evoluzione politica italiana (ii parte)

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Integrazione di “Evoluzione politica italiana” di Alessio Marchetti Di seguito si propone un’integrazione de “Evoluzione politica italiana”, aggiornata al 31/10/2014. Indice degli argomenti trattati: 1. 2011: L’ANNO DELLO SPREAD 2. 2012: BERSANI BATTE RENZI 3. 2013: NAPOLITANO FA IL BIS 4. 2014: RENZI A PALAZZO CHIGI 5. IL RUOLO DELLA SINISTRA 6. IL “JOBS ACT”: VERSO UNA GENERAZIONE DI SCHIAVI

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Integrazione di “Evoluzione politica italiana” di Alessio Marchetti

Di seguito si propone un’integrazione de “Evoluzione politica italiana”, aggiornata al 31/10/2014.

Indice degli argomenti trattati:

1. 2011: L’ANNO DELLO SPREAD

2. 2012: BERSANI BATTE RENZI

3. 2013: NAPOLITANO FA IL BIS

4. 2014: RENZI A PALAZZO CHIGI

5. IL RUOLO DELLA SINISTRA

6. IL “JOBS ACT”: VERSO UNA GENERAZIONE DI SCHIAVI

1. 2011: L’ANNO DELLO SPREAD

L’anno 2011 è stato sicuramente uno dei più significativi della Seconda Repubblica, infatti viene

evidenziata la crisi numerica e politica della maggioranza di centrodestra che sostiene il IV governo

Berlusconi, iniziata già nel 2010, con la corrente fedele al Presidente della Camera Gianfranco Fini che

si smarca dal Pdl e fonda il gruppo autonomo Futuro e Libertà per l’Italia (Fli), divenuto poi

movimento politico. Il terremoto politico inizia con il respingimento alla Camera dell’articolo 1 del

rendiconto sul Bilancio dello Stato, fatto inedito cui seguono altri incidenti parlamentari che portano

Silvio Berlusconi ad annunciare l’8 novembre le dimissioni da Presidente del Consiglio dei Ministri,

che verranno formalizzate qualche giorno più tardi.

Questo clima di incertezza politica era stato peraltro acuito dall’incremento dell’ormai famoso spread,

ovvero il differenziale tra i rendimenti dei titoli di Stato italiani e quelli tedeschi. Tanto per intenderci,

questo valore era a quota 36 punti al termine del II governo Prodi (aprile 2008), mentre nell’autunno

2011 ha toccato i 575 punti, creando allarmismo e preoccupazione da parte degli analisti finanziari di

tutto il mondo, poiché si diceva che l’Italia in quel periodo fosse a rischio default (fallimento).

Per risollevare la situazione il Presidente della Repubblica Napolitano decise quindi di incaricare

l’economista ed ex-commissario UE Mario Monti (pochi giorni dopo averlo nominato Senatore a vita)

di formare un nuovo governo, tutto composto da tecnici e con l’appoggio praticamente di tutto il

Parlamento eccetto Lega Nord e, successivamente, Italia dei Valori.

Peraltro, Napolitano aveva già consultato Monti in estate, sondando la disponibilità di quest’ultimo ad

un’eventuale sua nomina, viste le fibrillazioni all’interno della maggioranza.

Gli “azionisti di maggioranza” del governo Monti sono dunque Pdl, Pd e Udc, che appoggiano subito

la riforma Fornero (dal nome del Ministro del Lavoro Elsa Fornero), che innalza l’età pensionabile e

crea la scandalosa categoria degli “esodati”, ovvero coloro i quali erano in fase di accompagnamento

alla pensione, ma che in virtù di questa riforma si sono ritrovati senza più lavoro né pensione.

Altro effetto della legge è la riduzione delle tutele per i lavoratori, con una sostanziale modifica

dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ed una maggiore facilità di licenziamento dei dipendenti.

La maggioranza appoggia poi l’introduzione dell’IMU, pensata per la verità già dal ministro Tremonti

(governo Berlusconi).

Durante il periodo di governo Monti il livello dello spread fa segnare una diminuzione, ma le

condizioni sociali ed economiche del Paese non ne traggono alcun giovamento.

