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Anni Ottanta: quando tutto cominciò… Realtà, immagini e immaginario di un decennio da ri-vedere a cura di Paolo Mattera e Christian Uva CINEMAeSTORIA’12 Rubbettino

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Anni Ottanta: quando tutto cominciò…Realtà, immagini e immaginario di un decennio da ri-vedere

a cura di Paolo Mattera e Christian Uva

CINEMAeSTORIA’12

Rubbettino

CINEMAeSTORIARivista di studi interdisciplinari

Anno I n. 1 - Periodicità annuale

Direzione scientificaPaolo Mattera (Università Roma Tre), Christian Uva (Università Roma Tre)

Comitato scientificoSandro Bernardi, Università di Firenze Gian Piero Brunetta, Università di Padova Francesca Cantù, Università Roma TrePietro Cavallo, Università di SalernoSimona Colarizi, La Sapienza Università di Roma Fabio Fabbri, Università Roma TreMarco Gervasoni, Università del Molise Pasquale Iaccio, Università di Napoli “Federico II”Millicent Marcus, Yale University Manfredi Merluzzi, Università Roma TreGiancarlo Monina, Università Roma TreAlan O’Leary, University of Leeds Peppino Ortoleva, Università di TorinoPierre Sorlin, Université Paris III - Sorbonne NouvelleErmanno Taviani, Università di CataniaVito Zagarrio, Università Roma Tre

Direttore responsabileChiara Gelato

RedazioneFabio EccaSara MesaPaolo Rendina

Crediti fotografici Stile libero: pp. 218, 220: Diaz, Fandango, foto di Alfredo Falvo; p. 221: Cha cha cha (tit. prov.), 01 Distribution, foto di Fabrizio Di Giulio; p. 222: Fortapàsc, 01 Distribution, foto di Fabrizio Di Giulio; p. 223: L’industriale, 01 Distribution, foto di Simone Martinetto; p. 224: Caravaggio, Titania Produzioni-Rai Fiction, foto di Piero Marsili Libelli; p. 225: L’uomo che verrà, Mikado, foto di Cosimo Fiore.; p. 226: This Must Be the Place, Medusa; p. 227: Miracolo a Sant’Anna, 01 Distribution; p. 236: Amici miei - Come tutto ebbe inizio, Filmauro, foto di Tullio Deorsola; p. 237: Noi credevamo, 01 Distribution; p. 238: Porco Rosso, Lucky Red; p. 239: Uomini di Dio, Lucky Red; Vallanzasca – Gli angeli del male, 20th Century Fox; Venere nera, Lucky Red; We Want Sex, Lucky Red.

Finito di stampare nel mese di novembre 2012da Rubbettino printper conto di Rubbettino Editore Srl88049 Soveria Mannelli (Catanzaro)www.rubbettinoprint.it

© 2012 - Rubbettino Editore88049 Soveria Mannelli Viale Rosario Rubbettino, 10tel (0968) 6664201www.rubbettino.it

ISSN: 2281-1729

Indi

ce Il mio lungo viaggio nella storia del cinema

in compagnia di Ulisse

di Gian Piero Brunetta 7

Quando la Storia incontra il Cinema

di Pietro Cavallo 23

Appunti per la storia

di un decennio

di Pierre Sorlin 39

Lo spirito di un decennio.

