dell'orrore, del diverso
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"I mostri non esistono". Sbagliato.Accade più spesso di quanto crediamo di imbatterci ogni giorno in creature mostruosamente reali. “Mostro” non significa altro che “diverso”, e ciò che è diverso turba o disgusta."Dell’orrore, del diverso" si muove fra queste due accezioni della parola “mostro”, quella che spaventa, e quella che ripugna.I personaggi e le situazioni narrate si concentrano sulla crudeltà e sulla follia umane, che non hanno nulla da invidiare all'immaginazione.TRANSCRIPT
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Tutti, in una qualche misura, abbiamo paura dei mostri. Per-
ch? Perch sono orrendi, perch sono imprevedibili, ma soprat-
tutto, perch non sono umani.
Quando eravamo piccoli ci raccontavano dellUomo Nero,
della strega cattiva, dei fantasmi, e noi immaginavamo che queste
creature abitassero sotto il nostro letto, oppure nellarmadio,
pronte a uscire allo scoperto al calar delle tenebre. Allora dormi-
vamo con la luce accesa, o costringevamo i nostri genitori ad o-
spitarci nel loro letto, in cerca di protezione.
Una volta cresciuti abbiamo scoperto che lUomo Nero, la
strega cattiva e i fantasmi non esistono, almeno non al di fuori
delle opere di fantasia. Adesso ci piace dormire al buio, e non
necessitiamo pi della rassicurazione dei nostri genitori. Guar-
diamo volentieri film in cui compaiono zombi, vampiri, entit so-
prannaturali di ogni sorta, eppure, anche se una parte di noi si la-
scia innegabilmente coinvolgere, facendoci sussultare a ogni col-
po di scena, una voce nella nostra testa non fa che ripeterci i mo-
stri non esistono.
Quella voce, per, ha ragione solo in parte: quei mostri non
esistono.
I mostri che ci sconvolgono, che ci disturbano, che ci inorridi-
scono sono pi reali che mai.
Mostro non delinea per forza un essere non appartenente a
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questo mondo, anzi, accade pi spesso di quanto crediamo di im-
batterci ogni giorno in creature mostruosamente reali.
Mostro non significa altro che diverso, e ci che diverso
turba o disgusta.
Dellorrore, del diverso si muove fra queste due accezioni
della parola mostro, quella che spaventa, e quella che ripugna.
I personaggi e le situazioni narrate nelle storie raccolte lascia-
no poco, pochissimo spazio al soprannaturale, si concentrano
piuttosto sulla crudelt e sulla follia umane, che non hanno nulla
da invidiare alla finzione filmica.
Il quadro che ne emerge tratteggia la rivincita dei perdenti, dei
reietti che non conoscono n riscatto, n redenzione, e che diven-
tano infine protagonisti di storie in cui, perdendo, in fondo vinco-
no qualcosa: il proprio spazio nel mondo.
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La piccola Danielle ha otto anni e nessuno vuole giocare con
lei. Gli altri bambini dicono che strana, la evitano come fosse
una malattia e quando non lo fanno la maltrattano con prepotenza.
Danielle, per, non reagisce, non si difende, neppure quando
arrivano a farle davvero male. Anzi, rimane in silenzio. Tutto ci
che le interessa catturare lattimo, imprimerlo nel profondo dei
suoi occhi scuri, per poi riprodurlo sul foglio bianco. Ricorre a
matite e colori, ma ancor di pi, alla fantasia.
Un pomeriggio destate, torrida e soffocante, Danielle si
aggira, solitaria come sempre, per le vie del piccolo paese in cui
vive, ai confini con le campagne. Una noia insopportabile spinge
la bambina fuori della zona urbana, dove i campi sono per met
abbandonati.
Fra le sterpaglie, Danielle nota in lontananza un gruppo di
ragazzini che conosce bene, gli stessi della scuola. Decide di
tenersene alla larga, ma allo stesso tempo incuriosita da quello
che stanno facendo. Insospettita, vuole saperne di pi; si acquatta
tra lerba alta e secca, cos che non si accorgano di lei, e osserva.
I ragazzi urlano, si agitano, tirano violenti calci al suolo,
Danielle si chiede il perch di tanto accanimento. Una vigorosa
folata di vento, gradevole e inaspettata, risponde alla domanda,
appiattisce la poca vegetazione fra i suoi occhi e la scena: stanno
torturando un gatto.
La bambina si sente ribollire il sangue, vorrebbe intervenire,
ma sa che se si azzardasse a muovere un dito farebbe la stessa
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fine di quel gatto. Rimane nascosta, cos arrabbiata per la sua
impotenza e codardia da stringere nei pugni ciuffetti di erba
rinsecchita.
Quando il gruppo si allontana, Danielle, guardinga, si
avvicina al gatto, ormai morto. Lo fissa con con insistenza, si
perde nei rivoli di sangue che gli sgorgano dalla bocca e dalle
ferite sul corpo.
Danielle prova unirresistibile attrazione per il sangue
dellanimale. Gli si avvicina intimorita e intinge le dita nel
liquido vermiglio, cos caldo e denso al tocco, da risultarle
piacevole. Lo mescola alla terra bianca, amalgamandoli alla
perfezione. La ragazzina non riesce a trattenere le dita, che si
muovono nel composto con gesti casuali, ma intensi.
Riacquistato il controllo di se stessa, si affretta a disegnare su
un pezzo di terra argillosa poco distante. Si cosparge le mani
della raccapricciante miscela e disegna con trasporto, disegna con
foga, disegna fino a quando limmagine terminata.
Si tratta della sua prima opera.
Si ritrova sporca, sudata, ma, a sua insaputa, soddisfatta. Ha lo
sguardo svuotato, le mani rosso ruggine.
Prima che il sole possa asciugare il disegno e renderlo
irriconoscibile, Danielle lo ammira unultima volta e giura a se
stessa che non ne far mai parola con nessuno.
Non sar una dottoressa, n unastronauta, n un ingegnere.
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Danielle vuole dipingere.
E vuole farlo usando il rosso particolare del sangue.
Quello umano.