Mario Monti, capo del governo dal 16/11/2011 al 28/04/2013

2. 2012: BERSANI BATTE RENZI

Nel corso dell’anno 2012 la sfida politica più interessante è data dalle elezioni primarie per scegliere il

candidato del centrosinistra alla carica di Presidente del Consiglio in vista delle elezioni politiche in

programma alla naturale scadenza dell’aprile 2013. Alla contesa, svoltasi il 25 novembre, vi

partecipano cinque candidati: Pierluigi Bersani (Segretario del Partito Democratico), Matteo Renzi

(Pd, Sindaco di Firenze, classe 1975), Nichi Vendola (Presidente di Sinistra Ecologia e Libertà e della

Regione Puglia), Laura Puppato (Pd, Consigliere Regione Veneto) e Bruno Tabacci (Centro

Democratico, Assessore al Bilancio a Milano).

Al primo turno Bersani e Renzi sono i più votati e nel ballottaggio del 5 dicembre prevale il primo con

il 60% dei consensi. Il Pd, in alleanza con Sinistra Ecologia e Libertà, Centro Democratico e socialisti

è in testa nei sondaggi, mentre l’alleanza Pdl, Lega Nord e partiti minori di centrodestra è staccata di

12 punti percentuali, e candida Angelino Alfano (considerato delfino di Berlusconi). Più indietro

l’alleanza centrista formata da Scelta Civica (soggetto politico creato da Monti, che a sorpresa decide

di candidarsi), Udc e Fli. L’outsider invece è il Movimento Cinque Stelle guidato dal comico e blogger

Beppe Grillo.

A fine anno, Berlusconi fa saltare il tavolo del governo, mossa chiaramente dal movente elettorale, per

segnare distacco tra il centrodestra e il governo Monti, imperniato su rigore ed austerità, nonostante il

Pdl avesse votato a favore del governo praticamente in ogni occasione. Monti si dimette e si

programmano le elezioni anticipate per il febbraio 2013.

Pierluigi Bersani, segretario Pd dal 07/11/2009 al 19/04/2013

3. 2013: NAPOLITANO FA IL BIS

Le elezioni politiche del 2013 segnano l’ascesa di Grillo (25,56%), il deludente risultato del

centrosinistra (29,55%) e il recupero del centrodestra (29,18%) con il centro del premier uscente Monti

fermo attorno al 10% e la sinistra (Prc, Pdci, IdV, Verdi) fuori dal Parlamento con il 2,2%. Il quadro

politico è dunque frammentato, con il centrosinistra che ha la maggioranza alla Camera, frutto di un

enorme premio di maggioranza stabilito dalla legge elettorale, che verrà poi giudicato incostituzionale,

ma non al Senato: si apre quindi una fase di incertezza, con Bersani che viene incaricato di provare a

formare un esecutivo; tentativo fallito dopo il rifiuto del Movimento Cinque Stelle di dare l’appoggio

esterno ad un possibile governo di centrosinistra.

Nel frattempo arriva la scadenza del mandato del Capo dello Stato Giorgio Napolitano. Pd, Pdl e il

centro sembrano compatti sulla candidatura di Franco Marini (Pd, ex-Presidente del Senato), che viene

però clamorosamente bocciata dallo scrutinio segreto. Bersani corre così ai ripari proponendo la

candidatura dell’ispiratore del Pd stesso, Romano Prodi. In Assemblea Nazionale Pd è ovazione, in

Aula è disastro: il Pd ha fatto mancare 101 voti al proprio candidato e Bersani si dimette da Segretario

Nazionale; la reggenza è affidata a Guglielmo Epifani.

Dell’azione di Bersani come segretario si ricorderà sicuramente l’appoggio concesso a Mario Monti

per la formazione di un governo tecnico anziché optare per le elezioni anticipate, che avrebbero

probabilmente dato una buona maggioranza al centrosinistra. Un atto certamente importante fatto

nell’interesse del Paese invece che del proprio, forse favorito anche dalla persuasione di Napolitano.

Guglielmo Epifani, già segretario Cgil

I partiti, incapaci di trovare soluzioni valide alla questione, decidono così per la prima volta nella storia

della Repubblica di rieleggere il Presidente uscente Napolitano al Colle, dopo che questi si è reso

disponibile a dispetto di sue precedenti affermazioni.