Gli anni Ottanta, il cinema, la storia

di Marco Gervasoni 55

Consumi e paesaggio mediatico

degli anni Ottanta

di Paolo Capuzzo 69

Gli schermi

non più opachi

di Vito Zagarrio 95

Echi e macerie del terrorismo

nel cinema italiano degli anni Ottanta

di Christian Uva 121

L’ellisse. Società e politica dal “Riflusso”

a “Tangentopoli”

di Paolo Mattera 133

Politica, spettacolo e televisione

negli anni Ottanta

di Edoardo Novelli 157

Nostalgia di un decennio disprezzato:

appunti sul primo cinepanettone

di Alan O’Leary 175

La rappresentazione degli anni Ottanta

nel cinema italiano contemporaneo

di Giacomo Manzoli 193

Stile liberoa cura di Chiara Gelato

CINEMA1Nel nome di Diazdi Boris Sollazzo 218INCONTRIL’altra Storia.Conversazione con Andrea Purgatoridi Chiara Gelato 221CINEMA2La giusta distanzadi Michela Greco 225EDITORIASu cinema e Shoahdi Giancarlo Mancini 229MULTIMEDIAVideogiocare il passato . Nella Storia, con la Storia, per la Storiadi Ilaria Ravarino 232OSSERVATORIOI film storici della stagione 2010-2011di Luca Peretti 236

Indic

e

Nel pieno di una notte di mezza estate romana, mentre il “co-atto” Enzo cerca disperatamente qualcuno con cui condividere le vacanze estive, il timido Leo, disteso sul divano, appare perso tra i suoi pensieri e l’”alternativo” Ruggero si congeda da suo padre per tornare nella comunità hippy da cui è partito, echeggia improvviso un boato...

È il prefinale dell’esordio alla regia del giovane «malincomico»1 Carlo Verdone, Un sacco bello (1980), film che apre idealmente la stagione degli anni ’80 facendo – è proprio il caso di dirlo – defla-grare nelle trame di una commedia gli umori di un’epoca ancora del tutto destabilizzata. Il fragore che infatti scuote inaspetta-tamente e in maniera surreale le monotone vite dei tre prota-gonisti del film è proprio quello di una bomba, di un attentato terroristico di cui il regista non fornisce tuttavia spiegazioni, e

1. Cfr. S. Reggiani, Dizionario del postdivismo. Centouno attori italiani del cinema e della TV, Rai-Eri, Roma 1989.

In molti film degli anni ’80 i detriti e le rovine degli “anni di piombo”

gravano sulle spalle di figure troppo esili per

potersene fare carico. Il passaggio epocale dal

decennio dell’io politico (gli anni ’70) a quello,

“liquido”, del riflusso nell’io individuale (gli anni ’80) sembra determinare

un generale senso di smarrimento che colpisce

inesorabilmente i tanti figli senza più padri, ma

anche i non meno desolati padri senza più figli,

finendo per accomunare i personaggi della nuova commedia “malincomica”

ai protagonisti delle opere dei nuovi autori.

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ciò affinché tale trovata si carichi di un valore assoluto capace di rinviare ad orizzonti discorsivi più ampi.

Se questa scelta narrativa, infatti, risulta ispirata all’attentato dinamitardo al Campidoglio compiuto a Roma il 20 aprile 1979 dalla formazione neofascista Movimento Rivoluzionario Popolare (mrp), essa assume di fatto un rilievo simbolico tutto particolare non solo in relazione ai tanti “boati” che hanno sconvolto gli appena conclusi anni ’70, ma, visto a posteriori, anche con rife-rimento a quelli che connoteranno tragicamente, a distanza di poco più di un mese l’uno dall’altro, proprio l’estate di quel 1980: le stragi di Ustica (27 giugno) e di Bologna (2 agosto).

Il finale di Un sacco bello, con le reazioni spaesate dei tre protagonisti, si rende in tal modo paradigmatico del generale senso di smarrimento e di inquietudine in cui si trova immersa l’Italia nella fase di transizione da un decennio all’altro, quasi che la stessa notte durante la quale ha luogo quell’esplosione rappresenti il passaggio epocale dal decennio dei furori ideologici e dell’io politico (gli anni ’70) al periodo del “famigerato” riflusso nell’io individuale (gli anni ’80). Come sembra paradigmatica-mente testimoniare anche un altro esordio, pur diametralmente opposto dal punto di vista stilistico e narrativo, del medesimo 1980: Maledetti vi amerò di Marco Tullio Giordana.

