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Francesco Collotti, Giacomo Pirazzoli, Andrea Volpe Architetture 1. 2. 3. Manuale dei Laboratori di Progettazione del triennio

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Francesco Collotti, Giacomo Pirazzoli, Andrea Volpe

Architetture 1. 2. 3.Manuale dei Laboratori di Progettazione del triennio

credits:

pag. 128:Pietro Lingeri, plastico in gesso del primo progettoper l’Accademia di Brera (1935).Courtesy Archivo Pietro Lingeri, Milano.

pag. 136:Plastico realizzato da Giovanni Romano per unprogetto di spostamento della Società Umanitariadall’area in via Daverio ad un’area l imitrofaall’Università Bocconi (1937).Archivio Storico Umanitaria, Milano.

www.academiauniversapress.com

Francesco Collotti, Giacomo Pirazzoli, Andrea VolpeArchitetture 1. 2. 3.Manuale dei Laboratori di Progettazione del triennioa cura di Lisa Ariani, Caterina Bini, Silvia Catarsi, Cristina Ceccotti

impaginazione: Cristina Ceccotti

Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i paesi.Senza il consenso dell’editore non sono consentitela riproduzione, la archiviazione in un sistema direcupero o la trasmissione, anche parziale, in alcunmodo e con qualsiasi mezzo (elettronico, meccanico,microfilmatura, fotocopiatura).

Prima edizione: Settembre 2009

ISBN: 978-88-6444-004-0

Indice

Nota introduttiva 5

Laboratorio 1Dell’inizio 7La Mano 7Il croissant 11Il diario di viaggio 13Viaggiare, Disegnare, Conoscere 15Il sopralluogo 25Lo spolverone / Da due a tre dimensioni 29Esplorando il luogo col progetto 37Il progetto 39Note 52

Laboratorio 2Di urgenze e concordanze 57Regia dell’architettura 65Derivare intransitivamente 75La città e la stanza 79Dopo la navigazione 87Postilla 91Note 99

Laboratorio 3La Guida dello Studente è molto promettente? 111Incipit, quasi in salita 112Non è un mestiere per indecisi 113Si impara per incidenti 116Campo lungo, prospettiva corta 119Architettura/Natura 121Esercizi di misura 123Tipi come promessa di forma? 129Esperienza della città nel tempo, luoghi 133Note 139

ApparatiTesi di laurea 142Tesi di dottorato 154Libri Necessari 162Riferimenti bibliografici dal testo 163

Nota introduttiva

Un manuale universitario sostenibile ed eco–logico, fattorecuperando i materiali (normalmente destinati alla distruzione)dei Laboratori di progettazione architettonica? Un testo costruitodalla parte degli studenti riassemblando pezzi usati perdescrivere un intero del tutto nuovo? A guardar bene, ancheun libro low-price – quasi open-source non solo per addettiai lavori – perchè la ricerca che ci sta dentro continui ad essereun bene collettivo dopo questo strano presente di iper-individualismi, di metropoli “risolte” per pezzi griffati o dimosse altrettanto datate come la fine del progetto urbanocui è improntata la legge italiana sulla casa, da poco varata.Come autori – infine, tre architetti in ruolo nella Facoltà diarchitettura d’una delle più formidabili città d’arte al mondo –intendiamo qui ringraziare: gli ex allievi, i nomi dei quali nonpossono, per una questione di cosiddetta legge sulla privacy,essere direttamente associati al prodotto del proprio lavoro,essendo impossibile ormai ritrovarli tutti per chiedernel’espresso consenso scritto; gli assistenti e collaboratori, perchèsenza di loro questo libro non sarebbe mai venuto alla luce;last but not least l’Editore, per aver condiviso questo progettoimplementabile online. Così comincia la partita.

Francesco Collotti, Giacomo Piraz, Andrea Volpe

Giacomo Pirazzoli, Francesco Collotti

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Dell’inizio

Giacomo Pirazzoli: Ho riflettuto sulla possibilità di tornare a descrivere– nella prima parte di questo Manuale per i laboratori di progettazionedel triennio – la nostra parallela sensata esperienza nei Laboratori diprogettazione architettonica del primo anno a Firenze; in effetti – dopo isaggi brevi pubblicati su Firenze Architettura1 e soprattutto dopo la lungagestazione, infine esitata, di DA ZERO A TRE DIMENSIONI / FROM ZEROTO THREE DIMENSIONS (Piraz, Collotti 2007) che ha finalmente preso laforma del progetto multitask grazie al sito www.03d.it – abbiamo ancoraqualcosa da dire oppure potremmo a nostra volta puntare ad un qualchesilenzio eloquente (Martì Arìs 2002)2 sull’argomento specifico?

Francesco Collotti: I manuali dovrebbero essere strumenti utili, desuntidagli esempi costruiti, senza grandi velleità di rifondare una teoria, adifferenza dei trattati il cui scopo è principalmente mostrare una propriaversione dei fatti a volte tendenziosa e fondativa circa l’architettura e lacittà. Nel nostro caso non mi dispiace che alcuni appunti e riflessioni perl’insegnamento della composizione siano qui posti ancora una volta alfianco dei risultati, cioè del lavoro degli studenti senza dei quali – tral’altro – avrebbe poco senso porsi delle domande su una disciplina datrasmettere. Dunque dei manuali che diano conto dell’attività dei Laboratoridi progettazione dovrebbero sì mettere in fila ciò che si insegna, ma anchedar conto di ciò che si impara. Ed è forse il significato di queste pagine.

La mano

GP: Ottimo; aggiungo che, quasi per gioco, mi resta comunque difficilevalutare oggi l’efficacia di un manuale d’architettura costruito con pocheimmagini e scarne; siccome poi si tratta di condensare qui anche la gloriadegli errori di percorsi a volte ondivaghi invero labirintici, credo proprio

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che sarà interessante cercare autonomamente – come del resto è statoper DA ZERO A TRE DIMENSIONI – di dare corpo complesso anche aquesto libro, magari pure attraverso altri materiali da rendere disponibiliin rete. Trovo comunque utile far emergere con maggior chiarezza ilcarattere provvisorio, faticato e positivo degli “imparaticci” che vengonoprodotti nei corsi3; e parimenti evidenziare un intrinseco “dato di crisi”rispetto al libro in quanto tale, che resta strumento di conoscenzaformidabile e prezioso, tuttavia non unico, da integrare e potenziare conaltre modalità contemporanee4; del resto noi una dialettica libro-web lastiamo praticando... proprio per questo il primo giorno di lezione di questolaboratorio che è “disciplina caratterizzante il corso di laurea” diamo agliallievi due fogli di carta A4 dove chiediamo di disegnare a penna “lamano”. Così s’inizia: ognuno la propria, i mancini la destra i destrorsi lasinistra, nel primo foglio la mano in pianta-prospetto-sezione, nell’altrofoglio la mano di fantasia ovvero in movimento, di tre quarti, nei tracciatiregolatori etc.; dietro questo incipit c’è appunto una visione del mondocome sfida di complessità, dove il range di possibilità è altissimo, ecomincia senza falsi pudori proprio dalla matita e dalla mano. Chiaroche alcuni degli allievi ancora non conoscono le proiezioni ortogonalisecondo Monge, chiaro che non chiediamo “lo sfumato”, chiaro chenessuno di noi si aspetta di vedere disegnata una qualche anatomiadella mano, altrettanto chiaro comunque che con quel lavoro gli allievi ciconsegnano se’ stessi, nel proprio essere come nel proprio fare, nel gradozero esecutivo d’una penna e due fogli di carta, in pratica nudi e crudi.Non ho mai smesso di pensare che in questa prima esercitazione – sefossimo capaci di tergiversare assai a lungo sulle cose che ci vengonmesse davanti agli occhi e non fossimo, invece, attratti dal procedereinduttivo del progetto (che coincide qui con l’intero Laboratorio, pensatoe voluto “come un progetto”) – c’è tutto, come nel palmo della manod’ognuno di noi: ci son scritte la volontà, la capacità, la poesia,l’intelligenza, la pazienza, il garbo, l’intemperanza, l’ostinazione dei futuriarchitetti che per nostra grande responsabilità e privilegio, saranno risorseumane del Corso e futura classe dirigente dell’ExBelPaese (o magarid’altri luoghi del mondo più interessati alla civiltà).La mano come ouverture (ovvero la main ouvérte di Corbusianamemoria?) si conclude, dunque, con la discussione in aula di alcunedelle esercitazioni, scelte da noi e scansionate, quindi proiettate sul grandeschermo per ragionamenti collettivi e principalmente “tecnici”, per capirele proiezioni ortogonali e la loro applicazione (mica per leggere la mano!)

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Il croissant

FC:…e se il primo esercizio del Laboratorio – LA MANO, appunto – cercadi contrastare la corrente epoca caratterizzata dal freddo tecnologico efatta di corpi apparentemente molto esibiti e del pari acerbi o virtuali -quando non assenti del tutto - è al secondo esercizio che spetta il compitodi cominciare a interrogarsi su una forma che prima o poi, verso la finedel primo anno, diverrà comunque come se fosse da costruirsi.Como acotar un croissant / how to lay out a croissant era un eserciziopreso a prestito a Eric Miralles e C.5. Fare un progetto è compiere unaserie continua di scelte. Dal primo momento. Equivale anche a dichiarareda che parte si sta (era un tempo una mossa fondamentale, anzi, peralcuni artisti del Novecento, dire contro chi si era era la mossa di apertura).Una serie continua di scelte di cui dar conto, dunque: non semplice, inuna realtà che i sociologi da fondo di prima pagina vorrebbero liquida.L’esercizio del croissant inizia alla mattina presto in pasticceria, a capirese di normale brioche o cornetto si tratta, ovvero di croissant.A differenza della mano si può sezionare senza dolore. Se si è furbi si ècomprato un vero croissant e non ci si è fatti confondere dalle brioche,prima surgelate poi riscaldate secondo puzzolente globalizzata procedurae tenute al tiepido in apposita campana di perspex. Qualcuno però nonha resistito e ha derogato alla semplificazione formale predicata sindall’inizio nel corso: ha comprato un cornetto col ripieno di crema,marmellata o nutella. Il lavoro è sporco, dato che – comunque sia – sirichiedono rappresentazioni ortogonali e quotatura. Alcuni, cercando dicapire l’ipotetico sviluppo della superficie di pasta originaria chel’involtolato croissant generò, interrogano le sfoglie arrotolate a coglierestratigrafie in sezione. Per via, e con esempi un po’ più complessi chenon la peraltro rispettabilissima arte pasticcera, si imparerà col tempo unpercorso induttivo secondo il quale solo col progetto gli architetticonoscono. Disegnare è allora un modo di conoscere e misurare glioggetti e il mondo che ci circondano. Qualcuno negli anni seguenti –vincendo quella giovanile estremista ritrosia verso tutto ciò che è in odoredi istituzionalità – cercherà di avvicinarsi ad alcuni che continuiamoper resistenza a chiamare Maestri e scoprirà, col disegnare e col viaggiare,che conoscere è prossimo per senso e significato a RICONOSCERE.Anzi nella maggioranza dei casi per il nostro mestiere conoscereè riconoscere. Accade per gli architetti, ma anche per quegli scrittoriche sono al contempo grandi divoratori di libri.

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Il diario di viaggio

GP: Già, eppure io non so più dire se questa nostra sia davvero una lineadi resistenza oppure, più esattamente, condizione di esistenza;perché proporre oggi, nel fare, la sostanza di ricerca dei grandi scrittori –o dei grandi musicisti, o dei grandi pittori, o dei grandi scultori o deigrandi architetti – che da sempre fondano anche sulla conoscenza dellavoro degli altri (Calvino 1995) il proprio modo di lavorare, può passareper una mossa strana. Perché noi dichiariamo attraverso il programmadei corsi e relativa bibliografia – in pratica il contratto che lega il nostroimpegno a quello degli allievi – i “libri necessari” propriamente classici6;e ciò non è così scontato, dati i tempi e considerato il contesto. Intendodire che questo percorso è frutto meditato e cosciente che pure nasceoggi da una condizione di evidente residualità – quella italiana nella qualecomunque operiamo come docenti e cionondimeno come architetti, inmisura prevalente ancorché per nostra sorte quasi sempre in situazionipeculiari: perciò ritengo si possa parlare di condizione di esistenza.Del resto il fiato corto classista e modaiolo del glob&glam di questi anniè sempre più evidente e l’Università – che continuiamo a ritenere il luogodi formazione della classe dirigente di domani, lavorandoci con laconsueta “ostinazione, senza illusioni” (Magnago Lampugnani 1986) –non può stare dentro le prassi oggi dominanti, per cui le pagine patinatematt dei magazine danno spazio a tutto e al contrario di tutto, confondendoe urlando migliaia di volte a settimana la soluzione geniale del secolo,peraltro vista sempre più da lontano da un’ottica worldwide&faraway.Per quanto sopra, individuato almeno questo dato di (enorme) fragilitàche caratterizza un Paese posseduto dal demone della comunicazionedel nulla, dalle apparenze, dal voyeurismo televisivo di coloro che le cosenon le toccano forse perché non le amano etc. e dunque riconosciutoil “mondo vecchio”7 che ci circonda, quello che in definitiva facciamonella Facoltà fiorentina è lavorare con gli allievi sul “futuro del classico”8

(Settis 2004) : qui rimettendo in evidenza nel fare – per quanto possibile,date le condizioni – anche la non banale differenza tra “antico” e “vecchio”,per l’appunto. Del resto, a questo riguardo, possiamo farci forti dellastraordinaria specificità di Firenze, che consentirà sempre di chiudere lalezione con frasi epocali tipo “se le cose che abbiamo trattato stamane visono sembrate sciocche e questo corso vi deprime, potete semprerimediare uscendo di qui e andando a “copiare” p.e. Leon Battista Albertia Palazzo Rucellai” – ecco così introdotto l’uso del “diario di viaggio”,il quaderno di formato A5 o similari che ogni allievo è gentilmente

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obbligato a riempire di appunti e di disegni onde convenientementeaccompagnare il percorso del Laboratorio di progettazione architettonica,sin da questo primo anno. Niente di nuovo, in fondo: tutti gli artisti bravihanno imparato così, lavorando sui lavori degli altri, disegnando eviaggiando, come tu ricordavi; il fatto che da alcuni anni si possa viaggiareANCHE attraverso il web è una ricchezza nuova, che ci rende più pieni,specie se riusciamo ad utilizzarla senza dimenticare gli altri strumenti diviaggio e di conoscenza, compresi quelli “antichi”.

Viaggiare, disegnare, conoscere

FC: Gli studenti Erasmus che arrivano dai paesi baltici o da regioni chehan voluto violentemente recidere i legami con la loro storia recente,restano stupiti di questa presenza forte del passato. Pensano sia unaquestione circoscritta alla storia, ingombrante, noiosa, istituzionalizzata.Un paio di occhiali che ci siam messi per non guardare le riviste e – perloro tramite – il mondo globalizzato che cambia. Tocca prenderli da partee spiegar loro che qui da noi l’antico è compresente, esiste ancora adesso,non è da vedere nei libri, basta alzare la testa e misurare con gli occhi econ la mano: la storia diviene esperienza ed è per questo materiale dacostruzione per il progetto. Anche nei suoi esempi meno trafficati dalturismo, come palazzo Pandolfini, che è una lezione sulla rinuncia a tuttociò che c’è di accademico e di scontato nel progetto, una straordinariacomposizione in cui ancora una volta si afferma che la pianta è antica el’alzato una sorpresa, ancora un luogo dove la regola viene enunciatacome adesione all’architettura della città e al contempo se ne evidenziail suo avanzamento. Ancora un edificio che è interrotto subito soprala balaustra del primo piano, volutamente un frammento, un’omissione,un basamento in attesa e non una ricercata eleganza. Ma questoè il percorso di ogni progetto, incapace di cominciare da zero.Si impara, ma non si insegna: ci piacerebbe ogni tanto saper far usodi quella arrogante sicurezza di cui andava fiero Le Corbusier quando sivantava di essere un grande voleur. Ladro di architetture rubate durantei viaggi e fissate nei suoi carnets. Si ritrova così a distanza di tempo e diluogo la proporzione di un portale, la sequenza di spazi di un tempio,la grande sezione di un edificio. I Maestri di buona architettura usanoi loro viaggi come materiale da costruzione per il progetto.Con più castigata discrezione rispetto all’esagerata auto-promozione di Le Corbusier, Giorgio Grassi è ritornato su un principioanalogo, affermando che architettura è vedere le cose e trasferirle.

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Del resto, di Roma e di tutta l’antichità ci parlano i muri spessi e corposicon cui l’Alberti erige la navata del S.Andrea di Mantova (Grassi 2007).Attraverso questa trasfigurazione che solo al progetto è concessa inprivilegio stabiliamo affinità, esprimiamo adesione a mondi o Maestrianche distanti nel tempo. In una nostra speranzosa figurazione (fuori daltempo e dalla ragione, peraltro) gli architetti erano quelli che partivanocon pochi strumenti, un taccuino, una matita, uno strumento di misura(Pirazzoli 2005). E chi aveva visto il mondo tornava sapendo di averequalcosa da dire. Viaggio e trasposizione, allora. Ove con trasposizioneci piace ancora intendere, secondo quei dizionari che ancora si attardanoa cercare il significato delle parole, quella operazione con la quale sitrasferisce un soggetto da riprodurre, dalla matrice originaria a un’altra.Alla fine del Settecento per gli uomini di cultura di lingua tedesca laitalienische Reise è una tappa obbligata della conoscenza neglianni dell’apprendistato (Collotti 2004).Gli architetti di buona maniera dovrebbero essere addestrati alla capacitàdell’antico di generare progetto. Tra le caratteristiche che conferisconoall’architettura e al paesaggio italiani una precisa identità nell’esperienzadel tempo vi è sicuramente quella presenza di rovine che non solo inmodo del tutto particolare marca il rapporto tra vecchio e nuovo, ma che– sotto forma di ineludibile memoria – rende il nuovo debitore nei confrontidell’antico. Ecco perché insistere ancora su Alberti (che non disfa, maporta avanti) e poi Palladio, fino a Terragni, Muzio, Libera nel Novecento9.Ci interessano questi Maestri che con il loro lavoro hanno ragionatosull’antico dandone una versione più avanzata, mai la sua copia: nellamaggioranza dei casi, progetti per frammenti che rimandano a un mondonon più esperibile nel suo intero. Nel caso di Terragni è il disegno delPiano Regolatore di Como tracciato sulla pianta romana della città10,ma anche gli schizzi – tutti da intepretare – per la casa dei Vietti a ridossodel cuore antico della città che stanno tutti dentro la misura della piccolacostruzione su cui nel corso dell’anno gli studenti si cimenteranno.Un Laboratorio di Composizione incontra necessariamente una lezionesulla nozione di classico, come presa di posizione nei confronti del mondo,ma anche per continuare a chiedersi da che parte si sta, indagando lecaratteristiche operanti di un termine apparentemente accademico esuperato, saggiando la sua capacità ancora di far crescere – tra l’altro –progetti di architettura. Non ci interessa leggere l’idea di classico comeesaltazione di una epoca d’oro in cui il tempo è sospeso (Focillon 1972)11.Ci interessa però continuare ad affermare che il mestiere di architetti hapoco a che vedere con l’estemporanea sperimentale invenzione, quanto

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invece – e in maniera del tutto particolare nell’ambito mediterraneo – conil ritrovare forse sempre le stesse cose, rinvenire cioè nel passato ilmateriale da costruzione per il presente. Anche per quei temi distanti eignari dall’antico, perché invece pur nuovi nelle destinazioni, essi tuttiappartengono ad un principio di insediamento di un territorio.I più duraturi architetti del Moderno, quelli cioè che non han mai pensatoche il Moderno fosse una moda, hanno saputo coniugare nel loro lavorocontinuità e avanzamento, intendendo la tradizione non come catalogodi stili, ma come energia delle mutazioni (Rogers 1958). Un percorso,del resto, comune ad alcune grande figure di artisti del Novecento chehanno continuato a riflettere sulle origini come materiale da costruzione(Arturo Martini, ma anche Lucio Fontana fino ad Alberto Burri con ferrolegno e fuoco e colori assoluti, il nero e l’oro). Ed è questa la distanzatra chi pensa ogni volta di cominciare daccapo e chi – al contrario –si ostina a portare avanti una responsabilità civile che abbiamotemporaneamente in prestito e che appartiene alla lunga duratadell’architettura della città e del paesaggio.Un’epoca di fantasmagoriche realtà virtuali contrapposte a un vissutoquotidiano privo di progetti e speranze (quanti dei nostri allievi faranno ilmestiere per cui vengono addestrati per?) disabitua al paradosso e allaprovocazione. In ben altro clima – e da versanti apparentemente distanti– sia Loos sia Le Corbusier fecero gesti rivoluzionari col dorico, l’essenzastessa di una grecità primordiale e incorrotta, nella quale si congiungevanoal massimo grado struttura tettonica e ricerca formale. Frammentodell’antichità preposto a resistere e al contempo edificio contemporaneoè del resto la famosa gigantesca colonna dorica di Loos inviata alconcorso per il Chicago Tribune: fedeltà ad una forma pura proprioladdove il ripudio del decorativismo degli stili “storici” trova compimentonell’esaltazione del dorico come pietra di paragone della modernità(Settis 2004). Ci piace ricordare come qualche anno fa Massimo Cacciari– durante una conferenza con Umberto Eco sui libri che andiamo semprea rileggere – ragionò sulla lettura dei classici come qualcosa che nonrimanda al passato, ma costituisce invece un atto di resistenza al presenteche contrasta con l’ora, con il modus, cioè con il moderno, con la moda.Per gli architetti un preciso gesto in grado di rimettere in cornice valori ogesti – ancora una volta costruiamo per frammenti? – prima che questirestino fagocitati dalla tirannia del momento.Appunto, sul filo tra insegnare a resistere e constatare - invece -una condizione di esistenza. Presa d’atto, si chiama. Ma è anchequell’andatura della vela per cui si naviga anche col vento contrario…

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Ha ancora senso tutto ciò in un corso in cui tu sin dall’inizio, e per unintero semestre, avevi invitato gli allievi a viaggiare, disegnare, conoscere(Pirazzoli 2003a)?

GP: Penso semplicemente che viaggiare sia fondamentale per conoscerequalsiasi cosa, ivi compresa l’architettura, che va vista e attraversata colcorpo: le immagini da sole, tecnicamente son cosa da dilettanti12.Peraltro il viaggio, scriveva da qualche parte Chatwin, mette in allerta isensi, così viaggiando si ha una percezione più profonda di tutto ciò cheaccade; per me, comunque, è il tempo del viaggio la questione importante,perchè può perfino diventare tecnica di restituzione dei materiali delviaggio medesimo in quanto implica una velocità, dunque un’altradimensione delle cose.La letteratura di viaggio, per esempio, implica la scrittura, che è fisicamenteun esercizio di rallentamento, dunque noi leggiamo la descrizione di uncerto luogo fatta p.e. da Rousseau che quel certo luogo ha percepito edè riuscito a stabilirne una diversa velocità, semplicemente avendolo benfiltrato con una penna, dunque rallentandolo con un fatto tecnico.Il cinema sembra compiere l’operazione opposta, quella di accelerare:nel corso di un film a volte si vedono diversi luoghi, a volte moltissimiluoghi, ognuno dei quali in tempo assoluto vediamo per pochi istanti,raramente per qualche minuto; la cosa è che, comunque, per un altrofatto tecnico, ognuno di quei pochi istanti è fatto a sua volta di moltissimifotogrammi che scompongono, rallentandola, l’immagine finale che è lanostra complessiva percezione di quel luogo. Prova a pensare a trepellicole cult completamente diverse anche proprio per velocità l’unadall’altra – e non così importanti per le architetture che vi compaiono –come Koyaanisqatsi (Reggio 1983), Paris, Texas (Wenders 1984) e Kill Billvol. 2 (Tarantino 2004) e vedi se quel che ho cercato di dire ti torna.Su una certa idea di velocità/lentezza del massimo viaggiatore–architettodel secolo scorso, Le Corbusier, richiamerei quel fatterello per cui, rilevatedi persona ed annotate (nel 1910, nel corso del Voyage d’Orient compiutoa 23 anni) le misure del monastero di Filotheo sul Monte Athos, dovendouna volta dimostrare (nel 1951) l’eccellente funzionamento del “Modulor”moderno sistema di proporzionamento appena brevettato, LC ritira fuoriquei suoi disegni di quarant’anni prima per dire che il Modulor funzionabene, dato che il suo impiego in senso progettuale avrebbe rispettatoa meno di qualche centimetro il proporzionamento dell’ottimo monasteromedioevale: è anche la prova della storia (Pirazzoli 2003b)13?

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Sempre da Le Corbusier trovo divertente proporre agli allievi – per unaulteriore lettura del tema velocità/lentezza – una congettura sull’uso dialcune tavole di Auguste Choisy (Choisy 1899)14 che per caso ancheEisenstein utilizza negli stessi anni (peraltro, rischematizzandole), confinalità largamente paragonabili: così due testi “rivoluzionari” come Versune architecture e Teoria generale del montaggio impiegano lo stessoriferimento, la serie di tableaux che (al pari di una moderna sequenza difotogrammi) secondo Choisy raccontano la condizione percettivadell’Acropoli di Atene, “sacro testo” per antonomasia, il più classico deiclassici (rimando qui per esteso ragionamento nel merito a Pirazzoli 2000);eppure l’architettura sta ben ferma, mentre il cinema è movimento.Ancora sul saper vedere i luoghi: il giovane Karl Friedrich Schinkel,nel corso del suo viaggio in Sicilia, si ferma a ritrarre la Valle dei Templi; faun disegno strano, un panorama (di panorami KFS viveva, disegnandoliper venderli), cioè un disegno molto dilatato in orizzontale che, in quantotale, descrive almeno tre successive linee d’orizzonte; è un disegnoessenzialmente diverso da quelli che producevano gli architetti coevi,i virtuosi dei Prix de Rome che studiavano le architetture rappresentandolecome abachi di membrature e di ornamenti – Schinkel durante quelviaggio produce un solo disegno di quest’ultimo tipo (Schinkel 1990),peraltro dedicandolo ad una casa – quali esercizi di tassonomiacongetturale, tuttavia staccati dal luogo. Quel panorama di Agrigento,invece, ritrae i templi da lontano, prende dentro tutta la valle e ne descriveappunto gli orizzonti successivi; i templi vi figurano non già tecnicamenteanalizzati e scomposti, ma interi e poco dettagliati, tuttavia ben saldisopra i loro basamenti naturali dei quali sembrano costituire ilcompletamento artificiale. Mi piace pensare che questa intelligenza delpaesaggio, che Schinkel giovane affina per riportarla con sé in patria efarne base del suo meraviglioso lavoro di architetto, sia il risultato spuriodel mestiere che già aveva, quello di disegnatore di panorami, d’occhiodunque ben più attento al LUOGO, che all’Ordine e allo Stile. Da un altroverso, considero questa mossa di Schinkel alla stregua di ciò che ThomasS. Kuhn scriveva di Galileo il quale “aveva saputo che, in Olanda, qualcheartigiano specializzato nella molatura delle lenti era riuscito a combinaredue lenti in modo da ingrandire oggetti lontani; provò egli stesso diversecombinazioni e costruì in breve tempo un suo proprio telescopio [...]Poi fece qualcosa che, a quanto pare, nessuno aveva fatto prima: puntòil telescopio verso i cieli ed ottenne un risultato sbalorditivo.Ogni osservazione faceva scoprire in cielo oggetti nuovi e mai immaginati.E anche quando lo strumento venne diretto sui corpi celesti già noti:

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il Sole, la Luna, i pianeti, fece scoprire considerevoli aspetti nuovi di questevecchie conoscenze” (Kuhn 1972, p.281-282). Credo che oggi, nel tempodelle fotocamere digitali acquistate a credito in quanto gabellate pergenere di prima necessità, tendiamo un po’ a dimenticare che la sensataesperienza galileiana fu anche un esercizio di rallentamento del tempo:Galilei infatti ottenne i risultati che ottenne anche perché si mise adisegnare quel che vedeva; lentamente, con la pazienza del tempodescrivendo lo spazio (siderale).

