corpi e storie. traiettorie di un confronto interdisciplinare

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1 Corpi e storie. Traiettorie di un confronto interdisciplinare. Mario Cardano Pubblicato in «Salute e società», fascicolo 3, pp. 34-45. In un interessante volume dedicato alla cura, Luigina Mortari richiamandosi ad Heidegger identifica in questa pratica un «fenomeno ontologico-esistenziale fondamentale» (Mortari 2006:1). Mortari definisce la cura come una pratica relazionale con la quale, attraverso azioni cognitive, affettive, materiali, sociali e politiche, si esprime l’impegno alla promozione del benessere altrui (ibidem 55). Costitutiva del nostro modo di essere nel mondo, la cura assume una configurazione speciale nel contesto della salute, dove questa pratica soprattutto nell’età contemporanea – ha assunto un singolare livello di complessità. La cura della salute convoca un insieme composito di saperi, di professioni, di istituzioni e organizzazioni sociali, economiche e politiche. La cura della salute, inoltre, è di necessità una pratica riflessiva che assume con finalità ora epistemiche, ora pragmatiche il proprio agire come oggetto di osservazione,. Si osserva la cura della salute per accrescerne l’efficacia e/o riconoscerne le criticità. Si osserva la cura della salute, principalmente i suoi esiti, per difendere o contestare le politiche che la orientano. Tutto ciò trova espressione nella comune ancorchè diversamente condivisa definizione della cura della salute come una pratica che simultaneamente insiste sulle dimensioni biologiche, psicologiche e sociali dell’esistere. Da qui la necessità, sempre più pressante, di una riflessione sul rapporto fra le discipline che hanno fatto di una delle tre dimensioni della salute il proprio oggetto privilegiato. Qui, in ragione delle mie competenze, mi soffermerò sul rapporto fra le scienze biomediche e le scienze sociali, in particolre la sociologia, puntando l’attenzione su due traiettorie che hanno promosso un loro avvicinamento, il tema del corpo nella sociologia, e quello della narrazione nelle discipline biomediche. In entrambi i casi l’attenzione cadrà sulle trasformazioni più recenti, che hanno le proprie radici nel secolo scorso, trasformazioni che almeno agli occhi di scrive hanno avuto un impatto decisivo nel modellare sia lo sguardo (la dimensione epistemica) di ciascuna disciplina, sia le forme di collaborazione fra esse (la dimensione politica).

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Corpi e storie.

Traiettorie di un confronto interdisciplinare.

Mario Cardano

Pubblicato in «Salute e società», fascicolo 3, pp. 34-45.

In un interessante volume dedicato alla cura, Luigina Mortari –

richiamandosi ad Heidegger – identifica in questa pratica un «fenomeno

ontologico-esistenziale fondamentale» (Mortari 2006:1). Mortari definisce

la cura come una pratica relazionale con la quale, attraverso azioni

cognitive, affettive, materiali, sociali e politiche, si esprime l’impegno alla

promozione del benessere altrui (ibidem 55). Costitutiva del nostro modo di

essere nel mondo, la cura assume una configurazione speciale nel contesto

della salute, dove questa pratica – soprattutto nell’età contemporanea – ha

assunto un singolare livello di complessità. La cura della salute convoca un

insieme composito di saperi, di professioni, di istituzioni e organizzazioni

sociali, economiche e politiche. La cura della salute, inoltre, è di necessità

una pratica riflessiva che assume – con finalità ora epistemiche, ora

pragmatiche – il proprio agire come oggetto di osservazione,. Si osserva la

cura della salute per accrescerne l’efficacia e/o riconoscerne le criticità. Si

osserva la cura della salute, principalmente i suoi esiti, per difendere o

contestare le politiche che la orientano. Tutto ciò trova espressione nella

comune – ancorchè diversamente condivisa – definizione della cura della

salute come una pratica che simultaneamente insiste sulle dimensioni

biologiche, psicologiche e sociali dell’esistere. Da qui la necessità, sempre

più pressante, di una riflessione sul rapporto fra le discipline che hanno

fatto di una delle tre dimensioni della salute il proprio oggetto privilegiato.