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Matt, dopo unaltra notte insonne, si ritrova pi stanco del so-
lito, sdraiato molle sul divano, al pari di un burattino cui hanno
tagliato i fili e che non pu reggersi in piedi.
Allimprovviso, dei rumori provenienti dal pianerottolo entra-
no di forza nellappartamento del ragazzo, spezzando la delicata
quiete che vi aleggia.
Matt si sente attraversare da un brivido incontrollato, paura.
Non sa di cosa si tratti, non nemmeno certo di volerlo scoprire,
eppure non riesce a ignorare quei rumori che strisciano tra il fuori
e il dentro della porta e gli raggelano il sangue. Sembrano rantoli,
versi gutturali, secchi e strozzati. Qualcosa di sinistro sta per ac-
cadere, ma la sua pesante razionalit gli impedisce di cedere a
questa forte sensazione.
Dopo dieci minuti, Matt decide di abbandonare il divano e
andare a controllare lorigine di quei rumori angoscianti.
Trattiene il respiro per non dar segni di s, si avvicina alla
porta di ingresso, per poi spalmarcisi contro e accostare locchio
allo spioncino. Le gambe cedono, le mani si inumidiscono, il cuo-
re prende a battere cos violento da fargli credere che presto
scoppier.
Al di l della porta, immobile, c un individuo. Alto, scuro,
avvolto in vestiti lerci; la sua pelle grigia, avvizzita e spenta.
Ci che maggiormente terrorizza Matt sono i suoi occhi: due pu-
pille fredde, bianche, svuotate di qualsiasi scintilla vitale, gli re-
stituiscono lo sguardo con morbosa ossessione.
In bilico tra la volont di ascoltare listinto o la razionalit, il
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ragazzo si accascia al suolo, si chiede cosa sia meglio fare. Sem-
bra un incubo, vorrebbe svegliarsi, tuttavia quello che sta vivendo
non unillusione, pura realt.
Di scatto, Matt si alza dal pavimento e con risoluta follia tira
la maniglia della porta. Con la stessa rapidit del suo gesto, la
mano dellindividuo lo coglie di sorpresa e gli trafigge il torace,
per poi ritrarsi con altrettanta velocit.
Matt sgrana gli occhi, un rivolo di fluido scarlatto gli cola
dallangolo della bocca. Ha appena il tempo di portarsi le mani al
grembo e rendersi conto che ci che tocca sono le sue pareti inte-
stinali, prima di afflosciarsi al suolo come un fiore appassito.
Il mostro si compiace del suo sadico gesto, spalanca la bocca
secca e violacea, che si deforma in un ghigno agghiacciante. Do-
po poco viene raggiunto da un suo simile, poi da un altro, poi da
un altro ancora, ognuno privo di vita, ognuno con lo stesso iden-
tico sguardo asettico.
Matt, dalla densa pozza di sangue in cui il suo corpo ristagna,
trascorre i suoi primi istanti di nuova vita guardando linvasione
dei cadaveri.
I suoi occhi, ora bianchi, intrappolano la paura senza una ra-
gione.
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La realt che se non sei come gli altri non c partita, punto.
inutile negarlo, com inutile foderarsi gli occhi di luoghi co-
muni e fingere che ci che si scosta dalla massa non stranisca o,
addirittura, non ripugni.
Il mondo appartiene agli altri. Lo stringono saldamente, come
un prezioso trofeo, e guai a mollare la presa. E potete scommette-
re la vostra maledetta testa che so quel che dico, quant vero che
mi chiamo Irvine, un fenomeno da baraccone. Quando le persone
si fermano, mi fissano, mi deridono o inorridiscono, di bello non
ci trovo nulla.
Mi chiamano uomo coccodrillo perch la mia pelle, spessa,
ruvida, squamosa, ricorda quella della bestia. Dopo tanti anni so-
no abituato agli sguardi della gente, ai loro giudizi. Allinizio e-
rano veri pugni nello stomaco che, duri come lacciaio, mi provo-
cavano dolore. Questa sensazione sfumata col tempo in distacco,
fino a raggiungere una certa autoironia.
Se pensate io sia un caso isolato, beh, vi sbagliate. I mostri
come me sono ovunque, siete voi a non vederli, o meglio, a non
volerli vedere. A tal proposito, una domanda mi ossessiona, ri-
sveglia in me un rancore che credevo sopito da tempo. ora che
trovi una risposta.
Osservo tra il pubblico che, come ogni sera, affolla il tendone.
Passo in rassegna ogni spettatore, cerco di individuare il bersaglio
perfetto.
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Il suo viso armonioso, i lineamenti delicati, in sintonia con il
resto della figura, esile ed elegante. Dimprovviso la vedo abban-
donarsi a una forte risata: la donna barbuta sta sfilando in pista.
Stringo i pugni e continuo a spiarla con insistenza.
Terminato lo spettacolo, si avvia alluscita, io la seguo e mi
mescolo tra le ombre e una folla a cui sono indifferente. Approfit-
to della confusione e, mano sulla bocca, la trascino nel buio, dove
la stordisco.
Il mio sangue freddo come quello dellanimale a cui somi-
glio; un soprannome azzeccato, dopotutto. Lego le mani della
donna, le appallottolo un calzino in bocca e penso a quale ma-
schera farle indossare per sempre.
Lentamente la prigioniera rinviene. Estraggo il coltello dalla
tasca e la lama, gelida, scintilla alla luce lunare. La donna si di-
mena terrorizzata, io, euforico, non vedo lora di ammirare il ri-
sultato.
Incido il volto regolare con precisione chirurgica: gli dono
una stella per occhio e un perenne ghigno che si estende agli zi-
gomi. Lacciaio scava la morbida carne come le lacrime scavano
solchi purpurei.
Adesso fammi ridere, donna pagliaccio, la schernisco.
Il mio sorriso si spegne quando un inaspettato rimorso colpi-
sce, e mi esplode nel cuore una lacrima.
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A letto, appallottolata come un fazzoletto usato, Liz fatica a
realizzare la sua nuova condizione.
Gli occhi umidi, il respiro lento, i movimenti appena accenna-
ti.
Liz sa che il suo cuore rotto, milioni di frammenti che pi
nessuno potr rimettere insieme.
