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Atti del convegno – Torino 30 novembre – 1° dicembre 2009 Con il patrocinio IL CODICE DEONTOLOGICO: STRUMENTO DI LAVORO PER LA PRATICA QUOTIDIANA INFERMIERISTICA Collegio di Torino

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Page 1: CODICE DEONTOLOGICO: STRUMENTO DI LAVORO … codice deontologico...Per cui, sono presenti gli infermieri nel gruppo che ha determinato le nuove regole dell’accreditamento delle strutture

            

  

Atti del convegno – Torino 30 novembre – 1° dicembre 2009                 

 Con il patrocinio 

 

                       

                                    

 

 

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Collegio di Torino 

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  M.A. Schirru  (Presidente Collegio IPASVI di Torino)  Benvenuti a  tutti. Apriamo questo Convegno dal  titolo “Il codice deontologico: 

strumento di lavoro per la pratica quotidiana infermieristica” nell’auspicio di sviluppare le basi per discutere, confrontarsi ed affrontare una realtà sanitaria e professionale sempre più complessa. È grazie al confronto che si può trovare un’unità d’intenti, così che la professione possa emergere in tutto il suo valore e la sua forza quale elemento fondamentale nella conduzione della Sanità e nel dare risposte di salute ai cittadini. Ringrazio l’azienda Ospedaliera San Giovanni Battista della città di Torino per averci ospitato. Tale ospitalità ha significato per l’azienda la variazione d’impegni già assunti per un corso che, tutto sommato, rispecchia quello odierno, ossia discutere e confrontarci circa il Codice deontologico. Ringrazio quindi per un simile sforzo, per aver rinviato i programmi a livello aziendale al  fine di darci  l’opportunità d’essere qui,  insieme. Lascio  la parola alle autorità, che daranno l’avvio ai lavori di questo pomeriggio. Inizierà la rappresentante di Cittadinanzattiva e del Tribunale del Malato, signora Elisabetta Sasso.  

  Elisabetta Sasso  (rappresentante Tribunale per i diritti del Malato – Cittadinanzattiva)   

Grazie  e  buongiorno  a  tutti.  Sono  qui  in  rappresentanza  del  Tribunale  per  i  diritti  del Malato‐Cittadinanzattiva. Vi devo ringraziare innanzi tutto per l’invito. Vi porto il saluto di tutti i tribunali per  il malato sparsi  in Regione,  i quali, quotidianamente, hanno dei rapporti con voi. Devo anche ringraziarvi  per  la  collaborazione  e  la  cooperazione  che  costantemente  troviamo  con  le  figure infermieristiche.  Non  vorrei  fare  un  saluto  troppo  complimentoso  nei  confronti  della  vostra categoria, ma devo dire, anche per mia esperienza personale, che da sempre – chiariti alcuni punti fermi –  la collaborazione con gli  infermieri professionali è per noi un alleato prezioso nella tutela dei diritti del malato. Ricordo, una ventina d’anni  fa,  i primi  incontri, qui alle Molinette, proprio con  le Caposala e  le  infermiere. Ebbene, tali  incontri hanno portato ad un nucleo di persone che collaborano con  il Tribunale per  i Diritti del Malato, all’analisi partecipata della qualità, all’audit civico che, fra  l’altro, si sta svolgendo  in questi giorni  in tutta  la Regione Piemonte, anche con  la vostra  collaborazione. Quindi,  un  particolare  ringraziamento  per  l’attenzione  –  all’interno  della vostra professione – che dedicate a quanto noi proponiamo. Mi complimento anche per la vostra attenzione nei confronti dell’etica e del Codice deontologico, termini che in questo periodo stanno perdendo di significato in molte situazioni. Voi invece continuate a rispettarli, e non può che farci piacere.  È  –  quella  di  Cittadinanzattiva  –  una  richiesta  di  continuare  a  collaborare  insieme, soprattutto nella difesa della  Sanità Pubblica,  così  come  la  intendiamo entrambi. Un augurio di buon lavoro e grazie ancora a tutti quanti.       

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  Giuseppe Galanzino  (Direttore  Generale Azienda San Giovanni Battista)  Vi  ringrazio  d’essere  intervenuti  a  questa  iniziativa.  L’azienda  Ospedaliera Universitaria  Molinette  mette  volentieri  a  disposizione  le  sue  strutture  per 

convegni ed iniziative che, come scritto sul depliant, mettono al centro dell’attenzione il malato in quanto  tale.  Questa  azienda  si  sta  muovendo  da  tempo  in  tale  direzione.  Dopo  la  relazione introduttiva si terrà una Tavola rotonda sulle questioni religiose e culturali dei pazienti del Servizio Sanitario. Conosco personalmente uno dei partecipanti alla Tavola rotonda, ci siamo visti a Roma, perché  l’azienda Molinette, da circa due anni, persegue un progetto sulle religioni. Dapprima un accordo con rappresentanti di una quindicina di religioni per permettere ai pazienti di far venire, quando sono ricoverati, il proprio ministro di culto. Questo accordo è stato stipulato anche grazie alla  collaborazione  dei  cappellani  dell’Ospedale Molinette.  Inoltre,  la  scorsa  primavera  è  stata inaugurata la “stanza del silenzio” in un’area dell’Ospedale verso via Genova, via Cherasco. Questa “stanza del silenzio” – aperta  tutti  i giorni dalle nove del mattino alla  sera – è un  luogo  in cui  i pazienti  ed  i  loro  parenti  –  credenti  o meno  –  possono  recarsi  a meditare,  a  pregare,  senza chiedere  nessun  particolare  permesso.  Abbiamo  notato  –  da  un  registro  posto  all’esterno, naturalmente  non  vi  è  nessun  controllo  –  che  è  discretamente  frequentata,  in  particolare  da seguaci di alcune religioni. Queste  sono  alcune  delle  iniziative  che  sono  state  assunte  in  un  contesto  in  cui  l’Ospedale Molinette ospita pazienti extracomunitari e/o di religioni diverse.  Ritengo  che  gli  infermieri  saranno  sempre  più  protagonisti  del  nostro  Sistema  Sanitario.  Con l’introduzione  del  numero  chiuso  alla  Facoltà  di Medicina,  gli  attuali  numeri  dei medici  –  sto parlando di Molinette –  saranno  irripetibili. Do  solo una cifra: alle Molinette abbiamo circa 950 medici  dipendenti  e  1.800  studenti  che  frequentano  la  Facoltà  di  Medicina,  più  1.200 specializzandi. Non  tutti  fra  i  1.800  studenti  sono  già  laureati, naturalmente. Questi numeri,  in particolare  i  950 medici,  sono numeri overdosati, nel  senso  che  tra  i  grandi ospedali  italiani  le Molinette  è  l’azienda  che  ha  il maggior  numero  di medici. Questo  consente  alle Molinette  di essere quasi sempre in testa alla graduatoria nazionale in fatto di case‐mix, di media del peso del DRG  prestato  ai  pazienti.  Sarà  impossibile  riprodurre  questo  numero.  I  buoi  in  parte  sono  già scappati, nel senso che ogni tanto si sente qualcuno che afferma che bisogna abolire o allargare il numero  chiuso. Credo  che  nei  prossimi  dieci  anni  ci  sarà  un  po’  di  rivoluzione  copernicana nel settore dell’assistenza, nel  senso che gli  infermieri avranno  sempre più  importanza e dovranno, secondo me, cominciare, in qualche modo, ad occuparsi di cose che in questo momento spettano ai medici, perché il loro numero non sarà più quello. In questo ospedale l’età media del personale medico va dai 53 ai 58 anni, per cui fra dieci anni, se non prima, una  larga parte di questi medici comincerà ad andare in pensione.  Al  di  là  delle  parole  ci  stiamo  già  muovendo  in  una  direzione  di  questo  tipo:  dal  giugno  di quest’anno, sulla base di un progetto cittadino, due aziende sanitarie di Torino – Molinette e ASL TO  2,  quella  di  barriera  di Milano  –  hanno  preso  in  gestione  delle  strutture  socio‐sanitarie.  Le Molinette hanno preso in gestione i Poveri Vecchi, in Corso Unione Sovietica, la storica struttura di ricovero per i cittadini torinesi. Andremo progressivamente a farne una struttura di post ricovero. In questa struttura di post ricovero avrà larga preponderanza la parte relativa alle cure tutelari e, in minor misura  che  in  ospedale,  le  cure  sanitarie.  Abbiamo  previsto  –  in  primavera  dovremo aprire  i primi due piani – un  reparto di  soli  infermieri, una  struttura  a  gestione  infermieristica, dedicata, nel momento in cui faremo questa sperimentazione, al post ricovero. 

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Credo che la direzione giusta stia nell’assumere delle iniziative, nell’impiegare il vostro background culturale al fine di riunire le professionalità, superare le barriere e cercare finalmente di mettere il malato  al  centro  dell’attenzione.  È  essenziale  in  un  ospedale  altamente  specializzato  come  il nostro,  perché  in  questo momento,  o  fino  a  questo momento,  è  il malato  che  gira  all’interno dell’ospedale e non  l’ospedale che si  fa carico di andare dal malato e considerarlo una persona completa, anche con i suoi bisogni non solamente sanitari. Buon lavoro e grazie.  

  Oscar  Bertetto  (Direttore Generale dell’Agenzia Regionale per i Servizi Sanitari)  Mi è particolarmente gradito essere presente all’inaugurazione di questo vostro Convegno perché l’Agenzia Regionale  ha caratterizzato – in questi suoi tre anni di lavoro,  che  sono  gli  anni  in  cui  sono  andato  a  dirigerla  –  una  presenza 

infermieristica attiva in tutti i gruppi di lavoro dell’Agenzia. Quando dico tutti i gruppi di lavoro non intendo  soltanto nei percorsi diagnostico‐terapeutico‐assistenziali – dove era dato per  scontato che  fossero  presenti  gli  infermieri  a  determinare  parte  di  questi  percorsi,  sin  dalla  costruzione degli stessi – ma anche in quelli che vengono definiti progetti più strutturali della Sanità Regionale. Per  cui,  sono  presenti  gli  infermieri  nel  gruppo  che  ha  determinato  le  nuove  regole dell’accreditamento delle strutture sanitarie e sono presenti gli  infermieri a determinare questo accreditamento.  E’  una  vostra  collega,  un’infermiera,  a  dirigere  il  gruppo  che  sta  portando  il cittadino a compartecipare a momenti dell’accreditamento per processi come quello che stiamo portando  avanti  per  la  protesi  d’anca. Nell’ambito  del  rinnovamento  dell’informatizzazione  del sistema,  gli  infermieri  si  stanno  occupando  di  una  ricerca  clinica  che  sta  paragonando  cartelle infermieristiche informatizzate in uso in Europa: stiamo valutando quella spagnola, quella svizzera, quella tedesca  in una ricerca che è tutta condotta esclusivamente da  infermieri. Così come sono infermieri la maggioranza delle persone che in questo momento sta realizzando le interviste negli ospedali della nostra Regione e  in seguito a  livello territoriale, per valutare  lo stato della “clinical governance” presente nelle nostre  strutture  sanitarie. Per entrare un po’ più nello  specifico del tema di oggi – siccome non voglio caratterizzare gli interventi ai congressi come interventi formali di saluto, ma anche come assunzione di responsabilità dell’Agenzia nei confronti degli  infermieri sulle tematiche che oggi andrete a discutere – voglio ricordare che il regolamento con cui abbiamo messo a punto  il nuovo sistema di formazione ECM Regionale prevede, come provider, proprio  i Collegi Infermieristici della Regione e li vede appunto come provider nella promozione di corsi, di congressi e di momenti di aggiornamento per quanto riguarda tutto  il campo della deontologia e dell’etica,  due  argomenti  che  classicamente  fanno  parte  dei  compiti  istituzionali  dei  Collegi Infermieristici. Accanto a ciò  stiamo promuovendo – nuovamente con una  forte componente di presenza  infermieristica –  la costruzione di spazi etici di discussione a  livello delle aziende, che è uno dei punti del progetto del “Piano di   Attività e Spesa” dell’A.Re.S.S. per  il 2010. Spazi etici, perché  noi  riteniamo  che  debba  essere  data  voce,  all’interno  delle  strutture  sanitarie,  alle tematiche etiche  che derivano dalla quotidianità del nostro lavoro e che non vengono affrontate dai  Comitati  etici  aziendali  che  in  qualche modo  riservano  la maggioranza  dei  loro  interventi all’esame dei protocolli di ricerca. Sulla base del modello francese, promuoveremo, a livello delle nostre aziende, l’apertura di questi spazi etici di discussione.  Un  altro  tema  che  sarà  dibattuto  nel  vostro  Convegno  e  che  stiamo  seguendo  con  particolare attenzione, è la promozione della ricerca in ambito infermieristico. Questo presuppone la presenza degli infermieri a livello dei Comitati etici, presuppone una diversa valutazione che i Comitati etici 

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devono fornire riguardo i  protocolli di ricerca, ma significa anche promuovere momenti di ricerca a  livello di attività quotidiana di  lavoro,   dove  lavoro  formazione e ricerca si  intersecano. Penso, per esempio, alle comunità di pratica come modalità nuove per promuovere formazione e ricerca a  livello regionale, un altro dei campi su cui credo che una vostra collaborazione sarà oltremodo necessaria.  Altro tema discusso nel congresso – ed è un classico tema etico – riguarda  l’equità di accesso ai servizi. Tutto  il tema dell’equity audit e dell’attenzione all’equità di accesso  in tutti  i progetti che l’Agenzia va predisponendo è un tema su cui  lavorare  insieme. Ma tutto ciò, secondo me, non è possibile senza affrontare un discorso di  fondo che  io definisco di “empowerment organizzativo della  figura  infermieristica  all’interno  dei modelli  organizzativi  aziendali”.  Ritengo  sia  giunto  il momento  di  rivedere  la  riorganizzazione  Aziendale  per  dare  sostanziale  voce  al  mondo infermieristico, ma questo  lo si realizza non solo chiedendo a posteriori    l’apporto  infermieristico su progetti già elaborati, ma che  i progetti  futuri vengano definiti  fin da  subito con  la presenza della  vostra professionalità.  Stiamo quindi promuovendo  tutto  ciò all’interno di un discorso più generale  sull’empowerment  che,  naturalmente,  tiene  conto  in  primo  luogo  dell’empowerment individuale  del  cittadino  ‐  punto  di  forza  di  tutto  il  sistema  ‐  ma  subito  dopo  valuta  anche dell’importanza  di  promuovere  l’empowerment  organizzativo:  la  figura  infermieristica  non  può che  essere  tenuta  in  particolare  considerazione,  come  abbiamo  già  sentito  dalle  parole  del Direttore Generale dell’Azienda che sta ospitando questo Congresso.  Quattro grandi  impegni sono di fronte a noi:  il ruolo dell’infermiere nella ricerca; gli spazi etici di discussione all’interno dell’Azienda ed  il  ruolo dell’infermiere all’interno di questi  spazi;  il  ruolo che può svolgere l’infermiere nell’equity audit e nel garantire l’equità di accesso alle prestazioni, il ruolo  di  una  diversa  organizzazione  aziendale  e  quindi  di  empowerment  organizzativo infermieristico,  in  particolare  nei  nuovi  modelli  di  struttura  ospedaliera  che,  anche  quando esaminano nuovi percorsi come quello per  intensità di cura, parlano ancora di  intensità di cura e non di assistenza, causando quindi un ulteriore problema    in un ospedale che viene valutato  in base ai DRG prodotti. Abbiamo sentito  il Dr. Galanzino parlare di case‐mix, ma  il case‐mix  tiene conto di una visione dell’assistenza ospedaliera che è ancora   basata sull’intervento di  tipo solo medico, mentre noi dobbiamo promuovere anche  la valorizzazione delle  tematiche di  carattere infermieristico.  È probabile quindi si debbano valutare anche nuove unità di misura delle prestazioni che vengono fornite dalle nostre strutture sanitarie, ed è proprio su queste novità che A.Re.S.S sviluppa  il suo compito, ossia quello di percorrere strade innovative per valutare se possiamo valorizzare sempre più  tutte  le  figure degli operatori del  Sistema  Sanitario Regionale Piemontese  e,  in particolare, data la giornata di oggi, quella infermieristica. Grazie.  

  Mario Paleologo  (Direttore S.I.T.R.A. delle Molinette)  Ringrazio gli organizzatori di questo evento, la Presidente del Collegio IPASVI e la Presidente  del  CESPI  per  avermi  invitato  all’apertura  dei  lavori  di  questo importante e significativo Convegno. Ringrazio in particolare gli infermieri, i veri 

attori ed  i  veri protagonisti,  in quanto  sono  sempre più  consapevoli di  come  il  rapido evolvere delle conoscenze richieda  loro di risolvere problemi sempre più complessi. Così come si saranno accorti anche dell’evoluzione e della personalità dei soggetti, dei gruppi sociali e della cittadinanza di  fronte  ed  in  presenza  di  situazioni  legate  ai  problemi  della  salute.  Così  anche  della 

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trasformazione  delle  istituzioni  che  operano  nel  campo  della  salute  che  di  conseguenza determinano,  hanno  determinato  e  determineranno  sempre  più  la  dilatazione  e  l’ampliamento delle  funzioni  dei  ruoli  degli  stessi  operatori  coinvolti  all’interno  dei  vari  contesti  assistenziali. Riporto quindi l’attenzione al titolo di questo evento:  “Il Codice deontologico: strumento di lavoro per la pratica quotidiana infermieristica”.  Titolo che, a mio parere, rappresenta o dovrebbe rappresentare, sia ai cittadini che alle istituzioni, la visione  strategica attraverso  la quale  l’infermiere  si  ispira  con maggiore  competenza e  rigore morale per approcciarsi più coerentemente all’evoluzione di concetti come  la salute,  il processo assistenziale, il cambiamento organizzativo.  Mi auguro che questo evento accresca la consapevolezza di muovere decisi passi in direzione di un riequilibrio del rapporto tra professione e società e tra infermiere e persona assistita, consapevoli che ciò comporta un  riesame del proprio  ruolo professionale alla  luce dei nuovi mutamenti, del modo di pensare alla vita umana e alla salute, dei concetti  fondamentali della tradizione e della storia infermieristica, dell’assistenza infermieristica e degli impegni assunti nel tempo.  Domandiamoci tutti: cos’è cambiato o cosa sta cambiando nell’assistenza infermieristica?  O  meglio:  un’assistenza  infermieristica  autorevole,  capace  di  fungere  da  guida  all’attività professionale, cosa deve fare?  Sono  certo  che  nel  corso  di  queste  due  giornate  saranno  date  delle  risposte  chiare,  esaustive, capaci  di  delineare  il  cammino  che  la  professione  deve  compiere  per  arrivare  al  pieno riconoscimento nei diversi contesti assistenziali. Ma la domanda vuole porre in realtà l’attenzione su due aspetti.  Il primo: emerge la necessità, almeno sul piano dialettico, di chiarire ulteriormente che la prassi e la  teoria  non  sono  in  conflitto,  anzi,  si  completano  e  si  spiegano  a  vicenda  nella  figura  stessa dell’infermiere  che  agisce  in  una  data  situazione  assistenziale.  La  saggezza  pratica  consente all’infermiere di interpretare adeguatamente la complessità della situazione assistenziale con tutto se stesso, con la sua capacità, con la sua tecnica, con la sua umanità, e la teoria infermieristica lo aiuta  ad  erogare  un’assistenza  infermieristica  misurabile,  efficiente,  efficace  e  soprattutto rispettosa delle  irriducibili alterità del paziente. Quindi, è fondamentale aver chiaro che gli  ideali conoscitivi e pratici di un tale sapere teorico non si fermano alla conoscenza dell’oggetto studiato, ma ne ricercano in profondità la comprensione e non si accontentano dell’applicazione neutrale di procedure  tecniche  ancorché  massimamente  accreditate,  ma  misurano  l’adeguatezza  della pianificazione  attraverso  una  maggiore  partecipazione  della  persona  e  attraverso  la personalizzazione dell’assistenza.  Il secondo aspetto: il timore della divisione tra generazioni, la fatica di tenere insieme l’identità. Le componenti professionali diverse per età, generazione e formazione fanno fatica a stare insieme. Attenzione: la grande forza degli infermieri sta proprio nei tanti cervelli che la compongono e nella capacità  di  stare  insieme.  Quelli  della  mia  generazione  hanno  costruito  la  propria  identità professionale  sull’ideale  di  servizio,  sulla  capacità  di  anteporre  ai  propri  bisogni  quelli  della persona  assistita  ed  è  in  tal  senso  che  oggi  il  nuovo  Codice  deontologico  rafforza  il  principio secondo il quale intende l’assistenza infermieristica come servizio alla persona. È un servizio posto proprio  in  risposta  ai bisogni della persona  e  al  rispetto dei diritti  fondamentali dell’uomo, dei principi etici della professione, è condizione essenziale per  l’assunzione della responsabilità delle cure  infermieristiche,  considerato  che etica, umanizzazione e   qualità  sono  i  tre pilastri messi a fondamento della struttura organizzativa del sistema socio‐sanitario. La condivisione piena, vera, reale di un  ideale di servizio può unire gli  infermieri a garantire una  legittimità del proprio ruolo nei diversi contesti assistenziali. Grazie e buon lavoro.   

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   Maria Adele Schirru  (Presidente Collegio IPASVI di Torino)   Ringrazio le autorità per averci dato il saluto ed il loro contributo.  Iniziamo  così  i  lavori,  richiamando,  come  ha  detto  il  collega,  il  titolo  di 

questo Convegno. Lui è convinto che da queste giornate emergeranno risposte esaustive. Lo spero anch’io. Il problema sta nel fatto che affrontiamo un argomento complesso e molto probabilmente non esistono verità assolute o ricette da trasmettere. È molto più probabile che da queste giornate emerga un metodo,  la possibilità di  trovare attimi di  riflessione che vadano al di  là dello  stesso Convegno, ma che diventino la quotidianità nelle nostre unità operative.  Cedo  la  parola,  per  la  prima  relazione,  alla  Presidente  della  Federazione Nazionale  dei  Collegi, Annalisa Silvestro.   

  Due  concetti  chiave  nell’azione  professionale  delle’infermiere: accontability, advocacy   Annalisa Silvestro  (Presidente Federazione Nazionale dei Collegi IPASVI)   Ringrazio  gli ospiti e  la Presidente per questo  invito e per  avermi dato  la possibilità di continuare un percorso che alla fine toccherà tutte le province 

italiane. Come collettività professionale – oltre ad aver realizzato un grosso  lavoro di confronto, dibattito e riflessione per elaborare il nostro nuovo Codice deontologico – proseguiamo su questo cammino per fare in modo che, con questo Codice deontologico, tutti gli infermieri possano avere un  momento  di  incontro,  di  scambio  di  informazioni,  di  riflessioni  per  renderlo  –  come giustamente diceva la Presidente nel titolo del Convegno – uno strumento di lavoro, un qualcosa a cui  gli  infermieri possano  sistematicamente  riferirsi nel momento  in  cui  svolgono  le  loro  azioni assistenziali, che sono azioni sempre più complesse perché ormai, come veniva  fra  l’altro anche detto dal vostro Direttore dell’agenzia, quello che oggi viene chiesto agli infermieri – non soltanto dalle Direzioni generali delle organizzazioni o  comunque da  chi ha  responsabilità gestionali, ma anche dai cittadini, dalla collettività nazionale – è di non essere solo dei professionisti sanitari  in grado di dare risposte attraverso prestazioni, azioni, gesti affidabili, direi rigorosi da un punto di vista scientifico ed anche caldi nel modo di porsi nei confronti dell’assistito, ma anche di assumere delle  posizioni  a  valenza  più  ampia  di  quella  che  forse  fino  a  non  molto  tempo  fa  noi consideravamo  come  il  cuore  del  nostro  esercizio  professionale.  Sto  parlando  di  posizioni  più ampie ovverosia posizioni di  sistema, non  solo di Sistema Sanitario, perché da quel versante mi pare  di  poter  dire  –  con  alti  e  bassi,  con  punti  di  forza  e  di  debolezza  –  che  il  nostro  gruppo professionale comincia ad avere consapevolezza del ruolo che riveste all’interno del sistema, che genere di anello è diventato nell’ambito della catena dei servizi, quanto sia importante il ruolo che svolge e quanto sia fondamentale una sua sempre   maggiore acculturazione tecnico‐scientifica e professionale per continuare a fornire queste risposte. Mi sento di affermare che iniziamo un po’ 

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tutti a riflettere, ad avere consapevolezza di noi stessi. Fino a non molti anni  fa pensavamo che l’assistenza  fosse  parte  della  clinica  e  che  quindi  fosse  preminente  il  processo  diagnostico‐terapeutico.  Di  conseguenza,  ritenevamo  che  la  formazione  e  l’attività  degli  infermieri  fosse prevalentemente  una  formazione  e  un’attività  che  dovesse  rendere  gli  infermieri  in  grado  di essere  un  brillante,  capace,  eccellente  collaboratore  del  medico  nel  dare  corso  alla  verifica dell’ipotesi diagnostica e quindi nella definizione dei percorsi terapeutici. Adesso sono le richieste che  ci  provengono  dagli  assistiti,  ma  anche  dai  Direttori  generali  e  da  chi  ha  responsabilità gestionali. Ci stiamo rendendo conto che, in realtà, fino a non molto tempo fa siamo vissuti in una stereotipia d’impostazione  che non ha molti  agganci né  con  la  realtà né  con  le  richieste  che  ci vengono fatte né con i contenuti scientifici del lavoro che svolgiamo, sia come singoli professionisti che nell’ambito dell’equipe assistenziale. Ossia: è  la clinica che  fa parte dell’assistenza. A questo punto,  se  è  così,  ed  io  sono  profondamente  convinta  che  lo  sia,  il medico,  quando  imposta  il processo diagnostico ed  il processo  terapeutico, se vuole essere un professionista  tutto  tondo – prestando quindi  la dovuta  attenzione  al  cittadino,  all’alleanza  col  cittadino e  alla progettualità rispetto  ad  obiettivi  di  salute  che  si  vuole  tutti  insieme  far  raggiungere  allo  stesso  –  non  può prescindere dall’impostazione assistenziale, altrimenti ci troveremo a continuare a portare avanti all’infinito quella scollatura che c’è nelle unità operative, perché non è mica tanto vero che medici ed  infermieri  sono  così  “embricati”,  che  lavorano  in maniera  così  integrata. Non perché non  lo vogliono fare, non perché non hanno compreso che questo è il metodo migliore per giungere agli obiettivi, ma perché partono da presupposti assistenziali – nell’assistenza metto anche la clinica –diversi. Hanno  una  lettura  su  base  disciplinare  diversa  del  problema,  non  riescono  sempre  ad integrarsi perché forse qualcuno parte dal presupposto di una superiorità  intellettuale, culturale, decisionale, organizzativa e di processo che vorrei capire bene su cosa si basa. Allora, finché, come infermieri,  non  mettiamo  in  discussione  tutto  ciò,  siamo  in  evidente  difficoltà,  tendiamo  a frustrarci  nelle  nostre  aspettative  professionali,  tendiamo  a  ritenere  che  l’organizzazione  ci  sia matrigna,  tendiamo  a  pensare  che  non  si  tenga  in  debito  conto  le  necessità  che  hanno  gli infermieri  per  poter  dare  quel  certo  tipo  di  assistenza  che  viene  richiesta  ai  cittadini.  Di conseguenza, tutto questo si riverbera e si ripercuote sull’assistenza che noi prestiamo ai cittadini e quindi sui risultati di salute.  Prima di ragionare insieme ai voi sulla suggestione che mi ha provocato il titolo della relazione che la vostra Presidente mi ha assegnato, volevo fare ancora due riflessioni rispetto all’intervento del direttore  dell’ARES.  Intervento  direi  ottimo,  attento  e  di  grande  apertura.  Però,  nello  stesso tempo, di un’apertura limitata. Si continua a dire che gli infermieri sono importanti perché fanno la rilevazione dei dati, le indagini, perché fanno tutta una serie di attività importanti. Guai se non ci fossero: è un  inizio, è un proseguo estremamente positivo. Ma vorrei sentirmi dire dai Direttori dell’agenzia regionale, ma anche dai Direttori generali, che si comincia a coinvolgere gli infermieri non soltanto per questi importantissimi spazi di tipo etico e scientifico. La ricerca: bene, speriamo che  i  Comitati  etici  comincino  a  pensare  che  devono  occuparsi  unicamente  delle  ricerche,  che hanno come Direttore scientifico un clinico, perché altrimenti andiamo poco avanti. Così come è importante anche parlare di equità, di accesso ai servizi e soprattutto di equità di risposta, ma sta qui il problema. Io vorrei sentirmi dire da questi direttori – che hanno un forte potere decisionale, che hanno la possibilità di orientare in un modo piuttosto che in un altro la realtà sanitaria di una Regione  –  che  forse,  per  vedere  se  l’accesso  al  servizio  è  equo, ma  soprattutto  se  è  equa  la distribuzione delle risorse per poi dare risposta a chi ha fatto accesso ai servizi, è il caso di iniziare a  parlare  anche  con  gli  infermieri,  non  soltanto  coinvolgendoli  quando  le  decisioni  di massima sono prese. Coinvolgendoli prima.  Sono  d’accordo  con  il  vostro  Direttore  dell’agenzia  quando  dice  che  bisogna  andare  verso l’empowerment  organizzativo.  È  da  una  vita  che  lo  chiediamo,  perché  in  un’azienda  la  parte 