L’alba in cui perisce Svitol, l’”angelo ribelle”2 interpretato da un dolente Flavio Bucci, è senz’altro ben più livida di quella in cui, malgrado tutto, tornano alla vita i personaggi di Verdone. In Maledetti vi amerò i detriti e le rovine degli “anni di piombo” gravano sulle spalle di figure troppo esili per potersene fare ca-rico; allora non resta che schiantare sotto quel peso insostenibile, come succede appunto a Svitol, l’ex contestatore tornato a Milano dopo cinque anni di assenza trascorsi in Sud America, i cui occhi registrano una realtà della quale non riesce a capacitarsi visto che tutto è cambiato rispetto a quando è partito, a cominciare dai suoi ex compagni, i quali o si sono integrati nel Sistema oppure

2. La caduta degli angeli ribelli (1981) è il titolo dell’opera seconda di Giordana, vicenda di un amour fou fra una signora della buona società e un terrorista in fuga in cui il tema della lotta armata viene tuttavia fagocitato nella «logica decadente e aristocratica […] che vorrebbe il desiderio come il solo giudice finale» (M. Fantoni Minnella, Non riconciliati. Politica e società nel cinema italiano dal neorealismo a oggi, Utet, Torino 2004, p. 116).

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hanno ceduto alla droga e alla depressione («Ne ammazza più la depressione che la repressione» dice uno di loro).

Il protagonista di Maledetti vi amerò è, così, l’emblema della medesima deriva ideologica ed esistenziale al centro, due anni prima, di un’opera come Ecce Bombo di Nanni Moretti (uscita in sala proprio nei giorni del sequestro Moro), con la quale il film di Giordana condivide parte del registro adotatto, ossia quell’ironia legata «soprattutto alla parola e alla sua sovversione»3 (resta memorabile in Maledetti vi amerò il lunghissimo, gaberiano elenco di definizioni forti, alla ricerca di ciò che è “di destra” e ciò che è “di sinistra”).

Nell’opera di Giordana tale dimensione è destinata nondimeno a sfociare nel tragico orizzonte di una specie di “horror esisten-ziale”: prima ancora di essere un angelo ribelle, Svitol è infatti una sorta di zombie che si aggira, come un fantasma tornato sulla terra, tra le macerie morali e materiali di cui s’è detto, annun-ciando un’epoca che si apre all’insegna della morte dei padri: è infatti morto Aldo Moro ed è morto anche Pier Paolo Pasolini (a suo modo, anch’egli vittima del terrorismo), come ricorda a Svitol il commissario di polizia (sostituto di un padre assente) dal quale, in una sorta di inversione del mito edipico, il giovane finirà per farsi uccidere: l’eliminazione dei due padri, Pasolini e Moro – sug-gerisce Giordana – coincide così con la fine di tutta una serie di speranze di cambiamento al di là delle utopie rivoluzionarie.

In tal modo Maledetti vi amerò ha il merito di registrare a caldo lo sbandamento di un’epoca in cui gli impeti edonistici degli incipienti anni ’80 appaiono la risposta conseguente alla pulsione annientatrice ma anche autodistruttiva che, parzialmente, ha connotato il decennio precedente.

Nel corso degli anni ’80 il cinema torna ripetutamente a ri-flettere su tale stagione attraverso opere nelle quali resta cen-trale la crisi dell’«ultima generazione che ha avuto il coraggio di opporsi allo Stato»4.