Giorgio Napolitano durante il discorso per la sua rielezione (22/04/2013)

Successivamente viene trovato l’accordo tra Pd, Pdl e il centro per la formazione di un esecutivo di

larghe intese guidato dall’ex-vicesegretario del Pd Enrico Letta, che si pone l’obiettivo di un governo

della durata minima di diciotto mesi.

Un fatto che agita la politica è poi la decadenza di Silvio Berlusconi dalla carica di parlamentare (era

Senatore) a seguito della condanna della Corte di Cassazione ricevuta per il processo Mediaset e agli

effetti della legge Severino (legge del 2012 appoggiata anche dal Pdl che prevede la decadenza dalla

carica per i condannati in via definitiva), confermati dall’Aula di Palazzo Madama.

A scompaginare le carte arriva poi il trionfo di Renzi alle primarie per la segreteria del Pd, tenutesi l’8

dicembre 2013, con il toscano che raggiunge il 68% dei voti, battendo Cuperlo (sostenuto da D’Alema

e Bersani) e Civati (sinistra Pd).

Renzi dapprima incalza il governo, da cui nel frattempo è fuoriuscita la componente berlusconiana

(che ha rifondato Forza Italia) contraria ad un esecutivo lento nelle decisioni, mentre è rimasta l’area

vicina ad Angelino Alfano, denominata Nuovo Centro Destra (Ncd), cui aderiscono fra gli altri i

ministri Lupi, De Girolamo, Lorenzin, Quagliariello oltre che esponenti storici di Forza Italia e Pdl

quali Formigoni, Cicchitto, Schifani e Sacconi.

Nella fase successiva il neosegretario del Pd fa capire a Letta che sarebbe opportuno rassegnare le

dimissioni per dare spazio ad un governo che prenda decisioni più rapidamente e con maggiore

coraggio, nonostante egli avesse più volte rassicurato il premier riguardo alla fiducia verso l’esecutivo

da lui guidato, sostenendo che non avrebbe mai voluto arrivare al governo in stile D’Alema, cioè per

nomina anziché per elezione (D’Alema scalzò Prodi nel 1998). Renzi verrà incaricato Presidente del

Consiglio il 17/02/2014.

Enrico Letta, capo del governo dal 28/04/2013 al 22/02/2014

Angelino Alfano, Ministro dell’Interno dal 28/04/2013

4. 2014: RENZI A PALAZZO CHIGI

Il governo Renzi, sostenuto dalla medesima maggioranza che sosteneva Letta, annuncia una serie di

riforme, a partire dall’abolizione del Senato e delle Province, per proseguire con lo stanziamento di

fondi per la riqualificazione edilizia degli edifici scolastici e il pagamento di 60 miliardi di euro di

debiti che la Pubblica Amministrazione ha nei confronti delle imprese private.

Nella primavera del 2014 vengono inseriti in busta paga 80 euro netti in più a chi ha un reddito

inferiore a 1.500,00 euro netti al mese e, forse anche grazie a questo provvedimento, alle elezioni

europee del 25 maggio il Pd trionfa con il 40,8%, vincendo in tutte le regioni (risultato mai raggiunto

da alcun partito nella storia della Repubblica), seconda forza è il Movimento Cinque Stelle (22%),

seguito da Forza Italia (16%). La Lista Tsipras (Sinistra) supera la soglia di sbarramento (4%), così

come Ncd, mentre per Scelta Europea (variante di Scelta Civica) è l’abisso: 0,7%. Da notare è

comunque l’alto tasso di astensione (41%), anch’esso storico.

Ad oggi però le riforme annunciate da Matteo Renzi non sono state completate, con la riforma

istituzionale che non prevede l’abolizione del Senato bensì la trasformazione di questo in una Camera

con diverse funzioni rispetto ad ora e non più eletta direttamente dai cittadini, mentre le Province sono

state rese enti di secondo livello (riforma iniziata comunque da Monti e proseguita da Letta). Il

pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione avvenuto solo parzialmente.