Il sopralluogo

FC: SOPRALLUOGO è il momento in cui gli allievi escono dalle aule ecominciano a disegnare quel che vedono, addestrati a questo dalle provein vitro della MANO e del CROISSANT. Di nuovo con pochi strumenti, untaccuino, una matita, uno strumento di misura: ecco il grado zero dellacomplessità che preferiamo. Abbandonati tutti gli effetti speciali e quelliancor più stupefacenti – che alcuni convinti di esser deboli assumonoper farsi coraggio e sentirsi meno deboli – ci si trova soli di fronteall’architettura e alla città. Non una città qualunque, ma Firenze! Si lavorasu un reperto dell’ammodernamento della città che era un basamentocon qualche voglia di esser nave di pietra (ancora una città lungo il fiume,come la prora dell’isola Tiberina, ma qui forse meno ambiziosa che versola fine dell’800 già da un pezzo le trireme si eran fatte chiatte e bettoline,conformate all’ansia produttivista borghese). Uno zoccolo sagomato conscarpa inclinata e toro d’ordinanza posto in fregio all’Arno ai piedi dellaporta di San Nicolò dove si chiudevan le mura lungo il fiume, che quifaceva un piccolo salto sbieco e dove una urbana antica sapienza avevaposto i mulini a profittare di una maggior velocità dell’acqua. In questoluogo, nel tempo, la città ha poi posto le officine del gas e alcune pompedell’acquedotto. Resta un secolo dopo una sagoma trapezia arenata aipiedi della porta e assai interessante per il suo essere frammento relittodi basamento urbano, quasi un porsi dell’argine verso il centro del fiumee nulla più. Per questa sua natura di luogo interrotto – o meglio di sito ilcui uso è oggi sospeso rispetto all’economia più generale della città – èstato scelto per gli esercizi di Composizione degli studenti. Il sopralluogoè il primo corpo a corpo con l’architettura. Il primo di una lunga serie tuttafatta per imparare facendo. E se – come pare amasse ripetere Pasolini –i libri non sono ricotta, anche le case e i monumenti tocca prenderli sulserio per quello che sono: non fogli volanti di epidermico spessore. Anchel’edificio più insignificante ha una larghezza, una profondità, un’altezza:

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una presenza insomma, tanto che sin da subito si impara il termine corpodi fabbrica. Dapprima ci si stupisce nel notare che la realtà è come sullacarta topografica, ma a poco a poco si capisce che il movimento agisceal contrario: la carta, qualcuno prima di noi, l’ha fatta guardando la realtà...e non è poi detto che l’abbia fatta giusta. Tocca dunque misurare,verificare, raffrontare, mettere in fila e classificare. Cercare di capire comeè nata ed è cresciuta la città: scopriremo - in seguito - che per tipi sicostruisce la città, ma per ora basta metter da parte un pensiero rispettoal fatto che impariamo non solo scoprendo le cose con elementi simili,ma anche raffrontando le differenze tra cose, fatti e fenomeni che via viaci saran sempre più noti. Il sopralluogo ci dice dei materiali da costruzionedel progetto: la linea di un davanzale proseguita in facciata è la manierasecondo cui il palazzo italiano segna i registri orizzontali sul partitoarchitettonico e marca la campata sull’orizzontale laddove non tel’aspetteresti. Quella che sulla carta era una linea robusta fatta persinocon la penna sbagliata si scopre essere un marciapiede il cui brevedislivello è impercettibile sulla prospettiva lunga dello sguardo verso quellatorre che Poggi con mossa ardita volle girare e ricomprendere neldisegno che, per gradi, s’allinea dal lungarno al piazzale Michelangelo.Molto netto sulle mappe, questo passaggio è una correzione continuasul luogo, come fa Plecnik a Lubiana!

Si volgono le spalle al piazzale Michelangelo, si cerca una ragione diquel disassamento che distrae dall’ortogonale precisa l’asse del piazzalein quota dall’argine del fiume. Voltandosi si scopre di essere sulla mezzeriadi Borgo San Nicolò e si coglie come questa nozione – talvolta tracciatasulla carta con una riga a tratteggio – sia un fatto concreto, esperibilecon gli occhi e quindi da trasporre sul disegno… si lavora su un luogoprogettato e il sopralluogo disvela associazioni e differenze tra gli edifici,i loro basamenti, i coronamenti. Si scopre che l’asse è un’intenzione eche la realtà è il risultato di un pensiero e di un progetto, sempre (anchequando la si vuole spontanea e pittoresca).Del resto questo è il percorso di ogni progetto: ridotta la natura dal caosall’Ordine, se ne indaga la misura, se ne ammira la proporzione, se nesottolinea la simmetria. Ci si interroga sulla bellezza e sulla perfezione esu come esse possano essere perseguite con regole certe.È la tecnica di smontare per via di analisi, cioè sciogliere, quindi ordinare,disporre. Ma questo è fare ordine e fare ordine significa cominciareun’opera (Le Corbusier 1979). Così come stanno facendo i nostri giovaniallievi con il primo incontro dell’area su cui progetteranno.

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Tra le prime lezioni, dopo il sopralluogo, tratteremo della PIANTA.Scrive Le Corbusier a proposito del tracciar la pianta, disegno nondestinato ad essere esperito nella realtà:

“la pianta è l’origine di tutto”;“la pianta è la generatrice”;“la pianta procede da dentro a fuori. L’esterno è il risultato di un interno”“fare una pianta è precisare, fissare delle idee”;“immaginazione e disciplina presiedono alla pianta”.

Fare una pianta significa dunque ordinare queste idee in modo che essedivengano intellegibili e prendano corpo. Mettere ordine: l’ordine è lagerarchia degli assi, la classificazione delle intenzioni.L’asse è una linea che conduce verso un fine (Le Corbusier 1979).

Lo spolverone - Da due a tre dimensioni

GP: In effetti questo è quel che abbiam fatto per i tre anni di Laboratorioparallelamente condotto e dedicato ad Heritage and Contemporaryscegliendo come luogo Piazza Poggi e come tema il padiglione per cinqueopere di arte contemporanea dalla collezione del Centro Pecci ArteContemporanea, frutto di una civilissima ma non più ripetutacollaborazione interistituzionale. Non sarà inutile qui ricordare anche –come fase istruttoria – le esercitazioni cronologicamente precedenti ilSOPRALLUOGO, dedicate alle architetture della città, ovvero gli Uffizi ela Stazione di Santa Maria Novella (giusto per dire che a Firenze non c’èsolo il Rinascimento, ma c’è anche qualche bel pezzo moderno, e quasinulla di contemporaneo)15; in ognuno dei due casi-studio il percorso vienesuddiviso in quattro fasi, comprendenti:a. una lezione ex cathedra per l’introduzione del tema anche da un puntodi vista storico-documentale:b. un ex-tempore in loco – che, come diresti tu, “un tempo si chiamavadisegno dal vero”;c. la proiezione e discussione in aula dei frutti dell’ex tempore medesimo;d. un’esercitazione finale, sempre su due fogli A4, in aula, dove chiediamo“a memoria” di ridescrivere quanto – casomai – tecnicamente appreso.A seguire, terza mossa, “Lo spolverone”, un po’ più alchemico: presauna certa porzione di città (di solito in scala 1:2000, ma questo va verificatocaso per caso - by the way) comprendente il luogo del progetto, se nechiede – stavolta, unica volta, organizzati in gruppi – il commento articolato

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e colorato, ma sempre tecnico, con letture sovrapposte (layers?) perevidenziare ora il sistema degli spazi verdi, ora i vuoti urbani e le corti,ora il ruolo delle gerarchie stradali etc.Dopo questo che ho appena scritto – e prima del SOPRALLUOGO delquale dicevi e che segna anche l’inizio del lavoro al progetto finale – nonvorrei dimenticare l’esercitazione “Da due a tre dimensioni” che ci vedeapparentemente distanti, io dedicandola a Le Corbusier e tu a Miesvan der Rohe.Per me, dopo una lezione introduttiva traboccante del corbusianismoviscerale che mi possiede, e che cerco sempre di domare con scientiaanche attraverso escamotage come questo, lavoriamo su un quadro diLC periodo purista16, facendone una congetturale suddivisione in stratitramite proiezioni ortogonali quale applicazione spuria del brillanteteorema Transparenz messo a punto definitivamente nel 1968 da ColinRowe e Robert Slutzky (Rowe, Slutzky 1968). Dal quadro bidimensionalepassiamo così al disegno in tensione tridimensionale (secondo altra spuriadefinizione dell’insuperabile metodo dovuto a Gaspard Monge), quindial modello propriamente tridimensionale (fatto di cartonlegno o di balsao di cartonplum o di che so io, ma con le mani), da rifotografarericonducendolo a due dimensioni sì da misurare lo scarto con il quadrodi partenza. In sostanza, non tutti gli allievi – spesso a causa della nostrainsipienza – riescono a capire che stanno lavorando anche ad unasovversiva ipotesi secondo la quale quella modalità di scomposizioneper strati dello spazio tridimensionale fu anche una sorta di rieducazionealla percezione prospettica per il più importante architetto del Novecento;il quale, come non tutti sanno, ebbe un distacco di retina a 18 anni, efece dunque tutto quel che fece, con una visione sostanzialmentemonoculare, cioè orbo d’un occhio (Scully 1987); con tutto ciò che talecondizione comporta, come possono provare coloro (allievi esemplari,metodo Stanislawsky) che si bendano un occhio per qualche giorno,mentre lavorano a quell’esercitazione, per capirne di più.

FC: Continuing the Chicago School of Architecture è il libro in cui unallievo di Mies, Werner Blaser, raccoglie l’esperienza didattica del Maestroallo Armour Institute of Technology Chicago che poi diverrà I.I.T (Blaser1981). È un libro fatto con i lavori degli studenti. A fianco dei temichiaramente improntati alla ricerca americana di Mies come unacompletely flexible exhibition hall (universal space) oppure le grandi lucidei sistemi prefabbricati in acciaio, un 86-floor high-rise building with aprimary reinforced concrete structure o ancora un esempio tutto dentro

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la ricerca del Maestro come la simple dwelling house with load-bearingbrick walls, compaiono alcuni particolarissimi ridisegni appartenentiall’esperienza nel tempo dell’architettura come la cattedrale di St.Mary aSalisbury (showing structure and expression as development of thespiritual, social and technological status of cultures: Blaser 1981 p.107),le piante centrali del Tâj Mahal ad Agra in India come pure quella diMansart al St-Louis des Invalides di Parigi, o ancora il ridisegno delColosseo. Temi tutti che ruotano intorno alla formazione di unaconsapevolezza dello spazio, quasi a prenderlo dentro la mano con lamatita e cercare di governarlo con continui esperimenti. I modelli sonofondamentali, anche per noi: in quel continuo andirivieni tra ilSOPRALLUOGO e la realtà della città ricostruita in scala in aula.Nel percorso del nostro laboratorio assume senso avvicinarsi a Mies inquesta fase della ricerca progettuale, sia smontando e rimontando modellia tecnica mista del padiglione di Barcelona, sia – soprattutto –ricostruendo, alla maniera di mutevoli e divertiti teatrini, alcuni collage/fotomontaggi dei suoi allievi cui vengono restituite le tre dimensioni:…showing external court wall and interior partition wall with steel columns;…music room as architectural problem and its relationship to scultureo ancora study with works by Picasso and Miró showing alternative use ofthe space as a gallery. E tutto ciò sempre a cercar di capire la giustamisura degli oggetti in relazione tra loro e – sovraordinata – le questionidella scala e dell’appropriatezza. La restituzione in cartonlegno, poliplat,cartone ondulato, sabbia, rametti e sassi dei collage della classe di Miesdiviene allora vero e proprio strumento di misura dello spazio per saggiarei rapporti tra i piani, per imparare che il nostro è un mestiere fatto anchedi inquadrature e di distanze. In una sala del piccolo ma prezioso museodel cinema, fortissimamente voluto da Comencini e avaramente confinatonegli scantinati di Palazzo Dugnani a Milano e pur sempre affacciati suiteresiani Giardini Pubblici, sono conservati alcuni strani teatrini oscillantitra le macchine ottiche, le lanterne magiche e i modelli di scenografia: hosempre pensato che questa natura del teatrino, tutto dentro la finzione,ma capace di farci vedere la realtà esaltata dal senso del gioco e da unapiù maliziosa finzione, potesse essere un buon modo per prender lemisure dello spazio, per porsi domande capaci di generare senso nelprogetto, persino misurandoci con alcuni paradossi in cui cresce lacomposizione. Da Schinkel fino a Aldo Rossi, del resto. Si spostano oggetti(sul palco?), si prova – fissando sequenze successive – a far avanzare oarretrare sagome e forme poste dietro a un pannello oppure davanti a unmuro o una superficie neutra, oppure ancora disposte di lato ad una

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“scena” principale: prove di composizione, in effetti. Per questa via siarriva a comprendere come lo spazio esista solo se è scandito da oggettie da piani che lo misurano. Vi sono sequenze e ritmi che ci restituisconola distanza tra le cose, ma anche che predispongono la loro narrazione.Lo spazio É in quanto riesco a misurarlo con l’occhio, con lo sguardo,con i passi. Gli strumenti siamo noi: occorre risvegliare questa capacità17.Proprio parlando a proposto del lavoro di Mies, Hilberseimer ricorda chese la pittura è confinata nel campo delle due dimensioni, l’architettura,come la scultura, hanno il privilegio di essere tridimensionali, mal’architettura ha in aggiunta la proprietà non solo di esistere nello spazio,ma di contenerlo anche (Hilberseimer 1984). Ed ecco servito anche iltema di progetto del corso, che sarà un piccolo edificio da destinarsia padiglione espositivo sull’argine dell’Arno in prossimità della porta diSan Nicolò e del sistema di rampe che Giuseppe Poggi costruì araccordare il piazzale Michelangelo allo spettacolo del fiume. Un piccoloedificio, ma comunque un esercizio di architettura, poiché sin da subitoè opportuno che gli studenti si misurino con la possibilità di pensare,disegnare, prefigurare la forma costruita18. Un luogo dove l’esposizionedi opere d’arte diviene pretesto per un profondo legame con la città, maanche motivo per meglio definire il programma edilizio e il programmaculturale dell’oggetto. Quasi la sala all’aperto di uno dei tanti musei diquesta città. Le installazioni o le opere prescelte per l’esposizione, incollaborazione con il Museo Pecci di Prato, aiuteranno a definire il caratteredell’edificio. Esso nasce dal luogo, ben legato e radicato, ma a sua voltasarà capace di controllare e risignificare il luogo stesso, misurandosi coltema del padiglione espositivo che, come una freccia nell’azzurro,attraversa tutto il Novecento con quel grado di libertà che è proprio degliesempi capaci di mostrare la strada (Mies, Gardella, Alvar Aalto, MaxBill, E.N.Rogers…). Per questa ragione accompagnano l’esercitazioneprogettuale alcune comunicazioni sul lavoro di questi Maestri delMovimento Moderno. L’esercizio si salda così con il costante ritorno allavoro dei migliori che ci hanno preceduto. Per cercare una misura euna sfida19. Nei loro confronti un atteggiamento di rispetto e al contempodi dimestichezza, quasi che il progetto ci consentisse di lavorare conquesti Maestri e con i loro progetti: anzi i loro progetti sono il nostromateriale da costruzione. Tutto ciò nel tentativo di suscitare il dubbiosu paradigmi talvolta presi per certezze, disabituando al culto dogmatico,addestrando magari non a copiare le opere dei Maestri, ma a cogliernela vera ragion d’essere, l’atteggiamento, a imitarne e saccheggiarnele parti. A tentare continuamente di fare meglio?

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Esplorando il luogo col progetto

GP: Forti anche della fortuita coincidenza del lavoro su Giuseppe Poggisvolto da Elisabetta Agostini (Agostini 2002)20 iniziamo il secondosemestre con lo slogan esplorando il luogo col progetto. Decine di plasticiaccompagnati dai relativi disegni innescano il processo di oscillazionedal disegno al modello e viceversa, “verso una [qualche] architettura”;un tavolo unico, piuttosto enorme, riempe le nostre rispettive aule peraccogliere le discussioni collettive dei progetti in corso d’opera: a turno,gli allievi parlan tutti, esplicitando la riflessione rispetto al LUOGO (ovveroil sopralluogo) come quella sui RIFERIMENTI (appunto le opere dei Maestricui hai appena fatto cenno) senza dire mai più le stesse cose – come erainvece per le noiosissime e paternalistiche revisioni ad personam, sortadi confessione privata lontana dalla vertigine cosciente (e non priva diinteresse) dell’Università del grande numero. Continuo a pensare congrande piacere a quel lavoro in aula, perché gagliardamente costringegliallievi a pro-gettare, cioè a gettare innanzi, a mettere a misura, attraversodisegni e modelli sempre meno faticati e sempre più consapevoli, il fruttoacerbo del lavoro di base svolto nel primo semestre; e anche perchécostringe noi ed i nostri assistenti al live, all’artificio della giravolta tra unprogetto ed un altro, a ricercare prossimità, legami, differenze, a stanaredubbi e ad alimentarne altri, con un continuo esercizio di retorica, diritmo, di tempo e di umana tensione. Alla fine, ci trovo la felicità di questostrano stranissimo mestiere di professore architetto – che cerco di praticaresenza dimenticare le Osservazioni elementari sul costruire (Tessenow 1981,con la esemplare introduzione di Grassi) – per cui l’un ruolo alimental’altro, chè mai potrei pensare di aver qualcosa da dire se quel qualcosanon venisse da quel che faccio (e che, spesso, facciamo, insieme Firenze-Milano) quotidianamente e carsicamente. In effetti sempre meno miinteressa la maniera veteroaccademica, la lezione ex cathedra, il suonodella mia voce fine a se stesso, in genere qualcosa che, per me, cerco dievitare: del resto, quel che so, lo so di già, mentre mi interessa a miavolta giocarmelo, quel che so, con gli allievi; perché alcuni sono davverobravi e le reazioni quasi-chimiche che scaturiscono da questo serratodialogo nel fare sono l’inaspettato, il vero, quel che corrispondeall’improvvisazione: è come partire da un paio di accordi, all’inizio starcidentro e poi pian piano procedere, avanti. Del resto, quel che facciamoin questi Laboratori di primo anno, in un ragionamento disciplinarecondiviso – quasi una filiera “di scuola” insieme ad alcuni amici e sodali21

– è davvero particolare, anche perchè nasce in un luogo fisicamente

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inadatto (la stessa sede di Santa Verdiana, dove facciamo lezione,potrebbe essere assunta quale repertorio di soluzioni architettonicheinopportune) ed in gravi difficoltà strutturali in questi anni in cui, in Italia,perdura un atteggiamento di controverso interesse per l’Università e laricerca, con investimenti scarsissimi sia sotto il profilo locale che per gliaspetti di internazionalizzazione. Insomma è difficile, a ben guardare,pensare di “competere” o almeno di stare al pari con scuole di architetturapure in ambito EU dove ogni allievo, banalmente, ha il proprio tavoloassegnato con relativa attrezzatura – ricordo assai bene il mio candidostupore quando, da studente, partecipai ad un Seminario EASA adHelsinki, nel campus di Otaniemi disegnato da Alvar Aalto22… – dunquequel che facciamo è stato semplicemente farci forti della straordinariaspecificità del luogo (Firenze, per l’appunto) e via andare, in unacondizione da neorealismo cronico; in qualche modo, mi verrebbe dadire togliendomi il cappello, abbiamo come messo a punto un “qualcosadi diverso nel modo di fare le cose” volendo parafrasare Werner Herzogquando spiega che Fitzcarraldo non avrebbe mai potuto essere un film diHollywood, perché non era (solo) una questione di soldi (Segatori 1988).La mia esperienza Firenze-Montpellier – e la tua parallela Firenze-Dortmund – stanno in questa modalità, un po’ eroica un po’ volontaristicaper cui, entrambi incaricati di docenze all’estero abbiamo messo in piedi,senza alcuna risorsa extra da parte italiana, due laboratori internazionaliper lavorare sul medesimo tema “Un padiglione per cinque opere d’artecontemporanea provenienti dalla collezione permanente del Museo Pecci”in piazza Poggi, eccellente occasione di riflessione new-in-the-old,arricchita dal cimento con opere di arte contemporanea che non sonopiù “quadri” o “sculture”, ma anche, e piuttosto, “installazioni” in gradodi aprire a loro volta altri interrogativi, per longhiano intento di paragone23.Ma forse converrà dire un po’ dei progetti, nel merito tecnico, così datornare al tema effettivo di questo “Manuale del laboratori”?

Il progetto

FC: l’arte del preambolo e del bagnomaria era stata (e in alcuni casi loè ancora) prerogativa di numerosi corsi di Composizione dei primianni, continuamente spostando in avanti il momento del progetto e adesso anteponendo defatiganti pratiche di analisi urbanistica ecircumnavigazione del problema, quasi a voler saggiare – per via disuccessivi filtri – il grado di resistenza degli allievi rispetto all’obiettivofinale. Restiamo convinti che non sia necessaria una propedeusi al

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progetto, anzi può essere dannosa la sacralizzazione di una suaprocedura. I laboratori del primo anno sono l’occasione di verificaresin dall’inizio quello che altri, più colti e sapienti, definirebbero learningby doing. Del pari, oltre alle noiose propedeusi, crediamo che faccianoaltrettanto male all’entusiasmo degli allievi (ancora nei primi mesidi università privi di malizie) i progetti astratti privi di un luogo per il qualesiano pensati. Atopie tanto apparentemente gratificanti quanto incapacidi misurarsi con dati e misure cogenti, con la necessità che distingueil nostro mestiere dalla estemporanea performance. Anche la fisica,del resto, ha abbandonato i gas perfetti?Il percorso di ogni progetto è infatti sempre in quell’oscillazione tra luogoe riferimenti di cui già si è detto. E se il tema di progetto del Laboratorioè un piccolo padiglione per l’arte contemporanea ai piedi della torre diSan Niccolò sul lungarno opposto a quello della Biblioteca Nazionale,i riferimenti da assumere come punto di partenza per il progetto sonoproposti con argomentate comunicazioni entro una sequenza possibiledi esempi mirati. La prima mossa anzi, dopo aver preso adeguatacontezza del LUOGO e averne restituite con lo SPOLVERONE le stratigrafieedilizie e i vari gradi di uso degli spazi, consiste nell’invito a piazzare ilproprio riferimento sull’area di progetto, saggiandone le reazioni,interrogando le alternative possibili, valutando vantaggi e criticità (amaggior ragione fatto proprio tale riferimento per averlo ridisegnato eaverne indagato le ragioni compositive). Per questa via ritroviamo sullungarno il padiglione dell’Esprit Nouveau di Le Corbusier o icompostissimi prismi di Max Bill per Venezia, la luce misteriosa delVenezuela cercata ai Giardini della Biennale da Carlo Scarpa e il Padiglioneper l’arte contemporanea di Ignazio Gardella ai giardini di via Palestro inMilano, ma anche le raffinate sequenze spaziali di Mies a Barcelona oquel potente minimale gesto one shot one kill di Heinrich Tessenow fattoper l’atelier di un artista: un lungo tetto inclinato con un’unica grandefinestra, posta al centro della facciata sul lato corto della casa. Chi vuolepuò poi affrontare il Teatro del Mondo di Aldo Rossi, sostituendo conil fiorentino basamento arenato in riva al fiume la ben più ondeggianteapparentemente fragile chiatta dell’Argentino che ne agevolò la(quasi commovente) epifania lagunare. Altri usano di Aldo Rossi il solidotetragono petroso monumento a Sandro Pertini, posto in fondo a viaMontenapoleone in Milano, per capire se abbia ancora senso puntarelo sguardo verso gli Uffizi in un’ideale traguardazione che unisca il classicoe il contemporaneo nell’arte.

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Gli allievi apprendono per questa via che il percorso di ogni progettosarà lontano da gesti arbitrari o presunte velleità creative, partendo sempreda qualcosa che già è stato e che – comunque – ammette pochi gradi dilibertà. La COMPOSIZIONE del resto è fatta di questo continuo saggiareil nostro discostarsi dal punto di partenza o dalle condizioni iniziali,ripetutamente interrogandoci quanto la forma che abbiamo per le manisi distanzi da quella originale da cui siamo partiti... sempre chiedendocifino a che punto – per quanto modificata – sia ancora se stessa oppurese siamo disposti ad accettare che diventi un’altra cosa, distante, tradita,altra da sé rispetto a quella che ci eravamo prefissi?Questa sequenza, quasi ossessivamente ripetuta ogni volta, è il percorsodi ogni progetto. Una continua serie di scelte di fronte alle quali non cisono scorciatoie, né si può scappare.Si mette in guardia da errori di grammatica. Si mostrano le operazionipossibili sul riferimento fino a distaccarsene e far propria non solo lamossa iniziale, ma anche consapevolmente le successive: traslazione erotazione si, deformazione, decostruzione ed estrusione no, per esempio,che appartengono ad altri modi e forme distanti dalla necessità dirispettare i muri , re-istituire paesaggi, governare territori. Cioè a dire sonoconsentite quelle operazioni fatte con l’architettura e non contro di essa,con i riferimenti e non contro. Sì allora alla serena trasfigurazione, allametamorfosi, alla trasposizione, no al disturbo e alla malattia che nonfan parte dei modi secondo cui il mondo vien costruito e si trasforma.Alla base del nostro lavoro di architetti necessita in sostanza un attodi adesione verso la città e i suoi tipi consolidati, verso tutte quelle formeche sono state lentamente plasmate dal tempo e dall’uso (la casainnanzitutto, come gli utensili da lavoro) tanto da giungere a un gradodi definizione difficilmente perfettibile: tale atto di adesione equivalein questo caso alla famosa frase di Le Corbusier che esortava gliarchitetti a rispettare i muri! Questa è la passione di cui abbiam bisogno.La più fervida immaginazione temperata dalla più rigorosa disciplina.

GP: finalmente una differenza! In effetti nel parallelo Laboratorio da mecondotto non facciamo mai questo lavoro di trasposizione dei lavori deiMaestri nel LUOGO dell’esercitazione progettuale; piuttosto teniamo unatteggiamento analitico-costruttivo, dissezionando i RIFERIMENTI qualisono, rispetto ai luoghi dove stanno, anche forzando24. In tempi ormaiabbastanza lontani l’ho fatto io stesso (con miei lavori), per esplorare illuogo col progetto, e allora di primo acchito anche il progetto di un altro(comunque un Maestro, mai un altro qualsiasi) andava bene, per capire

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un po’ di più; oggi, per questa pervasiva ricerca arte/architettura cheprende origine dal site-specific, non potrei più farlo. Ma ovviamente miinteressa molto questa modalità che hai portato avanti.Lascerei dunque ai progetti degli allievi serenamente il compito di parlareda soli per disegno e per modello – e magari anche per ideogramma,ricordando un’altra prassi messa punto, mutuata dall’icastica potenzadelle scritture orientali – illustrando, manualisticamente per quantopossibile, quel che in realtà si può apprendere non altrimenti chefacendolo. Aggiungerei comunque che, dopo due annualità di Laboratoriofiorentino (completate dalle due sessioni speciali Montpellier-Dortmund,peraltro calibrate per allievi di annualità più avanzate) pur mantenendonel’impianto e la sequenza didattica, abbiamo concordemente cambiatol’esercitazione finale: non più il confronto con il cultural heritage fiorentinoche veniva dal “Padiglione per cinque opere d’arte contemporaneaprovenienti dalla collezione permanente del Museo Pecci”, quantopiuttosto un tema di margine da devastato contemporary landscape“Un centro di quartiere per la zona Le Piagge, nell’hinterland fiorentino”.