Perch mi hai fatto questo?
Dan lha abbandonata senza motivo, lei si isolata: mangia a
stento, non parla con nessuno, raramente esce di casa. Le sue
giornate sono vuote quanto la sua vita.
Lappartamento perennemente al buio, lunica luce che ne
illumina le stanze approfitta degli spiragli difettosi delle tapparel-
le. Piatti sporchi nel lavello, vestiti sparsi sul pavimento, ragnate-
le pendenti dal soffitto.
Liz attraversa la penombra come un fantasma, senza forze si
trascina davanti allo specchio. Appoggia le mani sulla sua super-
ficie, scruta a lungo la figura riflessa.
Una volta eri bella... , bisbiglia con voce aliena, guardati
ora: una prugna secca.
Le mani scivolano lungo lo specchio, come se Liz non ne
sopportasse il peso.
Uno scatto di rabbia si impossessa della donna, che comincia
a schiaffeggiarsi, piena di rancore.
Stupida! Stupida!
La pelle del viso e delle mani diventa bollente, brucia come
linferno. Sfinita, Liz crolla a terra. I capelli sporchi le si appicci-
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cano sul viso, le lacrime salate ne infiammano le gote.
Inattesi e dolorosi, nella mente della donna irrompono i ricor-
di di un passato piacevole e lontano. Liz ripercorre passo dopo
passo la sua storia con Dan: il primo appuntamento, le lunghe
chiacchierate, le irrequiete farfalle nello stomaco che la facevano
sentire elettrizzata.
Un tiepido sorriso fa capolino sulle sue labbra, prima di essere
nuovamente distrutto dal peso della realt.
Ho perso tutto. Niente sar pi come prima. Niente.
Di colpo, la donna ferma il pianto.
Non si pu arrivare a tanto per qualcuno.
Liz non sa spiegarsi cosa sia cambiato cos di netto, eppure
percepisce una crescente determinazione dentro di s.
Basta. Ci devo pensare io a me stessa.
Si rialza a fatica e si dirige in cucina.
Dalla credenza estrae una scatola verde, la cui scritta rossa
ormai poco leggibile. Versa buona parte del contenuto in un bic-
chiere, quindi aggiunge lacqua.
Efficace contro insetti, farfalle, blatte e formiche, legge
letichetta prima di bere.
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Sono rimasto in coma abbastanza a lungo da scordarmi molte
delle abitudini del genere umano. Quando mi sono svegliato il
Presidente era diverso, la borsa in tracollo.
Anche la comunicazione era cambiata.
I Social Network possono condividere in tempo reale pensieri,
immagini, avvenimenti. Chiunque pu ricevere apprezzamenti,
chiunque pu sentirsi accettato.
Ora posso essere anche io uno come tanti. Non volevo pi es-
sere solo, volevo che tutti fossero miei amici, che mi volessero
bene e mi rispettassero.
Nessuno conosce il mio nome. Nessuno sa chi sono. Nessuno
sa dove mi trovo.
Tutto ci che conta questa stanza buia che protegge una vita
non pi degna di essere definita tale.
Lunica luce che illumina i miei giorni proviene dallo scher-
mo di un computer, un venti pollici di quelli costosi, che neppure
mi appartiene. Le onde luminose di questa macchina sono per me
preziosa linfa vitale.
In poche settimane, grazie ai miei video e alle mie foto sul
web, ho conquistato tutti. Mi amano, mi stimano, vanno in visibi-
lio per me; la mia seconda chance.
A ogni pubblicazione su Facebook e Twitter vengo sommerso
da centinaia di commenti che mi acclamano, che mi innalzano a
genio creativo. Agli utenti non interessa chi sei o cosa fai, basta
intrattenerli; se sei convincente, hai gi vinto.
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Appaio di rado nelle mie produzioni, se accade indosso ma-
schere in pelle pinzata che ho creato io stesso. Loro le adorano,
mi credono un vero appassionato del genere horror: Faccia di
Cuoio.
Loro, i miei fedeli complici: insieme affondiamo il coltello
nelle vittime, insieme ne straziamo le carni, insieme scegliamo i
pezzi di pelle con cui assemblare nuove maschere.
Siamo ununica, grande famiglia.
notte, ho del lavoro che mi attende: devo registrare il video
del luned, possibilmente prima che la bionda in salotto tiri le
cuoia. Se fosse gi morta a chi interesserebbe?
I mostri non esistono.
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Che razza didiota sono. Non ho pi cinque anni, si rim-
provera David.
Con coraggio estrae la chiave dalla tasca dei jeans e la inseri-
sce nella toppa, dove scivola fluida; al secondo giro la serratura
sbloccata. David appoggia incerto la mano sulla maniglia e fa per
tirarla, quando viene interrotto.
Ehil Dave, come butta? gli si avvicina Luke, linquilino
del terzo piano.
Oh, ciao, risponde tiepido luomo. La mano perde la pre-
sa e scivola via dalla maniglia.
Che combini?
Devo cercare dei vecchi attrezzi che mio padre port in can-
tina tempo fa e che ora mi servono.
David si fa pallido in volto, con la mano si asciuga la fronte.
Luke incrocia le braccia e lo osserva.
Se non ti conoscessi, giurerei che hai paura, insinua
lamico con malizia.
complicato, e anche assurdo... meglio che stia zitto.
Andiamo, non essere ridicolo, lo incoraggia Luke, ci co-
nosciamo da molto, non potrei mai pensare niente del genere.
Avevo cinque anni. Quella sera dovevano arrivare ospiti per
cena, mia madre scese in cantina per scegliere delle bottiglie di
vino, io andai con lei. Quando la porta si spalanc, provai una
certa angoscia; venni investito da una corrente daria fredda, in
netto contrasto con la calura estiva. Allora il corridoio era davve-
ro tetro, illuminato solo da una debole luce aranciata, simile a
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quelle dei cimiteri. Spaventato, mi attaccai a mia madre e la se-
guii fino alla nostra cantina. Per tutto il tempo ebbi la sensazione
che qualcuno mi stesse osservando. Quando arrivammo, accese la
luce, e con essa parte della mia paura svan. Lei si dedic al vino,
io rimasi sulla porta. Dun tratto, un alito gelido mi sfior la nuca
e, come ipnotizzato, mi misi a camminare nella sua direzione. Mi
ritrovai faccia a faccia con il buio pi nero; per quanto strizzassi
gli occhi, alla fine del corridoio sembrava non ci fosse che il nulla.