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prevalente dei professionisti sanitari non è rappresentata dai medici, ma dagli infermieri. E allora, finché  non  li  coinvolgiamo  –  per  davvero,  direttamente  –  sulla  progettualità  organizzativa perdiamo una grande opportunità, continuiamo a mantenere questo senso di distacco, alle volte di  frustrazione, questo disagio e comunque, a  lungo andare, questa  forte sensazione  interna del non riuscire –  io  infermiere – ad esprimermi professionalmente, a trasmettere quei contenuti di competenza, di valorialità, di attenzione  che vorrei dare  in quanto  l’organizzazione mi mette  in difficoltà.  Quando  si  parla  degli  ospedali  per  intensità  di  cura  è  da  un  paio  d’anni  che  noi  infermieri, all’interno  della  rappresentanza  professionale,  stiamo  dicendo  che  è molto  limitato  parlare  di intensità di cura, a meno che non si prenda a termine di paragone il concetto che dietro la cura ci sia anche, e insieme, l’assistenza. Però è un concetto che noi non amiamo molto per il discorso che facevo prima. È da tempo che stiamo dicendo che gli ospedali vanno organizzati per complessità assistenziale,  ovverosia  sulla  base  della  complessità  che  presenta  l’assistito  e  soprattutto  sulla base del consumo di risorsa professionale e infermieristica che quell’assistito richiede per avere la tal prestazione. Di conseguenza, avrò un’organizzazione che pone realmente al centro dell’operare la persona e allora, forse, comincerò a mettere in discussione il fatto che siamo ancora organizzati – nelle nostre strutture ospedaliere ed in parte nei nostri servizi territoriali – come lo eravamo alla fine degli anni ’60, quando è stata approvata la legge di riforma ospedaliera, la legge Mariotti, che ha organizzato gli ospedali dividendoli in varie tipologie. Quello che mi preme affermare è che tale legge ha organizzato gli ospedali nei reparti: maschile e femminile.  In seguito  i reparti sono stati chiamati  in  un  altro modo.  Li  abbiamo  chiamati  unità  operative  semplici  e  complesse,  prima c’erano  i moduli, eccetera, eccetera. Adesso  le unità operative semplici e complesse  le abbiamo inserite dentro i dipartimenti. Abbiamo creato questa sovrastruttura che doveva avere l’obiettivo di  concentrare  molto  l’attenzione  sul  cittadino,  favorendogli  la  continuità  assistenziale  intra‐ ospedaliera, così da mettere a disposizione  le competenze diversificate per  il progetto di  salute della  persona.  In  realtà,  si  è  rivelata  una  sovrastruttura  che  non  ha  inciso  minimamente sull’organizzazione degli ospedali,  tant’è che abbiamo ancora  le nostre unità operative –  lo dico frequentemente e  lo ridico anche qui – che sembrano  i castelli medievali dei reami delle nostre favole: il castello con la torre, la bandierina in cima, il fossato, gli alligatori, il ponte levatoio. Non è facilissimo entrare  se  il castellano non dà  l’autorizzazione ed è praticamente  impossibile uscire, potresti morire di  fame  lì dentro, perché non  ti arrivano  le  risorse, perché chi  le deve  fornire  le deve distribuire per tutti  i castelli. Ognuno sta nel suo castello e quello che gli viene dato non è sufficiente per farlo funzionare a dovere. È un grosso problema, e se per caso qualcuno emigra in un  altro  castello  ricomincia  tutto  daccapo,  perché  le  notizie  non  passano,  le  informazioni  non devono muoversi, soprattutto non vorremo mica disseminare competenze – ognuno ha le sue – e per cui  il paziente di tipo chirurgico è assolutamente diverso da quello di tipo  internistico. Non è quindi  neppure  possibile  uno  scambio  di  competenze,  di  capacità,  anche  per  crescere,  per integrarsi.  Se  fosse  stato  presente  il  dottor  Bertetto  avrei  colto  immediatamente  la  palla  al  balzo sull’empowerment  organizzativo.  Bene,  cominciamo  a  lavorare.  Cominciamo  a  dire  che  siamo disponibili ad andare  in questa direzione. Poi vediamo come  riusciamo a gestire  la conflittualità che ne deriverà nel momento in cui dovremo andare a dire che, organizzandoci così, forse siamo in grado di superare le aggregazioni per disciplina clinica dei degenti, forse possiamo fare le aree. Io lavoro in un’azienda in cui stiamo tentando di realizzare questa cosa, dove non c’è più solo il nome del  primario,  ma  c’è  il  nome  dei  primari  i  cui  pazienti  afferiscono  a  quell’area  di  degenza ospedaliera,  perché  il  vero  nome  che  viene messo  a  grandi  lettere  è  quello  del  coordinatore infermieristico che si gestisce tutti i processi assistenziali e organizzativi, e quindi anche clinici che sono  all’interno  di  quell’area. Quindi,  da  questo  punto  di  vista,  a me  vanno  benissimo  queste 

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aperture e questi orientamenti, vorrei però che non  fossero solo  in determinate aree, ancorché importantissime, non vorrei essere fraintesa. Almeno in questa Regione le sento dire queste cose. Se  facessi  queste  affermazioni  in  altre  regioni  mi  guarderebbero  con  occhi  stravolti,  non capirebbero neppure di cosa stiamo parlando. E magari mi sentirei dire: “Sa, Presidente, noi  in  tutta  la Regione abbiamo messo  in percorso,  lo  faremo, un  concorso per nominare come responsabile della struttura complessa un suo collega.”   Oibò! Io dico: “Scusi, ma dov’è la grande novità?”  “Beh, è una struttura complessa.”  Al di  là della struttura complessa, che mi pare una cosa normale, non ho capito perché noi non dovremmo ambire … non lo so, proprio non lo so … E su tutto il resto?  Il nulla … Credo  sia  quindi  molto  importante  confrontarsi  su  queste  questioni,  ma  ritengo  anche  che dobbiamo fare un ragionamento più ampio, perché altrimenti continueremo ad autoconfinarci  in certi spazi. Ieri l’altro è arrivato nel mio ufficio una e‐mail da parte del nostro servizio giuridico: “vi inviamo  il bando di concorso per  la posizione di direttore di una APS”,   azienda per  i  servizi alla persona: nella Regione Emilia‐Romagna  si  va  in quella direzione. Apro  l’e‐mail per  controllare  i requisiti di accesso:  laurea  in medicina no, per fortuna, psicologia, pedagogia, sociologia, scienze infermieristiche  no.  Come mai?  Forse  non  sanno  neppure  che  esistono?  Può  darsi.  Possiamo pensare che gli infermieri abbiano un titolo di formazione tale che permetta loro di andare in una certa  direzione?  Ho  chiamato  subito  il  Collegio  e  vedremo  di  capirci  qualcosa.  Altrimenti,  ad esempio,  l’impegno  che mettiamo nei nostri percorsi  formativi post based dove  lo  riempiamo? Sempre al nostro interno?   Questa riflessione non era prevista, ma la voglio condividere con voi: è vero  che  noi  stiamo  prendendo  velocità,  che  siamo  impostati  in  una  strada  a  quattro  corsie. Verissimo.  È  vero  che  se  cominciamo  a  ragionare  come  ipotizzavo  adesso,  anche  per  quanto riguarda  l’organizzazione  degli  ospedali,  siamo  in  grado  di  fare  delle  proposte  di  profonda revisione dei DRG, che in effetti non hanno più senso di essere per come si stanno impostando le cose.  Volevo anche aggiungere – e poi ritorno sulla mia tematica, che è comunque correlata a quanto vi sto dicendo – che dobbiamo cominciare a nutrire  la consapevolezza che quando ci viene detto – “avete le strade aperte, vi coinvolgeremo nei servizi sul territorio, vi daremo la possibilità di gestire dei  reparti  per  conto  vostro”  –  pur  sottolineandone  l’indubbia  positività,  non  è  una  gentile concessione:  è  l’andamento  demografico  ed  epidemiologico  del  nostro  Paese  che  costringe, induce ad andare in quella direzione.  Che senso ha continuare a  tenere come  figura preminente e centrale  il medico quando  la parte prevalente dei bisogni delle persone anziane con patologie cronico  ‐ degenerative, con  fragilità, con demenza non ha nulla di clinico, ma esprime un bisogno prevalentemente assistenziale?  Dobbiamo quindi avere la consapevolezza che bisogna tenere conto di queste variazioni rilevanti, ma soprattutto dobbiamo anche tenere conto che abbiamo  in buona parte compreso che non si può continuare a medicalizzare tutto, ma che bisogna cominciare a ragionare in maniera diversa e che  bisogna  quindi  concretizzare  anche  quel mondo  valoriale  che  ci  viene  spesso  riconosciuto come  un  elemento  a  cui  noi  ci  riferiamo  sistematicamente, ma  che  non  può  essere  solo  un riferimento  valoriale  degli  infermieri.  Deve  essere  un  riferimento  valoriale  dell’intera organizzazione,  altrimenti  diventa molto  difficile  dare  sostanza  e  contenuto  etico  alle  cose  che facciamo dentro la nostra collettività, tenuto conto del fatto che noi svolgiamo una funzione molto importante: non solo quella di riportare al migliore equilibrio di salute possibile la persona di cui ci 

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occupiamo e  a  cui  facciamo  assistenza, ma  anche  accompagnare,  sostenere,  supportare questa persona quando la clinica può poco, mentre invece l’assistenza può ancora, e molto, in termini di ascolto, di accompagnamento e di attenzione alle mire.  Tengo a ribadire che quanto ci è stato detto è molto importante, ma vi invito anche a riflettere su queste altre componenti che ritroverete nel Codice deontologico che abbiamo approvato all’inizio di quest’anno, e che si basa proprio su questi valori e su queste riflessioni e dà degli  input molto importanti,  io  credo,  ai  professionisti  infermieri.  Ma  dà  degli  input  anche  ai  cittadini  –  che vorranno accostarsi alla lettura del nostro Codice – relativamente a ciò che possono aspettarsi dai professionisti  infermieri  presenti  nella  clinica,  nella  quotidianità  operativa,  ventiquattro  ore  al giorno per trecentosessantacinque giorni all’anno. Questo Codice dà anche degli input importanti per chi deve formare i futuri professionisti, chi deve “manutenerne" le competenze, che non sono solo di tipo tecnico‐scientifico, ma sono anche di tipo valoriale, e dà anche degli input a chi li deve poi gestire, organizzare, dirigere al  fine di  fare  in modo che  il contesto organizzativo  in cui sono inseriti li faciliti e li sostenga nella loro attività assistenziale, nei processi che mettono in atto.  Le due parole chiave che danno  il “là” al titolo della relazione – “accontability” e “advocacy” – si sposano  con  quello  che  sto  cercando,  spero  in  maniera  corretta,  di  trasmettervi.  Perché responsabilità, lo ribadisco, non è solo la responsabilità che mi lega al mio assistito nel momento in cui concretizzo  l’assistenza a  lui diretta, ma è  la  responsabilità che mi  lega anche a come mi impegno  nell’ambiente  assistenziale  affinché  vi  sia  tutto  quello  che  serve  al  cittadino;  inoltre, responsabilità per come  io  infermiere mi  impegno perché anche gli altri componenti dell’equipe pongano  al  centro  del  loro  operare  quello  che  è  il  progetto  di  vita  del  cittadino.  È  una responsabilità,  come  dicevo  prima,  anche  nelle  scelte  di  politica  sanitaria  nazionale,  non  solo quelle che riguardano il Servizio Sanitario Nazionale, ma anche quelle che riguardano altri ambiti i quali tuttavia impattano sul Servizio Sanitario Nazionale ancorché regionalizzato.  Porto un esempio: la professione non poteva non impegnarsi sulla riforma dell’università. I nostri futuri  professionisti  si  formano  lì.  Le  competenze  si  ridisegnano  grazie  ai modelli  cognitivi  che acquisiscono  durante  il  percorso  formativo.  L’esperienza  poi  li  arricchisce  e  ridelinea  le competenze. L’università è  la nostra agenzia professionalizzante di riferimento. Come potevamo non cogliere con grande preoccupazione quello che  si  stava profilando e che, anche  se non del tutto scongiurato, pare giunto a positiva conclusione? Si voleva accorpare ad altri il nostro settore scientifico‐disciplinare. C’era stato un momento in cui pareva addirittura che venisse soppresso. I nostri professori in infermieristica avevano provato a condurre a buona ragione chi stava facendo queste riflessioni nel momento in cui si è visto che non si riusciva a far comprendere l’importanza di mantenere la specificità disciplinare infermieristica nella formazione degli infermieri. Lo ritengo un nonsenso. Si metteva in dubbio questo concetto. Perché? Perché, evidentemente, si partiva dal presupposto  che,  fondamentalmente, noi non abbiamo una disciplina perché  il nostro punto di riferimento  è  la  clinica,  è  la  medicina.  Di  conseguenza,  ci  siamo  coagulati  attorno  a  questo fondamentale obiettivo: “noi vogliamo avere  la nostra disciplina nei percorsi di  formazione degli infermieri  perché  altrimenti  non  faremo  assistenza  infermieristica,  non  avremo  infermieri  che fanno  assistenza  infermieristica, ma  avremo medici  bonsai  che  fanno  un misto  tra  la  clinica  e l’assistenza.”  Il  che non  avrebbe portato  a dei buoni  risultati per  i nostri  assistiti e per  i nostri cittadini.  Ci  siamo  impegnati,  abbiamo  manifestato  un  forte  dissenso,  devo  essere  sincera, abbiamo anche un po’ minacciato – perché quando ci vuole ci vuole – e infatti pare che tutto si sia risolto. Aspettiamo, perché nella vita non si può mai dire, ma pare che la cosa sia rientrata. Questo esempio per dirvi che dobbiamo stare attenti, attenzionare, riflettere, guardare,  leggere, confrontarci  su  quello  che  accade  attorno  a  noi.  Non  dobbiamo  rimanere  chiusi  nell’enclave ospedaliera o territoriale o di qualsiasi altra struttura  in cui siamo  inseriti. Dobbiamo guardare  il mondo che ci circonda proprio per poter essere propositivi, attenti e riorientare le scelte politiche 

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che  vanno  poi  ad  impattare  direttamente  sulla  nostra  attività  professionale  e  assistenziale. Dobbiamo  stare attenti a quello  che  si decide nella  finanziaria, dobbiamo  stare attenti al patto Stato‐Regione quando  riguarda  la  Sanità.  Sono  state  erogate ulteriori  risorse, ma non bastano, siamo sottodimensionati da questo punto di vista. E questo, secondo voi, non significa niente per l’assistenza infermieristica? Significa molto. Significa che, ad esempio, non riusciremo a garantire il turnover che serve nelle nostre realtà ospedaliere e territoriali. Di conseguenza, se avremo risorse contenute  probabilmente  dovremo  fare  delle  riflessioni  ulteriori  per  non  diminuire  lo  standard assistenziale che ci siamo definiti e che abbiamo dato. Non possiamo pensare di non insistere con forza, perché quando si parla di qualità nelle aziende si parli delle lesioni da decubito, delle cadute, delle  ferite, delle  infezioni da  cateterismo  vescicale, perché  anche questa è qualità  all’assistito. Questo è dargli quello che serve, è evitare che vi siano danni iatrogeni perché noi o non lavoriamo su  evidenza  o  con  correttezza    oppure  siamo  in  numero  troppo  contenuto  per  riuscire  ad attenzionare tutto ciò che l’assistito richiede. Se non facciamo questo è inutile che ci riempiamo la bocca sulla centralità della persona e sui valori a cui noi ci riferiamo nel fare assistenza. Questa è quotidianità  operativa.  Devono  essere  erogate  le  risorse,  dobbiamo  fare  riflessioni  su  cos’è prioritario,  dobbiamo  cominciare  ad  analizzare  quali  sono  le  risposte  che  devono  essere assolutamente  date  e  le  modalità  attraverso  cui  darle.  Dobbiamo  spostarci  sul  territorio? Stupendo, bellissimo, poi però dobbiamo avere la possibilità, nel territorio, di poterle fare queste cose, di poter fare continuità dell’assistenza, perché il rischio è che ne derivi un danno e quindi un ulteriore aumento del  carico di  lavoro. Se  sul  territorio  i nostri assistiti non  trovano  la  risposta, cosa fanno? Vanno in Pronto Soccorso, che ha un iperafflusso costante. Poi c’è l’iperafflusso nelle Medicine, la carenza di risorse nelle Medicine e quindi siamo costretti a mettere in atto situazioni organizzative d’emergenza. E così gli infermieri si arrabbiano perché non riescono a lavorare come vorrebbero, e vorrebbero sparare al proprio dirigente infermieristico che non riesce a far passare il concetto che se non vengono date risorse la situazione diventa difficile. E avanti di questo passo.  Vediamo di  rompere questa difficoltà  interna della comunicazione, cominciando a  riflettere che non  dobbiamo  attendere  che  qualcuno  decida  per  noi.  Dobbiamo,  lo  dice  il  nostro  Codice deontologico, ai diversi livelli di responsabilità, compensare le carenze organizzative quando sono frutto  di  eventi  non  prevedibili,  non  precedentemente  pianificati.  Ma  quando  le  carenze continuano e si reiterano, forse dobbiamo cominciare a dire che in questo modo non riusciamo ad assolvere al nostro mandato assistenziale, che è quello di fare assistenza e soprattutto di farla  in un certo modo. Quindi, responsabilità, non solo – ribadisco ancora – nella vostra quotidianità di professionisti.  Voi  siete  il  cuore  della  professione,  il  suo  cuore  sono  i  professionisti  che  fanno assistenza diretta alle persone. Il resto sono sovrastrutture necessarie, ma sono necessarie per far lavorare  il  professionista  al meglio:  la  formazione,  la  gestione,  l’organizzazione  e  quant’altro. Allora, responsabilità di tutti sui progetti, sulla progettualità e sui percorsi, perché in questo modo diamo  concretezza  al  nostro  Codice  deontologico.  Devo  però  fare  una  sottolineatura.  La responsabilità: è un  concetto  su  cui,  secondo me, abbiamo molto  riflettuto. Ebbene, dobbiamo rifletterci ancora e a più ampio  raggio. Spesso mi  capita di ascoltare  i  colleghi  che associano al termine  responsabilità  autonomia,  magari  leggendo  l’autonomia  come  la  liberazione  dalla costrizione mansionariale che abbiamo vissuto per tantissimo tempo. Ma  la responsabilità  legata all’autonomia significa la responsabilità di definire cosa fare, quando e come farlo – tenuto conto di altri elementi di analisi che ci provengono da altre famiglie professionali – rispetto a quello che serve  all’assistito. Quindi,  autonomia  significa  assumersi  la  responsabilità della decisione  e non autonomia  intesa  come  “faccio  come mi  pare meglio;  però  quando  ho  un  problema  chiamo  il medico”. Autonomia significa chiamare il medico quando serve e assumersi la responsabilità della valutazione dell’analisi di quello che dobbiamo  fare  rispetto a degli obiettivi che devono essere 

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raggiunti e a degli esiti che devono essere verificati. Responsabilità quindi anche con questo tipo di lettura, collegata all’altro concetto che mi è stato detto di sviluppare, cioè quello della “advocacy”.  Andiamo  a  vedere  cosa  si  intende  con  questo  termine.  Normalmente  si  dice  “accontability, advocacy”, “responsabilità, tutela”.  “Advocacy”: “punto di riferimento”.  L’infermiere che si  imposta su questo concetto sta dicendo che vuole essere, che è un punto di riferimento. Direi che è un concetto che abbiamo più volte esplicitato.  Ma il vocabolario dice anche: “un punto di appoggio”. Anche questo può essere corretto, quando diciamo che accompagniamo, che ascoltiamo, che dialoghiamo, che cerchiamo di far comprendere e  cerchiamo di  comprendere,  che proviamo  a  trasmettere  informazioni,  a  coinvolgere  il nostro assistito  nel  progetto  terapeutico,  a  farlo  diventare  agente  terapeutico. Magari  la  cosa  non  è ancora così diffusa, però sì, è vero.  L’altra definizione  che mi ha  colpito –  consultando  il  vocabolario – è  stata:  “punto di appoggio morale”. Mi sono detta: quest’ultima definizione è molto più impegnativa, molto più difficile.  Punto di appoggio morale.  Il nostro assistito forse ha bisogno di un appoggio morale molto più competente e strutturato di quello  che  può  essere  il  nostro, ma  nell’infermiere  può  trovare  comunque  l’interlocutore  per questo tipo di appoggio. Inoltre, l’infermiere può riconoscere di non essere in grado di dare tutto l’appoggio morale necessario e quindi  coinvolge,  chiama altri professionisti oppure –   dato  che sono qui davanti a noi – chiama  i ministri di culto, se questo tipo di appoggio morale richiede un tale sostegno: la valenza spirituale e religiosa.  Per  cui mi  sono  detta:  per  noi  forse  diventa  una  sfida, ma  diventa  una  sfida  non  soltanto  nei termini che vi dicevo. Diventa una sfida anche  in termini di accogliere valori e principi diversi dai nostri.  Se  il  significato  è  anche  quello  di  essere  un  punto  di  appoggio morale,  e  se  ho  a  cuore  il mio assistito,  il  suo processo di evoluzione, e  se è veramente  centrale quello  che pensa, quello  che sente,  quello  che  l’assistito mi  chiede,  allora  a  questo  punto  devo  avere  anche  la  serenità  e l’onestà  intellettuale – per non dire morale – di dire  che  la mia morale,  i miei  valori non  sono superiori a quelli di un altro. E che  i valori,  i principi di cui  il mio assistito è portatore hanno pari dignità morale dei miei. Questo  credo  sia  la parte più difficile del nostro essere  infermieri, del nostro fare assistenza, specie quando siamo vicini ad assistiti che hanno un lungo percorso. Non a caso prima dicevo che l’andamento demografico ed epidemiologico della nostra società ci induce a pensare che saremo profondamente coinvolti in quella direzione.  La persona anziana vede avvicinarsi il momento in cui deve cominciare a riflettere sul suo fine vita, perché è normale, è fisiologico. Tutti dobbiamo morire. E allora può aver bisogno di esprimere, di manifestare paure, timori, desideri.  A questo punto apro una parentesi: volontà. Cosa vuole per sé questa persona, che concetto ha della dignità della vita, come pensa di essere aiutata, accolta, accompagnata, lenita in determinati momenti?  Anche da questo punto di vista la nostra professione si assume un impegno grossissimo, se vuole essere  punto  di  appoggio  morale.  Ed  è  proprio  in  questa  logica  che  poco  tempo  fa  è  stato convocato un Consiglio Nazionale al quale sono state invitate le rappresentanze  delle Associazioni infermieristiche per operare una riflessione corale su quale doveva o poteva essere  la posizione che gli infermieri assumono rispetto all’attuale dibattito approdato in Parlamento sulle “volontà di fine vita”. Se vogliamo essere un punto di riferimento, un punto di appoggio – e soprattutto un punto  di  appoggio  morale  –  una  riflessione  sull’orientamento  era  non  solo  opportuna,  ma doverosa.  Abbiamo  analizzato,  discusso,  è  stata  definita  una  posizione,  devo  dire  con un’omogeneità di valori, di pensieri e di esperienze che a me ha colpito molto, perché alla fine la 

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diversità emersa –  se pur esistente – era minimale. Tutti  convenivamo  su  come porsi,  su  come accogliere,  su  come  rispettare.  Tutti  convenivamo  che  non  volevamo  accanimento  terapeutico perché ne vediamo tanto nella nostra quotidianità operativa. Ci siamo detti che per noi infermieri più che analizzare, dibattere su cosa si debba togliere, dovremmo forse analizzare e dibattere su cosa  non  si  debba mettere  più.  L’accanimento  terapeutico  fa  soffrire,  toglie  dignità,  non  dà  la possibilità di salutare, di concludere  la propria vita, di dare messaggi coerenti con  le aspettative dell’assistito. Abbiamo riflettuto, tutti insieme, convenendo che il nostro punto di riferimento sarà il nostro Codice deontologico. L’articolato del nostro Codice deontologico rispetto alla terminalità di vita e al fine vita dà degli orientamenti: questi sono i nostri orientamenti e noi ci radichiamo in essi. Questo è quello che io – Codice – ti suggerisco: riflettici, in relazione anche ai tuoi valori che devono però essere coerenti con quelli che esprime  la professione. Ma se  i tuoi valori, rispetto a quelli dell’assistito – che in coerenza con i suoi ti fa determinate richieste – sono tanto distanti da non potersi conciliare – malgrado  l’aver parlato e dialogato – ebbene, noi chiediamo che venga data  all’infermiere  la  possibilità  di  poter  fare  un  passo  indietro  attraverso  la  “clausola  di coscienza”,  in modo  da mantenere  la  serenità  etico  ‐deontologica  dell’infermiere  e  la  serenità dell’assistito.  Al di là di questa riflessione, rimanendo nella logica di noi infermieri quale “punto di appoggio” – esprimeremo  quindi  alla  collettività  nazionale  il  nostro  pensiero  –  abbiamo  coerentemente affermato  che  il  disegno  di  legge  in  discussione  in  Parlamento  è  distante  dal  nostro  Codice deontologico. Noi riteniamo che non si possano  imporre  in questo modo alcune attività. E qui si apre un altro tipo di riflessione, di dibattito: abbiamo ben chiara la differenza tra l’aiutare a bere e a mangiare  –  anche  sedendoci  accanto  alla  persona  e  alimentandola  col  cucchiaino,  l’abbiamo fatto  tantissime  volte  e  lo  continueremo  a  fare  –  e  l’inserire  presidi  sanitari  per  forzare l’alimentazione e  l’idratazione.  Il pronunciamento  che  faremo – pubblicamente –  a breve  verrà inviato  a  tutti  i  presidenti  che  si  faranno  premura  –  auspico  –  di  renderlo  noto  a  tutti  i professionisti: esso ci pone in questa posizione. Noi diciamo: auspichiamo vi sia una modalità più mite per definire questa fase delicatissima della vita di una persona ed in questo ci riagganciamo comunque al nostro Codice deontologico.  In conclusione: questo è un Codice deontologico che ci permette di fare  le riflessioni che stiamo facendo. È un Codice che abbiamo voluto  innovare –  in maniera abbastanza  importante – dopo dieci  anni  dal  precedente.  Pensiamo  sia  stata  un’importante  maturazione  del  nostro  gruppo professionale,  così  come  riteniamo  che  la  nostra  società,  in  dieci  anni,  abbia  fatto  un  grosso percorso. Pensiamo quindi  che  si debbano dare agli  infermieri dei punti di  riferimento affinché possano non soltanto manifestare serenamente  il  loro modo di porsi dentro questi percorsi, ma possano anche, sulla base di queste riflessioni e di questi orientamenti, essere a  loro volta attori protagonisti  di  ulteriori  riflessioni  che  potranno  portarci  ad  un’ulteriore  rivisitazione  del  nostro Codice, in modo che riesca a dare agli infermieri – e di conseguenza ai cittadini – chiarezza di dove si  vuole  andare,  sulla  base  di  quali  valori  e  con  quale  assunzione  di  responsabilità  e  di  tutela. Grazie.          