FC: la scelta di un luogo dichiaratamente out letteralmente nel senso diopposto ai luoghi in, glamour, divenuti anche un po’ luoghi comuni delconsumo e della descrizione turistica, ha segnato una svolta nella nostraricerca percorsa coi laboratori del primo anno.Una necessaria consapevolezza – e una non differibile presa di distanza– rispetto alla marea montante del ridicolo, non-sostenibile, globalista eansioso-di-sempre-apparire mercato degli archistar. E forse anche oltrele anime belle che discutono dei poveri stando però al caldo dei salottibuoni. Parallelamente, in quel periodo, toccava misurarmi con un temadifficile come il recupero di un magazzino dismesso per ricavare spaziad uso ambulatorio per un’associazione di volontariato che dava la primaassistenza medica e psicologica a migranti e nomadi. E mi stavaparticolarmente stretta quella scissione tra l’insegnare a costruire in unadelle città più belle del mondo in fregio al fiume per ospitare alcune opered’arte e un altro quotidiano operare per dare condizioni minime di dignitàa chi non ne aveva mai avute. Passando forse per il corridoio delle terredel NAGA in via Zamenhof a Milano (luogo dove ritrovare terre distantiche si son lasciate insieme ai loro colori, realtà di accoglienza disponibilee serena ad esser fatta propria da identità molte), ci sembrò plausibile lascelta di far progettare gli studenti in quel mare che aveva ormai ancheesaurito le sue tempeste tra le navi delle Piagge, che talvolta a me però –a guardarle da lontano e nella bruma dell’autunno – parevano piuttosto

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quelle laconiche foto della U.S. Navy del 1942 con lo scafo della portaereiYorktown rovesciato su un fianco dopo la battaglia di Midway.E così – anyway – per questa via l’esperienza dei Laboratori diProgettazione al primo anno ha incontrato quei luoghi in salita, lontanidal centro, dimenticati parecchio. Occasione concreta e al contempodichiaratamente surreale, analoga a quei paesaggi di confine di WimWenders che si visitano con desueti side-car e dove tutto è temporaneoeppure anche disperatamente fissato per sempre.Un paesaggio che fu un tempo meraviglioso, fatto di acqua e colline.Oggi tutto questo precluso al guardo dalla tesa livellina della ferrovia.Alcune case, appunto chiamate navi per colpa di quel crampo mentale esociologico che con fede malcerta rilegge – qui o al Corviale, quasi allamaniera di una tardiva vendetta – l’analogia coi paquebot che con benaltre speranze Le Corbusier propose.In questo sito privo di luogo, forse l’unico segno certo appare ilsupermercato della coop, transfert sostitutivo di fine secolo di altri benpiù promettenti condensatori sociali. Qualche traliccio e la rotta diatterraggio degli ATR42 donano a simile scenario la terza dimensione,l’asse zeta di una insostenibile vertigine che ci fa anche qui sentire legatial mondo e alle sue reti. La centuriatio romana della piana e il suosuccessivo frazionamento per campi minuti ricorda ancora che quici fu una stagione di segni forti ormai divenuti chiaramente patetici:ora tutto questo è perduto avrebbe detto, a buona ragione, Aldo Rossi.

GP: Eppure con la distanza dell’oggi, dopo Palermo shooting, mi pareche anche Wenders stia ormai nell’ora tutto questo è perduto: per quelmondo che, nel film, è tra il glamour del protagonista fotografo di moda –che tale resterà senza diventare mai artista vero – e quel che restadella sua propria sensibilità, da inseguire in una improbabile ItalienischeReise sponsorizzata dalla Azienda Turismo siciliana. Così, per quantoora perduto, rilanciare oggi, a distanza di cinque anni, questi percorsididattici di primo anno significa anche – e per me, soprattutto – il coraggiodi riconoscere ad un lavoro che normalmente sta tutto e soltanto nelprocesso formativo (cioè un lavoro per cui non è così cogente il giudizioindividuale sul prodotto finale, il progetto, appunto) prima una qualchedignità e poi una sorta di autonomia. Significa cioè dichiarare con forzache questo manuale è a suo modo intimamente sostenibile in primisperché fatto con materiali di scarto (i progetti degli allievi, materiali chedi prassi vengono gettati via, mentre qui superano il valore individualeassumendo semmai qualità di prodotto collettivo, tutti insieme ad

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illustrare ragioni ed errori). Come già detto, questo manuale non l’abbiamomesso insieme (solo) per essere letto, ma piuttosto per essere usato –inverato della sua stessa sostanza – insomma per diventare praticaripercorrendone le strade, sia quelle prime che quelle seconde, nascostee meno evidenti.Senza dubbio fa parte del gioco giocare noi stessi, e quello che eravamoallora, ovvero quel che facciamo: per me il lavoro sul padiglione per cinqueopere di arte contemporanea nel centro storico di Firenze contieneperfettamente l’istanza necessaria del new in the old – a mio modo divedere il tema principe della condizione europea, che continuo apercorrere fortificato dal dialogo con l’arte contemporanea (questionequest’ultima che purtroppo vede gli architetti italiani in retrovia, salvoqualche eccezione); inoltre fa parte di quei ragionamenti che insieme inqualche misura abbiamo cercato di mettere a frutto anche in alcuneoccasioni di lavoro25 ovvero per quell’idea di ricerca che da qualchetempo ho cominciato a chiamare “site specific museums”26. Il progettoalle Piagge per me è anche un cimento italiano sul tema dellainconsapevole distruzione del paesaggio, rispetto a quello che alcontempo mi è capitato di fare, per sorte, in Albania27. Ma siccome lanostalgia è un sentimento che non mi corrisponde, perché preferisco ilpresente, percepisco il mio lavoro di oggi come a suo modo distante,tuttavia già allora insofferente p.e. per la griffe d’architettura, perquell’atteggiamento cioè modaiolo e vecchista al contempo, distratto eripetitivo di se stesso, che recentemente perfino il magnetico intellettuale-acrobata che l’ha inventato, Rem Koolhas, ha cominciato a dichiararemorto (Rauterberg 2008). Insomma in qualche modo io penso che – contutti i limiti del caso – in questo manuale stia comunque traccia di unlavoro fondativo – cominciato nella scuola, dunque fortemente condivisocon la generazione del presente – che punta a superare lo stalloglobal&glamour28 che ha reso l’architettura non più un’occasione specificalegata ad un luogo specifico (in senso perfino heideggeriano?) riducendolaad una ripetibilissima maniera occidental-personale (Gehry-Guggenheimdappertutto come la Coca-Cola?) che fa soprattutto “carrozzerie” comeiperidentità accessorie. Rispetto a ciò, oggi sono sempre più convintoche il nostro lavoro di architetti non possa essere quello – troppo “facile”e troppo stupido – di disegnare scatole o carter o box o container di variaforma, e sempre più mi interessa l’anima del progetto: per citare qualcheriferimento che al tempo vero di questi Laboratori non avevo così vicino,mi interessa la migrazione creativa di Lina Bo Bardi e Pierre “Fatumbi”Verger nella Casa do Benin a Salvador de Bahia (Brasile) e nella Maison

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du Brésil a Ouidah (Benin) perchè mi interessa lo sguardo di dueintellettuali di formazione inizialmente europea (una architetto ed unetnologo) che riflettono – realizzando due musei – sullo sradicamento(degli schiavi tra Africa e America del Sud, nella fattispecie) comecondizione di esistenza29; come mi interessa, caso più noto e controversoper certi aspetti, la collaborazione tra l’artista cinese migrante Ai Weiweied Herzog & de Meuron per il progetto dello stadio di Beijng (Schaub,Schindhelm 2008)30.Come mi riguarda altresì profondamente – e questo non può essereche enunciato nel Laboratorio del 1° anno, anche per limiti oggettivi –l’orizzonte tecnico e complesso di sostenibilità (energetica, sociale,economica) del progetto di architettura, questione oggi semplicementeattuale ed irrinunciabile quanto il cemento armato nell’epoca in cui fuintrodotto: questione dalla quale, io credo, si possa ripartire, con moltorispetto per l’utilitas e qualche distanza dall’apparenza, comprese tuttequelle faccende che un tempo alcuni chiamavano “linguaggio”.

FC: in anni forse poi non così lontani gli studenti del primo anno delleFacoltà di Architettura venivano tenuti a bagnomaria, gingillandosi ecomponendo con oggetti già pronti (talvolta una scatola da scarpe, talaltral’anima di un rotolo di carta igienica), oppure affogati in grandi carte dicittà di cui persi erano la misura e il rapporto con la realtà. Al contrarionon ci è dispiaciuto qui far capire subito che cosa fosse una prefigurazionedi questo mestiere sin dai primi mesi della Facoltà, convinti come siamoche questa oscillazione tra luoghi e riferimenti sia sempre e comunque ilpercorso che tocca ad ogni progetto.Non l’estro, ma l’apprendimento di una tecnica, libera il proprio lavoro.Vedere, saper vedere, come insisteva Le Corbusier, è il risultato di unlavoro e di un esercizio31. Solo l’esercizio porta alla naturalezza nellosvolgere una pratica. Anche l’immaginazione, che urge nell’atto in cuicominciamo a far crescere un progetto, è il risultato di un lungo lavoro.In questo manuale cerchiamo di descrivere, per successiviapprofondimenti e per gradi, le tecniche per un progetto di architettura.Come per tutte le discipline, gli esercizi sono fondamentali: DISCIPLINEdel resto si chiamano, poiché implicano rigore verso se stessi e costantericerca di perfezionamento. Agli apprendisti, ai giovani musicisti, agli allievidelle classi di scultura si assegna un PEZZO, a poco a poco rendendoliconsapevoli dell’INTERO.

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Note

1 Firenze Architettura, Atlante dei corsi di progettazione architettonica,n.3-2003 e n.1-2007.2 Ringrazio Dario Paini, ingegnere acustico e musicista, che me l’haregalato: un libro eccellente non stona mai, anche se qui introdotto inmodo surrettizio.3 Ancora, con gratitudine e stima nei confronti di coloro che hannocondiviso con la propria presenza ed il proprio lavoro questo percorsonel Laboratorio di primo anno: gli architetti Andrea Volpe (a suo temporesponsabile del modulo di Analisi della morfologia urbana e delle tipologieedilizie), Caterina Bini (che ha avuto la medesima responsabilità in annipiù vicini) e Cristiano Balestri, che ha sempre collaborato in modoineccepibile come Cultore della materia.4 Più che al libro digitale, penso qui ai contenuti speciali etc.5 Enric Miralles, Benedetta Tagliabue con E. Prats.6 Vd. qui bibliografia “libri necessari”.7 “Un mondo vecchio/che sta insieme/solo grazie a quelli che/hanno ancora il coraggio/di innamorarsi”, Lorenzo “Jovanotti” Cherubini,Fango, nell’album “Safari”, Universal Record, 2008.8 In proposito rimando anche alla tua recensione pubblicata sulla rivistaFirenze Architettura n.1-2006.9 E questo per limitarsi al cotè sud del Movimento Moderno in architettura,legato sicuramente all’ambito Mediterraneo forse più che nonal moralismodelle cartilagini bianche del cosiddetto razionalismo nordico. La questioneè ben definita, ab origine e nei suoi tratti fondamentali, in Bardi 1933.Qualche anno dopo la vicenda sarà ulteriormente fissata nel n.1 (unico)di VALORI PRIMORDIALI.10 Al terzo anno la pianta si arricchisce con gli schizzi straordinari per ilQuartiere Cortesella che è ragionamento esemplare sulla città antica,sulla regola e sul suo tradimento, sulle variazioni del tipo in ragione delluogo.11 Ancora in Vita delle forme Focillon aveva messo in guardia dal rischio dicongelare il classico idealizzandolo, suggerendo al contrario di coglierein modo fecondo quel suo essere debole oscillazione dell’ago dellabilancia, apparente immobilità esitante, percorsa da quel tremito leggeroche ci dice della calda vita che lo attraversa. Il riferimento, imprescindibileper chi intenda definire Maestri coloro dai quali possiamo ancora imparare,è nella bella traduzione di Sergio Bettini dal testo originale di Focillon

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del 1943 edito presso i tipi di Librairie Ernest Leorux e PressesUniversitaires de Frances, Paris.12 Dopo averle studiate per qualche anno, recentemente ho visitatoChandigarh, Ahmedabad (sia l’IIM di L.I.Kahn che le opere di LeCorbusier) e Dhaka: ne sono tornato con l’inquietante e fecondaimpressione che, senza aver attraversato di persona quelle opere e queiluoghi che sono di fatto la massima espressione dello sradicamento diuna certa serie di pensieri occidentali, tentare di ragionare sull’architetturadel‘900 somiglierebbe un po’ a cercare di capire l’architettura delRinascimento senza aver visitato di persona p.e. la Cappella de’ Pazzi, ilSacello Rucellai in San Pancrazio, la Basilica palladiana, giusto per dire.13 Anche in Belardi, Bianconi, Bonci, Verducci 2004.14 Ad Auguste Choisy (1841-1909) storico dell’architettura ed archeologodobbiamo appunto la ponderosa Histoire de l’Architecture che fu studiatasia da Le Corbusier che da Eisenstein.15 Rara eccezione, entro la cerchia delle mura urbiche, la casa perabitazioni di edilizia pubblica in Piazza Tasso (Paolo Zermani capogruppo,Fabio Capanni, Laura Landi, Paolo Osti, Giacomo Pirazzoli, Fabrizio RossiProdi) – che, come ha scritto Fabrizio Rossi Prodi chiamandola Altana inPiazza Tasso “[…] scaturisce dal dialogo fra più autori – alcuni con unacomune consuetudine di ricerca e di Scuola”.16 Si trattava di Nature morte à la pile d’assiettes et au livre (1920) e Naturemorte à la lanterne et à la guitare (1920).17 Ancora un potentissimo pezzo di LC: (l’uomo..) ha messo ordinemisurando. Per misurare ha preso il suo passo, il suo piede, il suo gomito,il suo dito. Imponendo l’ordine col piede o col dito, ha creato un moduloche regola tutta l’opera; e quest’opera è alla sua scala, per il suo vantaggio,per i suoi comodi, è rapportata alla sua MISURA. E’ alla scala umana.Si armonizza con lui: è l’essenziale.Ma decidendo la forma del recinto, della capanna, della posizionedell’altare e dei suoi accessori, ha fatto istintivamente angoli retti, assi,quadrati o cerchi. Poiché egli non poteva creare altrimenti qualche cosache gli desse l’impressione di creare. Poiché gli assi, i cerchi, gli angoliretti, sono i princìpi della geometria e sono effetti che il nostro occhiomisura e riconosce; altrimenti sarebbe il caso, l’anomalia, l’arbitrio.La geometria è il linguaggio dell’uomo (Le Corbusier 1979).18 La nozione di forma costruita e del suo essere composizione convariazioni sul tema, sono qui prese a prestito nel prezioso e – per talunidegenerato – contributo di Paul Schmitthenner (Schmitthenner 1984)

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ora rielaborato in forma di dovuto risarcimento per la cura di ElisabethSchmitthenner e pubblicato da V. A. Koch.19 Come il nostro lavoro possa essere una sfida continua e difficilissima afare meglio nei confronti di Antichi Maestri è da leggere in uno straordinariopiccolo libro che a taluni potrebbe parere a cavaliere tra il lascitointellettuale e il regolamento di conti, ma che a noi sembra unacondivisibile e serena presa di posizione rispetto a un mestiere malato;comunque la si pensi si legga: Grassi 2008.20 Piace qui sottolineare che questo lavoro è stato anch’esso frutto di unatesi svolta nell’ambito del Dottorato di ricerca fiorentino, relatore PaoloZermani. Per me, aggiungo che qualche congettura sul ruolo della torredi San Niccolò – definitivamente riconosciuta come priva dell’antico usoproprio dall’intervento di Giuseppe Poggi, che ne fece anche luogo dovesalire, per percorrere il paesaggio con lo sguardo – anche nel suo rapportocon la piazza e col quarto corpo di fabbrica mancante devo averlo maturatonel corso del già ricordato lavoro per l’edificio in piazza Tasso (vd. qui,nota 15) per il quale proprio l’intervento di Poggi sulla torre di San Niccolòfu tra i RIFERIMENTI.21 Alludo qui a Paolo Zermani, Maria Grazia Eccheli, Fabrizio Rossi Prodi,Fabio Capanni, Andrea Volpe (che in una prima fase ha preso partedirettamente a questi laboratori) ed Elisabetta Agostini (idem).22 La European Architecture’Students Assembly è ancora attiva, vd.www.easa.tk.23 Entrambe le esperienze sono ora documentate in Piraz, Collotti 2007.24 L’immagine introduttiva della mia lezione sul Padiglione di Barcellonadi Mies era invariabilmente quella d’insieme dell’Esposizione, in cui ilPadiglione è appunto documentato in rapporto con il suo contesto difolìes, quasi a sottolinearne, surrettiziamente e a posteriori, un processodi radicamento, sì da smontarne la natura di oggetto: quasi una finzionenel senso borgesiano del termine.25 Alludo qui ai lavori per il recupero delle fortificazioni della Prima GuerraMondiale in Trentino, in particolare Forte Belvedere-Werk Gschwent aLavarone (anche in Archi – Rivista svizzera di architettura, ingegneria eurbanistica, n. 3, giugno 2002; nonché in Mugnai, Privitera 2007) e FortePozzacchio a Trambileno (anche in Pirazzoli 2003c; nonché in Mugnai,Privitera 2004 e nel numero monografico di Firenze Architettura dedicatoalla SEZIONE, 1-2009 Firenze)26 www.sismus.org27 Si è trattato di una serie di azioni in Cooperazione internazionale(per UNIFI e Ministero Affari Esteri con UNOPS etc.) tra cui due Workshop

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che hanno avuto per conseguenza il recupero di un edificio, l’allestimentodi un piccolo museo e la creazione di un parco urbano (quest’ultimonon realizzato); l’attività del “Progetto Albania” è documentata anchein Portolano adriatico – rivista di storia e cultura balcanica, anno 1 n.1e anno 2 n.2.28 Anche se nell’eterna provincia italiana della committenza di architetturaquesto fraintendimento che mescola e confonde moda, comunicazionee architettura pare sia destinato a durare ancora cent’anni.29 Su questo argomento – che tiene dentro una complessità di aspettiformidabile strutturata da personaggi quali Gilberto Gil, Caetano Velosoetc. – sto tuttora lavorando con un progetto sui bordi dei saperi disciplinari,del quale la primissima parte in videodocumentario è stata coprodottadall’Associazione Culturale Orlando www.orlandolab.it in collaborazionecon il Festival della Creatività di Firenze 2008. Questo, naturalmente, dopoche altra acqua è passata sotto i ponti, compreso il fatto che ho preso ariflettere sul progetto di architettura tenendo il corso di Allestimento eMuseografia, parallelamente a quello, ugualmente opzionale, diProgettazione architettonica per il recupero urbano, entrambi al 5° anno.30 Su questo film mi permetto di rimandare ad una mia breve riflessionesu Corriere della Sera / Firenze, 29 novembre 2008.31 Ne ha parlato in maniera esemplare Angelo Torricelli nella presentazionedi DA ZERO A TRE DIMENSIONI / FROM ZERO TO THREE DIMENSIONSsvolta presso la libreria Hoepli di Milano il 19 maggio 2009.

Andrea Volpe

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Di urgenze e concordanze

Con queste poche pagine intendiamo fornire una breve cronacadell’esperienza didattica che abbiamo svolto negli ultimi (in realtà primi)quattro anni di docenza di Composizione Architettonica1. Un meroracconto illustrato che inevitabilmente si pone in necessaria continuitàcon le esperienze dei Laboratori che precedono e seguono questasezione del Manuale. E non solo a causa del comune approccio teoricoe concettuale2 ma per naturale osmosi, avendo contribuito in un recentepassato al lavoro svolto in quei corsi.La principale notazione da fare riguarda dunque l’ostinata volontà diascolto che contraddistingue una tale, condivisa, modalità diinsegnamento della disciplina. Ascolto delle plurime voci che formanola storia e le storie dell’architettura, tutte comprese nella ciclica variazionedel rapporto che lega la generalità del tipo architettonico alle specificitàdel sito ed al carattere del luogo.Un’attitudine che si risolveprogrammaticamente in una costante ricerca del dialogo con la realtàpiuttosto che nell’inseguimento di un monologo autoreferenziale.“Da quando ero ragazzo le architetture della mia città sono diventateinterlocutori familiari. Cose da interrogare e con cui misurarsi: espressionitangibili del tempo calato nello spazio” (Portoghesi 1991).Così Paolo Portoghesi nel saggio dal quale abbiamo mutuato il titolodel nostro Laboratorio. Fissato l’obiettivo ecco che si impone la necessitàdi accompagnare gli allievi in un percorso induttivo. Volto alla definizionedi parole e forme grammaticali di valore generale, da riconoscere neicasi particolari scritti nell’architettura della città e nel paesaggio che lefa da fondale.Sfondi e spazi, come ben sappiamo, violentemente corrosi e danneggiatinel corso degli ultimi cinquant’anni. E che oggi – nonostante le maggioritutele – continuano ad essere assediati dal crescente rumore dellabanalità edilizia. Un frastuono così forte e seducente che diviene causa

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ed alibi principale per quel fenomeno di diffusa sordità che affliggebuona parte della pratica d’architettura corrente. Non più intesa comeportatrice di valori civili e duraturi, ma oramai ridotta a spettacolo dalrespiro breve. Da celebrare perché all’ultima moda o perchéespressione dell’ultima novità tecnologica. Da abbandonareimmediatamente, subito dopo la comparsa dei primi segni diobsolescenza del trend. Che questa condizione di incomunicabilità coni panorami della nostra esistenza si manifesti poi nel momento dellamassima iterazione globale e della massima diffusione di strumentiinformatici quali Google Earth, è d’altronde solo l’ultimo dei tantiparadossi dell’epoca che viviamo.Da qui l’esigenza di invitare gli studenti a compiere un primo attod’architettura, chiedendo loro di perimetrare un proprio spazio mentale.Aperto alle diverse sonorità della Vita delle forme3 (Focillon 1972) invirtù della sua leggibile misura. Un ideale recinto popolato da una seriedi libri4 - sorta di stele di Rosetta con volumina al posto dei pittogrammi- dove tornare a condividere un codice ed un sentimento. Vincendo iltimore di premere il pulsante pause che interrompe il flusso - comedirebbe Alberto Arbasino - del podcasting, del file sharing, delbackupping, del multitasking, del social networking, della liquid society...È su questo piano basamentale old school5, fatto di libri e trattati diarchitettura, che dunque proviamo a (ri)costruire con gli allievi unapproccio logico al tema progettuale.A costo di essere noiosi - e chiediamo venia se ripetiamo parole giàdette in precedenza - crediamo infatti che non si possa comporre opera(qualsiasi tipo di opera, letteraria, musicale, architettonica) senzamaturare conoscenza di altre opere, ed in particolar modo, di altreopere classiche (Calvino 1995).In un vecchio film di Peter Greenaway si sostiene: “siamo quello chemangiamo, siamo quello che leggiamo...”(Greenaway1989).Analogamente è il progetto di sé, la costruzione di sé stessi a partiredalla scelta del proprio nutrimento intellettuale, il primo lavoro chechiediamo (e talvolta imponiamo) agli allievi. Certo pare fin troppo facilee ovvio seguire il consueto schema retorico che prevede di a) constatarequanto sia frammentato e confuso il nostro presente per b) giustificareil canonico rappel à l’ordre dei sacri valori della tradizione.In realtà la partita è ben più complessa e proprio per questo occorreprevedere la contaminazione del processo, la sua vitale frattura. Perciò,alla necessaria definizione delle regole del gioco, si accompagna o permeglio dire, si potrà accompagnare - una volta acquisito il minimo livello

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di controllo compositivo - la possibilità della deformazione e della rottura.Resa più forte e significante proprio perché posta a seguito del canonicopercorso di riconoscimento della forma e della misura delle figuredell’architettura6 (Zermani 1995).“La poetica dell’ascolto è una scelta di campo e definisce un metodoflessibile e sempre incompiuto” (Portoghesi 1991).All’interno di questo orizzonte disciplinare, flessibile perché attento allanovità e contemporaneamente memore del canone; sempre incompiutoperché necessariamente non dogmatico, risulta fondamentale, in ultimaanalisi, chiedere agli studenti di suggellare un patto. Basatoambiguamente sull’assenza di risposte certe e tutto giocato sulladefinizione di una tecnica per la formulazione delle domande.Conviene perciò trascrivere letteralmente la più importante di esse, giàcitata a suo tempo in quel saggio breve che abbiamo scelto comenostra guida. Riflettendo su cosa spinga uno scrittore al cimento,chiedendosi quale debba essere il suo compito ed il suo comportamentoElias Canetti si domanda quale sia l’elemento capace di innescare ilprocesso di composizione dell’opera:“Ma che cosa è urgente? Ciò che sente negli altri, riconoscendo che glialtri non lo possono dire. Ed è qualcosa che egli stesso deve averesentito e riconosciuto, prima di ritrovarlo negli altri. Questa concordanzacrea l’urgenza. Deve essere capace di due cose: sentire e pensare eglistesso fortemente; e, in una instancabile passione, ascoltare e prenderesul serio gli altri. L’impressione di concordanza deve essere onesta, nonturbata da alcuna vanità. Ma egli deve saper dire quel che ha da dire:se lo dice in modo inadeguato, perde la sua urgenza ed egli si rendecolpevole dello sperpero di quella concordanza. Essa è la cosa piùpreziosa, ma è anche la più inquietante che un uomo possa vivere. Devepoterla mantenere intatta quando minaccia di andare in pezzi, devecontinuamente nutrirla di nuova esperienza e fatica” (Canetti 1978).Sulla falsariga dei quaderni di appunti dello scrittore premio Nobel è losketchbook formato A5 a divenire il principale medium per cominciarela faticosa ricerca dell’accordo con i luoghi. Uno spazio fatto di foglibianchi che accompagna ogni studente durante il corso dell’anno;mutandosi ad un tempo in luogo eletto per l’educazione della mano aldisegno dal vero, in strumento di misurazione7, in canonico quadernodegli appunti presi a lezione ma soprattutto in cartacea camera ottica.Le cui pagine - come tante finestre - sapranno poi restituire il paesaggiodella città. Con le sue piazze, i suoi palazzi, i suoi chiostri o gliinnumerevoli basamenti dei monumenti. Riportati su carta da allievi a

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poco a poco sempre più consapevoli che il fine principale del gioconon dovrà essere solo il bel disegno, magari fatto in prospettiva o conle giuste sfumature. Ma paradossalmente anche quello più incerto opiù sbilenco8 (Rossi 1981) che, in virtù della sua immediatezza cosìindifferente alla perizia del buon disegnatore e tutta rivolta alla sintenticaprecisione del narratore di spazi, risulterà poi essere quello più utile edefficace per la comprensione di un fatto urbano.Ma prima di questa serie di rilievi a vista, sempre rappresentati secondola consueta convenzione di piante e sezioni coordinate fra loro, è ad unaltro episodio che affidiamo il compito di introdurre le tematiche chepoi caratterizzeranno il Laboratorio. Un’esercitazione ex tempore chegeneralmente proponiamo immediatamente dopo la prolusione al corsoed alla quale destiniamo il compito di preparare al cimento gli studenti.Tremebondi quelli del primo anno, poiché ancora memori dei compitiin classe subìti nelle diverse scuole di provenienza - e dunqueimmediatamente ripiombati nell’incubo del voto, del giudizio, del creditoo del debito formativo.... Oramai sicuri di sé gli iscritti al secondo poichégià edotti dal corso gemello dell’anno precedente. Eppur sempreemozionati dall’inaspettata richiesta di disegnare quello che dopotuttofinisce per diventare un autoritratto: lo specchio della bontà del lavorocompiuto durante i precedenti dodici mesi ed il riflesso disegnato dellapropria crescita. In definitiva un primo bilancio.La prova si risolve con il disegno di una formella della porta del paradisodi Lorenzo Ghiberti, proiettata in aula e parimenti riprodotta nel foglioA4 consegnato a ciascun studente assieme a due fogli bianchi e aduna penna. Vietato dunque usare riga o squadra, vietato usare matita egomma. Occorre perdere ogni paura e cominciare a sbagliare, acompiere errori. Chiudendo il programma di disegno automatico chesi brama di impararare alla svelta, spegnendo il computer portatileancora fresco di negozio. Se attenti o semplicemente fortunati siricostruiscono la pianta e le sezioni della città raffigurata sullo sfondode ‘L’incontro di Salomone con la Regina di Saba’ (1439-1452) e si ègiudicati nel novero dei migliori. Altrimenti si può ambire ad entrare nellimbo dei lavori ritenuti interessanti ma non risolti, o precipitare - setutto va molto male - nella temutissima ultima classe di valutazione9. Aldi là degli aspetti legati ad una prima stima delle forze in campo (risoltapoi sempre con ironia), al di là del valore propedeutico della prova insé in vista delle successive esercitazioni en plein air, quest’opera delGhiberti ci regala l’occasione per introdurre fin da subito alcune questioniconcettuali importanti. Legate ovviamente alla percezione della sua

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raffinata composizione, squisita fattura e significato iconografico10, ma- per così dire - più profonde e recondite. O forse, più semplicemente,letterarie. Nei pochi millimetri che separano lo sfondo dal lieve risaltodelle facciate e dei paramenti murari, eseguiti dal Ghiberti con la tecnicadello schiacciato donatelliano, sembra infatti rivelarsi un territoriodi confine. Un limes esilissimo che separa, unendoli fra loro, l’immaginementale di uno spazio architettonico, il tracciato del suo disegno e lasuccessiva - appena percepibile - dilatazione in vibratile massa. Unsottile spessore dove si compie il ciclo vitale di un pensiero diarchitettura. Colto nell’istante nel quale, tramutato già in spazio, essopare ancora appartenere al piano di un disegno, sospeso fra un’idealevisione di una possibile realtà e l’espressione di una modalità operativaper l’interpretazione del mondo.

