filo lungo e sottile appare dunque legare questi quadri a quelli di Hopper ed alla stessa concezione dello spazio classico post-antico o classicista. Chiunque si ponga all'interno di tale tradizione, non può sottrarsi al gioco di specchi, rimandi e raddoppi che la rappresentazione rappresentata genera. 3. Le figure base del linguaggio architettonico14 I dipinti di Hopper sul tema "stanza con figura e finestra" e la continuità del tema nella pittura figurativa moderna sono rilevanti ai fini di un discorso sull'interpretazione semiotica della comunicazione visiva; non per la loro intrinseca qualità estetica, ma per il fatto che rappresentano, in maniera emblematica, il rapporto tra una struttura geometrica basica del linguaggio spaziale (la cellula dotata di un'apertura verso l'esterno o l'interno) e la figura umana presente, realmente o virtualmente,

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al suo interno. Ogni spazio visto o pensato dall'uomo, può essere infatti scomposto in un numero più o meno grande di cellule tridimensionali elementari, al centro delle quali egli si colloca: né d'altra parte

è possibile immaginare un uomo al di fuori di uno spazio orientato dalla sua presenza. Possiamo definire queste cellule con il termine "figure"15, così come consegnatoci dalla tradizione storico-critica riguardante i linguaggi di tipo figurativo (pittura, scultura, architettura), in quanto già contenente in nuce sia la parte significante del segno figurativo (la sua immagine) che la parte significata, ovvero il valore semantico e relazionale conferito ad uno spazio, non più inteso solo geometricamente, dagli

attori umani che lo popolano e che attraverso di esso comunicano16.

Fig. 12 - Coordinate cartesiane.

Fig. 13 - Olyntos (V secolo a.C.). Fig. 14 - Coordinate cilindriche. Fig. 15 - Barumini (XII-VII secolo a.C.).

Se consideriamo l'occhio umano come origine e riferimento dello spazio tridimensionale circostante, qualsiasi punto di questo spazio può essere rappresentato attraverso due diversi sistemi di coordinate: quelle cartesiane, basate su una terna di rette ortogonali e quelle polari (cilindriche o sferiche), basate su una coppia di piani ortogonali passanti per l'origine (l'occhio). Tutte le costruzioni umane, sin dalla

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preistoria, hanno sempre oscillato tra questi due sistemi di riferimento ed orientamento spaziale, dando luogo a strutture a simmetria ortogonale (Fig. 12-13) o radiale (Fig. 14-15)17. Articolando o disarticolando lo spazio architettonico nelle sue componenti elementari, potremmo dunque adottare indifferentemente – dal punto di vista concettuale e metodologico – l'uno o l'altro di questi due sistemi di riferimento: nel primo caso la matrice geometrica sarà un cilindro, con due piani o superfici privilegiate di riferimento (il sotto e il sopra) ed una superficie circolare di interfaccia con il mondo esterno; nel secondo caso sarà un cubo, le cui sei facce ortogonali corrispondono ai nostri riferimenti spaziali più semplici e diretti: sotto – sopra – davanti – dietro – destra – sinistra. In realtà queste direzioni non sono perfettamente equivalenti per noi: il sotto e il sopra sono infatti legati ad entità fisiche e metafisiche indipendenti dai nostri stessi organi percettivi e possono essere perciò considerati come riferimenti stabili ed in qualche modo assoluti: la gravità e l'antigravità, la terra e il cielo18. Se teniamo fissi questi due piani, la nostra percezione dell'intorno potrà ancorarsi ad alcune direzioni privilegiate (per esempio i quattro punti cardinali, come in un sistema di coordinate cartesiane), ma potrà anche essere caratterizzata da una sostanziale indifferenza di orientamento rispetto ad un ambiente circostante tendenzialmente isotropo (come nel caso delle coordinate polari). La presenza/assenza delle tre classi di superfici - delimitanti lo spazio di una cella spaziale e corrispondenti fisicamente al piano di appoggio, al piano di copertura ed alle superfici verticali di chiusura/apertura verso il mondo esterno – è sufficiente a identificare le figure elementari del linguaggio architettonico. Il piano di appoggio, costituisce il riferimento tettonico primario: esso esprime il rapporto con la terra e l'effetto della legge di gravità, che ci tiene letteralmente in piedi e ci consente ogni tipo di movimento. Bastano alcune piccole varianti per modificarne profondamente le potenzialità semiotiche all'interno di un tipo architettonico: il dislivello tra due o più piani di appoggio, l'inclinazione anche minima del piano o la loro combinazione, come nel caso di scale e gradonate. Il piano di copertura esprime il senso della protezione e del riparo dagli agenti atmosferici, ma anche il rapporto con il cielo; la sua presenza/assenza separa infatti la classe degli spazi aperti da quelli coperti. Anche in questo caso le varianti di configurazione (il tetto piano o inclinato, la concavità interna o la convessità esterna delle volte) si prestano ad ampie potenzialità dal punto di vista semiotico. Le superfici verticali segnano infine la separazione tra spazio interno ed esterno, ma ne sono anche l'interfaccia, nel senso letterale del termine; proprio per questo esse presentano una grande variabilità di configurazioni, in ragione della loro forma, tessitura, completezza, trasparenza, composizione materica, e così via.

◄ SPAZI COPERTI ► ◄ SPAZI APERTI ►

In questa sequenza sono schematizzate le figure basiche relative agli spazi coperti e aperti di una città La presenza di tutte le superfici di separazione tra spazio interno ed esterno connota la cellula compositiva completa e chiusa. La scomparsa parziale o totale della superficie parietale verticale modifica radicalmente la configurazione dello spazio che, nel caso più estremo, resta delimitato soltanto, sopra e sotto, dalla presenza di due piani paralleli19. La variante più diffusa è tuttavia quella in cui le superfici verticali o parietali risultano interrotte, consentendo l'apertura parziale della cellula e la comunicazione verso l'esterno.

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L'assenza della sola superficie superiore trasforma la tipologia della cellula in uno spazio chiuso o recintato, ma scoperto. Si tratta di una trasformazione sostanziale, in termini architettonici ed ancor più urbanistici. Se pensiamo alla città non come giustapposizione di edifici, ma come articolazione integrata di spazi architettonici coperti e scoperti, ci apparirà allora l'importanza essenziale di questa figura dal punto di vista urbano, come vedremo nel paragrafo conclusivo. Infine, l'eliminazione non solo del piano di copertura, ma anche della superficie parietale, non rappresenta l'annullamento dello spazio architettonico e la sua fusione con la natura. La figurazione di uno spazio totalmente aperto, ma delimitato da un tracciato definito dall'uomo, costituisce un capitolo fondamentale nella storia dell'architettura e della città: è la composizione del "giardino" o dell' "orto", intesi come ridefinizione culturale (o colturale) della natura all'interno del linguaggio architettonico. Le potenzialità di senso di queste figure basiche non possono prescindere dal fatto che – occorre ribadirlo ancora una volta – il significato non è insito nella loro immagine visiva, ma è dato solo ed esclusivamente dalla presenza reale o virtuale dell'uomo, per il quale lo spazio non può essere neanche pensato senza un sopra, un sotto e un intorno. Attraverso la trasformazione topologica delle figure di base, la loro aggregazione in ben definite tipologie architettoniche e la composizione, infine, dei diversi tipi architettonici aperti e coperti così generati, nello spazio urbano, è possibile concepire e produrre qualsiasi testo o discorso architettonico. Nel paragrafo seguente cercherò di delineare una breve rassegna delle potenzialità di senso delle prime due figure, attingendo liberamente alla storia dell'architettura e della città. 4. Stanze segrete e camere con vista Lo spazio interno di una stanza – sempre implicito, come abbiamo visto, anche quando la rappresentazione si rivolge al paesaggio – può essere assunto come punto di partenza di ogni riflessione sullo spazio dell'architettura. Di questo spazio interno il cubo, come prima detto, rappresenta la migliore e più flessibile approssimazione alla cellula base universale del linguaggio figurativo. Una stanza dotata di un'apertura verso l'esterno ci consente, inoltre, di introdurre una funzione segnica fondamentale: la relazione esistente in ogni sistema urbano, tra spazio interno ed esterno. La cellula completamente chiusa, connota l'architettura funeraria, ma anche altre tipologie di spazi, la cui caratteristica funzionale è essenzialmente legata all'idea di inaccessibilità o impermeabilità. La Ka'ba – il cubo (Fig. 16) – è il centro dell'Islam; la copertura con la kiswa ci ricorda le proprietà del "corpo nero" della fisica (o del "buco nero" dell'astrofisica), entro cui la radiazione, priva di ogni relazione con l'esterno, resta perennemente confinata. Ed in effetti il modello più integrale e primevo della cellula cubica è quello della "tomba". La spazialità interna della tomba è destinata ad annullarsi con la sua chiusura (Fig. 18) e così la sua esistenza viene in molte culture affidata alla forma dell'involucro esterno. Qualunque mausoleo tende ad amplificare il senso di quello spazio interno invisibile che è la camera mortuaria, in maniera proporzionale all'importanza attribuita al suo abitante. Per quanto paradossale possa sembrare, in realtà più la cella tombale vuole essere inaccessibile, tanto più visibile sarà il suo involucro. L'esempio più eloquente di questa strana equazione architettonica – già rinvenibile nei dolmen delle culture megalitiche della preistoria europea - è la piramide faraonica (Fig. 17): qui lo spazio interno, che si proietta all'esterno in un involucro privo di aperture, assume la forma a cuspide; la base resta quadrata, ma le pareti laterali convergono verso l'alto in un unico punto di fuga. Eppure anche lo spazio dedicato alla morte è concepito per essere vissuto, attraverso il corredo funebre (arredi, armi, oggetti, cibi o addirittura persone). Nelle necropoli l'omologia tra città dei vivi e città dei morti si dilata e si amplifica ulteriormente, sino alla loro integrazione fisica; tanto da rendere difficile il loro riconoscimento nella trama di un tessuto urbano contemporaneo (Fig. 20). Al di là dell'architettura funeraria, la figura spaziale priva di comunicazione con l'esterno ha dato e dà luogo a molte altre funzioni segniche; la ricerca in internet restituisce oltre 700.000 risultati per l'espressione "stanza segreta": dal Tempio di Davide a Indiana Jones, dal Grande Fratello a Michelangelo, dal caveau di una banca al rifugio antiatomico.