3. E. Carocci, Il terrorismo e la “perdita del centro”. Cineasti italiani di fronte alla catastrofe, in C. Uva, Schermi di piombo. Il terrorismo nel cinema italiano, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2007, p. 123.4. Ad affermarlo è Pasquale Squitieri, autore nel 1988 del “carcerario” Gli invisibili, tratto dall’omonimo libro di Nanni Balestrini (Cfr. A. Guastella, Mordi e fuggi – Gli invisibili – La meglio gioventù, in Italia ultimo atto. Guida al

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Non di rado è la figura dell’ex militante di una formazione armata recluso in carcere a incarnare uno sguardo retrospettivo, come avviene ad esempio ne La messa è finita di Nanni Moretti (1985), nel quale un ex terrorista sotto processo, mettendo sotto accusa un’intera generazione e la cattiva coscienza di una certa sinistra, sfoga nei confronti del prete interpretato dallo stesso regista la sua rabbia: «fino a qualche anno fa ero come uno di voi, poi a poco a poco gli altri hanno messo al mondo dei figli, hanno cambiato lavoro, religione e solo io sono rimasto dov’ero, non so fare nulla e non ho combinato nulla, perché proprio io? [...] tu e gli altri siete proprio sicuri di non entrarci niente? Non avete nessuna colpa, voi?».

Una medesima ansia di normalità è quella espressa un anno dopo dal terrorista pentito messo in scena da Marco Belloc-chio in Diavolo in corpo (1986), «primo film sull’Italia del post-terrorismo»5. Quest’opera esce nello stesso anno in cui Giuseppe Ferrara realizza Il caso Moro – primo tentativo di fare i conti con quello che diventerà il principale topos del cinema incentrato sugli “anni di piombo”6 – e segna, come ricorda Fabrizio Nata-lini, «una svolta non solo nella carriera del suo autore, dando il via alla collaborazione con lo psichiatra Massimo Fagioli, ma anche nel nostro cinema, rimanendo uno dei pochi tentativi di descrizione del disagio giovanile post-settantasettino, viva testimonianza della crisi di una intera generazione su cui la cultura italiana, non solo cinematografica, si è ben di rado (e con difficoltà) interrogata»7.

cinema politico civile dalle origini a Buongiorno, notte, in «Nocturno Dossier», n. 15, ottobre 2003, p. 59).5. M. Morandini, «Il Giorno», 24 aprile 1986.6. Va tuttavia segnalato che l’affaire Moro, come ha rilevato Giancarlo Lom-bardi, «potrebbe sembrare il palinsesto genettiano degli eventi narrati» già nel televisivo Parole e sangue (1982) di Damiano Damiani: qui infatti «il rapimento e l’uccisione di un professore universitario sembrano ricalcare l’escalation del caso Moro [anche se] ostaggio e terroristi appaiono di diversa fattura» (G. Lombardi, Enigmi a puntate. I misteri italiani fra storia e fiction tv, in C. Uva (a cura di), Strane storie. Il cinema e i misteri d’Italia, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2011, p. 175.7. F. Natalini, Diavolo in corpo, in A. Aprà (a cura di), Marco Bellocchio. Il cinema e i film, Marsilio, Venezia 2005, p. 185.

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La vicenda raccontata da Bellocchio costituisce l’occasione per riattraversare il terreno solcato da Giordana col suo Ma-ledetti vi amerò; ora, tuttavia, in ragione dell’apporto di Fagioli alla sceneggiatura, l’elemento psicanalitico rappresenta un filtro privilegiato attraverso il quale esaminare sul vetrino da labo-ratorio il fenomeno terroristico, costitiuendone anzi una specie di strada alternativa per affrontare il mondo, come testimonia lo psicanalista rivolgendosi alla sua ex paziente Giulia in preda al panico: «il mondo è quello che è, noi siamo quello che siamo, e la psicanalisi non ha certo il compito di trasformare il mondo, ma piuttosto di aiutarla ad adattarvisi nel migliore dei modi». Nelle parole dell’analista si legge chiaramente la posizione di Bellocchio, ex militante marxista-leninista convertitosi alla psi-canalisi, il quale, invece di forzare le “strutture” della società a cambiare secondo le proprie utopie, decide di intervenire sul proprio “io” per adattarlo a vivere «nel migliore dei modi» in quel medesimo mondo.

