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1 COUNSELING PER GLI OPERATORI COUNSELING PER GLI OPERATORI COUNSELING PER GLI OPERATORI COUNSELING PER GLI OPERATORI DELLA SALUTE DELLA SALUTE DELLA SALUTE DELLA SALUTE LUGLIO 2010

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COUNSELING PER GLI OPERATORICOUNSELING PER GLI OPERATORICOUNSELING PER GLI OPERATORICOUNSELING PER GLI OPERATORI

DELLA SALUTEDELLA SALUTEDELLA SALUTEDELLA SALUTE

LUGLIO 2010

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Api Torino, nata nel 1949, rappresenta la cultura e la creatività imprenditoriale di una delle

più importanti aree industriali italiane.

E’ il punto di riferimento per le circa 3.200 piccole e medie imprese associate, alle quali fa

capo una forza lavoro di oltre 65.000 addetti.

Fra i compiti dell’Associazione, il patrocinio unitario nei confronti delle organizzazioni

sindacali dei lavoratori, e l’assistenza in campo sindacale, tributario, tecnologico,

ambientale e commerciale.

A questo, l’Associazione aggiunge azioni di rappresentanza presso Enti e Istituzioni locali,

essendo interlocutore attivo a tutti i livelli sulle grandi questioni che riguardano il Territorio,

il suo sviluppo e il benessere nel futuro dei suoi abitanti.

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Api Formazione S.c.r.l. è un ente di formazione senza scopo di lucro costituito da oltre

1100 imprese, in maggioranza industriale e associate all’API.

Dal 1992 Api Formazione svolge la propria attività con l’obiettivo di sviluppare le iniziative

in materia di formazione destinate allo sviluppo tecnologico ed organizzativo delle piccole

e medie imprese del territorio, in particolare inerenti lo sviluppo delle nuove tecnologie e

dell’informatizzazione.

Api Formazione opera in collaborazione e sinergia con i servizi di API Torino.

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La Camera di Commercio di Torino è il punto di riferimento per le oltre 200.000 attività

imprenditoriali presenti sul territorio provinciale, e si pone come interlocutore privilegiato

per le aziende non soltanto per facilitare il disbrigo delle pratiche amministrative, ma anche

per proporre diversi servizi e iniziative, orientate alla valorizzazione e alla tutela degli

interessi generali dell'economia.

L’ente camerale è al fianco degli imprenditori anche con servizi promozionali, che

assistono l’impresa fin dalla sua costituzione, supportandone la nascita, seguendone lo

sviluppo, raccogliendo e soddisfacendo le sue esigenze più importanti.

La Camera di Commercio rappresenta, inoltre, un interlocutore di rilievo nel dialogo fra le

componenti economiche operanti sul territorio.

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SOMMARIO

1. Introduzione ..................................... ............................................................................6

2. Il ricovero in casa di riposo .................... ....................................................................7

2.1. Premessa.................................................................................................................7

2.2. Il supporto per gli operatori ......................................................................................8

2.2.1. Il lavoro in équipe...............................................................................................9

2.2.2. La rete intorno all’anziano................................................................................10

2.3. Contrastare il burnout ............................................................................................11

2.4. Il pregiudizio contro gli anziani ...............................................................................13

3. Il Progetto: descrizione e metodologia ........... .........................................................15

3.1. Obiettivi del Progetto..............................................................................................17

3.2. Le fasi del Progetto ................................................................................................17

3.2.1. FASE 1 – Analisi dello scenario .......................................................................18

3.2.2. FASE 2 – Definizione del modello di intervento ...............................................18

3.2.3. FASE 3-4 – Sperimentazione del servizio e reporting......................................19

4. Il counseling sanitario: pratica interdisciplinar e di prevenzione e sostegno.......22

4.1 Premessa...............................................................................................................22

4.2 Fase 1: la survey preliminare e gli strumenti di analisi...........................................22

4.3 Fase 2: l’analisi della domanda..............................................................................27

4.3.1 Alcuni dati sulla casa di riposo coinvolta nella sperimentazione ............................29

4.4 Fase 3: pianificazione dell’intervento .....................................................................30

4.5 Fase 4: L’intervento: condivisione degli obiettivi della consulenza.........................30

4.5.1 L’intervento: definizione degli obiettivi di miglioramento ........................................31

4.6 Fase 6: L’intervento: contenuti, metodologia e strumenti.......................................32

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1. Introduzione

Gli attuali indirizzi legislativi e gestionali sottolineano la necessità di revisioni relative alla

ristrutturazione e alla riorganizzazione del lavoro all’interno del settore della Sanità. Gli

obiettivi “qualità” ed “umanizzazione “ dei servizi sanitari divengono, infatti, centrali nel

processo di cambiamento della cultura di questi ultimi, che devono risultare orientati

all’utente in quanto committente degli interventi e produttore-consumatore di prestazioni.

Emerge con forza il bisogno di implementare strutture organizzate professionali in cui

l’utente venga accolto nella totalità dei suoi bisogni e soddisfatto con prestazioni di qualità,

in un clima empatico centrato sulla relazione e su una comunicazione il più possibile

simmetrica. A tal fine al sistema di management medesimo viene richiesto un

ampliamento delle loro abilità di gestione e di valorizzazione delle risorse umane in modo

da favorire il rapporto con l’utente e la personalizzazione dei servizi offerti.

I recenti studi sull’impatto dei trattamenti terapeutici sulla qualità della vita del paziente

hanno portato al passaggio da un approccio riparativo, centrato sulla malattia, ad uno

centrato più sulla persona, ossia “dal semplice curare al ben più impegnativo prendersi

cura”. Proprio nell’ottica di tale passaggio non si può prescindere da un’adeguata attività di

counseling rivolta ai professionisti della salute affinché vengano salvaguardati taluni

presupposti fondamentali alla base di un sistema socio-sanitario efficace ed efficiente:

- il diritto dell’utente di ricevere un servizio nel rispetto globale della persona e quindi

delle sue esigenze;

- il diritto del cittadino all’informazione nell’ambito di una relazione in cui sono pregnanti

le risonanze psicologiche;

- l’attenzione e la cura agli aspetti psicologici soprattutto nel caso di pazienti con

particolari patologie.

Il counseling in ambito sanitario, promosso all’interno della presente sperimentazione,

persegue due macro-obiettivi fondamentali: quello del sostegno emotivo per gli operatori

socio-sanitari, al fine di favorire l’incontro tra i vari professionisti, agevolandone la

cooperazione e lo scambio; e quello della prevenzione di situazioni di stress e di

potenziale burn-out, lavorando sul piano della comunicazione interna e della relazione coi

pazienti.

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2. Il ricovero in casa di riposo

2.1. Premessa

Tra l’operatore ed un anziano inserito in casa di riposo o la relativa famiglia, si possono

presentare problemi di natura emotiva piuttosto intensi ed intricati. L’inserimento di un

congiunto in casa di riposo può generare nella famiglia sensi di colpa, rabbia e

risentimento. Dal canto suo l’anziano può percepire una forte sensazione di impotenza, di

abbandono e di rifiuto. Le emozioni che pertanto possono innescarsi nell’operatore sono

caratterizzate da una marcata connotazione di controtransfert: purtroppo anche se tale

aspetto tende ad essere sottovalutato, è invece spesso all’origine di interventi

professionali poco efficaci ed attenti ai bisogni sia delle famiglie sia degli anziani ricoverati.

Non si devono infatti sottovalutare i meccanismi di controtransfert provati dagli operatori e

legati all’invecchiamento, alla disabilità, all’abbandono e al senso di colpa e che

impediscono agli utenti di godere della socializzazione e delle cure fisiche di cui avrebbero

bisogno e alle famiglie di ottenere un po’ di sollievo dal loro carico assistenziale. Non è

infrequente assistere a dinamiche dove l’operatore viene vissuto dall’anziano o si

percepisce egli stesso come un “sostituto” di un familiare; talvolta addirittura si cala o

viene calato nei panni del cosiddetto “figlio buono”, che si oppone al ricovero definitivo

dell’utente in casa di riposo e che insiste coi familiari affinché questi continuino a prendersi

cura dell’anziano congiunto.

Non è raro dunque a fronte di simili dinamiche che si verifichino negli operatori

meccanismi di burn-out, spesso causa dell’incapacità da parte degli operatori di erogare

una consulenza efficace: da qui la decisione presso molte strutture assistenziali di stabilire

momenti di “ritiro” per l’équipe dove potersi momentaneamente staccare dal lavoro e

riconoscere i successi ottenuti a favore degli utenti. Ciò mitiga gli effetti sugli operatori del

senso di compressione a fronte, da una parte, delle illusorie aspettative degli utenti e della

limitatezza di fondi e di personale presenti nelle case di riposo e, dall’altra, del desiderio

degli operatori medesimi di poter fare “tutto per tutti in ogni momento”. Il lavoro di presa di

coscienza si di sé consente agli operatori di limitare gli effetti delle eccessive

responsabilità che gli operatori si pongono rispetto ad obiettivi troppo ambiziosi,

riscoprendo la qualità del loro lavoro ed il livello di soddisfazione personale ad esso

associato.

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2.2. Il supporto per gli operatori

Chi svolge attività di cura per le persone anziane è esposto quotidianamente a

considerevoli carichi di stress. Gli anziani con cui gli operatori sociali hanno a che fare

sono afflitti da specifici problemi: sono più facilmente persone dipendenti, a causa di

patologie fisiche o mentali, o comunque persone con particolari problemi di risorse, di

potenzialità e di comportamento. Si tratta di problemi caratterizzati da una notevole

complessità. A ciò si deve aggiungere che spesso gli anziani con cui si rapportano

possono non avere parenti prossimi cui fare riferimento. Tutte queste condizioni creano un

forte senso di impotenza negli operatori dovuto alla limitata capacità di poterli aiutare.

Un’ulteriore fonte di stress per chi lavora con gli anziani è il condividere ogni giorno con

loro l’inevitabilità della morte: molti degli anziani ricoverati sono moribondi o sono destinati

a morire entro pochi anni. Mantenere un approccio ottimistico nel lavoro sociale con gli

anziani può dunque risultare difficile e non tanto per l’atteggiamento espresso dagli

anziani, spesso anzi improntato all’ottimismo nonostante il loro futuro possa essere

limitato. Gli operatori che lavorano con gli anziani devono possedere un adeguato livello di

autoconsapevolezza al fine di monitorare il loro stato emotivo e di comprendere quanto

spesso possano essere loro i primi ad aver bisogno di sostegno ed incoraggiamento.

Inoltre dovrebbe essere molto più diffusa la pratica di utilizzare le abilità professionali di

“aiuto” per sostenere gli altri colleghi: di fatto capita spesso che gli operatori siano in grado

di prendersi cura dei loro utenti mentre vivano rapporti poco confortanti coi rispettivi

collaboratori.