Si ha una tendenza quindi a mantenere attive determinate istituzioni anziché abolirle, ma viene al

contempo sottratta sovranità elettiva ai cittadini, sia nel caso del Senato che delle Province.

Il governo Renzi, e il premier in particolare, si caratterizza anche per l’aver sdoganato nel Pd l’ascesa

alla notorietà di esponenti del partito di giovane età e dai connotati fisici spesso appariscenti, sulla

falsariga dello stile berlusconiano.

Un’affermazione invece importante del governo italiano è stata la capacità di far nominare Federica

Mogherini (ministro degli esteri del governo Renzi) ad Alto Rappresentante per la Politica Estera

dell’Unione Europea, anche se l’Italia a Bruxelles è vista ancora come un Paese che deve riformare

molto al proprio interno per riacquisire peso politico ed economico, tendenza questa che si protrae

ormai da svariati anni.

Nel settembre 2014 si è acuito il dibattito sull’art. 18, che ha scatenato la rivolta della sinistra Pd,

contraria ad una possibile minore tutela per i neoassunti, mentre ha suscitato il plauso di Forza Italia.

La possibilità che il provvedimento passi con i voti di Forza Italia e senza quelli di una parte del Pd è

allarmante per l’esecutivo, ma Renzi forse sta giocando proprio su questo.

Bersani addirittura chiede a Renzi rispetto, sostenendo che il premier riservi un trattamento migliore a

Berlusconi che a lui, fatto testimoniato dai loro svariati incontri a tema; ma l’ottica di Renzi è proprio

questa: trattare in malo modo la “vecchia guardia”, additandola di conservatorismo, per dimostrare che

lui è l’innovatore e gli altri quelli che frenano il cambiamento, anche se il cambiamento di Renzi è più

di destra che altro.

In questo gioco stanno avendo un ruolo anche i mass media, con tv e giornali prima fedeli alla sinistra

del Pd, o addirittura a Berlusconi, che ora sostengono i modi e le virtù del Presidente del Consiglio.

Anche il Presidente Napolitano si butta contro il conservatorismo sui temi del lavoro e verso il

cambiamento, proprio nei giorni in cui Renzi parla in questi termini. Che coincidenza, sembra che stia

dettando l’agenda politica anziché ricoprire il ruolo di garante della Costituzione.

Tutti, o quasi, hanno dunque lasciato la tradizione post-comunista, o anche solo socialista o

socialdemocratica, per il baluardo del momento: cambiare a tutti i costi, anche se i costi sono troppo

elevati in taluni casi e si rischia di cambiare in peggio. La verità è che, nel caso delle politiche del

lavoro, la diminuzione di tutele per i lavoratori non ha mai coinciso con una ripresa economica, né

occupazionale o tantomeno della produzione industriale.

Sicuramente in Italia le cose vanno male da moltissimi anni, ma il cambiamento, pur necessario,

dev’essere sempre ben ponderato, onde evitare di creare ulteriori voragini.

In queste condizioni l’orizzonte che vediamo profilarsi potrebbe essere quello di un partito fondato da

Renzi (e la conseguente spaccatura a sinistra) che si allei con il centro e forse addirittura con il

centrodestra vista l’affinità sui temi del lavoro e non solo. Chiaramente potrebbe essere solo

fantapolitica, ma se la sinistra non troverà la capacità di far valere i propri temi e renderli attuali si

rischia un’ennesima frantumazione, che per ricomporre ci vorrebbero anni.

Matteo Renzi, già Presidente Provincia di Firenze e sindaco della città

5. IL RUOLO DELLA SINISTRA

La Sinistra, o meglio il centrosinistra, ha vissuto negli ultimi anni periodi contrastanti. E’ passata

dall’ambiguo appoggio al governo Monti, capace di imporre misure economiche severe e

provvedimenti che hanno in qualche modo danneggiato il ceto medio e le famiglie a basso reddito

(legge Fornero e Imu su tutte), ad un periodo di ampio consenso (il Pd di Bersani era dato al 33% solo

due mesi prima delle elezioni politiche del 2013). Successivamente la campagna elettorale del

centrosinistra è stata caratterizzata da un profilo basso, forse iperrealista, che ha raffreddato l’elettorato

italiano, abituato invece a regalare manciate di voti a persone più generose di promesse, e si è avuto un

risultato deludente (Pd al 25%, Sel al 3,2%).