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Fig. 16 - La Ka'ba alla Mecca. Fig. 17 - La Piramide di Cheope a Gizah (sezione). Fig. 18 - Interno di tomba etrusca. Fig. 19 - Il caveau di una banca. Fig. 20 - Il cimiero del Verano (sulla destra) ed il quartiere di S. Lorenzo (sulla sinistra) a Roma.

"Camera con vista" è il titolo del celebre film di J. Ivory (Fig. 21), tratto dall'omonimo romanzo di E.M. Foster, e divenuto ormai uno standard di offerta alberghiera, oltre che un esempio classico della sindrome di Stendhal. Basta dunque una modesta apertura in una delle pareti della cellula cubica per passare dal regno dei morti a quello dei vivi. La "stanza" - in quanto luogo in cui si sta - è la generatrice primaria di ogni spazio abitato; è il luogo dove si raccoglie la cellula sociale elementare (la famiglia, il clan). La capanna, all'interno di un villaggio neolitico, vi si identifica completamente e le case in cui viviamo sono soltanto una complessificazione di questa figura basica, il cui numero è stato fino a ieri alla base della nostra (italiana) fiscalità immobiliare, piuttosto che il parametro neutro della superficie da essa occupata.

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Fig. 21 - Locandina del film Camera con Vista. Ogni casa, infatti, è un puzzle più o meno complesso di cellule abitative specializzate dall'uso sociale; cucina, bagno, letto, soggiorno, non sono che declinazioni funzionali di una stessa ed unica figura, la cui matrice topologica è un cubo privato di una o più delle sei facce che lo delimitano: quelle che comunicano con l'esterno o con altre stanze. Nella storia dell'architettura questi elementi di comunicazione possono variamente posizionarsi: verso l'alto (cioè nel piano di copertura, per motivi di difesa), come negli insediamenti neolitici ittiti di Çatal Hoyuk o nelle Mesas nordamericane; verso una corte interna, come in molte culture passate e presenti (a difesa della privacy) o verso la strada e lo spazio esterno della città. Sin dall'antichità il valore simbolico, oltre che funzionale, della porta è segnato da importanti elementi architettonici, come la soglia o la parete schermo (yingbi) posta di fronte all'ingresso della casa a corte cinese (Fig. 23); essi stanno a significare il passaggio tra due sfere ben delimitate e definite della socialità. Nel pantheon romano Ianus bifronte è il dio protettore della casa (Fig. 22) e "janua" è il termine latino che designa la "porta domestica". Tale concetto è ancor più marcato ed enfatizzato nelle porte urbiche, che segnano il passaggio dallo spazio naturale a quello cittadino: la "porta urbana", in latino, è per di più la declinazione femminile di "portus", luogo di interfaccia terra/mare e quindi luogo per eccellenza degli scambi commerciali con altre città. Nel mondo mediterraneo, da sempre la finestra tende a trasformarsi in porta aperta sul balcone, proiezione estrema della stanza verso lo spazio pubblico (Fig. 25-26-27). I modi con cui il balcone viene realizzato (aperto o protetto o strutturato in forma di bow window), dipendono, oltre che dal clima, dalle regole socio-culturali dominanti. Tutta la regolamentazione edilizia tra 800 e 900 si basa sul concetto di abitabilità, intesa come quantità di luce e di aria rese disponibili da un'apertura verso l'esterno (Fig. 28). Nella concezione contemporanea - "democratica" e "socialista" - dell'abitare e del lavorare, l'open space ed il courtain wall divengono veri e propri paradigmi architettonici, con lo scopo di eliminare ogni forma di gerarchizzazione dello spazio interno e di creare un'integrazione totale tra spazio interno ed esterno (Fig. 29-30). La modalità con cui queste funzioni segniche si realizzano possono essere dunque molto differenti, da luogo a luogo e da tempo a tempo; ma esse non incidono sostanzialmente sul significato di una parete continua su cui viene praticato un foro per attraversarla, fisicamente o anche solo con lo sguardo.

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Fig. 22 - Raffigurazione di Giano bifronte. Fig. 23 - Yingbi in una casa a corte cinese. Fig. 24 - La Porta dei Leoni a Micene. Fig. 25 - Balcone a Noto. Fig. 26 - Balcones a Lima. Fig. 27 - Il balcone di Palazzo Venezia a Roma. Fig. 28 - Sfruttamento dell'illuminazione solare (A. Klein, 1931). Fig. 29 - Case di abitazione a Lake Shore Drive, Chicago (L. Mies van der Rohe, 1951). Fig. 30 - Larkin Building, Buffalo (F. L. Wright, 1904).

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5. La funzione d'interfaccia uomo/dio: dai templi greci alle cattedrali gotiche Le abitazioni degli dei, in pressoché tutte le culture umane conosciute, non si discostano molto dalla matrice spaziale delle abitazioni dell'uomo (la cellula elementare dotata di apertura verso l'esterno), se non per le sue più marcate connotazioni retoriche e simboliche. Per tale motivo il tempio si presta più efficacemente ad un'analisi semiotica della funzione d'interfaccia interno/esterno nell'ambito del linguaggio architettonico e quindi anche di aspetti che la storia dell'arte e l'analisi filologica tradizionale hanno sempre valutato in termini puramente stilistici. L'ordine nasce con ed in funzione dell'architettura templare greca e la tesi qui sostenuta è che esso – se analizzato come funzione segnica, interpretando cioè il rapporto tra i suoi significati e la sua struttura figurativa – ci consente di capire come e perché il tempio greco abbia non soltanto influenzato, ma consustanziato tutta l'architettura occidentale sin quasi alla metà del secolo scorso, divenendo il paradigma fondamentale dell'architettura occidentale sino all'avvento del cosiddetto "Movimento Moderno".

Fig. 31 - Olimpia. Fig. 32 - Delfi. A dispetto di quanto si possa credere e a parte la vasta saggistica sul rapporto tra società e religione nella Grecia antica, in realtà non si sa molto di come architettura religiosa e riti sacri venivano materialmente vissuti dai cittadini della polis20. Di certo il tempio rappresentava l'episodio architettonico culminante di un sistema funzionale che occupava uno spazio assai più vasto: il temenos o recinto sacro (Fig. 31-32), all'interno del quale avvenivano molte attività, inclusi banchetti e convivi, processioni, giochi, spettacoli ed altro ancora. La struttura geometrico-topologica del tempio greco, nella sua configurazione più semplice, è quella di una cella spaziale parallelepipeda priva di una faccia (la porta d'ingresso) e preceduta da una seconda unità spaziale (il portico), adiacente alla prima (Fig. 33). In questo modo la funzione planare d'interfaccia, costituita dalla porta, si trasferisce in una struttura spaziale contigua e più complessa. Tale struttura discende in via diretta dal megaron, divenuto in età minoico-micenea il luogo del palazzo deputato alle relazioni esterne del re con ospiti, sudditi e visitatori, ma già attestato in età neolitica, sia in area peloponnesiaca che anatolica21.

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Fig. 33 - Tipologia del megaron e del tempio in antis. Fig. 34 - Gruppo di megara (Troia, Livello IIc, III mill. a.C.). Fig. 35 - Tempio in antis. Fig. 36 - Tempio periptero. Fig. 37 - Tempio dorico (Paestum). Fig. 38 - Ordine ionico (Palladio, I Quattro Libri dell'Architettura). Fig. 39 - Ordine ionico (Eretteo, Acropoli di Atene).

Di certo la cella interna (naos) non era riservata ai soli sacerdoti; ma, date le sue limitate dimensioni, poteva ospitare solo certi tipi di culto, probabilmente circoscritti ad un pubblico selezionato per casta o livello di rilevanza sociale; la funzione principale della cella era però quella di ospitare la statua o immagine del dio; essere cioè la casa del dio. La maggior parte dei fedeli doveva assistere a riti e cerimonie dall'esterno, come testimonia la collocazione e l'orientamento dell'ara o altare dei sacrifici, generalmente prospiciente la porta del naos. L'apertura delle ante della porta doveva rappresentare, plausibilmente, un aspetto essenziale delle cerimonie, perché consentiva ai fedeli di traguardare l'immagine del dio (di qui l'importanza, lo sfarzo e le dimensioni date col tempo alla sua statua). Erone di Alessandria aveva addirittura inventato un meccanismo pneumatico assai ingegnoso che consentiva al sacerdote, attizzando il fuoco dell'altare, di far aprire automaticamente le porte del tempio22.