La necessità di erogare supervisione agli operatori si impone pertanto come azione valida

ed insostituibile da fornire a tutti i professionisti che svolgono attività di assistenza. La

supervisione, che trae le sue origini dalla tecnica psicoterapeutica, viene applicata in

diversi enti di lavoro sociale: consiste in uno “strumento” flessibile che assicura

all’eventuale collega in difficoltà sostegno, momenti per riflettere, condivisione delle

responsabilità nella gestione del lavoro e degli interventi con gli anziani, monitoraggio. Il

tutto misurato alle esigenze ed ai bisogni avanzati dal collega che avverte disagio e

difficoltà nel proseguire il suo lavoro. Gli spazi dedicati alla supervisione consentono di

rielaborare e di discutere con l’altro i vissuti provati durante il lavoro o le situazioni che si

sono rivelate più difficilmente gestibili. E’ impensabile immaginare elevate prestazioni

professionali nell'ambito dell'assistenza e della cura senza che ci sia la possibilità di poter

usufruire di un simile supporto. La supervisione tuttavia non deve essere un intervento

estemporaneo e fornito dalla dirigenza solo nei casi di assoluta necessità o criticità ma

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deve rappresentare una scadenza predefinita almeno quindicinalmente, in modo da

consentire il monitoraggio sia degli interventi routinari sia di quelli particolarmente

complessi e impegnativi. Il fatto stesso di tradurre in parole ciò che viene fatto durante la

supervisione permette all’operatore di riorganizzare l’esperienza vissuta e di procedere nel

lavoro con maggiore intenzionalità ed interesse.

Se la supervisione è voluta dalla Direzione, l’obiettivo raggiunto è duplice dato che in tal

modo è possibile anche per il superiore controllare l’operato di tutta la sua équipe. In

alcuni casi invece la supervisione è a “turno”: ciascun membro dell’équipe diventa cioè a

turno supervisore del gruppo potendo così confrontarsi con gli altri colleghi nel modo di

affrontare ed interpretare le situazioni.

Un altro modo di intendere la supervisione è quella costituita da gruppi di colleghi che si

incontrano in maniera informale, come nel caso delle discussioni sui casi nel dopopranzo,

o formale, come per i gruppi centrati sul compito o sulla verifica e discussione dei vari

interventi sugli utenti. Tali incontri di gruppo costituiscono un tempo dedicato alla

compartecipazione delle esperienze e per riflettere sulla pratica. La costituzione dei gruppi

di supervisione non è per nulla semplice: le modalità per organizzarli possono essere

sostanzialmente due. Nel primo caso sono gruppi costituiti da membri di servizi diversi,

con la relativa difficoltà per i partecipanti di imparare a conoscersi e a conoscere il relativo

contesto di appartenenza; nel secondo caso invece i membri provengono tutti dal

medesimo servizio, con la resistenza di alcuni partecipanti a parlare liberamente di sé di

fronte agli altri colleghi. Ma la reale difficoltà che si presenta dal punta di vista

organizzativo è la quantità di tempo che le riunioni richiedono: tale problema è in parte

superato qualora gli operatori lavorino in équipe. Non può in effetti esserci un équipe

funzionale se non è chiara a tutti i membri l’importanza di confrontarsi sulle esperienze in

corso: le riunioni finalizzate alla discussione dei casi dovrebbero cioè già far parte delle

normali attività previste dal lavoro di équipe.

2.2.1. Il lavoro in équipe

Spesso il termine équipe nel lavoro sociale viene abusato : esso in genere indica un

gruppo di persone che lavora assieme e che si riunisce a cadenza periodica per discutere

gli interventi svolti sino a quel momento sugli utenti. In genere con tale termine si tende ad

indicare anche un gruppo in cui vi è un’elevata qualità di interazione. Nella realtà operativa

dei servizi tuttavia il lavoro di équipe tende a presentare elementi degenerativi che si

discostano ampiamente dal significato originario del termine.

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Innanzitutto è pressoché impossibile riferirsi ad un’équipe quando vi è un marcato turnover

del personale: infatti le risorse entranti costringono il gruppo a continui adattamenti.

L’équipe per diventare effettiva e sviluppare tutte le sue potenzialità richiede tempi

opportuni: in alcuni casi la direzione organizza momenti di gruppo lontani dal contesto di

lavoro durante i quali l’équipe si impegna intensamente in sessioni che hanno l’obiettivo di

velocizzare lo strutturarsi delle dinamiche del gruppo ed il far emergere aspetti che nella

pratica quotidiana rimangono in ombra o scarsamente esplicitati. Alcuni operatori creano

poi spontaneamente “miniteam” in grado di aiutarsi l’un l’altro, pur avendo in tal modo uno

scarso impatto sull’insieme degli operatori del servizio. In effetti perché un’équipe sia

efficace deve basarsi sulla spinta di almeno alcuni suoi membri, includendovi se possibile

la risorsa che esercita un’adeguata influenza su tutti gli altri colleghi.

In alcuni casi invece non è fattibile creare un’équipe vera e propria. I membri che la

caratterizzano, infatti, pur essendo gratificati dal lavorare insieme, non riescono a

condividere la medesima politica o filosofia rispetto al lavoro: per questi gruppi gli incontri

risultano utili al fine di migliorare il senso di coesione tra i membri e di facilitare lo scambio

su questioni e punti di vista differenti.

2.2.2. La rete intorno all’anziano

Anche la rete di persone che assistono l’anziano, oltre agli operatori sociali, tra cui

appunto parenti, vicini, conoscenti patisce le medesime tensioni dei professionisti

qualificati, con la sola ma fondamentale differenza che quest’ultima è spesso poco

abituata a gestire dinamiche di carattere psicologico invalidanti e alla base di forti

resistenze. La natura, l’estensione e la complessità di alcuni problemi, come del resto la

costante presenza del concetto della morte, minano emotivamente le persone comuni

esattamente come gli operatori addetti all’assistenza in modo anzi ancor più intenso e

marcato. Vi sono poi eccezionali tensioni che insorgono quando l’anziano è colpito da

malattie fisiche o mentali prolungate nel tempo: se gli operatori sociali hanno trovato

modalità di sostegno reciproco e anche gli infermieri ed il personale medico si stanno

muovendo nella medesima direzione, non si può dire lo stesso per i parenti che

rimangono, invece, esposti a stress continui senza poter contare su appoggi di tipo

psicologico né tantomeno su alcuna rete di condivisione del problema.

Lo stress pertanto subito dai parenti è decisamente meno conosciuto ed indagato rispetto

al disagio avvertito dagli operatori. La prima area che è importante analizzare nel caso di

parenti che assistono l’anziano è relativa al tipo di bisogno di cui si fanno portavoce:

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troppo spesso capita che si inneschino meccanismi psicologici intricati in cui è complicato

rinvenire il tema centrale: rabbia, risentimento, sensi di colpa invadono lo spazio emotivo

dei parenti impedendo loro di fornire una sana ed adeguata assistenza. Anzi proprio

l’intensità di tali sentimenti è spesso alla base della decisione da parte dei parenti di

ricoverare l’anziano, senza per questo migliorare le loro condizioni emotive ma anzi

peggiorandole e in alcuni casi incancrenendole. Lo stress vissuto viene poi dai familiari

trasferito e proiettato sugli operatori: non è raro infatti che il disagio e la sofferenza dei

parenti vengano elaborati da quest’ultimi adottando strategie di critica continua

dell’operato degli assistenti professionisti e rendendo ancor più amaramente

insopportabile il peso del loro lavoro. La sensazione prevalente tra i parenti dell’assistito è

quella di collera: per le condizioni igieniche in cui viene talvolta lasciato l’assistito, per

l’ingratitudine e per le richieste irrazionali avanzate dall’anziano e per il forte senso di

responsabilità di cui si fanno carico.

Di certo anche nel caso dei parenti l’intervento più efficace consiste nell’opportunità di

tradurre in parole i sentimenti di ambivalenza che vengono sperimentati: non è semplice

accettare l’idea di provare sentimenti di collera, rabbia e repulsione verso anziani deboli e

dipendenti. Il fatto stesso di poter comunicare le sensazioni di cui sopra rende talvolta più

tollerabile l’angoscia di molte delle persone che assistono gli anziani.

Un altro valido sostegno emotivo può derivare dai gruppi di autoaiuto dove gruppi di

parenti che vivono situazioni simili si incontrano periodicamente ed esprimono liberamente

i loro vissuti: tali spazi di condivisione consentono ai partecipanti di verificare quanto siano

diffusi i sentimenti di ambivalenza nei confronti dei parenti anziani e di mitigare pertanto

l’imperante senso di colpa.

2.3. Contrastare il burnout

Gli operatori che si occupano di assistenza condividono con gli anziani ricoverati tempi e

intimità maggiori rispetto ad altri operatori. Tali figure oggi quindi sono uscite dal loro ruolo

subalterno per porsi in rilievo con le loro competenze personali a fianco di tutti gli altri

operatori della salute. Molti ne hanno sottolineato il rapporto privilegiato e di relazione

quotidiana col malato mettendone in luce alcune funzioni tra cui quelle di contenimento, di

ascolto e di reverie.

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Con il termine contenimento si intende la capacità dell’operatore di comprendere e

ascoltare l’anziano nella sua totalità con un approccio umanizzante in grado di accogliere il

suo dolore e la sua sofferenza.

L’ascolto indica invece la capacità di osservare e di esprimersi sospendendo qualsiasi

azione che vada dal sentire la necessità di colmare vuoti e silenzi al bisogno di dover dire

e fare qualcosa a tutti i costi.

Infine per reverie si indica la capacità dell’operatore di riconoscere i bisogni del paziente in

sintonia con quanto quest’ultimo comunica attraverso i gesti e le parole.

L’operatore è più di un semplice esecutore: egli tocca il corpo e la psiche del malato e tale

contatto è salvaguardato da un rapporto estremamente professionale mediato da un

rapporto affettivo intenso.

Il termine “sindrome del burnout” fu utilizzato per la prima volta da Maslach per definire gli

atteggiamenti di nervosismo, irrequietezza, apatia, isolamento, negativismo e indifferenza

di molti operatori sanitari nei confronti del loro lavoro e dei pazienti, in seguito ad un

eccessivo accumulo di stress. Nel burnout la vocazione alla professione dell’operatore si

deforma e le medesime attività vengono viste dall’operatore steso come un semplice

lavoro dove si registra una progressiva perdita di entusiasmo e di interesse e dove

prendono il sopravvento sensazioni di tensione e di ansia.

Ad oggi il dibattito scientifico intorno alla definizione di burnout non è ancora del tutto

risolto anche se c’è un sostanziale accordo sul modello della Maslach. Quest’ultima in

particolare definisce il burnout come una sindrome psicologica di tipo multidimensionale

caratterizzata da alcuni fattori: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e scarsa

realizzazione personale.

La sensazione di esaurimento emotivo implica il sentirsi emotivamente prosciugati nelle

risorse fisiche ed emotive. L’operatore in burnout si sente svuotato, senza possibilità di

ricaricarsi e senza sufficienti energie per affrontare una nuova giornata di lavoro.

Con il termine depersonalizzazione invece ad un eccesso di distacco e di negatività da

parte dell’operatore verso gli utenti. Talvolta tale atteggiamento sfocia nella

disumanizzazione della relazione col paziente o nel più marcato cinismo.

Con la scarsa realizzazione personale si indica infine la diminuzione del senso di

competenza e di produttività al lavoro. Tale sensazione può essere incrementata

dall’assenza di opportunità di sviluppo e dalla carenza di sostegno sociale.

Come illustreremo più avanti nel presente manuale, durante il progetto è stato

somministrato a gruppi di operatori assistenziali il questionario di valutazione del burnout

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ideato appunto dalla Maslach e che si focalizza proprio sull’analisi delle variabili di cui

sopra.

Altrettanto importante è individuare ile determinanti delle situazioni di burnout negli

operatori. Sembra che alla base vi siano molti fattori istituzionali ed organizzativi.