Per la miseria... lo interrompe Luke incredulo.
Mi addentrai nelloscurit e mi misi a piangere, qualcosa,
dei tentacoli, mi avevano stretto la gola. Arriv mia madre, che
mi prese e mi port fuori. Rimasi terrorizzato per giorni, ma lei
non fece che ripetermi che avevo immaginato tutto, che le paure
non devono essere alimentate, se no vincono loro.
Luke si strofina il mento con la mano, poi si rivolge di nuovo
a David quindi hai paura di entrare l dentro?
Gi. una situazione imbarazzante, fa laltro con occhi
bassi.
Dai, ti accompagno. Diamine, che sar mai, ognuno ha la
sua. Anchio, sai?
David abbozza un sorriso, si gira verso la porta e, inquieto,
abbassa la maniglia.
Il corridoio, dopo i lavori, meno angosciante, tuttavia
luomo riesce ancora ad avvertire lalone sinistro dei suoi ricordi.
Lumidit penetra le ossa, il silenzio di piombo, rotto dai passi
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che risvegliano piccole eco.
I due arrivano alla cantina di David, ma a lui non interessano
pi gli attrezzi: vuole scoprire cosa si cela in fondo, nel buio.
Laltro lo segue senza batter ciglio.
Giunti al termine del corridoio, Luke, sopraffatto dalla paura,
spinge con violenza lamico nelle tenebre, dove, raggiunto da
mille viscidi tentacoli, viene letteralmente divorato.
Ti sbagli, amico. Le paure vanno alimentate.
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La vita del vecchio Joe McIntyre agli sgoccioli.
Da tempo ormai costretto a letto: la grave malattia che lha
colpito non gli d pace, let avanzata fa il resto. Luomo non ha
parenti, n amici, la sua solitudine dettata da una scelta persona-
le e dalle azioni di una vita. In paese lo considerano tutti una per-
sona pericolosa, insensibile, sadica.
Le storie sul suo conto sono tanto vere quanto raccapriccianti:
in passato luomo ha raccolto numerosi orfani mendicanti e li ha
torturati con crudelt, per poi disperderne le tracce.
Joe McIntyre non mai stato punito per mancanza di prove,
ma ora sa che dovr rispondere una volta per tutte dei suoi crimi-
ni. Per questo ha pagato Greg Donovan, per convocare Noah, il
mangiapeccati della comunit.
Il vecchio sente bussare.
Entra, gracchia tossendo.
La porta dellangusta abitazione si spalanca; Greg Donovan si
fa avanti con Noah, si scrolla la pioggia di dosso e si avvicina a
Joe, disteso sul letto.
Ti ho portato il mangiapeccati, vecchio, annuncia rude.
I soldi sono sul tavolo, prendili e vattene, risponde odioso
luomo.
Greg prende il compenso, poi si rivolge di nuovo allanziano.
Potrai anche cancellare i tuoi peccati, ma sappiamo entram-
bi che Iddio conosce la verit.
Nessuno ti ha chiesto nulla, bifolco, rantola Joe, prendi
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quei dannati soldi e sparisci! comanda al limite delle sue forze.
Greg gli lancia uno sguardo dodio, sbatte la porta e scompare
sotto la pioggia battente della sera.
La fioca luce della lanterna illumina il volto rugoso di Joe e
quello pi giovane di Noah, sedutogli vicino.
Ci siamo, ansima a fatica il vecchio. Sul tavolo troverai
ci che ti serve.
Noah si volta, prende il cibo e lo sparge con cura sul petto di
McIntyre: una fetta di pane nero, bacche rinsecchite, un po di
formaggio. Appoggia accanto al letto anche il boccale di birra;
tutto pronto.
Joe McIntyre, stremato, chiude gli occhi.
Mangio questo cibo e bevo questa birra per concederti il ri-
poso, fratello. E per la tua pace, io dar in pegno la mia anima.
Amen, recita Noah.
Luomo procede, inghiotte il pane, il formaggio, le bacche, in-
fine beve in un sol sorso la birra.
Terminato il rito, luomo si alza e fa per andarsene; la testa
tuttavia gli gira cos forte da impedirglielo.
Con le mani alla gola, il mangiapeccati tossisce, cade a terra
in ginocchio, mentre i suoi occhi si bagnano di rosso e lo scuoto-
no violente convulsioni.
Certi peccati... certi peccati non si possono cancellare,
gorgoglia nel sangue.
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Durante le ore pi calde del pomeriggio sua nonna e i suoi
genitori si ritirano per riposare.
Josh, per, detesta dormire, preferisce esplorare la casa, ai
suoi occhi fonte di grandi misteri.
Quello che fra tutti lo attrae di pi il salone al piano inferio-
re, chiuso a chiave. Le finestre danno sul giardino, la luce del sole
non riesce ad attraversarle, sbarrate come sono dalle assi di legno.
Il bambino si chiede il perch di tanta protezione verso la
stanza, la nonna gli ha sempre proibito di metterci piede o di fare
domande in merito.
Spia e scova il nascondiglio della chiave e, trovata, varca in-
disturbato la soglia.
La camera gli si presenta austera, tetra, spettrale.
Un debole fascio di luce elude le assi, ma lambiente rimane
avvolto in una densa penombra. Cammina piano, quasi tema di
disturbare il sonno di qualcuno o qualcosa. Lo circondano specchi
antichi, divani in velluto, statuette di porcellana coperti da centi-
metri di polvere. Il ticchettio degli orologi sparpagliati su mobili
e mensole lo rende nervoso, una massiccia scrivania nera lo scru-
ta severa dal fondo della stanza.
Lattenzione di Josh catturata da una parete che si rivela es-
sere un sipario di velluto scuro.
Si avvicina, le mani gelide, il cuore a mille.