L’avvento di Renzi ha rappresentato una grossa novità, oltre che per l’Italia, per il centrosinistra: per la

prima volta viene scelto come segretario un candidato non appoggiato dalle correnti storiche del partito

(anche se molti sono saliti sul carro di Renzi quando il risultato sembrava scontato). Egli ha saputo

inculcare ai più che l’unica salvezza per l’Italia fosse la messa all’angolo di personalità politiche note

(la cosiddetta “rottamazione”) e la comparsa di volti nuovi, per lo più giovani. Dalla sua parte, oltre

all’anagrafe, c’è stata anche la possibilità concreta di successo, scaturita dal fare intraprendente e

propositivo di Renzi, che gli elettori del centrosinistra aspettano da anni e che ha portato l’ex-sindaco

di Firenze ad ottenere risultati grandiosi in termini elettorali (primarie 2013 ed europee 2014).

Su di lui sono stati avanzati dubbi sulla capacità effettiva di governare e di portare a termine i

cambiamenti da lui stesso propugnati con berlusconiano ottimismo, ma nemmeno gli accordi con un

Berlusconi decaduto e la blanda epurazione di taluni personaggi scomodi nel Pd stesso (Fassina, fatto

accomodare fuori dal segretario Renzi quando egli era ancora nel governo Letta, Corradino Mineo,

sostituito nella Commissione Affari Costituzionali del Senato perché scettico sulla riforma

istituzionale) hanno affievolito la luna di miele con l’elettorato, alla perenne ricerca dell’uomo della

provvidenza.

C’è poi chi dice che Renzi sia stato lanciato dai poteri occulti, adducendo al fatto che il padre sarebbe

un esponente di rilievo della Massoneria fiorentina.

Sta di fatto che un governo a guida Pd, ovvero centrosinistra, non può proporre la revisione o

l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori solo per accondiscendere l’Europa o chissà

quali correnti di pensiero attualmente influenti. Ciò è stato invece paventato nell’estate 2014, come

suggerito peraltro dal Fondo Monetario Internazionale, il quale si spinge al punto di sostenere la tesi

secondo cui l’Italia potrà risanare i propri conti partendo dalla revisione dell’ambito pensionistico,

come non fossero bastati i numerosi ritocchi legislativi a tal riguardo.

Per chi spera che in futuro ci possa essere più spazio per i diritti dei cittadini e meno per fare gli

interessi delle alte sfere economiche non si profilano grandi soddisfazioni. Questo continuo richiamo

alla modernità, all’essere al passo con i tempi, sembra avallare l’equazione che l’essere all’avanguardia

significhi rinunciare ai diritti frutto delle conquiste sociali che da fine ‘800 si sono avute: questo è

inaccettabile.

Renzi, che afferma di voler governare fino al termine della XVII Legislatura (ovvero 2018), non

essendo peraltro stato eletto direttamente con le elezioni politiche, non è dell’avviso di dare più spazio

a princìpi propri della Sinistra, la quale però puntualmente si fa trovare frammentata (Prc, Pdci, Sel

sono solo alcuni dei partiti che compongono l’area alla sinistra del Pd) e litigiosa: basta vedere che in

Sel è avvenuta una scissione che ha portato diversi parlamentari, capeggiati dall’ex-capogruppo alla

Camera Migliore, ad uscire dal partito per accostarsi alle posizioni del Pd. Renzi va di moda insomma.

Ad ogni modo pare evidente come Renzi sia riuscito a far identificare il Pd con se stesso, rendendolo

sempre più un partito simile a Forza Italia e Movimento Cinque Stelle, dove se cade il leader cade

l’intero partito, viceversa se il leader è forte il partito vola nei sondaggi. Vedremo se in futuro il

modello Renzi reggerà e quale destino avrà il Pd. Per il resto della Sinistra ormai la questione è

soltanto una: o si farà un passo definitivo verso unità, credibilità e responsabilità nelle scelte o sarà

l’estinzione. Purtroppo.