Importante pare ad esempio essere il carico di lavoro, la sua organizzazione e

distribuzione tra le varie figure professionali e la presenza di richieste tra loro incompatibili.

Può risultare problematico anche un ruolo lavorativo non chiaramente definito in quanto

genera ambiguità rispetto alle responsabilità personali ed agli obiettivi da perseguire.

Altro fattore capace di influenzare il benessere psicologico degli operatori è la

distribuzione del potere all’interno dell’organizzazione: il grado di autonomia ed il livello di

coinvolgimento nelle decisioni di tipo organizzativo sono strettamente connessi allo stress

lavorativo.

Da ultimo la specifica struttura normativa, le norme implicite e la cultura organizzativa

prevalente, se condivise e definite tra i membri dello staff, permettono di ridurre le

probabilità che si verifichino fenomeni di stress lavorativo tra le risorse. Particolare

rilevanza assume anche il tipo di relazione tra i lavoratori e coloro che hanno

responsabilità dirigenziale: in effetti il sostegno emotivo da parte di superiori e cooleghi si

accompagna a più bassi livelli di burnout.

E’ ovvio che le conseguenze della sindrome si avvertono sia sul piano della salute degli

operatori (con fenomeni di rabbia, irritabilità, abuso di psicofarmaci e di alcol) sia sul piano

della prestazione lavorativa che la comparsa delle dimensioni di cui si è fatto cenno più

sopra.

Risulta pertanto essenziale in quelle professioni fortemente esposte al rischio di burnout

monitorare il livello di stress presente tra gli operatori onde evitare il cronicizzarsi di

situazioni di disagio e sofferenza fisica ed emotiva.

2.4. Il pregiudizio contro gli anziani

Il pregiudizio contro gli anziani è davvero molto diffuso nella società. Gli stessi operatori ne

sono sia vittime sia in parte una delle cause scatenanti: da una parte, ne sono responsabili

per il basso livello di prestazione fornito agli anziani; dall’altra ne sono vittime poiché sono

considerati professionisti di minor importanza da parte delle organizzazioni stesse.

Sarebbe auspicabile elevare il livello di autoconsapevolezza degli operatori rispetto a tale

atteggiamento dispregiativo. Il pregiudizio in esame comporta in sé una sorta di paradosso

dato che la condizione della vecchiaia sarà esperienza di tutti. Tuttavia, nonostante la

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vecchiaia sia uno stato che tutti sperimenteranno, pare che collettivamente le persone

fingano che tale condizione non li riguarderà. Alla base di tale pregiudizio vi è

l’accettazione totale e incondizionata degli stereotipi connessi alla vecchiaia: il fatto cioè

che vi sia un minor grado di competenza, sia fisica sia intellettuale. E nonostante vi siano

prove che contraddicono tale stereotipo, esso non viene minimamente intaccato. Alcuni

anziani vedono il loro futuro con maggior entusiasmo ed ottimismo di taluni giovani. Pare

dunque che alla base di un tale atteggiamento nei confronti della vecchiaia vi sia una sorta

di timore inconsapevole, che porta ad evitare qualsiasi seria considerazione sulla

vecchiaia.

E’ sorprendente talvolta notare quanto il pregiudizio contro la vecchiaia sia un

atteggiamento piuttosto diffuso anche tra gli operatori che si occupano di assistenza agli

anziani. In alcuni casi esso è la conseguenza di esperienze negative che gli operatori

stessi hanno avuto con qualche parente anziano. Ma ancor più di tutto pesano le decisioni

politiche che vengono prese nei confronti degli anziani: molte sono in effetti le risorse a

loro dedicate che progressivamente vengono limitate. Da più ampie valutazioni sembra

addirittura che gli anziani meritino una porzione inferiore di “torta assistenziale”: agli

operatori per gli anziani viene richiesta una minore qualificazione; viene dedicata una

quantità inferiore di formazione all’interno delle strutture di appartenenza; la qualità

dell’assistenza residenziale è decisamente di minor qualità rispetto a quella ad esempio

dedicata ai minori.

E’ fondamentale dunque che tra i vari suoi obiettivi il lavoro sociale si ponga anche un

cambiamento degli atteggiamenti nei confronti degli anziani. E’ un compito difficile, che

richiede conoscenza, esperienza e capacità di leggere la realtà e spiegare i fatti. Ma è

indispensabile più di tutto la volontà da parte degli operatori di prendere coscienza del

fenomeno e di diffondere tale nuovo atteggiamento mentale sia verso i colleghi sia verso i

superiori.

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3. Il Progetto: descrizione e metodologia

Lo scenario metodologico di riferimento del presente progetto ruota intorno al concetto di

counseling in ambito sanitario, inteso sia come promozione della salute, secondo un’ottica

preventiva, sia come processo volto al miglioramento delle abilità di relazione con il

paziente per far fronte al disagio causato dall’elemento malattia.

Il counseling rappresenta in un contesto socio-sanitario l’opportunità di offrire un servizio

efficiente ed efficace che risponda alle richieste di umanizzazione dei servizi cui spesso,

per la domanda sempre crescente di prestazioni specialistiche con tempi e costi limitati, è

difficile rispondere.

Le componenti primarie di un intervento di counseling soddisfacente devono in particolare

enfatizzare taluni aspetti legati al processo di cura tra cui: la dimensione dell’accessibilità e

dell’appropriatezza della cura, dell’efficienza e dell’efficacia della cura, della soddisfazione

del paziente, del grado in cui egli percepisce in misura critica e soggettiva la qualità del

servizio offerto.

L’altro nucleo fondante di riflessione teorica ed applicativa è rappresentato dalla ricerca-

azione che sintetizza due momenti fondamentali: il momento teorico di studio e

osservazione della realtà e quello pratico di intervento e azione sulla stessa secondo un

processo integrato e dinamico. Essa si profila come una ricerca sperimentale sul campo

dove l’intervento o azione ha l’obiettivo concreto di cambiare una situazione e dove

durante l’intervento stesso si acquisiscono una serie di informazioni e conoscenze che

vanno a ricadere sull’azione medesima. Lo schema si presenta dunque fortemente

connotato nel senso della dinamicità e della ciclicità.

Un ulteriore riferimento teorico è dato dalla psicologia della salute che ha operato

recentemente un’importante accomodamento tra modello biomedico e modello

biopsicosociale, superando la storica separazione mente – corpo e promuovendo un

approccio integrato tra le due entità. Nella pratica ciò implica che salute e malattia

vengano intese come esperienze tangibili che si riflettono nella vita di tutti i giorni: per tale

motivo la psicologia della salute si propone di conoscere le emozioni di chi è sotto

trattamento o soffre per una malattia particolare. La finalità è quella di prendere in

considerazione il senso della malattia e della salute nella vita delle persone attraverso

categorie non confinate in quelle biomediche: salute e malattia sono riflesse nella biografia

dell’individuo. L’occasione in cui stimolare la riflessione su quest’ultima è data

dall’intervista qualitativa.

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Proprio l’intervista etnoclinica è l’elemento fondante dell’approccio qualitativo che

costituisce un altro paradigma metodologico di riferimento. In tal seno la realtà viene colta

come socialmente costruita da culture multiple di cui si cercano i significati fondanti. La

tendenza di oggettivare e di standardizzare l’oggetto di studio comporta una perdita della

trama concettuale che invece viene colta in modo più efficace tramite l’osservazione dei

comportamenti e la lettura del linguaggio. Dato che ogni persona porta la sua lettura

soggettiva della realtà, anche il ricercatore assume un ruolo partecipante e non di

osservatore neutro: risulta pertanto fondamentale la capacità riflessiva, che produce

conoscenza e dunque innesca possibili cambiamenti.

Il settore della Sanità è da tempo al centro di numerose revisioni in termini di

ristrutturazione e riorganizzazione del lavoro: a tal fine numerose sono state le modifiche

attuate dagli indirizzi legislativi e gestionali.

Il passaggio cruciale è stato quello del cambiamento di cultura e prospettive nel settore

medesimo che hanno portato allo sviluppo di una gestione manageriale anziché politica e

di una maggiore attenzione alla tipologia dei servizi erogati, alla relazione con l’utente e

alla professionalità dei vari operatori dei servizi socio-assistenziali.

Gli obiettivi della “qualità” e ”umanizzazione” dei servizi hanno posto in primo piano la

soddisfazione dei bisogni dell’utenza, la valorizzazione delle competenze del personale

dipendente e pertanto la tipologia del servizio erogato. Tali principi devono diventare

l’unica e vera filosofia entro la quale operare un’adeguata riforma dei servizi socio-

assistenziali.

Con il presente progetto si sono voluti studiare e analizzare i modelli organizzativi

prevalenti nello scenario caratterizzato dalle strutture socio-assistenziali per anziani. Tale

esigenza poggia sulla duplice finalità di estrapolare, da una parte, le linee guida e le

strategie in termini di organizzazione presenti nella maggior parte dei presidi per anziani,

e, dall’altra, di far emergere i fabbisogni formativi avvertiti dai professionisti del settore al

fine di impostare percorsi ad hoc e che non prescindano dalle reali necessità rilevate. Da

tale lavoro sono anche emersi in itinere alcuni spunti di riflessione interessanti che hanno

sostanzialmente riguardato il tipo di coinvolgimento attivo e consapevole nella cura

assunto dagli operatori, l’approccio preventivo e non solo curativo che ispira le attività di

talune strutture e l’effettivo livello di integrazione raggiunto dalla maggior parte degli ospiti

all’interno dei singoli presidi. Gli aspetti che si sono rivelati vincenti sono stati pertanto

quello dell’attiva collaborazione del personale dipendente nella gestione dei processi e

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nella definizione degli obiettivi e quello della capacità di registrare prontamente tutte le

richieste, opportunità e sfide dell’ambiente esterno.

3.1. Obiettivi del Progetto

Il counseling in un’ottica preventiva sembra essere la risposta più accessibile e tempestiva

rispetto al mutato panorama del sistema sanitario ed in particolare socio-assistenziale: in

effetti le strutture tendono ad erogare servizi di ottimo livello tramite un utilizzo adeguato

delle risorse, la formazione specialistica prevede una sempre maggiore integrazione e

responsabilizzazione dei lavoratori, l’utenza infine procede verso una gestione

consapevole della salute in collaborazione coi professionisti.

A tal fine le azioni di counseling svolte nella presente sperimentazione si sono focalizzate

sullo sviluppo e raggiungimento dei seguenti macro-obiettivi:

L’agevolazione della comunicazione: in tal senso si sono facilitate le modalità di scambio

assertive tra gli operatori, rispettose dell’interdipendenza di ciascuno all’interno del gruppo

di lavoro. Si è perseguito anche l’obiettivo di rendere più efficace la relazione con gli utenti

e coi familiari in modo da favorire una comunicazione chiara, onesta ed esauriente.

La condivisione: con l’applicazione delle tecniche attive si è cercato di creare uno spazio

d’incontro privo di barriere professionali che potesse favorire la formazione di uno spirito di

gruppo ed il senso di appartenenza al servizio. In tali momenti si sono altresì affrontati

alcuni dei problemi registrati sul piano organizzativo , limitando negli operatori il senso di

isolamento e di scarsa partecipazione ai processi decisionali.

Il sostegno: sempre nei momenti di gruppo si è cercato di contenere ed elaborare i vissuti

emotivi, analizzando l’utilizzo delle difese non adattive messe in atto nella relazione con

pazienti e familiari e come sistema per fronteggiare l’angoscia di malattia e di morte.