Regia dell’architettura

Ma torniamo agli allievi ancora intenti nel loro lavoro. Sono coscienti ditutte queste fumisterie che andiamo dicendo? Ovviamente no, o meglionon ancora, perché troppo concentrati nell’acquisizione del controllodel processo e non nella definizione del suo significato. Eppure, deltutto inconsapevoli com’è giusto che siano in questo momento, mentrestanno disegnando la formella non si rendono conto che sono già entratinello spazio dell’ immagine. Varcando la soglia della pagina,ripercorrendo in un certo senso i passi del disegnatore, ritratto mentreosserva nel medesimo momento Firenze e sé stesso, raffigurato nellaquattrocentesca Veduta della Catena attribuita a Francesco Rosselli.Un’opera che sempre usiamo per aprire la successiva correzione/discussione in aula dei risultati di questa specie di primo test. E chevolentieri pieghiamo ai nostri fini per ricordare ancora una volta (nonstancandoci mai di ripeterlo) come il disegno sia soprattutto strumentodi conoscenza e non solamente risolto ornato accademico.Ad una più attenta lettura la xilografia si rivela infatti una paradossalecomposizione di due inquadrature: l’una panoramica l’altra soggettiva,sovrapposte e fuse in un unico fotogramma. Dove scientificità dellatecnica di rappresentazione prospettica ed arbitrarietà dello sguardoconvivono, senza alcuna contraddizione, nel medesimo quadro. E dovenoi, spettatori esterni, vediamo vedere. Ma chi sta vedendo chi?La condizione monoscopica, propria dell’immagine paesaggisticaclassicamente intesa, sembra qui incrinarsi ed annunciareclamorosamente “uno degli snodi concettuali più densi della modernità

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ottonovecentesca” (Casetti 2005). Ovvero la tecnica cinematograficadel montaggio mediante la quale si introdurrà la compresenza di piùpunti di vista in una scena o in una sequenza suggerendo l’esistenza diuno sguardo latente. O meglio di “una circolarità di sguardi che fa dellospettatore un elemento della scena e viceversa, in un gioco continuo diofferte e sottrazioni; c’è un’attività scopica riconoscibile in sé, al di làdella sua eventuale fonte; e c’è infine uno sguardo che non si lega più aun occhio” (Casetti 2005).Uno sguardo che, per ricollocarci nella giusta prospettiva storica,potremmo albertianamente intendere come occhio alato11. Libero cioèdi riprendere la realtà profonda delle cose perché appartenente alcontempo a colui che osserva il paesaggio ed al paesaggio stesso.Come se l’esterno, restituendo quell’immagine, includesse l’osservatorenella propria rappresentazione facendo così coincidere il dentro colfuori, il sé con il fuori da sé. Una situazione analoga alla riflessione inuno specchio che il Rosselli pare intenzionalmente suggerire nonponendo alcuna distinzione fra soggetto ed oggetto dell’azione visiva.Ambedue legati fra loro (non a caso?) dal perimetro della catena cheincornicia la veduta. E proprio come uno specchio anche la formelladel Ghiberti restituisce l’esatta visione del Duomo mutato in Tempio diGerusalemme. Obbligando l’osservatore ad immedesimarsi nella scenaperché già incluso nella scena stessa. Reso testimone vivente di quelmitico e remoto incontro poiché già lì, in piedi, nella porzione di piazzacompresa fra Duomo e Battistero analogicamente raffigurata nell’opera.Ovviamente al di la di contorti esoterismi, per altro esplorati in un nostrosmilzo libriccino (Volpe 2009), tutto questo ha molto a che fare conl’educazione dell’occhio degli allievi e con la loro provocazioneintellettuale per mezzo di simili azzardate connessioni. Per questo motivo,oltre ai libri necessari cui abbiamo accennato in precedenza, è propostain bibliografia anche una serie - non certo esaustiva - di films12. Ai qualici affidiamo con il preciso intento di spingere gli studenti ad aumentarel’ampiezza del loro campo visivo. Troppo spesso coincidente solamentecon la superficie bidimensionale di un monitor di un computer o di undisplay di un telefono cellulare.“È qualcosa che tutti i registi hanno in comune, credo, quest’abitudinedi tenere un occhio aperto al di dentro e uno al di fuori di loro. A un certomomento le due visioni si avvicinano e come due immagini che si mettonoa fuoco si sovrappongono. È da questo accordo tra occhio e cervello,tra occhio e istinto, tra occhio e coscienza che viene la spinta a parlare,a far vedere” (Antonioni 1964).

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Le parole di Michelangelo Antonioni illustrano bene e senza tanti sofismil’analogia con l’incisione quattrocentesca e la necessità di trovare unequilibrio fra le due opposte visioni. Il sentimento del singolo e la storiacollettiva; l’esterno e l’interno; l’ambiente urbano ed il suo paesaggioed infine la casa che li inquadra dalle finestre; tutti fattori che nonpotranno che influenzare la vicenda in un continuo gioco di specchi emutue riflessioni. Se l’accordo così ricercato diviene per il registaferrarese il tema e l’occasione per concepire un film, nel nostro caso,contaminando l’insegnamento canonico della disciplina con lesuggestioni forniteci dalla settima arte, non potremo che indurre glistudenti a sperimentare una prima narrazione di uno spazio ed a pensarein termini di regia il progetto d’architettura.Che sussista una relazione significante fra queste due forme espressivenon siamo noi i primi a ricordarlo13. D’altronde Aldo Rossi lo ribadivacon estrema chiarezza14, contaminando frequentemente il suoimmaginario teatrale con la passione e l’interesse per l’arte della decimamusa15. Per la brevità e la sintesi che questo scritto ci impone, convieneperò andare direttamente alla radice dell’analogia fra cinema edarchitettura e richiamare alla mente come il primo film mai realizzatosia nato dopotutto in mezzo ad una strada di una città. ‘Sortie des ouvriersde l’usine Lumière a Lyon’ (1895) è infatti un’inquadratura fissa dellaRue Saint Victor (oggi ribattezzata con prosaica grandeur Rue duPremier Film). Una breve sequenza della durata di quarantacinquesecondi più simile ad una fotografia animata e per questo motivogeneralmente definita dagli storici del cinema come “vue”; comeveduta16. La prima della lunga serie di vues Lumiére che i fratelli fecerogirare dalle loro equipes in Francia e nel mondo nei tre anni in cuidetennero i diritti di quella che considerarono a torto “un’invenzionesenza alcun futuro”. Proiettate dapprima nei cafè chantant esuccessivamente nei primi cinematografi17 queste vedute animate dicittà e luoghi lontani condannarono a morte, sublimandone lecaratteristiche peculiari, una delle più popolari forme di spettacolo delXIX secolo: il Theatre du Panorama (Bordini 1984). La “casa senzafinestre” dove Walter Benjamin ricostruì a posteriori e con estremanitidezza, la nascita della modernità nella Parigi capitale del XIX secolo.Trovando all’interno del cerchio magico del loro oramai obsoletodiorama, quella strana miscela di accelerazione e di fissità del tempo,di progresso tecnico e di eterno ritorno del mito, di ciclicità e di scartoche confluirà nella sua concezione della storia quale processo dialettico18

(Benjamin 1997).

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“Nel loro tentativo di produrre, nella natura rappresentata, trasformazionifedeli fino all’illusione, i panorami rinviano in anticipo, oltre la fotografia,al film e al film sonoro” (Benjamin 1986).Per citare le parole di un altro regista in definitiva la città “doveva inventareil cinema per non annoiarsi a morte” (Wenders 1992). Anche se in uncerto senso il cinema la abitava già, almeno fin dall’epoca di Baudelaire.E non solo nella sua primitiva forma custodita, come abbiamo visto, neiTeatri Panoramici (Costa 2002). Ma perché presente in nuce negli occhie nello sguardo del flâneur19. Colui che vagando senza meta,contemplando lo spettacolo della vita urbana, finisce per percorreretrame di sogno, viaggiando nel tempo:“Nelle città coesistono dunque gli elementi temporali più eterogenei.Quando passiamo da un edificio del XVIII secolo in uno del XVI,discendiamo a precipizio un versante del tempo, e se accanto c’è unachiesa gotica, sprofondiamo in un abisso, e risaliamo la china del tempo,se qualche passo più in là ci troviamo in una strada dell’epoca dellarivoluzione industriale. Chi entra in una città si sente come in una tramadi sogno in cui il passato più lontano si intreccia anche all’evento dioggi. Una casa è unita all’altra, senza riguardo al tempo cui esserisalgono: così sorge una strada. E più in là, dove questa strada magaridell’epoca di Goethe, sfocia in un’altra, d’epoca magari guglielminasorge il quartiere. I punti culminanti delle città sono le sue piazze, dovenon si irradiano solo le strade, ma sfociano i mille rivoli della sua storia.Appena affluiti, la piazza li cinge con i suoi bordi, le sue sponde, dimodo che già la sua forma esteriore parla della storia che in essa sisvolge. Cose, che negli eventi polit ici non giungono affattoall’espressione, o solo a stento, si svelano nelle città che sono unostrumento sottilissimo e, malgrado il loro peso, sensibili come un’arpaeolica alle vive oscillazioni della storia” 20

Il lavoro di regia che cerchiamo di far compiere agli allievi trova dunquele sue premesse e le sue ragioni in questa visione messianica delpaesaggio della città. Nel suo dover essere scissa fra la dimensionefamiliare e consueta della stanza ed il mistero di un’intricata foresta.Simile ad una concrezione di tempi diversi incarnati nel corpo delle suearchitetture. Non più intese solamente come fluttuanti figurazioni di formenel tempo, naviganti fra le stratificazioni e le faglie della storia.Ma finalmente comprese nella loro profonda essenza di reali forme deltempo21 (Rossi 1981). Vorremmo concludere questa imperfettadigressione accostando (o meglio, parlando di cinema dovremmo forsedire montando) due immagini distanti fra loro ma che in qualche modo

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ci confortano per la loro emisimmetrica identità. E che giustificano inparte l’avventura di questi quattro anni di Laboratorio.La prima immagine è relativa al film ‘Empire’, girato nel 1964 da AndyWarhol (Warhol 1964). L’artista americano riprende per otto ore e cinqueminuti con un’inquadratura fissa la parte superiore dell’Empire StateBuilding, allora come adesso (dopo l’attentato del duemilauno) l’edificiopiù alto di New York. La ripresa, effettuata dalle finestre della RockfellerFoundation al quarantaquattresimo piano del Time-Life building, èfunzionale allo straniante e risoluto intento di Warhol di riprendere iltempo mentre passa. Per rendere meglio la sua consistenza, peresaltarne maggiormente la visibilità durante le proiezioni al pubblico, lavelocità della pellicola viene rallentata dai consueti ventiquattrofotogrammi al secondo a circa sedici. Rendendo così non percepibileall’occhio il passaggio dal crepuscolo alla notte. La scansione del tempocinematografico risulta perciò sganciata dalla durata percepita daglispettatori trasformando il film nella miracolosa apparizione di unadimensione dove permanenza e mutazione coincidono senza alcunacontraddizione. L’accendersi delle luci degli uffici, il tremolare dei fariposti sulla cima del grattacielo, il passaggio di un aereo in lontananza.Fatti che assumono la drammaticità di eventi cosmici. Resi pregnantidalla reiterazione nello stesso fotogramma di un edificio trasformatonel centro della meridiana.Nel pieno dell’epoca pop, col più celebre dei suoi films, Warholsorprendentemente ritorna alle origini del cinema muto. Alla suaprimitiva, pura, condizione di visione nella realtà. Una condizione analogaa quella descritta dalla seconda immagine, che ereticamenteaccostiamo al film di quel grattacielo, immobile come una fotografia edallo stesso tempo pulsante come una sequenza.Ci stiamo riferendo agli esperimenti ottici del Brunelleschi descritti dalsuo biografo Antonio Manetti. Dove è l’ariento brunito - lo specchio -che integra la parte superiore della tavoletta prospettica a rifletterel’azzurro del cielo, i variabili colori dell’atmosfera e il movimento dellenuvole al di sopra del disegno dell’immobile Battistero. Producendoper quanto ci è dato di immaginare, il medesimo scarto e l’identicapregnanza del film di Warhol. Posti a paragone sul filo del paradosso idue diversi esempi di ripresa e proiezione nello spazio del tempodell’architettura finiscono per riflettersi l’uno nell’altro come specchicontrapposti, rivelando dimensioni che vanno oltre la classificazionistoriografiche o stilistiche. Assimilabili per questa ragione alle situazioniottiche pure che Gilles Deleuze introduce parlando del cinema come

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diretta epifania della presenza di Chronos22 (Deleuze 1989). L’equilibriodinamico fra le invariabili verità dell’architettura ed il divenire della “caldavita”, cristallizzato nello scintillio del falso movimento di quel kinemafermo, può essere dunque pensato secondo l’interpretazione del filosofofrancese, come uno squarcio, che lacerando all’improvviso la tela delbanale, lo illumina, salvandolo. Una rivelazione od un miracolo chedovrebbe garantirci la visione profonda della realtà perchéimprescindibile dalla realtà stessa.A questo pensiamo quando parliamo di regia dell’architettura. Allamessa in scena di un continuo stato di tensione, compreso fral’immutabile tempo che governa l’architettura e che ne costituiscel’essenza più vera e la breve proiezione del nostro passaggio di costruttoridi spazi. Naturalmente attratti da quella dimensione stabile ed immotaperché ostinatamente intenzionati a scorgere dietro al quotidiano, almutevole, a ciò che passa e non lascia traccia, quell’ultimo orizzonteche custodisce le certezze della disciplina. Il rigido sistema di riferimentoche ci permette di calcolare con esattezza il proprio e personale punto-nave. Consentendoci dapprima di iniziare la navigazione ponendoci alriparo da ogni pericolo di naufragio nel vasto mare delle possibilità.Suggerendoci poi la via per derivare in esso, intransitivamente.

Derivare intransitivamente

L’erranza estetica/estatica del flâneur nei paesaggi della metropoli,il successivo spaesamento nella città-foresta di matrice surrealistae dadaista, in parte accettato, in parte superato da Benjamin grazieall’approccio sacrale legato al portato culturale ebraico. Infine lapsicogeografia di Debord e Constant Niewenhuis che fa del desiderio,del gioco e del caso prassi di disorientamento emozionale e di ricerca.Le esplorazioni del paesaggio urbano hanno subìto vari stadi evolutivi,tutti generalmente confluiti nella critica radicale della consuetudineborghese o, in senso lato, della tradizione tout court. Da qui l’entusiasmodei situazionisti per il nomadismo come forma alternativa dell’abitare ilmondo; giacché il nomade potendo avere casa dovunque, ovunquepuò avere le sue radici.Questa, seppur compressa, la breve epitome delle vicende cheriguardano la dérive quale libero e critico strumento di conoscenza.Posto per definizione in antitesi con la dimensione consumistica dellavita urbana, con le sue ritualità e le sue convenzioni sociali.Urge però fare una riflessione circa l’odierna riduzione del senso della

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distanza e su come questo fatto possa aver più o meno modificatoquelle tecniche di spaesamento. Non è del resto una novità constatarecome oggi le lontananze si siano ristrette e come tutto sia diventatovicino, prossimo, incombente.“Secondo quanto hanno rilevato alcuni scienziati, il grado di visibilitàdel nostro pianeta è diminuito del dieci per cento. In altre parole il nostrosguardo, in una giornata normale, né molta né poca foschia, anzichégiungere a vedere fino a 100 Km, ad esempio, arriva fino a 90 Km, tuttoappare offuscato. Non voglio parlare di problemi ecologici o politici riferitial territorio anche se importanti, ma questo fatto mi ha colpito. Primoperché trova analogie con lo stato di saturazione dei media visivi di oggi,anche qui una specie di inquinamento che ci impedisce di vedere conchiarezza: e poi perché paradossalmente posso dire che se la linea dipassaggio del finito si è avvicinata, allora anche l’infinito è più vicino anoi. Mi sembra che queste due linee si sovrappongano, queste sono gliorizzonti del nostro tempo. La visibilità dell’orizzonte dei media sembracombaciare con l’orizzonte fisico visibile. Penso che oggi ci si debbaporre su questa linea di demarcazione per parlare o discutere dellarappresentazione, perché questo è l’attuale stato delle cose” (Ghirri1984).Non è nostra intenzione dibattere, qui ed ora, del fenomeno dellaglobalizzazione, dei suoi aspetti positivi o negativi, dello stato liquidodella società nell’epoca digitale, della sua crisi economica che larovescerà, la ridurrà, la correggerà o la esalterà. Dichiariamo con onestàintellettuale tutta la nostra incompetenza e inadeguatezza nell’analizzareun processo così complesso e vasto. Ci limitiamo al contrario a registrarele premonizioni di Ghirri ed a raccomandare agli studenti un’attentarilettura delle fotografie e degli scritti del fotografo modenese. Perché èlì che si deve tornare per ascoltare il cuore (Savinio 1984) di quello checi circonda e che non riusciamo più a vedere. Un invito che formuliamononostante la consapevolezza che la società dello spettacolo abbiaoramai vinto la battaglia su tutti i fronti. Permeando ogni angolo delnostro quotidiano, sia esso privato che politico e - tragica conseguenza-abbia finito per fagocitare anche il dirompente messaggio della dérive.Addomesticandola in un informe blob dove anche la casualità, intesanella sua più alta accezione di nume tutelare della rivelazione, vieneoramai sostituita da “un flusso non governato di esperienze. Una nuovaoggettività per gli ottimisti. Oppure, più prevedibilmente, il mondoalla McDonald’s (...) ma più probabilmente la vita a caso, come nelparadigma pubblicitario della Apple, ‘Life is random’”(Berselli 2005).

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Un procedere dunque caotico, privo di un qualunque obiettivo, sia essopolitico, sociale, estetico od etico che si traduce in uno sradicamentogeneralizzato e che ha per effetto una sorta di nomadismo alla rovesciache ci rende stranieri a noi stessi. Un andare alla deriva ben diverso daquello sotteso dal verbo derivare nella sua forma intransitiva. Da tornarea leggere invece come discendere, avere origine, provenire da.Ci chiediamo in ultima analisi se il recupero dello smarrimento cometecnica visiva di disvelamento dalle nebbie dei clichés non possasostanzialmente coincidere con una seria riflessione sul sensod’appartenenza ad un luogo. Con un recupero delle proprie radiciaperto al mondo ed alle sue complessità e non rinchiuso nei fortiniideologici del rifiuto dell’altro da sé. D’altronde cos’è il lavoro di Ghirrise non l’esempio concreto di questo difficilissimo esercizio diponderatezza?“Penso che la fotografia oggi possa essere una immagine di equilibrio odi pacificazione, tra le rappresentazioni conosciute e quelle che saranno,tra la saturazione dell’esterno e il vuoto su cui cadono sempre più spessoi nostri sguardi” (Ghirri 1984).

La città e la stanza

L’esplorazione compiuta dentro al cuore dello smarrimentocontemporaneo col fine di ritrovare frammenti di senso nell’erosopaesaggio della grande pianura; il viaggio in Italia intrapresosovrapponendo con nonchalance le suggestioni americane del Viscontidi ‘Ossessione’ con le canzoni dell’amato Bob Dylan e con le fotografiedi Walker Evans. Un sentiero di scatti fotografici quello percorso daLuigi Ghirri che fa da modello per la prima occasione di progetto cheoffriamo agli studenti. Un lavoro che introduciamo nel primo semestredell’anno (unitamente al workshop interno al laboratorio che abbiamoattivato recentemente e di cui riferiremo più avanti) e che ha per finalitàuna seria ed approfondita riflessione sui temi dell’esercitazioneprogettuale finale. In breve chiediamo di fissare sulla pianta di Firenzedue punti A e B che identificano due biblioteche: la prima è laLaurenziana, visitata assieme agli allievi armati del solito quadernoformato A5; la seconda è quella che ancora non esiste perché ancoratutta da progettare (e rispettivamente: per gli studenti del corso diquattro anni fa una biblioteca di quartiere da prevedere nell’area delParco Anconella; mentre per quelli di tre anni fa una piccola bibliotecaper ragazzi sita nell’area di Piazza Poggi. Di ambedue - oltre ovviamente

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all’architettura - si poi dovranno studiare le connessioni col quartiere ele relative sistemazioni esterne; il rapporto con l’Arno e last but not leastl’appropriatezza ai caratteri del locus23).Compresa fra i due punti c’è Firenze ed il suo paesaggio, da esploraremediante i disegni, gli schizzi e le fotografie. Materiali che saranno poiraccolti ed impaginati in quindici fogli A4 dotati di copertina eretrocopertina e che andranno a formare un reportage, un journal devoyage, una storia la cui scala è quella - amplissima come abbiamovisto - della flânerie. La sceneggiatura di questo piccolo film di carta ciè fornita da un breve scritto di Italo Calvino (Calvino 1986) che costituiràpoi l’unico testo del lavoro e che dà il titolo al dossier. Un’Ipotesi didescrizione di un paesaggio che diviene il pretesto ideale non solo percominciare il viaggio nella città dove si dovrà progettare, ma l’occasionepropizia per iniziare a parlare di Benjamin e Borges, di Schinkel e delgiovane Jeanneret in visita alla Certosa di Ema ed al Campo pisano.E di Bruno Munari; un altro, necessario, nume tutelare. Giacché il dossierdovrà diventare soprattutto un progetto grafico compiuto. Formato dauna serie di pagine di cui progressivamente si dovranno studiarecomposizione, rapporti proporzionali, tracciati regolatori, ritmi e griglie.Sistemi di controllo e di misura dello spazio bidimensionale che gli allieviin questa prima fase non intravedono mai con chiarezza, ma che apoco a poco, stretti fra quelle colonne fatte di testo, di immagini e dipietra, cominceranno a leggere ed organizzare intuitivamente. Dunquefin dalla redazione del primissimo layout grondante di colla, fin dallaprima pagina timidamente assemblata, fin dal primo schizzo o dallaprima fotografia impaginata risulta evidente come il tema verodell’operazione riguardi ancora una volta la profondità di campo delloro sguardo. Sia in senso figurato, ovvero allenando l’occhio a coglierele strutture logico-formali essenziali alla ricomposizione delle figuremediante una serie di riflessioni sulla Gestalt (Arnheim 1962) dei diversitipi architettonici posti a paragone; che letterale, giacché non raramentel’esercitazione diviene l’occasione giusta per imparare a fare fotografie;cominciando a pensare al significato dell’immagine da fissare nelloscatto, alla sua composizione dentro al mirino della fotocamera, allagiusta apertura del diaframma dell’otturatore ed infine alla correttaesposizione. Ma quali sono, se ci sono, le regole del gioco di questadérive? Ovviamente ed in congruenza con quanto detto in precedenzaquesto esercizio è soprattutto un lavoro sul tempo. Dunque il viaggiodegli allievi dovrà prevedere quante più deviazioni possibili fra queidue punti fissati sulla carta. In buona sostanza la strategia vincente sarà

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quella che prevede il rallentamento del processo e la sua maggioredurata poiché “non bisogna far passare il tempo, ma anzi invitarlo afermarsi presso di noi. [...] Incamerare tempo come una batteria incameraenergia” (Benjamin 1986).È nel corso di quelle settimane di correzioni e discussioni collettive cheprecedono la consegna e la valutazione dei lavori - svolta in un modosostanzialmente analogo a quella per l’ex tempore della formellaghibertiana - che cominciamo a parlare dell’opera d’architettura che anostro parere riassume il senso di quanto gli allievi stanno facendo.Ci riferiamo al Teatro del Mondo di Rossi. Un’architettura che come bensappiamo vive in funzione del suo viaggio, da Fusina alla Punta dellaDogana e che, pur navigando, non va alla deriva. Ma al contrario ritornaverso il luogo che l’ha generata. Una perfetta metafora di ciò chepensiamo debba essere il progetto d’architettura ed al tempo stessol’esempio più didascalico di quello che intendevamo quando cercavamodi definire un possibile nesso fra il cinema e la nostra disciplina.Sospeso fra nostos e poreia il teatro è una forma viaggiante che ognivolta rende speciale l’approdo rendendolo unico e necessario. È inquesto senso che quell’opera di Rossi affonda e sostituisce il mito pereccellenza del moderno. Perché a differenza del transatlantico che fadell’atopia la sua cifra significativa, esso è veramente del mondo. Poichéappartiene pienamente al bacino marciano ed al mare aperto, alla cittàantica ed alla cattiva periferia. La sua natura è dunque liminare: fragilee solida, permanente e mutevole, effimera ed eterna; ed è inscritta nelsuo lento ondeggiare fra polarità opposte che in ultima analisi definiscela sua essenza sostanzialmente dialettica. Simile a quei fotogrammi,fissi eppure variabili nel tempo, cui abbiamo accennato poche righe famediante accostamenti non troppo ortodossi. Per questa ragionequell’opera è un film: perché vive nel tempo divenendo essa stessatempo. Un faro che illuminando la realtà circostante la trasfigura con lasua presenza, nel medesimo momento straniante e familiare, disituazione ottica pura di deleuziana memoria. Dopotutto il Teatro delMondo non è l’unico teatro al mondo che ha al centro del palcoscenicouna finestra aperta sulla scena fissa dell’esterno e contemporaneamentesul suo piano sequenza ripreso durante la navigazione?Abbiamo accennato in precedenza al workshop interno al Laboratorioche abbiamo attivato negli ultimi anni. Un’ulteriore esercitazione chetrova le sue premesse da un lato nel reportage appena descritto, chechiude il primo semestre, dall’altro nell’ex-tempore che ha per oggettola costruzione del modello della Maison pour artisans di Le Corbusier,

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che segna invece l’inizio del secondo. Come ben sappiamo quellapiccola casa è sostanzialmente un cubo con una porta ed un’unicagrande finestra. Ma è anche un’abitazione che coincide con la sua unitàminima. La grande stanza a doppia altezza dove L.C. progetta unaserie di episodi che anticipano le promenades architecturales piùconosciute. Sequenze di fotogrammi che gli studenti traducono in spaziocon poche ore di lavoro costruendone il modello in scala 1:100. Unapiccola architettura tascabile che diviene la prova generale per ilsuccessivo progetto di allestimento museografico di una stanza didimensioni prefissate, che sarà poi valutata con modalità analoga alleprove precedenti. Ma che a differenza di quelle, e per la natura stessadel workshop, non sarà più da risolvere singolarmente bensì in gruppoe nel corso di poche mattinate.Fin qui le questioni meramente organizzative. Rimane da introdurreun’ultima - ben più bizzarra - questione. Se per la casa di Le Corbusiersi forniscono i disegni in scala con tutti i canonici dettagli; della stanzadella quale si deve progettare l’interno ci limitiamo a fornire agli allievistrane piante e sezioni dove lo spazio racchiuso dalle mura e dal soffitto(definito da due cubi di sei metri di spigolo) è completamente isolatodall’esterno non essendoci né porta né finestre. Sarà compito dei gruppidi allievi decidere come entrare e da dove far piovere la luce cheilluminerà l’unica opera d’arte che la sala dovrà contenere.Dunque cos’è e dov’è questa strana stanza in cui non si può entrare néuscire fino a che non se ne decide il modo e le ragioni. Forse essaproviene da una delle innumerevoli piante dei palazzi fiorentini disegnatisul quaderno A5 e confluite nel resoconto della deriva appenacompletato. E se ciò fosse vero, come potrebbe avvenire la distribuzionein quello spazio ancora e per poco inaccessibile? Con un enfilade diporte come in Palazzo Strozzi o in Palazzo Medici Riccardi? Oppuregrazie ad un lungo corridoio che corre parallelamente ad uno dei suoilati, simile a quello che fa da spina alle celle dei monaci appena vistonel Convento di San Marco? Ipotesi o meglio punti di tangenza formali,tipologici e distributivi frutto di quel processo di derivazione.Alla fine del viaggio, compiuto redigendo una sorta di Diario di uncacciatore di spazi (Morell Sixto, 2003) e per logica induzione, gli allievicominciano dunque a progettare ricordando le architetture collezionatenei mesi precedenti. Trasformando quella stanza, paradossalmenteseparata dall’esterno attraverso la continuità dell’involucro, in una sortadi scatola magica o di wunderkammer capace di contenere in nuce ilpaesaggio di Firenze; con i suoi tipi architettonici, i suoi caratteri ed i

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suoi spazi. Si attiva così quell’oscillazione dialettica fra interno dellacamera ed esterno della città individuata da Walter Benjamin a propositodel flâneur. Un fluttuare fra diversi rapporti di scala che adesso, grazieal lavoro degli allievi riuniti in un’aula dell’università fiorentina, puòcominciare finalmente confondersi con naturalezza con le paroledell’Alberti: “l’edifitio è una città picolla; et la città è una cassa grande”(Alberti 1988).