È così che l’opera di Bellocchio si rende paradigmatica di un cinema italiano che in questi anni, come ha scritto Gian Piero Brunetta, tenta strenuamente di «esplorare i rapporti tra un io politico che si è dissolto e una disperata ricerca di un io indivi-duale incapace di trovare una propria dimensione»8.

Tale componente esistenziale impiegata quale modalità per evocare l’esperienza della lotta armata è del resto una costante che in qualche modo attraversa tutti gli anni ’80, accomunando ad esempio due opere che, simbolicamente, aprono e chiudono il decennio: La festa perduta di Pier Giuseppe Murgia (1981) e Roma, Paris, Barcelona di Paolo Grassini e Italo Spinelli (1990), vicende fondate, ricorda Maurizio Fantoni Minnella, su «una prepotente espressione dell’io che invade la Storia di tutta la violenza e la passione di cui è capace; la scelta terminale e conclusiva di un lungo percorso etico-politico drammaticamente segnato dall’in-frangersi dell’utopia contro l’efficacia e la durezza del regime»9.

Molto cinema degli anni ’80 è in effetti pervaso da questo clima di sbandamento e spaesamento di fronte al quale ogni

8. G.P. Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano 1905-2003, Einaudi, Torino 2003, p. 333.9. M. Fantoni Minnella, op. cit., pp. 128-129.

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autore propone una propria prospettiva d’analisi, se non una vera e propria “ricetta”.

Francesco Rosi, ad esempio, pur realizzando con Tre fratelli (1981) un film «tutto calato nel presente del terrorismo, della droga e della confusione ideologica», sembra cercare in un passato ance-strale, nella memoria di un mondo contadino dipinto con toni ele-giaci, l’«“altro polo” che permette l’interpretazione del presente»10.

Giuseppe Bertolucci, invece, interrogandosi sulla natura del cinema quale strumento capace di penetrare tra le pieghe della realtà, guarda a quest’ultima con profondo senso di spaesamento («allora, nel vivo – ha dichiarato lo stesso regista in una intervi-sta – si era investiti da quelle vicende e non si riusciva a [capirle], per molti era appunto un mistero che lasciava smarriti»11). Segreti Segreti (198412) è infatti una sorta di rebus che pone al centro dell’attenzione la famiglia borghese come luogo privilegiato in cui cogliere quegli «irregolari flussi comunicativi e affettivi»13 dietro ai quali sembrano nascondersi certe motivazioni del terrorismo stesso. È così che il mosaico di fisionomie femminili dominato da un insieme di relazioni madri-figlie – ulteriore conferma della definitiva morte dei “padri”... – diventa per Bertolucci l’oriz-zonte ideale per tentare di cogliere «gli effetti che il terrorismo [ha determinato] sul tessuto sociale e politico in cui viviamo quotidianamente»14.

Ciò evidenzia la precisa volontà del regista di sottrarsi alla “trappola” del film politico a tesi in cui si pretenda di porre sotto accusa la mano che ha gettato il sasso nello stagno – spiegando cioè eventuali cause storiche e sociali – preferendo invece guar-dare ai cerchi concentrici sullo specchio d’acqua che il lancio di quel sasso ha provocato...

10. E. Morreale, L’invenzione della nostalgia. Il vintage nel cinema italiano e dintorni, Donzelli, Roma 2009, p. 119.11. G. Bertolucci, Segreti segreti (Contenuti extra DVD), Istituto Luce, Roma 2006.12. Del medesimo anno è anche il televisivo Nucleo Zero di Carlo Lizzani, il quale, dopo l’esperienza di Kleinhoff Hotel (1977), torna a misurarsi con la lotta armata interrogandosi questa volta sulle possibilità di sopravvivenza e di riorganizzazione del terrorismo in una società normalizzata ma contrad-dittoria.13. G.P. Brunetta, op. cit., p. 359.14. D. Martelli, Intervista a Giuseppe Bertolucci, in «L’Espresso», 10 marzo 1985.