3.2. Le fasi del Progetto

Il focus di un intervento di prevenzione ai sintomi di stress e disagio degli operatori socio-

assistenziali consiste in programmi di formazione alla comunicazione ed in interventi di

counseling in quanto mezzi efficaci per instaurare una buona relazione col paziente,

permettendo un’adeguata assistenza nel pieno rispetto dell’anziano. E’ dunque

fondamentale sviluppare l’empowerment degli addetti all’assistenza per potenziarne le

risorse individuali e di gruppo e per favorire il buon funzionamento dei servizi erogati.

L’applicazione delle tecniche attive, attraverso momenti di ascolto, di elaborazione delle

emozioni e di condivisione, risulta essere la premessa necessaria per l’integrazione tra

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professionalità diverse e per la creazione di un lavoro di rete e di un proficuo scambio di

competenze.

3.2.1. FASE 1 – Analisi dello scenario

Nella prima fase si è analizzato lo scenario complessivo delle relazioni tra OSS, pazienti e

famigliari, indagando sulle motivazioni che stanno alla base delle situazioni di conflittualità

tra operatori e tra paziente ed operatore, con ripercussioni evidenti anche nel rapporto tra

famigliari, da una parte, e paziente ed operatore, dall’altra.

L’analisi è stata effettuata prevalentemente sulla base di dati primari (analisi field) presso

alcune realtà del settore socio-sanitario (case di riposo) onde ottenere, tramite interviste e

per mezzo della somministrazione di uno specifico questionario agli operatori, uno

scenario complessivo delle motivazioni spesso alla base della conflittualità tra paziente ed

operatore, con ripercussioni evidenti anche nel rapporto tra famigliari, da una parte, e

paziente ed operatore, dall’altra.

I dati emergenti da questa prima fase di analisi sono stati poi raccolti in un secondo

momento in categorie più ampie tali da consentire l’individuazione del gruppo di lavoro con

cui realizzare la fase sperimentale.

Il questionario utilizzato per l’indagine preliminare è stato l’LBQ (Link Burnout

Questionnaire), che costituisce una rivisitazione del MBI di Maslach e Goldberg: esso

come vedremo nel capitolo successivo è caratterizzato da quattro scale principali

necessarie per indagare il livello di burnout presente tra gli operatori. L’intervista invece è

stata effettuata in piccolo gruppo con gli operatori medesimi cui era stato proposto il

questionario di cui sopra: essa ha assunto la forma del focus-group consentendo ai singoli

partecipanti uno spazio libero dove raccontare e riflettere sui punti emersi dall’analisi dei

vari questionari. Quest’ultima ha consentito di rilevare in maniera qualitativamente più

pregnante i valori e le credenze che abitano la cultura degli operatori socio-sanitari e

anche il metodo con cui sono svolte le attività quotidiane, senza tralasciare la dimensione

sensoriale-affettiva basilare in un contesto come quello dell’assistenza e della cura.

3.2.2. FASE 2 – Definizione del modello di interven to

Nella seconda fase si è identificato il modello di intervento più utile per incrementare il

livello di soddisfazione e gratificazione personale degli OSS. Il modello è stato messo a

punto con la collaborazione di una società di consulenza esterna (Azienda in Scena), che

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ha svolto la fase di sperimentazione insieme con Api-Formazione nella struttura

assistenziale identificata.

La definizione della metodologie più idonea ha tenuto conto della finalità ultima di

supportare gli operatori nella gestione delle relazioni tra colleghi e nella gestione più

efficace del loro lavoro, grazie ad una rilettura relazionale ed organizzativa delle attività. I

temi da affrontare sono stati identificati dalla coordinatrice della casa di riposo durante un

incontro preliminare avvenuto con la consulente di Api-Formazione e anche sulla base

delle informazioni rilevate in fase di somministrazione del questionario e di conduzione del

focus group.

La tecnica del Teatro d’Impresa offre una lista di rappresentazioni già scritte e pronte per

essere messe in scena. Le tematiche affrontate riguardano la comunicazione interna, la

gestione del personale, la negoziazione e tutti i temi che possono risultare trasversali a

molti tipi di organizzazioni indipendentemente dal loro tipo di business.

In particolare nella presente sperimentazione è stata applicata la tecnica dell’Action

Theatre: si tratta di una metodologia attiva ed interattiva che comporta il coinvolgimento

mente e corpo dei partecipanti, alternando momenti di coinvolgimento emotivo a momenti

di rielaborazione cognitiva. La mediazione corporea nello specifico impronta il suo lavoro

sulla centralità del corpo intelligente inteso come memoria relazionale da risvegliare.

Partendo dalla percezione corporea (schema corporeo) e immergendosi nella

sperimentazione del “gioco” creativo (sensazioni – emozioni - immagini) si giunge

gradualmente ad una maggiore consapevolezza di sé, del proprio stile relazionale e

comunicativo (non-verbale e verbale), attivando l’emersione ed il contatto di quelle risorse

individuali celate poiché non consapevoli. Attivare livelli sempre maggiori di

consapevolezza significa promuovere un processo di empowerment della persona che

potrà avere ricadute positive sulla capacità di adottare nuove strategie di problem-solving;

sviluppando maggiore fluidità di “dialogo” fra il mondo interno della persona e l’ambiente in

cui essa agisce.

3.2.3. FASE 3-4 – Sperimentazione del servizio e re porting

Nella fase di sperimentazione del modello di intervento si sono applicate le tecniche

previste dalla metodologia dell’Action Theatre dopo aver selezionato il gruppo di operatori

rivelatosi più idoneo sia rispetto al livello di disagio percepito sia rispetto alla disponibilità

dimostrata dalla struttura medesima nel voler realizzare il percorso sperimentale.

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I momenti che hanno caratterizzato la sperimentazione in oggetto, declinati in base alla

forma data al modello di intervento nel corso della fase precedente, si sono caratterizzati

in sessioni di gruppo in cui si sono utilizzate una serie di tecniche attive che hanno

permesso il confronto, la condivisione e l’analisi dei reciproci errori in quanto fonte di

apprendimento. Le tecniche di cui ci si è avvalsi sono state quelle della Movimento

Terapia e della Fabulazione alternate a momenti formativi in gruppo più tradizionali. In tali

tipi di intervento il gruppo non è semplice cornice di lavoro ma diviene vera e propria

risorsa e fonte di stimolo da cui attingere vissuti e contenuti esperienziali.

La Movimento Terapia si caratterizza per un’osservazione sistematica dei bisogni

dell’utente. Il setting è rigoroso, fondato sulla definizione precisa di tempo e di spazio

dell’attività, delle modalità di conduzione, delle tecniche e degli input utilizzati: vi è una

definizione precisa dello spazio di lavoro come spazio rituale, inteso come spazio

geometrico, simbolico e affettivo relazionale. Il percorso è integrato da momenti di attività

corporea e di verbalizzazione o comunque di rielaborazione anche attraverso l’uso di

modalità espressive, quali attività grafiche e/o manipolative. Nella Movimento Terapia il

gruppo diviene insieme col quale ogni singolo si relaziona in modo non deterministico,

perché mai totalizzante rispetto alle scelte e ai percorsi individuali. In sintesi tale tecnica

vuole essere una forma di educazione corporea, emotiva, relazionale che, attraverso un

processo educativo e terapeutico, conduce chi la pratica ad una progressiva assunzione di

responsabilità della personale esperienza corporea ed emotiva.

Con il termine fabulazione si intende quella specifica attività che, utilizzando il processo di

associazione per immagini, canalizza le tensioni emotive ed affettive all'interno di strutture

narrative, che presentano una loro ben precisa configurazione. Il filo che unisce le

immagini è più o meno visibile a seconda della densità dei singoli prodotti. L'attenzione

alla forma, alla qualità visiva dell'immagine espressa, alla struttura presentata, è

contemporaneamente stimolata dal significato più o meno nascosto che i simboli veicolano

all'interno della storia. Questo particolare uso del linguaggio scritto può costituire un valido

apporto per l'economia educativo-formativa degli operatori. L'organizzazione del prodotto

può avvenire secondo la logica di una raccolta di scritti e/o considerata come supporto

inventivo per il settore teatrale.

Per tutta la durata della sperimentazione si sono somministrati agli operatori opportuni

questionari di valutazione e monitoraggio dell’intervento sia in itinere sia al termine. Ciò ha

consentito di calibrare di volta in volta il tipo di tecnica applicata e di considerare eventuali

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modifiche rispetto alla progettazione iniziale. I questionari hanno anche consentito di

verificare la riproducibilità e replicabilità dei vari interventi.

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4. Il counseling sanitario: pratica interdisciplina re di prevenzione esostegno

4.1 Premessa

Nella presente sezione si vuole illustrare il percorso di realizzazione del progetto

attraverso la descrizione di un caso affrontato nel processo di consulenza. Il taglio che si

intende dare alla trattazione è di tipo pratico-operativo: sono infatti proprio i metodi e gli

strumenti adottati in fase di consulenza a costituire il focus dell’intera argomentazione,

arricchita di spunti di riflessione e suggerimenti circa le motivazioni che hanno guidato le

scelte operative e la gestione di talune dinamiche consulenziali. L’intervento pone estrema

attenzione al concetto di responsabilità, sia del counselor sia del cliente, di gestione

efficace del tempo e delle risorse, tramite un continuo monitoraggio delle procedure e dei

risultati: in tal senso il counseling nei suoi adattamenti recenti corrisponde alla ricerca,

attuale nelle aziende, di minimizzare i costi e massimizzare il rendimento. Tra le sue

caratteristiche principali vi sono dunque la breve durata ed economicità, che consentono di

avvicinare e intervenire su più persone in un’ottica positiva e pragmatica consentendo alle

persone coinvolte di diventare artefici del loro cambiamento e della loro crescita.

4.2 Fase 1: la survey preliminare e gli strumenti di analisi

Una prima fase della sperimentazione ha previsto l’invio di un mailing rivolto a tutte le

strutture socio-assistenziali associate e non ad Api-Formazione: nella comunicazione

venivano illustrate le finalità del progetto e spiegati gli obiettivi che si intendevano

perseguire con tutto il percorso di sperimentazione.

Sulla base dei riscontri ricevuti si sono identificate quattro realtà con cui avviare la survey

sperimentale in modo da poter raccogliere una prima quantità di informazioni utili a

descrivere il livello di burn-out presente all’interno delle varie realtà dedite all’assistenza

agli anziani. La scelta si è basata su alcuni aspetti tra cui le dimensioni delle strutture, il

numero di O.S.S. presenti all’interno della struttura e l’interesse espresso in un primo re-

call telefonico verso il tipo di analisi offerto.

Si è provveduto ad incontrare ogni Referente di struttura in modo da descrivere in dettaglio

il tipo di intervento proposto e soprattutto al fine di raccogliere una serie di dati preliminari

sulla struttura in generale e sul tipo di difficoltà maggiormente avvertite dalla Direzione

rispetto al tema di analisi della sperimentazione.