Qui, in ragione delle mie competenze, mi soffermerò sul rapporto fra le

scienze biomediche e le scienze sociali, in particolre la sociologia,

puntando l’attenzione su due traiettorie che hanno promosso un loro

avvicinamento, il tema del corpo nella sociologia, e quello della narrazione

nelle discipline biomediche. In entrambi i casi l’attenzione cadrà sulle

trasformazioni più recenti, che hanno le proprie radici nel secolo scorso,

trasformazioni che – almeno agli occhi di scrive – hanno avuto un impatto

decisivo nel modellare sia lo sguardo (la dimensione epistemica) di

ciascuna disciplina, sia le forme di collaborazione fra esse (la dimensione

politica).

2

1. La sociologia e il corpo

In sociologia, l’attenzione per la cura della salute ha origini recenti. È

comune individuare nel Sistema sociale di Talcott Parsons, pubblicato nel

1951, il luogo di una prima riflessione sistematica su questa peculiare

relazione sociale (vedi Parsons 1951, trad. it.1965). L’analisi parsonsiana

della cura della salute insiste sulla dimensioni normativa del rapporto fra il

medico e il paziente, lasciando in ombra il tema del potere, della sua

asimmetria, e quello – qui centrale – della corporeità1.

Il tema del corpo entrerà nella riflessione sociologica solo trent’anni più

tardi. Chris Shilling individua negli anni Ottanta del secolo scorso la prima

sistematica tematizzazione del corpo, inteso non già come mero vettore dei

processi culturali e sociali, ma come snodo cruciale del processo di

costruzione dell’identità individuale e collettiva (Shilling 2003, cap. 2). La

metabolizzazione, per così dire, di questa categoria concettuale segue, in

sociologia, percorsi diversi, in ragione del rilievo assegnato ai fattori

biologici e sociali responsabili della sua costituzione. Le diverse forme di

recezione dei temi del corpo possono essere racchiuse all’interno di un

continuum ai cui estremi si collocano le posizioni che Chris Shilling ha

efficacemente etichettato come «essenzialismo naturale» ed «essenzialismo

discorsivo» (ibidem: 71). Nella prima forma di recezione, espressa in modo

quasi caricaturale dalla sociobiologia, il corpo si costituisce e viene

modellato esclusivamente da fattori biologici – meglio: genetici – che, in

ultima istanza, definiscono il profilo della società. All’estremo opposto di

questo continuum virtuale, il corpo viene svuotato delle proprie

caratteristiche biologiche, materiali, per diventare esclusivamente un

costrutto culturale, plasmato dai diversi regimi discorsivi che attraversano

la società. I limiti di queste due posizioni estreme sono efficacemente

delineati dall’autrice che, motivatamente, propone un’immagine del corpo e

dei processi di incorporazione che considera congiuntamente i fattori

biologici e quelli culturali (ibidem: capp. 2 e 3).

Nella conquistata capacità di riconoscere nel corpo un luogo saliente

della riflessione sociologica si delinea un importante canale di

comunicazione e confronto con le discipline biomediche. Il corpo,

riconquistata la propria centralità, si configura come un importante snodo

1 Su questo aspetto cruciale della relazione di cura si soffermerà, in seguito, Eliot Freidson,

mettendo a fuoco la questione della cosiddetta «dominanza medica» (Freidson 1960, trad. it.

1977). Una selezione, in lingua italiana, dei contributi di Freidson è contenuta in un

interessante volume, a cura di Giovanna Vicarelli, (Freidson 2002).

3

nel quale osservare le relazioni fra natura e cultura, riconoscendo all’una e

all’altra il ruolo che loro compete. In questa direzione merita richiamare

un’importante terreno di ricerca entro il quale è stato possibile un utile

scambio fra le discipline biomediche e quelle sociali, mi riferisco allo

studio delle diseguaglianze sociali di salute2. In questo campo di studi il

corpo si configura come il luogo nel quale osservare la sedimentazione

delle relazioni sociali di cui gli individui sono stati protagonisti,

riconoscendone il peso nelle contusioni e nelle ferite incise nei loro corpi3.