Da sinistra: Vendola (Sel), Patta (Cgil), Di Pietro (IdV), Bonelli (Verdi), Ferrero (Prc) e Diliberto (Pdci)

E’ comprensibile che il trauma originato dalla scomparsa del Pci e del Psi abbia rappresentato una

frammentazione di non semplice soluzione, ma non si comprende ancora perché, a distanza di oltre

venti anni, in Italia non ci sia una sinistra unita e credibile ispirata da posizioni comuniste o di

socialismo massimalista che sia punto di riferimento per operai e fasce deboli.

In Germania è dal 1958 che i socialdemocratici non collaborano in alleanze di livello nazionale con i

comunisti (ora ex-comunisti della Linke), ma non per questo la sinistra è debole, divisa o incapace di

affrontare le sfide presenti e future, anzi, è vero il contrario.

In Francia c’è stato un periodo di divisioni a sinistra dagli anni ’80 fino al 2012, dove alcuni partiti si

sono ricompattati nella candidatura alla Presidenziali di Mélenchon, giunto al 10%.

In Spagna, invece, abbiamo Izquierda Unida (Sinistra Unita), dal peso politico non straordinario, ma

che rappresenta comunque un riferimento per l’elettorato più a sinistra del Psoe e raggruppa posizioni

comuniste e ambientaliste, queste ultime in Italia praticamente scomparse dalla geografia politica.

Il Logo “Die Linke” Jean-Luc Mélenchon Logo di Izquierda Unida

6. IL “JOBS ACT”: VERSO UNA GENERAZIONE DI SCHIAVI

In molti sostengono che Matteo Renzi sia l’uomo che finalmente porterà quei cambiamenti e quell’aria

nuova alla politica italiana e al Paese, altri sostengono che sia soltanto apparenza e scarsa sostanza, un

po’ come Berlusconi e Grillo, ma di fatto stiamo assistendo ad un fatto alquanto strano: Renzi si

incontra con Berlusconi, progettano riforme (forse non solo istituzionali) insieme, Forza Italia non è

dura contro il governo Pd-Ncd-centro e non fa praticamente opposizione; Renzi apre a destra di fatto

eliminando le tutele contrattuali per i licenziamenti dei lavoratori dipendente e riducendo l’Irap alle

imprese, Berlusconi invece apre a sinistra appoggiando Renzi sui diritti delle coppie omosessuali.

Questo potrebbe sembrare soltanto parte di una fase politica di reciproco apprezzamento tra Renzi e

Berlusconi, ma potrebbe anche significare molto di più, ovvero che si aprono le porte per un governo

pressoché eterno tra Pd e Forza Italia dopo le prossime elezioni politiche, quando verrà fatta una legge

elettorale che favorirà questo ovviamente. Berlusconi sarebbe così garantito in termini di influenza

politica, sebbene decaduto da parlamentare, e Renzi godrebbe di un ampio appoggio numerico. Sullo

sfondo c’è anche un presunto accordo tra i due su chi sarà il prossimo Presidente della Repubblica, che

guarda caso ha il potere di concedere la grazia.

L’unica variabile che potrebbe far saltare il banco sarebbe la componente del Pd fino a ieri riluttante ad

accordi con il centrodestra, ma oggi è tutto diverso: ex-bersaniani che fanno a gara per chi sia

diventato il più vicino a Renzi (e quindi al potere), ex-dalemiani che saltano le barricate per

raggiungere le posizioni del Presidente del Consiglio, e altri nuovi soggetti premiati addirittura con

svariati dicasteri, non si sa in base a quali capacità; pertanto la strada verso il compromesso storico 2.0

è spianata.

Per quanto riguarda il Renzi segretario e premier notiamo delle particolarità fondamentali: la prima è

che, in ogni intervento che fa sia in tv (dove ormai è di casa come Salvini della Lega, onnipresenti

sugli schermi) sia nei comizi, pone l’accento sulla sinistra che vince, che ha portato il Pd al 41%,

mentre “chi c’era prima” lo aveva portato soltanto al 25%. Egli inoltre demonizza i vecchi dirigenti del

partito, quasi li ridicolizza, paragonandoli ai sindacalisti, antiquati e lenti, mentre lui e i suoi (che

puntualmente chiama “noi”, mentre “loro” è il resto del Pd) sono la modernità, la freschezza, il futuro,