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 Una  priorità  in  ambito  regionale:  l’applicazione  sistematica  e  riflessiva  del nuovo codice deontologico  Maria Adele Schirru  (Presidente Collegio IPASVI di Torino) 

 Oggi gli  infermieri si sentono frustrati e destabilizzati dai cambiamenti che  intercorrono,  in modo sempre più frenetico e percepiscono una vivace preoccupazione rispetto alla loro professionalità e alla loro possibilità di perseguire, nella realtà,  la loro mission professionale.  Tale  percezione  è  diffusa,  infatti  tutti  i  sistemi  sanitari  e  i  professionisti  si  trovano  oggi  ad affrontare il problema di come garantire assistenza di elevata qualità a tutti i cittadini superando le disparità nelle condizioni di salute e dell’accessibilità alle cure, soprattutto da parte delle fasce di popolazione più svantaggiate e a rischio di esclusione sociale. Si  tratta di problemi  comuni  che  assumono un diverso  grado di  intensità  a  seconda dei diversi sistemi di protezione sanitaria. La scarsità delle risorse e la necessità di migliorare le performance dei sistemi sanitari pongono la questione dell’allocazione delle risorse e loro appropriato utilizzo. La  sfida,  dunque,  è  conciliare  solidarietà  –  equità  –  accessibilità,  valori  Fondanti  dei  sistemi  di tutela  della  salute,  con  obbiettivi  di  responsabilizzazione  e  razionalizzazione  nell’impiego  delle risorse.  E’  di  questa  sfida  che  voglio  parlare,  di  una  sfida  che  richiede  la  capacità  di mettere  in  gioco specifiche competenze radicate sul rispetto dei principi di giustizia sociale, solidarietà e  impegno professionale.   Giocare attivamente questa sfida significa quindi, per tutti gli operatori sanitari e  per gli infermieri in  particolare,  individuare  strategie  di  intervento  capaci  di  orientare  le  scelte  professionali  in coerenza alla specifica competenza distintiva, riaffermando i principi e i valori fondanti la specifica professionalità Adottare  scelte  cioè  che,  in  funzione della dinamicità e  complessità del  sistema di  riferimento, esprimono i valori, la volontà e la competenza per orientare le politiche e lo sviluppo del Sistema Sanitario  secondo  quanto  enunciato  nell’articolo  47  del  Codice  Deontologico:    l’infermiere  ai diversi  livelli di  responsabilità, contribuisce ad orientare  le politiche e  lo  sviluppo del Sistema Sanitario, al  fine di garantire  il  rispetto dei diritti degli assistiti,  l’utilizzo equo ed appropriato delle risorse e la valorizzazione del ruolo professionale.  Scelte quindi che, evidenziano quali  elementi chiave dell’azione professionale:   • La persona al centro dell’attenzione professionale     impegno  assunto  da  parte 

dell’Infermiere                   professionista implicato sistematicamente in una lavoro di riflessione e proposizione per il  

• Miglioramento continuo delle risposte assistenziali  ‐ qualità                     risultato perseguito misurabile  in  ragione  del  rispetto,    non  solo  delle  competenze  cliniche  e  organizzative, ma anche della capacità di mantenere coerenza e congruenza   con gli  impegni assunti rispetto al cittadino. Un cittadino che desidera una  

• Eccellenza del processo assistenziale                        risultato atteso, auspicabile e perseguibile attraverso anche un processo di collaborazione tra i diversi membri del mondo professionale in 

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ragione  dei  ruoli  ricoperti,  nonché  delle  collaborazioni  interprofessionali  e  interistituzionali. Una collaborazione che nasce e si sviluppa a partire dalla 

• Responsabilità                  quale processo assunto sia a livello di azione individuale sia di azione del gruppo professionale nel suo complesso. La responsabilità in questa accezione, non è solo quella normativa – istituzionale, per cui l’individuo “ FA” perché ha un obbligo formale, ma 

piuttosto quella per cui egli “FA” perché sa, perché condivide e soprattutto perché si è assunto un “impegno”. Questa più vera responsabilità è tale perché l’impegno assunto porta ragionevolmente a pensare cosa fare, come farlo e perché farlo. Una responsabilità quindi che si correla e si esprime attraverso     

• L’onesta  intellettuale:  ntesa  come  l’operare  sempre  nel  rispetto  del  principio  di  “trasparenza”,    comunicando  le  decisioni  prese,  fondando  i  rapporti  sull’autorevolezza piuttosto che sull’autorità. 

• La condivisione e la partecipazione: intesa come la capacità di utilizzare e attivare i mezzi per  accrescere  la  motivazione,  facilitare  il  raggiungimento  dei  risultati,  amplificare  la fiducia. 

• L’impegno  all’efficacia:  in  ragione  di  quel  risultato  percepito  come  utile  dalla  persona assistita e, contemporanemente, congruo nell’utilizzo delle risorse umane, tecnologiche e strumentali presenti  

• La  coerenza:  intesa  come  la  capacità  di  avere  una  visione  strategica  complessiva  delle problematiche per  l’assunzione di modalità d’ azione  funzionali e coerenti con  le opzioni valoriali e teoriche effettuate. 

 Una responsabilità che assume, quale “bussola” nella selva del quotidiano,  il Codice deontologico,  apparato radicolare ed espressivo della propria identità professionale.   Un’identità  professionale  espressa  nell’azione  quotidiana,  un’azione  coerente  anche  letta nell’impianto strategico della Clinical Governance.  Perché parlare a questo punto della Clinical Governance?   Perché  la nostra  identità si muove e si concretizza anche in ragione delle logiche organizzative all’interno delle quali opera, ora, la nostra Regione,  ha assunto tale modello come “il modello”  attraverso il  quale coniugare le necessità di     razionalizzazione ed economizzazione degli interventi con gli aspetti di presa in carico del cittadino malato. Nella realizzazione di questo modello noi giochiamo un ruolo essenziale, di cui dobbiamo essere consapevoli e, attraverso  l’espressione e  l’azione dello stesso, siamo portatori e testimoni dei nostri valori e del nostro valore professionale.    Vorrei  pertanto  presentare  i  pilastri  sui  quali  poggia  la  strategia  della  Clinical  Governance  (prestazioni,  qualità,  cultura,  unità  d’intenti,  infrastrutture,  gestione  dei  rischi)  correlandoli  ad alcuni aspetti dell’impegno che noi, come professionisti infermieri, abbiamo assunto con il nostro codice deontologico.   PRESTAZIONI:  a fronte di un numero crescente di soggetti con poli‐ patologie, cronicità, disabilità disagio sociale, terminalità, è necessario passare da una logica basata sulla sola cura alla logica del prendersi cura. In tale ottica il solo accertamento medico e le prestazioni che ne seguono non sono più sufficienti. 

E’  necessario,  fin  dal  primo  contatto,  attuare  una  valutazione  multidimensionale  e  multi professionale  per  comprendere  quali  siano  le  prestazioni  efficaci  e  quali  inefficaci  per  un  dato 

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utente  con  determinati  particolari  bisogni  bio  psico  sociali.  In  questa  logica  è  evidente l’importanza  attribuita,  all’interno  del  codice  deontologico  sia  ai  processi  di  autonomia professionali, sia alle  interazioni quali componenti essenziali per una risposta ai bisogni  (Articolo 14  ‐ L’infermiere  riconosce che  l’interazione  fra professionisti e  l'integrazione  interprofessionale sono modalità fondamentali per far fronte ai bisogni dell’assistito.)  

Una  risposta  ai  bisogni  che  vede  il  superamento  della  logica  prestazionale  verso  una  logica  di accompagnamento nei percorsi, il superamento del luogo di cura istituzionale verso il luogo di cura come ambiente di vita della persona Scegliamo di  lavorare sviluppando, nell’autonomia,  le capacità di confronto e di collaborazione non solo tra professionisti ma inserendo nel team le persone portatrici di bisogni di assistenza   QUALITA’:  un moderno approccio per garantire la qualità è costituito dal “ evidence based” che si fonda sullo studio della letteratura e l’utilizzo delle linee guida. Questo approccio, certamente necessario, presenta però un rischio, quello di produrre una somma di prestazioni qualitativamente eccellenti ma non necessariamente utili. Una  visione  ampia  della  qualità  deve  invece  prevedere  che,  innanzitutto,  si  attui  ciò  che  è necessario. Chi comprerebbe un’auto con motore efficiente e potente ma priva di ruote? Spesso in sanità si rischia questo paradosso. Si praticano cure costosissime e poi non ci  si prende cura del  soggetto,  rendendo vani gli  sforzi fatti.  Tale parodosso è tanto più quotidiano quanto è presente una logica organizzativa ancora ancorata alle  discipline  “primariali”  e/o  di  struttura.  E’  quindi  necessario  lavorare  affinchè  la  logica organizzativa  si  orienti  a  logiche  funzionali,  anche  in  questo  caso,  basate  sui  percorsi  e/o  sui problemi di salute.  

All’interno del codice deontologico è emblematica  la dichiarazione d’impegno  in  tal senso, basti citare da una parte  l’articolo 12 nel quale è espressa  la volontà di correlare obbligatoriamente  lo sviluppo  tecnologico e  scientifico ai   bisogni dell’assistito,    (Articolo 12  L’infermiere  riconosce  il valore della ricerca, della sperimentazione clinica e assistenziale per l’evoluzione delle conoscenze e per i benefici sull’assistito) e, dall’altra, l’articolo 27 che sottolinea la responsabilità nel  sostegno nei processi di continuità assistenziale e, pertanto, l’assunzione di una logica organizzativa basata su processi  e  su problemi. Articolo  27  (L'infermiere  garantisce  la  continuità  assistenziale  anche contribuendo alla realizzazione di una rete di rapporti interprofessionali e di una efficace gestione degli strumenti informativi.)  

Scegliamo di lavorare sulla qualità misurata attraverso il beneficio percepito dai nostri referenti per eccellenza: le persone assistite  CULTURA:  per operare nei  termini della Clinical Governance non è sufficiente poter disporre di una buona cultura professionale, tecnica e scientifica, che dovrebbe essere scontata. E’  necessario  che  le  organizzazioni  acquisiscano  una  cultura  della  partecipazione  e  della valorizzazione della singola risorsa umana a tutti i livelli. Un simile contesto, per altro, può favorire una generale propensione alla valorizzazione del ruolo dell’utente  stesso e delle  famiglie. Valorizzazione che  richiede, come espresso  in più articoli del Codice, un nuovo modo di relazionarsi con la persona assistita, con la famiglia, con la popolazione, sostenendo i processi di scelta e di sviluppo dell’empowement (art. 19, 20, 21, ecc) “ E' attraverso 

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relazioni organizzate che si assicura  la partecipazione ‐  le relazioni come forme di partecipazione vanno viste anche come forme di prevenzione del contenzioso legale; come mezzi per combattere, attraverso  il  controllo  sociale,  i  fenomeni  di  opportunismo  professionale;  per  combattere  le degenerazioni del  conflitto di  interesse e quindi  come moralizzazione delle  istituzioni  sanitarie" (Cavicchi 2008 ‐ da Il pensiero debole in sanità) Scegliamo di stare dalla parte delle persone e del cittadino.     UNITA’ D’INTENTI:  Vi sono due modalità per raggiungere l’unità d’intenti, quella basata sul comando e quella basata sulla condivisione. La prima da garanzie sul breve periodo, ma alla lunga determina demotivazione e falsa adesione. Al  contrario,  varie  componenti  professionali  che  possono  autonomamente  e  con  maturità condividere gli obbiettivi, fornire il proprio contributo, comunicare in modo trasparente, possono sviluppare un unità d’intenti destinata a durare nel tempo. A proposito dell’unità d’intenti, si può qui affermare che  la sfida, di cui abbiamo parlato all’inizio dell’intervento,  può  essere  affrontata  anche  attraverso  l’acquisizione  della  consapevolezza  sul principio che la nostra condizione umana è una condizione plurale e non individuale. Prendendo,  infatti,  atto  del  “limite”  di  una  responsabilità  presente  intorno  al  concetto  di individuo,  si  creano  le  premesse  per  comprendere  il  significato  che  assume  il  Collegio Professionale.        E’ appunto attraverso tale  istituzione di rappresentanza che assume significato  la partecipazione alla definizione delle politiche sanitarie e professionali. Parliamo, dunque, di un sistema professionale capace di interrogarsi sulle esigenze sociali e offrire risposte collettive attraverso progetti professionali. Un sistema professionale che sostiene l’essere riconoscibili a sé e agli altri attraverso pratiche confrontabili dalla somiglianza delle   competenze espresse  dal  singolo  con  quelle  di  una  “famiglia  professionale”.  L’essere  appartenenti  ad  un gruppo  “che non obbligatoriamente  condivide  le medesime  finalità, ma  condivide  il  cuore delle strategie usate per raggiungerle, ovvero le competenze a ciò deputate (Batini, 2009)  Il  nuovo  soggetto  della  responsabilità  diviene  pertanto  un  noi  non  un  io.  E’  proprio  questa condizione plurale che implica un nuovo concetto: quello della costruzione della responsabilità che implica i diversi livelli attraverso i quali la professione garantisce il proprio contributo sociale.  Scegliamo  di  sviluppare  la  nostra  comunità  come  luogo  di  raccordo,  confronto,  riflessione  e sviluppo.  INFRASTRUTTURE: L’utilizzo mirato ma crescente delle tecnologie informatiche diviene uno strumento di gestione per garantire l’accesso trasparente ai dati, nel rispetto della privacy, ma anche il rinforzo e il supporto per  l’apprendimento pratico  tramite  la  formazione a distanza. La  formazione degli operatori ma soprattutto lo sviluppo di mentalità diviene fondamentale per garantire i tempi necessari per una pianificazione efficace attraverso risorse e strumenti indicabili e indicati nell’Atto Aziendale e nella Carta dei Servizi fruibili da tutti, operatori e cittadini. La capacità di coniugare gli aspetti essenziali della  privacy,  del  segreto  professionale  con  l’uso  delle  esperienze  quotidiane  come  oggetti  di formazione, di lavoro, di studio. Scegliamo la fiducia come luogo d’incontro di esigenze diverse e di rispetto comune.  

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GESTIONE DEI RISCHI: 

I  concetti  espressi  dal  risk  management  trovano  nella  clinical  governance  un’applicazione  immediata  con  l’individuazione  e  la  valutazione  di  procedure  semplici,  chiare,  tese  a  rendere l’ambiente  di  lavoro  sicuro  per  tutti,  anche  nel  rispetto  della  legge  81/2008,    con  l’attiva partecipazione degli operatori e del personale altamente preparato e intrinsecamente motivato.  Il codice  all’articolo 29  sottolinea  la nostra  responsabilità nel  “concorre  a promuovere  le migliori condizioni  di  sicurezza  dell'assistito  e  dei  familiari  e  lo  sviluppo  della  cultura  dell’imparare dall’errore” e contemporanemente evidenzia  la nostra partecipazione attiva a tutte  le “  iniziative per la gestione del rischio clinico” Scegliamo l’esplicito perché solo attraverso lo stesso possiamo riflettere e migliorare.   E’ su questi fili “traccianti” che noi, come  Collegio di Torino, abbiamo deciso di  lavorare insieme, sviluppando un’ azione:    

a) Vicina  ad ogni  collega nell’operatività  sul  campo, nella problematicità della quotidianità: Come ? • I  Consiglieri  incontreranno    i  colleghi  nelle  diverse  Aziende,  pubbliche  e  private,  del 

territorio torinese,  in momenti  di formazione/riflessione   per una  sensibilizzazione e confronto sulle possibilità  nell’applicazione dei principi alla  pratica quotidiana   

• Sarà presente  un canale privilegiato per la comunicazione e condivisione dei problemi evidenziati nell’assistenza quotidiana. Questo canale sarà disponibile per tutti i colleghi interessati.  

 b) Di supporto e di  sviluppo di una competenza riflessiva ed operativa: Come?  

• Saranno organizzati eventi  formativi  con  l’obiettivo di acquisire     metodi e  strumenti facilitati l’analisi e lo studio dei problemi in ambito etico e deontologico.  

• Ogni  evento  formativo  sarà  organizzato  a  partire  dai  problemi  registrati  nella  realtà (segnalati, proposti, ecc.)  

 Perché  tale  lavoro  sia effettivamente  vicino  a  tutti noi,  abbiamo bisogno di una partecipazione attiva, dinamica e critica. Perché possa essere utilizzato come opportunità di  crescita, di sviluppo, di  serenità,  di  soddisfazione  è  necessario  chiarezza  nelle  relazioni  professionali  privilegiando  a volte  posizioni  conflittuali  ma  chiare,    piuttosto  che  posizioni  accomodanti  ma  fuorviere  di stagnazione, di divisione,  di implosione.  Credo che ognuno di noi possa trovare  la  forza del proprio  impegno nell’essenzialità del proprio “sentirsi  infermiere”,  un  sentirsi  che  richiama  al  principio  dell’  “aiutare  gli  altri,  proteggerli, contribuire a conservare il loro ben‐essere, soddisfare i loro bisogni essenziale, cioè fare lavoro di cura,  [che]  genera  in  chi  lo  fa  un  senso  di  realizzazione  perché  si  agisce  là  dove  è  in  gioco l’essenziale (L. Mortari, 2006).  Un senso di realizzazione che si completa e si sviluppa però anche nella cura di sé, nella cura del collega, nella cura di chi mi sta intorno perché, solo attraverso questa cura, potrò effettivamente spendermi nel  confronto, nello  scontro, nel dialogo, nella  contrapposizione, nella dedizione alla mia disciplina intesa come arte filosofica dell’assistere “arte del pensiero, arte di convivenza, arte di dire no, arte della parola… “ attraverso anche un’educazione che ci guidi ad un’autodisciplina liberale, personale, interiore, generosa, indocile” (D. Demetrio)                 

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…. Valori etici, religiosi e culturali ‐ Lettura Magistrale    Sandra BOMBARDI  (Responsabile della Mediazione Interculturale Interaziendale – AOU e ASL di Ferrara)    

Nulla di importante al mondo è stato fatto senza passione.  (G.W.F. Hegel) 

 E’ con passione ed estrema umiltà che accetto la sfida intellettuale di essere qui con voi oggi e di introdurre e moderare una così ricca tavola rotonda.  Sarà interessante comprendere, come le diverse visioni del mondo, in quanto diversi gli scenari e gli orizzonti di riferimento dei singoli membri della tavola rotonda, forniscono senso e significato a fatti di interesse comuni ‐  La Persona. Sarà  altrettanto  interessante  comprendere  la  declinazione  che  ognuno  degli  invitati  alla  tavola rotonda  farà di  equità e  giustizia  tenendo  conto dei  valori  etici,  religiosi  e  culturali, nonché del genere e delle condizioni sociali della persona. Una  riflessione  riguardo  la pratica quotidiana dell’infermieristica applicata  in generale al  codice deontologico ed in particolare art. 4 del Capo I, “ L’infermiere presta assistenza secondo principi di equità  e  giustizia,  tenendo  conto  dei  valori  etici,  religiosi  e  culturali,  nonché  del  genere  e  delle condizioni sociali della persona, non può omettere le seguenti tre dimensioni:  COSA fa l’Infermiere – presta assistenza ‐ Azione Infermieristica; L’infermiere per la persona e con la persona “secondo principi di equità e giustizia, tenendo conto dei valori etici, religiosi e culturali, nonché  del  genere  e  delle  condizioni  sociali  della  persona”.  Prodotto  dell’Infermieristica  ‐ L’infermieristica dalla persona alla persona attraverso la ricerca;  

- COME avviene l’azione;  - DOVE avviene l’azione, consapevoli dell’importanza e dell’influenza del valore culturale del 

contesto organizzativo  (casa, servizi, ospedale …);  

L'uomo non è altro che la serie delle sue azioni. (G.W.F. Hegel) 

 Cosa  significa pensare, agire e dar origine ad etnografie  infermieristiche guidate da valori etici, religiosi e culturali? I valori sono il “desiderabile”, esplicito o implicito, distintivo di un individuo o caratteristica di un gruppo,  che  influenza  l’azione  in  grado  di  operarne  una  selezione  tra  i modi,  i mezzi  e  i  fini 

1° SESSIONE:  

Capo  I – art. 4: “ L’infermiere presta assistenza secondo principi di equità e giustizia, tenendo 

conto  dei  valori  etici,  religiosi  e  culturali,  nonché  del  genere  e  delle  condizioni  sociali  della 

persona. 

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disponibili  in una  specifica  realtà  sociale. Come afferma C. Kluckhohn,  (sociologo e antropologo statunitense 1905‐1960), i valori comportano un dover essere. In questo senso i valori possiedono una dimensione normativa, una dimensione affettiva, una dimensione cognitiva, una dimensione selettiva, influenzando nettamente la capacità di scelta e l'orientamento dell’agire sociale. I valori sono la risposta ai bisogni più profondi dell'uomo, e in quanto tali sono sempre moderni, sono sempre necessari ‐ calati nei diversi contesti sociali ‐ per pensare e promuovere uno sviluppo vero in favore dell'uomo. Valori etici (intento razionale descrittivo e normativo di fondare la morale intesa come disciplina) e morali (indicare l'assieme di valori, norme e costumi di un individuo o di un determinato gruppo umano) determinano il comportamento dell'uomo, determinano “Il Senso” dell'esistere umano.  Nei valori etici della persona vi è la ricerca dei criteri che consentono ad ogni individuo di gestire adeguatamente  la propria  libertà nel  rispetto degli  altri. Creano una  cornice di  riferimento, dei canoni e dei confini entro cui la libertà umana si può estendere ed esprimere. Alla base di ciascuna cornice  valoriale  etica  sta  la  nozione  di  bene,  di  male,  di  virtù  e  della  determinata  visione dell'uomo e dei rapporti umani.  La stessa visione dell’uomo e dei rispettivi rapporti umani ci portano a riflettere all’interno di una cornice  spesso  correlata  ad  una  particolare  religione,  o  comunque  ad  una  ideologia  fatta  di specifici valori religiosi. Le persone, oggi più che mai, hanno bisogno di una ricomposizione attorno ad un progetto, a dei valori,  a  delle  relazioni:  la  religione  e  la  sua  declinazione  in  appartenenza  associativa,  offrono esattamente questo genere di sostegno valoriale. Se ai valori religiosi, intimi e privati, si riconosce il ruolo di “fornire senso” rispetto ai grandi enigmi della vita e della morte,  la  sua  influenza nel come declinare questi valori  in un  contesto di vita pubblica non è sempre chiara.  Il  valore  dell’uomo  come  persona,  il  valore  della  cultura  e  gli  stessi  valori  culturali  sono  il fondamento  ed  espressione  del modo  di  essere  persona  tra  le  persone.  La  cultura  in  quanto prodotto  relazionale,  ed  espressione  di  capacità  e  pratiche,  è  promotrice  di  sviluppo  e miglioramento delle condizioni del vivere. Quello a cui si dovrebbe tendere, è ad una vivace e corale cultura dei valori: 

- Il valore della dignità e del rispetto per l’altro - Il valore della vita umana.  - Il valore della libertà, in tutte le dimensioni e le attività umane: libertà di pensiero, di credo 

religioso,  di  parola,  di  proselitismo,  di  associazione,  di  autodeterminazione  personale, economica e politica, di formare una famiglia, di educare i figli, ecc. 

Una cultura dei valori garante del bene comune, che attraversi una visione complessiva che dia ordine e significato e che sappia perseguire il "bene comune". In generale  il  lavoro, secondo  le correnti di etica del  lavoro, è autentico (in senso heideggeriano) solo  se  offre  al  soggetto  la  motivazione  per  esprimere  la  propria  personalità  in  ciò  che  fa lavorando.  Una cultura dei valori, ed esperienze organizzative di “Carta dei Valori”, presuppone  l’autenticità dell’operatore offrendo all’infermiere motivazione al lavoro, pensato ed agita “secondo principi di equità  e  giustizia,  tenendo  conto  dei  valori  etici,  religiosi  e  culturali,  nonché  del  genere  e  delle condizioni sociali della persona”  La  dimensione  artistica  dell’infermieristica  produce  senso,  connessioni  e  legami  con  il  proprio mondo, con il mondo delle pratiche e con il mondo dell’altro.     