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La “sindrome” dello smarrimento tra le macerie del decennio appena trascorso colpisce dunque, in primo luogo, i tanti figli senza più padri raccontati dalle suddette opere, ma anche i non meno desolati padri senza più figli protagonisti dei due film forse più illuminanti per comprendere l’humus socio-politico e culturale in cui si aprono gli anni ’80: il riferimento va a La tragedia di un uomo ridicolo (1981) di Bernardo Bertolucci e a Colpire al cuore (1983) di Gianni Amelio.

Il primo è un personale punto di vista sull’Italia della fine degli “anni di piombo” e, come scrive Fabrizio Deriu, «del simultaneo consolidarsi del sistema di potere democristiano, a cui si affianca ora il PSI di Craxi»15. La vicenda di un industriale caseario ex partigiano alle prese con il presunto rapimento del figlio da parte di un gruppo di terroristi si fa nell’opera di Bertolucci occasione per tornare a quel motivo del parricidio, già più volte presente nella sua produzione, qui tuttavia reinterpretato nell’ambito di un sostanziale ribaltamento di prospettiva: per la prima volta, infatti, la figura paterna diventa il soggetto del film, testimo-niando come in questo caso il regista abbia «voluto “giocare a fare il padre”»16, sperimentandosi dall’altra parte di quell’edipico rapporto da considerarsi, in parte, come una possibile chiave di lettura del fenomeno terroristico stesso. Come ricorda infatti Alan O’Leary: «Questa caratterizzazione edipica può ben essere un’utile chiave di lettura delle origini del terrorismo italiano. Po-trebbe essere, in altre parole, un modo di codificare la percezione che ci sia stato un blocco generazionale e che un’inamovibile gerontocrazia detenesse il monopolio del potere»17.

Il riferimento di O’Leary va proprio alle opere che, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, in considerazione della pros-simità alla crescente gravità degli eventi, sono in buona parte leggibili in termini di conflitto edipico e dunque stimolano, per l’appunto, interpretazioni psicanalitiche,

15. F. Deriu, “La tragedia di un uomo ridicolo” di B. Bertolucci. Il complesso di Crono, in L. Miccichè (a cura di), Schermi opachi. Il cinema italiano degli anni ’80, Marsilio, Venezia 1998, p. 277.16. Ivi, p. 281.17. A. O’Leary, Tragedia all’italiana. Cinema e terrorismo tra Moro e memoria, Angelica, Tissi (SS) 2008, p. 16.

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Altro aspetto essenziale di La tragedia di un uomo ridicolo, dal punto di vista formale, è l’insistenza su una componente autoriflessiva che si concretizza visivamente nel dispositivo con cui, all’inizio del film, il protagonista incarnato da Ugo Tognazzi si rapporta alla realtà: un binocolo.

È con tale strumento che il personaggio crede di assistere al sequestro del figlio (in realtà si scoprirà essere una messa in scena architettata dallo stesso giovane per costringere il padre a pagare un riscatto). Come annota ancora O’Leary, «i binocoli usati da Primo servono come metafora, in primo luogo della difficoltà di vedere e di capire ciò che si vede, e in secondo luogo della mediazione dello stesso meccanismo cinematogra-fico, e quindi dell’accesso problematico del cinema alla realtà del periodo»18. Lo stesso Bertolucci ha del resto affermato: «[La tragedia di un uomo ridicolo] rappresenta un’ambiguità che io percepisco come tipica della società italiana – e anche della vita in altri Paesi. [...] Non ci sono più certezze. Nessuno sa più quale sia la verità – riguardo all’assassinio di Kennedy o agli scandali dei servizi segreti britannici o all’uccisione di Aldo Moro in Italia. [...]L’ambiguità oggi fa parte della nostra dieta quotidiana. Non c’è più alcuna certezza, compresa quella che riguarda gli eventi»19.