Successivamente si sono organizzati in ogni struttura i vari gruppi di O.S.S. cui sottoporre

il questionario di rilevazione dei livelli di burn-out (LBQ). Come si è già evidenziato lo

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strumento consente di indagare quattro dimensioni, ognuna delle quali si articola lungo un

continuum racchiuso tra poli opposti: esaurimento-energia (dimensione psicofisica);

deterioramento-coinvolgimento (dimensione della relazione); inefficacia-efficacia

(dimensione della competenza professionale); disillusione-soddisfazione (dimensione delle

aspettative esistenziali). Per ogni area sono presenti 8 item, 4 relativi al polo positivo e 4

relativi ad aspetti negativi. La modalità di risposta prevede una scala Likert a sei punti,

corrispondenti alla frequenza con cui lo stato descritto viene avvertito da ciascun O.S.S.

I vari operatori socio-assistenziali si sono in tal modo misurati su una serie di affermazioni

riferentisi alle seguenti 4 macro-categorie:

1. L’esaurimento psicofisico: la sensazione di aver esaurito le risorse psico-fisiche è una

delle caratteristiche centrali della sindrome. La condizione di esaurimento ha notevoli

ripercussioni sia per l’utente, che non riceve cure e sostegno adeguati, sia per

l’operatore, che non ha più la capacità per fornire servizi adeguati e comprendere le

esigenze ed i bisogni dell’utente.

2. Deterioramento della relazione: in tal caso la sensazione di coinvolgimento distacco

modifica notevolmente nell’operatore la percezione dell’utente. L’operatore diventa

incapace nei casi più gravi di prestare attenzione alle reazioni peculiari dell’utente, al

suo modo di porsi e di esprimere i bisogni. La percezione fredda e disumanizzata

dell’utente porta l’operatore a comportamenti di vero e proprio cinismo ed ostilità. E’

chiaro che un distacco eccessivo rende il servizio offerto poco adatto a colmare i

bisogni e disagi dell’utente.

3. Inefficacia professionale: la condizione di burn-out rende l’operatore incapace di

cogliere i progressi che il suo impegno fa compiere agli utenti, e dunque corre il rischio

di sentirsi non gratificato e appagato dal suo lavoro. L’abilità dell’operatore consiste nel

cogliere piccoli cambiamenti dato che i progressi spesso raggiunti dall’utente sono

quasi impercettibili.

4. Disillusione: in seguito allo svolgimento di mansioni frustranti o ripetitive e assistendo

utenti in grave difficoltà le aspettative iniziali di svolgere una professione educativa e di

aiuto tendono a smorzarsi e si scontrano con una realtà troppo dura ed impermeabile

agli sforzi individuali di cambiamento, lasciando un profondo senso di delusione.

Dall’analisi quantitativa dei questionari somministrati ai quattro gruppi di operatori socio-

assistenziali è emerso un quadro abbastanza diffuso di affaticamento degli operatori in

tutte le realtà esaminate. In particolare le aree maggiormente sollecitate paiono essere

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quelle legate al deterioramento della relazione ed al senso di inefficacia. In effetti la

letteratura sull’argomento sembra fornire dati che si muovono nella medesima direzione:

parrebbe infatti che lo stress proprio delle “helping professions” sia rilevabile proprio in una

tendenza generalizzata da parte degli operatori al disinvestimento emotivo nella relazione

ed in una marcata sensazione di inadeguatezza dal punto di vista dei risultati raggiunti.

Rispetto alla prima dimensione l’angoscia dell’operatore di essere sopraffatto

emotivamente, non elaborata, non affrontata e risolta, incompatibile con l’equilibrio

psichico, determina meccanismi di difesa psicologici non sempre adattivi. Le modalità

prevalenti sono in genere il rifugio nel tecnicismo, l’accanimento terapeutico, lo sviluppo di

una concezione del lavoro come pura fonte di guadagno.

Riguardo alla seconda dimensione invece il confronto col tema della separazione, della

perdita e della morte induce a rivedere le pregresse fantasie di onnipotenza e sviluppa

nell’operatore dubbi esistenziali sul senso della vita, della morte ma soprattutto sul senso

del lavoro scelto. E’ indispensabile dunque che ogni operatore analizzi le personali

motivazioni e bisogni che lo hanno spinto verso la professione in questione al fine di non

anteporre le sue originarie aspettative nella relazione con l’utente e di non proiettare su di

lui il disagio psicologico irrisolto. La sindrome da burnout sembra dunque iniziare con

sentimenti di sconfitta che sfociano nel tempo in una debilitante condizione psicologica

che costa anche alla struttura in cui lavora l’operatore in termini di frequenza di malattie

cardiache, ansia, nevrosi, depressione e dunque assenteismo.

Ciò che nello specifico costituisce una fonte di preoccupazione per le strutture sono i

vissuti di aggressività e di rabbia che l’operatore esprime per la perdita di controllo e

perché avverte l’ospite come intrusivo e giudicante. Occorre cioè ricalibrare la giusta

distanza nella relazione tra operatore e utente in modo che essa risulti orientata

all’ascolto, con un approccio empatico ai problemi del paziente evitando un eccessivo

coinvolgimento ma riconoscendo l’altro come persona con bisogni particolari.

Dopo la fase di somministrazione dei questionari, l’indagine preliminare ha incluso anche

un momento di approfondimento qualitativo mediante l’organizzazione di focus group con

le medesime operatrici cui era stato somministrato il questionario.

L’idea di fondo di questo metodo è che l’interazione sociale che si crea durante la

realizzazione del focus group costituisce una risorsa importante nel trasmettere

informazione, consapevolezza dei rispettivi ruoli e crescita culturale dei partecipanti e di

chi conduce il focus. Questo aspetto rappresenta la prima importante caratteristica

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sostantiva del metodo e per questo motivo si differenzia dalle tradizionali interviste di

gruppo dove l’interazione avviene di volta in volta tra i partecipanti e il moderatore.

I focus group rispondono a precise regole di preparazione, organizzazione e gestione.

Coinvolgono normalmente un numero di partecipanti variabile tra i 6 ed i 10 a seconda

della complessità e delicatezza del tema che viene trattato. E’ importante infine costituire

gruppi con partecipanti omogenei dal punto di vista delle loro caratteristiche sociali e

culturali in modo da facilitare la partecipazione e la discussione di tutti i membri del

gruppo. Sempre a seconda della complessità degli argomenti discussi, i focus group

hanno solitamente una durata variabile tra 1 e 2 ore. Essi sono gestiti da due figure

professionali con funzioni tra loro complementari: il conduttore e l’osservatore.

Il conduttore, nella fase che precede la conduzione dei gruppi di lavoro, redige le linee

guida del focus group intorno ad un’ipotesi di lavoro maturata dal confronto e dalla

discussione con esperti, partecipanti al gruppo di ricerca e testimoni privilegiati,

affrontando aspetti sia di contenuto sia quelli più propriamente legati alla comunicazione

nel gruppo e con il gruppo. Nella fase di svolgimento del focus group il conduttore ha il

compito di introdurre il tema dell’indagine con i partecipanti al focus, di guidare e pilotare

gli intervistati verso gli argomenti che più interessano seguendo la tecnica dello stimolo-

risposta, assicurandosi che gli intervistati non divaghino, eludano o fraintendano il

significato delle domande. Il conduttore deve avere bene interiorizzato la griglia di

domande che sottoporrà agli intervistati con l’accortezza di considerare tale griglia non più

che un canovaccio dal quale partire e al quale fare riferimento senza però attenersi ad

esso in modo rigido, ma adattandolo alla dimensione psico-sociale del gruppo ed al tipo di

relazione che si è instaurata tra i suoi membri e con il conduttore.

L’osservatore svolge mansioni di tipo logistico e organizzativo prima, durante e dopo la

costituzione del gruppo. Nella fase che precede la realizzazione del focus group ha il

compito di costituire il gruppo di discussione e di individuare una sede di svolgimento

‘neutra’ che non sia connotata in modo negativo da un punto di vista sociale. Durante lo

svolgimento del focus group svolge un ruolo di assistenza al conduttore: dalla

registrazione dell’incontro, all’annotazione di indicazioni e commenti sulla conduzione da

parte del conduttore, all’osservazione delle dinamiche e del clima che si instaura all’interno

del gruppo. In una fase successiva, immediatamente dopo la conclusione del focus group,

l’osservatore deve comunicare al conduttore le impressioni ‘a caldo’ su conduzione e

dinamiche del gruppo.

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Nel caso specifico della presente indagine la figura dell’osservatore e del conduttore

coincidevano e ciò non ha rappresentato un limite all’approfondimento ma anzi ha

permesso alle operatrici coinvolte di instaurare un rapporto di fiducia col conduttore:

rapporto che si è poi rivelato utile col gruppo con cui si è svolta la sperimentazione per

intero, includendovi cioè anche l’applicazione delle tecniche attive.

La finalità perseguita con la creazione dei focus group è duplice:

- da una parte, confrontare i dati ricavati con la somministrazione del questionario con

quelli invece derivanti dall’approfondimento reso possibile con lo svolgimento dei focus

group;

- dall’altra, raccogliere appunto ulteriori indicazioni sulle difficoltà maggiormente

percepite dai singoli gruppi di operatrici e sugli aspetti che avevano contribuito a

determinare l’orientamento di alcune variabili prese in esame dal questionario.

Il focus group è stato organizzato secondo due sezioni:

1. I fattori situazionali e quindi quegli elementi che a livello organizzativo contribuiscono

ad innescare ed esacerbare meccanismi di burnout negli operatori. Ad esempio la

distribuzione dei carichi di lavoro, la struttura dei ruoli presente nell’organizzazione, le

caratteristiche organizzative della struttura di riferimento ed il clima relazionale tra

colleghi possono costituire una base su cui i sintomi della sindrome poggiano. Proprio

tali aspetti sono stati quelli indagati durante il focus group ed hanno consentito di

analizzare le dimensioni organizzative maggiormente disfunzionali e causa del disagio

avvertito dalle operatrici;

2. I fattori individuali invece sono ricollegabili più al quadro di personalità dell’operatore e

alla scala di valori, aspettative e modelli di attribuzione che ne guidano il

comportamento. Per tale motivo nella griglia del focus group erano previsti spunti di

discussione e approfondimento relativi al livello di autostima percepito, alle modalità di

adattamento alle situazioni, alle rappresentazioni sul tipo di professione, al grado di

coinvolgimento nelle attività lavorative quotidiane.

Dagli incontri condotti nei vari gruppi di operatrici sono emersi alcuni spunti di riflessione

importanti, che sembrano di nuovo confermare la letteratura sull’argomento. In particolare

le OSS intervistate sottolineano che nei momenti di difficoltà ci sono alcuni elementi che

possono essere di supporto:

1. il fatto di possedere aspettative realistiche nei confronti delle personali capacità e delle

caratteristiche della malattia;

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2. la possibilità di vedere riconosciuti i personali sentimenti da parte delle altre colleghe o

addirittura da parte della Direzione;

3. l’aver sviluppato una filosofia di vita forte che conferisca un senso al valore del lavoro

svolto;

4. la possibilità di ritagliare tempo per sé stessi al di fuori del lavoro e dunque di poter

contare su aspetti di vita personali compensativi e gratificanti;

5. il fatto di possedere una struttura di personalità con una marcata predisposizione al

controllo, alla sfida e all’impegno (cosiddetta personalità hardy) capace di contrastare

gli effetti dello stress lavorativo;

6. la possibilità di poter contare su un team di lavoro collaborativo e unito, in grado di

fornire sostegno e confronto a fronte di situazioni difficili da gestire;

7. la disponibilità a frequentare corsi di formazione alla comunicazione, alla relazione e/o

gruppi di sostegno e ascolto psicologico organizzati ad hoc per gli operatori.