Nel riconoscere al corpo una specifica autonomia ontologica,

irriducibile a un qualsivoglia regime discorsivo, la sociologia ha modo di

avvicinarsi alle discipline biomediche senza quell’ipoteca epistemologica

espressa dalle forme più estreme del costruzionismo sociale. Come

efficacemente argomenta Bryan Turner, il corpo documenta nella sua

materialità l’ostinata durezza dell’esistenza (Turner ricorre alla locuzione

«stuffness of existence» 2004: 79), opponendosi con forza alla deriva del

costruttivismo estremo che induce a pensare al corpo come a un docile

prodotto delle pratiche discorsive egemoni, come la materializzazione di

qualsivoglia «progetto» (vedi Shilling, 2003: 4-7). La tesi di Turner e, in

particolare, le parole che impiega per metterla in forma fanno venire in

mente le riflessioni metodologiche di Herbert Blumer sul carattere

«ostinato» (obdurate) del mondo empirico che, con la sua materialità, si

impone all’osservatore, istituendo – aggiungo io con qualche libertà

filologica – un limite al suo progetto interpretativo (vedi Blumer 1969: 21-

23). La presenza del corpo, con la sua irriducibile materialità, pone un

salutare vincolo alla proliferazione teorica, all’«anything goes» di

2 A livello internazionale, il tema delle diseguaglianze sociali di salute entra nell’agenda

scientifica e politica con il Black Report, pubblicato nel 1982 (Townsend e Davidson, 1982).

In Italia, la ricerca su questo tema si sviluppa nel decennio successivo, da principio

esclusivamente nel contesto dell’epidemiologia sociale. Una delle più rilevanti

testimonianze della collaborazione interdisciplinare fra discipline biomediche e sociali può

essere rintracciata nel volume di Michael Marmot, Status Syndrome (2004). Marmot,

epidemiologo sociale, declina il tema delle diseguaglianze sociali di salute in un registro che

evoca i lavori di Erving Goffman e Ralph Dahrendorf, per come le relazioni di potere e la

loro declinazione nella vita quotidiana vengono ritratte. Al tema delle diseguaglianze sociali

di salute questa rivista ha di recente dedicato una tavola rotonda, utile a ricostruire il tenore

del dibattito nel nostro Paese (vedi Cardano, Palumbo, Di Nicola, Secondulfo 2011). 3 Mi permetto, al riguardo, di rinviare al mio saggio Disuguaglianze sociali di salute.

Differenze biografiche incise nei corpi, pubblicato nel 2008.

4

feyrabendiana memoria, rendendo la nostra disciplina più sintonica con

l’empirismo proprio delle discipline biomediche4.

2. La medicina e le storie

Negli stessi anni in cui, in sociologia, si stava affermando l’attenzione

per i temi del corpo e della corporeità, nelle discipline biomediche

prendeva quota l’interesse per la narrazione. Si tratta di un processo che ha

trovato il proprio compimento nello sviluppo di una specifica branca della

medicina, la medicina narativa e che ha tratto il proprio impulso

dall’affermazione, nell’ultimo scorcio del secolo scorso, di un nuovo

genere letterario, la narrazione di malattia5.

Questo processo, sociale prima ancora che scientifico, è descritto con

particolare efficacia da Ann Jurecic, critica della letteratura, convocata su

questo terreno dalle sue vicende biografiche, l’irrompere nella vita del

marito del cancro (Jurecic 2012: ix). Il bel libro di Jurecic si apre con la

constatazione della singolare assenza nella letteratura di lingua inglese delle

tracce di uno degli eventi epidemiologici e demografici di maggior

momento del secolo scorso, la pandemia di influenza del 1918 (nota anche

come influenza spagnola), responsabile di un numero di decessi stimato fra

i cinquanta e cento milioni, pari a circa il 5% della popolazione. A questa

singolare assenza Jurecic accosta il profluvio di narrazioni di malattia che

investirono gli Stati Uniti negli anni Ottanta a seguito della pandemia

dell’AIDS.