Quando scosta la pesante tenda si trova di fronte allennesimo
specchio. Deluso, indietreggia, scontrandosi con la nonna alle sue
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spalle.
Ti avevo ordinato di non ficcare il naso qui, ragazzino, si
arrabbia.
Scusa, mormora il bambino.
La nonna costringe il nipote a fissare nello specchio il riflesso
di entrambi, cos a lungo che a Josh sembrano ore intere.
La tua faccia... esclama commossa lanziana. Sapevo
che la mia pazienza... Oh, Jenny, Jenny cara, finalmente sei torna-
ta!
Josh guarda lo specchio confuso e spaventato, ma non vede
nessuna Jenny. La nonna gli stringe saldamente le spalle; a ogni
tentativo di divincolarsi la presa diventa pi forte.
Lasciami! urla.
La donna incrocia le braccia sul petto del bambino.
Dopo tutti questi anni sei di nuovo tra le braccia della
mamma, piccola mia. Non lascer pi che ci separino, mia adora-
ta Jenny.
Le sue mani si arrampicano delicate lungo il collo di Josh, fe-
roci lo imprigionano fino allultimo respiro.
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Lo sapevo quando lho incontrato, lo sapevo quando lho fre-
quentato, lo sapevo quando lho sposato. In poche parole, lho
sempre saputo. E la cosa non mi ha mai creato problemi.
Negli anni ho cercato di indirizzarlo sulla via del cibo sano,
della frutta e della verdura. Se vuoi mangiare fino a scoppiare,
almeno mangia cose buone, lo spronavo, ma lui niente.
Chuck ama le porcherie, soprattutto quelle dei fast food.
Non serve un genio per capire come nel giro di dieci anni ab-
bia raggiunto i duecentoventi chili.
Chuck fatica a muoversi, non pu guidare, non neppure in
grado di lavarsi, ormai sono la sua badante. Abbiamo anche tenta-
to la via chirurgica, ma, dopo lintervento, ha ripreso a ingozzarsi.
Ho paura che morir di fame, ha detto.
allora che ho perso la testa; sono andata in giardino, ho pre-
so la pala e con rabbia ho menato colpi qua e l: per terra, contro i
vasi, sul tavolo, ovunque.
La fame di Chuck fuori controllo, il cibo unossessione
costante che occupa ogni maledetto giorno della sua vita. Oggi
non sar diverso, eccomi in cucina a preparargli la colazione: frit-
telle al cioccolato, con sciroppo di cioccolato e cioccolato in sca-
glie.
Accendo la televisione per avere compagnia e mi accorgo su-
bito che qualcosa non va.
Tutte le emittenti trasmettono notiziari a raffica, lanciano
lallarme circa una misteriosa epidemia che si sta diffondendo in
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zona, rapida e letale. Proprio come nei film horror, hanno ordina-
to di barricarci in casa fino a nuovo ordine, per evitare ogni tipo
di contagio.
Sbatto le frittelle nel piatto e salgo a portarle a Chuck, come al
solito spalmato sul letto.
Chuck! urlo dalle scale, Chuck! Hai capito?
Cosa? Che succede, Alma? Ah, ecco le frittelle, mi fa in
tono sollevato.
Dicono che gira unepidemia, se pigli il virus muori subito.
Dobbiamo restare chiusi in casa.
Eh? Per quanto? Oddio, come faremo con la spesa?
Non hanno detto quanto durer. Abbiamo la cantina piena di
scorte, basteranno. Ringrazia i buoni sconto che mi permettono
una spesa degna del tuo appetito!
Sono passate tre settimane, la quarantena continua.
Non sopporto pi mio marito, costantemente in preda allansia
da cibo, vorrei ucciderlo, non scherzo.
Non ce la faccio pi, biascica Chuck dal divano, sudato
come un maiale.
Figurati io. E mi spiace, ma devo dirtelo: le provviste sono
finite, rimasta solo la frutta.
Come? Cosa? si anima di colpo. Agitato, Chuck esplode
Morir di fame! F qualcosa, Alma!
Cosa vuoi che faccia! sbotto esasperata. Ci aiuteranno,
dobbiamo solo aspettare.
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Lui mi getta unocchiataccia, poi torna a vedere un vecchio
film alla televisione.
Chuck dorme, finalmente posso riposare. Sono mesi che passo
le notti sul divano, nel letto ormai ci entra solo lui. Intontita dal
sonno, vedo nel buio una gigantesca ombra che incombe su di me.
Ho bisogno di mangiare... dammi da mangiare, stupida don-
na! minaccia Chuck infuriato, stringendo lattizzatoio. Non lho
mai visto cos.
Spaventata, decido di assecondarlo: vado in cucina, torno con
le ultime mele rimaste e gliele porgo. Non la frutta! grugnisce
rabbioso.
Terrorizzata, lascio cadere le mele e indietreggio; lui si lecca i
baffi e si avvicina, in procinto di sferrare il colpo.
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Non potevo pi pagare laffitto, mi ritrovai presto a vivere in
un motel sulla statale, fra scatole di fagioli e saponette da due
soldi. La cosa di cui non volevo privarmi per nessuna ragione al
mondo, oltre al lavoro perduto, erano le sigarette.
La notte, quando mi svegliavo di soprassalto, uscivo sul corri-
doio che dava sul parcheggio, appoggiavo lo sguardo sulla prima
auto che capitava e mi godevo il momento.
Eravamo io, la sigaretta e il silenzio notturno.
Raramente vedevo sfrecciare qualche macchina sulla statale,
altrettanto di rado incontravo altre persone. Alle prime boccate
non mi accorsi di nulla, poi notai qualcuno in lontananza.
Un ragazzino.
Sembrava avesse sui dieci, forse dodici anni. Incuriosito, lo
osservai mentre attraversava lento il parcheggio. Tremavo senza
motivo, cercavo nella sigaretta un antidoto alla mia paura.
Quando mi fu abbastanza vicino, lo squadrai. La pelle diafana,
i capelli scuri, i vestiti ordinati. A colpirmi furono i suoi occhi,
neri come il petrolio, due grandi gocce lucide e dense. La sigaret-
ta mi cadde di mano, non me ne resi neppure conto.