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TAVOLA ROTONDA: tra richieste sconosciute, costrizioni e opportunità del quotidiano  Moderatore ‐ Sandra Bombardi   

  Diamo inizio a questa tavola rotonda. Invito pertanto al tavolo:  Rosanna Cerri, Responsabile dell’Ufficio Qualità Percepita e Marketing AOU S. Giovanni Battista di Torino. Giuliana Galli: Componente del Comitato scientifico dell’Associazione Mamre Onlus  Piero Montagna: Cappellano AO CTO di Torino. Alberto M. Somekh: Rabbino Capo Comunità Ebraica di Torino  Paolo Ribet: Pastore Valdese ‐ Chiesa Evangelica Valdese di Torino. Gheorghe Vasilescu: Parroco della Chiesa Ortodossa Romena di Torino. Giorgio  Villella:  Responsabile  Comitato  di  Coordinamento  Unione  degli  Atei  e  degli  Agnostici Razionalisti‐ settore Eventi  Hamid Zariate: Medico, Imam presso vari Centri Islamici. Ringrazio tutti gli  intervenuti e vorrei cominciare questa riflessione di gruppo prendendo spunto dalla  seguente  riflessione  di Mortari  “L’essenza  dell’aver  cura  è  prendersi  a  cuore  l’essenziale dell’uomo.    È  una  pratica  …  di  natura  essenzialmente  relazionale  …  che  dischiude  all’altro  le possibilità dell’esserci … ed ha per fine la realizzazione di una vita buona … (Mortari, 2006).   E’ quindi  indispensabile  interrogarsi  sulla malattia,  in quanto esperienza  intima e  culturalmente determinata: fatto personale che ha connotazioni diverse per ognuno di noi.  La condizione di malattia si costituisce attraverso una rete di significati personali, culturali e sociali e  (sickness),  attraverso  l’interpretazione  e  le  rappresentazioni  simboliche  che  i  gruppi,  ai  quali apparteniamo, danno della stessa.  Vorrei pertanto iniziare il confronto partendo da due domande guida:  

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Come sostenere e coniugare  le varie condizioni ed espressioni della malattia: tra evento privato – intimo e rappresentazione pubblica?  Quale accompagnamento nella sofferenza nel dolore e nella veglia?   

 Suor Giuliana Galli  (Componente  del  Comitato  scientifico  dell’Associazione  Mamre Onlus)   La  condizione  di malattia  è  spiegata  e  vissuta  dagli  esseri  umani all’interno  di  spazi  culturali,  in  una  rete  di  abitudini  tradizioni linguaggi,  simboli  condivisi a  livello  famiglia e  sociale.    Il momento 

attuale è ricco di significati assai differenziati riguardo all’interpretazione e al vissuto di malattia e di malato.  Il Centro Mamre1 fa da specchio a questo fenomeno sociale. Ad esso affluiscono uomini e donne che la migrazione ha spaesato e resi, i più deboli, impotenti di fronte all’evento malattia.    Il malato cerca una spiegazione per  la sua condizione.  Il più delle volte  i risultati di esami,  letti e interpretati dallo specialista‐medico, non vengono compresi dal malato che si aspetta non solo di sapere che cosa c’è ma “perché” le cose sono così. La spiegazione è cercata in ambito meta‐fisico, ontologico,  religioso.  Oggi  l’esperienza  religiosa  è  presente  nella  nostra  società  in modo  assai variegato,  la  risposta  ai  “perché”  esige  attenzione  e  ascolto  prima  di  azzardare  spiegazioni, soprattutto  se  di  tipo  religioso,  che  rischiano  di  confondere  e  turbare  più  che  portare  pace  al sofferente.   Non è così scontato che  la religione sia  il tessuto connettivo della solidarietà umana. Le guerre più feroci sono state combattute  in nome di Dio. “Got mit uns”, “Dio è con noi”: a suo tempo era il motto degli imperatori tedeschi, ed Hitler lo volle sulla bandiera della nazione da lui costruita  e  impresso  sulla  fibbia  metallica  dei  cinturoni  della  Wehrmacht.  Niente  di  meno spirituale e  fraterno di questa  terribile  compagine!  “In God we  trust”, è  scritto  sulle banconote americane: “la nostra  fiducia è  in Dio”.  I disastri  finanziari di cui  siamo  stati  testimoni ci dicono cosa  stia  testimoniando  Dio  su  questi  disastri:  proprio  nulla.  Eppure,  nonostante  gli  “errori” commessi anche a nome della religione essa ha molto da dire all’uomo. I profeti nell’Antico Testamento e Gesù nei Vangeli ammonivano non sono  le espressioni verbali improntate  a  religione  che  ne  esprimono  il  senso  più  profondo  e  vero.  E’  la  solidarietà  fattiva frutto di convinzioni interiori ci permette di accostarci alla persona sofferente con atteggiamento corretto  e  pieno.  Confrontati  con  i molti modi  non  scientifici  di  spiegare  e  vivere  la malattia, portati da persone provenienti  da altrove, dobbiamo aggiungere al nostro bagaglio di idee solidali, il senso di sorpresa e anche un po’ di spaesamento per il loro vissuto “diverso”. L’occidente con le sue invenzioni e scoperte tecnologiche, non è più il centro del mondo, è una parte: il resto è tanto, e questo “tanto” è qui.  Le espressioni  varie e molteplici  di stili di vita giunte a noi ci obbligano ad allargare il modo di pensare la malattia “secondo noi” e di accostarci ai “nuovi giunti” con rispetto per il modo di pensare e di interpretare l’evento.  Nonostante la diversità di impostazione culturale delle persone che fanno riferimento all’ospedale o  agli  specialisti  di  cura,  per  il  credente  vale  il  fondamento  universale  dell’essere  umano appartenente ad una stessa famiglia che fa riferimento al Creatore:  “E Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza […] Dio creò l’uomo a sua immagine; a  immagine di Dio  lo  creò”  (Gn  1,26‐27);  L’essere umano  come    immagine di Dio  è molto più ampio nelle  sue espressioni di quanto noi possiamo averlo pensato: è  sorprendente!                                                             1 Il Centro Mamre cura l’integrazione di bambini nelle scuole con laboratori interculturali, promuove la formazione interculturale tra genitori e insegnanti, esercita azione clinica e di prevenzione e cura del disagio e dell’esclusione sociale. Il Centro si caratterizza per la sua impostazione etnopschica e etnopsichiatrica.   

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Non ci sono questioni filosofiche costruite, non c’è un senso di impedimento culturale alla stima, al rispetto, alla cura che si deve avere nei confronti della persona  in quanto creata ad  immagine e somiglianza di Dio. Per chi crede, naturalmente.  Ma c’è un’altra espressione biblica e come tale religiosa, diremmo.  L’espressione  fortissima  “E  il Verbo  si  fece  carne  e  venne ad abitare  in mezzo a noi”  (Gv  1,14) addita  l’essere  umano  spoglio  da  convinzioni  ideologiche  e  da  costruzioni  filosofiche  atte  a distinguere e  troppe  volte  ad escludere.  “Carne umana” evidenzia  il punto  fondamento di ogni persona,  punto  di  partenza  di  costruzioni  culturali  inclusive  di  molti  significati  e  stili:  questi vengono  “dopo”,  sono  differenziazioni  di  una  radice  comune:  l’umanità.  Nell’accezione  ampia della parola umanità lo “straniero” altro non è che una qualità aggiunta. E che qualità! Diverso per lingua,  abitudini,  credenze, di valori e interpretazione della malattia e della cura. E’  questo  il  punto  d’incontro  tra  noi  accomunati  dalla  stessa  sostanza  e  dall’esperienza  di sofferenza, dolore ed eventualmente, morte. L’accompagnamento all’esperienza di malattia esige, oggi  più  che mai,  apertura,  conoscenza,  rispetto,  accoglienza  dell’altro,  elementi  di  per  se  laici espressi da Erich Fromm nel suo libro “L’arte di amare”. Religiosi  e  laici:  tutti;  conosciamo  l’impotenza  che  accompagna  l’abbandono  delle  forze,  lo smarrimento di fronte ad un verdetto clinico negativo riferito a noi stessi o a persone a noi care: è esperienza che colpisce  l’individuo ma non si  ferma  lì, coinvolge  la società,  famiglia propria e  la grande famiglia umana.  Il paziente, generalmente, si aspetta una spiegazione  immediata alla sua condizione. In alcuni casi questa è facile: una caduta, un incidente stradale, l’esito di una rissa, un virus…questo,  tuttavia  non  basta.  La  ragione  ultima  è  cercata  altrove,  nella  rappresentazione simbolica degli accadimenti non di  rado,  la  risposta è data  facendo appello a giudizi morali non pertinenti come quelli dei discepoli di Gesù. “Presentandogli un uomo cieco dalla nascita essi così lo interpellano: Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?” (Gv 9, 2). La ragione è altra risponde Gesù, ed è che le opere di Dio vengano manifestate. L’opera di Dio è che ci amiamo nella modalità ampia del termine: con accoglienza, rispetto, conoscenza e cura.   

   Rabbino capo Somekh  (Rabbino Capo Comunità Ebraica di Torino)  Direi sia opportuno distinguere tre punti sui quali desidero soffermarmi: il tema della sofferenza, il tema del dolore e il tema dell’evento.  Ovviamente  tratterò  la  cosa  dal  punto  di  vista  della  mia  tradizione religiosa e comincerò  col dire che esistono, a partire dalla Bibbia ebraica, 

due modalità, in un certo senso contrapposte, per cercare di penetrare il mistero della sofferenza umana. La prima è l’ipotesi per cui la sofferenza sia una punizione per cattive azioni commesse e l’altra, contrapposta, vede nella sofferenza un elemento di prova della persona che la subisce. La differenza è dal giorno alla notte. La punizione riguarda persone che non si sono comportate bene, mentre  l’idea  di  prova  riguarda  i  giusti,  perché  non  ha  nessun  senso mettere  alla  prova  dei malvagi,  evidentemente.  Come  conciliare,  all’atto  pratico,  queste  due  diverse  interpretazioni senza  urtare  la  suscettibilità  di  nessuno,  come  è  giusto,  cercando  invece  di  fare  di  queste tematiche uno spunto di riflessione, di elevazione per tutti?  Personalmente do un consiglio: il malato deve vedere se stesso nella prima prospettiva, cioè nella sofferenza come un elemento, una spinta al miglioramento di sé, ma chi assiste  l’ammalato non deve assumere nei suoi confronti questo atteggiamento nella maniera più assoluta, deve  invece 

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vedere nell’ammalato, nell’assistito, un giusto messo alla prova. Questo è stato l’errore degli amici di Giobbe  nella  Bibbia  ebraica. Non  è  che  l’ipotesi  da  essi  ventilata  –  per  cui  la  sofferenza  in assoluto potrebbe essere una punizione – sia di per sé sbagliata o da scartare. Semplicemente essi si trovarono nella posizione sbagliata per poter fare tale affermazione. Quindi, quando si assiste un ammalato, dal punto di vista della  sua  sofferenza,  lo  si deve vedere, come dicevo, al pari di un giusto messo  alla prova.  Sarà  lui  stesso  a dover elaborare  la propria  sofferenza  in  funzione del miglioramento  di  sé.  Forse  qualcosa  di  sbagliato  potrebbe  anche  averlo  fatto  e,  per  la  nostra sensibilità  religiosa,  l’idea  della  Teshuvah,  cioè  del  “costante  pentimento”,  non  è mai  un’idea sbagliata o troppo tardiva.    Il pentimento è uno dei  fondamenti della vita morale delle persone, secondo l’ebraismo.  Per quanto riguarda il tema del dolore, in questo forse abbiamo una visione diversa da quella che è stata per secoli  la tradizione cattolica. Si sa che  le pratiche anestesiologiche sono diffuse nella comunità occidentale da circa 150 anni. Credo che  la prima anestesia sia stata  fatta – nel senso moderno  del  termine  –  col  cloroformio  nel  1846.  In  realtà,  l’anestesia  o  l’analgesia  sono  degli istituti biblici più antichi. La prima anestesia della storia è stata praticata dal buon Dio ad Adamo quando gli ha estratto la costola per creare Eva. È scritto:  “Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò” (Gn 2,21). E  questo  permise  l’intervento.  C’è  un  illustre  commentatore  –  rabbino  e medico  –  vissuto  fra Bologna e Roma nella prima metà del XVI secolo, Obadia Sforno,  il quale, nel suo commento al Pentateuco, giunto a questo versetto ci spiega quali sono le ragioni dell’intervento divino che fece addormentare Adamo: la prima è levargli il dolore causato dall’intervento; la seconda è levargli la paura dell’intervento, e noi  sappiamo  che questo duplice aspetto –  fisico e psicologico – è  alla base della moderna anestesiologia.  Quando mia moglie ha avuto uno dei nostri figli  in un ospedale di Torino – premetto che  lei, per fortuna, ha sempre avuto dei parti estremamente veloci – ciò che ci  fece rimanere decisamente perplessi  –  lo  denuncio  perché  ritengo  di  farlo  –  è  vedere  tante  signore  con  travagli  molto prolungati  lasciate praticamente sole – senza alcun supporto, neppure psicologico – a girare nei corridoi, tenendosi il proprio duplice dolore, fisico e psicologico. Ritengo che questo sia contrario alla dignità della persona e che il dolore vada lenito, indipendentemente dal quadro generale della malattia di ciascuno. Credo sia un punto fondamentale, almeno secondo la nostra ottica religiosa. Per quanto  riguarda  il  terzo  tema, quello dell’evento, è preferibile  che determinate esperienze, fondamentali  per  la  propria  vita  –  come  appunto  lo  sono  la  sofferenza  e  il  dolore  –  vengano vissute all’interno delle proprie pareti domestiche. Oggi non di rado si assiste ad un abbandono – talvolta anche da parte delle stesse famiglie – dei malati nelle strutture. Ciò è dovuto al fatto che la  morte  e  la  sofferenza  estrema  sono  eventi  sempre  più  lontani  dalla  nostra  percezione quotidiana. Inoltre non sempre è possibile, come si vorrebbe, portare l’assistenza in luogo privato o addirittura a domicilio. Ci sono situazioni anche degenerative che richiedono evidentemente  la struttura pubblica, la quale deve essere pronta a considerare ogni situazione, come si dice oggi, in modo olistico, tenendo presente  la persona dell’assistito  in ogni suo aspetto, complessivamente. Si  è  anche  richiamata  l’attenzione  sul  concetto  della  privacy,  ossia  del  non  fare  del  dolore  di ciascuno un atto pubblico, perché questo può essere lesivo della dignità della persona. E ancora: si è richiamato l’importante concetto biblico secondo il quale ogni individuo è creato ad immagine e somiglianza  della  divinità. Questo  è  un  punto  che  deve  regolare  le  relazioni  umane  in  genere. Siccome  è  stato  citato  uno  dei  testi  fondamentali  del  filosofo  Erich  Fromm,  “L’arte  di  amare”, vorrei  citare  un’altra  sua  opera  dal  titolo    non meno  importante:  “Avere  o  essere”. Dobbiamo considerare il prossimo non per quello che ha, ma per quello che è. Grazie.   

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Imam, Hamid Zariate  (Medico, Imam presso vari Centri Islamici)   Buongiorno  a  tutti,  sono  un  neolaureato  in  medicina  ed  imam  in alcune moschee. Ho 26 anni e sono qui  in  Italia dal 1987. Una delle cose  che  ho  maggiormente  apprezzato  in  Italia  è  la  grandissima disponibilità  che  ho  sperimentato  in  ambito  ospedaliero,  sia  come 

medico sia, soprattutto, come operatore sanitario.  Negli anni in cui ho frequentato l’università ho fatto  anche  l’operatore  sanitario  per  mantenermi  negli  studi.  Quindi,  so  cosa  vuol  dire  fare l’operatore sanitario: è faticoso. Di conseguenza, apprezzo il vostro lavoro. Indipendentemente da ciò, l’Islam ha naturalmente una sua visione della sofferenza, del dolore, dell’evento. Per l’Islam è una visione talmente ampia che, personalmente, non riuscirei a spiegarla in pochi minuti.  Per quanto riguarda la sofferenza, l’Islam la concepisce all’incirca come la concepiscono le religioni monoteiste venute prima dell’Islam, cioè il cristianesimo e l’ebraismo. Mi piace riportare un detto del profeta che dice:  “Immaginatevi  la profezia  come un’unica grande  casa  cui però, per essere  completa, manca un mattone: io non sono altro che quel mattone”.  In qualità di musulmano riconosco, come religioni divine – precedenti l’Islam – sia il cristianesimo che  l’ebraismo. Non solo, ma addirittura riconosciamo come origine divina  il messaggio di Budda stesso. Riprendo le parole dette dal rabbino riguardanti la sofferenza: è una punizione, un evento di prova o – altra cosa che aggiunge l’Islam – un modo tramite cui Iddio fa ritornare a sé, o meglio, fa  ritornare  sulla  retta  via  la  persona  stessa.  Nell’Islam  queste  due  ultime  voci  sono  le  più significative: un evento di prova per  il cosiddetto buono, ed un ritorno per colui che ha peccato. Uno che pecca –  la fornicazione, ad esempio – può ammalarsi di una malattia venerea o di Aids. Ecco, in quel momento si rende conto di aver commesso un peccato, per mezzo del quale è stato punito. Tuttavia, quella stessa punizione è un modo tramite cui Iddio lo fa ritornare a sé per mezzo del pentimento. Per  quanto  riguarda  il  dolore,  esso  è  un modo  tramite  il  quale,  nella  visione  islamica,  Iddio perdona i peccati. Il profeta, infatti, diceva:  “Qualsiasi tipo di dolore, sia esso  fisico o psicologico,  fosse anche dovuto al dolore provocato da una spina di rosa, tramite quello Iddio perdona il peccato.».  Il dolore è dunque una purificazione, nella visione islamica, da qualsiasi tipo di peccato.  L’evento. L’evento è qualcosa di talmente soggettivo – nel senso che il musulmano tende a viverlo come un momento della  sua vita, un momento  inevitabile –  che, onestamente, non è  facile da esprimere. Termino  con  due  regole  importanti  che  ben  pochi  conoscono,  musulmani  inclusi:  nell’Islam qualsiasi  necessità,  sia  essa  un’urgenza,  un’emergenza,  fa  cadere  l’obbligo.  Porto  un  esempio: qualcuno mi ha fatto notare che durante  il Ramadan una persona non può né mangiare né bere dall’alba al tramonto; malgrado ciò, deve assumere una terapia. Beh,  in questo caso, chi detta  la legge non è più  l’imam, ma  il medico, nel senso che se quella tal terapia può essere suddivisa  in più tempi o in dosi diverse lungo la giornata, deve deciderlo il medico. Il medico, in quel momento, diventa  l’imam  stesso, quindi è colui che detta  la  legge. Altro esempio:  sono nel deserto,  senza liquidi,  col  rischio  di morire  disidratato.  In  quel  frangente  l’unico  liquido  disponibile  è  a  base alcolica, e nell’Islam gli alcolici sono proibiti. Per non morire disidratato, posso bere oppure no? In quel momento non solo posso bere – perché, come abbiamo detto, la necessità fa cadere il divieto –bensì  ho  l’obbligo  di  bere,  perché  nell’Islam  vi  è  un’ulteriore  regola molto  importante,  che  è quella  del  non  abbandonare  noi  stessi  al male,  al  dolore. Quindi,  se  il  non  bere mi  fa morire 

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disidratato,  non  devo  abbandonare me  stesso  al  dolore,  al male,  e  quindi  non  solo  l’obbligo decade, ma diventa un dovere da parte mia il bere per non morire.  Queste sono alcune regole che aprono delle porte enormi circa un’idea piuttosto diffusa secondo la quale l’Islam sia una religione molto chiusa, limitata. Non è assolutamente così. Grazie.   

  Cappellano Piero Montagna  (Cappellano AO CTO di Torino)   Che  differenza  c’è  tra  sofferenza  e  dolore?  Gesù,  nel  Vangelo,  ci rivolge un invito: “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò” (Mt 11,28).  

Quando  una  persona  soffre  si  trova  ingarbugliata,  con  grandi  interrogativi  umani,  psicologici  e morali. La sofferenza è presente per qualsiasi  ragione, come dicevano  i  relatori precedenti: può derivare dai sensi di colpa, dal sentirsi giustificati da Dio o abbandonati da Dio. La sofferenza  la provo nella pelle. E quando la provo nella pelle devo dimostrare di combatterla in tanti modi. Chi mi ascolta, chi mi segue nella sofferenza?  È  un  campo,  quello  infermieristico, molto  impegnativo:  lo  vedo  nel mondo  ospedaliero  dove opero,  il CTO, e dove sono stato  in passato. Ci vuole molta attenzione e molto amore nello stare accanto a chi soffre. La sofferenza non ha né risposte immediate né soluzioni immediate. Vi porto un paragone: al CTO è ricoverato un fratello in gravi condizioni. Questa mattina i medici mi hanno detto: “stiamo andando male”. Cosa provo dentro di me, quando mi dicono questo? Reagisci, ti fai coraggio, vai avanti,  chiedi,  ti  informi, ma  in ogni  caso  stai vicino a  colui  che  soffre. Anche mio fratello ha bisogno di essere aiutato, come tutti i fratelli che voi seguite.  Il dolore. Il dolore si esprime anche accompagnato dalla sofferenza tramite espressioni fisiche: ho male perché ho i calcoli ai reni, ho male perché mi sono ferito, ho male perché mi hanno picchiato. Il dolore è sollevato dalla vostra cura, dalle vostre mani tese, dal vostro amore. Lo percepisco al CTO, vedo con i miei occhi il personale all’altezza di questo compito. Sono contento di dirlo.  Di  fronte  a  queste  situazioni  di  dolore,  c’è  qualcuno  che  mi  dice,  come  ha  detto  Gesù  al centurione: “Io verrò e lo curerò” (Mt 8,7). Sono presente e ti aiuto nel modo migliore.  L’evento,  tra  privato  o  intimo.  Sono  situazioni  sociali,  perché  il  dolore  e  la  sofferenza  non appartengono  unicamente  al  singolo, ma  a  tutta  la  società.  E  allora può  essere un  evento  che colpisce. Un’alluvione, una malattia come l’influenza, ecc. diventano una collaborazione di azione sociale che mi porta a dire: lavoriamo assieme. Però, nel mio intimo non sono solo, come si diceva questa mattina, siamo in comunione, in condivisione, e allora ci facciamo dono. Grazie.          

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  Pastore Paolo Ribet (Pastore Valdese ‐ Chiesa Evangelica Valdese di Torino)   I  temi  che  sono  stati  affrontati  negli  interventi  precedenti  sono  belli, complessi, anche se difficili da affrontare in una Tavola rotonda in cui si deve definire,  in pochi minuti, che cos’è  il dolore. Mi  limiterò quindi a fare alcune considerazioni.  Ho ascoltato la seconda parte della relazione della dottoressa Silvestro e 

mi  sono  trovato  in perfetta  sintonia con  tutto ciò che ha detto.  In modo particolare quando ha paralato dell’infermiere come punto di appoggio morale. Credo che sia una bellissima definizione, in  quanto  si  parla  di  tecnica  nel  lavoro  dell’infermiere  e  dell’infermiera, ma  considera  anche l’aspetto, fondamentale, della cura. La cura non è soltanto cercare le medicine giuste, compiere i gesti  giusti;  ma  orienta  l’approccio  nei  confronti  della  persona  ammalata.  Quindi,  pensare all’infermiere come punto di appoggio morale significa, a mio modo di vedere, cogliere uno degli aspetti fondamentali della malattia. La malattia è una dislocazione della persona, sotto molti punti di vista: dalla condizione di persona sana a quella di persona ammalata, per cui non tutti riescono ad  accettare  questa  realtà  e  neanche  riescono  a  capirla.  Dall’altra  parte,  c’è  anche  una dislocazione fisica, nel senso che la persona ammalata, quando è grave, va in ospedale e quindi si trova in un ambiente che non è il suo, in un ambiente nel quale spesso, soprattutto se anziana, si sente disorientata: i ritmi cambiano, cambia la vita, cambiano i vicini, ti trovi  a doverti confrontare non solo con il tuo dolore, ma anche con il dolore di chi ti sta accanto. E allora, forse, il dolore di chi ti sta accanto riesce a farti ancor più paura del tuo. Avere, in questa situazione in cui sei al di fuori  della  tua  normalità,  una  persona  che  in  qualche  modo  diventa  anche  il  tuo  punto  di riferimento, il tuo punto d’appoggio, è importantissimo.  Vorrei  dire  una  cosa  che  probabilmente  farà  irritare  qualcuno:  credo  che  un  elemento  di  cura fondamentale sia il tempo. Il tempo è forse la medicina più importante. So benissimo che il tempo è molto parcellizzato in un ospedale: devi fare tot cose in tot ore e devi riuscire a farle tutte, per cui  i  tempi  sono compressi. Però … però  il gesto nei confronti della persona ammalata  richiede tempo, richiede,  io direi, un ritmo umano. È chiaro, non è colpa dell’infermiere se deve correre, ma  anche  i  ritmi  dell’approccio  devono  –  dovrebbero  –  essere  misurati  proprio  sulla consapevolezza d’essere punto d’appoggio morale per la persona malata.  Mi rendo conto che apro delle porte e poi non le chiudo, ma devo procedere …  Il  tema  del  dolore.  È  un  tema  terrificante.  È  stato  ricordato  già  negli  interventi  di  chi mi  ha preceduto. E’ un tema che è presente nel  libro biblico di Giobbe ed  in modo,  io credo, alquanto polemico  perché  si  contrappone  ad  una  lettura  tradizionale  del  male  come  conseguenza meccanica del peccato del singolo. La storia è nota, ma cerco di sintetizzarla. Tre amici di Giobbe vanno da lui, che è stato colpito da molti mali, e gli dicono: “Dato che Dio benedice la persona buona, se tu sei stato colpito ne discende che hai fatto qualcosa che ha turbato Dio. Riconosci il tuo peccato e sarai salvato.”  E la protesta di Giobbe sta nel dire:  “No, io non ho fatto niente! Il male mi colpisce, ma io non ho peccato” . Alla fine Giobbe, nel suo sfogo, arriva addirittura a dire a Dio:  “Se hai il coraggio vieni giù e dimmi in faccia che cosa ti ho fatto.” La cosa più bella del libro biblico è che Dio scende e glielo dice. O meglio, non gli dice che cosa ha fatto  –  perché  non  aveva  fatto  nulla  di  male,  non  aveva  peccato  (per  usare  un  linguaggio 

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teologico)  – ma  gli  pone  dinanzi  la  totalità  della  creazione  compiuta  per  amore  di  Dio.  Nella creazione  c’è  un  posto  anche  per  il male.  Il male,  secondo  la mentalità  ebraica  antica,  è  qui simboleggiato dal mare che cerca sempre di aggredire la terra. Però Dio dice:  “Gli ho dato un limite che lui non oltrepasserà.”  Lui ci prova, col moto eterno delle onde che assalgono  la terra, ma non riuscirà a superare quel dato limite.  Quindi, se voglio parlare del dolore, almeno dal punto di vista protestante, non lo vedrei né come prova né  come mistica. Non  lo  vedrei neanche  come elemento di  salvezza, un elemento  che  ti porta verso la salvezza. Ricordo al riguardo una recente enciclica papale che si intitolava “Salvifici Doloris” – “la  sofferenza  salvifica”.  Il dolore è – secondo  il mio punto di vista – un elemento di contraddizione della nostra  fede. È  in contraddizione con  la  realtà buona della creazione di Dio. Lenire  il  dolore,  dunque,  è  sempre  un  atto  positivo  perché  permette  alla  persona malata  di riacquistare quella parte di umanità che il dolore rischia di strapparle. Per questo  intervenire  con  le  cure palliative,  con  la  cura  appunto, è  importante ed è una  cosa terribilmente delicata, difficile e pesante da fare. Prima di venire a Torino ero pastore a Pinerolo. Posso testimoniare che l’équipe delle cure palliative a Pinerolo fa un lavoro splendido. Purtroppo si muore sempre più di cancro e tutte  le persone che ultimamente sono state colpite da questa terribile malattia, che ho seguito nella malattia e di cui ho dovuto celebrare il funerale, mi hanno testimoniato quanto fosse importante la presenza dell’équipe delle cure palliative. Soprattutto, mi hanno testimoniato quanto grande fosse la loro disponibilità. Questo è importante, per la persona che viene colpita dal male. E allora, ecco che  l’azione non si può  rivolgere soltanto alla persona malata – moltiplicando  la diagnostica, moltiplicando gli  interventi di questo  tipo – ma alla  cura della persona e del suo contesto, in modo particolare della famiglia.  Concludo dicendo  che  ritengo  sia necessaria, nel momento della  cura,  la  vicinanza,  la presenza della  comunità  ecclesiale  a  cui  la  persona  appartiene. Ho  l’impressione  che  talvolta  i  pastori  – quando vorrebbero andare a parlare fuori orario alla persona malata – siano accolti non sempre bene. Perché? Perché si stanno facendo  le pulizie,  la terapia, perché stanno distribuendo  i pasti, ecc. Ma, d’altra parte, se  il pastore va a  trovare  la persona nell’orario di  ricevimento parenti, ci sono diverse persone  in  camera, e allora  spiegatemi  voi  come  si può  fare  “cura pastorale” alla persona con la stanza piena di gente.  Ecco, credo  sia  importante anche questo aspetto, questa dimensione dell’accettare che ci  siano persone  che arrivano da  fuori e che  in qualche modo accompagnano a  casa  la persona malata. Grazie.   