Pare dunque evidente il peso che i due piani di fattori assumono nello scatenare situazioni

di stress: il prevalere dell’uno piuttosto che dell’altro dipende, come abbiamo già

sottolineato, dalle caratteristiche personali delle singole operatrici come da quelle

specifiche della struttura in cui operano.

4.3 Fase 2: l’analisi della domanda

Dopo l’indagine preliminare si è proceduti con la sperimentazione vera e propria mediante

applicazione di tecniche attive, di cui si parlerà più estesamente nei paragrafi successivi.

La scelta della struttura socio-assistenziale con cui portare avanti il percorso sperimentale

è stata dettata dal livello di motivazione e di disponibilità rilevati nei momenti di confronto

in gruppo coi vari team di operatrici. L’intervento di counseling a livello aziendale si pone

come obiettivo principale quello di promuovere un processo di crescita e di sviluppo nel

personale, valorizzando le risorse individuali e le relazioni interpersonali: necessita dunque

di un atteggiamento di reciprocità tra consulente e lavoratori coinvolti e non può

prescindere da un’effettiva disponibilità al cambiamento da parte di quest’ultimi.

La fase di analisi della domanda è stata caratterizzata da alcuni incontri presso la casa di

riposo, coinvolgendo una serie di attori tra cui la Direzione della struttura ed il consulente

di Api-Formazione. Si deve sottolineare a proposito che tutto il processo di consulenza si è

verificato in sede: non si tratta di una scelta casuale bensì basata su precise

considerazioni operative. Avere, infatti, l’opportunità di visitare direttamente il contesto e di

vivere pertanto, anche se in maniera sporadica e marginale, il clima percepibile all’interno

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della struttura, costituisce una fonte insostituibile di informazioni indirette: queste vengono

a guidare in maniera latente ma forte l’intero processo di consulenza, offrendo occasioni di

riflessione e ispirando strategie di intervento che, diversamente, sarebbero state dettate

solo da considerazioni razionali e avulse da qualsiasi riferimento reale.

La Direttrice ha delineato una serie di esigenze: dall’ottimizzare i flussi comunicativi tra

OSS al favorire la creazione di un clima di team fondato sulla collaborazione e sul

sostegno tra colleghi. E’ emerso anche il bisogno di trasmettere al gruppo di OSS

coinvolte una forma di riconoscimento e di valorizzazione della loro professionalità,

dedicando loro per intero uno spazio in cui potessero esprimersi liberamente e dunque

sentire accolti eventuali bisogni e/o difficoltà incontrate. Ciò anche al fine di comprendere

gli aspetti di maggiore criticità connessi al loro lavoro e dunque di impostare

sinergicamente strategie efficaci per risolverle.

Si è trattato in realtà di una domanda di supporto non ben delineata nella sua formulazione

iniziale: il consulente ha però ritenuto di non guidare in maniera eccessiva il perimetro

della richiesta, avvertendo che in questo modo era possibile in fasi successive e durante la

sperimentazione focalizzare solo taluni aspetti anche alla luce dei bisogni portati in gruppo

dalle singole OSS. Il consulente ha ritenuto importante focalizzare alcuni punti essenziali

sulla consulenza in generale:

� si tratta di un intervento di supporto a fronte di problemi specifici e/o durante fasi di

cambiamento/crisi a livello organizzativo;

� sostiene coloro che si trovano coinvolti nel processo di cambiamento e/o affrontamento

di problemi particolari;

� favorisce l’analisi e la comprensione di alcune criticità in seno all’organizzazione senza

per questo fornire soluzioni preconfezionate.

Il rapporto dunque che si instaura tra cliente e counselor è di tipo paritario dato che il tipo

di prestazione fornita viene contrattata dai due soggetti all’inizio e non prevede la “cura” di

aspetti problematici ma si profila come una richiesta di orientamento, sostegno e guida.

Con la Responsabile del personale dunque si è sottolineato il fatto che si sarebbe lavorato

insieme per un tempo determinato e su un’area che potesse comprendere alcuni degli

aspetti da lei evidenziati durante l’analisi della domanda, esaltando soprattutto il taglio

pragmatico di individuazione delle principali criticità e di trasmissione delle modalità più

utili per affrontarlo, in un clima di accettazione empatica e di alleanza collaborativa.

Inoltre con la Referente si è altresì richiamata l’attenzione sulla necessità di coinvolgere il

gruppo delle OSS predefinito, organizzando un intervento in plenaria, a cui far partecipare

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i diversi protagonisti della consulenza. Il gruppo delle OSS è stato individuato dalla

Direttrice medesima in base ai livelli motivazionali delle singole operatrici ed al grado di

interesse mostrato dalle medesime al momento della descrizione del percorso

sperimentale in plenaria.

4.3.1 Alcuni dati sulla casa di riposo coinvolta ne lla sperimentazione

In fase di analisi della domanda risulta quanto mai necessario ricostruire la storia e le

tappe distintive del percorso evolutivo aziendale: ciò anche al fine di calare il più possibile

nella specifica realtà la tipologia di strumenti utilizzabili e di raccordare l’esigenza espressa

con le peculiarità del contesto di riferimento.

La Casa di Riposo coinvolta nella sperimentazione è stata fondata negli anni ‘80 su

iniziativa del Parroco della zona.

La Casa di Riposo ad oggi è organizzata in tre nuclei autonomi. Nello specifico include:

- Nucleo RA per autosufficienti (16 camere);

- Nucleo RAF per non autosufficienti (11 camere);

- Nucleo RAF per non autosufficienti (9 camere al 1° piano);

- Nucleo RA per autosufficienti (4 camere al piano terreno).

In ogni nucleo vi è una sala soggiorno/pranzo, un bagno assistito per l'igiene degli ospiti

con difficoltà motorie e le altre attrezzature previste dalle norme di legge. Al piano terreno

la Casa dispone di due saloni per attività ricreative e di animazione e per il ricevimento dei

parenti. E' inoltre a disposizione all'esterno un'area verde alberata abbastanza estesa,

attrezzata per attività e intrattenimenti all'aperto nella bella stagione.

L'attività ordinaria della Casa è gestita dalla Direttrice, che ha a disposizione 31 dipendenti

per l'assistenza degli ospiti e per i servizi connessi. A questi si aggiunge personale esterno

qualificato, chiamato secondo necessità (fino a 10 persone).

Collaborano inoltre circa 40 volontari che forniscono prestazioni in campi specifici.

L'assistenza sanitaria e infermieristica è coordinata dal Direttore Sanitario ed è fornita,

oltreché dai medici di base scelti dagli ospiti, da tre infermieri e da un'operatrice

geromotricista.

Tutti gli ospiti si avvalgono delle prestazioni ordinarie e specialistiche erogate dal SSN.

L’aspetto critico emerso in fase di analisi della domanda ha riguardato essenzialmente la

gestione dei flussi comunicativi, la valorizzazione del ruolo delle OSS ed una sorta di

incongruenza tra le attese dei singoli lavoratori e quelle invece perseguite dalla Direzione

a livello di team. La Referente avvertiva, infatti, come aspetti deficitari a livello di team sia

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una sorta di difetto comunicativo sia la presenza di scarsi livelli motivazionali e progettuali

rispetto al futuro del team medesimo. Il bisogno principale della Direzione rimaneva

comunque quello di offrire alle OSS uno spazio interamente dedicato a loro quasi come

ricompensa per il lavoro svolto e come canale per esaltarne le funzioni all’interno della

struttura. La consulenza nella fase di analisi si è pertanto concentrata sulla rilevazione di

tale criticità, che ha poi portato ad impostare nella fase successiva un appropriato

percorso sperimentale con adeguate tecniche attive.

4.4 Fase 3: pianificazione dell’intervento

Nella fase di pianificazione dell’intervento si sono concordati gli step principali

caratterizzanti il processo di consulenza.

Il team di progetto ha dunque proposto all’azienda il seguente prospetto di azioni:

1. incontri di gruppo della durata di 3 ore ciascuno a cadenza settimanale per un totale di

6 incontri;

2. l’utilizzo di una metodologia mista in cui a momenti di erogazione tradizionale dei

contenuti formativi si alternavano momenti caratterizzati dall’applicazione di tecniche

attive. La metodologia rivelatasi più efficace rispetto ai temi enucleati dalla Direzione in

fase di analisi è stata quella dell’Action Theatre dove è possibile il coinvolgimento dei

partecipanti sia dal punto di vista cognitivo sia sul piano corporeo;

3. l’utilizzo della “fabulazione narrativa” come strumento principale per favorire

l’espressione da parte delle OSS di eventuali disagi e difficoltà percepiti;

4. un momento di restituzione finale alla Direzione in cui il consulente di Api-Formazione

cerca di illustrare i dati e gli elementi salienti rilevati durante la sperimentazione in

forma di rimando utile per la Direttrice medesima al fine di correggere taluni aspetti dal

punto di vista operativo.

4.5 Fase 4: L’intervento: condivisione degli obiet tivi della consulenza

Nella fase iniziale della consulenza si sono esplicitati sia alla Direzione sia al gruppo delle

OSS gli obiettivi e le modalità di erogazione della consulenza. Come già sottolineato la

motivazione alla base di un tale modo di avviare il lavoro con la casa di riposo si fonda

sull’esigenza di costruire un sistema di significati condiviso con la medesima al fine di

facilitare la comunicazione e l’interpretazione delle informazioni gestite nelle fasi

successive.

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In particolare si è richiamata l’attenzione su alcuni punti fondamentali, una parte dei quali

ha ispirato l’intervento nel suo complesso:

� la volontà di supportare la struttura nell’attuazione di percorsi di miglioramento in

relazione ad aspetti organizzativi considerati “critici”;

� l’applicazione di un intervento metodologico orientato a valorizzare la partecipazione, il

coinvolgimento e la crescita delle persone;

� la definizione precisa del ruolo del counselor, mettendo in evidenza che non è una

persona che fornisce consigli, che non è il portavoce della direzione aziendale, e che,

infine, non si fa carico di conflittualità patologiche presenti nell’organizzazione;

� la focalizzazione sulla funzione principale del counselor che è appunto quella di

stimolare la presa di coscienza da parte dei dipendenti delle loro capacità e dunque

delle risorse a loro disposizione per affrontare eventuali cambiamenti o conflitti.

4.5.1 L’intervento: definizione degli obiettivi di miglioramento

Nella fase successiva si è svolto un incontro col gruppo delle OSS per comprendere quali

potessero essere gli obiettivi e le aspettative che le medesime si proponevano e se

quest’ultime erano in linea con quelle indicate dalla Direzione.

Durante l’incontro si è utilizzato il confronto di gruppo, fornendo solo stimoli alle OSS che

potessero supportarle nella riflessione e nella focalizzazione degli obiettivi. Inoltre altra

finalità dell’incontro è stata quella di approfondire col personale coinvolto le mansioni

svolte da ciascuna risorsa e dunque di far emergere gli aspetti di criticità od obiettivi di

miglioramento proprio dai partecipanti stessi.