Per favore, aiutami, mi disse.
Chi sei? raccolsi a stento le parole.
Mi sono perso. Fammi entrare, ripet in tono intimidatorio.
Divorato dallangoscia, indietreggiavo. Quel bambino, i suoi
occhi neri, mi mettevano i brividi.
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35
Mi spiace, io non... non posso. Devo tornare dentro ora,
risposi di getto.
Avanzavo spedito verso la mia camera, continuando a voltar-
mi. Il ragazzino rimase dove lavevo lasciato, rigido e senza alcu-
na espressione.
Chiusa la porta, tirai un sospiro di sollievo; la televisione mi
rassicurava con il suo stupido chiacchiericcio.
Lasciai accesa la luce, mi stesi sul letto, abbassai le palpebre.
Le riaprii di colpo e il mio respiro si spezz: la faccia del ragaz-
zino era l, alla finestra.
Dopo poco, sentii bussare con insistenza.
Fammi entrare, per favore, incalzava la voce al di l della
porta.
Va via! urlai.
Lasciami entrare, ti prego.
Ficcai la testa sotto il cuscino, le mani sulle orecchie per non
sentire quello strazio.
Pensai di essermi immaginato tutto, finch non lo sentii di
nuovo avvicinarsi.
Per favore, fammi entrare, non ci vorr molto.
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37
Pronto, parlo con lo studio Nova Imago? Avrei bisogno di
voi. S, siamo io, mio figlio e mio marito. Settimana prossima?
Mi spiace, purtroppo non abbiamo tutto questo tempo. Come dice?
No, no, nessun problema, anzi sarebbe perfetto. Daccordo, a pi
tardi allora.
Lauren riattacca e il silenzio riempie nuovamente la stanza.
La donna scende le scale, raggiunge il marito che lattende sul
divano in sala. Lespressione delluomo distaccata, Lauren gli si
siede accanto.
Hanno detto che verranno oggi alle tre, annuncia con sod-
disfazione. Mi raccomando Dylan, non farmi sfigurare come
tuo solito, so che sai essere pi carino di cos lo esorta la moglie,
scostandogli un riccio ribelle dalla fronte.
Dylan tuttavia non si scompone, muto e immobile sotto lo
sguardo indagatore della moglie. Lei sorride melensa, poi si alza
di scatto Vado di sopra a controllare il nostro principino, torno
subito.
Nella stanza di Danny tutto tranquillo. Lauren osserva il
bimbo riposare quieto nel lettino, si china su di lui, gli muove ca-
rezze materne, piene di affetto e di tenerezza.
Dormi, angioletto della mamma. Oggi verranno dei signori,
ma non devi avere paura, ci sar io con te, nessuno ti toccher.
La donna viene interrotta dai rintocchi della pendola al piano
inferiore.
Caspita, gi luna, meglio sbrigarsi. Dobbiamo ancora far-
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38
ci il bagnetto, metterci il vestitino elegante, cercare un posto adat-
to... e non scordiamoci di pap!
Lauren preleva suo figlio dal lettino, lo lava con cura, lo veste
al meglio per levento.
Sono le due quando si accorge che anche lei dovrebbe siste-
marsi, truccarsi, indossare labito pi bello che possiede. Quando
finalmente pronta, prende in braccio Danny e torna dal marito.
Non sei ancora pronto? lo rimprovera piccata. Dylan non
reagisce. Perch per una volta non collabori? Perch vuoi sem-
pre distruggere le mie iniziative? Ti avevo solo chiesto... oh, la-
scia stare, ci penser io! si spazientisce.
Adagiato il figlio sul divano, la donna non fa in tempo a si-
stemare capelli e vestiti al marito che il suono del campanello la
fa sobbalzare.
Lauren sfoggia il migliore dei suoi sorrisi, accoglie con genti-
lezza Beth, Keith e Jess di Nova Imago; offre loro un caff,
scambiano due chiacchiere.
Allora, chiede impaziente Beth dove sono gli altri due
modelli?
Oh, sono gi pronti. Ci stanno aspettando di l. Prego, da
questa parte, li invita Lauren.
Keith e Jess trasportano in sala lattrezzatura per allestire il set
fotografico. Quando si trovano faccia a faccia con Dylan e Danny,
i loro volti restano visibilmente scossi. Li raggiunge Beth, ansiosa
di fare la conoscenza del bimbo; la sua espressione si unisce tut-
tavia a quella dei colleghi.
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Mio Dio! Chiamate la polizia! esclama allarmata.
La porta della sala sbatte violenta alle loro spalle; Lauren, mi-
nacciosa, avanza lentamente.
Vi ho pagati, pretendo professionalit, si altera la padrona
di casa, rendete il nostro amore eterno... scattateci una bella fo-
to.
La donna prende posto sul divano, accanto ai suoi cari. Li ab-
braccia, quindi estrae la lama di un rasoio dalla tasca del vestito.
Con gelida razionalit, segna un taglio netto su entrambi i polsi,
sotto gli occhi attoniti e inorriditi dei tre membri dellagenzia.
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41
Quel mattino ci colsero alla sprovvista, non potemmo evitarlo.
Numerosi, ci catturarono in massa nel sonno. Qualcuno doveva
aver detto loro dove trovarci, eravamo molto bravi a nasconderci,
impossibili da scovare altrimenti.
Alcuni di loro, i pi feroci, ci afferrarono come oggetti e ci fe-
rirono con armi taglienti, per puro divertimento. Non capivamo la
loro lingua, ma riconoscevamo il suono delle le loro risate.
Sentivo i miei compagni gemere e lamentarsi, io stesso non
riuscivo a trattenermi. Sapevo che non ci avrebbero ammazzati,
eravamo troppo preziosi.
Mi erano state raccontate molte storie su altri popoli costretti
a subire la nostra stessa sorte; quando le riportai ai miei compagni,
nessuno di noi diede loro la giusta rilevanza.
Sanguinanti e disorientati, ci stordirono a forza di colpi in te-
sta e ci caricarono tutti insieme su grossi carri, diretti verso una
destinazione a noi sconosciuta.