l’essere al passo con i tempi. Per lui contano solo i suoi, conta solo chi lo vota, ma rispetta

paradossalmente di più gli elettori del centrodestra, cercandone il consenso, di chi sta invece alla

sinistra del Pd, puntualmente irrisa perché ferma al 4%, mentre il partito da lui guidato ha dieci volte il

consenso di Sel, Rifondazione Comunista e altre realtà della sinistra messi insieme. Renzi sostiene

quindi che non teme una scissione della minoranza che nel Pd sta a sinistra, perché quelli che volessero

formare un’aggregazione più ampia a sinistra andrebbero incontro a risultati secondo lui miseri.

L’ossessione delle parole “vincere”, “sinistra che vince” (e “sinistra” detto da Renzi lascia il tempo che

trova), “41 a 25” fa intendere che Renzi guarda più ad ottenere il risultato, ad incassare la vittoria sugli

altri, rispetto al portare avanti idee e contenuti rendendoli concreti, ma la vittoria fine a se stessa è, mai

come in politica, una sconfitta in partenza, una sconfitta per il Paese che dovresti governare bene.

Ma Renzi, scaltro e furbo politico, si dimostra però vecchio, in particolare quando usa il termine

“sinistra” e si appresta a fare poi scelte che di sinistra non sono, come quando nei congressi del PCI si

facevano discorsi marcatamente a sinistra per fare poi scelte più moderate.

Quando Renzi propone il cosiddetto “Jobs Act”, tradotto in lingua madre Legge del Lavoro, ha tre

obiettivi in testa: il primo è quello di dare una stoccata all’ambiente sindacale (CGIL e FIOM in

primis) e di conseguenza alla sinistra del Pd, il secondo è quello di assecondare direttive presunte da

parte dell’UE e della BCE, mentre il terzo è quello di compiacere la destra e l’imprenditoria.

Con questo provvedimento si punta ad eliminare la possibilità che un lavoratore possa essere

reintegrato dopo il licenziamento (se non in casi di discriminazione conclamata, comunque

difficilissima da provare) adducendo al fatto che l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori freni la

crescita e sia una cosa vecchia, superata (legge 300 del 20/05/1970 modificato nel 2012), che rende

diffidente l’imprenditore verso le assunzioni. L’altra proposta contenuta nella Legge Delega, perché è

stata presentata sotto questa forma, è la sostituzione dei contratti a tempo determinato con contratti

solo teoricamente a tempo indeterminato per i neoassunti, ma a tutele crescenti, dove nei primi tre anni

un dipendente può essere licenziato in qualsiasi momento e senza ragione, mentre progressivamente

verrebbe ad avere più tutele, ma quella dell’articolo 18 solo dopo dieci anni.

Questo ha fatto scatenare le proteste della CGIL con la segretaria Camusso e la FIOM, guidata da

Maurizio Landini, che hanno indetto una manifestazione per il giorno 25 ottobre 2014 a Roma, ben

riuscita. Contemporaneamente si svolgeva la kermesse ormai annuale di Renzi a Firenze, la cosiddetta

“Leopolda”, dove in platea c’era di tutto: ex-berlusconiani, uomini di alta finanza, imprenditori,

renziani della prima e dell’ultima ora, ex-comunisti come Gennaro Migliore, ex-bersaniani e gente

comune che spera sempre nel cambiamento. Anche da lì Renzi non ha perso occasione di tirare

stoccate all’arretratezza dei sindacati e della minoranza Pd, area in cui si riconosce anche Rosy Bindi,

che da democristiana è finita per ritrovarsi in piazza con le bandiere rosse dei sindacati e della sinistra.

Il punto è che in altri Paesi non certo arretrati come ad esempio Spagna, Gran Bretagna e Germania

sussiste la possibilità che un lavoratore licenziato venga reintegrato e addirittura in Germania il

dipendente costa molto di più al datore di lavoro di quanto non costi in Italia e la Germania è messa

meglio in termini di occupazione e competitività, quindi di cosa stiamo parlando?