Dall’incontro sono emersi alcuni spunti importanti e utili per strutturare la tipologia di

contenuti degli incontri successivi:

- il desiderio di conoscersi meglio in modo da riflettere sui personali pregi e difetti,

aspirazioni e limiti nell’ottica di poter capire meglio sia gli utenti sia i parenti ed i

colleghi;

- la volontà di migliorare le modalità di comunicazione per potersi esprimere senza

fraintendimenti e per comprendere il vero messaggio degli altri;

- il bisogno di mantenere la giusta distanza sia con l’utente sia con i parenti in modo da

non perdere di vista i bisogni personali;

- la curiosità di osservare le caratteristiche degli altri per valorizzarle e per evitare gli

scontri, rispettandone le qualità e le aspirazioni;

- la possibilità di migliorare la gestione del limite tra vita personale e vita professionale.

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Inoltre sono stati evidenziati anche alcuni aspetti critici relativi alle attività svolte dalle OSS:

- la distribuzione dei carichi di lavoro e la suddivisione delle attività viene avvertita dalle

OSS come pesante e poco omogenea;

- sono segnalati errori nella gestione dei conflitti o scelte di stile inappropriate al

contesto;

- le OSS si percepiscono poco riconosciute nel loro ruolo da parte della Direzione.

Gli obiettivi da raggiungere che vengono messi in luce dai partecipanti sono:

� Gestione più efficace della comunicazione interna

� Approfondimenti sulla gestione della relazione tra le OSS e la Direzione nonché tra le

OSS e gli utenti ed i parenti;

� Migliorare il clima a livello di team di lavoro mediante la condivisione delle difficoltà

percepite nello svolgimento delle ordinarie attività.

Dopo i due incontri sopra descritti i consulenti hanno fissato un appuntamento di kick-off

del progetto con la Responsabile del personale al fine di evidenziare gli elementi di criticità

emersi col gruppo delle OSS e decidere pertanto su quali aspetti focalizzare l’intervento: è

fondamentale infatti in fase preliminare delimitare il perimetro di intervento della

consulenza per circoscrivere lo spettro degli obiettivi da raggiungere. E’ necessario che la

definizione degli obiettivi identificati dalle OSS sia condivisa dalla Direzione e corrisponda

in parte alle aspettative della medesima, evitando che l’entusiasmo e la volontà

onnipotente dei consulenti di risolvere tutti i problemi abbiano il sopravvento.

Con la Referente di Direzione si discutono anche le ricadute in negativo che le varie

criticità hanno sull’organizzazione del lavoro: motivo per cui alla fine la Responsabile

decide di circoscrivere l’area di intervento al problema della gestione delle relazioni e a

quello della gestione del rapporto tra vita privata e vita lavorativa. Entrambe le criticità

infatti hanno come impatto sull’organizzazione una minor resa delle OSS a livello di

gestione degli utenti e di soddisfazione delle medesime rispetto alle attività da svolgere.

4.6 Fase 6: L’intervento: contenuti, metodologia e strumenti

Come già esplicitato nei paragrafi precedenti, la metodologia applicata è quella definita del

Teatro d’Impresa.

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Il Teatro d’Impresa è uno strumento formativo innovativo che dà la possibilità agli attori

organizzativi di riflettere sui loro comportamenti per cambiare e migliorare se stessi e

l’organizzazione in cui lavorano.

La nascita del Teatro d’Impresa è a Montréal, nel 1984, ad opera di Christian Poissonneau

con la creazione del Théatre à la Carte.

Essendo un metodo flessibile e allo stesso tempo molto ricco di opportunità, il Teatro

d’Impresa può essere utilizzato da qualsiasi tipo di azienda per approfondire qualsiasi

argomento di vita e cultura organizzativa.

Per la maggior parte degli individui inseriti nelle organizzazioni può essere difficile

accettare osservazioni dirette sui propri comportamenti lavorativi; per molti può essere

anche un ostacolo comprendere l’impatto dei propri comportamenti su colleghi e

collaboratori. Attraverso il Teatro d’Impresa gli individui riescono a rivedere loro stessi ed i

loro comportamenti da un nuovo punto di vista, quello degli altri, superando le resistenze

legate ai rapporti personali. Tale strumento, coinvolgendo la sfera emotiva degli individui,

aiuta quest’ultimi a rielaborare atteggiamenti e comportamenti, valutandoli con maggior

distacco. La nuova distanza acquisita permette l’accettazione delle critiche e la

sdrammatizzazione delle situazioni. Questo avviene specialmente quando si utilizza il

registro comico, che fa ricorso allo humour e alla caricatura dei personaggi. Questo

metodo alimenta un importante processo di consapevolezza rispetto alle aree di

miglioramento di ognuno, sviluppando di conseguenza nei partecipanti una reale

motivazione al cambiamento.

Adeguandoci sempre alle esigenze della committenza, il Teatro d’Impresa, può fornire

spunti di riflessione, aiutare gli individui ad affrontare e risolvere eventuali difficoltà

presenti all’interno dell’organizzazione, attivare e coadiuvare processi di cambiamento

organizzativi. Il Teatro d’Impresa può essere inserito all’interno di un processo di

intervento più complesso, che prevede interventi formativi d’aula o esperienziali. Una sua

fondamentale caratteristica è la possibilità di dosare il livello di coinvolgimento dei

partecipanti all’azione teatrale, sulla base del contesto aziendale di riferimento, dei

partecipanti e dell’obiettivo da raggiungere.

Al pari di altri interventi di tipo esperienziale, produce risultati misurabili purché venga

messo in atto un efficace processo di valutazione della formazione.

Con il Teatro d’Impresa è possibile intervenire su più livelli (individuale, di squadra,

interfunzionale ed intrafunzionale, organizzativo) per lo sviluppo delle più svariate

competenze professionali di cui facciamo seguire un elenco a titolo esemplificativo.

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A livello individuale il Teatro d’Impresa consente di sviluppare talune competenze

manageriali, di comunicazione verbale e non verbale, di public speaking, di gestione delle

riunioni, di creatività, di gestione dei conflitti, di presa di consapevolezza e consolidamento

del ruolo professionale, di motivazione al lavoro.

A livello di squadra si possono incrementare lo spirito di squadra e sviluppare le

competenze per un efficace “lavoro in squadra”; sviluppare le competenze in tema di

leadership professionale; sviluppare le competenze nel processo comunicativo e

negoziale.

A livello organizzativo si possono agevolare la diffusione della vision e della mission

organizzativa, la sensibilizzazione sui valori aziendali, l'agevolazione del cambiamento

culturale ed organizzativo, la gestione del processo creativo, innovativo e qualitativo in

tema di orientamento al cliente

I riferimenti metodologici che hanno fatto da sfondo alle tecniche applicate al gruppo delle

OSS si basano anche sui principi teorici della ricerca-azione.

Secondo la definizione classica la ricerca-azione prevede tre fasi: pianificazione,

esecuzione e ricognizione. Per pianificazione si intende l’elaborazione di un’idea generale

della ricerca attraverso l’identificazione e la definizione degli obiettivi. L’esecuzione si

configura come la fase della ricerca vera e propria (raccolta dei dati). La ricognizione infine

prevede la valutazione finale, attraverso l’analisi e la verifica del raggiungimento degli

obiettivi precedentemente individuati. Emerge dunque che le parole-chiave che

caratterizzano la ricerca-azione sono: cambiamento, legame con la pratica

(contestualizzazione), partecipazione. Analizzando i vari modelli di ricerca azione dopo

Lewin è possibile vedere che vi sono tre filoni specifici:

- la ricerca partecipante (Freire)

- la ricerca azione partecipante (Foote, Whyte)

- l’action science (Argyris, Schon), l’action inquiry, la cooperative inquiry

Sia la ricerca partecipante che la ricerca azione partecipante, pongono in modo particolare

l’accento sull’importanza della partecipazione nella ricerca, mentre l’action science o

action inquiry spostano il focus sulla costruzione della conoscenza, ponendo la riflessione

sulla conoscenza, come forma privilegiata di intervento. Il secondo filone sottolinea, infatti,

l’importanza delle conoscenze tacite e del lavoro di riflessione sull’azione sociale, ossia

sulle modalità di intervento necessarie per attivare e determinare cambiamenti.

L’attenzione pertanto appare spostata sull’analisi del processo e sul suo continuo

monitoraggio.

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Ma quali sono gli elementi che accomunano tali modelli?

Per rispondere al quesito é necessario elencare le caratteristiche principali della ricerca

azione:

a) la ricerca azione è un processo centrato su un problema, nel senso che essa è sempre

applicata ad un contesto ed indirizzata a problemi di vita reali;

b) la ricerca-azione è un’indagine in cui i partecipanti e i ricercatori co-generano

conoscenza attraverso la reciproca collaborazione;

c) la ricerca-azione considera la diversità di esperienze e di competenze all’interno del

gruppo come un’opportunità di arricchimento per il processo della ricerca stessa;

d) i significati costruiti all’interno del processo di indagine conducono all’azione sociale

oppure le riflessioni sull’azione conducono alla costruzione di nuovi significati;

e) la credibilità/validità della conoscenza acquisita attraverso la ricerca-azione è data dalla

capacità delle azioni di risolvere efficacemente i problemi e di aumentare il controllo dei

membri della comunità sulla situazione.

Schematicamente quindi è possibile dire che la ricerca azione è un processo:

- centrato su un problema

- orientato all’azione

- ciclico

- basato sulla collaborazione e sulla partecipazione

Ovviamente una ricerca che appare così fortemente centrata sull'attenzione al contesto,

sul cambiamento, sull’azione e sulla partecipazione, deve senza dubbio affrontare dei nodi

problematici dettati da scelte di carattere valoriale.

Inoltre se la ricerca classica studia l’esistente, la ricerca-azione invece focalizza

l’attenzione su ciò che potrebbe essere, sul cambiamento, non sulla prevedibilità ma sulla

potenzialità/possibilità.

L’intervento è percepito come avente un obiettivo pratico, concreto, di cambiare una

situazione, ma durante l’intervento si acquisisco comunque informazioni.

Ci sono molte interconnessioni tra la ricerca e l’intervento, nel senso che chi agisce sulla

realtà ha bisogno di momenti in cui si fa ricerca e momenti dedicati all’intervento perché

l’uno è finalizzato all’altro, per capire come si delinea il problema sul quale si vuole

intervenire. L’intervento può essere analizzato considerandolo come una serie di azioni

finalizzate ad alcuni scopi. Si parla di scopi perché non esiste un solo scopo, ma una

pluralità di scopi: lo scopo più condiviso (far star meglio le persone), e altri scopi (trovare

lavoro, distribuire le risorse, etc…).

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Come evidenziato nei paragrafi precedenti, i contenuti affrontati durante gli incontri sono

stati i seguenti:

- il potenziamento della capacità di “stare nel gruppo e relazionare con gli altri”,

intendendo la relazione sia coi colleghi sia con gli utenti (1° e 2° incontro);

- il potenziamento delle capacità di gestione dei limiti tra vita personale e vita lavorativa

(3° e 4° incontro);

- l’approfondimento del concetto di spazio di vita, inteso come spazio che include tutte le

varie dimensioni da quella privata a quella professionale con la conseguente capacità

di passare da un campo all’altro (5° e 6°).