 Parroco Gheorghe Vasilescu  (Parroco della Chiesa Ortodossa Romena di Torino)   Sono  lieto che  il mio  intervento sia tra gli ultimi della Tavola rotonda, poiché ho trovato  ispirazione dagli  interventi precedenti.  Imposterò  il discorso  sulla  sofferenza  –  e  su  chi  presta  attenzione  ed  amore  alla persona  nella  sofferenza  –  dal  punto  di  vista  della  Chiesa  orientale, ortodossa,  che  pur  avendo  a  Torino  una  grande  comunità  non  ha 

strutture  come  quelle  dei  fratelli  cattolici  e  valdesi. Ma  anche  i  romeni  hanno  un’esperienza concreta legata soprattutto al personale assunto in queste strutture. Essi vengono a contatto con la sofferenza. La nostra comunità è sita in Via Cottolengo, pur nella differenza, ciò che ci accomuna 

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moltissimo  nella  vita  è  la  sofferenza.  Con  la  sofferenza  dobbiamo  confrontarci,  prima  o  poi. Qualcuno  dice  che  la  sofferenza  accompagna  l’essere  umano  dalla  nascita. Non  sappiamo  per quale motivo piangiamo, quando veniamo alla luce: qualcuno dice perché ci siamo abituati troppo bene,  al  calduccio  nel  pancione  della mamma.  La  sofferenza  aumenta  anche  nella  fase  finale dell’esistenza terrena, proprio perché non sappiamo cosa seguirà, sebbene la fede nei nostri testi sacri ed in ciò che ci insegna la Verità, il Libro della vita.  Vorrei esprimere  il punto di vista del mondo orientale sulla sofferenza non  tanto misticamente, come vi aspettereste, ma facendomi aiutare e supportare da un testo che conoscete tutti, almeno quelli  che  hanno  un  minimo  di  confidenza  con  la  Sacra  Scrittura.  Sto  parlando  del  “buon samaritano”.  Qui  si  può  contemplare  l’uomo  di  fronte  all’uomo  nella  sofferenza.  In  questa parabola  vediamo  chiaramente  l’uomo  contro  l’uomo.  “Homo  homini  lupus”,  dicevano  i  latini: “l’uomo è un lupo per l’uomo”. “Un  uomo  scendeva  da  Gerusalemme  a  Gèrico  e  incappò  nei  briganti  che  lo  spogliarono,  lo percossero e poi se ne andarono,  lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima  strada e quando  lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un  levita, giunto  in quel luogo, lo vide e passò oltre.». (Lc 10,30‐32) Qui vediamo, come ho detto,  l’uomo accanto all’uomo,  l’uomo accanto alla  sofferenza. Talvolta l’infermiere si trincera in un’autocorazza fatta di autoconservazione. E forse dice: “meno male che non è capitato a me”; e quando  il malato  si comporta con un po’ di ostilità – magari provando invidia per chi è in salute e lui invece l’ha perduta – c’è il rischio di lasciarsi andare a pensieri del genere “certo che te  la meriti questa malattia”. Lo dico  in base alla mia esperienza, non volendo per questo tradire il segreto della confessione.  Il Natale  è  una  festa  di  gioia, ma  anche  di  sofferenza,  perché  sappiamo  benissimo  che  è  una sofferenza non trovare un posto dove nascere ed essere da subito perseguitato.  Ma proseguiamo nel racconto evangelico: “Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui” (Lc 10,33‐34). Arriva  uno  straniero,  un  samaritano,  che  diventerà  celebre  nella  sua  espressione  di  bontà  e  di umanità: l’uomo per l’uomo. Il buon samaritano tira fuori due cose elementari: l’olio e il vino. Per gli ortodossi  l’olio è  il simbolo del Sacramento, noi diciamo Misteri, perché alla  fin  fine anche  la sofferenza è un mistero. Tentiamo di dare delle spiegazioni filosofiche, morali, sociali, ma rimane un mistero. Quante volte interpelliamo Dio: perché la sofferenza?  Gesù sulla croce pronuncia le parole del salmista:  “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46) Questo  senso  di  abbandono  che  percepisce  la  persona  sofferente  si  ricollega  a  quanto  vi  ho accennato poc’anzi, alla mia esperienza di sacerdote: molti tra i miei confratelli assistono i malati nelle cliniche, nelle case private dove sono assunti. Essi vengono da me e mi dicono:  “Padre, non ho avuto pazienza con il vecchietto o con la vecchietta” Chiedo  dunque  loro  di  essere  prossimo  al  fratello  o  alla  sorella.  Fatti  prossimo.  Loro  mi domandano: “Cosa vuol dire farsi prossimo?” E  così  gli  racconto  la  parabola  del  “buon  samaritano”  che  tira  fuori  un  unguento  per  lenire  la sofferenza, e poi c’è anche il vino, simbolo dell’eucarestia.  “Ringraziate – dico loro – il Signore che vi ha messo in questa situazione, in questa posizione.». I  nostri  anziani  ci  dicono  che  il  medico,  l’infermiere,  tutto  il  personale  sanitario,  non  sono professionisti, ma  dei  veri  e  propri missionari  che  hanno  appunto  una missione,  un mandato 

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speciale, particolare. Tutti sappiamo che i medici fanno un giuramento, il giuramento di Ippocrate. Ritornando a chi deve assistere chi soffre, è importante avere pazienza: la mitezza, la bontà.  Ai miei  confratelli  consiglio  di  andare  dal malato  o  dall’anziano  –  ogni  qualvolta  si  sveglia  o  vi chiama –  col  sorriso  sulle  labbra. Consiglio di dire qualcosa di  simpatico, di  scherzoso. Rendere queste persone ottimiste, mostrare che questa persona la si vuole sollevare, mostrare che non si è indifferenti nei suoi confronti.  “Voi  siete  fortunati  –  dico  a  chi  assiste  –  perché  avete  un  doppio  stipendio:  uno  ve  lo  dà  la professione che svolgete, l’altro la missione che svolgete.».  Gli  insegnanti,  i  professori,  i medici,  i  paramedici  ed  anche  i  sacerdoti  hanno  questo  contatto diretto con l’animo umano. Vedere nel malato, nel sofferente parte della tua umanità che soffre, e sapere che tu non sei escluso. Nessuno di noi sa come finirà la propria vita: su un letto d’ospedale oppure a casa, seguito da qualche straniero che è lì per darci una mano, un bicchiere d’acqua, per alleviare la sofferenza ultima. Gesù non ci insegna come ha guarito i malati o come ha moltiplicato i  pani  nel  deserto.  Ci  insegna  questo:  “…  imparate  da me,  che  sono mite  e  umile  di  cuore,  e troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11,29). La mitezza, la bontà, l’umiltà e la pazienza sono qualità che devono caratterizzare l’atteggiamento dell’infermiere e del medico di fronte al malato. Lo dico perché l’ho sperimentato direttamente e indirettamente: so cosa significa stare accanto e rendere felice una persona che non può essere felice nello stato di sofferenza in cui si trova. La sofferenza nel mondo non è  frutto del caso. Tutto ciò che può darci  la scienza per  limitarla è bene accetto, perché nessuno, per quanto filosofo sia, patisce serenamente il mal di denti. Ciò non toglie,  come ho detto,  che  la  sofferenza ha un  suo  significato, un  suo  valore.  Infatti,  i  cristiani seguono un uomo che il profeta Isaia anticipò: “Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire” (Is 53,3). Se quest’uomo – Gesù –  l’ha assunta su di sé, vuol dire che ha un valore. Perciò è fondamentale scoprire che senso ha la sofferenza nella mia vita: perché a me e non ad un altro?  Ricordo una carissima persona dalla nostra comunità, 96 anni d’età. Quando ha avuto una malattia mi ha detto:  “Proprio a me, padre Giorgio, doveva capitare questa cosa?”  “Non lo so, mamma Gianna, perché a me o a lei deve capitare una cosa del genere, però in questo caso dobbiamo avere proprio quell’atteggiamento di mitezza, di saggezza e di pazienza.  C’è una preghiera ortodossa che recita: “ “Signore, donami la pazienza di Giobbe, la sapienza di Salomone e la mitezza di Davide.». Grazie.  

  Giorgio Vilella  (Responsabile  Comitato  di  Coordinamento  Unione  degli  Atei  e  degli Agnostici Razionalisti‐ settore Eventi)   Sono  qui  in  nome  dell’UAAR,  l’Unione  degli  Atei  e  degli  Agnostici Razionalisti, un’associazione venuta alla ribalta quest’anno – gennaio – per  la  campagna  pubblicitaria  sugli  autobus,  successivamente  per  la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la quale afferma che 

bisogna togliere i crocifissi dalle scuole. Tra l’altro, è un’azione che ho cominciato personalmente, quando  ero  Segretario  dell’Associazione.  Portiamo  avanti  altre  iniziative,  per  questo  la  gente comincia a conoscerci.  

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Avevo preparato una relazione scritta con un titolo ed un sottotitolo che vi leggerò, ma, da come vanno avanti le cose, non mi atterrò al testo. Avevo comunque scritto questo: “l’Italia è uno stato laico secondo la Costituzione in vigore.». Il sottotitolo: “in uno Stato laico, nelle strutture pubbliche, devono  valere  uguali  diritti  per  tutti  i  cittadini,  indipendentemente  dalla  loro  religione  o  dalla mancanza di  religione». Mi scuso per come ho concepito questa  relazione.  Io vengo da Padova, dove  la  situazione –  relativamente alla  laicità delle  istituzioni e del  sentire  comune – è diversa rispetto al Piemonte.  So  che  il Piemonte è  la Regione  italiana più  laica,  come  lo è anche  il  suo quotidiano più diffuso, “La Stampa”. Inoltre, questo grande ospedale piemontese ha fatto la prima convenzione  in  Italia con  la nostra Associazione per  l’assistenza agli ammalati:  l’assistenza  laica‐ospedaliera. È una curiosità personale, ma vorrei davvero sapere perché il Piemonte è così laico ed il Veneto non  lo è per niente:  forse dipende dal  fatto che ci  sono  stati  i valdesi e ne  sono  stati uccisi  un  centinaio  nei  secoli,  bruciati  vivi  di  solito,  e  allora  forse  le  coscienze  sono  un  po’  più tolleranti o forse dipende dall’influenza della cultura francese che si sente ai giorni nostri? In questi giorni  in Regione Veneto è passata una delibera  in base alla quale  i  sacerdoti cattolici saranno  assunti  dalle  ASL  per  garantire  ai  malati,  negli  ospedali  veneti,  “l’esercizio  di  libertà religiosa,  l’adempimento delle pratiche di  culto  e  il  soddisfacimento delle  esigenze  spirituali dei degenti cattolici e dei loro familiari, con contratto di livello D e alloggio”. Sono pagati come i capi infermieri, credo. Contestualmente, sono stati stanziati 2 milioni di euro per assumerli nelle ASL. È una delibera da Stato etico, che non rispetta il principio costituzionale dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla  legge, che fa dei cattolici dei cittadini speciali e di chi non è cattolico un suddito. Si assumono dei sacerdoti per l’accompagnamento spirituale dei degenti cattolici. Ma – chiediamoci – quanti  sono  i cattolici  in  Italia?  In Piemonte,  tra  i bambini nati oggi, più del 50% non hanno  i genitori  sposati  in  chiesa  o  sono  genitori  che  convivono  e  quindi  non  seguono  le  regole  della Chiesa, oppure non sono sposati in chiesa, ma in municipio e quindi non seguono nuovamente le regole  della Chiesa. Allora,  se  nella  popolazione  del  Piemonte  il  50%  dei  bambini  appartiene  a famiglie secolarizzate – fenomeno, quello della secolarizzazione, che si è già esteso in tutto il Nord Europa e sta correndo velocissimo anche nel Nord Italia e nel Centro, non nel Sud – vorrei sapere come si permette una Regione a fare una legge speciale per i cattolici. Anni fa la Regione Abruzzo aveva ricevuto numerose richieste dai cattolici per costruire nuove chiese. È stata quindi fatta una legge che stanziava diversi milioni per  la  loro costruzione. Credo abbiano fatto domanda anche  i valdesi,  ed  è  stata  accolta.  Poi  l’avevano  fatta  i  Testimoni  di  Geova.  Risposta:  “voi  non  avete l’intesa”.  I Testimoni di Geova hanno  fatto  ricorso  in Tribunale,  il quale ha  inoltrato  il  tutto alla Corte  Costituzionale  che  ha  obbligato  l’Abruzzo  a  dare  i  fondi  per  la  costruzione  di  una Congregazione dei Testimoni di Geova.  La Costituzione italiana afferma che siamo tutti uguali.  In questi giorni la Regione Veneto ha approvato la legge che vi ho appena detto. A proposito di ciò, è uscito un  articolo  sul  “Corriere della  Sera”,  firmato da uno psicoterapeuta. Vi  leggo un breve periodo così da esprimere il disagio che provano le persone che non hanno religione, quando sono in un ospedale pubblico:  “E così con i miei soldi la Regione Veneto assumerà dei dipendenti non‐dipendenti – dipenderanno dal loro vescovo – ai quali darà anche vitto e alloggio perché possano venirmi a disturbare se sono ricoverato in ospedale. Dovrò, infatti, dire di no quando si presenteranno a chiedere se voglio una benedizione o un’assistenza religiosa, e se saranno discreti se ne andranno. Sennò mi chiederanno perché non  li voglio, e da ricoverato sarò  in una situazione di debolezza. Dovermi anche spiegare sarà antipatico. Se poi avessero anche voce  in capitolo – questi sacerdoti assunti dalle ASL – nel processo  terapeutico e  in  scelte etiche,  sarei molto allarmato.  […] Nel momento  in cui  si è visto quanto diversificate sono  le posizioni degli  italiani sui temi della bioetica, dell’assistenza ai malati terminali, sulla procreazione assistita, sull’interruzione di gravidanza, la scelta dell’assessore Sandri 

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[quello che ha fatto quell’ordinanza] non è solo inopportuna, ma costituisce una grave mancanza di rispetto nei riguardi dell’insieme dei cittadini.».  Dunque, quale accompagnamento nella sofferenza per gli ammalati senza religione negli ospedali? Vogliamo che l’accompagnamento sia fatto nel rispetto di quello che pensano gli atei.  Se ci sarà tempo vi racconterò quello che è successo a mia sorella, mancata tre settimane fa in un ospedale di Padova e così chiarirò perché voglio rispetto dagli ospedali.  Io non ho nulla contro  i religiosi  che  curano  le  anime  dei  propri  fedeli.  Non  ho  niente  contro  di  chi  crede,  contro  la vecchietta che muore quasi contenta perché si ricongiungerà a breve con suo marito. Non vado certo a dirle che non sono convinto che sia così. Benissimo. Però vorrei che ci fosse più rispetto per quelli che non hanno nessuna religione.   

  Rosanna Cerri  (Responsabile dell’Ufficio Qualità Percepita e Marketing AOU S. Giovanni Battista di Torino)   Buongiorno.  Rappresento  l’Ufficio  Qualità  Percepita  e  Partecipata  delle Molinette,  che  in  questi  anni  ha  cercato  di  implementare  –  e  ha implementato  con  successo  –alcuni  progetti  che  colgono  questi argomenti.  Sono  molto  contenta  perché  per  la  prima  volta  che  ho  la 

possibilità  di  spiegare  come  è  nata  l’idea  di  far  partecipare  tutte  le  religioni  all’assistenza  e  di conseguenza  la creazione della “stanza del silenzio”. Quest’idea è nata nel 2004, quando con un Audit Civico ci siamo resi conto che non ottemperavamo ad un requisito:  “Sono presenti nella vostra azienda servizi religiosi per non cattolici?”  Il non poter rispondere a ciò ci ha fatto andare un po’ in crisi, e così abbiamo cominciato a cercar di capire come fare. Ci siamo interrogati su chi è l’infermiere. Abbiamo letto il precedente Codice deontologico, rivisto la Carta dei Diritti dell’Uomo, e la Costituzione per giungere alla conclusione che:  “Se  siamo  uno  Stato  laico  e  i  presupposti  sono  questi,  anche  le  persone  che  non  sono cattoliche hanno diritto ad avere un’assistenza religiosa.”  Guardandoci attorno – era il 2004 – abbiamo notato come la nostra società fosse cambiata e come  di  conseguenza   moltissimi migranti  usufruissero  dei  servizi  dell’azienda:  il  2,8%  del  totale  dei ricoveri era costituito da persone straniere. Anche questo dato ci ha fatto riflettere, perché queste persone  lontane dalla  loro  famiglia, dalla  loro cultura, dai  loro affetti, vengono qui,  in un paese straniero dove   può capitare di ammalarsi, per  loro  la  religione può essere  l’unica  forza,  l’unico punto di ancoraggio con la propria cultura di origine.  Tutto questo ha fatto nascere il “Progetto religioni”.  È  stato  un  lavoro molto  lungo  di  cui  si  è  occupato Mario  Caserta.  Fortunatamente,  l’attuale Direttore Generale di questa azienda ha  fatto proprio  il progetto, altrimenti non  l’avremmo mai portato a compimento. La conclusione di questo primo progetto è stata  la firma di un protocollo d’intesa con tutti i religiosi interpellati. Di seguito la domanda è stata: il dialogo religioso serve?  Come Ufficio abbiamo letto numerosi articoli. Da una review è emerso  come non vi sono evidenze significative dell’influenza del dialogo col paziente e la preghiera sull’esito delle cure, ma neppure evidenze non significative. E allora perché no? Perché non costituire un  luogo  fisico da riservare alla preghiera. Quale  luogo?  E perché un  luogo di  comunicazione  accessibile  a  tutti?  In  Europa 

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esistono diversi modelli: chiamati “stanza del silenzio” e  “stanza interfedi”. Abbiamo optato per la “stanza del silenzio” perché, secondo noi, la “stanza interfedi” continua a dividere queste religioni, in quanto ognuna di esse può esercitare  il proprio culto, ma separatamente.  Il dialogo è fatto di silenzio ed è fatto di parola, abbiamo cominciato col silenzio quindi troviato un luogo – il luogo del silenzio – dove tutte  le persone – credenti, non credenti, di tutte  le religioni e culture – possono recarsi  per  riflettere, meditare,  pregare.  Ciò  è  necessario  soprattutto  in  un  ospedale  come  le Molinette  perché questo luogo di cura non è un luogo di gioia –non c’è l’ostetricia– ma di ansia e sofferenza, dove a volte la malattia evolve e si va verso la morte. I parenti di persone appartenenti a  fedi  differenti  dalla  cattolica,  sono  soli  davanti  al  lutto,  non  hanno  un  posto  dove  ritrovarsi, perché  nelle  nostre  camere mortuarie  c’è  solo  una  cappella,  ed  è  una  cappella  cattolica.  Con questo non vogliamo annullare il fatto che vi sia la cappella cattolica, ma bisogna prestare un po’ più  di  attenzione  anche  agli  altri.  Se  noi  vogliamo  accogliere  gli  altri,  dobbiamo  prestare  loro attenzione. Da tutto questo è nata  la “stanza del silenzio”, che per noi è solo un punto di  inizio, perché vorremmo andare oltre: vorremmo arrivare ad una “stanza della parola”. Cioè, un  luogo della  parola  dove  le  persone  di  diverse  culture  possano  parlare  di  temi  riguardanti  l’etica,  la salute,la malattia, la sofferenza. Questi temi accomunano tutte le culture, sono temi cari all’Uomo, sono temi che possono facilitare l’integrazione attraverso il dialogo interreligioso ed interculturale. E questo è il nostro desiderio futuro.     

   Sandra Bombardi Vorrei chiedere ai componenti della Tavola rotonda – riguardo ad alcuni temi  che  sono  stati  affrontati  –  se  vogliono  intervenire  e  aggiungere altre riflessioni.     

DIBATTITO  

 Cappellano Piero Montagna (Cappellano AO CTO di Torino)   Proprio  in merito al  relatore che ha preceduto Rosanna Cerri, Giorgio Vilella, ritengo sia giusto e doveroso pensare alle diversità delle religioni e alle diversità delle culture ed anche ai ruoli che ci sono nella società e all’interno  degli  ospedali.  Con  il  Concordato  la  religione  cattolica 

prevale  sul  servizio  ospedaliero  e  su  altre  realtà,  ma  non  voglio  entrare  in  merito  a  questo argomento.  Comprendo  le  iniziative  e  i  desideri  che  possono  nascere per  incontrare  le  altre  fedi  e  le  altre religioni. Però, per quanto riguarda il servizio in ospedale, per quanto riguarda me personalmente, 

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la  diversità  di  fede  che  vedo  in  chi  è  ammalato  – ma  anche  nell’infermiere,  nel  personale  –  è rispettata e su questo ci si incontra molto. Penso che questo non sia un aspetto d’urto, ma sia un aspetto da verificare, da confrontare con amore.  Una sera, davanti al Pronto Soccorso, vedo una signora, sola. Vado spesso al Pronto Soccorso. Le domando:  “Ha qualche problema?”  Ovviamente un problema c’era.  “Ho mio marito – mi dice – di là in rianimazione, ma io sono atea.».  Ed io le rispondo: “Ma io le voglio bene così.” Poi ci pensa e dice:  “Può dirmi qualcosa di mio marito, può andarlo a vedere?” Per  farla breve,  sono andato a chiedere come  stava.  Il giorno dopo entrambi mi domandano di chiamare  un monaco  buddista  perché  volevano  sposarsi. Mi  sono  dato  da  fare  e  a Milano  ho trovato  una  persona  che  li  ha  seguiti  lungo  tutto  il mese di  degenza  in  ospedale.  È  venuto  un monaco da Milano. Penso stia ad ognuno di noi capire e andare incontro all’altro.   

  Sandra Bombardi:  Vorrei  chiudere  dando  la  parola  ai  diversi  componenti  della  Tavola rotonda riguardo al  tema delle religioni, dell’integrazione e quale rete di protezione e di senso può essere utile all’interno dell’organizzazione e del lavoro quotidiano dell’infermiere.    

  

 Rabbino capo Somekh:  Desidero  intervenire  brevemente  sulla  questione  della  “stanza  del silenzio” in quanto ho seguito i lavori sin dall’inizio in qualità di membro del  Comitato  Interfedi  della  città  di  Torino,  luogo  iniziale dell’elaborazione di questo progetto. L’idea è stata proposta e sollevata dagli amici buddisti ed è stata rapidamente raccolta da tutti noi perché ci  è  parsa  un’idea  non  inopportuna,  un’idea  importante.  Voglio ricordare un versetto del Salmo 65: “Per  te o Dio  il silenzio è  lode”.  Il 

silenzio non è da identificarsi come una forma di assenza, ma è, a sua volta, una forma espressiva. L’idea è quindi condivisibile, purché sia rispettata da tutti nella sua essenza. Ci è giunta notizia che recentemente  la  “stanza  del  silenzio”  è  stata  adoperata,  almeno  così  ci  risulta,  per  lodevoli iniziative  che  peraltro  non  erano  silenziose.  Ritengo  sia  opportuno  trovare  un  accordo  perché effettivamente questi progetti siano rispettati da tutti nella loro essenza.  Riprendo  un  cenno  fatto  dal  pastore Ribet  a  proposito  della missione  dei ministri  di  culto  non cattolici nelle visite ospedaliere anche fuori orario. Mi sembra che sia assolutamente condivisibile l’osservazione  che ha  fatto a proposito della  sovrapposizione  con  i parenti e  con gli amici negli 

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orari canonici dell’ospedale. Operativamente dovrebbe essere rilasciato un lasciapassare anche ai ministri  delle  altre  religioni  perché  possano  svolgere  il  proprio  compito  accanto  ai  cappellani cattolici,  tenendo  conto  che  la  percentuale  di  degenti  appartenenti  alle  cosiddette minoranze sicuramente non richiede una presenza costante dei cappellani di altre religioni e quindi l’intralcio al traffico della normale operatività ospedaliera dovrebbe essere assolutamente limitato. Per  quanto  riguarda  il  tema  delle  religioni  che  ci  vede  qui  riuniti  oggi,  credo  sia  un  tema estremamente importante da sottolineare. Le religioni, lo abbiamo sentito, hanno diversa materia in comune, hanno diversi messaggi e significati che riguardano trasversalmente tutti i credi e che possono fornire quindi un supporto morale e spirituale all’esperienza personale anche degli stessi operatori sanitari.  La  dottoressa  Bombardi  prima  parlava  dell’importanza  della  figura  dell’infermiere  nella  totalità della sua personalità, ma io vorrei fare un discorso parallelo a proposito degli assistiti.  Esiste  anche  una  componente  specifica  di  ogni  singola  esperienza  religiosa  e  quando,  gentili infermieri ed infermiere, avete a che fare con un degente professante una certa religione – quale che sia non importa – ed esprimente delle esigenze in materia di osservanza religiosa, è evidente che siete costretti a calarvi nella personalità religiosa dell’individuo. Non si potranno confondere fra  loro esperienze religiose diverse. Se una religione proibisce di mangiare determinati cibi o di bere  acqua  minerale  gassata  –  come  succede  presso  alcuni  credi  religiosi  –  e  il  degente  in questione richiede un’attenzione di questo tipo, dovete abbandonare – in quel frangente – tutto il vostro pregresso culturale e calarvi interamente nella religiosità del paziente. Questo fa parte della considerazione olistica – di cui parlavo prima – della personalità del paziente dalla quale non  si può prescindere. Tenete presente che le religioni non sono partiti politici che possono coalizzarsi. Ognuna  esprime  una  propria  verità  e  di  questo  fatto  bisogna  evidentemente  tenerne  conto  e considerare  il paziente che avete di fronte sullo sfondo della sua esperienza culturale e religiosa come unica davanti ai vostri occhi in quel momento. Grazie.    