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Fig. 40 - Tempio di Zeus a Olimpia. Fig. 41 - Tempio di Minerva a Atene. Fig. 42 - Il congegno di Erone. Non ci scandalizza certo l'idea che il portico antistante (il pronaos nei primi templi in antis, e poi la peristasis, il porticato avvolgente i tempi peripteri) potesse avere anche una banale funzione di riparo in caso di pioggia; ma ciò che conta è che, dal punto di vista strutturale, esso fungesse da interfaccia – o filtro, se si vuole - tra il dio e la comunità dei credenti. Non scalfisce parimenti il ruolo del portico ed il suo significato profondo, la probabile genesi tecnologica della sua configurazione fisica: il fatto, cioè, che per rendere possibile questa trasparenza si dovesse ricorrere a delle colonne, data l'impossibilità – per la tecnologia del legno o della pietra – di ampliare oltre un certo limite l'interasse dei sostegni terminali del portico stesso. Anzi è sommamente istruttivo che una struttura figurale – quella del colonnato – sia rimasta indissolubilmente associata ad un significato – quello di filtro o di interfaccia tra interno ed esterno - nonostante l'evolversi delle tecnologie e delle loro potenzialità statiche e nonostante il mutare o il perdersi di una qualsiasi altra sua funzione originaria. E' inoltre importantissimo rilevare la codificazione, fin nei più piccoli dettagli, della forma della colonna e di tutto l'apparato figurale interpretante il sistema statico ad essa correlato – base, capitello, architrave, fregio, eccetera - perché è solo attraverso la perpetuazione di quella figura complessa, rigorosamente normata, che è possibile distinguere tra la funzione statica di un palo e la funzione segnica, non più di una semplice colonna, ma di tutto un sistema figurativo costruito tra cielo e terra (l'Ordine appunto). Una volta codificato, l'ordine si è esteso all'architettura civile di maggiore rilevanza sociale, è stato declinato in varie forme dialettali (dorico, ionico, corinzio) ed è stato trasmesso al mondo romano che, al di fuori dell'architettura religiosa, lo ha utilizzato con connotazioni prevalentemente retoriche o decorative. Nell'architettura paleocristiana lo ritroviamo ancora con funzioni in parte simili: l'atrio antistante le basiliche più antiche assolve alla funzione di filtro tra cristiani battezzati e catecumeni ed evolve contraendosi nel pronao o nartece, che permane e caratterizza alcune declinazioni regionali del Romanico europeo. All'interno della chiesa il colonnato – ormai deprivato del concetto di <ordine> ed utilizzante materiali di spolio - marca la divisione delle navate, connotando al più la separazione tra differenti generi e ruoli sociali, ma poi va poco a poco perdendo il suo significato, fino a scomparire del tutto, sia nell'architettura religiosa che in quella civile. Nelle cattedrali gotiche, dal XII secolo in poi, è il portale d'ingresso a caricarsi di un enorme complesso di significati tipologici, teologici e simbolici, dando luogo ad impressionanti manifestazioni espressive ed artistiche. La porta del tempio cristiano rappresenta infatti l'elemento di comunicazione tra la città terrena e quella divina. Nella lunetta dei portali gotici è spesso rappresentato il Giudizio Universale e le processioni, superando la soglia, mimano l'ingresso nel regno di Dio. "Ciò che splende qui dentro, la porta dorata te lo preannuncia" dice l'Abate Suger a proposito di Saint Denis, prototipo - per alcune innovazioni architettoniche - delle cattedrali gotiche dell'˝le de France. Nella simbologia cristiana Cristo stesso è la porta (la triplicità delle porte frontali di accesso allude alla Trinità) e non ha più bisogno di un filtro per rapportarsi allo spazio sociale della città: nella cattedrale si tengono le

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assemblee cittadine ed il chiostro finisce per assorbire le funzioni culturali e educative un tempo appannaggio dei monasteri, lontani dalle città23.

Fig. 43 - Portali frontali della Cattedrale di Reims. La risposta medievale più matura al problema del rapporto città/tempio e comunità/dio non ha più nulla a che vedere con l'ordine classico, al di là di qualsiasi problema di carattere stilistico. La sostituzione del <porticato colonnato> con il <portale> delle cattedrali romaniche mature e soprattutto gotiche, è invece riconducibile ad una mutazione semantica sostanziale rispetto al mondo greco-romano, riscontrabile non soltanto nel rapporto interno/esterno, ma anche nel rapporto più generale tra comunità religiosa e divinità. Il popolo di dio non è più solo spettatore dei riti di relazionamento con la divinità, ma vive in comunione con essa, grazie all'incarnazione del dio fattosi uomo. L'unico diaframma interposto tra dio e i fedeli è costituito dal tabernacolo che custodisce il corpo ed il sangue del cristo, ma lo spazio del tempio cristiano è unitario, pur nella sua articolazione simbolica. L'interno del tempio non è più solo la casa del dio, ma è la casa della comunità dei fedeli. 6. Il tempio ed il rapporto uomo/dio nelle culture extra-europee24 Una breve digressione su come differenti culture hanno affrontato e risolto il rapporto uomo/dio nell'architettura religiosa è molto interessante sotto il profilo semiotico e – per quanto mi risulta – poco o punto affrontato in un'ottica comparativa. In effetti ogni cultura ha elaborato specifici accorgimenti per istituire strutture-filtro tra uomini e dei, utilizzando varie componenti basiche del linguaggio architettonico. L'unica eccezione – valida però come controprova - è quella fornitaci dalla religione islamica, rigorosamente aliena da una qualunque rappresentazione della divinità e da ogni simbolo o segno che ne testimoni la presenza, anche solo virtuale, all'interno del tempio25. La conseguenza è la più totale indifferenza non soltanto nella strutturazione dello spazio interno (Fig. 46), concepito esclusivamente come spazio di raccolta e di preghiera dei fedeli (orientato solo dalla presenza del

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mihrab e della kibla); ma anche nella transizione dallo spazio esterno a quello interno, affidata ad un portico che - a differenza del colonnato che avvolge un tempio greco periptero - circonda in questo caso l'intero cortile che precede la moschea (Fig. 44-45), rendendo quindi l'accesso alla sala ipostila della preghiera (haram) quasi indifferente.

Fig. 44 - Pianta della moschea degli Aghlabidi a Sousse. Fig. 45 - Moschea a Fustat, nei pressi del Cairo. Fig. 46 - Interno della moschea di al-Azhar al Cairo. Fig. 47 - Vastu-Purusha-Mandala (da un antico trattato indiano di architettura)

Nell'architettura religiosa indiana è necessario distinguere, innanzi tutto, tra templi induisti e buddisti, laddove questi ultimi, nelle loro espressioni originarie e più rigorose, risultano molto vicini ai templi a navata cristiani, con la sostituzione dello stupa all'altare; il che non sorprende se teniamo conto della natura del buddismo e del rapporto che con il buddha intrattengono i suoi seguaci. Solo in epoche tarde il buddismo acquisisce i caratteri di una vera e propria religione ed allora non si avrà più una così netta distinzione tra templi buddisti e induisti26. Nell'architettura induista il santuario, ospitante i simboli dell'essere supremo (brahma), era interdetto ai fedeli ed era separato dallo spazio esterno da una stretta e profonda porta; nei templi proto-induisti, in effetti, il rapporto con la divinità era di natura personale ed avveniva in ambito domestico, sicché il tempio e l'intero recinto sacro si può

supporre che fossero inaccessibili ai fedeli. Quando, a partire dal X secolo d.C., nell'India

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settentrionale, viene introdotto uno spazio di preghiera coperto, adiacente al santuario, si opera una netta separazione tra la cella (garbha-griha, sormontata da un'alta piramide a vari ripiani) e la sala accessibile ai fedeli (mukhashala, dotata di coperture poco pronunciate). Ma l'aspetto più rilevante, da un punto di vista semiotico, non sta tanto nella separazione e diversificazione dei due vani, quanto nella matrice geometrica che ne regola la strutturazione: il mandala (Fig. 47), le cui leggi sono note solo agli architetti-sacerdoti (sthapati). Esso presiede alla forma, dimensione e disposizione di ogni più piccola componente del tempio, sia in pianta che in alzato (Fig. 48). Il significato più profondo della sua funzione può essere colto appieno nell'architettura religiosa kmer, di derivazione indiana e buddista, ma con sviluppi del tutto autonomi. Negli esempi più maturi di architettura templare ad Angkor, la matrice modulare del mandala evolve verso strutture di tipo frattale (Fig. 49), laddove ogni singola parte del tempio, a qualunque scala di dettaglio la si consideri, ripropone lo stesso schema geometrico dell'impianto complessivo. Siamo qui di fronte ad un filtro uomo/dio di natura mistica, ossessivamente e scientemente perseguito per rendere totalmente incommensurabile la distanza fisica e visiva dalla divinità.

Fig. 48 - Particolare del Gopura settentrionale di Madurai. Fig. 49 - Pianta del Bayon di Angkor Tom. Il caso forse più interessante è però quello delle culture mesoamericane (e solo in parte sudamericane) precolombiane27. Qui il piano inclinato marca in maniera generalizzata e pressoché universale lo sfalsamento ed il raccordo tra due livelli del suolo nella configurazione degli spazi architettonici e finanche urbani. Nell'architettura templare, tuttavia, questa modalità figurativa ha finito per assumere lo stesso ruolo di intermediazione del colonnato nel tempio greco. Anche in questo caso, in verità, lo stacco ed il raccordo al tempo stesso, tra il piano dello stilobate e quello del terreno circostante è assolto dalla successione di gradoni (crepidoma) che formano il basamento; ma i pochi gradoni che, nel tempio greco, marcano il dislivello, non potevano essere sufficienti a dare forza e rappresentatività ad un concetto di tale significanza; così, mentre l'architettura greca ricorse all'invenzione del portico e a tutto l'apparato figurativo dell'ordine, nelle culture mesoamericane arcaiche e classiche questa stessa esigenza concettuale venne espressa potenziando ed estremizzando la gradonata di raccordo, dando così luogo ad una vera e propria piramide con il tempio alla sua sommità (Fig. 50). La funzione segnica di questa configurazione - a differenza della piramide egizia - sta proprio nel creare un filtro tra i fedeli, la divinità e la casta sacerdotale che la rappresentava.