Dopo la navigazione

Completato il cimento per via di levare forando le pareti od il soffitto,magari piegandolo a shed o modellandolo a foggia di canon à lumière;aggiunti -se ritenuti necessari- altri episodi architettonici dentro a quellastanza vuota, a guisa di vaghe citazioni del Tempietto del Santo Sepolcrodella Cappella Rucellai o della sistemazione della sala dei Primitivi agliUffizi di Gardella, Michelucci e Scarpa, gli studenti iniziano il loropercorso di ritorno verso l’area loro assegnata per il progetto finale. Unsito, come abbiamo già accennato precedentemente, che è cambiatonel corso degli anni, seguendo per così dire il corso del fiume da estverso ovest (una migrazione che ha indubitabilmente influenzato la scaladei progetti). Dopo la navigazione, compiuta derivando verso il punto Bdella mappa, è dunque giunto il momento di tradurre in un progetto diarchitettura le suggestioni ed i temi raccolti a bordo strada. Trasferendoquelle misure in quel preciso punto già conosciuto ed esplorato con ilsopralluogo di inizio anno e poi successivamente ricostruito con unmodello in scala. Un enorme detournement o l’esatto contrario di unascorciatoia. Questa dunque la natura ultima del Laboratorio, finalmentesvelata agli allievi nel corso delle discussioni delle prime ipotesi relativeal principio insediativo del progetto. Ipotesi ancora influenzate daun’inconsapevole tendenza all’ambientamento di un volume edilizio inun sito ancora pensato come lotto o come appezzamento di terrenolibero; da saturare solamente, ottimizzandone funzioni e metri quadri.E che ovviamente, con tutto il tempo necessario e con tutta la faticadovuta, inizierà invece ad essere progettato perché pensato innanzituttocome luogo.Dove l’architettura vi nascerà come una pianta perché “le pianteassorbono dalle radici l’acqua che scorre nelle falde sotterranee dellaterra, nutrendosi sia di cio che ‘sta’ in quel luogo sia di ciò che loattraversa o lo ha attraversato, lasciando una pur lieve traccia del suopassaggio. Si può fare l’esempio della vite: nei grappoli della vite

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rifluiscono sali ed umori che appartengono ad una particolare condizionegeologica e definiscono un’area relativamente omogenea.L’appezzamento di terreno meglio esposto rispetto all’escursione solare,ai venti, ai rischi della grandine darà il vino migliore: la stessaesposizione, gli stessi venti, lo stesso sole non darebbero lo stesso vinose non pervadessero la terra i sali e umori tipici di una certa regione: uninsieme di luoghi cioè dotati di una identità comune” (Portoghesi 1991).In genere è in questo particolare momento di germinazione organicadelle prime idee, per rimanere dentro all’efficace immagine enologicadi Portoghesi, raccontate dagli allievi con piccoli modelli di studio inseritinel più grande diorama dell’area di progetto o mediante le innumerevolistratificazioni di spolveri e lucidi, che ci piace ricordare un fatto curioso,spesso dimenticato. Ma che l’accostamento metaforico fra le comuniprocessualità che legano l’architettura al cinema esplorate nel corsodell’anno ci rivelano con disarmante chiarezza: To project, proiettare,progettare. Il nostro lavoro di regia architettonica ritrova nella linguainglese questa analogia latina che avevamo dimenticato. Proiettareun’alternativa sulla realtà perché la si è ripresa, perché la si continua ariprendere con strani strumenti ottici costruiti con pietre e mattoni. Unacondizione antica, come abbiamo visto brunelleschiana. Sospesa fraun gioco di specchi che riflettendo l’immagine di un’architetturamisurano il movimento delle nuvole, e una finestra aperta su unpaesaggio che diviene film. Così, costruiti su una vasta rete di nessi,continuamente deformati e torturati nell’incontro/scontro fra la ferocelogica tettonica e distributiva che li sostiene e la sua necessariacontaminazione per mezzo di citazioni od illuminazioni, tradimenti otrasposizioni di tipi, elementi, pezzi o parti di altre architetture, i progettifinalmente approdano al luogo, cercando di sciogliersi in esso. Progettiovviamente perfettibili, ma che testimoniano (o almeno vogliono provarefortemente a testimoniare) quello stato di tensione fra statio e profectiodi quell’architettura galleggiante a noi così cara.Abbiamo rapinato e fatto a pezzi quel breve saggio di Paolo Portoghesi,inserendone frammenti sparsi in questa breve cronaca del lavoro svoltoin un Laboratorio di Progettazione. Non ci sottraiamo dunquedall’ennesimo furto, lasciando - come giusto che sia - la conclusione aben più autorevoli parole in grado di meglio descrivere cosa auspicareper i nostri allievi.“Le future generazioni sapranno probabilmente operare senza imbarazzoin questa nuova condizione che si va configurando, in un mondo chenon può più credere nell’unificazione imperialistica delle tradizioni ed

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ha bisogno di creare un regime di rispetto reciproco e di tolleranza tratradizioni culturali diverse. Esse sapranno progettare mettendo a fruttoeredità del passato senza compartimenti stagni, utilizzando ciò cheapparirà più utile per raggiungere i loro obiettivi, e non avranno bisognodi coniare paradossali categorie per capire che l’aggettivo moderno nonpuò congelare i suoi significati senza perdere la sua principale qualità.‘Il ne faut pas oublier’ ha scritto Aragon ‘è que le mot moderne changeperpétuellement de contenu, c’est ce qui sans doute le rend malaisé àmanier, et donne toujours à ses adversaires l’air de courir après leurombre. C’est aussi ce qui fait sa grandeur’”.

Postilla

In una celebre conferenza tenuta ad Aspen, Colorado, nel 1957 ErnestoNathan Rogers illustra le necessarie connessioni fra Tradizione e attualità(Rogers 1958) ricordando due sue esperienze di insegnamentoall’estero. La prima testimonianza riguarda una serie di lezioni svoltepresso l’Università di Tucumàn, nel nord dell’Argentina. Una città ai piedidelle Ande “dove un gruppo di valorosi architetti aveva cercato di inserirecon molta spregiudicatezza una Scuola di Architettura che, per lecondizioni in cui si trovava, è stato il laboratorio umano più sconcertanteche io abbia mai visto nei miei numerosi pellegrinaggi: molti studenti,reclutati tra gli abitanti di quella regione, non avevano mai avutol’esperienza diretta con un’opera d’arte tridimensionale (non percepibilea sufficienza nelle riproduzioni). Non avevano mai visto una scultura diun qualche valore, non un’architettura e ignoravano, perfino, come purainformazione, gran parte degli avvenimenti della storia dell’architettura(...). Erano individui senza infanzia, diventati improvvisamente adulti. Maerano degli adulti senza maturità. Non avevano tradizione ed eraestremamente arduo discutere con essi di valori, giacché non eranoabbastanza profondi da poter accogliere la radice di un oggetto,considerandolo in sé e per sé, né abbastanza vasti da poter esprimereun giudizio comparativo tra l’oggetto esaminato ed altri oggetti. I piùdotati sentivano istintivamente la propria insufficienza culturale ecercavano con ansia di integrare le lacune rinforzando con gli studi lecapacità intellettive atte a rendere più agili, traverso la conoscenza,l’intuizione e la riflessione critica: a un certo punto si manifestava in essiil senso di una forza centrifuga che, non potendo essere sviluppata inun viaggio reale (dove avrebbero potuto controllare le intuizioni edallargare i termini della conoscenza nell’esperienza diretta), deviava verso

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pericolose evasioni che a seconda della costituzione psicologica diciascun individuo, provocava il complesso d’inferiorità, il pessimismo o-ed era il caso più frequente - il sentimento del superuomo, altrettantoletterario quanto più evanescente”.La seconda testimonianza concerne invece un fenomenodiametralmente opposto, osservato presso l’Architectural AssociationSchool di Londra “dove pure ho avuto la fortuna di insegnare. Qui illeadership della scolaresca era costituito da persone eccezionalmentecolte ed intelligenti (specialmente nelle discipline storiche e morali) manon altrettanto dotate di capacità creative: i problemi venivano affrontatiper lo più dal punto di vista del contenuto con continuo senso critico diacuta insoddisfazione contro ogni idea acquisita, ma senza potersicoagulare nelle forme, e cioè nella concreta espressione dell’arte, che èla condizione imprescindibile per di un designer affinché egli esplichi ilcompito che gli è proprio. Gli esempi che ho descritto rappresentanodue estremi per dimostrare che una cultura primitiva, la quale subisca ilfascino della novità senza intenderne il significato più riposto, e unacultura raffinata e in ogni caso più valida, che si manifesti come puracritica dei contenuti morali, senza saper tradurre il pensiero nella realtàdi oggetti tangibili, sono entrambe insufficienti a cogliere la pienezzadel fenomeno artistico nel suo concreto processo storico, che stabilisceun continuo rapporto tra i problemi della forma e quelli del contenuto”.Come ben sappiamo dal riconoscimento di questi due casi limite Rogersprocede dimostrando la possibilità di un’attitudine diversa, in grado distabilire un equilibrio dinamico fra funzione pratica e funzione poetica.Un atteggiamento che troverà compiuta espressione nel concetto dicontinuità del fenomeno architettonico. Ovvero nel processo dialetticofra un’attenta lettura della realtà e la conseguente risposta progettuale:progressiva perché rivolta al futuro ma allo stesso tempo imprescindibiledal luogo, dai suoi caratteri, dalle sue peculiarità, dalla sua storia. Unmodus operandi declinato a partire da premesse generali da verificareogni volta attraverso le specifiche condizioni particolari del tema; taleperciò da “far penetrare nel design il senso che la modernità non solonon contraddice la tradizione ma è l’istanza più evoluta della tradizionestessa.” Eppure, nonostante l’indubitabile chiarezza dell’assunto, inquella conferenza americana c’è un passaggio che emerge con tuttala sua ambigua valenza. E precisamente quando Rogers nota che “seil difetto degli uni è la mancanza di una tradizione, quello dei secondi ènell’interpretazione della realtà dovuta ad un particolare aspetto dellatradizione (...).”. Sottolineando in seguito come a quei lontani studenti

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argentini corrisponda però “una certa verginità e una maggior libertàdai pregiudizi che i secoli hanno insinuato nella cultura e nel costume”mentre ai loro colleghi europei “una maggior consapevolezza e unaricchezza interiore la quale può pesare talvolta e servire da remora aglislanci.” Un aspetto questo, che alla luce di questi (pochi) anni didocenza, abbiamo in qualche modo riscontrato con una certa regolarità.Ci riferiamo alla tendenza di alcuni studenti a compiere il viaggio che lisepara -per così dire- da Tucumàn a Londra con un biglietto di solaandata. Come se la sola acquisizione di un certo grado di maturitàcritica ed intellettuale che concerne il progetto di architettura si dovessetradurre per forza in rigidità d’impostazione, in sostanziale perditadell’innocenza, in banale applicazione della regola. Un malinteso che avolte si traduce in una sorta di recita automatica, di parodistica imitazionedelle pose da architetto colto o -meno prosaicamente- in unaconformistica messa cantata del latinorum dell’architettura. Un tragicoabbaglio, la cui ulteriore e spiacevole conseguenza è ben nota: cosìfacendo il buon selvaggio non riuscirà più a tornare in possessonemmeno di quella sorta di virginale, ingenua, spontaneità espressivache lo connotava ab origine e che dopotutto lo ha spinto ad iscriversi aquesto corso di studi.Per questo, a conclusione di queste brevi note, ci sentiamo in primoluogo di ringraziare quei circa 200 studenti che in questi quattro anni cihanno obbligato a specchiarci nella loro innocenza. Permettendoci per200 volte di tornare a Tucumàn. Facendoci ricordare per 200 volte dicome eravamo noi alla loro età; con i nostri entusiasmi e le nostre aporie.Altresì ci sentiamo in dovere di invitare quegli allievi ad avere il coraggiodi considerare la loro avventura in Facoltà (e nella vita professionale oaccademica che poi li attenderà) come tutta compresa fra quelle duepolarità simboliche. La via da percorrere - purtroppo o per fortuna - èquella di un continuo pendolarismo, con annesso abbonamento andatae ritorno, sulla suddetta tratta.Appena ci si accorge che Londra, con le sue griglie concettuali ci stastretta e limita lo slancio, occorre avere il coraggio di tornare a Tucumàn;appena ci si rende conto che l’estrema libertà di quelle lande argentine-dove è permesso tutto ed il contrario di tutto- indebolisce il nostro ethos,occorre fare nuovamente le valigie e puntare a nord per ritrovare queipunti saldi che ci permettono di non smarrire noi stessi ed il senso delnostro lavoro. Con la speranza che durante quella serie di viaggi,ritualmente ripetuti, si trovi il tempo ed il piacere di rileggere un buonvecchio saggio24 (Rossi 1968) o di rivedere il finale di Otto e mezzo:

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Quando Guido (il Mastroianni regista alter ego di Fellini) ascolta loscrittore Daumier salmodiare citazioni da ‘L’elogio alla pagina bianca’di Mallarmé o da Rimbaud per meglio celebrare la scelta diabbandonare il film al suo fallimentare destino, e pur provando uncontraddittorio sentimento di interesse e rifiuto per quegli altiragionamenti, trova la forza di iniziarlo il film. Perché istintivamente attrattodall’invito dello scalcinato mago Maurice; un personaggio già incontratoall’inizio della vicenda ed in chissà quanti altri teatrini d’avanspettacoloesplorati in gioventù. Luoghi di oscura innocenza e di ruspante vitalità.Dopotutto mai del tutto separabili dalle vette di una raffinata cultura.Solo così, mettendo in corto circuito il proprio vissuto, puòcominciare - accompagnato dalle note della marcetta di Nino Rota -l’ennesimo girotondo.

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Note

1 E ricordo qui il prezioso contributo di Germana De Michelis qualedocente di Cultura tecnologica della Progettazione e di FrancescaMugnai quale docente di Analisi della morfologia urbana e delle tipologieedilizie e soprattutto l’instancabile attività didattica di Silvia Catarsi,Carlotta Passarini e Yoichi Sakasegawa.2 Afferendo con i coautori di questo manuale alla medesima sezionedel Dipartimento di Progettazione ‘I luoghi dell’architettura’che includePaolo Zermani, Maria Grazia Eccheli, Fabrizio Rossi Prodi, FabioCapanni, Elisabetta Agostini, Mauro Alpini, Alberto Manfredini e RiccardoButini.3 Al di là della predilezione del testo in sé quale ulteriore tassello nellacostruzione della poetica dell’ascolto, è la figura stessa del Focillon acostituirsi quale modello; al di là di ogni facile agiografia come fa notareEnrico Castelnuovo nella prefazione al volume: “Già dai primi anni diinsegnamento parigino Focillon aveva ricercato in ogni modo ladiscussione e la collaborazione con gli allievi. Non è questo un merocliché agiografico, tutti le estimonianze vi insistono unanimamente (...)l’abitudine alla discussione , alle riunioni in gruppo, il sentimento dipartecipare ad una scuola.”4 I cosidetti libri necessari, che costituiscono la bibliografia che collega/unisce/distingue il lavoro dei tre corsi esposto nel presente volume.Ma anche i volumi del tema progettuale finale ovvero una biblioteca diquartiere a Firenze sita nel Parco dell’Anconella.5 Dopo l’ennesima espressione in inglese non resta che citaredirettamente le fonti. Cfr. Arbasino 2008, Arbasino 2001 ed infineArbasino 2002.6 “Così ammetteremo il principio di deformazione, di scomposizione, dimovimento, senza ignorare i significati assunti in termini simbolici e dimetodo dalle regole costruttive della classicità antica e di quellamoderna” (Zermani 1995)7 Essendo ovviamente questo parte della ben più ampia serie UNI edallo stesso tempo un primo concreto modulo,disponibile per compierele prime misurazioni nel corso dei rilievi a vista. Ad esempio: a quantiquaderni A5 disposti sul lato lungo corrisponde l’intercolumnio degliUffizi...?

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8 “Così al Politecnico di Milano credo di essere stato uno dei peggioriallievi anche se oggi penso che le critiche che mi venivano rivolte sonotra i migliori complimenti che abbia mai ricevuto. Il professor Sabbioni,che io stimavo particolarmente, mi dissuadeva dal fare architetturadicendomi che i miei disegni sembravano quelli dei muratori o capomastridi campagna che tiravano un sasso per indicare all’incirca dove si dovevaaprire una finestra. Questa osservazione, che faceva ridere i mieicompagni, mi riempiva di gioia; e oggi cerco di recuperare quella felicitàdel disegno, che si confondeva con l’imperizia e la stupidità che ha poicaratterizzato la mia opera” (Rossi 1981)9 In realtà queste tre classi di valutazione, definite secondo l’apposizionedi tre piccoli adesivi circolari di colore blu (eccellenti), verde (medi) erosso (improbabili), costituiscono solo un trucco narrativo la cui funzioneè quella di aggiungere suspence alla prova. Colgo qui l’occasione perringraziare il mio Professore di Composizione Architettonica e Urbana,il Prof. Giulio Mezzetti da cui ho mutuato buona parte dell’approcciodidattico. Indimenticabili i momenti che precedevano l’attesa dei risultatidelle esercitazioni. Vissuti da noi studenti con terrore, e da lui risolti conspassoso sarcasmo romano che sempre sottointendeva una possibilitàdi redenzione per i ‘rossi‘.10 “Delle dieci formelle che compongono la Porta del Paradiso delBattistero di Firenze, l’ultima in basso del battente destro raffigural’Incontro di Salomone con la Regina di Saba e si distacca decisamentedalle altre per le sue particolarità stilistiche. Infatti in ognuno dei restantinove riquadri sono presentati vari episodi di una stessa storia biblicadistribuiti secondo un ritmo variabile per numero di scene e andamentodella successione narrativa. In cui il rilievo più o meno aggettante indicacon chiarezza la diversa collocazione temporale, mentre la maggioreevidenza suggerisce l’importanza del momento effigiato. (...) Nelrealizzare la vicenda di Salomone il Ghiberti abbandona la narrazionemolteplice e raffigura soltanto il momento atteso e desideratodell’incontro fra i due sovrani: dominanti nello spazio, sottratti al tempo,la loro stretta di mano assume valore ideale ed eterno. (...) La solennitàdel momento è accentuata dall’inserimento delle figure regali in unaarchitettura grandiosa, realizzata con alcune analogie alle regolealbertiane della prospettiva, ma tenendo conto dei meccanismi diillusione ottica di origine ellenistica suggeriti anche dal sapiente uso delrilievo schiacciato insegnato da Donatello.(...) In primo piano, sulla destra,un gruppo di persone manifesta attrazione per il personaggio centralein posa oratoria; sulla sinistra una folla, varia di fisionomie e di abiti,

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partecipa all’avvenimento guardando verso l’interno dell’edificio ocommentando a gruppetti, ed altri curiosi -ancora un insegnamentodonatelliano- si affacciano dalle finestre timpanate del piano altodell’edificio centrale. Questo dovrebbe rappresentare il tempio costruitodallo stesso Salomone per ospitare l’Arca dell’Alleanza, ma appare inveceuna chiesa gotica a tre navate, con una profonda abside centrale.L’andamento ogivale delle volte ricorda l’interno di Santa Maria del Fiore,mentre le finestre in facciata richiamano le aperture del Battistero di SanGiovanni. La scelta iconografica del Ghiberti intendeva così fornire unafacile chiave di lettura, allo spettatore contemporaneo: l’ammirazioneper la saggezza del re professata dalla regina straniera secondo ilracconto biblico (I Rg, 10:1-13) si era rinnovata proprio lì, a Firenze,quando i dotti greci intervenuti al Concilio avviato a Ferrara e conclusonella città toscana avevano capitolato di fronte alla chiarezza delmessaggio papale e, deposte le incomprensioni dottrinarie, avevanofondate le basi di una salda e forte alleanza fra le due chiese che avrebbeavuto, però, effimera durata.” F. Petrucci, scheda n.40, in Acidini, Morolli2006.11 Ovviamente ci riferiamo all’immagine del fiammeggiante sguardofissato da Matteo de’ Pasti nella divisa dell’occhio alato per il rovesciodella medaglia di Leon Battista Alberti. Sguardo totale e volante capacedi vedere la forma urbis di Roma. Occhio alato che l’iconografia ciconsegna esterno all’Alberti pur appartenendogli a guisa di emblemapersonale. E che ci piace pensare quale sguardo dell’architettura toutcourt che illumina chi ne ricerca il conforto. Per relativizzare le nostrefin troppo sognanti interpretazioni rimandiamo alle schede cat.10. ecat.11. rispettivamente a pp. 62-63 e a pp. 64-65 contenute in Acidini,Morolli 2006. Circa il significato dell’emblema albertiano riportiamo percomodità del lettore un estratto dalla scheda cat.11 a cura di B.M.Tommasello: “L’attenzione degli studiosi si è dunque concentratasull’ermetico significato del rovescio, particolarmente rilevante per coloroche tendono a ricondurre la cultura e la filosofia umanistica piùall’originario linguaggio della metafora, della favola, dei miti piuttostoche sulle categorie della logica e della razionalità,e che hanno posato lapropria considerazione a quella sorta di esercizio ludico proprio dei circoliletterari che tendeva a cogliere le analogie, le relazioni e le infinitepotenzialità espressive e allusive delle immagini [...].È stata dunque sottolineata l’indubbia citazione dagli ‘Hieroglyphica’ diHorapollo: il testo, giunto a Firenze grazie a Cristoforo Buondelmontinel 1419, aveva suggestionato il circolo neoplatonico sui misteri del

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sapere preclassico e costituito una sorta di sistema di comunicazionetra iniziati. Sulla base di questo si è voluto definire l’occhio alato efiammeggiante quale immagine di un Dio terribile e onnipresente. Ildisegno è infatti ulteriormente potenziato dal motto ‘Quid Tum’, chesignifica letteralmente ‘che cosa allora’ e che, impiegato da molti autoridell’antichità, è tradizionalmente connesso all’opera di Cicerone, chese ne servì come interludio all’avanzamento della conversazione, percreare sospensione e attesa al fatto conseguente. L’emblema è inoltre descritto nell’intercenale ‘Anuli’ (che tratta dell’importanza dellearti), ed è disegnato sia sulla carta che fa da controguardia all’incipitdel manoscritto del ‘De pictura’ volgare con il prologo a FilippoBrunelleschi [...] che in quello del ‘Philodoxeos fabula’ [...]. I tomi redattidai copisti sono ricchi d’interventi dell’autore, a testimonianza di un usoassiduo di quel simbolo, e di un contenuto semantico non generale eda riferire all’effigiato stesso. Nelle medaglie coeve infatti eranosolitamente associate figurazioni fortemente connesse al ritrattato, unasintetica rappresentazione delle loro qualità e virtù e delle aspirazionirelative agli ambiti della cultura o della fede. Si deve pensare con Hillche l’artista abbia assegnato all’emblema una sintesi dei suoi interessiche, fortemente incentrati sulla riproduzione del reale nelle diversediscipline, hanno trasformato la vista da senso a mezzo di conoscenza,attraverso un occhio mobile e onnicomprensivo alla maniera delleillustrazioni dei ‘Ludi mathematici’. Non diversamente Matteo de’ Pastiavrebbe affidato alla medaglia un compendio dell’amico attraversol’immagine e il motto, che identificano l’Alberti quanto lo stesso ritratto,tanto più che la figura simbolica è presente anche nella placchetta dellaNational Gallery of Art di Washington (cat. 10)”.12 Di F. Fellini: Satyricon, 1969; Roma,1972; La voce della Luna, 1989.Di M. Antonioni, L’avventura, 1959; La notte, 1961; L’eclisse, 1962; Ildeserto rosso, 1964. Di L. Visconti: Senso, 1954; Rocco e i suoi fratelli,1960. Di P.P. Pasolini, Accattone, 1961; Mamma Roma, 1962. Di AndrejTarkovskij, Stalker, 1979. Di P. Greenaway, The belly of an architect, 1987.13 È già stato fatto notare in precedenza (Pirazzoli, 2000) come siaEjzenštejn che Le Corbusier ritrovino nella sequenza dei disegni delloChoisy che descrivono la salita all’Acropoli di Atene la medesimasignificazione legata al cinema. In realtà l’analogia fra cinema edarchitettura è stata esplorata abbondantemente e sarebbe forse eccessivo indicare qui un’esaustiva bibliografia specifica perché tuttosommato reperibile con estrema facilità. Conviene forse accennaredirettamente al principale fattore che lega le due forme espressive

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ovvero all’elemento temporale individuato già in Spazio, tempo,architettura (Giedion 1965). O molto più radicalmente al De architecturalibri decem (Vitruvio 1987) che include, nelle tecniche che l’architettodeve conoscere, quella relativa alla costruzione di macchine per lamisurazione del tempo pubblicata nel nono libro.14 “L’architettura è teatro, l’architetto è un regista: poi vi è l’occasione,la fortuna, l’ora che passa” (Rossi 1987)15 “L’amore per il cinema è nato dal fatto che da giovane mi sembravache fosse il mezzo di rappresentazione più moderno per esprimere ciòche volevo dire. Infatti nelle mie lezioni universitarie ho tenuto dei corsiparalleli di architettura e di cinema. Per capire la città di oggi devo direche la periferia romana dei films di Pasolini è molto più chiara di tantitrattati di sociologia, oppure è molto più formativo vedere il suburbioamericano in un film che spiegato in qualunque libro. Dall’altro lato, poterraccontare personalmente la storia di un edificio con il cinema è unacosa che mi appassiona molto. Ultimamente in America, mi hanno offertodi fare un film su ciò che voglio e sono tentato di accettare. Se lo farò lacostruzione sarà per frammenti che si succedono come procederetemporale. Ci sono poi anche delle suggestioni tra certi films (come glisfondi e un certo tipo di paesaggio di ‘Ossessione’ di Visconti) e il miolavoro, che trovo molto congeniale” (Aldo Rossi; in Di Pietrantonio 1988).16 Ed avendo parlato in precedenza della Veduta della catena come unparadossale esempio di “cinema rinascimentale” accogliamo benvolentieri questa precisazione terminologica.17 “Entrate, il mio locale è il più buio della città!”, così il proprietario diuno dei primi cinema di Mannheim pubblicizzava la sua sala nei primianni del secolo” (Quaresima 1986); in questo articolo Quaresima affrontalo sviluppo del Cinema come nuovo tipo architettonico.18 “C’è un quadro di Klee che s’intitola ‘Angelus Novus’. Vi si trova unangelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa losguardo. Ha gli occhi spalancati, al bocca aperta, le ali distese. L’angelodella storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Doveci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, cheaccumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi.Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto.Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, edè così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spingeirresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo dellerovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questatempesta” (Benjamin 1997).

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19 “Non si potrebbe trarre un film appassionante dalla pianta di Parigi?Sviluppando le sue diverse configurazioni in ordine cronologico econdensando nello spazio di una mezz’ora un movimento secolare distrade, boulevards, passages e piazze? E cos’altro fa il flâneur?”(Benjamin 1986)20 Lion 1935, op. cit. in Benjamin 1986.21 “Una mattina che passavo per il Canal Grande in vaporetto qualcunomi indicò improvvisamente la colonna del Filarete e il vicolo del Duca ele povere case costruite su quello che doveva essere l’ambizioso palazzodel signore milanese. Osservo sempre questa colonna e il suo basamento,questa colonna che è un principio e una fine. Questo inserto o relitto deltempo, nella sua purezza formale mi è sempre parso come un simbolodell’architettura divorata dalla vita” (Rossi 1981)22 Deleuze 1989. In questo libro il filosofo francese rilegge il Neorealismoitaliano dimostrando come in esso, grazie alla presenza di scene diraccordo non casuali, si manifesti l’immagine del tempo e la sua stessaessenza. Un po’ di tempo allo stato puro, riflesso nei fotogrammi diquei film dove per un attimo si interrompe l’azione ed il racconto nelmomento in cui la camera inquadra una scena vuota, un paesaggio,un’architettura. Si genera così una situazione ottica pura dove la pellicolascorre ma l’immagine non cambia restando per brevi attimi fissa su unoggetto alla stregua di una fotografia. In questo paradossale momentoin cui il kinema, il movimento, è assente nel cinema si ha “divenire,cambiamento, passaggio. Ma la forma di ciò che cambia, non cambia,non passa. È il tempo. Il tempo in persona. (...) Un’immagine-tempodiretta che dà a ciò che cambia la forma immutabile nella quale siproduce il cambiamento”. Deleuze pur riconoscendo anticipazioni diquesto stato di confine fra permanenza e mutazione nel cinema di Ozue Welles, prende a modello il Neorealismo italiano per sottolineare lacomparsa di un cinema che lavora sul tema della frattura dellanarrazione. Un periodo che il f i losofo francese fa coinciderecanonicamente con l’opera dei maestri riconosciuti: De Sica, Rossellinie Visconti. Ma che proprio in virtù dell’evoluzione della poetica diquest’ultimo autore estende di fatto all’intero gotha del cinema italiano.Includendo nella sua concezione allargata anche Antonioni e Fellini eperfino il Resnais di L’année derniere a Marienbad. Autori i primi, le cuiradici affondano storicamente nella poetica del Neorealismo.Ricordiamo l’esordio documentaristico di Michelangelo Antonioni conGente del Po (Antonioni 1943). E quello di Federico Fellini come co-sceneggiatore di Roma città aperta (Rossellini 1945).