Venimmo trascinati in luoghi enormi e senza luce, prigioni
gigantesche da cui era impossibile fuggire. Terrorizzati e sotto
shock, ci guardavamo lun laltro in cerca di risposte, senza tutta-
via trovarle.
Ci rinchiusero in celle fredde, maleodoranti, cos buie che i
raggi del sole sembravano non essersi mai accorti che quel posto
esistesse. Nellaria i nostri pianti, le nostre grida strozzate. Era-
vamo cos ammassati da sembrare un unico, enorme cespuglio.
Attraversarono spediti il corridoio, erano in cinque; i loro pas-
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si pesanti ci incutevano terrore, a ogni vibrazione del pavimento,
una vibrazione del nostro cuore.
Aprirono la cella e cominciarono a prenderci, uno a uno. Pro-
vammo a difenderci con graffi e calci, del tutto inefficaci contro
le loro forti armature, a noi sconosciute. Ogni nostro tentativo ve-
niva sedato da scariche elettriche, che ci rendevano docili e man-
sueti.
Allaperto, fummo chiusi in recinti rinforzati, per assicurarsi
che non avremmo cercato di fuggire. Assistetti allinfausta sorte
di tutti i miei amici; io fui lultimo.
Paralizzato dalla paura, avvertivo i nervi del mio piccolo cor-
po irradiare scosse intense; langoscia si esprimeva in guaiti, stri-
duli e aspri, che si univano a quelli degli altri.
Loro, invece, restavano in silenzio, raramente parlavano.
Vidi i miei amici afferrati con brutalit per la coda, poi scara-
ventati a terra una, due, tre volte, fintanto che non fossero intonti-
ti. Non capivo perch non ci uccidessero e basta, non capivo per-
ch prima dovessero farci tutto questo, non capivo perch si
comportassero cos.
Svenuti e senza pi forze per opporsi, i miei compagni furono
infine appesi per la coda lungo sbarre metalliche dotate di mo-
struosi ganci. Le bocche vennero serrate da stretti lacci, per im-
pedire urla e morsi. Io, dal mio nascondiglio seguii la scena.
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Sfoderarono dalle loro cinture grossi coltelli dalle lame affila-
te, e cominciarono a incidere i primi tagli sui corpi. Osservai co-
me con quelle stesse lame sollevassero lembi della loro pelliccia,
per poi separarli dal corpo e tenerli da parte.
I miei amici erano ancora vivi: straziati, grondanti di sangue e
con le carni al vento. Poco a poco, leffetto dello stordimento si
indeboliva, riacquistavano coscienza e, come tarantolati, si con-
torcevano, vittime di quellatroce sevizia.
Poi, non tocc a me.
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La signora McCarthy ha sempre vietato a sua figlia sedicenne
Mary di uscire la sera per via del coprifuoco.
Mary stavolta disobbedisce, e con la complicit della sua ami-
ca Carly riesce a sgattaiolare dalla finestra. Ha aspettato questo
week end per settimane, non avrebbe mai potuto perdersi la festa
di Lucy al Disco Inferno.
Sfortunatamente, le cose non vanno come aveva sperato. Do-
po circa unora, annoiata dalla musica alta, dalla folla e dal caos,
Mary manifesta il desiderio di tornare a casa. Aspetta il momento
opportuno, ma quando chiede allamica di andare via con lei,
Carly non si dimostra ben disposta, rifiuta con convinzione. Mary
diventa tuttavia cos insistente, che laltra infine acconsente e
alluna abbandonano il locale.
Spaesate, Mary e Carly camminano per il centro della citt,
verso la fermata del bus; vivono quel mondo notturno a lungo ne-
gato con paura ed eccitazione al tempo stesso.
Cercano di darsi un contegno, ma la fermata ancora lontana
e i tacchi dolgono. Si appoggiano luna allaltra, si sfilano le d-
collet e procedono a piedi nudi sullasfalto.
Voglio andare a casa, si lamenta Mary.
Ci stiamo andando, risponde ruvida Carly. tutta colpa
tua!
Cosa? Ma che dici?
Perch sei voluta andare via cos presto? Se fossimo rimaste,
qualcuno ci avrebbe sicuramente accompagnate in macchina.
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Preferisco andarmene da sola, quando lo decido io, anzich
annoiarmi e aspettare uno di quegli sfigati che piacciono a te,
ribatte sprezzante Mary.
Come hai detto, scusa? Senti chi parla!
In un attimo le ragazze si ritrovano a litigare animatamente.
Il suono di una sirena, drammatico e straziante, le interrompe
brusco; ne seguono altri a catena, non meno potenti e angoscianti
del primo. Mary e Carly, distinto, chiudono gli occhi e si portano
le mani alle orecchie, nel tentativo di proteggersi.
Il rumore cresce, cos penetrante e insostenibile da costringer-
le al suolo.
Quando riaprono gli occhi lo scenario cambiato: il cielo
cremisi, la citt ridotta in macerie, le luci spente per sempre. Il
pavimento crepa, le crepe si allargano, si spalancano e, voraci,
inghiottono tutto ci che incontrano. Lasfalto, incandescente,
minaccia i piedi nudi delle ragazze.
Mary e Carly, in preda al panico, scappano, si rifugiano in
quello che resta di un negozio di musica. A tentoni, cercano lun-
go il muro linterruttore della luce, lo schiacciano. Parte una mu-
sica assordante, al punto da spingerle di nuovo per strada.
Lo sapeva! urla disperata Mary, La mamma lo sapeva!
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Mi chiamo Kristine, ho quarantanni e da cinque ho dimenti-
cato di che colore il mondo l fuori.
In fondo, non me ne importa poi molto. Tutto ci che mi
manca sono i miei figli.
Il giorno in cui Michael entr nella mia vita fu al centro
commerciale. Prima di allora credevo che la felicit risiedesse in
un buon lavoro, in una bella casa, in un paio di scarpe nuove. Alla
mia vita, per, mancava qualcosa di significativo, qualcosa che la
completasse.
Non avevo cercato Michael a tutti i costi, come capita a molti,
successe tutto per caso. Non sapevo se sarei stata un bravo geni-
tore, sapevo solo che quella creatura cos fragile e delicata meri-
tava tutto il mio amore.