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Fig. 50 - La piazza centrale di Tikal. 7. La reintroduzione dell'ordine nell'architettura classicista La reintroduzione dell'ordine nell'architettura europea, a partire dal Quattrocento, ha poco a che vedere con l'architettura templare, laddove i nuovi rapporti tra comunità, spazio urbano e istituzione religiosa stentano a trovare soluzioni innovative e nel Nord Europa le cattedrali gotiche continuano ad essere edificate anche dopo la fine del XV secolo. Da un punto di vista semiotico – o anche solo iconologico – avrebbe poco senso tentare di aggiungere qualcosa all'analisi di quel brodo di cultura umanistica che generò a Firenze, all'inizio del Quattrocento, il Rinascimento delle arti figurative, facendo dell'ordine classico, nella teoria e nella pratica, il principio ordinatore dello spazio architettonico, ben più di quanto non lo fosse stato nell'antichità. Interessa piuttosto capire quali nuovi significati appaiono sottesi alla permanenza/recupero della struttura significante dell'ordine e soprattutto quali nuovi rapporti si stabilirono, alla fine di un lungo processo, tra piano dell'espressione e piano del contenuto. Seguendo in parallelo gli sviluppi delle innovazioni in architettura ed urbanistica, dovrebbe apparire chiaro, alla fine, che senza un quadro di riferimento urbano, tutto finirebbe per ridursi ad una semplice successione di invenzioni espressive ed artistiche individuali. Inizialmente la reintroduzione dell'ordine classico serve a garantire la scansione geometrica delle superfici e poco più. Nell'architettura civile questa modalità di utilizzo dell'ordine fu introdotta, per la prima volta, da Leon Battista Alberti in Palazzo Rucellai a Firenze, attraverso un innesto sul modello brunelleschiano di Palazzo Pitti, e si diffuse poi rapidamente in tutta Italia (Fig. 51-52)28. Per comprendere appieno le modificazioni semantiche e sintattiche subite dall'ordine in questo passaggio epocale, dobbiamo però attendere la rielaborazione cinquecentesca romana. Le prime evidenze riguardano il livello sintattico, ma è solo interpretando la ricodifica fattane a livello semantico che potremo trarne le implicazioni più rilevanti sotto il profilo semiotico complessivo. Nella fase iniziale del Rinascimento la parte significante della funzione segnica <porticato colonnato> finisce, innanzi tutto, per identificarsi con il sistema figurativo dell'ordine, indipendentemente dal suo contenuto spaziale originario (lo spazio porticato)29. In questo modo essa subisce una compressione estrema, proiettandosi sulla superficie bidimensionale delle pareti dell'edificio, spesso anche attraverso la trasformazione della colonna cilindrica in parasta piatta ed appena rilevata rispetto alla parete di fondo.

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Fig. 51 - Palazzo Rucellai (L. B. Alberti, Firenze). Fig. 52 - Palazzo Piccolomini (B. Rossellino, Pienza). Fig. 53 – Palazzo Caprini (Bramante, Roma). Fig. 54 - Palazzo Vidoni Caffarelli (Raffaello, Roma). Fig. 55 - Biblioteca Laurenziana (Michelangelo, Firenze). Fig. 56 - S. Pietro (Michelangelo, Roma).

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In secondo luogo va notato il progressivo passaggio dell'ordine dalla funzione di scansione modulare a quella di segnalazione delle aperture parietali (porte e finestre). Ben presto, infatti, l'utilizzo dell'ordine in funzione modulare viene abbandonato per una soluzione figurativa che meglio ci fa comprendere il diverso significato attribuitogli, e che consiste nel raddoppio delle colonne, ovvero nella rinuncia ad un loro distanziamento regolare e costante, per assumere invece una metrica più complessa (alternanza di spazi brevi e lunghi), strettamente legata alla collocazione parietale delle aperture (Fig. 53-54-55-56). Sul piano semantico queste soluzioni figurative (proiezione planare e raddoppio delle colonne) ci significano due cose: (i) un depotenziamento o banalizzazione a livello discorsivo di forme lessicali sottratte al loro antico significato altamente simbolico; (ii) una funzione o valore segnaletico delle colonne/paraste rispetto alle aperture praticate nel corpo dell'edificio. Il significato basico fa ancora riferimento al rapporto interno/esterno, ma in maniera così generalizzata da poter affermare che una parete, se scandita dall'ordine, assume il significato di interfaccia tra gli spazi chiusi degli edifici e gli spazi aperti urbani, senza più alcun riferimento al rapporto uomo/dio. Anche nell'architettura religiosa, infatti, si può agevolmente vedere come la configurazione dell'ordine – e cioè la disposizione delle colonne, dei timpani e delle trabeazioni – serva piuttosto ad inquadrare e segnalare aperture e corrispondenze, reali o virtuali, tra lo spazio interno e lo spazio esterno alla chiesa. La ricerca di una definitiva ricodifica è dunque avvenuta attraverso un lungo processo che va dai primi palazzi fiorentini al loro modello canonico cinquecentesco, dove la funzione segnica dell'ordine classico è chiamata a risolvere, in maniera definitiva, il problema del rapporto interno/esterno. Bisogna infatti arrivare al XVI secolo, con Bramante e Raffaello (Fig. 53-54), per poter constatare la mutazione sintattica nell'uso dell'ordine: colonne e paraste tendono a raggrupparsi attorno ed in funzione delle aperture, dando ad esse un assetto che diverrà pressoché generalizzato in Michelangelo (Fig. 55-56) e prevalente in tutta l'architettura manierista, classicista e barocca. E' tuttavia ad Antonio da Sangallo il Giovane che va attribuito un ulteriore fondamentale passo verso quello che diverrà poi lo standard dell'architettura urbana moderna.

Fig. 57 - Palazzo Farnese (Antonio da Sangallo, Roma).

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In Palazzo Farnese a Roma (iniziato nel 1515 e terminato durante il pontificato di Sisto V, con il contributo dello stesso Michelangelo) l'impiego plastico dell'ordine classico si concentra sulle sole aperture, emergenti da un trattamento della parete, che oserei definire cromatico, lasciato all'estro decorativo dei mastri muratori (Fig. 57). Il restauro fattone nel 1999 ha infatti rivelato aspetti inediti e sorprendenti, relativamente alle geometrie visibili nella disposizione dei mattoni del paramento parietale esterno, una volta liberato dalle tinteggiature sovrappostevi nel tempo30. Nell'ottica qui assunta tali aspetti appaiono illuminanti, perché lasciano intendere l'irrilevanza o indifferenza nel trattamento del piano-parete rispetto al trattamento architettonico delle aperture praticatevi e la ricerca di contrasto tra effetti plastici e cromatici così generato. Palazzo Farnese può ritenersi un prototipo, specie se considerato nel suo rapporto con la piazza antistante, realizzata contestualmente previa la demolizione di una serie di vecchi edifici. Il modulo basico dell'ordine classico - due colonne/paraste laterali sormontate da un timpano e poggiate su una soglia – diviene una sorta di segno sistematico ed universale per significare, nella città, l'esistenza di un'apertura verso lo spazio architettonico interno. Quando, per motivi di economicità o altro, il modulo colonnato non può essere usato in maniera generalizzata, la figura si semplifica: il timpano può anche scomparire conservando soltanto la trabeazione; le colonne/paraste laterali possono contrarsi in mensole simulanti capitelli; o addirittura la cornice del fregio, girando tutto attorno all'apertura, ne resta l'unico elemento segnaletico. Non si tratta di un fatto decorativo – come sostenuto polemicamente dai teorici del "Movimento Moderno" – ma di un'esigenza di carattere prettamente semiotico: la funzione di interfaccia interno/esterno non può essere rappresentata e comunicata se non attraverso il sistema dell'ordine, pur nelle sue espressioni più contratte e stilizzate. Dopo la reintroduzione dell'ordine nel lessico architettonico, insomma, all'architetto non è più concesso di modificarne la struttura formale, ma solo di agire sulla sua declinazione, combinando diversamente i vari elementi componenti e/o alterandone le proporzioni; ovvero associando le sue diverse espressioni dialettali alle diverse destinazioni d'uso degli edifici. Una cornice spezzata nella fase barocca o l'uso bislacco di una serliana nella fase eclettica o storicista del classicismo, potevano generare scandalo, ma quegli osceni buchi neri nella superficie bianca e levigata di una casa di Loos rappresenteranno realmente la rottura dell'ordine costituito (Fig. 58)31. Tutto il linguaggio classico, classicista, neo-classico ed eclettico origina insomma dall'invenzione e dalla successiva banalizzazione di quella struttura figurale d'interfaccia o intermediazione tra uomo e dio che, nel tempio greco, erano il peribolo ed il peristilio che lo delimitava. In questo senso è sintomatica l'interpretazione, da parte dell'Alberti, del colonnato come "muro bucato", ripresa da L. Khan e citata da P. Portoghesi: "riflettere sul grande evento dell'architettura, quando i muri si sono divisi e sono apparse le colonne". Ma per cogliere nella sua interezza, il significato moderno dell'ordine classico, occorre riflettere sul fatto che le singole facciate e tutto l'involucro di un edificio classicista sono pensati e strutturati in funzione degli elementi di comunicazione (porte e finestre) tra spazio interno e spazio esterno della città. Trasferendosi o proiettandosi sulle pareti degli edifici, l'ordine conferisce senso e struttura alle aperture, che assicurano luce, aria e visibilità al loro interno.

Fig. 58 - Haus Müller (Adolf Loos, Praga, 1930).

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8. Città antica e Città moderna L'analisi condotta in ambito architettonico non sarebbe del tutto convincente - né soprattutto coerente con le tesi qui sostenute - senza un riscontro puntuale nell'evoluzione subita dalla struttura urbana nello stesso arco temporale, che va dagli albori del Rinascimento al momento in cui avviene la definitiva la canonizzazione del classicismo in terra di Francia. Una data emblematica può essere assunta a quest'ultimo riguardo: il 1665, anno in cui Lorenzo Bernini fu chiamato alla corte parigina di Luigi XIV per il progetto del Louvre, dovendo rientrare a Roma solo qualche mese dopo, a seguito delle dure critiche rivoltegli dall'ambiente di corte, ma anche per l'ostilità degli architetti francesi, ormai affrancatisi dalla tutela artistica italiana32. Ciò che è infatti avvenuto nel lasso di tempo intercorso tra l'inizio del Quattrocento e la metà del XVII secolo, costituisce un passaggio fondamentale nella storia delle città: l'apparizione di uno spazio esterno non più concepito solo come negativo dello spazio edificato o come componente esclusivamente funzionale e necessaria per l'accesso alla componente edilizia. In questo senso il trapasso del mondo figurativo antico in quello moderno corrisponde anche al passaggio dalla città antica a quella moderna. Durante tutta l'antichità le due configurazioni basiche degli spazi edificati e degli spazi aperti non acquisirono mai il carattere di sistemi integrati. Le città nascevano dall'aggregazione di singoli manufatti edilizi; né devono trarre in inganno le città pianificate o di fondazione, fossero esse di origine militare o coloniale, in quanto l'ordito stradale regolare, generalmente ortogonale, aveva una funzione puramente utilitaria di scansione della proprietà e di accesso ai fondi. Un'analisi spaziale più approfondita ed attenta delle piazze, nella cultura urbana ellenica, ellenistica e romana, dimostra con chiarezza tale assunto. Sia l'agorà greca che il forum romano, nella loro configurazione matura, sono infatti trattati come spazi chiusi e recintati, comunicanti con la rete viaria attraverso porte o varchi minimali, del tutto simili alle porte d'ingresso di un edificio. Spesso sono a corredo di un edificio coperto, come nel caso di santuari contenenti al loro interno un tempio, o di altre tipologie architettoniche, come le palestre, le biblioteche, le terme. Ancor più interessante, dal punto di vista tipologico, è il fatto che le piazze fossero spesso circondate, parzialmente o totalmente, da portici colonnati: si può così constatare come la piazza fosse un perfetto negativo del tempio periptero, talvolta contenuto al suo interno.