La spiegazione di questo fatto sorprendente, impegna Jurecic in un

interessante esercizio abduttivo che individua nelle trasformazioni che

investirono la società nordamericana e, in particolare, le pratiche di cura le

radici del mutamento osservato. Jurecic, con una spiccata sensibilità

sociologica, richiama le trasformazioni della pratica clinica, la sua

progressiva professionalizzazione e specializzazione, responsabili della

perdita di intimità nel rapporto fra medico e paziente (ibidem 6). Questo

mutamento – prosegue Jurecic – è reso più penoso dai cambiamenti del

bisogno di cura indotti dalla transizione epidemiologica che ci ha condotto

nell’era delle patologie croniche. L’impoverimento della relazione di cura

4 L’empirismo cui faccio riferimento nel testo non è quello della prima stagione della

scienza o dell’epopea positivista, quanto piuttosto quello critico, cui si richiama Bruno

Latour nelle sue riflessioni più mature (Latour 2004). 5 Al tema della medicina narrativa questa rivista ha dedicato, una decina di anni or sono, un

interessante numero monografico composto con la collaborazione dei più importanti studiosi

dell’argomento Byron J. Good e Mary-Jo Del Vecchio Good (Giarelli, Good, Del Vecchio

Good, Martini e Ruozi 2005).

5

diventa da principio il motore dei movimenti di protesta, primo fra tutti

quello femminista, che preludono alla successiva e più diffuso emergere

della figura del «paziente politicizzato» (ibidem 8). Questo malessere trova

una prima espressione nella letteratura “alta”, con la pubblicazione di

alcuni libri seminali, che Jurecic individua in Nemesi medica, di Ivan Illich,

del 1976, Malattia come metafora, di Susan Sontang del 1978, e Anatomy

of an Illness (tradotto in Italia con La volontà di guarire), di Norman

Cousins, pubblicato nel 1979. A questi testi d’autore, segue, di lì a poco

l’irrompere di una messe ricchissima di narrazioni di malattia prodotte dai

malati di AIDS e dai loro cari, espressione, prima ancora di un afflato

letterario, di una pratica di resistenza nei confronti del diffuso pregiudizio

morale nei confronti di questi malati, tali – si diceva – in ragione del

carattere smodato del loro stile di vita6. Avviato a seguito della pandemia di

AIDS, questo genere di scrittura si espande coinvolgendo il vasto territorio

della patologia cronica e della disabilità, sino a raccogliere le narrazioni di

chi, con le parole di Arthur Frank, abita la «remission society», di coloro

che, pur non essendo malati, non possono considerarsi guariti (Frank 1995:

8).

La malattia severa, osserva Michael Bury, apre nella vita di chi la

subisce una «rottura biografica» (Bury 1982), che lo getta in un mondo

alieno e ostile, una condizione nella quale il presente non corrisponde a ciò

che in passato si era immaginato, mentre il futuro resta drammaticamente

incerto (Frank ibidem: 55). Il sé, oltre che al corpo, è in frantumi e la

narrazione si configura come il solo strumento utile a costruire un nuovo

legame fra presente e futuro, il solo strumento in grado di dare un senso

all’esperienza della malattia. Ciò che queste narrazioni descrivono è

innanzitutto l’esperienza soggettiva della malattia (illness), contrapposta

alla rappresentazione resa resa dai professionisti della salute sulla base di

un sapere tassonomico e tendenzialmente impersonale (disease)7. Un

ulteriore aspetto di queste produzioni discorsive su cui è opportuno

soffermarsi riguarda il loro carattere, costitutivo, oltre che rappresentativo.