   Giorgio Vilella:  Desidero  scusarmi  per  come  ho  parlato  nel  mio  intervento.  Forse qualcuno  vi  ha  percepito  una  vena  di  anticlericalismo.  Nella  mia Associazione  c’è uno  Statuto  che potete  andare  a  leggere  su  Internet: noi  non  ce  l’abbiamo  con  nessuna  religione,  noi  ce  l’abbiamo  con  il nostro Stato che è clericale. Che la religione cattolica chieda di fare l’ora 

di religione nelle scuole pubbliche mi sta bene, è una richiesta legittima; però lo Stato doveva dire di “no” o di “sì” a tutte le religioni e all’ateismo. In Inghilterra, alle elementari, in certe classi non si fa  religione, ma  se  si  fa  religione  si  fanno  6‐7 ore di  religione  cattolica,  altrettante di  religione protestante, buddismo, induismo e si dedicano delle ore per le associazioni come la nostra. Sono  contento  che  in  questo  ospedale  ci  sia  l’assistenza  per  tutte  le  persone.  So  che molte persone si troverebbero a disagio senza religione, come sbandate. Hanno bisogno della religione, e mi sta bene che ci siano le religioni che le accompagnano. Non ce l’ho con le religioni. Una volta ho sostenuto un dibattito con un sacerdote che affermava che non fossi ateo, ed  io ribattevo che  lo ero,  e  lui  incalzava  dicendo  che  non  esistono  gli  atei,  non  esiste  l’ateismo.  “Lei  è  agnostico”: secondo  lui  io ero agnostico,  infelice nell'attesa  che  lui mi  convertisse. Mi mancava di  rispetto. 

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Sono diventato  ateo  sessant’anni  fa e ho  ribadito questo  concetto nel  tempo. Non  comprendo questa mancanza di rispetto nel riconoscere le mie idee. A me le religioni vanno tutte bene, però vorrei che lo Stato fosse laico. Proprio per questo vorrei parlare di un’esperienza personale.  Tre  settimane  fa  è morta mia  sorella,  75  anni,  professore  universitario,  una  linguista  piuttosto nota. Era diventata atea più o meno quando  lo ero diventato  io, sui 12‐15 anni. Il suo è stato un distacco sofferto dalla religione, fatto anche con rabbia perché, in quanto di sesso femminile, non sarebbe  potuto  diventare  sacerdote,  papa  e  quant’altro.  Lungo  tutta  la  sua  vita  aveva  ribadito questo concetto. Sette anni  fa ha avuto un tumore al seno, della peggior specie. Però è guarita, dopo cinque anni le hanno detto che aveva la stessa probabilità di vita di una persona sana della sua età. Dopo sei anni le diagnosticano un tumore al fegato. L’hanno aperta, hanno visto che non c’era niente da fare e  l’hanno ricucita. Mia sorella era una donna determinata, ha sempre voluto sapere tutto, non ha mai dato il suo consenso se non era ben chiaro, voleva vedere le statistiche, eccetera. Le hanno detto che aveva tre o quattro mesi di vita. È tornata a casa, perché il tumore al fegato  è  asintomatico.  Stava  abbastanza  bene  e  dopo  sei  mesi  il  medico  curante  l’ha  fatta ricoverare  in  un  hospice.  Questo  hospice  è  della  ASL  16  di  Padova, ma  ha  sede  presso  una struttura cattolica. Ci sono tre sacerdoti che fanno il giro degli ammalati e ce n’era uno che andava spesso  da  mia  sorella  e  lei  regolarmente  lo  allontanava,  dicendo  che  aveva  poco  tempo  da dedicare a lui e che preferiva pensare ai fatti suoi. Era visitata da tanti amici e colleghi. Il sacerdote insisteva,  e  una  volta  le  ha  detto  che  voleva  essere  presente  al  momento  della  sua  morte, auspicando una conversione in extremis. Lei gli ha risposto: “Guardi, se anche mi dovessi convertire, se dovessi diventare pazza, diventerei buddista ma non cattolica.».  In un’altra occasione le aveva detto: “Non è possibile che lei non creda, tutti devono credere, Dio c’è... E lei ha risposto:  “Per me un adulto che crede in Dio è come un bambino di 14 anni che crede alla Befana.». Questo per dire con quale e quanta determinazione non gradisse la presenza del prete.  Ad  un  certo momento  non  era  più  in  grado  di  alzarsi  dal  letto. Ha  chiesto  che  smettessero  di alimentarla e di  idratarla:  le hanno detto che non era possibile. Era presente  la figlia  la quale ha controllato su Internet, scoprendo che la legge italiana in vigore dice che se una persona in piena coscienza decide di non alimentarsi nessuno  la può alimentare con forza. Allora  lo ha riferito alla madre e  la madre  le ha detto: “vai dai medici e digli come stanno  le cose.».  Inizialmente hanno fatto resistenza, quindi hanno accettato. È stata  interrotta  l’alimentazione e  l’idratazione per via endovenosa. L’hanno addormentata e nel giro di due giorni è morta. Poco dopo è arrivato il solito sacerdote – quello che “voleva impossessarsi dell’anima di mia sorella” – ha trovato la figlia e le ha detto  che  avrebbe  voluto  benedire  la  salma.  La  figlia  ha  risposto  di  no:  mia  madre  era orgogliosamente atea, tutti la conoscevano come atea, sarebbe stata un’offesa al suo ricordo, alla sua personalità.  “No, vada via.” Il prete ha ribattuto:  “Questa è casa mia e faccio quello che voglio. Appena ve ne andrete la benedirò.” I miei  nipoti mi  hanno  chiamato  piangendo.  Sono  corso  lì  e  con  il Direttore  della  struttura  ho discusso con il sacerdote, il quale ha detto che scherzava. Ha ammesso di aver pronunciato quella frase, però ha aggiunto: “scherzavo”.     

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   Sandra Bombardi:   Volevo  lasciare  spazio  al  dibattito,  alle  domande.  I  temi  affrontati alimentano  curiosità,  in  quanto  riguardano  ambiti  delicati  e culturalmente determinanti, densi e suscettibili anche di punti di vista diversi.  Partirei da un aspetto che ha sollevato il rabbino, ovvero l’aspetto delle religioni  e  come  l’infermiere  risponde  anche  all’espressione  di  credo 

dell’utente.  Generalmente,  al  di  là  della  religione,  in  quanto  connotato  di  espressione  –  “sono  di  religione cristiana piuttosto che ebraica” e così via – noi più che altro rileviamo le necessità che esprime la persona e la sua religiosità, le quali attraversano diversi modelli del vivere e diverse funzionalità di vita delle persone, che passano dal momento della cura del corpo piuttosto che  l’alimentazione, l’abbigliamento,  ecc.  Aspetti  che  nella  vita  di  tutti  i  giorni,  nel  sociale,  la  religione  va  a regolamentare, regolamentano anche quella che è  la vita delle persone. Quindi, noi  infermieri ci avviciniamo al  fine di comprendere come  la  religione attraversi  il modello di vita, che potrà poi essere speculare al modello di cura nel momento in cui la persona esprime un bisogno di salute.  Un aspetto importante che mi sembrava interessante è quello del contesto e del silenzio.  Volevo appunto ringraziare i colleghi delle Molinette di Torino.   Lo  svedese  Dag  Hammarskjöld  –  Segretario  delle  Nazioni  Unite  dal  7  aprile  del  1953  al  17 settembre del 1961 – aveva voluto, all’ingresso del Palazzo dell’Onu, una “stanza della quiete”. Era il 1954.  Nel testo di presentazione ai visitatori aveva scritto:  “Ciascuno di noi ha dentro di sé un centro di quiete avvolto nel silenzio. Questo palazzo, dedicato al lavoro e alla discussione, al servizio della pace, dovrà avere una stanza dedicata al silenzio e alla quiete.».  Silenzio come ambiente  ideale di un ascolto.  Il silenzio ha anche un contesto che ci permette di ascoltarci.  Un altro aspetto  importante che mi sembra doveroso sottolineare e riprendere è  il concetto del tempo. In uno dei primi corsi fatti a Ferrara – con la compresenza di ostetriche, medici, infermieri, assistenti  sanitari  –  riguardante  il  tema  del  “ripensare  i  servizi  per  un’utenza  che  cambia”  era emerso un aspetto  interessante  riguardante “i  tempi della notte”. Durante  la notte, dicevano  le ostetriche, anche i parti più impegnativi alla fine comunque risultano migliori. L’ostetrica, di notte, è  il più delle  volte  sola  in  sala  travaglio e  in  sala parto,  il medico di guardia  si  chiama  solo nel momento  espulsivo.  In  lavoro  nei  “tempi  della  notte”  –  pur  nella  complessità  della  solitudine dell’ostetrica di  fronte alla donna – è migliore. Perché?  Il silenzio,  la penombra, si cammina più lentamente di notte,  si entra nelle  stanze bussando, parlando  sottovoce,  a  fianco  alla persona. Quindi, come poter trasferire i tempi della notte durante il giorno?  Tempi  fatti  di  tono  basso,  di  luce,  clima  relazionale,  vicinanza  e  dialogo  con  le  persone.  Come declinare durante il giorno i tempi della notte per fare in modo che ci sia anche questa dimensione di dilatazione temporale e quindi come prevedere il “prendere tempo”?  

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Un altro aspetto molto importante, che mi sembrava bello da ricordare, è stata un’esperienza che ho vissuto in Federazione sulle narrazioni nel cinquantenario. Prima Padre Vasilescu ricordava ciò che dice a chi è vicino ai malati:  “Cercate di sorridere di fronte ai malati, di aver sempre questo atteggiamento positivo”.  Ricordo  un  vecchio  slogan  di  reclutamento,  di  sensibilizzazione  alla  professione  infermieristica, ancora ai tempi delle scuole convitto. Questo slogan, molto carino, diceva:  “Cerchiamo ragazzi seri ma che sappiano sorridere”. Un altro aspetto importante – da considerare – è l’uomo di fronte all’uomo nel momento in cui c’è la sofferenza, nel momento in cui c’è la condivisione del dolore. In ultima analisi, si è una persona di fronte ad un’altra persona ovvero una persona che accoglie un’altra persona. Si è una donna di fronte ad un’altra donna, ad esempio, quando si parlava dell’esperienza nel Centro di accoglienza femminile. Si tratta di essere donne di fronte ad altre donne, ci si impersona di fronte ad un’altra persona,  e  a  quel  punto  penso  vi  sia  l’identificazione  con  l’altro  o  con  l’altra.  Credo  che  tutto questo sia molto importante.  Ora vorrei dare la parola al pubblico per le domande.    Domanda I  

 Intervento – (Infermiera: Claudia Contratto)   Lavoro  in  ambito  territoriale,  al  di  fuori  dell’ospedale.  Tutti  i  giorni vediamo  sempre  più  l’emergenza  esplosa  delle  fragilità,  le  fragilità cliniche,  le malattie  croniche,  le  disabilità  gravi,  le malattie  in  fase avanzata  ed  esito  infausto,  sempre  più  spesso  accompagnate  dalle vulnerabilità  sociali.  Vediamo  anche  la  solitudine,  ma  anche l’emarginazione,  l’esclusione  sociale  vera  e  propria  di  persone  o  di gruppi.  In  un’ottica  di  infermieristica  territoriale  –  oserei  dire  col 

modello che  l’OMS ci dà di  infermiere di  famiglia – noi abbiamo un  ruolo di attivatore di  reti di supporto intorno alla persona‐famiglia che assistiamo e dietro a questa funzione ci sono dei valori professionali di cui sarebbe anche molto interessante discutere insieme.  Molto  interessante  l’idea  della  “advocacy”.  Attiviamo  quindi  reti  di  supporto  sui  bisogni  di sostegno, di aiuto, di accompagnamento. Sono reti formali – penso ai servizi socio‐assistenziali – e sono  reti  di  tipo  informale,  le  reti  amicali,  di  buon  vicinato,  il  volontariato.  Ora,  io  vorrei approfittare dell’occasione dei presenti alla Tavola rotonda per chiedere loro come fosse possibile attivare una collaborazione che permetta a noi – infermieri del territorio – di “utilizzare”, proporre alle famiglie che abbiamo in carico – nel pieno rispetto dei loro valori etici, culturali, religiosi – un sostegno di tipo religioso  in quelle situazioni  in cui  la sofferenza,  la malattia,  il  lutto sono vissute all’interno  delle mura  domestiche  e  di mura  domestiche  chiuse,  di mura  domestiche  dove  c’è solitudine.        

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  Cappellano Piero Montagna  (Cappellano AO CTO di Torino)    Penso  che  ognuno  di  noi  può  rispondere  con  delicatezza  a  questa proposta. Le persone che  soffrono chiedono aiuto  in  tutti  i modi. Per quanto riguarda la fede – questa è la mia opinione, poi sentirete anche 

le altre risposte – non importa se cattolica o non cattolica, si potrebbe proporre l’indirizzo o i nomi dei  loro  responsabili del  cammino di  fede oppure  chiedere  aiuto  ad  un Centro,  se  c’è  in  zona, perché vengano incontro a queste famiglie e anche a voi perché li possiate aiutare.   

 Pastore Paolo Ribet:   Le  comunità valdesi  sono abbastanza piccole. Torino ha una  chiesa di 1.500  membri  dispersi  in  un’area  molto  grande.  Uno  dei  momenti centrali e certamente più attesi e desiderati dalle persone è quella che si  chiama  la  “visita pastorale”.  Infatti, noi pastori  abbiamo  sempre  la coscienza sporchissima su questo, perché non riusciamo a star dietro a tutti. È un momento  importante – nella fase della malattia –  l’incontro 

con il pastore o con la pastora, ma anche con dei gruppi di volontari che possono in qualche modo offrire  questo  supporto  e  questo  legame.  Prima  ho  terminato  il  mio  intervento  dicendo  di permettere ai pastori – ai pastori di  tutte  le comunità – di entrare nei  reparti per mantenere  il legame con la famiglia. Ebbene, credo sia tanto più valido e più importante quando l’ammalato è a casa, perché lì la famiglia ha anche bisogno di un supporto direi fisico oltre che religioso, spirituale e psicologico.  

  Imam, Hamid Zariate:   Come musulmano sottoscrivo  la proposta di Padre Piero, perché è una cosa  che  ho  già  detto  in  precedenza.  So  anche  che  l’ospedale  ha  un contatto diretto con un  imam che ha partecipato alla costruzione, per così dire, della “stanza del  silenzio”. Qua a Torino ci  sono circa undici moschee o centri islamici. Io, per motivi di studio, abito a Novara, però assieme a me c’è anche  il dottor Lafrà, musulmano, dottore  in Scienze 

Islamiche. Anche  lui ha fatto qualche volta da  imam  in alcune moschee e siamo  lieti di  lasciarvi  i nostri recapiti per qualsiasi cosa, come ho fatto anche con altri vostri colleghi a Biella piuttosto che a Novara. Siamo a disposizione per qualsiasi cosa.    

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  Rabbino capo Somekh:   Questo  mi  sembra  un  intervento  estremamente  importante,  anche perché  ci  porta  al  di  fuori  della  struttura  ospedaliera  propriamente detta.  In genere, per quello che  riguarda  i membri della mia comunità religiosa, essi  sono  in  contatto diretto  con noi. Ad ogni buon  conto – suggerimento  pratico‐operativo  –  siamo  disponibili  a  redigere  con l’ospedale un elenco delle  comunità  religiose  con nominativi,  indirizzi, 

indirizzi  elettronici,  numeri  di  telefono  e  tutto  quel  che  serve,  in maniera  tale  da  poter  dare seguito pratico a questa bellissima richiesta che ci è pervenuta.   

 Giuliana Galli:   Penso –  rispetto alla  richiesta  che  fa  il Padre – alle parrocchie, alle Conferenze di San Vincenzo, al S.E.A. e  insinuo un piccolo sospetto: l’attenzione  al  fatto  che  la persona  che dovrà entrare  in  casa della persona malata sia ben accetta dalla stessa, perché molte volte c’è un certo senso di sospetto su chiunque debba entrare in casa, specie se 

è una persona non conosciuta. Rispetto a comunità non nostre, ci sono dei gruppi, come appunto ha detto l’imam: le moschee o anche le comunità. Relativamente alla comunità nigeriana c’è una comunità  pentecostale.  Oppure  c’è  “Fratia”,  l’Associazione  Promozione  Sociale  Culturale  Italo‐Romena.   

   Parroco Gheorghe Vasilescu:   A proposito della “stanza del silenzio”, questo concetto è molto caro al  mondo  orientale.  I  greci  lo  chiamano  “esikia”.  Già  nel  XII‐XIVº secolo  nasce  la  corrente  spirituale  dell’esicasmo.  Se  la  nostra esistenza terrena finisce con un silenzio, bisogna rispettarlo. Ricordo 

un passo dal testamento di uno scrittore romeno:  “Non turbatemi il sonno con dei discorsi funebri”. Per questa ragione ho smesso di parlare, a parte  il rivolgere qualche parola di consolazione se  la persona è credente, ma noi siamo rispettosi di tutti, anche di chi non crede o respinge l’assistenza religiosa. Dare un consiglio,  in questi casi, è  facile e difficile allo stesso  tempo. È  facile per chi è abituato a dare consigli; un po’ più difficile per chi sta in contatto con la sofferenza, perché non è semplice portare  insieme  la croce altrui. Abbiamo già  la nostra da portare, con grande difficoltà. 

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Malgrado ciò, e in forza di ciò, dobbiamo assumere l’atteggiamento di identificarci con la persona umana che si ha di fronte.  Condivido con voi un altro pensiero, senza voler dare l’impressione d’essere un citomane:  “Io sono anima dell’anima del mio genere e canto le gioie e piango le sofferenze.».  È ciò che diceva San Paolo:  “Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto” (Rm 12,15), in modo sincero, autentico. Questo si può osservare soprattutto nell’assistenza domestica alla quale si faceva – e io stesso facevo – riferimento. Noi siamo una comunità molto grande, ma con poche risorse. Tuttavia, nel campo della risposta spirituale, pur non avendo un’organizzazione in tal senso, siamo aperti e disponibili a chiunque si rivolga a noi. Quando è stata inaugurata la “stanza del silenzio” ho detto:  “Sia benedetto  il Signore, perché qui ognuno di noi, ogni  credente di qualsiasi  fede, di qualsiasi tradizione,  può  proiettare  la  sua  ricchezza  spirituale  in  questo  spazio  di  silenzio  e  di  ascolto”, perché  il  silenzio,  come  diceva  il  rabbino,  non  è  assenza  della  parola.  Infatti,  nel  concetto giovanneo “logos” rappresenta il Verbo incarnato. Grazie.   

  Intervento ‐ (infermiera: Maddalena Galizio)   Volevo  esprimere  un  pensiero  di  grande  apprezzamento  e  di ringraziamento  per  questa  Tavola  rotonda  che  ci  avete  offerto.  Non penso accada spesso di vedere ministri di culto –  incluso, giustamente, un  rappresentante  delle  persone  che  non  hanno  fede  –  seduti  ad  un tavolo a parlare con noi, con  la delicatezza ed  il rispetto reciproco che 

ho percepito.  Questo è quello che noi  infermieri dobbiamo vivere ogni giorno. La nostra attenzione è centrata sul rispetto della persona come questa si manifesta nella sua interezza, ma anche nella sua umiltà, nella sua sofferenza, nelle sue difficoltà.  La  vostra  vicendevole  preoccupazione  di  non  urtare  nessuno  è  stata  di  grande  esempio,  e  di questo vi ringrazio. Mi piacerebbe che gli infermieri – i curanti in genere – potessero ritrovarsi con chi può aiutarci a soddisfare  il  bisogno  spirituale,  questo  bisogno  che  si manifesta  nella  solitudine,  nell’angoscia, nella ricerca del significato di senso. Noi le viviamo tutti i giorni queste situazioni: a volte anche un banalissimo incidente – non c’è bisogno di avere una malattia grave – può sconvolgere l’equilibrio di  una  persona.  Io  penso  che  essere  ammalati  può  risultare  una  grande  opportunità  di cambiamento  per  la  persona  stessa  ed  anche  per  le  relazioni  che  fanno  parte  della  nostra quotidianità. Grazie ancora, e di cuore, per quello che mi avete dato oggi.         

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  Rabbino capo Somekh:   Vorrei  raccogliere  in  maniera  operativa  la  proposta.  Innanzi  tutto ringrazio  la  signora,  a  nome  di  ognuno  di  noi,  per  le  sue  parole. Varrebbe  la pena – nei  limiti delle possibilità di  tutti, naturalmente – organizzare dei  seminari periodici  su  temi anche più  specifici di quelli che  sono  stati  affrontati  oggi  in  modo  necessariamente  generico  e 

generale, così da creare ed alimentare questa consapevolezza e questa sensibilità auspicata dalle infermiere. Siamo noi che dobbiamo  ringraziare queste persone per  la  loro dedizione nella  loro attività quotidiana al servizio della nostra società. Grazie.   

  Sandra Bombardi:   A  questo  punto  chiamerei  Annalisa  Silvestro  per  le  conclusioni. Ringrazio voi tutti per  l’attenzione, per  il coinvolgimento e ci vediamo domani mattina. Passo la parola ad Annalisa Silvestro.    

   

  Annalisa Silvestro:   L’intervento della  collega Galizio è  stato estremamente puntuale e corrisponde  a  ciò  che  pensavo  di  evidenziare  in  questo  mio  di chiusura.  Innanzi  tutto,  prima  di  concludere,  desidero  sottolineare che a Torino –  immagino  in  tutta  la Regione Piemonte – avete una grande opportunità. Mi  riferisco  a  ciò  che è  già  stato  sottolineato: 

rispetto ad altre Regioni ed aree del Paese una Tavola rotonda  impostata così sarebbe non dico impossibile, ma molto difficile da  realizzare, perché probabilmente non  siamo  ancora del  tutto pronti a cercare questi confronti di  fondamentale  importanza. È stata una Tavola rotonda molto arricchente, come ci ha ricordato la collega Galizio: il rispetto reciproco, la capacità di ascoltarsi e anche di integrarsi. Inoltre – non so se interpreto il pensiero degli altri – questa Tavola mi ha dato l’oggettiva evidenza di quanto sia difficile per noi infermieri – una difficoltà che richiede impegno da parte nostra – riuscire ad accompagnare ed assistere i nostri assistiti nel pieno rispetto del loro modo di concepirsi e di concepire la vita, nel loro modo di stare dentro una situazione di disagio e di malattia nonché nel chiedere – non sempre in maniera esplicita – di essere aiutati e sostenuti. 

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In definitiva, un bell’esempio, e con gli esempi si  impara, si apprende, si riflette molto di più che con  tante parole. Possiamo quindi  concludere,  ringraziando  innanzitutto  il Collegio  Infermieri di Torino che ci ha dato questa opportunità. Ringrazio sentitamente – a nome anche della Presidente provinciale –  i  relatori,  i  cui  interventi  sono  stati  ampiamente  apprezzati. E  il  ringraziamento  si estende  a  tutti  i  colleghi  presenti:  ognuno  di  noi  ha  potuto  acquisire  questi  esempi  e  questi ulteriori elementi di riflessione professionale. Grazie ancora.     

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 Maddalena  Galizio  (Dirigente del Dipartimento qualità, Policlinico Tor Vergata – Roma)  

 

Buongiorno a tutti. Desidero rivolgere – in questo inizio di mattinata – un  pensiero  di  gratitudine  per  l’opportunità  che  abbiamo  di  stare insieme e di arricchirci attraverso  il contributo di ognuno: penso a ciò 

che è emerso nella giornata di ieri, al notevole apporto offerto dai vari relatori. Saluto in modo particolare questo ospedale – che mi ha visto presente per tanti anni in qualità di infermiera – e la nostra Presidente. Iniziamo questa Seconda Sessione con  la proiezione di un filmato dal titolo “Emigranti” di Franco Piavoli prodotto di Zefirofilm     

2° SESSIONE:  

Capo I – art. 4: “ L’infermiere presta assistenza secondo principi di equità e giustizia, tenendo conto dei valori etici, religiosi e culturali, nonché del genere e delle condizioni sociali della persona  

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Migranti comuni

Grigie e sbiadite immagini, scorrono veloci, veloce come il treno corre la vita. Teste che ciondolano Volti solcati dal tempo trascorso Occhi chiusi per ricordare il passato. Silenzio Rime serrate a trattenere l'addio Emigrante... Un lento monologo un saluto che sfuma. Un diaframma separa il fuori dal dentro La fatica di corpi distesi. Solitudini... Corpi composti, corpi vicino, sentimenti al confino Tutto ovattato per sedare il proprio sentire

Sguardo di speranza Occhi che cercano il nuovo mondo Vapore del respiro comune alla trasparenza di un finestrino Gocce: lacrime comuni.

(silenzio - arrivo in stazione)

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Migrante che approdi incredulo in un paese di sorte, di scelta o di fortuna Frenesia sui binari Speranza nel cuore Tristezza negli occhi

(Silenzio- sul cartello di Basilea)

Migranti chi attende all'approdo quei volti segnati? Sguardo sgomento sguardo spaesato sguardo in attesa ...di un cenno... ...di un segno... ...di vita... Ancora

(Silenzio - dopo la partenza del primo treno)

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Migrante non sai dove andrai vuoi salire ma scendi

vuoi partire ma resti

(quando ci sono persone frettolose sulla banchina)

La dea della fortuna viaggia sulla strada ferrata Fremito annaspa il respiro, afferro una mano. Passi veloci e decisi accompagnano il coraggio a partire Salire sul treno Smarrirsi forse oltre il confino Oltrepassare come un intruso i bordi del proprio paese

(Silenzio - quando si caricano le valigie)

Mani che accompagnano che spingono

che sostengono che tirano

che salutano

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(uscita dal treno dalla stazione di Milano) Il treno va lascia la bocca spalancata del luogo natìo, bocca spalancata e asciutta.