Fig. 61 - Roma. Il complesso dei Fori imperiali

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Il complesso dei Fori a Roma (Fig. 61) mostra con estrema evidenza la concezione e l'uso delle piazze: mentre il più antico Foro repubblicano – così come l'Agorà ateniese - è uno spazio informe, in cui gli edifici hanno continuato a sorgere al suo interno e al suo intorno, i Fori imperiali costituiscono una sequenza di cortili progettati, nettamente separati l'uno dall'altro33. Nel mondo greco - cinque o sei secoli prima e fino alla conclusione dell'età ellenistica – le città d'impianto ippodameo34 mostrano la stessa impostazione riguardo alla concezione degli spazi collettivi (agorà, santuari, odeon, ginnasi), a testimonianza del fatto che in tutto il mondo antico le città erano pensate per consentire la socializzazione all'interno di luoghi espressamente deputati (Fig. 59-60).

Fig. 59 - Mileto. Pianta della città. Fig. 60 - Mileto. L'agorà ed il complesso centrale delle funzioni collettive. Anche le piazze medievali, quasi sempre di origine mercantile, sono spazi ricavati all'interno della città – talvolta con operazioni ingegneristiche rilevanti, come nel caso di Perugia, Gubbio o Siena - su cui si affacciano gli edifici simbolo del potere civile e religioso. Possiamo così affermare, in sintesi, che nell'antichità e nel medioevo non esiste un rapporto reale e significativo tra spazi aperti e spazi edificati, se non nel caso – talvolta anche di eccezionale valore architettonico ed ambientale - di complessi unitari e fortemente indipendenti dal tessuto urbano circostante. Solo all'inizio del Quattrocento, il rapporto tra nuove architetture e città comincia a modificarsi. "L'elemento nuovo nell'urbanistica del Rinascimento è da ricercare [.....] nell'elaborazione di elementi singoli della città" diceva giustamente S. Giedion35; ed anche così – potrei aggiungere – con notevoli difficoltà. Tuttavia, l'edificazione dei palazzi nobiliari – in sostituzione degli acquartieramenti fortificati e dominati da torri – comincia a generare piazze e spazi aperti antistanti, di qualità ed ampiezza proporzionale all'importanza del casato ivi residente; anche a questo riguardo Piazza Farnese, nel suo rapporto col Palazzo, costituisce un esempio molto eloquente di una tale evoluzione. Ma è nel Cinquecento, sotto il pontificato di Sisto V, che Roma vede nascere l'embrione di un sistema pianificato di spazi urbani, costituito dalle piazze antistanti le basiliche giubilari e dalle strade che le collegano (Fig. 62). Non penso sia dunque un caso se solo in questo clima culturale - con Bramante, Raffaello, Sangallo, Michelangelo e Vignola - si perviene alla formulazione di veri e propri modelli per

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l'architettura civile e religiosa europea, che dureranno, con poche variazioni, fino alla fine dell'Ottocento e oltre. L'analisi fatta per Palazzo Farnese mostra come tali modelli si basino su un nuovo rapporto tra spazio interno e spazio urbano ovvero tra spazio privato e spazio pubblico.

Fig. 62 - Roma. Il piano di Sisto V. Fig. 63 - Parigi. I giardini di Versailles. Fig. 64 - Parigi. Piano Patte.

La sperimentazione urbanistica di Sisto V troverà tuttavia una sua esplicita e coerente formulazione in Francia, solo due secoli dopo. Mentre nel barocco romano, infatti, si registra una progressiva complessificazione e sofisticazione scenografica delle piazze - dal Campidoglio di Michelangelo al colonnato di S. Pietro del Bernini – è in Francia che si concretizza l'idea di una connessione organica tra le piazze, quali nodi di un embrionale reticolo urbano. Sarebbe un errore, infatti, interpretare le places royales francesi soltanto come una variante delle piazze barocche italiane. Il Piano di Patte36 per Parigi (Fig. 64) mostra con chiarezza l'intento di connettere la costellazione delle piazze in un reticolo, prefigurando già l'impostazione haussmanniana della Parigi ottocentesca (Fig. 65), dove la rete degli spazi pubblici e delle infrastrutture di servizio si fa compiutamente sistema.

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In realtà tale passaggio era stato già tutto prefigurato e simulato, sempre in Francia, in quella branca dell'urbanistica e dell'architettura nota come "arte dei giardini". Sarebbe troppo lungo affrontare compiutamente qui tale argomento, tenendo conto, ancora una volta, del ruolo innovatore svolto nel 500 dalla scuola romana di Raffaello e soprattutto del Vignola. Basti constatare come la scacchiera quattrocentesca del giardino all'italiana sia a poco a poco evoluta in quei complessi e grandiosi sistemi di spazi aperti - come Vaux le Vicomte o Versailles (Fig. 63) – progettati e realizzati da Le Nôtre nella seconda metà del XVII secolo37. Da questo momento in poi, e almeno sino alla fine dell'800 – con il piano Haussmann – Parigi resterà il modello indiscusso dell'urbanistica moderna38 e le città appariranno come un reticolo di corridoi delimitati da pareti più o meno continue, scandite da una successione orizzontale e verticale di buchi rettangolari inquadrati da altrettanti frontali di tempietti greci in miniatura. Lo spazio pubblico urbano evolve così da una costellazione di piazze ad un vero e proprio sistema policentrico e reticolare, i cui nodi (le antiche piazze-mercato) sono tra loro interconnessi da strade-corridoio, lungo cui si riallocano le funzioni commerciali.

Fig. 65 - Parigi. Sistema degli interventi attuati da Haussmann.

Se riflettiamo sul fatto che è ancora questo, sostanzialmente, il modello rispetto al quale valutiamo la qualità e la significanza delle nostre città, rispetto al "disordine" dei quartieri "moderni" (abusivi, popolari o di lusso), possiamo ben capire come la città post-moderna non sia ancora da noi riconoscibile come sistema semiotico istituzionalizzato; in maniera analoga, forse, a quanto si può immaginare che sia avvenuto nel Duecento, in Europa, con l'uso delle lingue volgari e l'abbandono progressivo del latino. Note con bibliografia essenziale 1 Allo scopo di evitare confusioni terminologiche è opportuno precisare l'uso che viene fatto, in tutto il testo, dei termini "antico" e "moderno". Essi vengono qui adoperati secondo convenzioni epistemologiche ormai consolidate, che fanno riferimento alla definizione canonica dei paradigmi scientifici (in particolare quelli fisici) e linguistici (in particolare quelli figurativi) di un'epoca, ed in base ai quali possono essere poi interpretate le lunghe fasi di transizione da un paradigma all'altro. I paradigmi dell'antichità vengono generalmente riferiti all'età greca classica (V-IV secolo a.C.), sia per quanto riguarda le arti figurative che la concezione filosofica del mondo fisico; così come i paradigmi della modernità possono essere riferiti alla piena affermazione del classicismo in campo artistico e della meccanica classica (con la correlata concezione dello spazio) in campo scientifico (XVII-XVIII secolo). La storiografia ha assegnato alcune date convenzionali a questi passaggi: la caduta dell'impero romano d'occidente per la fine del mondo antico ed la scoperta delle americhe per l'inizio della modernità; ma i lunghi secoli di transizione dal mondo "antico" a quello "moderno" non sono terra nullius. Il Medio Evo, dall' XI al XIV secolo, costituisce una lunga ed originale fase di rielaborazione dei paradigmi