Le narrazioni di malattia, come osserva Kleinman, non si limitano a

raffigurare i vissuti dal sofferente, ma contribuiscono altresì a determinare

l’esperienza che questi farà dei propri sintomi e della sofferenza (Kleinman

6 Sul profilo di questi pregiudizi si veda Kinsmann (1996). 7 La contrapposizione fra illness e disease viene sviluppata da Arthur Kleinman (Kleinman

1988: 3-8).

6

1988: 49). Da qui il loro rilievo, non solo per il critico letterario, ma

soprattutto per il clinico8.

Pressoché in concomitanza con l’affermazione di questo nuovo genere

di narrazione popolare, nell’ambito clinico emerge uno specifico interesse

per la letteratura e, più in generale, per la narrazione, intesa come strumento

in grado di offrire al clinico strumenti più adeguati alla diagnosi e, al

contempo, come strumento capace di restituire a questa pratica di cura la

dimensione umana, relazionale, offuscata dalla tecnologia medica9. Si

profila così un ulteriore importante punto di contatto fra le discipline

biomediche e le scienze sociali è rappresentato nella progressiva – ancorché

lenta – affermazione della cosiddetta medicina narrativa, di una medicina,

con le parole di Rita Charon, «capace di riconoscere, assorbire, interpretare

ed essere commossa dalle storie di malattia» (Charon, 2006: 4, traduzione

mia) . All’interno di una scena della cura caratterizzata da una crescente

specializzazione e frammentazione dei saperi (ibidem: 11), da una presenza

sempre più ingombrante di una tecnologia che si sostituisce alla relazione,

la valorizzazione delle competenze narrative proposta dalla medicina

narrativa, si configura come uno strumento capace di riavvicinare il medico

al paziente . Si tratta di una pratica, osserva Charon, il cui valore non si

esaurisce sul piano etico, ma che si traduce anche nella conquista di una

maggiore efficacia diagnostica e terapeutica.

Con la medicina narrativa due forme di sapere, con Jerome Bruner

(1986, trad. it. 2003: 15-55), due tipi di pensiero divergenti, il «pensiero

paradigmatico», teso a cogliere regolarità e leggi generali, e il «pensiero

narrativo», concentrato sul particolare, si coniugano restituendo alla scena

della cura il valore epistemico e il profilo etico che le compete.

3. Le condizioni di un proficuo scambio interdisciplinare

Se l’attenzione al corpo e alla narrazione hanno avvicinato due campi di

studio tradizionalmente separati, prefigurando auspicabili collaborazioni

interdiciplinari, occorre chiedersi – in chiusura – quali condizioni possono

rendere l’alleanza fra scienze biomediche e scienze sociali sempre meno

incerta. Nella sua riflessione sui modelli di relazione fra le scienze umane e

8 Per inciso, occorre segnalare come la recezione di questo nuovo genere di scrittura fu (ed

è) tutt’altro che pacifica. In specifico a questi testi si rimproverava, d’un canto l’incapacità

di soddisfare gli standard della testimonianza – soprattutto sul piano delle veridicità dei loro

contenuti – ma anche quelli propri di un’opera letteraria (vedi Jurecic 2012: 10). 9 Nel 1972, presso la Pensylvania State University College a Hershey, viene istituita la

prima cattedra di Letteratura in una facoltà di medicina (Hunter, Charon, Couleham 1995:

788).

7

le scienze naturali, Luciano Gallino identifica la prima – almeno in senso

cronologico – difficoltà che si frappone alla realizzazione di un efficace

confronto fra i due ambiti disciplinari anche qui tematizzati, le scienze

umane e le scienze naturali (vedi Gallino, 1992). Gli «incidenti cognitivi»

che rendono incerta l’alleanza fra scienze naturali e scienze umane, il più

delle volte, hanno origine dalla presupposizione erronea che «la mappa

cognitiva altrui (…) sia pressoché identica alla propria» (ibidem: viii).