Eliminando le tutele ai lavoratori dipendenti si crea semplicemente una generazione di schiavi, la

nuova schiavitù legalizzata, dove una persona (perché ricordiamo al Presidente del Consiglio che i

lavoratori sono prima di tutto persone, con pari dignità rispetto agli uomini d’affari ad esempio) per

non essere licenziata inizierà ad essere servile nei confronti del datore di lavoro, cercando di

primeggiare ancor più rispetto ai colleghi, salvando se stesso e magari affondando gli altri, perché tutti

a parole non lo farebbero mai, ma quando ci si ritrova sull’orlo del rischio di essere licenziati, quindi

senza stipendio e senza poter mantenere se stessi e una famiglia, si inizia a sgomitare non poco.

Qui si vogliono lavoratori alla mercé del padrone, che possa scegliere a proprio piacimento chi salvare

e chi gettare via, altro che incentivare l’imprenditore ad assumere. Con tutte le crisi aziendali in atto

non si sentiva proprio il bisogno di una riforma del lavoro (o del “mercato del lavoro”, per usare un

termine capitalista come piace ai più ormai), che invece andrebbe fatta in periodi di economia florida.

Il governo promette infine che a chi rimarrà disoccupato verrà offerto un sostegno economico in una

certa forma maggiore rispetto ad ora e gli verranno fatti svolgere dei corsi di aggiornamento e di

formazione per il reinserimento nel mondo del lavoro. Con quali soldi e in quale mondo del lavoro?

Non si sa, non lo sa neanche il governo, l’importante è avere dei soldatini obbedienti, non delle teste

pensanti, dei servi che devono vita e futuro a chi li licenzia o meno a propria discrezione, non delle

persone che lavorano e fanno arricchire l’Italia; qui gli unici da far arricchire sono i businessmen.

Sinceramente in molti fanno fatica a comprendere il perché si vogliano demolire dei diritti in nome di

una presunta rinascita economica. Le conquiste ottenute dalla seconda metà dell’Ottocento stanno

venendo spazzate via in questi ultimi anni da provvedimenti come la legge Biagi del 2003 (governo

Berlusconi), legge Fornero (governo Monti), Jobs Act (governo Renzi) in fase di approvazione.

Ma francamente si fa ancora più fatica a capire perché nel Pd solo in pochi tentino di opporsi a questo,

mentre anni fa erano tutti pronti a fare le barricate. Tra l’altro chi poteva mettere in difficoltà il gruppo

dirigente del partito era la base, ovvero quegli iscritti che fanno politica per passione e non per

interesse, più a sinistra della Segreteria Nazionale. Ebbene, quegli iscritti non hanno in gran parte

rinnovato la tessera nel 2014, facendo scendere drasticamente a circa 200.000 le iscrizioni al Pd.

Potrebbe essere un segnale per Renzi, ma forse lui è proprio questo che desiderava: se la base se ne va

ci sono meno impicci e meno tensioni, potrebbe essere questo il pensiero dominante, insieme a quello

secondo cui se la maggioranza del partito decide di votare un provvedimento allora anche la minoranza

deve allinearsi. Ricordiamo però che quando Bersani e Berlusconi concordarono il nome di Franco

Marini (Pd) per la Presidenza della Repubblica nel 2013, fu Renzi a farne saltare l’elezione,

definendolo un nome irricevibile frutto di un pessimo accordo con Berlusconi, nonostante la Direzione

Nazionale del Pd avesse approvato la proposta. Per non parlare della clamorosa bocciatura di Romano

Prodi. Se n’è dimenticato, d’altra parte è giovane, non ha certo la memoria da elefante.

L’ultima domanda da porsi è la seguente: “Ma Renzi agisce per conto suo, per il suo desiderio

personale, o sta facendo gli interessi esclusivi di qualcun altro vedi Berlusconi, Ue, banche, finanza o

addirittura massoneria”? La risposta potrebbe anche arrivare, magari non a breve, anzi forse arriverà

prima una drammatica lotta di classe, se non è un termine troppo antiquato da gente non al passo con i

tempi che magari, anche se è fuori moda, si ostina a non votarli Renzi, Grillo e Berlusconi.

Maurizio Landini, segretario FIOM Corteo di lavoratori Meridiana

1970: il Parlamento approva lo Statuto dei Lavoratori