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antichi, così come il Rinascimento italiano, dall'inizio del 400 alla fine del 500 costituisce una fondamentale fase di incubazione dei principi del classicismo. Pertanto si è fatta molta attenzione all'uso dei termini "classico" e "classicità" (antica) rispetto a "classicista" e "classicismo" (moderno). Ma resta l'equivoco circa il termine "moderno", che nell'uso corrente è sinonimo di "contemporaneo", mentre invece il mondo moderno o classicista finisce con il XIX secolo e la contemporaneità può essere inscritta nella post-modernità, in quanto non sono tuttora riconoscibili nuovi indiscussi paradigmi, sia per quanto riguarda la meccanica in fisica (vedi il dilemma irrisolto dei rapporti tra meccanica relativistica e quantistica, assolutamente rilevanti ai fini di una teoria dello spazio) che per quanto riguarda il linguaggio figurativo (che personalmente considero ancora in fase sperimentale e fortemente evolutiva). Tuttavia occorre tenere presente che in architettura la rottura definitiva con il classicismo si identifica con il cosiddetto "Movimento Moderno" e che con "architettura post-moderna" s'intende una particolare corrente progettuale e stilistica sviluppatasi negli anni 80 e 90 del secolo scorso. Quando nel testo sono utilizzati questi termini particolari, essi vi appariranno virgolettati. 2 Savarese N., 2012, Havelock, la mimesis e il teatro greco: alcuni spunti per nuovi approcci ad una teoria semiotica dei fenomeni urbani in E|C (Rivista on-line dell'AISS). 3 Vedasi al riguardo: Marrone G., 2013, Figure di città, spazi urbani e discorsi sociali, Mimesis, Milano-Udine , in cui viene sviluppato in maniera sistematica il concetto di <città/testo>; Giannitrapani A., 2013, Introduzione alla semiotica dello spazio, Carocci ed., Roma.. 4 Un panorama completo dell'opera di Hopper è stato presentato nella recentissima esposizione del 2012 a Madrid (Museo Thyssen-Bornemisza) e del 2013 a Parigi (Grand Palais), il cui Catalogo è stato curato da Didier O., Llorens T. e Hancock C. per la Réunion des Musées Nationaux, Paris. Vedasi anche Kranzfelder I., 2001, Edward Hopper. Visione della realtà, Taschen, Köln. 5 Tra le prime opere di Edward Hopper sul tema si possono citare: The Open Window (three states), 1915-18 (Collezione privata); Evening Wind (Fig. 1), 1921 (Collection of Whitney Museum of American Art, New York, NY); East Side Interior, 1922 (Whitney Museum of American Art). Di ispirazione analoga, ancorché riferibile alla sua attività di illustratore: Boy and Moon, (Whitney Museum of American Art). 6 I quadri più rappresentativi sul tema sono: Morning in a City, 1944 (Williams College Museum of Art, Williamstown); Morning Sun (Fig. 3), 1952 (Columbus Museum of Art, Ohio); A Woman in the Sun (Fig. 2), 1961 (Whitney Museum of American Art). 7 I quadri privi di figure umane sono: Rooms by the Sea (Fig. 4), 1951 (Yale University Art Gallery); Sun in an Empty Room, 1963 (Collezione privata). 8 Tra i quadri in cui il punto di vista è invertito vedasi: Nights Windows (Fig. 5), 1928 (The Museum of Modern Art, New York); Room in New York, 1932 (Sheldon Memorial Art Gallery, University of Nebraska-Lincoln); Cape Cod Morning, 1950 (National Museum of American Art, Washington); Nighthawks, 1942 (The Art Institute of Chicago) e New York Office (Fig. 6), 1962 (Montgomery Museum of Fine Arts); Summertime (Fig. 7), 1943 (Delaware Art Museum, Wilmington). 9 La citazione delle parole di Hopper è tratta dall'articolo di O'Doherty B., 1974, pubblicato in American Masters, The Voice and the Myth, Random House, New York. 10 Tra coloro che si sono occupati più approfonditamente del tema del raddoppio della immagine, possono essere citati: Gombrich E., 1975, Mirror and Map (ed.it. 1980, Lo specchio a la mappa: teorie della rappresentazione figurativa, Il Saggiatore, Milano); Marin L., 1994, De la représentation (ed.it. 2001, Della rappresentazione, Meltemi, Roma); Shapiro M., 1969, On Some Problems in the Semiotics of Visual Art: Field and Vehicle in Image-Signs (ed.it. 2002, Alcuni problemi di semiotica delle arti figurative: campo e veicolo nei segni-immagine, Meltemi, Roma); Eco U., 1985, Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, Milano; Eco U., 1997, Kant e l'ornitorinco, Bompiani, Milano. Bibliografia e riferimenti più dettagliati al riguardo sono contenuti nel saggio di Stoichita V., 1993, L'instauration du tableau (ed.it 1998, L'invenzione del quadro, Il Saggiatore, Milano); in particolare si vedano le note relative al Cap. 3 (Margini) ed al Cap. 6 (L'ingranaggio intertestuale). Le caratteristiche tipologiche delle diverse forme di apertura (nicchia, finestra, porta) vi sono analizzate in riferimento ai corrispondenti generi pittorici rappresentati (nature morte, paesaggi, interni domestici): "la cornice di un quadro di interni e l'incorniciatura delle porte sono consustanziali, allo stesso titolo al quale lo sono la cornice di paesaggio e il telaio di una finestra". Il tema del rapporto finestra/paesaggio, in particolare, è stato riproposto in una recente mostra al Metropolitan Museum di New York (Rooms with a view. The open window in the 19th Century a cura di S. Rewald, 2011), che ne testimonia persistenza e continuità lungo tutto il XIX secolo. Va tuttavia notato che già la concezione rinascimentale della rappresentazione prospettica si rifaceva all'idea di una "fenestra aperta per donde io miri quello che quivi sara dipinto" (Alberti L.B., 1436, De Pictura, in Grayson C., a cura, 1973, Opere Volgari, Laterza, Bari).

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11 Nell'analisi foucaultiana il celebre quadro di Velasquez (Fig. 8) Las Meninas, 1656, (Prado, Madrid), assurge a metafora della concezione classicista del mondo. Foucault, M., 1966, Les mots et les choses, Gallimard, Paris (ed.it. 1998, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano). 12 A.J. Greimas ha rappresentato e rappresenta la figura di riferimento della scuola semiotica francese, rimasta sostanzialmente fedele all'impostazione strutturalista saussuriana. La sua teoria generativa del testo narrativo (e poi anche figurativo, in quella branca della semiotica denominata "semiotica visiva") è piuttosto complessa ed ha visto diversi stadi di elaborazione, passando dal modello originario del quadrato semantico al modello attanziale ed alla formulazione di programmi e percorsi narrativi canonici. Il meccanismo proiettivo, esplicito o implicito in ogni struttura narrativa, è stato poi generalizzato ed enfatizzato a livello assiologico, dando particolare risalto alle categorie cosiddette timiche del discorso e della figurazione, basate sull'opposizione attrazione/repulsione (euforia/disforia). Cfr. Greimas A.J. e Courtés J., 1989, Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, Hachette, Paris (ed.it. 2007, Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Bruno Mondadori, Milano); Courtés J., 1991, Analyse sémiotique du discours. De l'énoncé à l'énonciation, Hachette, Paris. 13 Il nesso tematico Hopper-Vermeer – al di là di qualsiasi giudizio di valore - emerge con tutta evidenza dal raffronto con una lunga serie di quadri d'interno con figure del Maestro di Delft, come quelle riportate a titolo esemplificativo in Fig. 9 (1667, Collezione Beit, Blessington), Fig. 10 (1658-60, Metropolitan Museum, New York) e Fig. 11 (1657, Gemaldegalerie, Dresda). Per le opere di Vermeer ci si è basati sul catalogo curato da Bianconi P., 1967, L'opera completa di Vermeer, Rizzoli, Milano. 14 La questione della doppia articolazione è a mio parere ineludibile nella fondazione di qualsiasi sistema semiotico ed è stato uno degli argomenti più dibattuti quando, negli anni '60 e '70 si è iniziato a guardare all'architettura in chiave semiotica. Senza definire un numero finito ed estremamente limitato di componenti elementari, risulterebbe impossibile costruire un codice ed è assai dubbio che possa esistere un linguaggio o un qualunque altro sistema di natura semiotica. Il tentativo di pervenire alla individuazione di un ristretto insieme di componenti di base non ha però avuto successo e si è arenato o su repertori eterogenei di elementi di volta in volta morfologici, costruttivi, tipologici, stilistici o puramente geometrici. La storia di questi tentativi è scritta nei testi prodromici di una semiotica architettonica: Eco U., 1967, Appunti per una semiologia delle comunicazioni visive, poi edito nel 1971 in Le forme del contenuto, Bompiani; Koenig G.K., 1969, Architettura e comunicazione, Fiorentina ed., Firenze (con il contributo iniziale di I. Gamberini); Garroni E., 1972, Progetto di semiotica, Laterza, Bari; De Fusco R., 1973, Segni, storia e progetto dell'architettura, Laterza, Bari; Scalvini M.L., 1975, L'architettura come semiotica connotativa, Bompiani, Milano. L'unico che, a mia conoscenza, abbia adottato un approccio analogo a quello qui proposto, partendo dall'analisi dell'architettura minoica, è stato Preziosi D., 1979, The Semiotics of the Built Environment. An Introduction to Architectural Analysis, Indiana University Press. 15 Il concetto di <figura>, qui adottato, può essere associato in maniera solo analogica ed allusiva a quello di <fonema> utilizzato dai linguisti. L'assunzione della cellula spaziale cubica o cilindrica come matrice delle componenti non ulteriormente riducibili del linguaggio architettonico deve essere però coniugato col concetto geometrico di invariante, che sta alla base delle geometrie non euclidee e che consente di trasformare una forma o figura in un'altra attraverso operazioni di natura scalare, proiettiva o topologica; ma mentre senza grande fatica riusciamo a ricostruire mentalmente la forma tridimensionale di una rappresentazione prospettica bidimensionale, percepiamo con difficoltà il nesso tra un cubo e una sfera, che possono essere invece trasformati l'uno nell'altro mediante semplici operazioni topologiche. Sulla base di tali considerazioni, le forme o figure spaziali derivanti da trasformazioni geometriche di qualunque tipo sono da considerare sostanzialmente equivalenti e non vanno quindi assunte come componenti differenti del linguaggio architettonico, anche se alcune di tali trasformazioni possono risultare determinanti nella declinazione dei segni, come per esempio il dislivello, l'inclinazione e la curvatura. 16 La cellula spaziale elementare, che appare circondare quasi come un involucro il corpo umano, in realtà altro non è che la proiezione dei nostri riferimenti spaziali fondamentali sull'ambiente: "i sei lati del mondo", sopra – sotto – avanti – dietro – destra – sinistra; così li ha felicemente definiti Cardona in un bel saggio sulla matrice corporea di ogni linguaggio (cfr. Cardona G., 1985, I sei lati del mondo, Laterza, Bari). Riguardata da questo punto di vista, tutta la trattatistica classica e classicistica, da Vitruvio in poi, assume un significato molto più ampio: il riferimento costante dell'ordine architettonico classico al corpo umano non deve essere interpretato in senso riduttivamente antropomorfico (come principio di simmetria) o puramente metrico (come teoria delle proporzioni). La rappresentazione vitruviana e leonardesca del corpo umano inscritto nel quadrato/cerchio è il simbolo più pregnante del concetto, semioticamente inteso, di <figura>. 17 L'atto semiosico alla base di tutti i linguaggi figurativi, è qui ricondotto alla capacità di persone ed oggetti di mettersi in relazione nello spazio e nel tempo, o più precisamente nello spazio e nel tempo di una città e del suo