Di giorno rimanevo sola con lui mentre lavoravo, avevo molte
responsabilit, ma almeno non rincasavo tardi. Ogni ora della mia
giornata ruotava intorno a Michael: non muovevo un passo senza
tenerlo in braccio, gli scattavo foto di continuo, mi assicuravo che
tutto fosse perfetto.
Che lui fosse perfetto.
Non sono una madre eccessiva, vero piccolo mio? chiesi a
Michael una sera, come se potesse rispondermi.
Quella mattina lo portai fuori per una passeggiata al centro
commerciale, un po daria fresca gli avrebbe fatto bene.
Avevo promesso a me stessa che dopo Michael avrei ampliato
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49
la mia famiglia, che gli avrei regalato un fratellino o una sorellina.
Loccasione tanto attesa si present.
Mi allontanai in tutta fretta dal centro commerciale stringendo
Robin, il mio secondogenito.
Da quando lavevo portato a casa, Robin non faceva che pian-
gere e strillare. Le mie orecchie chiedevano piet, il panico mi
cresceva dentro.
Esasperata, ispezionai il suo corpicino in cerca di qualche pul-
sante, ma non trovai nulla di nulla.
Basta!, scoppiai in lacrime isteriche. Basta, ti prego, ba-
sta! Stai zitto, spegniti! gridai.
Esaurita, distinto presi Robin e lo scaraventai violentemente
per terra. Il pianto, finalmente, cess.
Mi precipitai da Michael, lo presi in braccio, lo coccolai.
Hai visto che ha combinato tuo fratello? Era difettoso, adesso
rotto. Cattivo Robin, cattivo! Ma tu sei tanto buono, vero? S che
lo sei, s, s.
Allimprovviso, il suono del campanello.
Signora Kinsey? Siamo della polizia, apra, comand la
voce al di l della porta.
Girai la chiave nella serratura, slacciai la catenella e aprii.
C qualche problema, agente? domandai intimorita.
Abbiamo ricevuto una telefonata dalla sua vicina, preoc-
cupata per i continui pianti di un neonato. Possiamo dare
unocchiata?
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Frastornata acconsentii.
Deve esserci un equivoco agente, non si tratta di neonati, ma
di bambole iperrealistiche, aggiunsi.
Bambole?
Certo. Le tratto come figli, ma restano sempre bambole.
Prego, controllate pure.
Perplessi, i due poliziotti perquisirono la casa. In soggiorno
trovarono Michael e Robin. Si guardarono lun laltro visibilmen-
te scossi, lenti portarono le mani alle rispettive fondine.
Kristine Kinsey, la dichiaro in arresto. Jrgen, ammanettala,
ordin severo.
Mi chiamo Kristine, ho quarantanni, da cinque non ricordo
pi i colori del mondo l fuori.
Potrei ancora averne, non sono cos vecchia.
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52
In un tempo e in un luogo ormai dimenticati, vivevano due so-
relle di nome Vita e Morte.
Avevano perso i genitori in tenera et, in circostanze misterio-
se, tanto che alcune malelingue ritenevano che le due bambine ne
fossero responsabili.
Vita e Morte crebbero da sole, isolate, svilupparono un lega-
me cos stretto da non permettere a nessuno di avvicinarsi.
Dopo anni di indifferenza, gli abitanti del posto cominciarono
a coltivare una certa morbosit nei loro confronti: volevano asso-
lutamente conoscerle.
Una mattina, Vita e Morte passeggiavano accanto al lavatoio
nella piazza del paese. Quando le lavandaie notarono le due sorel-
le, anzich bisbigliare maligne, le invitarono a parlare con loro.
Buongiorno belle signorine, che sorpresa vedervi da queste
parti, disse una di loro.
Vita e Morte si guardarono titubanti.
Buongiorno a voi signore, come state? replic entusiasta
Vita.
Le donne si intrattennero a lungo con la ragazza, sotto gli oc-
chi sorpresi di tutti.
Lungo la via del ritorno, Morte riprese severa la sorella Non
avresti dovuto farlo. Non possiamo permettere che la gente si av-
vicini a noi.
Sorella, sei troppo rigida. In fondo che male c? disse Vi-
ta.
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53
Laltra le lanci un duro sguardo di rimprovero.
Morte restava sempre a casa, Vita andava in paese ogni giorno:
le piaceva parlare con le persone, si sentiva bene. Lidillio, tutta-
via, non dur a lungo.
Presto le donne del paese non ebbero pi voglia di uscire, ri-
manevano giornate intere al buio, tra le loro quattro mura. Le po-
che che si vedevano ancora in giro erano spente, stanche, quasi
sempre sul punto di piangere o in lacrime. Non si curavano pi
delle loro famiglie, n delle case. Nascondevano i volti deformati
dal pianto e dal dolore dietro mani sanguinanti e piene di graffi.
La sofferenza si diffuse come un miasma, presto ne caddero
vittima anche uomini e bambini.
Vita non trov pi nessuno disposto a parlare con lei. Affranta,
si confid con la sorella.
Cosa ti turba? chiese Morte.
La gente come impazzita, non fa che piangere. Nessuno
mi rivolge pi la parola.
Morte strinse i pugni, poi sbott Te lavevo detto, stupida!
Non avresti dovuto darle confidenza!
Ma a loro piaceva! Tu sei solo gelosa, perch la gente ama
me e non te! grid disperata Vita.
Sbagli sorella, rispose placida laltra. Ora necessario
che vada, e si incammin.
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Giunta in paese, la ragazza si accorse di quanto la situazione
fosse tragica: le strade deserte, i negozi abbandonati, le scuole de-
solate. Erano tutti chiusi in casa, prede dello sconforto.
Morte si aggir per le vie in cerca di corde, coltelli, rasoi, ve-
leni. Li raccolse e li ripart in diverse ceste che deposit su da-
vanzali e portici.
Il dolore di tutti cess dopo poche ore.
Quando Morte rincas, sfinita, si appoggi alla porta, e si ri-
volse a Vita.
Perch di tutte le storie che racconti io sono lunica verit
che ometti?