Siamo insomma in piena atmosfera postmoderna...Se si pensa, del resto, che nel film di Bertolucci, in maniera

estremamente suggestiva, gli stessi terroristi vengono definiti «proletari in apnea sotto la superficie liquida della storia», si vede come il legame tra quest’opera e la temperie postmoder-na si affermi in maniera inequivocabile laddove, attraverso la nozione di liquidità, sembra essere anticipata la nota metafora con cui Zygmunt Bauman, in tempi più recenti, ha descritto tale epoca, soggetta ad un «processo di liquefazione» di tutti quei corpi solidi (le “grandi narrazioni” lyotardiane) che le società avevano precedentemente costruito20.

18. Ivi, p. 118.19. M. Ciment, Bernardo Bertolucci Discussing Tragedy of a Ridiculous Man, in «Films and Filming», n. 328, 1982, pp. 12, 16.20. Cfr. Z. Bauman, Liquid Modernity, Polity Press, Cambridge 2000, trad. it. Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2003, p. VII.

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A proposito di Bauman, è interessante, tra l’altro, rivedere alla luce di alcune sue specifiche considerazioni teoriche le menzionate immagini iniziali del film, nelle quali il protagonista viene presentato come colui che tenta di esercitare il ruolo di “controllore” tramite il dispositivo ottico del binocolo. Questo personaggio si autodefinisce nell’incipit come un ormai ridicolo «capitano di lungo corso» che, dal «ponte di comando» rappre-sentato dal tetto del suo caseificio, scruta il “mare” della Pia-nura Padana nell’illusione di dominare, almeno con lo sguardo, la realtà che si dipana ai suoi piedi. Ebbene, il fallimento cui fatalmente va incontro tale figura, incapace appunto di poter realmente padroneggiare e comprendere quella realtà, sembra chiamare in causa la crisi di un modello che, secondo Bauman, si associa all’immagine del Panopticon, il luogo inventato da Jeremy Bentham e ripreso da Michel Foucault nel quale le per-sone vivono costantemente controllate e sorvegliate dal potere. Secondo questa prospettiva, La tragedia di un uomo ridicolo sembra fotografare lucidamente i sintomi di una nuova fase della storia umana – quella che Gianni Vattimo ha interpretato come “fine della storia”, ossia della concezione moderna della storia come corso unitario e progressivo di eventi – che Bauman definisce appunto come “post-panottica”21.

Più che un’analisi della stagione della lotta armata, ne La tra-gedia di un uomo ridicolo emerge dunque quel “dopo rivoluzione (mancata)” in cui domina il malessere di un’epoca, il conflitto generazionale, ma soprattutto lo stallo di fronte ad una realtà indistinta e sfumata, la cui mutazione gli occhi del protagonista non sono più in grado di cogliere.

Anche Colpire al cuore di Amelio sembra interessato a tor-nare a riflettere sulle questioni messe in campo dall’opera di Bertolucci sia sul piano della dinamica generazionale che mette in scena sia su quello dell’autoriflessività che lo caratterizza.

Sul piano drammaturgico questo film prende infatti in esame un’incomunicabilità il cui cardine è la figura, nuovamente, di un ex partigiano qui però nelle vesti di un professore dell’u-niversità di Milano. Si tratta di un intellettuale che tuttavia ha perso nei confronti del mondo, e soprattutto del figlio quindi-

21. Cfr. Ivi, p. XVI.

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cenne, qualsiasi capacità di offrire un orientamento etico, non essendo più in grado di indicare, come recita una battuta del film, «dov’è il bene e dov’è il male». Da questo punto di vista, Colpire al cuore rappresenta l’ulteriore esempio di un cinema collocato pienamente nell’orizzonte culturale sopra menzionato e che, proprio in quegli anni, prende in Italia il nome di “pen-siero debole”. Non è forse casuale, così, che l’anno di uscita del film coincida con quello in cui si pubblica la raccolta di scritti, curata per Feltrinelli da Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, che prende appunto questo titolo e che rappresenta la via italiana al postmodernismo filosofico.