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territorio. Il nostro modo di rapportarci all'ambiente circostante è tendenzialmente isotropo e solo dopo che lo abbiamo in qualche modo interpretato (cioè dotato di senso), gli assegniamo un orientamento secondo le quattro direzioni orizzontali. Tutti i riti di fondazione conosciuti si basano sul tracciamento di due assi ortogonali, il cui orientamento non sempre coincide con i punti cardinali. In molte culture primitive l'orientamento dei due assi è condizionato da un elemento naturale - come il corso di un fiume - strutturante il territorio in funzione delle sue potenzialità economiche. 18 Le radici profonde, che legano le diverse superfici-limite di ogni cella elementare all'antropologia ed alla tettonica, prima ancora che alla storia dell'architettura, sono state efficacemente trattate e illustrate da Paolo Portoghesi, anche se il suo punto di vista non è di tipo semiotico (cfr. Portoghesi P., 1999, Natura e architettura, Skira, Milano). 19 Questo caso è abbastanza interessante, perché dal punto di vista fisico - e non solo geometrico - la statica degli spazi costruiti impone la presenza di elementi in grado di sostenere il piano di copertura. La compatibilità tra la rappresentazione geometrica e quella fisica può essere ricostituita pensando tale sostegno come coincidente con l'asse verticale di simmetria del corpo umano, che genera lo spazio architettonico e lo abita: l'albero è la metafora di questa figura spaziale ed è sorprendente come esso sia spesso evocato quale elemento generatore dello spazio architettonico. 20 Per una trattazione ed un'ampia bibliografia delle tematiche connesse ai santuari greci ed ai rituali religiosi nella Grecia classica, vedasi: Burkert W., 1977, Griechische Religion der archaischen und klassischen Epoche (ed.it. 1984, La religione greca, Jaca Book, Milano); Burkert W., 1979, Structure and History in Greek Mythology and Ritual (ed.it. 1979, Mito e rituale in Grecia, Laterza); Berve H., Gruben G., 1961, Griechische Tempel und Heiligtumer (ed.it. 1961, I templi greci, Sansoni, Firenze). Per quanto riguarda gli aspetti più propriamente architettonici del tempio greco, vedasi: Dinsmoor W.B., 1950, The Arhitecture of Ancient Greece, B.T. Batsford ltd; Carpenter R., 1970, The Architects of the Parthenon, Penguin Books, Harmondsworth (ed.it. 1979, Gli architetti del Partenone, Einaudi, Torino); Lippolis E., Rocco G., 2011, Archeologia greca. Cultura, società, politica e produzione, B. Mondadori, Milano. 21 La collocazione generalmente isolata dei templi greci non significa estraneità allo spazio urbano. La loro matrice tipologica ne denuncia infatti il legame con lo spazio sociale della comunità. "Il megaron rappresenta una forma compiuta già raggiunta di civiltà, di vita associata: esso determina chiaramente uno spazio interno che idealmente s'amplia verso l'esterno ........... i megara rappresentano le prime unità immobiliari con fronte fisso, sono moduli di una composizione urbana". (Coppa M., 1968, Storia dell'Urbanistica; dalle origini all'ellenismo, Einaudi, Torino). Questa considerazione di M. Coppa è particolarmente interessante, ai fini del ragionamento portato avanti in questo saggio; se si tiene conto del fatto che il megaron, nonostante la sua estrema semplicità, costituiva una struttura residenziale di rango sociale elevato e che si rapportava a spazi aperti di rappresentanza, generalmente interni ad un recinto palaziale o clanico, appaiono evidenti le limitazioni con cui deve intendersi il concetto di urbanità e di spazio pubblico nel mondo antico, come vedremo meglio nelle conclusioni finali. 22 Circa il rapporto tra altare e orientamento dei fedeli, i riferimenti sono piuttosto vaghi e contraddittori. Burkert afferma, in un breve passaggio, che "durante l'atto sacro del sacrificio sull'altare, il tempio rimane alle spalle dei fedeli; si volge lo sguardo verso Oriente e si prega al cielo, e il tempio stesso si apre a Oriente. Così il fedele si trova per così dire sotto gli occhi della divinità". Ma in età romana, nel I secolo d.C. la situazione era quasi certamente differente. Le testimonianze sugli artifici inventati da Erone di Alessandria, per esempio, contraddicono l'ipotesi di Burkert. In Vitruvio, in effetti, il rapporto tra altare, fedeli e statua del dio, appare rigorosamente codificato, ma anche funzionalmente motivato: "la facciata e la statua, che sarà collocata nella cella, debbono essere rivolti ad occidente, in modo che coloro che giungono all'altare a compiere sacrifici, guardando la statua che è nel tempio, si rivolgano all'oriente; così, mentre compiono la funzione, guardano insieme il tempio e l'oriente e le stesse statue sembrano sorgere e guardare coloro che pregano e sacrificano" (Bossalino F., a cura, 1998, Marco Vitruvio Pollione, De Architectura, Ed. Kappa, Roma). 23 Una delle più efficaci e sintetiche analisi dei rapporti tra architettura religiosa, città e società nel Medioevo, si può trovare in Duby G., 1976, Le Temps des cathédrales. L'art et la societé 980-1420, Gallimard, Paris (ed.it. 1977, L'arte e la società medievale, Laterza, bari). Per un'analisi simbolica del tempio cristiano vedasi Hani J., 1978, Le symbolisme du temple chrétien, Guy Trédaneil Ed., Paris (ed.it. 1996, Il simbolismo del tempio cristiano, Arkeios, Roma). Sul ruolo dell'abate Suger riguardo la Basilica di Saint-Denis e l'origine delle cattedrali gotiche nell'île de France: Romero A.M., 1993, Saint-Denis, la montée des pouvoirs, Ouest France, Rennes. Più in generale, sulla città medievale: Guidoni E., 1989, Storia dell'Urbanistica. Il Duecento, Laterza, Bari; Ennen E., 1975, Storia della città medievale, Laterza, Bari. 24 Le considerazioni contenute in questo paragrafo derivano da riflessioni personali rispetto all'analisi dell'ordine classico e dell'architettura del tempio greco, oltre che dall'esperienza diretta dell'architettura extra-europea. I

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riferimenti bibliografici sono pertanto del tutto generali ed utili, quasi esclusivamente, a fini iconografici. Ben documentati, in questo senso, sono i volumi della collana "Architettura Universale", curata da Henri Stierlin e pubblicata quasi contemporaneamente in molti paesi. 25 Sull'architettura religiosa delle origini e la città islamica vedasi: Creswell K.A.C., 1958, A Short Account of Early Muslim Architecture, (ed.it. 1966, L'architettura islamica delle origini, Il Saggiatore, Milano); Michell G., a cura, 1978, Architecture of the Islamic World. Its history and social meaning, Thames and Hudson, London; Hoag J.D., 1978, Architettura Islamica, Electa; Cuneo P., 1986, Storia dell'Urbanistica, Il mondo islamico, Laterza, Bari. 26 Sull'architettura religiosa buddista, induista e kmer vedasi: Volwahsen A., 1969, Architettura indiana, Istituto Editoriale Italiano, Santa Monica; Stierlin H., 1970, Angkor, Office du Livre, Fribourg. 27 Sull'architettura pre-colombiana, in particolare mesoamericana, vedasi: Stierlin H., 1968, Architettura Messicana antica, Istituto Editoriale Italiano; Stierlin H., 1964, Maya. Guatemala, Honduras e Yucatan, Office du Livre, Fribourg; Hardoy J., 1968, Urban Planning in Pre-Columbian America, George Braziller, New York. Per alcuni aspetti di maggior dettaglio: AA.VV., 1975, Vocabulario Arquitectònico Ilustrado, Secretaria del Patrimonio Nacional, Mexico D.F. 28 Nonostante la carica rivoluzionaria presente nell'ambiente mediceo fiorentino e l'applicazione sistematica dell'invenzione prospettica, le sperimentazioni di Leon Battista Alberti - primo grande teorico dell'architettura rinascimentale - sulle facciate delle chiese appaiono estremamente disomogenee e fortemente problematiche: dalla citazione dell'arco trionfale romano (Tempio Malatestiano di Rimini) alla riformulazione di modelli toscani trecenteschi (S. Maria Novella) e dalla ricerca di moduli più lineari (S. Sebastiano a Mantova) a strutture quasi pre-palladiane (S. Andrea a Mantova). Brunelleschi, per altro verso, non riuscì neppure a completare gli esterni delle sue chiese fiorentine (S. Lorenzo e S. Spirito), i cui interni testimonino, invece, di una concezione già radicalmente innovativa dello spazio architettonico. E' come se, all'inizio del Quattrocento, il rapporto tra nuove architetture e città non riuscisse ancora a trovare una diversa formulazione rispetto a quella ormai sedimentata nella città medievale. Anche dopo le sperimentazioni albertiane le soluzioni quattrocentesche restano figurativamente deboli: gli unici elementi costanti sono rappresentati dal timpano triangolare che sovrasta e inquadra la facciata (o la sua parte centrale) e dall'uso dell'ordine come elemento di scansione metrica delle pareti. Della vasta bibliografia sui due grandi innovatori dell'architettura rinascimentale si segnalano in particolare: Argan G.C., 1955, Brunelleschi, Mondadori, Milano; Battisti E., 1976, Filippo Brunelleschi, Electa, Milano; Bruschi A., Filippo Brunelleschi, 2006, Electa, Milano; Paoli M., 2004, Leon Battista Alberti 1404-1472, Editions de l'Imprimeur, Paris (ed.it. 2007, Leon Battista Alberti, Bollati-Boringhieri, Milano); Bulgarelli M., 2008, Leon Battista Alberti 1404-1472: Architettura e storia, Electa, Milano. Per una visione più generale: Wittkover R., 1962, Architectural Principles in the Age of Humanism, Alec Tiranti, London (ed.it. 1964, Principi architettonici nell'età dell'Umanesimo, Einaudi, Torino). 29 In realtà, una mutazione in senso decorativo era già avvenuta nell'architettura romana antica, come aveva giustamente notato Summerson J., 1963, The Classical Language of Architecture, Methuen & Co, London (ed.it. 1970, Il linguaggio classico dell'architettura, Einaudi, Torino) ed in effetti architetti e teorici rinascimentali attinsero ai monumenti dell'antica Roma, piuttosto che a quelli della Grecia classica. Tuttavia, dal punto di vista costruttivo, si possono evidenziare sostanziali differenze rispetto all'architettura rinascimentale, in quanto la concezione statica romana antica rimaneva sostanzialmente trilitica, laddove le volte monolitiche in calcestruzzo scaricavano verticalmente sulle murature di sostegno, con relativamente deboli spinte orizzontali; l'apparato decorativo dell'ordine non aveva generalmente nessuna funzione portante, tranne che nell'architettura templare, rimasta fedele al modello greco classico. L'invenzione della volta è invece più tarda (tralascio qui la lunga querelle sulla sua origine orientale/occidentale) e largamente sperimentata nel Medioevo, sia nelle chiese romaniche che gotiche. Sicché, all'inizio del 400, la coniugazione statica volta/colonna poteva considerarsi risolta, attraverso l'impiego multiplo e combinato di volte ed il bilanciamento delle spinte orizzontali così ottenuto. La colonna poteva dunque divenire un elemento realmente strutturale e non più solo decorativo o metrico, come appare evidente nella concezione dello spazio interno messa in opera dal Brunelleschi in S. Spirito a Firenze. Ma a segnare la differenza più sostanziale sarà, come sostenuto nel testo, il mutamento semantico subito dall'ordine e maturato solo nel 500. 30 Cfr. Montelli E., 1999, La policromia delle cortine laterizie di Palazzo Farnese a Roma, in Costruire in Laterizio n. 69, ANDIL-Tecniche Nuove, Milano. 31 L'opera e gli scritti di Adolf Loos sono sintomatici della rottura rispetto all'architettura classicista, anche per quanto concerne gli atteggiamenti etici assunti dal Movimento Moderno al riguardo. Vedasi alcuni brevi scritti, come Ornamento e delitto, riportati in Sarnitz A., 2003, Adolf Loos, Tasken, Köln.