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23 Gli ultimi più recenti Laboratori hanno invece avuto come temala progettazione di un piccolo padiglione espositivo sito in PiazzaPoggi pensato come addizione del Museo Casa Siviero: http://www.museocasasiviero.it/24 “Così come abbiamo visto i rapporti tra teoria dell’architettura eteoria della progettazione dobbiamo vedere i rapporti che esistono trauna teoria della progettazione e l’apporto soggettivo, se voletel’autobiografia dell’artista. In altri termini se noi mettessimo in praticaquanto ho detto all’inizio, parafrasando Raymond Roussel, ‘Come hofatto alcune mie architetture’ finiremmo per affrontare questo argomento;è infatti impensabile che nel fare questa o quella architettura determinatanoi non vogliamo esprimere anche qualcosa d’altro, qualcosa di nostro.Questo almeno se non siamo mediocri del tutto. Ma come si conciliaquesto apporto con i principi razionali e trasmissibili su cui ho insistito,con la matrice di un’architettura classico-razionale? Certamente in unmodo più complesso di quanto si possa configurare in quelle teorie dovesolo la soggettività costituisce la possibilità del fare, e dove il caratteredell’arte assurge a sistema. D’altra parte se nei principi di una architetturarazionale cerchiamo l’elemento di una poetica non possiamo staccarcidalla frase di Lessing “la maggiore chiarezza è sempre stata per me lamaggiore bellezza”. E ancora potremo avere per divisa la celebre frasedi Cézanne “io dipingo solo per i musei”. Con questa frase Cézanne, inmodo chiarissimo, dichiara la necessità di una pittura che prosegue unsuo sviluppo logico rigoroso e che si pone all’interno della logica dellapittura che, appunto, viene verificata nei musei. Ma lo sviluppo e laverifica dei musei non modificano la qualità soggettiva dell’opera;che appartiene ad una qualità umana” (Rossi 1968).

Francesco Collotti

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La Guida dello Studente è molto promettente?

Sulla carta i programmi hanno sempre una loro rotondità.Al primo anno, edifici di grande semplicità però capaci di stabilirerelazioni con l’intorno per via del loro stesso esserci. In taluni casicercando responsabilmente di contrastarie l’atopia di oggetti belli eimpossibili, obbligando comunque gli allievi a misurarsi con un luogopreciso e definito in grado di interagire con più generali riferimenti.Economia espressiva, semplificazione formale, spesso intenzionigenerose eppure contrarie alla logica statica. Infatti: struttura erivestimento contrastano, non son fatti per star vicini e composti, dicevaAdolf Loos. Unirli resta un compito difficilissimo, quasi contro-natura, incui il risultato è un accettabile compromesso tra mondi distanti.Al secondo anno quella grande semplicità dovrebbe divenire capacitàdi eseguire il progetto di un organismo architettonico non complesso.In quella virginale costruttiva ignoranza – eppur feconda di idee – delprimo anno, appena temperata dalle iniezioni dei corsi di tecnologia ( eanche qui ci sarebbe da ragionare..), si presuppone che il secondoanno possa indurre al controllo del rapporto fra forme, tecniche, materialie programma funzionale. Alcuni, memori di ben altre eroiche stagioni,aggiungono che il Laboratorio del secondo anno dovrebbe consentiredi eseguire il progetto di un insieme architettonico, controllandone allediverse scale lo spazio di relazione fra edifici in rapporto al contestodi appartenenza.Al terzo anno – finalmente – si dovrebbe già essere sufficientementeaccorti e si dovrebbe poter ambire ad impostare criticamente unprogetto di architettura come organismo complesso, sviluppato nellacittà consolidata a varie scale di approfondimento, in rapporto ai diversirequisiti tecnici e allo spazio urbano. La consapevolezza culturale deglistrumenti progettuali viene raggiunta, elaborando le corrette relazioni fra

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concezione formale (figure, elementi e spazi), costruttività e ordinedistributivo, mediante la progettazione di un organismo complesso o diun insieme residenziale1.Fin qui quello che – più o meno – all’inizio di ogni anno si può leggeresulla Guida dello studente: ed invece è come credere di aver sottomano una città disponendo dell’elenco telefonico dei suoi abitanti.Sfogliando le pagine della Guida, sotto a titoli apparentementepromettenti come “offerta didattica” oppure “obiettivi dell’insegnamento..dicitura esatta” nulla è dato di capire di che cosa si farà in un Laboratoriodi Progettazione.

Incipit, quasi in salita

Al Laboratorio di Progettazione 3 ci si iscrive per via telematica in 45secondi. Cinquanta allievi scelti da un internet tiranno che premia chiha la connessione veloce.Altri dieci accettati fuorisacco poiché fortissimamente insistentie sopravvissuti fortunosamente ad una corsa con l’handicap, oppureperché stranieri nel programma Erasmus, che di solito paionoparecchio motivati e curiosi.Al terzo anno le allieve/gli allievi non possono scegliere il corso o ilprofessore che preferiscono, ma devono in sostanza affidare alla sortela scelta attinente la disciplina caratterizzante del loro percorso di studi(riguarda i laboratori di Firenze e non solo, ma forse la cosa non riguardaquesto libro). Alcuni studenti più impegnati spiegano che i lororappresentanti erano d’accordo quando si è deciso questo sistema inConsiglio di Facoltà, perché pareva loro più democratico. Non sannoperò se sono ancora d’accordo.Anyway, si comincia, una volta soddisfatte le procedure (procedura,del resto, dovrebbe discendere da procedere…).All’inizio del corso chiediamo che si dichiarino senza reticenza alcuneappartenenze: mondi di forme condivisibili. Ci si augura che chi hascelto questo Laboratorio lo abbia fatto in ragione del programmafotocopiato che viene distribuito alla prolusione oppure comunqueleggibile on-line dopo una qualche ricerca... Per i più restii a schierarsi,ci basterebbe che esistessero mondi di forme plausibili. Si scopre nelgiro di pochi minuti che non è affatto così e lo sapevamo già.La quotidianità teledipendente inculca la facilità indifferente dell’anythinggoes. Noi dovremmo insegnare a resistere? In altri tempi, del resto, lamossa di apertura per legittimarsi quali portatori di un altro mondo

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possibile era dichiarare contro chi si era. Alcune eroiche pagine delleriviste del Movimento Moderno mostravano con il linguaggio dellapropaganda gli esempi negativi barrati con grandi X rosse e,sulla pagina opposta, gli scenari del mondo migliore, le idee belle dellacittà futura. Tocca per ora fissare, provvisoriamente, che non va benetutto e il contrario di tutto. Seconda linea accettabile, sbaragliata la prima– troppo impegnata per queste stagioni – che a ciascuno chiedevauna scelta di campo molto netta: da che parte stai?Gli allievi non sono obbligati a fare propria questa posizione, ma devonoperlomeno misurarsi con essa; l’insegnamento del progetto non è néuna camicia di forza, né un supermercato dove ognuno può sceglierequello che più gli aggrada: bensì un campo di azione aperto ma bendelimitato da un consenso preciso2.

Non è un mestiere per indecisi

Con il loro destino a far progetti ed erigere muri gli architetti misuranoi luoghi, ne confrontano le dimensioni con altri luoghi più noti o ammirati,ne indagano le particolarità e gli accidenti rispetto ad una idea piùgenerale di architettura.Di nuovo come al primo anno LUOGHI e RIFERIMENTI in continuadialettica oscillazione: qualcuno non tarderà ad accorgersi che questomodo di procedere sempre ritornerà nel nostro lavoro di architetti.Ogni volta, ogni progetto, la stessa mossa di apertura. Si riaffermaper questa via che il progetto è uno solo e che non esistono escamotagedidattici o esperimenti protetti e in vitro. I docenti abbiano il coraggiodi mostrare i loro progetti e parlarne agli studenti esibendo coerenza,tra le virtù non la più praticata.Gli/le pseudoglobalizzati/e appassionati/e degli angoli non retti per ansiaantiistituzionale e, dal lato opposto, gli ingenui sostenitori del pittorescocon gli archetti, del carino e dei centrini per soprammobili, dovrebbero– in ogni caso – essere stati avvertiti/e3. Scegliere equivale a dichiarareappunto da che parte si sta: una mossa per nulla facile in un’epoca discarse passioni e parecchia ansia da omologazione, dettata damancanza di coraggio (stare nel branco per non sentirsi soli, scrivonoi sociologi nei loro commenti sui giornali a caldo e a latere di alcuni fattidi cronaca).“Credo che vivere voglia dire essere partigiani, chi vive veramente nonpuò essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è vigliaccheria,non è vita. Vivo. Sono partigiano”4.

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Costruire non è un mestiere per indecisi o incerti, e non è poi vero chei fatti tecnici non contano. I materiali da costruzione vengono oggideformati e trasformati, pressati liofilizzati floccati insufflati estrusi e filati,composti a generare involucri di bolle di sapone rese eterne (o almenocon decennale garanzia) oppure imitando gli scatti fissati da unendoscopio nelle interiori cavità di un qualche animale. A maggiorragione, non è vero che i fatti tecnici non contano anche se tuttoapparentemente è possibile, diviene obbligatorio chiedersi sempre cosasia NECESSARIO. Le stesse sezioni che dovrebbero mostrare comeun edificio si costruisce nei punti fondamentali, le scale per lo più,vengono indifferentemente in sequenza mostrate alla maniera di unatomografia assiale computerizzata che non seleziona, ma ci mostratutto con micidiale indifferenza. Tutto sembra possibile, quasi che dellacosa normale e ben fatta appunto si possa fare a meno, passandosubito al suo disturbo, per degrado, corrosione, malattia, implosione,tutti inspiegabilmente cercati col progetto. Eppure non è possibile darluogo a forma costruita pensando negativo. A proprie spese gli studentilo impareranno. Compito del Laboratorio è – al contrario – rimettere lecose in fila, tornando all’architettura e alla città, ai problemi e alledomande che stanno alla partenza del progetto e non alle soluzioni/immagini già bell’è pronte per il consumo immediato.Re-istituire gerarchie resta fondamentale per il nostro lavoro.La città al primo posto, perché lì sta la misura del nostro lavoro e – alcontempo – la presa di distanza da come l’architettura contemporaneala sta massacrando. E poi c’è l’altra questione della plausibilità:la costruzione non può prescindere dal suo farsi. E se è vero cheun’immagine sta alla base del progetto, ben presto essa va incontroalla sua necessità, si precisa, diviene spessore costruito, forma. Un muronon si disegna come una linea: se disegni un edificio molto piccolo nonvedrai i muri, ma solo il solido. E appena cominci a poter disegnare imuri già essi divengono spessori e non già fogli sottili tirati in piedi,disegni solo quelli importanti a definire un’idea seppur appenaaccennata, quelli minori seguiranno. Lo schizzo iniziale capace di visionie di promesse che non potranno essere forse tutte mantenute si affina,anche se vi è chi ha sostenuto che a disegnar le cose “male” si vedonomeglio gli errori, gli aspetti di un progetto che vanno approfonditi oscartati (Grassi 1981). Subito dopo inizia un faticoso passaggio allaFORMA COSTRUITA (Schmitthenner 1984).Nei casi migliori, un pensiero logico, cioè descrivibile a parole oraccontabile, diviene struttura e corpo. Parte di quell’immagine iniziale

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dovrebbe essere la scivolosissima e difficile questione del carattere daconferire a un luogo o a una casa. E’, ancora una volta, una questionedi appropriatezza. Loos ne parla in maniera esemplare quando trattadell’edificio, una banca che deve far pensare che i nostri soldi sono alsicuro (Loos, 1992). Come per il rivestimento, che starebbe al principio(Collotti 2002), così anche la questione del conferire carattere all’edificionon arriva alla fine come la glassa sulla torta, ma a pieno titolocompare nel gluommero di questioni che dall’inizio ci si presentano.Bello sotto ogni profilo, diceva Tessenow (Tessenow 1981).La coerenza tra ciò che dichiaro in partenza e il risultato sono per questomestiere ancora una virtù da inseguire pazientemente. Spesso gli allievipresentano il proprio progetto con ampi preamboli ed elenchidi desiderata, quando le intenzioni e i risultati – nel bene e nel male –sono già da vedere nei disegni senza troppe parole a commento.Nel Laboratorio, al momento del progetto, è fondamentale la sceltadi riferimenti cui dichiarare adesione. Questi riferimenti sono associatia quell’immagine che sta alla base del progetto. Non possiamoimmaginare cose di cui non abbiamo esperienza (analogamente delresto si formano le idee, tanto che nell’etimo derivano dal vedere deiGreci). Questa è la partenza.Alla lunga si scoprirà che non è un escamotage didattico, ma un modopreciso e particolare di pensare al nostro lavoro. Così ogni volta, perogni progetto. Tocca aver sempre presente che è un mestiere che nonpuò iniziare ogni volta da zero. Il tutto – comunque – avendo banditoogni margine di arbitrarietà. Questa affermazione viene spesso confusacon la negazione assoluta della libertà, non comprendendo che non èlì che risiede la libertà, né che sarebbe impossibile pretendere per ilprogetto mani libere, dal momento che il nostro lavoro giunge nellamaggior parte dei casi al termine – o almeno in una fase molto avanzata– dell’esperienza nel tempo di una città, di un paesaggio, di un edificio.La libertà non può essere dunque il tema del progetto. In manieradefinitiva e convincente la questione è fissata da Giorgio Grassi in uncontributo pubblicato su Daidalos laddove si cita la famosa frase diImmanuel Kant sulla colomba leggera che vola nell’aria avvertendonela resistenza e crede che volerebbe più leggera se l’aria non ci fosse(Grassi 1983). Molti equivoci sono sorti nel tempo intorno alla questionedella presunta artisticità del nostro lavoro.E ancora ci convince una definizione di Ludwig Hilberseimer laddovecerca di rimettere le cose a posto in maniera schematica, ma efficace:..la pittura è confinata al campo delle due dimensioni. L’architettura

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– come la scultura – è tridimensionale, ma si distingue da questa peril fatto che essa non solo esiste nello spazio, ma lo contiene anche(“il concetto di spazio”, Hilberseimer 1984).Agli studenti delle Facoltà di Architettura si dovrebbe continuare adinsegnare a manipolare i migliori esempi dell’esperienza dell’architetturanel tempo, modificandola in ragione delle specificità di un sito particolare.Si cerca in questo modo di contrastare una generalizzata tendenza allaatopia, secondo la quale oggetti avulsi dall’intorno (e perciò privi dimemoria) stanno bene dappertutto. Un’idea da sartoria. Con tutto ilrispetto per i sarti, ma avendo ben presente che quello è un altromestiere; e comunque alla faccia di quest’epoca che si vantadelle modalità multitasking, ma che sta anche riflettendo sui loro limitievidenti (che non si potessero fare molte cose contemporaneamente sisapeva già, del resto…). E proprio rispetto agli oggetti glam&fashionche starebbero bene dappertutto5 (nei fatti non appartenenti a nessunarealtà, ma forse a un’improbabile virtuale e parallela second life),cerchiamo invece di privilegiare edifici e complessi capaci di stabilirerelazioni, prendendo parte al LUOGO (più che non al tempo, cioè),contaminandosi con le sue particolarità senza perdere identitào carattere.Ort ohne Zeit – luogo senza tempo, luogo dal tempo sospeso – è unacondizione privilegiata che i migliori progetti dovrebbero perseguire6.

Si impara per incidenti

A questo punto – chiarite le premesse – qualcuno lascia il laboratoriosuscitando in me un certo rispetto (sono sempre meno negli ultimi anni,però). Come nei rapporti tra le persone, meglio dirselo abbastanzapresto che non dover esclamare molto dopo, stupiti e disillusi forse condolore, …e non avevo capito niente.Ancora – al Laboratorio del terzo anno – tocca ripetere che nel percorsodi formazione dell’allievo architetto è fondamentale passare dall’inizialestato di turisti per caso a quella capacità di giudizio che consentadi assumere serenamente le continue consapevoli scelte di cui è fattoil percorso di ogni progetto. Come per il Laboratorio del primo anno,ancora un quaderno di schizzi A5, diario di bordo e album da viaggio alcontempo, sarà utile a dar conto di questo itinerario.Education must lead us from irresponsible opinion to true responsiblejudgment. It must lead us from chance and arbitrariness to rationalclarity and intellectual order (Mies van der Rohe, da Blaser 1981).

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E tutto questo riconoscendosi in un comune pensiero ancora in gradodi sostenere che le ragioni del progetto hanno necessità di scaturirepiù da una teoria antica che non da affannati esperimenti (Collotti 2002).Le questioni si colgono per somiglianza e, talvolta, per differenza.Ed è un mestiere, quello dell’architetto, in cui si impara anche perincidenti, sotto l’urgenza di dover fare una cosa che non si sa fare (Grassi2008). Anche per tali ragioni abbiamo scelto di non tenere gli allievi inuna magnifica quanto illusoria bolla di vetro con la neve, semplificandola via e appagandoli di paradisi virtuali, ma di far coincidere la didatticacon quella che è la reale condizione del nostro mestiere (per quantomalato esso comunque sia). Prossimità e scostamenti dunque rispettoad altri edifici – assunti come RIFERIMENTI – consentono di affinare lalettura del LUOGO. Ogni volta contrattando fino a che punto siamodisposti a adattare un TIPO in ragione delle particolarità che ogni sito –se ben interrogato – ci mostra. In questo andirivieni tra luogo e tipodovremo continuare a chiederci fino a che punto una forma ipotizzataresta se stessa e quando invece, per successivi passaggi, divieneirriconoscibile: dovremo fermarci un attimo prima, nel processo diirreversibile allontanamento da quanto avevamo originariamentepensato. È un percorso che richiede rigore e disciplina.Questa è una buona regola per avviarsi all’autovalutazione del propriolavoro ma anche una continua prova cui sottoponiamo la coerenza diciò che progettiamo, in primo luogo rispetto a noi stessi. Fino a chepunto una porta è una porta? Quali sono gli elementi che ci fannoriconoscere una porta, e quella porta in particolare? Continuare adomandarsi simili questioni: ecco una regola per non distaccarsi dallarealtà, evitando di ipotizzare oggetti non legittimati ed estraneiall’architettura.La città di Prato – esemplarmente stratificata, densa di esperienza, maanche non a tal punto scoraggiante come altre città che inibiscono ilprogetto con la loro tutta piena compiutezza, come Venezia e a trattiFirenze – ha costituito per diversi anni un ottimale laboratorio sul campoper addestrare alla conoscenza di un luogo per mezzo del progetto,interrogando la forma antica della città e i suoi assi che giungono allacampagna (o dalla centuriatio generano città..), verificando quanto ecome gli antichi catasti resistano al salto di scala che l’ammodernamentoha imposto nel corso del Novecento, riflettendo – anche per via di levare– sulla misura perduta della città, soprattutto a ridosso delle mura.Il progetto è un privilegio che gli architetti hanno per conoscere il mondo.Solo col progetto gli architetti conoscono7?

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Campo lungo, prospettiva corta

Primo grado di conoscenza IL LUOGO.Si comincia maneggiando la carta al centomila dell’IGM.Da Firenze a Prato ci sono venti centimetri.Si richiamano gli schizzi di Leonardo con l’Arno, il Bisenzio e le altreacque che arrivano alla piana, fatte alla maniera di lunghi capelliora raccolti, ora sparigliati per renai, quasi abbandonati su un cuscinodurante il sonno.Vista dal belvedere di via Montececeri a Fiesole, volgendo losguardo verso destra della città, LA PIANA È UN CAMPO LUNGO, specieal tramonto quando l’Arno è un nastro argentato appena mossoe tracciato in un indistinto intorno. Lo si vede da un luogo preciso(e leonardesco), dove il sole sorge su Firenze nella prima decade diluglio proiettando, sulla pianta della città per alcuni minuti una lunamolto bislunga con la proiezione di due vertici situati uno sulMontececeri e l’altro sulla rupe costruita dal muro di sostegno delconvento di S.Francesco (in una ideale balistica triangolazione questoluogo potrebbe assumere un ruolo geometricamente oppostoa Bellosguardo, notevole terrazza ravvicinata sulla città: Schönblickgegen Florenz).Cardo e decumano della città antica di Firenze ruotano facendo pernodalle parti di Palazzo Strozzi. Prendendo la rincorsa, il reticolo centuriatoprosegue, intreccia sbieco l’andamento della Pistoiese e supera lePiagge, misura Campi – i nomi dei luoghi van ripetuti più volte percapirne il segreto: l’anima dei luoghi, un mantra? (Rumiz 2006) – e siorienta preciso sino a sovrapporsi agli assi antichi di Prato. Ecco ancoraalcune delle porte, infilate a cavaliere delle mura sugli assi del vecchiocampo fortificato. Trafficando con le grandi tavole nelle aule pocoadatte a un Laboratorio di Progettazione nella sede di Santa Verdianadell’Università di Firenze, ci si chiede se l’ordine provenga dallacampagna oppure irradi verso questa dalla città di Prato.Vista dalla Calvana LA PROSPETTIVA È CORTA, la montagna che– dall’alto – bada la città dopo la ferrovia, è un’erta forte che fa alzarelo sguardo. Come nei piani ravvicinati dal teleobiettivo, da questopoggio a ridosso dell’inquadratura si coglie la cintura delle mura checompatta il centro prima della marmellata del tessile globalizzatoinsediato dopo il Bisenzio. Al centro ancora svetta il fuoriscala delconvitto Cicognini dall’impianto esemplare a C disposto intorno aduna corte che – per diversi anni – abbiamo smontato e rimontato a

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generar progetti: su tutto, poi, domina il Castello, denso di esotericitracciati, misteriosi ai più, ma anche solido perno su cui le mura siampliano nel corso del tempo fino a raggiungere l’attuale cinturazionedel centro storico.Poco discosto dalla mole fredericiana, volutamente solitario, masignificativamente ad essa quasi addossato, il segno archetipo ecentrale del Sangallo.Eccola Santa Maria delle Carceri:PIANTA, inscritta nel quadrato – la terra, geometria, sezione aurea.Occidente, la Classicità, il Mediterraneo. Microcosmo, forse.VOLTA, tracciata nel cerchio – il cielo, cosmogonia generata da unpentagono i cui lati aumentano di numero fino al cerchio. Macrocosmo.È Oriente?La cupola, cielo obbligato nel finito della calotta, appena cerchiato daun anello che non tocca gli archi generati dal quadrato e – perciò –sembra colto un attimo prima di volar via, pronto a sfilarsi.In questa terra di cupole fatte per traguardarsi in distanza tra le città dipiana circondate dalle colline: Brunelleschi a Firenze e così Vasari aPistoia. L’infinito del cielo nel più particolare dei volumi, la porzionedi sfera che fa la cupola. Configurazione spaziale atta alla messa inopera di un ordine geometrico analogo all’ordine cosmologico, sottesoalla globalità dello spazio fisico. Cosmo frenato nella calotta, ridottoa misura d’uomo, cioè rapportato al microcosmo8.Si parte dal luogo, e da una costruzione eccezionale come la piantacentrale del Sangallo, per ragionare sul rapporto tra architettura e natura.Tra i punti fermi del Laboratorio di Progettazione: una lezione apresempre le tornate di lavoro, anche breve, ma efficace e diretta.Andando avanti nel corso dell’anno queste lezioni divengono semprepiù mirate agli esempi da cui scaturisce il progetto. Si fan lezioni suiproblemi che emergono dal laboratorio, talvolta partendo dagli schizzidegli allievi proiettati la volta dopo.Pianta: è una lezione indispensabile al primo anno, ma ancoranecessaria al terzo! La mossa di apertura di cui già si è detto. Il pianoprima della battaglia, ma anche l’impronta di un disegno per iniziatiche non è destinato a essere esperito, se non nella sequenza narrativa(Collotti 1993) di spazi.Seguono altre comunicazioni, alla mattina presto, prima che si insedil’attività di esercitazione del Laboratorio.

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Architettura/Natura

E’ una lezione teorica necessaria: dal naturale all’artificiale, dal casualeal disegnato, dal gioco della luce alla modanatura è del resto il percorsodi ogni progetto. Per tramite degli Ordini l’uomo che costruisce riduceil Caos primigenio, attribuisce gerarchie, traccia degli assi e affidaloro dei compiti, classifica intenzioni, cerca di mettere in relazione glielementi della costruzione tra loro, conferendo una misura e cercandouna proporzione.Impariamo con K.F. Schinkel che architettura è la messa in opera dellanatura, o, ancora con Goethe, che l’architettura sarebbe una secondanatura che opera a fini civil i. Queste definizioni prendonostraordinariamente corpo nel disegno di una piccola chiesa rilevata daSchinkel sulle pendici dell’Etna e il cui basamento sembra a poco apoco trascolorare dalla indistinta massa petrosa della montagna fino auna partitura regolare di blocchi squadrati in cui netti appaiono i gradiniavvolti intorno ad un cilindro, come in quelle singolari e improbabilifigure che appaiono nelle esercitazioni di geometria descrittiva.Fare ordine significa cominciare un’opera (Le Corbusier 1979).È la tecnica di smontare per via di analisi, cioè sciogliere, quindiordinare, disporre.Ridotta per questa via la natura dal Caos all’Ordine se ne cerca laproporzione perfetta, il rapporto armonico tra le parti. Si ritorna allanatura per ammirarne la regola oppure cogliere il segreto di quellasimmetria intesa non già come lo specchiarsi attorno ad un asse, quantopiuttosto come misura – o meglio come rapporto – capace di tuttospiegare. Non è questo del resto il significato iniziatico del numero d’oroindagato da Matila Ghyka?La stessa nozione di razionale ha a che fare coi numeri e coi rapporti.Ci si interroga sulla bellezza, sulla perfezione e su come essa possaessere perseguita con regole certe.Matila Ghyka parla di sinfonia perfetta: gioco delle proporzioni cheritroviamo nel corpo umano e che l’architetto dovrà ritrovare nell’operacon l’arte di analoghe corrispondenze. Sulla questione già aveva riflettutoda architetto Etienne Louis Boullée indagando l’essenza dei corpi, laloro proprietà, la loro analogia con la nostra struttura (Boullée 1967).Simmetria non è – come normalmente (fra)inteso – unicamente larappresentazione di figure specchiate rispetto ad un asse centrale.La simmetria – secondo Vitruvio ripreso da Matila Ghyka – consiste nellaconcordanza delle misure tra i diversi elementi dell’opera, così come

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tra i singoli elementi e l’insieme… come per il corpo umano, del resto,essa (simmetria) deriva dalla proporzione – quella che i Greci chiamavanoANALOGIA – consonanza tra ogni parte e il tutto. Questa simmetria èregolata dal modulo, cioè l’unità di misura base (per l’opera considerata),ciò che i Greci definiscono ðüóïôçò (il NUMERO). Che vi sia adeguataproporzione tra altezza e larghezza, tra larghezza e profondità. E chetutte le parti abbiano il loro posto nella simmetria totale dell’edificio: solocosì si raggiunge Euritmia (Ghyka 1931).La Composizione è tensione tra opposti che resistono, appena sul puntodi sciogliersi. Aristotele, Etica Nicomachea: ciò che si oppone converge,e la più bella delle trame si forma dai divergenti, e tutte le cose sorgonosecondo la contesa. E proprio Matila Ghyka, con le sue riflessioni sulleproporzioni dell’architettura mediterranea, accompagna il corso perun certo periodo.Le Corbusier, amico di Matila Ghyka ritorna sul tema del rapporto traproporzioni e bellezza. E’ un numero, è la sezione aurea. Ne parla LeCorbusier in vers une architecture, nel capitolo dedicato ai tracciatiregolatori, che è – a suo modo e ancora una volta – una ritualericapitolazione del mito delle origini, la nascita fatale dell’architettura e ilsuo obbligo all’ordine. Per regolare il suo lavoro, l’uomo ha dato ordine.Ancora così prosegue L.C. rimettendo l’uomo al centro: per misurareha preso il suo passo, il suo piede, il suo gomito, il suo dito. Imponendol’ordine col piede o col dito, ha creato un modulo che regola tutta l’opera;e quest’opera è alla sua scala, per il suo vantaggio, per i suoi comodi, èrapportata alla sua MISURA. E’ alla scala umana (Le Corbusier 19799).Agli occhi degli allievi di oggi, paiono di primo acchito questioni ostichedi tracciati regolatori e sequenze armoniche. Del resto sempredi COMPOSIZIONE si tratta, anche per la musica. Le misure incontranola città e le sue fabbriche più antiche, il segreto di alcuni rapporti chevan disvelati, tornando a farsi delle domande e misurare col progetto.