(Silenzio - In sala d'attesa) Solitudini Speranze Emigranti per lavoro, per fuga, per salvare, per sognare, per studiare, per amare. Paesaggi dell'animo Paesaggi della sorte, della scelta, del coraggio, del dolore. Il pianto di un bimbo Una vita che nasce. (testo scritto da Cesarina Prandi, letto con voce fuori campo sul video Emigranti del 1963 di Franco Piavoli)

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 Creare   le  condizioni:  responsabil ità  professionali  e  organizzative  –  Lettura  magistrale   Maddalena  Galizio  (Dirigente del Dipartimento qualità, Policlinico Tor Vergata – Roma)  

 

Il filmato è stato così emozionante che ha persino soffocato gli applausi. Personalmente ho sentito salire dentro me questa emozione. Grazie – mi rivolgo ai curatori di questo convegno – per averci offerto  la  possibilità  di  assistere  a  questa  proiezione  e  grazie  anche  alla  Presidente  del  CESPI, Cesarina  Prandi,  per  aver  accompagnato  –  con  le  parole  di  un’infermiera,  con  l’anima  di un’infermiera – queste immagini.  Ritengo sia  il modo migliore per aprire una Sessione che ci conduce all’interno del nostro Codice deontologico, e precisamente all’art. 4 del Capo I: “L’infermiere presta assistenza secondo principi di equità e giustizia, tenendo conto dei valori etici, religiosi e culturali, nonché del genere e delle condizioni sociali della persona”. Chiamo al tavolo dei relatori la dottoressa Sandra Bombardi, responsabile dell’Ufficio Accoglienza e  Mediazione  dell’Azienda  di  Ferrara;  la  dottoressa  Lorena  Mantovani,  assistente  sanitaria, consigliere  del  Collegio  di  Torino,  la  quale  si  occupa  dei  Consultori; Mario  Caserta,  infermiere presso  l’Ufficio Qualità  Percepita  dell’Azienda Ospedaliera Universitaria  San Giovanni;  infine,  la dottoressa Carmen Cappitella, responsabile del Servizio Comfort del Policlinico Tor Vergata.  Dopo aver visto  il  filmato possiamo  introdurre  la Sessione proprio con  il volto dell’altro,  il quale risulta essere un continuo appello a prenderci cura della sua esistenza. Il nostro è un trovarsi faccia a  faccia  con  un  volto  che  non  è  da  scoprire, ma  è  un  volto  che  ci  richiama  ad  un  rapporto  di responsabilità.  Come  molti  filosofi  ci  hanno  insegnato,  esiste  l’etica  dell’alterità,  che  è  la responsabilità per  l’altro,  la quale viene ancor prima della necessità di conoscere  l’altro.  Il volto dell’altro deve consentire la manifestazione: l’altro si manifesta a noi – che siamo infermieri – per poter  accogliere  e  cogliere  tutto  quanto  servirà  alla  nostra  funzione,  talvolta  anche  solo  di accoglienza,  ascolto,  accompagnamento.  Il  volto  delle  persone  –  lo  abbiamo  visto  anche  nel filmato  –  ci  consegna  il  concetto  di  libertà  e  giustizia:  nessuno  vuole  partire,  nessuno  vuole lasciare, nessuno vuole allontanarsi da quelle che sono le poche certezze che si possiedono – ma pur sempre certezze – ben radicate in ognuno di noi: la certezza della famiglia, del posto dove sei nato, dei luoghi a te familiari. Il  concetto  di  libertà  e  giustizia. Giustizia perché devi partire  in quanto non hai  denaro,  sei un perseguitato, ti torturano, non ti danno lavoro, non ti consentono di essere diverso. C’è una  frase che voglio condividere con voi, tratta dal  libro “Prendersi cura” di Marie Francoise Colliere: “La conoscenza dell’altro non avviene attraverso un amore sentimentale, ma attraverso un intelligente ascolto”. È così. Ciò che viene richiesto a noi infermieri è questa abilità di mettersi in contatto e di lasciare che  le cose avvengano, cosa che è molto difficile per un  infermiere, con  la penuria di risorse che abbiamo, con la necessità di fare e con la costante gara contro il tempo.  Come  abbiamo  visto  ieri  con  la  dottoressa  Bombardi,  la  cura  non  è  un  qualcosa  di  esterno all’uomo,  ma  è  un  modo  di  essere  fondamentale  dell’uomo.  In  questo  c’è  la  struttura  delle persone,  come  il  volere,  il  desiderare,  l’agire.  Dunque,  come  facciamo  a  creare  le  condizioni perché  noi  si  possa  operare  in  modo  deontologico?  Penso  agli  studenti,  quando  iniziano  il tirocinio,  alla  prima  volta  in  cui  questo  volto  dell’altro  viene  verso  di  loro  in  una  dimensione 

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diversa,  con  un  significato  diverso.  Lo  abbiamo  accennato  ieri:  è  molto  difficile  allineare  gli obiettivi professionali – gli obiettivi  legati ai valori –  con gli obiettivi  istituzionali. Ritengo  che  il management – soprattutto  il management di una direzione – debba assolutamente  trovare una strada per intervenire in questo allineamento.  Tutto  il  Codice  deontologico  è  un  declinare  di  obiettivi.  Ogni  frase,  ogni  parola  richiede  la traduzione in obiettivi assistenziali per le aziende, per le strutture sanitarie. Il discorso finanziario – soprattutto quello –  impedisce tutto ciò: è come se uno tirasse da una parte e  l’altro dalla parte opposta. Orientare  l’innovazione: dobbiamo uscire dagli schemi. Uscire dagli schemi è  la cosa più difficile, perché gli schemi del passato sono  rassicuranti. E ci sembra anche che contengano,  in un certo qual modo, l’area della responsabilità. In realtà bisogna andare oltre, accettare idee innovative che consentano  a noi di  tradurci. Ritengo  inoltre  che dobbiamo  aver  cura  che  i nostri  collaboratori contattino  il valore  intrinseco della propria persona, perché non credo che ci  si possa occupare dell’altro  –  così  come  credo  che  non  si  possa  vivere  il  Codice  deontologico  –  se  non  si  ha  la percezione del proprio valore come persona e come professionista.  È chiaro: un management ha bisogno di  tutta una rete.  I coordinatori sono  le mie spalle,  le mie braccia,  le  mie  gambe,  non  potrei  fare  niente  senza  i  coordinatori,  poiché  essi  sono quotidianamente  a  contatto  con  i  professionisti.  Dovete  prendervi  cura  delle  persone  con  cui lavorate. Per fare ciò è  importante, fra  le altre virtù, sviluppare  la capacità di ascolto. L’ascolto è fondamentale per  l’innovazione.  Se un professionista  ti  suggerisce un’idea  che  a primo  acchito sembra assurda, ascoltala, perché è probabile che se ne possa trarre qualcosa di buono. Se quel professionista ha  avuto  il  coraggio di proportela  significa  che ha  fiducia nel  fatto  che  tu  saprai trarre da quell’idea  il buono,  il fattibile,  il sostenibile. Bisogna creare dei gruppi di  lavoro dove  le persone  trovino  il  proprio  senso  di  appartenenza  rispetto  a  ciò  che  fanno,  avendo  quindi  la possibilità di contribuirvi. Lavoro quotidianamente con dei collaboratori che sono stufi d’essere dei meri  esecutori,  dove  il  lavoro  più  importante  sembra  quello  di  praticare  le  terapie  che  altri prescrivono.  Il  risultato è un allontanamento da quello  che è  il valore professionale.  I gruppi di lavoro ti consentono di sperare, di sognare, di pensare che sia possibile, che qualcosa cambierà. Gli spazi di  riflessione critica. Non è necessario un  luogo  fisico con scritto all’ingresso “spazio di riflessione”. La riflessione critica si fa anche alla macchinetta del caffè, se c’è qualcuno in grado di cogliere.  Bisogna  confrontarsi,  perché  da  soli  siamo  tristi,  siamo  poveri,  siamo  dei  ricercatori emigranti. Assieme agli altri troviamo la forza di andare avanti. Concludo sul discorso della cultura. Anche i relatori della prima giornata lo hanno sottolineato. La nostra cultura va arricchita dal sapere degli altri, abbiamo bisogno di attingere dal sapere di tutti, perché la nostra è una cultura aperta, una cultura al servizio della persona. Quindi, la formazione –quella  invisibile  che  si  fa  tutti  i  giorni  e  quella  strutturata  –  dev’essere  una  formazione  che  ci conduca a questa riflessione critica autonoma, costruendo – gradatamente – la nostra personalità, affinandoci nelle nostre capacità di ragionamento.  Mi avvicino alla conclusione ritornando al discorso degli  infermieri coordinatori. Uso un  termine che non si utilizza:  formazione umanistica. Non abbiamo mai  impiegato questa parola  in termini professionali così espliciti, ma in realtà abbiamo bisogno di scienze umane che ci aprano il cuore, perché  la difficoltà quotidiana  talvolta ce  lo  indurisce. Eppure, nella  fatica quotidiana dobbiamo prendere  coraggio  e  riesaminare  le  nostre  modalità  di  lavoro.  Poniamoci  in  discussione, prendiamo anche a carico noi  stessi ed  i nostri collaboratori, vinciamo  i nostri  limiti e  le nostre resistenze. Vi  lascio con questo obiettivo  strategico, che  fa parte della nostra  filosofia e che è un obiettivo laico,  come  dicevamo  ieri.  È  dedicato  a  tutti  i  curanti  ed  il  Policlinico  Tor  Vergata  include  nei curanti anche gli amministrativi. Il nostro Direttore generale ritiene che quando si cura una pratica 

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vi sarà un beneficio nei confronti di chi è oggetto/soggetto di quella stessa pratica. Sono convinta che  accompagnare  i  curanti  nello  spazio  etico  di  ricerca  –  attraverso  relazioni,  responsabilità, comportamenti – conduce  l’agire professionale verso due situazioni  importanti:  la testimonianza di  valori  che  toccano  la  vita  democratica  nonché  i  processi  innovativi  che  testimoniano  la mediazione che deve esserci tra tutti noi che ci occupiamo dell’altro. Ed ora  lascerei  la parola ai nostri ospiti.        

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  Differenze ed Equità, un Approccio Transculturale  Sandra BOMBARDI  (Responsabile della Mediazione  Interculturale  Interaziendale – AOU e ASL di Ferrara)     

Presentazione  La  riflessione  che mi  ritrovo  a  svolgere  sull’organizzazione  dei  servizi  e  la  nuova  utenza  che  vi accede è oltremodo attuale, oggi più che mai, vista la complessità dell’attuale contesto sociale.  La  storia  dell’uomo,  è  segnata  da  incontri  e  scontri  fra  popoli  diversi  nei  quali  la  cultura  è  un prodotto  in  continuo  divenire,  un  avanzare  e  un  ritornare,  un  mescolare  e  distinguere,  un predominare ed essere dominati. La quotidianità è costellata d’incontri che per la loro complessità epistemologica necessitano di attraversamenti  in quanto, come disse  lo stesso   poeta americano Robert Frost, l’unico modo per superare il conflitto è attraversarlo. Lo stesso contatto e incontro con la persona straniera rappresenta una delle situazioni più evidenti in  cui  l’intreccio  tra  locale  e  globale  non  è  solo  questione  teorica,  ma  si  traduce  in  vissuti, esperienze e problemi specifici.  Accarezzando con passione l’idea di un’accoglienza possibile nei servizi che si occupano di salute, questa non l’ho potuta scindere dalla inevitabile capacità d’ascolto necessaria negli operatori, situandola in uno spazio e in un tempo.  Promuovere  e  favorire  nei  servizi  e  in  ospedale  accoglienza,  facendosi  carico  delle  possibilità multiple di “problem solving”, rimanda ad un’epistemologia della complessità in cui, come insegna Marianella  Sclavi,  hanno  un  ruolo  centrale  il  paradosso,  la  circolarità  delle  comunicazioni,  la polifonia, la comprensione dialogica, l’arte di ascoltare, la mediazione dei conflitti e l’umorismo.  Accogliere nei servizi e complessità organizzativa L’azione dell’accogliere  in ospedale deve  garantire  rassicurazione, orientamento, ottimizzazione dei  tempi.  Dedicare  attenzione  e  ascolto  agli  aspetti  dell’accoglienza  in  ospedale  è  segnale d’estremo  rispetto per  il  cliente. Ricevere, ospitare,  ascoltare,  approvare,  accettare,  contenere. Questi  sono  solo  alcuni dei  termini  con  i quali  le persone definiscono  il  termine  accoglienza  in ospedale. Il tema dell’accoglienza in ospedale è impossibile scinderlo dal concetto di umanizzazione, in tutte le sue implicazioni, che riguardano aspetti strutturali, ambientali, organizzativi, sociali e psicologici. Al processo di umanizzazione contribuiscono tutti gli operatori che a diverso titolo, con  il  lavoro d’ogni giorno contribuiscono a definire identità ai servizi ed allo stesso ospedale.  Rendere  l’ospedale  “a  misura  d’uomo”,  più  umano  significa  tendere  ad  una  cultura dell’accoglienza  individuando  la  sua  forza  nello  scambio,  nella  reciprocità  e  nel  rapporto interpersonale. Il principio delle reciprocità consiste nell’avere rispetto per essere rispettati, come sostiene l’OMS, tutto si muove in base al criterio dell’interdipendenza. Nulla può essere realizzato da un unico soggetto, mentre tutto si realizza per la partecipazione necessaria e imprescindibile di più  interpreti, essendovi oggi nei  servizi per  la  salute e  in ospedale  livelli di  relazione diversi e sempre più complessi. 

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La  complessità  delle  attuali  organizzazioni  si  presenta  costellata  da  processi  sempre  più  non lineari, dinamici,  incerti e  imprevedibili   che ha  reso  sempre più difficile,  se a volte  impossibile, utilizzare  le  logiche  del  controllo  della  complessità  (Beer  1972).  Queste  indicano  che  per  comprendere e controllare la complessità ambientale il sistema aziendale deve cercare da un lato di  ridurre  la  complessità,  semplificarla e dall’altro deve  aumentare  le  capacità di  controllo e di regolazione.  I servizi oggi, per un’utenza che cambia, meglio si  leggono nel  loro caos e nella  loro complessità con modelli di ricerca di un nuovo ordine attraverso  l’apprendimento  (Nonaka 1988).  In quanto, dal  non  equilibrio,  dal  caos  può  nascere  spontaneamente  un  nuovo  ordine,  una  nuova organizzazione attraverso un processo di auto‐rinnovamento che si esplica in 4 fasi: fase del caos, fase  dell’amplificazione    delle  fluttuazioni‐contraddizioni,  fase  della  cooperazione  e  fase  nuovo ordine attraverso lo stesso apprendimento. Nelle  organizzazioni,  e  in  questo  casi  negli  ospedali  due  sono  gli  elementi  peculiari,  di  core sanitario,  che  connotano  diversi  gradi  di    complessità:  complessità  clinica  e  la  complessità assistenziale. Oggi per le diverse provenienze geo‐culturalie e storie di salute e malattie dei nuovi utenti, un ulteriore elemento di  complessità  si è  inserito  trasversalmente  in questo binomio;  si tratta  della complessità relazionale. Ci troviamo spettatori di una notevole “varietà” di senso, riguardo lo stesso problema di salute, in cui elevata è  la differenziazione e maggiore è  l’interdipendenza  tra paradigmi, utili alla  lettura e alla  stessa  risoluzione  del  problema  di  salute.  In  tutto  questo,  qualsiasi  semplificazione comunicativa  si  voglia  fare,  che  porterebbe  inevitabilmente  ad  ignorare  la  possibile  alterità dell’Altro,  creerebbe  una  crisi  nelle  dinamiche  comunicative,  dell’accoglienza  e  reciproca convivenza.  A questo punto una domanda è d’obbligo: come gli operatori dei servizi possono governare questa varietà? Interessante è la risposta di Ashby 1956, 1962: “Solo la varietà può distruggere la varietà. Un sistema per poter affrontare la complessità ambientale deve avere una varietà interna, ovvero gradi  di  libertà  interna,  coerente  con  la  varietà  esterna,  ovvero  coerente  con  i  gradi  di  libertà esterna: 

-  solo la varietà interna può distruggere la varietà esterna; -  solo gradi di libertà interna possono distruggere gradi di libertà esterna; -  solo la complessità interna può distruggere la complessità esterna”. 

 Per creare  le condizioni affinché si realizzi varietà  interna è fondamentale un cambio d’approccio all’interno delle organizzazioni: dal presente approccio di  tipo  top‐down ad un approccio di  tipo bottom‐up. L’approccio dal basso verso l’alto favorisce la produzione di conoscenza, è garanzia di intelligenza distribuita (capitale umano e capitale sociale) e implementa reti, crea relazione, reti di team  auto‐organizzati.  Il  passaggio  dal  singolare  al  condiviso  è  favorito  dalla  determinazione  a ottenere  risultati  appropriati  per  tutti,  con  la  disponibilità  a  rinunciare  a  qualche  personale vantaggio a favore del vantaggio comune. La sfida da cogliere, è quella di pensare ad uno spazio, fatto di relazioni umane, meno statico, che possa contenere la piena espressione del diritto alla diversità e che sappia fare della diversità una risorsa e  che  contestualmente  la  rappresenti  come occasione di  integrazione e di  crescita delle persone.  Dove  integrazione  non  vuole  avere  il  significato  di  cancellazione  delle  peculiarità ma corrisponde al concetto di inter‐azione, cioè di interscambio, di confronto, di reciprocità.   

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Nel corso della revisione della letteratura riguardo il processo d’accoglienza, riguardo l’ospitalità e il  riconoscimento  dell’altro,  tre  concettualizzazioni  risultano,  a  mio  parere,  esemplificative, significative e paradigmatiche.  La  prima  riflessione  riguarda  il  concetto  di  rispetto  elaborato  dal  sociologo  americano, Richard Sennet (2004). Sennet presenta  la modalità del “donare rispetto” come una performance situata nella relazione con  l’altro che mette  in scena, e rappresenta  il riconoscimento reciproco. Donare amicizia, creatività, ascolto ed attenzione,  fa guadagnare  rispetto e per  compiere questi gesti è necessario spendere tempo ed energie. Il rispetto è un qualcosa che si conquista continuamente, che  permette  un  duplice  riconoscimento  fondato  sulla  condivisione  dei  diritti  e  fondato  sul rispetto delle diversità. L’amore di sé e  la stima di sé nascono dalla fiducia nelle proprie capacità personali, dalla percezione quotidiana che si è rispettati per quello che si è, e solo dal rispetto di sé può nascere il rispetto verso l’altro di cui accettiamo la diversità così come questi accetta la nostra. La mancanza di rispetto, precisa Sennet in apertura del suo testo, anche se meno aggressiva di un insulto diretto, può ferire in maniera altrettanto viva.  La  seconda  riflessione,  che  ha  contribuito  alla  costruzione  della  cornice  teorica,  riguarda  il concetto d’identità e di comunità svolta da Zygmunt Bauman (2003). Riguardo  l’identità, Barman riferisce che nel 1994, un manifesto, attaccato sui muri di Berlino, sbeffeggiava la fedeltà a schemi che non erano più  in grado di rispecchiare  la realtà del mondo: “Il tuo Cristo è un ebreo. La  tua macchina è giapponese. La tua pizza è italiana. La tua democrazia greca. Il tuo caffè brasiliano. La tua vacanza turca. I tuoi numeri arabi. Il tuo alfabeto latino. Solo il tuo vicino è uno straniero”. La comunità, secondo il sociologo, è un luogo caldo, intimo e confortevole. È come un tetto sotto cui ci  ripariamo,  dove  possiamo  contare  sulla  benevolenza  di  tutti.    Il  privilegio  di  vivere  in  una comunità  richiede  un  prezzo  da  pagare:  l’assenza  di  comunità  significa  assenza  di  sicurezza,  la presenza significa perdita di libertà. Da qui la continua tensione riguardo i presupposti di sicurezza e libertà ‐ comunità e individualità. 

Infine, il terzo contributo, riguarda il lavoro svolto da Martha C. Nussbaum (2001, 2002) attorno al concetto di capacità. Nussbaum si sofferma sull’importanza di garantire giustizia sociale e dignità umana. Il suo importante lavoro riguarda la necessità di valutare la qualità della vita delle persone partendo dalle seguenti domande: che cosa le persone sono in grado di fare ed essere in quella particolare società? Nussbaum si preoccupa in particolare della dignità degli esseri umani, delle modalità di riconoscimento, di valorizzazione e di quanto le persone siano libere di scegliere la propria vita nella concretezza delle loro condizioni particolari. 

 Rispetto, comunità e capacità risultano essere le parole chiavi del riconoscimento dell’altro. 

Le  stesse politiche per  la  salute, mettendo al centro  il cittadino e  rafforzando garanzie e diritti, permette il passaggio da un modello centrato sulla funzione di tutela – advocacy ‐ ad una funzione di valorizzazione delle capacità e delle abilità ‐ empowerment. Si tratta a questo punto di rendere protagoniste le persone del proprio progetto e del percorso individuale avvalendosi o imparando a valorizzare le reti formali e i propri mondi vitali.   Quali competenze deve padroneggiare un operatore per prendere in carico l’utente e la relativa complessità della domanda d’aiuto?    La maturata competenza cultura degli operatori e le abilità di ascolto attivo si presentano in questi casi espressione di meta‐competenze, o espressione di  competenze  complementari,  in grado di realizzare significativi e sensibili progetti d’aiuto interculturali.  

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Il modello di Papadopoulos, Tilki e Taylor, illustrato nella seguente immagine, si pone l’obiettivo di sviluppare,  negli  operatori,  competenza  culturale  attraverso  un  processo  progressivo  che  si realizza in 4 fasi.                      

     

Il modello permette  il miglioramento dell’insegnamento dell’assistenza  transculturale  e  si pone come guida per  la strutturazione di specifici moduli didattici o corsi di perfezionamento.  Inoltre, guida progetti di ricerca applica alla pratica assistenziale.  La  formazione  transculturale  pone  dei  presupposti  fondamentali,  basati  sulla  cultura  di provenienza  delle  persone,  e  va  intesa  come  presa  di  coscienza  della  propria  identità,  della “diversità” della quale ciascuno di noi è portatore  (operatori e cittadini). Un progetto  formativo che  crea  competenze  culturali  ha  come  base  il  rispetto  per  l’altro,  il  riconoscimento  della reciprocità,  della  dignità  della  persona,  della  necessità  di  costruire  un  percorso  condiviso, interculturale e mutabile,  in  relazione alle  rispettive  specificità  culturali. Specificità  culturali  che non sono solo appannaggio delle sole persone straniere, ma appartengono a tutti gli esseri umani.   L’abilità culturale maturata dagli operatori, porta a riscoprire  la possibilità di non generalizzare  il proprio  sapere,  ponendosi  costantemente  in  dialogo  e  aprendosi  all’apporto  che  l’utente  e l’operatore  possono  dare,  come  risorsa,  nel  fornire  risposte  d’aiuto,  adattando  i modelli  e  gli strumenti  di  volta  in  volta  necessari  per  cogliere  i  passaggi  nella  storia  di  una  persona,  che possono sembrare deboli dal punto di vista dell’organizzazione sanitaria, ma che possono essere punti forti e importanti per la persona.   

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Middlesex University London www.mdx.ac.uk/www/rctsh

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La seconda meta‐competenza, o competenza complementare, riguarda  le abilità di ascolto attivo possedute dagli operatori. Competenze di ascolto che si esplicitano attraverso:  

- la ricerca di senso interno alle diverse possibilità presenti nel pensiero della complessità; - il rispetto delle diverse logiche dell’altro; - la flessibilità riguardo alle pratiche   

“Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della comunicazione. Affronta i dissensi come occasione per esercitarsi  in un campo che  lo appassiona:  la gestione creativa dei conflitti”1. L’ascolto attivo permette di cogliere  i sensi e  i significati della domanda, al di  là delle espressioni variamente usate dalla persona, per  raggiungere  il profondo malessere che  l’ha causata e poter cercare insieme di ricondurre i comportamenti ad un livello di coerenza, tra quello che si fa e ciò che  si  pensa.  Flessibilità,  umorismo,  coinvolgimento  e  distacco,  ascolto  attivo:  un  ambiente complesso  in cui mancano queste competenze di base diventa “manicomiale” produce escalation dei  conflitti e  il  cambiamento diventa  turbolento e  incontrollabile.  L’ascolto attivo, guidata dalle parole  di  Sclavi,  permette  di  esplorare  con  consapevolezza,  emotiva  e  cognitiva  le  differenze, permette  di  utilizzare  queste  esplorazioni  per  costruire  ponti,  intrecciare  dialoghi  e  produrre connessioni. Inoltre, permette la costruzione di una realtà sociale in un mondo complesso.    

Amore Dopo Amore  

Tempo verrà in cui, con esultanza, 

saluterai te stesso arrivato alla tua porta, nel tuo proprio specchio, 

e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro,  

e dirà: Siedi qui. Mangia. Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io. 

Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore a se stesso, allo straniero che ti ha amato 

 per tutta la tua vita, che hai ignorato per un altro e che ti sa a memoria. 

Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore,  

le fotografie, le note disperate, sbuccia via dallo specchio la tua immagine. 

Siediti. È festa: la tua vita è in tavola.  

Derek Walcott, Mappa del nuovo mondo, 1992  

1 Sclavi M., Regola n.6 dell’Arte di ascoltare, in Arte di ascoltare e mondi possibili, Le Vespe, Milano, 2000, p.69

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Consultori familiari e donne immigrate: uno strumento di lavoro. 