Questa presupposizione cognitiva, non di rado, si traduce in una

disposizione normativa, per la quale si ritiene che la scienza altra, di norma

la più debole e dunque la sociologia, si debba uniformare ai modelli

ontologici, all’epistemologia e, per quanto possibile, ai metodi delle scienze

più forti, che nel territorio della salute sono le discipline biomediche. Che

questo non sia né possibile, né opportuno è – a mio giudizio – evidente,

anche se non mancano – anche nel campo sociologico – pressioni di segno

inverso, penso in particolare all’Evidence based research movement, che

sostiene la necessità di adottare, anche nelle scienze sociali, il modello della

ricerca biomedica, basata sul ricorso a trial controllati e randomizzati (vedi

Feuer, Towne, Shavelson, 2002).

È mia opinione che la realizzazione di un dialogo proficuo fra le scienze

sociali e le scienze biomediche possa realizzarsi solo a fronte di un pieno

riconoscimento della legittimità dei metodi di ricerca specifici di ciascun

contesto, senza alcuna pretesa di egemonia o, ancor peggio, di

colonizzazione. Questa esigenza risulta particolarmente pressante per la

quota – ormai consistente – della ricerca sociale sui temi della salute, della

malattia e della cura condotta ricorrendo a metodi qualitativi10

. Il ricorso a

queste strategie di ricerca, basate sull’osservazione condotta su piccoli

numeri e sulla deliberata armonizzazione delle tecniche di raccolta dei dati

alle caratteristiche del contesto e dell’oggetto di studio, impone un

profondo ripensamento delle nozioni di rigore e scientificità, non riducibili

ai modelli procedurali propri delle scienze biomediche.

Più in generale, è necessario un profondo ripensamento della nozione di

metodo, inteso non già come una collezione di regole che agiscono come

ordini, ma come un insieme di principî che ricevono una diversa

interpretazione in ragione del contesto nel quale vengono applicati. Si tratta

di principî che, con Gary Brent Madison, risultano più simili alle leggi del

diritto che a quelle della fisica; principî per i quali non si dà una sola

interpretazione corretta, ma più d’una, e questo in ragione del contesto

10 L’impiego dei metodi qualitativi nella ricerca sui temi della salute ha avuto un’importante

legittimazione con la pubblicazione nella prestigiosa collana del British Medical Journal di

un volume dedicato a queste tecniche di ricerca (Pope, Mays 2000).

8

d’impiego. Principî la cui applicazione, non diversamente dalla sentenza di

un tribunale, deve essere difesa con adeguate argomentazioni (vedi

Madison, 1988). Questa posizione non equivale alla rinuncia, per le scienze

sociali, del rigore, che solide ragioni etiche e pragmatiche, prima ancora

che epistemiche, impongono alle discipline biomediche. Quel che discende

è la necessaria accettazione di una diversa declinazione del principio del

rigore nelle discipline biomediche, da un lato, e in quelle sociali, dall’altro.

Occorrerà accettare, ad esempio, che in uno studio epidemiologico su

grandi popolazioni il rigore debba essere difeso con gli strumenti della

teoria della probabilità, ma anche che il medesimo obiettivo di rigore, in

una ricerca qualitativa sulle narrazioni di malattia, condotto su di una

manciata di casi, possa essere legittimamente difeso con strumenti non

mutuati dalla teoria della probabilità, ma – ad esempio – dalla teoria

dell’argomentazione o dalla logica informale, per ricercare in queste forme

di ragionamento le modalità più appropriate a definire il grado di incertezza

che insiste sulle conclusioni raggiunte11

. Occorrerà riconoscere

l’equivalenza fra modelli formali, propri delle discipline biomediche, e i

dispositivi metaforici di comune impiego nelle scienze sociali, il cui valore

ha origine anche dalla loro specifica apertura all’invenzione, alla creatività

(vedi Black 1962, trad. it. 1983; Hesse 1966, trad. it. 1980: 47 ss.).

Muovendo da una piena legittimazione reciproca, le scienze biomediche e

le scienze sociali possono contribuire in modo più pieno alla ricostruzione

dei meccanismi causali responsabili delle condizioni di salute e di malattia,

passando dal corpo, ma anche valicando i suoi confini per dare conto dei

determinanti sociali – oltre che biologici – di salute e malattia.

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