Esercizi di misura

Il progetto parte misurando e studiando alcune esperienze che altriprima di noi han saputo talvolta meglio cogliere; gli architetti maneggianoormai con difficoltà la distanza tra le cose e l’arte di traguardare.DEVONO RIAPPROPRIARSENE. Molti guardano solo la carta o – peggio– si appagano di beatitudini virtuali che li illudono di raccontare la verità.Dani Karawan interpretò – con scienza militare piegata a installazioni dipace (Due ambienti per la pace, Firenze-Prato 1978) – la distanza tra

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lo straordinario michelangiolesco piano artificiale del Forte Belvedere ele misure sapienti del Castello svevo di Prato. Cosmogonia e costellazioniproiettate sulla terra a generar figure, secondo la migliore tradizionedell’ermetico Federico II.Già qualche anno fa ad alcuni allievi dei primi semestri facevamodisegnare la periferia delle Piagge e il centro di Firenze sullo stessospolvero, mostrando il salto di scala, il tutto pieno degli isolati della cittàstorica e il diradarsi delle case lungo antichi tracciati a loro volta traditidal crescere ai lati delle strade di concessionarie di auto e discount dilavatrici. In questo stesso libro, negli esercizi degli allievi del primo annosi ritrovano alcuni esercizi di misura: tra due navi dello IACP alle Piaggeci stanno comodi almeno tre isolati della città antica.Per reggere l’adiacente pieno della Coop di quartiere non basta il vuotodi Piazza Indipendenza e così via… Qualcuno/a tra gli/le allievi/e –a saggiare il paradosso che nei casi estremi fa veder le cose conmaggiore lucidità – provò persino con gesto surrealista-quasi-pop apiazzare il sistema Duomo/Battistero di San Giovanni tra due lame dicase popolari, a ridosso dell’orizzonte artificiale della massicciata dellaferrovia, in fregio ad un ex cava di prestito popolata di baracche inbandone per migranti e clandestini, il tutto comunque con assolutaprecisione sulla verticale del cono di atterraggio della pista di Peretola.Progetti che sono analisi e giudizio sulla città, debitori verso la suatradizione e – parallelamente – avanzamento della sua architettura.Fare il progetto, misurare gli spazi, erigere muri e imparare a rispettarliè il nostro modo di conoscere. Capire per esempio secondo qualeprincipio di insediamento si possa comprendere quanto a Prato la piazzaS.Marco dista dal fiume, da un luogo cioè che, quando si varcaquel che resta delle mura provenendo di corsa dalla stazione, non sisospetta minimamente che possa aprirsi al paesaggio ed allo spettacolodell’acqua che scorre (che pure aveva dato forma e conformazionealle più belle città d’Europa).Alcuni progetti lavoreranno su questo luogo della città recando memoriadell’acqua e del fossato in un tracciato, in un dislivello, in una pausa delcostruito. Per questa via si cerca di restituire alla città la ricchezza cheha perso nel tempo. Col foglio bianco e la mente ancora sgombra damisure o dimensioni, talvolta soli e disperati di fronte alla forma, gli allievisono esortati in prima battuta a costruire il progetto con altre parti dicittà, materialmente spostando gli isolati esistenti da una parte all’altrasu un grande modello in scala della città (costruito di furia nelle primesettimane del corso). I migliori operai in fabbrica si costruivano apposta

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gli strumenti per esser più precisi; e ne andavano orgogliosi. Pensandoche li stiamo prendendo in giro gli allievi sono parecchio perplessi,sospettano un inganno, un atto gratuito ed empirico, privo difondamento. Ma questo è il gesto di costruire la città con altre città, conaltri pezzi di città plausibili. Soprattutto cercare di capire che il progettonasce dalla città e si misura con essa, non è un atto estraneosovrammesso o in contrasto rispetto a una precedente vicenda.Negli esercizi di approssimazione al progetto e dopo una –necessariamente contratta – osservazione su quella città che sicostruisce per tipi, con un gesto piuttosto ardimentoso (e che i più puriesegeti dell’analisi urbana non avrebbero dubbi a condannare comedel tutto avventato) si sovrappongono all’area di progetto – un’areaindustriale dismessa fuori le mura di Prato a ovest della cerchia muraria– alcuni isolati del centro storico a cercar di capire per via di successivitentativi e approssimazioni quanto la città storica sia ancora in grado diprodurre progetto. Fisicamente significa toccare con mano una sortadi ARS ANALOGICA che – per via di errori, scostamenti, prove edesperimenti – ci consente di affinare la sensibilità, avvicinandoci aconoscenze meno incerte rispetto all’architettura.Grandi scrittori sono voraci di libri, leggono per continuare a imparare.ARCHITETTI! NON SIATE TURISTI PER CASO, ALZATE IL NASO,PRENDETE LA MATITA: QUESTE CITTA’ SONO UN LIBRO APERTO.Voi, più fortunati dei vostri compagni che studiano nelle città tedeschedistrutte due volte prima dalla guerra e poi dalla ricostruzione, voi piùfortunati dei vostri colleghi che in Lituania o in Nuova Zelanda storconole rette e deformano le figure per moda e per l’esser stati troppo ditesta sui libri o sulle riviste in assenza di necessaria realtà: pensateinvece a questo vostro privilegio di stare in una città da cui imparare!Oltre ad aver indagato situazioni analoghe in altri impianti urbani, gliallievi sono stati abituati a ridisegnare e ponderare a lungo le planimetriestoriche di Prato. Anzi a ricostruirle pezzo per pezzo, cercando digerarchizzare elementi che, ad un primo sguardo, parevano tutti sullostesso piano. L’apparentemente arido tracciato notarile dei catastileopoldini è stato filtrato e ricomposto a far riemergere una trama, degliassi viari interrotti, a far ritrovare il percorso di una gora ora sinuoso orarettificato, riconoscendo alcune regole tradite o sviate nel corso deltempo, identificando in alcuni avari segni l’andamento dei campi cuiun’originaria edificazione si era sottomessa. Persino alcune vecchiefotografie dell’inizio del Novecento, con i bambini che giocano in mezzoad una strada di terra battuta, raccontavano di una quinta urbana

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necessaria oppure di una enfilade esistita e oggi non più riconoscibile.I modelli in cartonlegno della città di Prato hanno occupato per diversimesi le aule del Laboratorio di Progettazione della Facoltà di Architetturadi Firenze in Santa Verdiana, di fronte al mercato di S. Ambrogio,consentendo di rileggere a livello urbano inaspettate analogie tra partidistanti dell’edificato, lasciando cogliere la scala adeguata degliinterventi, facendo comprendere che cosa era corte capace di generareprogetto ancora oggi e che cosa invece spazio informe ancorchèracchiuso tra edifici, smontando e rimontando i vecchi corpi di fabbricadell’ospedale e ritrovando quelle parti che ancora rivelavano unaautorevolezza antica e quelle invece aggiunte successivamente nellamaniera sgangherata della seconda metà del Novecento.E tutto questo non per una idea nostalgica e romantica di città perduta,quanto – ancora una volta – per restituire identità, misura e adeguatezzaai luoghi attraverso il progetto di architettura. Restiamo infatti convintiche al progetto, più che mostrare scenari poco plausibili di tecnologieesibite alla ricerca affannosa del nuovo a tutti i costi, resti il compito dirisignificare luoghi e spazi circoscritti nell’ambito di una generalemanomissione dei paesaggi.

Tipi come promessa di forma?

Sin dall’inizio del primo semestre il laboratorio è stato suddiviso ingruppi che affrontano singoli temi: le mura come fatto urbano; corti econventi; piazze, assi stradali e rapporto con la campagna; la città dellefabbriche; il territorio, l’acqua e le gore (come qui si chiaman quelleche altrove sono rogge o cavi).Durante i due semestri chi ha studiato la regola iterata dei conventiinsieme al gruppo che si occupava di constatare se e come PER TIPISI COSTRUISCE LA CITTA’, prova a piazzare nell’area di progettoaltri oggetti già noti per esser stati rilevati e misurati, ne saggia lavalidità di un principio, ne critica le particolarità e ne apprezza icaratteri ripetuti talvolta a prescindere dalle particolarità del luogo.Lo straordinario impianto del convitto Cicognini è per molti statola mossa di apertura da cui magari poi distaccarsi oppure riflettere sualtre grandi piante assunte come riferimento (per esempio i corpi ripetutidel progetto di Grassi per il concorso del Palazzo della Regione diTrieste). Una lezione teorica del corso indaga la questione cercando dicapire come la generalità del tipo, il suo essere punto di partenza, sicontamini con un luogo ogni volta nel progetto.

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Con vario grado di approfondimento si affronta la questione della cittàideale, del tipo e della permanenza del piano, delle mura urbane comequestione tipologica.Le immagini di alcuni edifici di K. F. Schinkel o di C. N. Ledouxaccennano alla questione della semplificazione formale e dell’economiaespressiva. Si mette in guardia del fatto che il tipo non è un modello dacopiare, ma una promessa di forma (Collotti 2002): tutto è ancorapossibile nel tipo, è un’idea, uno schema. Il progetto è una continuariflessione sul tipo, una continua verifica che sa misurare gli scostamentidall’idea, e valutare quando essi non sono più accettabili, cioè a direquando in essi l’idea non è più riconoscibile o si è perduta, oppure èstata tradita poiché siamo stati distratti durante il nostro lavoro da altripensieri veloci rivolti forse più alle lusinghe di una soluzione bella e pronta,che non ai dati del problema.Si esortano gli allievi a pensare sempre al problema e alla risposta.Sarà forse questo il motivo che spinge a non far leggere la più partedelle riviste di architettura, piuttosto invitando a girar Firenze misurandoquelle cinque o sei corti tra S.Lorenzo e l’Ospedale degli Innocenti cheson le forme più certe che si son consolidate nell’esperienza della cittànel tempo (e che sono ancora capaci di generare progetto: si pensi alprogetto di Aldo Rossi per il centro direzionale di Firenze nella secondametà degli Anni Settanta).Chi invece ha cercato le ragioni compositive di alcune piazze e del loroimpianto ricorrente, imparandolo magari su testi smaccatamenteaccademici, ma per questo ancora polemicamente attuali comequell’arte di costruire la città di Camillo Sitte (Sitte 1980) – e cheAldo Rossi criticava sostenendo che la città non fosse riducibile adalcuni episodi alti, ma che il tutto era più importante delle singole parti(Rossi 1966) – ha potuto constatare come la bellezza e il carattere deiluoghi non derivino dal pittoresco o dall’ansia di fissare per sempreun’epoca d’oro, bensì da un ponderatissimo equilibrio di strati e diassi, di corpi e di attese, di sequenze e di intervalli sedimentati a farmemoria o a dar conto delle differenze.Per gli esercizi di progetto localizzati nell’area dismessa della fabbricaCalamai (a ovest del centro storico, oltre le mura e il cimitero) si è assuntacome riferimento la necessità da parte della città di disporre di un edificioscolastico di ordine superiore (scuola di musica, in alcuni casi scuola dimoda) che generosamente restituisse a scala urbana alcuni servizidi rilievo come la biblioteca e l’auditorium. Anche in questo alcuniedifici del Movimento Moderno sono stati assunti come primo riferimento

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e come misura dei lotti interessati dal lavoro. L’Accademia di Brera,per esempio, nel controverso progetto proposto in varie versioni daLingeri e Terragni. Una prima mossa (eterotopia posta sul limite, eppureaccettabile nella città senza tempo delle grandi architetture?) fu disaggiare il lotto pratese in ragione dei corpi di fabbrica cheoriginariamente eran stati previsti per il bellissimo giardino a ridossodella milanese storica Accademia. Un altro esercizio di misura – anchequi a cavaliere con i ragionamenti sul tipo dell’edificio scolastico – hariguardato un edificio molto interessante degli Anni Trenta di GiovanniRomano per la Scuola Umanitaria di Milano, ipotizzato moltoprobabilmente in fregio al Parco Ravizza e in prossimità dell’UniversitàBocconi di Giuseppe Pagano.Ancora una riflessione sulle piante aperte, disponibili a porre la questionedel progetto di un isolato scolastico non in termini di blocco chiuso, maa presidiare solo alcuni lati del lotto, evidenziando volumetricamente legerarchie. Esemplare in questo senso un progetto di concorso di FrancoAlbini per un edificio scolastico nella seconda metà degli Anni Trenta(liceo a Busto Arsizio?). Personaggio estremo che sembra ritornare inalcuni altri progetti coevi e che a noi è parso ancora oggi in grado disuscitar pensieri di progetto.

Esperienza della città nel tempo, luoghi

Per questa via abbiamo imparato a leggere e rileggere carte storicheo antichi catasti, per capire dove si era prodotta una rottura nellacostruzione della città.Il fossato delle mura interrato e la perdita di senso della Porta S.Marcoper esempio, trasfigurata da soglia urbica in veloce passaggio senzaqualità. Eppure pochi anni prima dell’ammodernamento era questo illuogo di un camposanto e di uno sferisterio all’aperto capaci ancora didar conto delle distanze, della qualità degli spazi liberi e della misuratra le cose, delle relazioni che oggetti semplici – e financo muri o dislivelli– sono in grado di mettere in opera. In uno degli esercizi progettualisulla città di Prato (riconfigurazione della piazza S.Marco, un tempoporta urbica verso Firenze) gli allievi sono partiti dalla domanda, forseretorica, se avesse senso oggi riproporre una porta urbana.Per via di fare hanno scoperto che dietro a questo pretesto – chiaramentefuori dal tempo – si celava la possibilità di ritrovare una misura perdutadella città nella corda tesa dal vecchio cassero fino al bastione affacciatosul Bisenzio. Persino quel tratto di mura ora ridotto ad un lacerto mal

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cicatrizzato a sud della piazza S. Marco poteva diventare occasioneper restituire ai luoghi un’identità perduta. Ad un più attento esame deicatasti storici, intenzionato a capire quali segni e quali misure il sitodelle mura e del fossato ancora accettassero per antica consuetudine,si è dunque induttivamente sperimentato che un luogo apparentementevuoto e abbandonato era capace di generare progetto, disvelandosequenze, misure e sottomisure, mostrando proporzioni, inverando spaziliberati dall’uso, ma non per questo necessariamente vuoti.E per questa via, più con l’arte del levare che non con il gestodell’aggiungere, imparare a proprie spese l’esercizio di quella saggezzafiltrata dall’esperienza che portava alle considerazioni circa il dividere eil collegare magistralmente tracciate da Tessenow (Tessenow 1981).E tutto ciò per sostenere che il miglior risultato in architettura si ottienequanto più riusciamo a suddividere e comporre, anzichè continuamentecercando di collegare, rischiando di distrarre il progetto dal suo percorsoessenziale e mascherando la capacità di ciascun edificio di essere sestesso. Le riflessioni sugli straordinari Solitäre di K.F.Schinkel, edificisingoli in grado per la loro stessa presenza di restituire una misura euna gerarchia ai luoghi (il massimo del risultato col minimo dispendiodi mezzi?), sono apparse più chiare e utili nel corso del progetto,riducendo così quell’apparente distanza tra Maestri lontani nel tempo.Alcuni progetti esemplari per Berlino che negli schizzi di Schinkelsembrano riassumere tutte le questioni necessarie a un corso dicomposizione. La Bauakademie e gli schizzi del Maestro per avvicinarsialla soluzione definitiva. I primi disegni che sembrano adeguarsiall’isolato, correndo dietro all’occasionalità della forma del lotto, glielementi che invece restano fissi come i due lati allineati a squadralungo il canale della Sprea (il cui fronte sull’altra riva appare ridefinito inun’eccezionale idea che compare – ci pare – solo una volta nel lavorodel Maestro e che sembra capace di generare progetto a distanza ditempo e di luogo: la Reichsbank di Mies, il palazzo della Regionea Trieste di Giorgio Grassi). Esemplare la Bauakademie per parlareagli studenti di quei progetti che sostengono le ragioni del luogo,ignorando la nozione di contesto che invece in alcune scuole diarchitettura italiane viene ancora considerata come qualcosa in gradodi modificare l’architettura, quasi che essa fosse plasmabile odeformabile a piacimento. Sosteniamo invece – nei nostri corsi e neilaboratori di progettazione – le ragioni di un’architettura capace diuna forma propria, solida, tetragona, pietra radicata nel terreno, talvoltacon una voglia di leggerezza, in ogni caso mai cortigiana dell’attualità,

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né figlia delle anomalie del capriccio e della moda. Anzi essa resiste,dicendoci del TIPO che l’ha generata e di un principio di insediamentoche mostra una regola e una figura unitaria, capace di lasciarsiinterrompere solo dall’andamento di un lotto che ci dice di un’anticocatasto, oppure del corso di un fiume o di un vecchio tracciato,più forte di ogni successiva occasionale circostanza.Sempre Schinkel e sempre Berlino: ancora poi cercare di imparare daidubbi e dai ripensamenti sulla posizione del monumento al KaiserFederico Guglielmo10, le varie posizioni della neue Wache e il boscointorno di alberi allineati secondo un’antica tradizione dei luoghi sacri,poi – andando verso il Duomo e il castello – lo Schloßbrücke e quindi difronte al castello lo altes Museum. Gesto assoluto il Museo, albertiano,di zoccolo, partito e coronamento: l’architrave a scala urbana cherinserra i fronti con i sottostanti pilastri a presidiare gli angoli, allineatiallo stilobate/basamento. La colonna correttamente usata in posizionesubordinata al pilastro: il pilastro è pietra d’angolo, saldo e robusto serranella massa la casa.Ma questa è – ancora una volta – la facciata di Santa Maria Novella.Tra le prime cose che gli studenti di architettura di Firenze hanno ilprivilegio di esperimentare con schizzi e rilievi è il famoso spigolo dellafacciata di S.Maria Novella dove l’Alberti in modo esemplare mette inopera la teoria secondo la quale al pilastro sarebbe affidato il ruolo dielemento tettonico, mentre alla colonna rimarrebbe l’appartenenza almondo non indispensabile della decorazione. Il pilastro chiude edefinisce lungo la verticale il prospetto e, al contempo, pare sorreggerela trabeazione componendo con essa la figura tesa e serrata checostituisce il partito di facciata. Il pilastro è necessario a far da piedritto,a sorreggere lo spigolo e quindi la casa: apparentemente caricato, essoè più austero e ci dice del mondo di elementi cui è affidato il compito diportare. La colonna invece – più leggera e scarica – svolge un ruoloche oscilla tra la retorica e la narrazione. Conseguentemente, sopra lecolonne – in polemica con la maniera di Brunelleschi ancora memoredel gotico slanciato e anticlassico – deve spianare l’architrave o, comefa Vasari agli Uffizi, la piattabanda (macchina statica concatenata –secondo le più recenti indagini – alla maniera di una trave continua cheregge e lega la grande U degli Uffizi appunto?).Schinkel è in questo fedele agli Antichi Maestri. Come si è visto, iquattro potentissimi pilastri d’angolo dello altes Museum definiscono ilvolume. Come in Alberti, non interessa qui in realtà che l’architettura siaonesta, cioè che dica la verità, quanto invece che essa sembri onesta.

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Palazzo Rucellai non è lontano: una lezione che arriva ad alcuni tragli esempi migliori del Movimento Moderno italiano, classico emediterraneo al contempo (Terragni, per tutti).E in questo modo abbiamo cercato di ricostruire spazi di identità, forseframmenti coerenti.Non per finzione didattica, ma convinti come siamo che nel quotidianomestiere dell’architetto questo momento obblighi a pochi segniabbastanza duri e netti, tutto sommato non eleganti, ma necessari,gli studenti sono stati invitati nei progetti a seguitare negli esercizidi semplificazione formale e di economia espressiva raggiungendoquel grado di astrazione che, nella scuola come nella realtà costruita,consente al progetto di sopravvivere, prendendo criticamente le distanzeda un intorno solo in rari casi condivisibile.Nelle aule di appena tranquillizzati Politecnici – complice una partigianae militante rilettura di testi un tempo sacri – da studenti avevamoimparato che il mondo si capisce trasformandolo.Che è anche la maniera di capire la città col progetto.Oggi una certa resistenza verso il veloce consumo delle immagini,caparbiamente ci fa affermare che SOLO COL PROGETTO GLIARCHITETTI CONOSCONO.

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Note

1 In corsivo alcuni appunti tratti dai lavori della Commissione Didatticadel Corso di Laurea in Architettura quinquennale della Facoltà di Firenzeche a partire dal 2006 ha seguito la messa a punto della bozza distatuto per i Laboratori di Progettazione (impegno/protocollo per dirittie doveri di docenti e discenti, con rivisitazione critica delle tabelle chedovrebbero presiedere all’offerta didattica).2 V. Magnago Lampugnani in ARCHI 3/2008 sull’insegnamento e sullavoro di Mario Campi al Politecnico di Zurigo.3 Sarà che la Capponcina, la residenza fiorentina di D’Annunzio non èlontana. Insomma la Modernità che nelle scuole di architetturadi Dortmund e Zurigo già viene studiata con critica distanza, nel tuttopieno della città di Firenze onusta di passato e così imbarazzante peril progetto, è qui ancora cosa di cui convincersi, comunque non terrenoacquisito una volta per tutte. Nella casa di D’Annunzio lo squadrismoculturale capace di idolatrare con versi roboanti il motore del futuroe l’estetica dell’idrovolante, è circondato di mobili in stile sovrastatida cornici e centrini che hanno – a loro volta – al centro altri centrini.La modernità si ferma sulla soglia.4 Devo a Serena Acciai la rinnovata memoria di questa bella frase diAntonio Gramsci (1917).5 Forse di quella che alcuni sociologi han voluto definire come la finedella società del bisogno e l’inizio di quella del superfluo o del piacere,oppure, leggendo la cosa in termini appena più eleganti, cogliendoil passaggio dall’etica della produzione all’estetica del consumo.Illuminante al proposito il numero fascicolo monografico n.131/2007di Lotus International Milano Boom dedicato alle trasformazioni recentidella metropoli lombarda (recensione di F.Collotti in Firenze Architetturan.2/2007).6 Sulla questione torna Luca Ortelli nelle sue riflessioni a marginea proposito del volume Grassi 2008, nella presentazione organizzatapresso la Triennale di Milano il 20 gennaio 2009.7 F.Collotti, Conoscere i luoghi col progetto (saggio in Collotti Ariani 2006).8 Wittkower 1962; e, a proposito della pianta centrale, si legga la voceGrande Pianta in Semerani 1993.9 Si veda in particolare il capitolo “I tracciati regolatori”.10 S.Malcovati, dattiloscritto inedito della lezione tenuta presso ETHdi Zurigo nel corso di Architekturtheorie di F.Collotti – Zürich, 17 gennaio1996. Il tutto ora ripreso e documentato da Malcovati 2001.

Apparati

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Il recupero dell’area Pisorno - CosmopolitanRiflessioni sull’immagine dell’Architettura attraverso il cinemaTesi di laurea di Jacopo Sbolci, relatore prof. arch. Giacomo Pirazzoli,correlatore arch. Caterina Bini.

La composizione finale si è rivelata solo alla fine di un lavoro diesplorazione sviluppatosi contemporaneamente su due binari che inorigine apparivano distinti ma che, gradualmente, hanno messo in lucenon poche tangenze: il primo, fatto di cose reali, concrete, di un percorsodi progettazione architettonica vero e proprio fondato sull’indaginedel luogo; il secondo intorno al mondo delle “apparenze” ed al desideriodi comprendere la natura del potere emozionante delle immagini.Da un lato, dunque, il progetto si fonda sulla lettura del luogo comeenorme vuoto urbano di confine, stretto tra la macchia mediterranea ela propaggine più arretrata dell’edificato di Tirrenia, compreso all’internodi una di quelle fasce territoriali in cui la bonifica fascista diviseuniformemente la tenuta di Tombolo e che da sempre ordinano il litoralepisano; dalla lezione rossiana assume il potente impianto fondativo, percui i volumi dei corpi di fabbrica ricavano le reciproche distanze dallemisure della terra seguendo l’ordine insediativo primigenio, naturale.E così l’impianto generale si ancora a Sud con il preesistente progetto(di Aldo Rossi) ed a Nord con il “centro storico” degli Studios,recuperando negli scarti tra le giaciture degli edifici esistenti e quelli diprogetto l’occasione per offrire un’immagine di architettura che, peranalogia compositiva, rimanda agli “insuperabili bianchi monumentipisani”. Dall’altro lato, invece, solo una visione: l’Oracolo che a mezzodì,rivolto a Sud, lascia scivolare la sua ombra sulla nuda terra, come attofondativo di antica città; inquadratura fissa dove l’azione è tutta nellasospensione dell’attimo, di un respiro trattenuto, e dove è solo la Lucea svelare e rivelare lo Spazio. Questa “messa in scena”, immagine trale più potenti dell’atto archetipico di fare architettura, è sintesi enigmaticadel processo di rispecchiamento lungo la linea di confine tra il Reale edil Riflesso; il percorso è in libera associazione mentale, seguendo delletracce, a cominciare dal parallelo Ejzesteijn-Le Corbusier (Pirazzoli 2000)sui disegni dell’Acropoli di Atene, contenuti in Choisy 1899, accompagnatidall’eroe omerico de L’ènigme de l’Oracle di Giorgio de Chirico,attraverso il lavoro fatto dal Syd Field sul paradigma della sceneggiaturacinematografica ed a quello di Carol Pearson sulla teoria degli archetipi.Tutto ciò ha condotto a sospettare che l’Architettura sia in definitiva unapratica olistica.

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Ampliamento del museo etnografico di Ginevra (Svizzera)Tesi di laurea di Michela Saddi, relatore prof. arch. Giacomo Pirazzoli.

Un corpo traslato di qualche metro, sul lato opposto del giardino, replical’edificio esistente. Concepito come raddoppio formale e tipologicone riprende caratteri planimetrici e proporzionali, distributivi e decorativi.Le sue aperture sono però fittizie perché il nuovo edificio si fa interpretedella memoria del vecchio sotto forma di calco (rif. Rachel Whiteread),materializzando il vuoto attorno, lo spazio intangibile, la sua animainvisibile. Così la nuda parete vive del gioco di luci e ombre delle partiin rilievo; la grana grossolana e il colore bianco ne accentuano lepercezioni simboliche e il senso di incompiuto. A riempire il vuoto tra idue edifici gemelli è un terzo volume che appare levitare rispetto allaquota stradale; l’effetto di galleggiamento è rafforzato dal trattamentosuperficiale delle pareti, ordite orizzontalmente come un tessuto, didoghe lignee, disvelato però dal sistema strutturale puntiforme chefuoriesce e interseca i gradini. La facciata principale cieca si presentacome pieno bidimensionale e monomaterico mentre quella tergale èrealizzata con un brise-soleil che lascia penetrare la luce. In tale volumedi ricucitura, staccato lateralmente in punti che diventano intercapediniilluminate da lucernari inclinati, è contenuta la hall, scavata nel terreno,mediatrice di due mondi: ipogeo e fuori terra; questo spazio generaun ambiente urbano protetto, ma aperto ai flussi di movimento,che come un frammento di città mette in comunicazione due punti,permettendo di traguardare il paesaggio dal giardino verso la strada eviceversa (Pirazzoli 2000 per Rowe Slutzky 1968).Le modalità di accesso sono due: per un attraversamento veloce sientra dal giardino tramite una rampa di scale che risucchia lo spazio econferisce una sensazione di compressione spaziale; per unattraversamento lento è previsto un sistema di rampe trasversali eortogonali che si raccordano nello stesso punto di arrivo, dove le cosesono poste e viste in sequenza, e le vedute molteplici. La facciatadell’edificio esistente viene inglobata nell’ampliamento assumendo ilcarattere ambivalente di parete esterna e interna, dando luogo a unacondizione spaziale relativa, non assoluta. Come una grande teca èscandita da aperture incorniciate; gli infissi vengono sostituiti con vetriintelaiati e nello spessore murario vengono collocati dei pezzi dellaraccolta etnografica (totem, abiti tradizionali, armi, ecc.); la paretediventa così antiquarium, tavola di reperti museali che annunciaall’esterno il contenuto del museo.