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32 La cronaca del viaggio del Bernini a Parigi, dalla sua trionfale accoglienza alla sua ripartenza, ci è stata tramandata da Fréart de Cahantelou P., 1885, Journal du voyage du cavalier Bernin en France, Lalanne, Paris (ed.it. 1988, Viaggio del Cavalier Bernini in Francia, Sellerio, Palermo). 33 La successione cronologica dei fori di età imperiale (Cesare, Augusto, della Pace, Nerva, Traiano) si configura come una sequenza di spazi fortemente strutturati, indipendenti l'uno dall'altro, non comunicanti tra loro ed accessibili solo attraverso porte ricavate nel muro di cinta. Gli ultimi scavi archeologici effettuati sul Foro di Traiano a Roma, hanno chiarito in maniera definitiva questo aspetto. D'altra parte il muro di tufo che separa il Foro stesso dall'esedra dei Mercati Traianei testimonia ancora oggi la totale assenza di intenti scenografici, potenzialmente derivanti dall'integrazione di spazi multipli ed interconnessi. Cfr. Soprintendenza Archeologica di Roma, AA.VV., 1985, Roma. Archeologia nel Centro, De Luca Editore, Roma; Benevolo L., a cura, 1985, Roma. Studio per la sistemazione dell'area archeologica centrale, De Luca Editore, Roma; Insolera I., Perego F., 1999, Storia moderna dei Fori di Roma, Laterza, Bari. 34 Ippodamo da Mileto, vissuto nel V sec. a.C., divenne celebre per la ricostruzione di Mileto dopo la distruzione operatane dai Persiani nel 494 a.C., ma il suo impianto fu poi adottato in molte altre città greche (Olinto, Rodi, Priene) ed appare pressoché generalizzato nelle città ellenistiche del IV-III secolo (Alessandria, Tolemaide, Aleppo, Gerasa e molte altre). Il tessuto residenziale è in forma di scacchiera ortogonale ed al suo interno si collocano, in maniera pianificata, gli spazi pubblici e privati di maggiore rilevanza socio-economica; tra questi l'agorà tende a specializzarsi in senso commerciale. Le realizzazioni urbanistiche di Ippodamo (di certo Mileto, Thurii e il Pireo) e le sue teorie – di cui non è restata traccia scritta – influirono sicuramente sulle teorizzazioni di Platone (nelle Leggi e nella Repubblica) e soprattutto di Aristotele (nella Costituzione degli Ateniesi e nella Politica) circa i principi costitutivi e ordinatori della città ideale. Cfr. Giuliano A., 1966, Urbanistica delle città greche, Il Saggiatore, Milano. 35 Giedion S., 1941, Space, Time and Architecture, Harvard University Press, Cambridge (ed.it. 1984, Spazio, tempo e architettura, Hoepli, Milano). La Parte II del libro – ed in particolare il capitolo dedicato a Sisto V – rappresentano un contributo fondamentale alla storia della città, nonostante alcuni successivi tentativi di ridimensionamento critico. 36 Il Piano di Patte era in realtà una trasposizione planimetrica dei progetti di places royales proposte da vari architetti nell'ambito di una sorta di concorso di idee bandito da Luigi XV. Tuttavia, come osservava Lavedan, Patte prefigura già una serie di connessioni viarie tra le piazze (Patte P., 1765, Monuments érigés en France à la gloire de Louis XV, Paris). Di analoga ispirazione il Piano, redatto, subito dopo la Rivoluzione, dalla Commissione degli Artisti nel 1793. Il ruolo esercitato dalla cultura francese nel XVII e XVIII secolo, e la sua influenza in Europa, è dettagliatamente trattato da Lavedan P., 1959, Histoire de l'urbanisme. Renaissance et temps modernes, Henri Laurens, Paris. Sulla Parigi di Haussmann vedasi in generale: Sica P., 1977, Storia dell'Urbanistica. L'Ottocento, Laterza, Bari; Aymonino C., 1977, Lo studio dei fenomeni urbani, Officina Ed., Roma. Una rivalutazione più sistematica dell'opera del Barone Haussmann – al di là dei giudizi socio-politici di derivazione marxiana - è stata fatta da Françoise Choay in diversi suoi scritti, tra cui: Choay F., 1992, La Parigi di Haussmann, ultima forma della città occidentale: ruolo degli spazi verdi e dell'arredo urbano, in d'Alfonso E., a cura, 1992, L'orizzonte del posturbano, Officina Ed., Roma. 37 L'interesse degli studi urbani per la storia e l'arte dei giardini è un fatto abbastanza recente e negli ultimi 20 -30 anni si sono moltiplicate le pubblicazioni sulla materia. In effetti – come ho potuto solo brevemente accennare nel testo – la concezione del "giardino alla francese" rappresenta un tassello fondamentale nella storia della città occidentale, senza il quale non si capirebbe l'importanza del modello urbanistico parigino rispetto alla struttura della città moderna. Non si tratta solo della configurazione stellare assunta dal reticolo stradale, riprodotta in innumerevoli espansioni urbane ottocentesche; ma della redistribuzione delle funzioni urbane in rapporto a tale reticolo. La definizione di "non-luoghi" attribuita alle nuove polarità funzionali contemporanee (aeroporti, mall, multisale cinematografiche, ecc.) la dice lunga della nostra difficoltà ad assimilare semioticamente le profonde trasformazioni che stanno avvenendo nelle città. Per una visione panoramica generale sull'arte dei giardini in Occidente, vedasi: Mosser M., Teyssot G., a cura, 1990, L'architettura dei giardini d'Occidente. Dal Rinascimento al Novecento, Electa, Milano. Interessanti sono anche alcuni numeri monografici di riviste di architettura dei primi anni 80: Rassegna n. 8, Anno III, 1981, La natura dei giardini, (a cura di Rykwert J.), Ed. C.I.P.I.A., Bologna; Lotus International n. 30 e 31, 1981, Electa, Milano. 38 Tra le proiezioni extra-europee della nuova concezione urbanistica francese, il caso più eclatante è senza dubbio rappresentato dal Piano de l'Enfant per Washington, tenuto oltretutto conto che esso risale al 1789/1791, cioè un secolo prima del Piano Haussmann per Parigi. Reps J., 1969, Town Planning in Frontier America, Princeton University Press, Princeton (ed.it. 1976, La costruzione dell'America urbana, Franco Angeli, Milano).

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Immagini Le immagini relative alle figure 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 16, 17, 19, 21, 22, 23, 27, 28, 29, 30, 38, 40, 41, 42, 47, 50, 53, 54, 61, 65, 66, 67, sono state reperite sul web senza indicazione del copyright (creative commons o wikimedia commons). Le immagini relative alle figure 12, 14, 18, 24, 25, 26, 33, 35, 36, 37, 43, 50, 51, 52, 55, 56, 57, 58, nonché quelle inserite nel testo e prive di numerazione, sono state realizzate o elaborate dall'Autore. Le immagini relative alle figure 13, 15, 34, sono tratte da Coppa M., 1968, Storia dell'Urbanistica; dalle origini all'ellenismo, Einaudi, Torino. L'immagine relativa alla figura 20 è stata ottenuta tramite Google Heart ©. Le immagini relative alle figure 31, 32 sono tratte dalla Guida d'Europa, Grecia, 1977, Touring Club Italiano ©. L'immagine relativa alla figura 38 è tratta da Palladio A., 1570, I quattro libri dell'architettura, riproduzione in facsimile edita da Ulrico Hoepli, Milano, 1969. L'immagine relativa alla figura 39 è tratta da Portoghesi P., 1999, Natura e architettura, Skira, Milano. Le immagini relative alle figure 44, 45, 46 sono tratte da Stierlin H., 2009, Islam, da Baghdad a Cordova. Architettura delle origini dal VII al XIII secolo, Taschen, Köln. L'immagine relativa alla figura 48 è tratta da Volwahsen A., 1969, Architettura indiana, Istituto Editoriale Italiano, Santa Monica. L'immagine relativa alla figura 49 è tratta da Stierlin H., 1970, Angkor, Office du Livre, Fribourg. Le immagini relative alle figure 59, 60 sono tratte da Giuliano A., 1966, Urbanistica delle città greche, Il Saggiatore, Milano. L'immagine relativa alla figura 62 è tratta da Giedion S., 1941, Space, Time and Architecture, Harvard University Press, Cambridge (ed.it. 1984, Spazio, tempo e architettura, Hoepli, Milano). Le immagini relative alle figure 63, 64 sono tratte da Lavedan P., 1959, Histoire de l'urbanisme. Renaissance et temps modernes, Henri Laurens, Paris.