Anche nel film di Amelio, come già in Giordana, la macchina da presa torna infatti a rivolgersi ad un cumulo di “macerie”, leggibili in questo senso come ciò che resta di quelle che secondo Vattimo e Rovatti sono le «fondazioni» uniche, ultime e normative del conoscere e dell’agire proprie di un’epoca ormai decaduta22. Amelio, al pari di Bertolucci, sente la necessità di porre lo “specifi-co cinematografico” alla prova di un simile orizzonte, misurando la stessa capacità del dispositivo filmico di costituire ancora uno strumento capace, se non di comprendere, almeno di rendere conto della realtà. È la missione che il cineasta affida all’unico sguardo ancora potenzialmente capace di una verginità, quello di Emilio, figlio del protagonista ed emblema di una generazione su cui ricadrà negli anni ’80 la responsabilità di traghettare il Paese verso una nuova “modernità”.

Non è un caso, pertanto, che sia proprio il giovane Emilio, vero e proprio soggetto scopico del film, a utilizzare un oggetto metalinguistico come la macchina fotografica per mettere alla prova le capacità del cinema di farsi strumento di attestazione di una qualche Verità, tentando almeno di distinguere i buoni dai cattivi, come fa il suo obiettivo mentre spia la fiancheggiatrice di un gruppo armato (interpretata dalla stessa Laura Morante presente, in un ruolo analogo, anche ne La tragedia di un uo-mo ridicolo) con cui il padre intrattiene un’ambigua relazione. Come accadeva per il binocolo di Primo Spaggiari nell’opera di Bertolucci, anche qui l’attenzione si rivolge a un apparato ottico

22. G. Vattimo, P.A. Rovatti, Premessa, in Id. (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983, p. 7.

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impiegato per avvicinare virtualmente il profilmico, consentendo tuttavia di mantenere le dovute “distanze di sicurezza”. In questo caso, però, il rapporto si ribalta perché a detenere lo strumento di controllo non è più, fallimentarmente, il padre nei confronti del figlio, ma viceversa, fatalmente, il figlio nei confronti di un genitore – e con esso di un’intera generazione – di cui decreterà l’uscita di scena dalla Storia, provocando per lui e per la donna l’arresto, nel finale del film, da parte delle forze dell’ordine.

Il contesto in cui tale epilogo viene ambientato è un complesso di cemento alla periferia di Milano (le riprese sono state in realtà eseguite presso il quartiere Laurentino 38 di Roma…) il quale, visto lo stato di degrado, risulta improntato a quella postmoder-na “estetica del brutto” che Vito Zagarrio rintraccia quale cifra distintiva di una successiva opera dello stesso Amelio come Il ladro di bambini (1992)23.

La dimensione che pervade questo paesaggio è così, nuova-mente, quella della rovina, evidente in particolare nello stabile abbandonato in cui agisce, furtivo, l’Emilio di Colpire al cuore, sui cui muri campeggia la scritta «Finché la violenza dello stato si chiamerà giustizia la giustizia del proletariato sarà violenta»: a drammatico memento di un edificio ideologico che si profila a tutti gli effetti come cadente rudere di un’epoca al suo san-guinoso tramonto.

23. Cfr. V. Zagarrio, Cinema italiano anni novanta, Marsilio, Venezia 1998, p. 59. Zagarrio, a sua volta, mutua tale terminologia da Karl Rosenkranz: cfr. K. Rosenkranz, Ästhetik des Hässlichen (1853), trad. it., Estetica del brutto, a cura di R. Bodei, Bologna, Il Mulino 1984.