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Il paesaggio nella città. Ampliamento del museo etruscopresso l’ex conservatorio di San Lino in Volterra.Tesi di laurea di Silvia Catarsi, relatore prof. arch. Paolo Zermani,correlatore prof. arch. Andrea I. Volpe.

Il progetto interessa una vasta area sita nella parte orientale della cittàdi Volterra, racchiusa in un trilatero il cui vertice di tramontana è formatodalla cinta muraria medievale, mentre il lato di mezzogiorno comprendeun tratto dell’antico tracciato stradale che conduce al centro della città.Il volume dell’ex-conservatorio, destinato ad ospitare la nuova sede delmuseo Guarnacci, si completa ad est con l’integrazione di un nuovocorpo, sito sulle tracce di una precedente costruzione distrutta durantela seconda guerra mondiale. Un secondo edificio, ortogonale a quelloappena descritto, viene studiato quale sede della biblioteca del museo.Il suo assetto, che lo configura come corpo autonomo, favorisce lariqualificazione dell’antico borgo di Fiorenzuola, ponendosi comecompletamento del suo fronte destro. Quattro cubi di vetro emergonoenigmatici dalla superficie della nuova piazza: una camera gradonatacompresa tra i nuovi corpi di fabbrica ed il retro di alcuni edifici delborgo. Si definisce così un ambiente di transizione tra lo spazio apertodel parco e quello edificato della città. Al di sotto della piazza prendeforma il luogo più suggestivo dell’intero impianto museale. Si tratta diun gruppo di sale seminterrate, illuminate zenitalmente dai lucernaricubici, i cui volumi, ricavati all’interno di ampie masse murarie,suggeriscono il principio dello scavo.Il progetto si affida all’essenzialità dell’impianto per meglio integrarsicon il contesto circostante, aprendo, grazie a studiate assialitàarchitettoniche, suggestive vedute sul paesaggio. È il caso delcannocchiale ottico ricavato longitudinalmente al nuovo impianto acorte. Un taglio della massa muraria che consente di inquadrare uncaratteristico frammento del centro storico di Volterra. Segnando cosìl’inizio della promenade che termina nei pressi dell’attuale sede delMuseo Guarnacci (destinata a mantenere un piccolo nucleo espositivo).Parallelamente all’asse urbano di Porta a Selci, serrato nella cortinaedilizia su cui si attesta l’ex-conservatorio, si sviluppa il breve percorsodi progetto che, sospeso sull’alta quota del poggio, offre la simultaneapercezione delle sconfinate panoramiche che si aprono sulla vallata edegli spazi più raccolti degli orti e dei giardini contenuti entro le mura.

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Museo della Memoria. Bologna: la strage di UsticaTesi di laurea di Carlotta Passarini, relatore prof. arch. Paolo Zermani,correlatore: prof. arch. Andrea I. Volpe.

Questa è la storia di un aeroplano che il 27 giugno 1980 si è disintegratoin volo finendo in fondo al mare per riemergere poi dalle acque edessere ricostruito frammento dopo frammento. Ma è anche latestimonianza del sacrificio delle vittime del disastro aereo, del drammadei familiari e della loro battaglia per conoscere la verità dopo anni dicolpevole silenzio da parte di apparati deviati dello Stato. Attraverso iportici di una Bologna deserta, l’Edipo di Pasolini compie un viaggiodal centro della città verso la periferia frammentata. Ed è grazie alsacrificio dei suoi occhi, là dove il paesaggio si disgrega, che parados-salmente il Re di Tebe ricomincia a vedere dentro di sé. Analogamenteil Museo della Memoria dedicato alla Strage di Ustica intende ricomporrei frammenti di quella storia, offrendosi come un osservatorio su quelperiodo di assurda ed incivile cecità. Si inserisce nel paesaggio delmargine della città come un muto volume fuori scala rivestito di pietrabianca. Una grande teca che contiene i resti del corpo dell’aereo inanalogia con le Tombe dei Glossatori. E come quelle si presenta sospesoe volante perchè sorretto solamente dalla linea d’ombra che occorreattraversare per guadagnarne l’ingresso. Al piano terra sono collocatil’atrio, una zona destinata ai servizi e piccole aule per conferenze edattività didattiche. Ambienti che si dispongono ad anello attorno adun’ampia sala centrale illuminata solamente dalla luce che cade radentelungo le pareti. Un simbolico luogo di sepoltura, ma anche uno spaziodi pace e di riflessione che prepara al passaggio dall’esterno dellaroutine quotidiana all’interno della storia racchiusa e custodita nel Museo.Al centro di questo spazio, nella pavimentazione, è collocata una lapidein ricordo delle ottantuno vittime della strage. In corrispondenza di questasala, al piano superiore, si trova un’ampia piattaforma che pare sospesae che di fatto rende inaccessibile al pubblico la laica reliquia del velivoloesposta al centro della teca. In analogia con la salita al Santuario di SanLuca è una rampa a collegare i due livelli del Museo. Al termine delpercorso, nel portico interno che corre a sbalzo lungo le pareti, è allestitoil percorso espositivo che documenta e ricostruisce la vicenda. Da qui,continuando ad osservare l’aereo attraverso la scansione dell’ordinegigante dei pilastri, è possibile sperare in una definitiva guarigione daimali di un’oscura stagione della storia italiana. Da qui, attraverso ilgrande lucernario centrale, si può tornare a vedere con fiducia il cielo.

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Riqualificazione della Fortezza di S. Martino a S. Piero aSieve, nuovi spazi teatrali per il Mugello.Tesi di laurea di Serena Acciai, relatore prof. arch. Francesco Collotti,correlatore arch. Lisa Ariani.

Come molte architetture militari, una volta perduta la loro primariafunzione, la Fortezza di San Martino resta un luogo fatto per guardare.La Fortezza-teatro è un luogo aperto e dominante e cerca la sua ragiond’essere nel territorio che da secoli controlla, vuol mostrare/rappresentare qualcosa del Mugello proprio per il suo essere puntod’osservazione privilegiato e per la teatralità intrinsecadel luogo.Come in molte architetture militari (la leonardesca strada coperta delcastello di Vigevano, prima fra tutte) il corpo di fabbrica e l’infrastrutturacontinuamente si confondono. L’idea di progetto muove da questaambiguità e si prefigge di rendere evidente questo percorso segnandoloall’interno della Fortezza con un programma basato su tre elementi:una piazza-teatro che affiora dal suolo quasi come un disegno ritrovato,il teatro all’aperto. Una strada che diventa architettura, l’edificio delteatro al chiuso, un’architettura che è come una sostruzione del terrenoquasi a ricostruire insieme all’abitato il simulacro di una città. Ed infinel’intervento nel Mastio, un diaframma tra vecchio e nuovo in unamancanza.L’edificio del teatro al chiuso, questo complesso di teatro/strada/macchina per superare il salto di quota, è generato e definito in piantadall’asse che, partendo dalla mezzeria del portale principale delMastio, passa al centro tra i due edifici gemelli (quasi a ricostruire unfronte di arrivo alla Fortezza) nel punto in cui il percorso interno allemura subisce un repentino cambio di direzione e dove un temposorgeva forse uno degli arsenali della Fortezza. Infine l’intervento nelmastio, il progetto interviene laddove si nota una mancanza dell’esistentee indaga, qui più che altrove, il rapporto tra vecchio e nuovo. Il progetto mira a ricostruire i camminamenti di ronda, a collegare questiultimi sia con il percorso principale di attraversamento del Mastio siacon la Porta Orientale; la scala che nel progetto collega il piano terradella porta orientale con la quota dei camminamenti di ronda è contenutada una facciata concepita come la sezione dell’edificio mancante.Il progetto ci mostra l’unica risposta possibile - far rivivere il manufattoproprio a partire dalle capacità di generare progetto che le antichefabbriche custodiscono.

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Progetto di riqualificazione e recupero della riva antistantela Boca (Buenos Aires)Tesi di laurea di Georgina M. Lalli, relatore prof. arch. Francesco Collotti,correlatore arch. Lisa Ariani.

Dall’intenzione di risarcire la città di Buenos Aires della memoria diun porto, di un luogo di lavoro, di scambi culturali, di arte, partequesto progetto a scala urbana nel quartiere più caratteristico, piùturistico e allo stesso tempo il più povero di questa metropoli. Il luogo èdeposito di reperti dell’ammodernamento sovrapposti e accatastati,arrugginiti e superati a loro volta da altri reperti presto invecchiati.A lungo il progetto ha interrogato le nitidissime fotografie aeree scattatesulla zenitale dell’area cercando di cogliere conferme e pentimenti equella ragione dei luoghi che scaturisce dalla loro esperienza neltempo fatta anche di gesti contraddittori. Sulla lunga riva dall’altra partedella Boca sorge un quartiere temporaneo, magazzini di attività industrialidimesse legate alla nautica, una promessa di piano regolatore da lungotempo sospesa, il lungo nastro di una superstrada tutta dentro il wishfulthinking della grande città. Attraverso un sistema di edifici che siinsediano ortogonalmente rispetto al fiume secondo uno schema chefa riferimento al progetto di Asplund per Stoccolma, si recupera il fiume,elemento principale di questo paesaggio, e si rettificano i suoi arginiattraverso una passeggiata che si conclude nel teatro all’aperto,(citazione del progetto di Michelucci per il teatro di Olbia), macchinaper guardare la Boca e Caminito, e allo stesso tempo quasiun’archeologia scavata nel terreno. Ritornano nel progetto alcune dure- eppur felici - immagini degli edifici di Lina Bo Bardi, come l’idea allimite di un grattacielo al cui piede i campi sportivi sono realizzati apiani sovrapposti. Un’idea pazzesca, impensabile nella città europea,e però ancora oggi in grado di produrre progetto.La mediazione tra la città e il fiume è data da un sistema di volumiche tengono dentro di sè la misura della città, si confrontano conessa e con i suoi isolati quadrati di 120 x 120 metri della maglia dicolonizzazione spagnola. Questo campus per l’università delle arti diBuenos Aires (IUNA) riacquista i caratteri di la Boca introiettando lapurezza dei volumi, la precisione costruttiva, le proporzioni chiare concui gli immigrati genovesi avevano costruito le loro case, spogliandoledel pittoresco e reinterpretandole in chiave moderna, ma includendoil carattere giocoso dato dal colore che fa di questo luogo uno deipiù caratteristici di Buenos Aires.

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Livorno - Le Havre: ‘il basamento cavo’ limite tra terra e acquaTesi di dottorato di Caterina Bini, tutor prof. arch. Giacomo Pirazzoli.

Il basamento ‘cavo’ è inteso come zoccolo che sostiene un edificio, inparte elemento di fondazione e in parte costituente architettonicovisibile su cui poggia l’elevato. La tripartizione dell’architettura classica“basamento–parte media–tetto” ne definisce in maniera univoca il ruolo,classificandolo quale componente necessaria, affinché l’edificio siattacchi solidamente al terreno e ne costituisca la parte soda, capacedi bilanciare i volumi soprastanti. Per questo motivo è formato da unaparte interrata, che è la fondazione vera e propria, a volte architetturaipogea, e da una emergente che ne costituisce la sezione fuori terrache, in quanto visibile, diviene necessariamente prospetto. Una base-prospetto che, tramite i vuoti e i pieni che la caratterizzano, mette inmoto quelle azioni di “vedere ed essere visto” che ne fanno un elementoparticolarmente significante nel rapporto tra architettura e paesaggio.Questo artificio architettonico trova un confronto diretto col tema piùgenerale del basamento, poiché mantiene quel carattere così fortementeconnotante di relazione con il suolo (o con l’acqua) e di sostegnostrutturale e visivo di altri elementi architettonici. Dove il basamento entrain contatto con l’elemento acqua, però, esso muta e si trasformaperdendo parte di quella solidità/densità che è stata il suo carattereprimario in contiguità con la terra, per modificarsi, quasi soggettoall’erosione che inevitabilmente il movimento delle onde infiggono alladura pietra, in un pieno parzialmente cavo o in un vuoto scavato in unpieno. Parte architettonica di mediazione tra acqua e terra, limite tranatura e artificio, il basamento ‘cavo’ è presente dalle originidell’architettura, quale elemento di costruzione logica della città: nelleville romane marittime, in cui per la prima volta a contatto con l’acquasi scava, o in grandi architetture urbane che nel corso dei secoli hannosegnato l’immagine di importanti città portuali strutturandone la relazionesempre complessa con il mare, si pensi a Genova come ad Algeri.Si ritrova nelle teorie rinascimentali delle città ideali situate in golfiimmaginari di Filarete e di Francesco di Giorgio Martini, o nei progettiin luoghi reali, ma mai realizzati, di Leonardo e Antonio da Sangallo.Nella realtà il basamento ‘cavo’ é elemento compositivo della Livornomarittima nei suoi monumenti, quali la Fortezza Vecchia e Nuova, e nelsuo tessuto di canali e fossi del cinquecentesco quartiere della VeneziaNuova con le cantine e i piani terra passanti. Qui le strade, costruite tremetri sopra il livello dell’acqua, permettono la doppia circolazione delle

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barche e dei carri, mentre la sistemazione di grandi magazzini copertia volta, richiama alla mente i disegni leonardeschi per la città su piùlivelli (Pedretti 1978). Adam ne riscopre la forza progettuale nel progettoper l’Adelphi Terrace a Londra, trasposizione in chiave moderna delromano Palazzo di Diocleziano a Spalato, che nel basamento ‘cavo’ sullimite tra terra e acqua trova la sua relazione, mentre Schinkel progettaad Orianda uno zoccolo che diviene piattaforma da cui contemplarel’orizzonte e che al suo interno nasconde segrete e fresche stanze.Nel Novecento due grandi maestri hanno affrontato il tema delbasamento ‘cavo’ quale possibile elemento di costruzione della cittàcontemporanea: Le Corbusier, il cui complesso e ricco percorso creativocomprende la smaterializzazione della base dell’edificio attraversol’ideazione del sistema dei pilotis, e Auguste Perret, nell’opera diricostruzione della città di Le Havre, pensata su una piattaformasoprelevata in cemento armato, la coquille en béton, al di sotto dellaquale prevede di posizionare tutti gli impianti (Dalloz 1957). Le Havreviene ripensata come una città che vive del mare e con il mare deveconfrontarsi: «Di fronte all’acqua costruiremo un vero ‘lungomare’-dichiara infatti Perret - lo si scorgerà dal mare aperto, prima disbarcare»(George 1945). Il basamento ‘cavo’, platea su cui fondare lacittà, la casa come elemento base della composizione della centroabitato, la modularità della struttura, assurgono a temi portanti di questaimmensa opera architettonica. Non un intervento urbanistico ma larealizzazione di una grande architettura tesa a sintetizzare e fissare,plasmandoli nel calcestruzzo, i sintetici pensieri del suo breve trattatoContribution à une théorie de l’Architecture (1944). «Le nuove vie sarannoin lastre di cemento sorrette da pilastri in cemento armato. Avremo 11chilometri di strade sopraelevate […] Le Havre accoglierà degnamentei viaggiatori[…]Mostreremo che abbiamo ancora oggi il senso del grandee del bello. Io vedo un fronte mare che raggrupperà tutti i monumentidella città e scorterà le navi nella loro entrata in porto» (Aubery 1945).Una città nuova costruita su un’enorme piattaforma è l’azzardata mapotente idea che Perret propone. Non un’architettura che poggia su unbasamento ma tanti volumi puri che animano secondo una geometriarigorosa questo gigantesco zoccolo, la cui natura cava diverrebbemanifesta solo in alcuni punti eccezionali: i bacini, le piazza delle chiesesopravvissute ai bombardamenti, il fronte mare, limite tra terra e acqua.La piattaforma, suolo artificiale il cui carattere tecnico è stato fattapassare come unica spiegazione alla scelta meramente architettonicadi Perret, non venne costruita, ma traccia di questa forte volontà si leggenelle scelte compositive degli architetti dell’Atelier della Ricostruzione.

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Paesaggio classico e architettura come messa in operadella natura. Riflessioni intorno all’articolazione delrapporto attraverso le diverse scale e un confronto con ilcaso studio di Cosa.Tesi di dottorato di Lisa Ariani, tutor prof. arch. Francesco Collotti.

Il progetto può essere inteso come composizione riferita all’insiemedi edifici, suolo e infrastrutture, ovvero tendenzialmente teso adabbracciare l’insieme delle trasformazioni dell’ambiente. Il suo ambitoè dunque il territorio, il luogo di accumulazione delle tracce, dei molteplicisuccessivi progetti.Indagare i sistemi di relazioni insiti in ciò che rimane dei diversi progettiche si sono costruiti nel tempo è come sondarne le possibili identità,come tentare di spingersi fino a quelli che sono stati, o potrebberoproporsi, come i limiti delle loro intenzioni ordinatrici.Guardando in questo senso al concetto di limite di ordine dato daun’architettura, è possibile cercare di identificare nei vari progetti presiogni volta in considerazione quelli che potremmo considerare i limitidell’intento di definizione del luogo che ognuno di essi propone, chenon necessariamente coincidono con la misura “fisica” dell’intervento.Quello che risulta interessante è anzi proprio lo scostamento che sembrasussistere tra la misura delle cose e il sistema di relazioni che esseriescono a costruire, che è in fondo il fondamento della possibilitàdi dare un significato “territoriale” o “geografico” ad architetture chenon necessariamente assumono questo ruolo in virtù di una dimensionefisica che le renda direttamente assimilabili ad elementi di paesaggio,ma che piuttosto tendono a costituirsi come dei punti particolarmentesignificativi attraverso i quali un insieme di scala maggiore, qualeè appunto un territorio, può essere letto, compreso e “ordinato”.

Da questo punto di vista è possibile provare a esplorare la relazioneche unisce architettura e paesaggio considerando il progetto e lacostruzione di un’architettura non solo come un qualcosa che afferisce,entra a fare parte e forse modifica un insieme più vasto, come è appuntoun territorio leggibile come paesaggio del quale possono essere indagatestruttura, regole e relazioni, ma anche come un qualcosa che ad unascala propriamente architettonica - nella quale, come nota Le Corbusiera proposito delle rovine di Villa Adriana, il suolo che si alza di un gradinoè capace di produrre una sensazione e i piani orizzontali [di un interno]

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possono essere stabiliti in accordo con la piana romana, o, dove unmonumento riesce a proiettare i suoi effetti fino all’orizzonte, come affermain relazione all’Acropoli di Atene (Le Corbusier 1979) riesce a istituireuna serie di relazioni rispetto al territorio circostante tali da potereessere considerato esso stesso strumento di strutturazione e rivelazionedi questo come paesaggio: uno strumento capace di agire in questosenso attraverso le misure e i mezzi propri di un’architettura.

Questa capacità di costruire relazioni significative col dato naturaleattraverso le diverse scale, sembra risultare particolarmente evidente inalcuni progetti e architetture che nel tempo sono stati considerarti propridi un’esperienza compositiva classica e nelle riflessioni che su questiesempi sono state fatte nel tempo da parte di altri progettisti, sotto formadi analisi, scritti e progetti. Per approfondirne i diversi aspetti è risultatoinoltre utile guardare alle molteplici forme attraverso le quali il temaè stato fissato e trasmesso nel tempo, sia esso un edificio, un disegnoo una riflessione teorica.

Anche un manuale d’epoca per geometri quale la Constitutio Limitum diHygini Gromatici (Hygin l’Arpenteur 1996), dove anche tramite i disegni ètecnicamente affrontato il problema della limitazione territoriale, può infattioffrire una chiave interpretativa interessante da un punto di vistacompositivo per comprendere il piano sul quale sembra sia stato posto ilproblema di un confronto con la “natura” in ambito classico, nella continuatensione derivante dal tentativo di conciliare in un’unica forma/figura unproblema generale di mimesi - ricercato in un sistema di corrispondenze- e il confronto con le particolarità naturali dei luoghi.

Lo studio dei resti dell’assetto territoriale, della forma urbana e di alcunearchitetture presenti in quello che un tempo era l’ager della città romanadi Cosa è diventata così l’occasione per evidenziare e verificarel’operatività degli assunti teorici e degli strumenti individuati in una letturache cerca di guardare anche al presente, ipotizzando che la possibilitàdi coinvolgere positivamente emergenze geografiche e aspetti naturalidel luogo possa costituire un aspetto fondante della composizionee problematicamente presente nel momento in cui il progetto è chiamatoa misurarsi con il problema della riconfigurazione della città e del territorionell’ambito di una riconosciuta crisi ecologica, ovvero di crisi ancheculturale nel rapporto con il proprio ambiente.

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Libri Necessari

M. VITRUVIO POLLIONE, I dieci libri dell’architettura. Tradotti e commentatida Daniele Barbaro, Il Polifilo, Milano 1987

F. DI GIORGIO MARTINI, Trattati di architettura, ingegneria e arte militare, acura di C. Maltese, L. Maltese Degrassi, Il Polifilo, Milano 1967

L.B. ALBERTI, De re aedificatoria, trad. di C.Bartoli, Venezia 1565

A. PALLADIO, I quattro libri, Venezia 1570

E.L. BOULLÈE, Architecture; essai sur l’art, 1781–1793, ed. it. Architettura.Saggio sull’arte, trad. di A. Rossi, Marsilio, Padova 1967

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Come già richiamato in apertura siamo costretti, per ragioni burocratichederivanti dalla legge sulla privacy, ad elencare in questo modo gli allieviche, nel ricchissimo e plurale contesto dei laboratori, testimoniano quicol proprio lavoro il percorso fatto.

Laboratorio di Progettazione dell’Architettura I – Prof. G. PirazzoliNena Dzuteska, Marco Gennai, Melissa Giacomelli, Stefano Giannetti,Federico Gianni, Michaela Greifenegg, Piero Grezzi, Lucia Guarino,Georgios Kapourniotis, Moshe Katz, Beatrice Martini, Dania Marzo.

Laboratorio di Progettazione dell’Architettura I – Prof. F. CollottiFilippo Bernardini, Carolina Bonini, Stefano Buonavoglia, Maria GiuliaCaliri, Maria Giuseppina Carroccio, Alessandra Carta, Marco Ceccherini,Cristina Ceccotti, Silvia Ciarini, Ilaria Corrocher, Lorenzo Corsini, AriannaMarchesani.

Laboratorio di Progettazione dell’Architettura II – Prof. A. I. VolpeAntonio Acocella, Simone Braccagni, Chiara Campaini, Justin LintonCampolucci, Carmine Canaletti, Elisa Candela, Giulia Cardella, GiuliaCasucci, Francesco Catalini, Claudia Cavallo, Corinna Cecchi, VieriCecconi, Ceravolo Giulia, Luca Chioccioli, Serena Ciabatti, Cristina Cilia,Riccardo Cioli, Francesca Cocchi, Tommaso Colli, Marco Corridori,Nicolò Costi, Marianna Cristofaro, Roberta Cuppini, Elena D’Andrea,Alessandro Dazzi, Daniele De Ranieri, Emanuela Degli Innocenti, NicolaDi Gesu, Vito Di Mare, Elisa Di Martino, Valentina Di Mascio, EmanuelaDi Sandro, Giulia Donati, Filippo Erasti, Francesco Esposito, LauraGabliera, Selene Gnavolini, Francesco Matta, Tommaso Minafra, AndreaMorelli, Valerio Rosa, Daniel Screpanti, Giovanni Tanini, Marco Viggiano.

Laboratorio di Progettazione dell’Architettura III – Prof. F. CollottiNicolò Campanini, Elena Rosai, Filippo Santoni, Simone Sassoli, GiulioSenserini, Caterina Steiner, Novella Terzani Baccani, Marco Tocchi, SilviaTucci, Veronica Vasarri

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Un ringraziamento particolare va a coloro che negli anni hanno condivisocon noi questo percorso:

Laboratorio di Progettazione dell’Architettura I – Prof. G. PirazzoliAnalisi della morfologia urbana e delle tipologie edilizie: Arch. AndreaVolpe – Arch. Caterina BiniCollaboratori al Corso: Arch. Lisa Ariani – Arch. Cristiano BalestriLaboratorio di Progettazione dell’Architettura I – Prof. F. CollottiAnalisi della morfologia urbana e delle tipologie edilizie: Arch. ElisabettaAgostini – Arch. Lisa Ariani

Laboratorio di Progettazione dell’Architettura II – Prof. A. I. VolpeCultura tecnologica della progettazione: Arch. Germana De MichelisAnalisi della morfologia urbana e delle tipologie edilizie: Arch. FrancescaMugnaiCollaboratori al Corso: Arch. Silvia Catarsi – Arch. Carlotta Passarini –Arch. Yoichi Sakasegawa

Laboratorio di Progettazione dell’Architettura III – Prof. F. CollottiTeorie e tecniche della progettazione architettonica: Arch. Lisa Ariani –Arch. Debora GueriniCollaboratori al Corso: Arch. Cristiano Balestri – Arch. Caterina Bini –Arch. Gioia Martini – Arch. Serena Acciai

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FRANCESCO COLLOTTInato a Milano (1960),architetto e professoreassociato di ComposizioneArchitettonica presso l’Uni-versità degli Studi diFirenze. Laurea con GiorgioGrassi (1984). Già collabo-ratore di Domus, RivistaTecnica, d’A, Materia,Archithése e redattore diPhalaris. Redattore diFirenze Architettura e cor-rispondente dall’Italia diWerk, bauen + wohnen.Coautore del Dizionariocritico illustrato delle voci piùutili all’architetto moderno(1993), è stato docente aETH Zurigo e alla Facoltà diArchitettura di Dortmund.Ha costruito diversi edificipubblici e case per la gentein quel di Milano e alcunimusei con recupero dipaesaggi fortificati inTrentino e in Veneto (conGiacomo Pirazzoli), haprogettato/realizzato lariqualificazione ambientalee paesaggistica di luoghidegradati; attualmente staseguendo alcune ricercheprogettuali relative allearchitetture per la produ-zione dell’energia. Ha pub-blicato: La prova di Salzburg( M i l a n o , 1 9 9 3 ) , C a s enormali? (München 2001),ArchitekturtheoretischeNotizen (Luzern 2001) ora initaliano col titolo Appunti peruna teoria dell’architettura(Luzern 2002), Le colonnedi San Lorenzo (Dortmund2002), 03d (con GiacomoPirazzoli, Cannitello 2007).

GIACOMO PIRAZZOLIè architetto; laurea e PhDcon Paolo Zermani, studiin Fondation Le Corbusier elavoro da Christian dePortzamparc a Parigi, quindiprofessione e ricerca conPaolo Zermani, dipoi conFabrizio Rossi Prodi aFirenze e Francesco Collottia Milano. È Redattoredella rivista internazionaledi architettura “Materia” eChairman di task-forceper European Architect’sCouncil a Bruxelles dal 1997al 2000, quando divieneProfessore associato nellaFacoltà di architetturafiorentina e Membro dellaScuola di dottorato; dal2002 al 2006 è Presidentedell’Accademia di Belle Artidi Firenze. Per mezzo diedifici, mostre, ricerche epubblicazioni in Italia eall’estero, effettua un lavoromultitask su “Paesaggio,archeologia, progetto con-temporaneo” , ident i tà /migraz ione,ambiente /sostenibilità, nonchè su sitespecific museums, per ilprivilegio del fare con artistitra i quali Beverly Pepper,Adrian Paci, MichelangeloPistoletto/Cittadellarte.Ha tenuto corsi, workshop econferenze in luoghi edoccasioni tra loro apparen-temente remoti come ETH -Zurich, Università di Scutari,ENSAM - Montpellier, USAL- Buenos Aires, Columbia -New York, ETSA Valenciae Madrid, Malta University,ITU - Istanbul..

ANDREA I. VOLPEnato a Viareggio (1968), èarchitetto e ricercatorepresso il Dipartimento diProgettazione dell’Archi-tettura dell’Università degliStudi di Firenze. Dal 2004è docente incaricato diComposizione Architet-tonica e Urbana.Laureatosi con PaoloZermani (1998), è redattoredi Firenze Architetturadal 2001. Nel 2003 ricevel’American Academy Awardin Architecture pressol’American Academy inRome. Collabora in seguitocon Kent State University,Naba Milano e PrattInstitute. Dopo aver costruitoassieme ad alcuni amici unacasa di policarbonato aTokyo nel corso di Muko-jima Net Event (2000), unospazio interreligioso inalluminio a Torino per laBiennale Internazionale ArteGiovane (2002) ed untempietto in ferro a Romanel corso della mostraOpen Studios (2004), staseguendo alcune ricercheprogettuali relative aldisegno dei margini dellecittà giapponesi delKyushu, collaborando conenti locali ed aziendespecializzate in prefabbri-cazione edilizia al finedi coniugare sostenibilitàambientale ed alta densitàabitativa. È autore deLo sguardo dell’architettura.Osservazioni a margine didue progetti di Aldo Rossi,in corso di pubblicazione.