Ogni incontro era poi strutturato secondo uno schema abbastanza simile:

- In un primo momento il gruppo eseguiva esercizi di espressione corporea e uso della

voce nonché esercizi di “riscaldamento di gruppo” che erano stati opportunamente

scelti e selezionati alla luce del tema da trattare durante l’incontro. La finalità di tali

esercizi era quella di preparare le OSS a recepire i messaggi dei momenti successivi

(erogati o in forma tradizionale o mediante tecniche attive). Gli esercizi svolgevano

anche una funzione di scarico sul piano corporeo/emotivo permettendo alle OSS di

liberarsi dalle tensioni, dalle rigidità accumulate durante l’attività di lavoro e di esser

pronte anche ad assumere un atteggiamento di maggiore condivisione/collaborazione

nei confronti delle altre partecipanti al gruppo. E’ essenziale sottolineare che ciascun

esercizio era calibrato ed orientato sulla base dell’obiettivo che si intendeva perseguire

durante uno specifico modulo.

- In un secondo momento poi venivano adottate tecniche che stimolavano

maggiormente la dimensione cognitiva e dunque invitavano all riflessione ed

elaborazione. In particolare la tecnica della fabulazione si è rivelata molto utile per

approfondire le dinamiche relazionali delle OSS sia verso la struttura più in generale

sia verso la Direzione. Le OSS hanno creato una vera e propria storia ambientata in

contesti e con personaggi da loro liberamente scelti e di cui la consulente si impegnava

ad ordinare in forma di copione tutte le idee e la trama spontaneamente espresse dal

gruppo delle OSS. In tal modo per le operatrici è stato possibile raccontare in forma

proiettiva e dunque meno vincolante e giudicante la storia della loro organizzazione,

ritraendo le caratteristiche principali dei vari ruoli interni come se fossero i personaggi

riccamente connotati di una storia.

- Oltre alla tecnica della fabulazione nel corso degli incontri si sono anche utilizzate, a

seconda del tema affrontato, altre tecniche attive quali appunto i giochi di ruolo e la

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simulazione di situazioni lavorative. I giochi di ruolo rappresentano una modalità

esperienziale basata sull'immaginazione e sulla capacità di immedesimarsi in una

situazione-stimolo tratta dalla vita quotidiana (lavorative o privata). I giochi di ruolo

hanno un vasto utilizzo sia in campo terapeutico, formativo e ludico. In campo

terapeutico il primo a verificare l'utilità del gioco e dell'azione drammatica nella

liberazione dei sentimenti repressi fu Jacob Levi Moreno, uno dei fondatori della

psicologia moderna, partendo dal "teatro della spontaneità" da lui sperimentato. Nello

psicodramma classico un direttore - che è un terapeuta - con l'aiuto di alcuni assistenti,

invita un paziente a rappresentare scenicamente una situazione, di vita reale, per lui

conflittuale, mettendosi a confronto con un antagonista. Anche in campo educativo fu

Moreno stesso ad avvertire per primo il valore pedagogico della drammatizzazione e

chiamò "tecniche di role-playing" le applicazioni del "teatro della spontaneità" a fini

formativi. Tale tecnica rientra all'interno del settore delle simulazioni giocate, ossia un

modo di apprendere dall'esperienza, basato sulla possibilità di agire in situazioni di vita

reale o verosimili, e di ricevere feedback dal formatore e dai partecipanti. Come è facile

intuire lo spettro applicativo dei giochi di ruolo è vastissimo ed il segreto delle

potenzialità di una tale tecnica risiede nell'avere una struttura operativa comune. Gli

elementi fondamentali di una tale struttura riguardano le componenti di base, ossia le

parti in relazione, quali la scena, il soggetto, il direttore, gli antagonisti ed un uditorio, e

ad alcuni momenti principali, ossia i tempi di relazione, quali, il riscaldamento, l'azione,

la partecipazione e il debriefing. Quello che cambia è il fine della tecnica, il modo di

utilizzarla e quindi le competenze del direttore di "gioco" ma, a rigor di logica, gioco,

educazione e terapia non sono mai state così vicine. Ciò che caratterizza

maggiormente la tecnica del role-playing, chiaramente ereditata dallo psicodramma, è

la possibilità per i soggetti di sperimentare il cambiamento tramite l’adozione di

prospettive, modi di vedere e di sentire le situazioni diversi da quelli sino a quel

momento esperiti: la spinta a cambiare, rinnovare e progredire è difficile da accettare

poiché contiene in sé l’ansia dell’imprevisto. L’individuo affronta molti cambiamenti

durante lo sviluppo: a volte accetta di nascondere parti importanti di se stesso che

vede disapprovate, o ne adotta altre per imitazione o per intuito nella speranza di

sentirsi confermato. Gli adattamenti sperimentati però non portano sempre a una

condizione di felicità: talvolta suscitano nell’individuo sentimenti di rabbia, tristezza,

disistima che spesso tendono poi a cronicizzarsi nel tempo. Nel contesto lavorativo

l’individuo, divenuto adulto, trascorre gran parte della sua giornata e vi trasferisce

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molto di sé. Per esempio non può evitare di portarvi il modo naturale di mettersi in

rapporto con gli altri né la paura di essere disapprovato né le conseguenze del suo

precedente processo di adattamento e neanche il desiderio di riconquistare le parti

perdute. Alcune dimensioni della complessa struttura di personalità del soggetto sono

evidenti mentre altre tendono a rimanere latenti ma non per questo meno incisive: anzi

è proprio su tali aspetti che la consulenza deve orientarsi in modo da sbloccare

automatismi p meccanismi inconsci che possono minare un’integrazione efficace del

soggetto nel contesto di lavoro.

- L’ultimo step di ogni incontro era infine caratterizzato dalla somministrazione di un

questionario di valutazione del singolo intervento in modo da lasciare libero spazio alle

OSS di esprimere le difficoltà incontrate ed i punti rimasti meno chiari. La valutazione

consentiva di perseguire un duplice obiettivo: da una parte, stimolava alla discussione

di gruppo le OSS in modo da condividere opinioni ed emozioni in linea col tema

trattato; dall’altra, forniva un rimando ai consulenti sull’efficacia del loro intervento e

permetteva margini di correzione all’ipotesi di sperimentazione iniziale.

Risultati emersi e criticità rilevate

Dall’analisi dei questionari e dai confronti in gruppo è emerso un sostanziale e generale

grado di soddisfazione rispetto alla tipologia di intervento. Come già specificato nei

precedenti paragrafi, il tipo di consulenza non consente una misurazione in termini di

risultati pratici e concreti immediati: la finalità ultima di un tal genere di consulenza rimane

sempre la possibilità di stimolare la riflessione all’interno dei gruppi di lavoro e l’analisi

degli aspetti meno coscienti e razionali, con ricadute pratiche sull’operato delle OSS solo

in momenti successivi alla conclusione dell’intervento consulenziale e con benefici che

afferiscono più alla sfera emotiva dei partecipanti che non allo svolgimento effettivo delle

loro mansioni. Chiaro che una gestione più efficace e controllata della sfera emotiva ha

ricadute anche sull’operatività dei lavoratori.

Di fatto dai confronti con le OSS e da un incontro di follow-up (circa due mesi dopo

l’intervento) si sono potuti evidenziare i seguenti aspetti di miglioramento:

1. una migliore gestione nel fornire e ricevere informazioni e quindi nell’accettare in modo

costruttivo le critiche altrui;

2. una più reale accettazione delle differenze interpersonali con una minor pressione da

parte del gruppo ad uniformare i membri a schemi di comportamento standardizzati;

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3. una più efficace comunicazione tra i membri del gruppo, basata anche sui sentimenti e

sulle emozioni percepite e dunque non solo vincolata alle attività ed al dato reale;

4. una più approfondita lettura del contesto di lavoro, in termini di maggiore sensibilità

rispetto alle aspettative ed ai comportamenti espressi dai soggetti nel gruppo;

5. infine una più marcata creatività nell’interpretazione del relativo ruolo da parte di

ciascuna OSS in modo da adattarsi meglio alle richieste sempre più differenziate

dell’ambiente lavorativo.

L’esito positivo della sperimentazione ha indotto la Direzione verso un atteggiamento di

benevola accettazione e valutazione nel caso di future opportunità formative e/o

consulenziali. In particolare grazie a quest’esperienza di confronto collaborativo tra le

diverse figure professionali, è stato possibile appurare il valore dell’interscambio

informativo a vantaggio di tutto il personale (e conseguentemente della struttura e della

clientela), per cui tutti i partecipanti si sono dimostrati in accordo nel perseguire, in futuro,

questa modalità di crescita tramite il confronto.

Complessivamente l’intervento è stato apprezzato da tutte le risorse coinvolte nel progetto,

in quanto ha consentito di:

- confrontarsi in modo strutturato e guidato con persone diverse, anche esterne

all’azienda, su problematiche operative ed organizzative;

- attivare il confronto intrafunzionale e lo scambio reciproco di conoscenze.

Uno spunto di miglioramento per futuri interventi è stato quello di tentare di compattare il

tempo elapsed dell’intervento, in quanto, in parte a causa dei turni piuttosto stretti e

pesanti delle OSS ed in parte per problematiche connesse all’attività lavorativa, alcune

persone hanno avuto difficoltà a percepire in modo autonomo l’organicità dell’intervento.

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Conclusioni

La potenziale domanda di assistenza agli anziani andrà aumentando e gli operatori socio-

assistenziali dovranno consolidare la gamma delle loro abilità professionali, abilità che

solo recentemente sono riusciti a perfezionare. Per tale motivo gli operatori dovrebbero

arrivare ad essere maggiormente consapevoli della loro pratica professionale e soprattutto

dovrebbero fare ogni sforzo per valutarla.

In particolare, alla luce della sperimentazione svolta e nell’ottica dei vari approfondimenti

effettuati in strutture diverse, è importante sottolineare alcune qualità che dovrebbero

caratterizzare gli interventi del lavoro sociale:

- la prima caratteristica per un’efficace prestazione d’aiuto dovrebbe essere quella di

inserirsi all’interno di un contesto interdisciplinare. Gli operatori socio-assistenziali non

dovrebbero mai isolarsi dalle altre figure professionali, potendo in tal modo condividere

le problematiche e le difficoltà che scaturiscono nell’assistenza e nella cura

dell’anziano. La demarcazione professionale netta è ancor meno utile per gli anziani

stessi considerando che i loro problemi sono sempre un intreccio inestricabile di sanità,

abitazione, reddito, aspetti psicologici, famiglia e così via;

- la seconda caratteristica deve essere quella di sostenere, trasmettere competenze,

mobilitare e condividere responsabilità dell’assistenza con una molteplicità di persone

non professionalizzate;

- il terzo punto che non si deve mai dimenticare riguarda il fatto che sia sempre

necessario valutare insieme con l’anziano stesso ciò di cui ha bisogno. Non è

immaginabile una qualsiasi forma di intervento, assistenza o cura che prescinda dalle

caratteristiche del singolo anziano: anche la popolazione anziana presenta una serie

diversificata di caratteristiche per cui forme di generalizzazione potrebbero risultare

poco efficaci se non addirittura controproducenti;

- la quarta caratteristica dovrebbe essere indirizzata a sostenere la capacità degli

anziani stessi nel fornire un contributo attivo alla società. Una strategia vincente futura

potrebbe essere quella di utilizzare il potenziale di abilità, esperienza e tempo che gli

anziani ancora possiedono ma che spesso sono largamente sottoutilizzati;

- ultimo ma non meno importante aspetto è quello legato alla necessità da parte degli

operatori di potersi avvalere di un sistema di monitoraggio continuo e costante nel

tempo onde evitare situazioni di burn-out che impediscono agli operatori di svolgere in

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maniera efficace e sana la loro pratica professionale ma portano anzi ad atteggiamenti

marcati di insofferenza verso l’assistito.

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ALLEGATI