 Nadia Lorena Mantovani  (A.S. Coordinatore ASL TO 2 – Consigliere Collegio IPASVi di Torino)     

 Al 1° gennaio 2008 la popolazione straniera residente in Piemonte ammontava a 310.5432  su una popolazione  totale  di  4.401.266  con  un  incidenza  del  7,1%.  La  stima  della  Caritas  è  invece largamente maggiore, pari a 352.020 stranieri con permesso di soggiorno. Infatti, i dati in possesso dell’ISTAT  sugli  stranieri  residenti  provengono  dall’anagrafe  della  popolazione  residente  dei comuni e si riferiscono alla quota straniera regolare più stabilizzata,  inferiore, però al dato reale dei presenti con permesso di soggiorno. Al 1° gennaio 2008  i residenti stranieri a Torino erano 103.7953, cioè  l’11,43% della popolazione cittadina totale.  Il tasso di  incremento dell’immigrazione nel capoluogo, negli ultimi dieci anni, è cresciuto in maniera esponenziale, considerando che nel 1998 gli stranieri residenti si assestavano a  quota  29.225  con  un’incidenza  del  3,2%  sulla  popolazione  totale.  Da  questi  dati  è  possibile affermare  che  l’immigrazione  in  città  ha  subito  un  aumento  percentuale  del  357%  nell’ultimo decennio. Ad oggi le comunità maggiormente rappresentate tra gli stranieri residenti sono quella Rumena, Marocchina,  Peruviana,  Cinese,  Nigeriana.  La  struttura  per  età  è  sicuramente molto giovane: la classe d’età più consistente è quella 30‐34 anni. In  questo  panorama  di  popolazione  in  età  fertile  i  consultori  familiari  hanno  avuto  ed  hanno tuttora  una  funzione  fondamentale  nell’educazione  sanitaria  e  promozione  della  salute riproduttiva.  I  consultori  familiari  sono  servizi  multidisciplinari  in  cui  operano  diverse  figure professionali,  medici  infermieri,  ostetriche,  assistenti  sanitarie,  psicologi,  mediatori  culturali  e assistenti  sociali  al  fine  di  tutelare  l’integrità  psicofisica  e  relazionale  dell’utente  e  favorire  la continuità  assistenziale.  Sono  punti  di  ascolto,  di  informazione  e  di  primo  intervento  per rispondere ai bisogni, dubbi o disagi della donna, della coppia e dell’adolescente in riferimento alle problematiche  della  sessualità,  della  procreazione  responsabile,  della  contraccezione,  della gravidanza,  della  prevenzione  delle  patologie  della  sfera  genitale  femminile  e  delle malattie  a trasmissione sessuale. In virtù di queste  funzioni nel 2007  L’ASL TO2  ( ex ASL 3 e 4)è  stata  coinvolta dall’associazione Ideadonna  Onlus  di  Torino  (organizzazione  specificatamente  dedicata  alle  tematiche  femminili relative alla migrazione) come partner del progetto “Getting better”    “Getting  better”  è  un  audio‐video  di  educazione  sanitaria  e  promozione  della  contraccezione rivolto alle persone di nazionalità nigeriana. La distribuzione gratuita è  iniziata a giugno 2007 nei consultori  familiari,  ambulatori  medici,  realtà  dell’associazionismo,  esercizi  commerciali maggiormente  frequentati dalle destinatarie e dai destinatari dell’iniziativa; a  fine 2008  le copie distribuite sono state 3300. Background del progetto 

2 Dati estratti dal sito: http://demo.istat.it 3 AA.VV., XI Rapporto dell’Osservatorio interistituzionale sugli stranieri di Torino, consultabile alla pagina: http://www.to.camcom.it/osservatoriostranieri

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In seguito alla valutazione di alcuni dati quali la frequenza con cui le donne nigeriane abortiscono negli ospedali italiani e le stime sugli aborti o i tentativi di aborto al di fuori delle strutture sanitarie è stato definito il target di popolazione a cui rivolgere il progetto Dopo una prima fase di documentazione si è passati all’individuazione dei contenuti, dei problemi e dei modi per trattarli: il personale sanitario dei consultori è stato identificato come supervisore scientifico mentre  le  donne  che  hanno  recitato  che    sono  in  parte mediatrici  culturali,  hanno argomentato riguardo le credenze tipiche della cultura nigeriana  Sono stati realizzati quattro workshop. Le    discussioni  e  i  dibattiti  si  sono  concentrati  su  argomenti  definiti,  quelli  da  trattare nell’audiovisivo  e  cioè:  contraccezione, maternità,  IVG  e  aborto  clandestino.  Argomenti  che  il gruppo di lavoro ha evidenziato come più importanti in merito ai comportamenti potenzialmente a rischio legati alla cultura di origine delle donne nigeriane. L’obiettivo generale del progetto “getting better” è il miglioramento delle condizioni di salute delle donne  straniere,  quindi,  la  riduzione  del  rischio  di  gravidanze  indesiderate  e  la  maternità consapevole. L’obiettivo  specifico  è  stato  la  produzione  di  un  audiovisivo  di  informazione  inteso  come  uno strumento di mediazione interculturale capace di far avvicinare le donne ai servizi.  I  professionisti  sanitari  dei  consultori  hanno  potuto  evidenziare  con  questo  lavoro  il  grande arricchimento  della  propria  competenza  interculturale  consolidando  il  principio  del  confronto delle differenze e delle affinità esistenti tra le credenze, i valori e gli stili di vita: nell’ambito della presa  in carico   degli esseri umani nel SSN  la conoscenza di questo principio è  indispensabile per poter offrire un’assistenza sanitaria culturalmente congruente, utile e valida. Affinché  si  possa  praticare  un’assistenza  significativa    è  estremamente  importante  scoprire  e capire  che  ogni  civiltà  ha modi  propri,  locali  o  “emici”4  di  vedere  e  conoscere  la  cultura  a  cui appartengono.  Le  idee e  le credenze “emiche” sono spesso viste come “segreti” e può non esserci  la volontà di condividerle con persone culturalmente estranee, come  infermieri o medici, a meno che non  si riponga fiducia in loro.  E’ compito degli infermieri transculturali appropriarsi di questi elementi, stabilendo una relazione basata sulla fiducia. La conoscenza etica (esterna alla cultura), come per esempio le idee professionali di un infermiere, può essere diversa dalla visione “emica” e dalle esperienze individuali. Al fine di valutare e guidare il pensiero e le decisioni degli infermieri con gli assistiti sono importanti sia la conoscenza “emica” che quella “etica”.  Il confronto con  l’immigrato è ormai quotidiano e  l’incontro con  la persona straniera può e deve comportare una modifica nel modo di lavorare, di essere , di porsi: tutto ciò rappresenta una sfida professionale  fondamentale  nell’ambito  dell’infermieristica  che,  per  propria  natura  si  focalizza sulla relazione con l’altro.  

4 I termini “emic” ed “etic”, tradotti in italiano come emico ed etico, sono stati coniati dal linguista Kenneth L. Pike che li ha mutuati dalle parole “fonemico” e “fonetico”: il sistema fonetico è basato sulla suddivisione dei suoni in base alle differenze specifiche esistenti da linguaggio a linguaggio; il sistema fonetico è invece la descrizione dei suoni prodotti dagli organi della parola che sono comuni a tutti gli uomini. L’opposizione è stata introdotta in antropologia da Marvin Harris per distinguere il punto di vista interno ed esterno ad una data cultura, i concetti usati dalle persone che sono oggetto di studio e quelli usati da chi compie lo studio  

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Madeleine  Leininger  definisce  la  teoria  infermieristica  transculturale  come:  “…un  insieme  di concetti e di ipotesi infermieristiche in relazione tra loro che trattano diverse civiltà, prendono in esame comportamenti assistenziali di gruppo o  individuali, valori e  teorie basati sui  loro bisogni culturali per poter offrire  alle persone un’assistenza  infermieristica  efficace  e  soddisfacente;  se quelle pratiche  infermieristiche non riescono a riconoscere gli aspetti culturali dei bisogni umani, vi  sarà  un’assistenza  meno  efficace  e  vi  saranno  conseguenze  sfavorevoli  nei  confronti dell’assistito”5   

 

 Le  cure  della  spiritualità.  L’assistenza  religiosa   in  ospedale  e  la  Stanza  del  silenzio  

 Mario Caserta (Infermiere coordinatore – Ufficio qualità percepita e partecipata – SC URP – AOU “San Giovanni Battista” di Torino)  

  

All’ospedale Molinette  i pazienti possono rivolgersi al personale  infermieristico per convocare un ministro  di  culto  della  propria  religione  per  ottenere  conforto,  confrontarsi  o  richiedere  un supporto  spirituale.  Nella  Stanza  del  silenzio,  invece,  tutti,  credenti  e  non  credenti,  possono pensare, raccogliersi, pregare, consumare un dolore ed affrontare nel modo migliore possibile  la malattia o il lutto. Il nostro tempo è caratterizzato fondamentalmente, ed  in tutti  i campi, dal pluralismo culturale, nonché dal pluralismo religioso. Tale pluralità, oltre ad essere una situazione non transitoria, ma stabile, poiché non sarà mai possibile che nel mondo si giunga a professare una sola fede, ha radici lontane  nel  tempo.  Infatti,  anche  ai  tempi  in  cui  la  società  europea  poteva  chiamarsi  societas christiana erano presenti altri culti (musulmani, ebrei, catari, ... ). In  un  simile  contesto,  come  professionisti,  possiamo  rendere  ragione  della  nostra  fede,  ma soprattutto siamo tenuti ad imparare a dialogare con le altre confessioni presenti, ad adottare una visione più ampia, pluralista.  Pluralismo religioso, quindi, significa che nella società attuale non soltanto ci siano molte religioni “di fatto”, ma che possano esserci molte religioni “di diritto”, che vuol dire che di fronte alla legge hanno  tutte  il  diritto  di  esistere,  di  predicare  le  proprie  dottrine,  di  praticare  i  propri  riti,  di accedere a privilegi di vario tipo, di supportare spiritualmente le persone nei momenti difficili. Ed è in un contesto “difficile”, quale quello del ricovero ospedaliero, caratterizzato dalla sofferenza e spesso dal  lutto, che assume  importanza cruciale  il “diritto” ad un rapporto con  il divino anche attraverso l’intermediazione ed il conforto di un referente della propria religione.  Sulla base di tali premesse all’ospedale Molinette si è dato avvio al Progetto “Culture e Religioni”.   Il progetto “Culture e Religioni” Obiettivo prioritario del progetto era colmare  l’assenza di un servizio religioso per  i non cattolici. Lo  strumento  individuato,  per  semplicità  ed  economicità,  è  stato  un  elenco  da  distribuire  ai reparti, contenente i recapiti dei referenti delle maggiori religioni contattabili dall’utenza.  

5 Leininger M, Mc Farland M.R., Infermieristica transculturale, Ed. CEA, Milano, 2004

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Data  l’impossibilità  di  includere  tutte  le  religioni  nell’elenco  si  è  reso  necessario  garantire  la massima oggettività nella scelta delle religioni, ricorrendo a due criteri: il riconoscimento in qualità di “ente di culto” da parte dello Stato Italiano e la maggiore rappresentatività. Utilizzando  i dati emersi dallo studio compiuto dal CESNUR  (Centro Studi sulle Nuove Religioni), che nel 2006 ha  censito  il numero dei  appartenenti  alle  varie minoranze  religiose  sul  territorio nazionale, e fissato il cut‐off allo 0,05% (fedi che contano un numero di appartenenti superiore a 30.000  su  tutto  il  territorio  Italiano),  risultavano  incluse  le  confessioni  indicate  in  figura  1  (con l’esclusione dei Testimoni di Geova che non hanno firmato l’intesa).   Figura 1 ‐ RELIGIONI INCLUSE NEL “PROGETTO RELIGIONI”Superiori a 30.000 appartenenti sul territorio Italiano (0,05%) 

 

Musulmani; 860.000

Protestanti; 513.000

Ortodossi; 440.000

Buddhisti; 128.000

Induisti; 45.000Ebrei; 36.500

  Identificati i riferimenti religiosi nazionali (federazioni, associazioni e simili) avendo cura, nel caso fossero  presenti  più  raggruppamenti,  di  scegliere  sempre  attraverso  il  criterio  della maggiore rappresentatività, si è richiesto loro di indicare i ministri di culto locali (da indicare nella brochure definitiva)  con  cui  è  stata  stipulata  un’intesa  che  fissa  vincoli  e  opportunità  per  le  religioni  e l’azienda ospedaliera.  Redatta  la  brochure  e  distribuita  nei  reparti,  i  pazienti  sono  stati  informati  della  possibilità  di convocare  i  rappresentanti  della  propria  fede  attraverso  l’affissione  di  appositi  manifesti multilingue (figura 2) affissi in tutti i reparti e nei maggiori spazi aziendali. Le chiamate e gli interventi dei religiosi non sono mancati…          

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      Figura 2: Manifesto multilingue            La Stanza del Silenzio Sull’onda  dell’entusiasmo  e  dei  positivi  feedback  ricevuti  dall’utenza  e  dagli  operatori,  nonché sulla spinta dei  rappresentanti  religiosi che  richiedevano  la possibilità di  identificare spazi neutri per pensare, raccogliersi, pregare, consumare un dolore o per partecipare ad incontri e seminari si è avviata la progettazione di un locale dedicato ai credenti di tutte le religioni. Le  tipologie  di  locale  potevano  essere  due:  la  Stanza  Interfedi  (locale  destinato  alle  diverse religioni in differenti orari della giornata) oppure la Stanza del Silenzio (spazio neutro da destinarsi contemporaneamente  a  tutte  le  religioni/fedi  e  anche  agli  atei  nel  comune  denominatore  del rispetto reciproco attraverso il silenzio). Per ragioni di praticità e di semplicità d’uso, e per privilegiare  il massimo utilizzo evidenziando  la visione  laica  dell’azienda  ospedaliera,  che  garantisce  pari  opportunità  a  tutte  le religioni/fedi/credenze, si è optato per la creazione della Stanza del Silenzio. Utilizzando un locale originariamente destinato a cappella cattolica, ma non più utilizzato in virtù della  più  grande  chiesa  ospedaliera,  è  stato  richiesto  ai  rappresentanti  religiosi,  attraverso  un questionario  individuale  (metodo  Delphi),  quali  fossero  i  requisiti  architettonici  e  funzionali necessari (colore delle pareti, arredi necessari, eventuali suggerimenti).  La  ristrutturazione,  gestita  dai  servizi  tecnici  aziendali,  è  costata  poche  migliaia  di  euro,  a dimostrazione che le cose si possono fare anche con pochi soldi.  All’inaugurazione davanti alle centinaia di partecipanti si è presentato un  locale affascinante: un cielo  puntinato  di  stelle  che  accoglie  i  visitatori  e  li  accompagna  in  uno  spazio  di  150 metri quadrati, con le pareti azzurre, alcune panche, un divano, uno spazio con tappeti per gli scalzi, uno scaffale  con  i  libri  sacri  delle  diverse  religioni  e  nessuna  simbologia  o  riferimenti  a  un  culto particolare. “La sala è aperta a pazienti, famigliari e personale dell’ospedale. E’ un luogo che da’ la possibilità a chiunque, anche a chi non crede, di ritrovarsi nello spirito per meditare, dedicarsi alla preghiera in ogni  sua  forma  o  anche  vivere  il  dolore  ‐  ha  spiegato  il  direttore  generale  delle  Molinette, Giuseppe Galanzino ‐ è la stanza di tutti, non solo delle religioni.”. I commenti dei visitatori non sono mancati, nel “libro ospiti”, accanto a qualche nota polemica, si leggono  numerosi  incoraggiamenti:  “…  bravi!”  oppure“…  un  grosso  segno  di  civiltà”  ed  ancora 

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“ognuno vede Dio in modo differente, ma siamo tutti insieme nel silenzio e nel rispetto reciproco…” ed infine “…grazie per averci pensato, per essere vicini a chi soffre, a chi crede oppure no”.  Alcune riflessioni… E' pensiero condiviso che  il pluralismo  religioso sia  raggiungibile solo attraverso  la cooperazione più  che  la  competizione  tra  le  varie  fedi,  ma  tale  risultato  è  possibile  solo  attraverso  un rinnovamento sociale e teologico finalizzato al superamento (pratico, non teoretico: non c’è via di mezzo sul piano teoretico tra due dottrine  incompatibili che non snaturi entrambe, e nella quale nessuna delle due sia più  in grado di riconoscersi autenticamente) delle differenze che generano conflitto.  Questi progetti non si sono posti obiettivi così ambiziosi ma sicuramente gettano  le basi per un confronto  interculturale, e soprattutto stimolano operatori ed utenti a superare  le differenze e a considerare tutte le credenze con pari dignità.  Considerato  che  la  libertà  di  religione  viene  indebolita  dal  conferimento  ad  una  specifica confessione  di  privilegi  negati  ad  altre,  l'unica  via  per  un  vero  pluralismo  teologico  passa attraverso  la condizione nella quale differenti fedi, professate  in uno stesso spazio, godono degli stessi diritti di esercizio e di espressione pubblica.  In  quest'ottica,  è  evidente  quanto  il  cardine  dei  progetti  sia  appunto  la  considerazione  equa  e paritetica  di  ogni  religione mantenendo,  come  peraltro  prevede  il  nostro  codice  deontologico, l'uomo al centro delle cure senza alcuna distinzione quali che siano le sue credenze o abitudini.  Inoltre,  le  differenze  culturali  e  religiose  possono  essere  fonte  di  riflessione  per  operatori  ed utenti,  ad  esempio  creando  dibattiti  e/o  incontri  formativi  in  cui  analizzare  le  diverse interpretazioni  dei  vissuti  quotidiani  (malattia,  sofferenza,  morte,  ...)  alla  luce  delle  varie confessioni. E solo in tal modo le differenze teologiche ed ideologiche non sono un limite ma una preziosa risorsa.  Bibliografia consigliata: A. Pangrazzi (2002) Salute malattia e morte nelle grandi religioni, edizioni Camilliane    

  Il confort globale: tra accoglienza e personalizzazione dei servizi  Carmen Cappitella  (Responsabile progetto Confort—Servizio Confort Ospedaliero Policlinico Tor Vergata)    

Grazie,  buongiorno  a  tutti.  Sono  molto  emozionata  perché  la  mia  formazione  è  avvenuta  in quest’azienda  e  vi  ho  lavorato  per  dieci  anni.  Tornare  qui,  oggi,  a  distanza  di  qualche  anno,  è estremamente emozionante.  L’obiettivo della mia presentazione sta nel raccontarvi quella che è stata l’esperienza al Policlinico Tor  Vergata  –  iniziata  otto  anni  fa  –  sulla  realizzazione  di  un  servizio  dedicato  al  comfort  e all’accoglienza del paziente,  in maniera estremamente  ampia,  con un  respiro diverso da quello 

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iniziale. Siamo un Policlinico giovane, la nostra attività è cominciata circa dieci anni fa. Quali sono stati i presupposti grazie ai quali abbiamo iniziato a lavorare alla realizzazione di questo servizio?  Desidero rispondere iniziando il mio intervento con un termine che spesso definisco paradossale: umanizzazione. Cosa c’è di più umano che un ospedale, dove ci sono delle persone che lavorano, che  curano,  che  hanno  bisogno  dell’attenzione  di  qualcun  altro?  Siamo  tornati  a  ripensare  al significato reale di questa parola ed anche dalle relazioni che mi hanno preceduto – nonché dalla giornata di ieri – ho sentito forte il bisogno di ripensare all’umanizzazione delle cure. Questa mattina la collega citava M. F. Colliere ed il suo libro “Aiutare a vivere”. È un’opera che ho ripreso  anch’io  nella  preparazione  di  questa mia  relazione.  Questo  circolo  di  idee,  di  cultura infermieristica che torna – come diceva la dottoressa Galizio – è estremamente entusiasmante. In definitiva, cosa significa umanizzare?  Innanzitutto pensare,  ripensare agli  spazi  fisici,  sociali e  culturali dove  il malato è  il  centro e  la famiglia è una risorsa importante. Non dobbiamo dimenticarci dell’importanza che oggi riveste la famiglia. Naturalmente il personale è colui che mette a disposizione tutta la propria competenza, la propria autonomia, la propria responsabilità. Umanizzazione  quindi  come  atto  dovuto,  perché  la  qualità  delle  prestazioni  assistenziali  passa inevitabilmente attraverso questa parola. E allora, la permanenza in una struttura di ricovero può essere un’occasione preziosa per  fare  educazione  alla  salute.  Ieri pomeriggio  abbiamo detto:  a volte la malattia può diventare l’opportunità per ripensare le relazioni, quello che è il nostro stato di  vita  in  questo  momento.  L’umanizzazione  è  pertanto  l’occasione  del  ricovero  come ripensamento   a queste relazioni. L’intervento di cura non può essere riferito alla specifica malattia – eccoci al cuore del problema – ma  dev’essere  riferito  alla  vita  della  persona,  alle  scelte,  ai  vissuti,  ai  valori,  a  quello  che  è  il proprio credo. Siamo  partiti  da  quelli  che  erano  i  principi  ispiratori  del  nuovo modello  di  ospedale:  il  decreto ministeriale del 2000. Eravamo alle soglie del nuovo millennio e c’era bisogno di ripensare quella che  era  l’assistenza  erogata  all’interno  dei  nostri  ospedali.  Ospedali  con  un  alto  contenuto tecnologico‐assistenziale, ma dove  la parola umanizzazione e  la parola  accoglienza diventavano predominanti.  Il  prendersi  cura  può  fornire  un  ulteriore  significato,  motivo  e  coraggio  per affrontare  anche quello  che è  l’aspetto  curativo.  Il prendersi  cura  viene prima della  terapia.  La clinica  fa  parte  dell’umanizzazione  e  non  viceversa,  esattamente  come  l’assistenza.  Mi  piace questo concetto: la cura che può indicare l’azione che cura la debolezza, ma che può sviluppare la possibilità. Cura: rapporto come parola, gesto e realtà; quindi, è la risposta etica alla vulnerabilità umana   Non  voglio  commentare oltremodo queste  frasi perché ognuno di noi  sarà  in  grado di trovarvi – all’interno del proprio vissuto e della propria  cultura professionale –  il  significato più ampio. Nel 2002 abbiamo cominciato  l’attività di organizzazione del “servizio comfort ospedaliero”, che intende promuovere e  realizzare  la  filosofia  innovativa del prendersi cura che diventa un valore complementare all’attività clinica e all’attività assistenziale. La nostra convinzione è che la persona che  comincia un percorso all’interno del nostro ospedale deve  impiegare  le proprie energie  sul proprio percorso di cura e non sull’adattamento all’ambiente. Quindi,  l’ambiente deve diventare colui che accoglie, colui che accompagna e soprattutto che permette alla persona di non sprecare ulteriori energie per  adattarsi  al  luogo  stesso. Comfort ospedaliero  inteso quindi  come  aspetto evoluto ed articolato dell’accoglienza all’interno delle aree sanitarie. Si vuole pertanto ridefinire e superare  il  vecchio  concetto  dei  modelli  alberghieri.  Non  vogliamo  sentir  parlare  di  servizio comfort che  si occupa dei  servizi alberghieri. No. La nostra è una visione diversa, è una visione globale che vuole abbracciare tutto  il percorso di permanenza della persona  in ospedale. Quindi, 

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realizzare tutte  le funzioni di supporto e promuovere e sviluppare specifici ambiti progettuali. Ve ne presenterò alcuni, i quali sono parte integrante all’attività di cura e complementari alle attività sanitarie:   ‐  valorizzare  tutti  gli  aspetti  del  comfort  ospedaliero,  anche  attraverso  la  gestione  dei  servizi alberghieri; ‐ garantire le condizioni ambientali di vita il più vicino possibile alle abitudini del vivere quotidiano; infatti, molte delle nostre attività riguardano proprio gli spazi fisici e l’ambiente;  ‐  impiegare  le  risorse umane nei progetti di miglioramento e  raggiungere  la consapevolezza che misurare, verificare e valutare quelli che sono  i risultati è alla base del percorso che continuiamo ad intraprendere.  Ho parlato di cura dell’ambiente, ossia di organizzazione dell’ambiente  fisico dove  la persona  si trova.  Umanità  del  luogo  non  significa  abbellimento.  Umanità,  abbiamo  detto,  è  un  termine‐paradosso, e talvolta si rischia di generalizzare. Ogni uomo è diverso, è un portatore di cultura e di valori  della  propria  società. Quindi,  il  comfort  e  l’ambiente  devono  accompagnare  la  persona. Sotto questa luce il rapporto tra i luoghi e il comportamento umano si infittiscono di preposizioni nuove e dove un tempo lo spazio conteneva, oggi invece deve condurre. L’ambiente.  Lo  abbiamo  definito  ambiente  umano  ed  educatore,  perché  è  stata  esaltata un’architettura  non  convenzionale.  Siamo,  come  già  sottolineato,  un  ospedale  giovane,  per  cui abbiamo  avuto  la  possibilità  di  creare  una  struttura  fisica‐architettonica  diversa.  L’ingresso  al Policlinico è estremamente familiare. Le persone spesso ci dicono: “sembra di entrare in un centro commerciale”. Questo per via della galleria con vetrata, molto ampia, con i giardini laterali. L’uso  del  colore  è  stato molto  importante:  tutti  colori  pastello,  colori  in  armonia,  colori  che ricordano la vita quotidiana, colori che troviamo all’interno delle nostre case. Per quanto  riguarda  le aree, abbiamo delle aree dedicate ai visitatori.  Lo abbiamo già detto,  lo ribadiamo: la famiglia ha un ruolo importante. L’ospedale non è un carcere e quando le persone vi entrano,  in qualche modo noi stessi creiamo una muraglia tra chi è dentro e chi è  fuori. Questo non  lo  vogliamo.  Quindi,  aree  dedicate  ai  visitatori  sul  piano  di  degenza,  che  permettono  di mantenere il contatto esterno.  Le camere di degenza: si è privilegiato l’aspetto abitativo, la formazione e la comunicazione della cultura  dell’abitare.  Noi  riteniamo  che  l’ambiente  bello  è  garanzia  di  un  buon  lavoro  per  gli operatori  e  per  tutti  i  cittadini.  L’ambiente  è  di  tutti,  quindi  a  tutti  sta  il  conservare  il  proprio patrimonio. Nelle aree dedicate tra le due degenze abbiamo una torre di nove piani. Su ogni piano ci sono due degenze e al centro quest’area visitatori, divisa in tre corpi: un corpo centrale, una sala privacy – che utilizziamo per  gli  incontri  che  richiedono una  certa  condizione di privacy,  ad esempio  con l’assistente sociale o la psicologa; oppure abbiamo dedicato un’area al culto, alla fede, non avendo uno  spazio  specifico centrale – ed  infine  l’area  relax, dedicata alla  famiglia, consentendo così ai familiari  –  soprattutto  a  quelli  che  vengono  da  fuori  Regione  –  di  poter  sostare,  riposare, garantendo la vicinanza fisica con i degenti. L’accoglienza: tutti noi  in ospedale sperimentiamo un parziale disorientamento e desideriamo  in qualche modo non sentirci esposti, avvicinare  i propri confini, essere  l’oggetto dell’attenzione di qualcuno e quindi essere tenuti all’interno di un palmo della mano. Tutti quanti, quando entriamo in un luogo nuovo, siamo disorientati. A maggior ragione se l’ingresso in questo luogo prevede un percorso di cura.  Il malato deve trarre forza da se stesso e  l’ambiente deve aiutarlo ad acquisire tale  forza.  Il malato è  costretto a  letto per buona parte del  tempo, anche nei  casi  in  cui non è 

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necessario. Da qui inizia la perdita dell’identità. È necessario realizzare – all’interno delle degenze – delle  aree dedicate  che permettano  la  socializzazione delle persone,  che  in qualche modo  le facciano  uscire  dalla  camera,  per  quanto  possa  essere  bella,  tecnologica,  dotata  di  un  aspetto abitativo. È quindi importante creare degli spazi di socializzazione: stare in compagnia, scambiarsi le esperienze, le informazioni. Gli orari dell’ospedale  spesso hanno poco a che  fare con  la quotidianità. Gli orari di visita  sono creati funzionalmente all’organizzazione, non per  la famiglia. Noi abbiamo scelto di non avere un orario di visita prestabilito. All’inizio è stata una vera e propria rivoluzione culturale, soprattutto nei confronti degli operatori, ma col tempo ha consentito a tutti di comprendere come la famiglia diventava  l’elemento strategico di cambiamento. Realizzare quindi  la possibilità di una colazione non  soltanto  durante  gli  orari  prestabiliti,  ma  consentirla  nel  soggiorno  dei  pazienti,  perché possano accedere in qualsiasi momento della mattinata. “Luogo  del  secolo”  dove  ognuno  ha  la  possibilità  di  separarsi  dallo  sguardo  altrui.  La  nostra cappella ha dei  richiami  religiosi  che  ricordano  il  cattolicesimo, ma non  vi  sono  simboli quali  il crocifisso, proprio per permettere a tutti il raccoglimento, il silenzio. I  luoghi della degenza permettono –  anche nei momenti più  importanti della propria privacy e della  propria  intimità  –  di  poter  accedere  alle  aree  in maniera  diversa.  L’ospedale  non  è  un albergo, non è una piscina, non è un Luna Park, però possiamo realizzare qualcosa di più protettivo attraverso la garanzia di un comfort diverso. Al Luna Park ci si distrae, noi invece vogliamo che le persone acquisiscano forza da se stesse, dall’ambiente e dunque si possano orientare. Qualità percepita. È uno degli aspetti importanti della nostra attività: capire – attraverso le analisi di soddisfazione del cliente – in quale direzione stiamo andando.  Desidero citarvi alcuni dei nostri principali progetti, complementari a quelle che  sono  le attività cliniche:  l’affettività  delle  cure  ed  il  tocco‐massaggio  sono  progetti  nati  all’interno  del  nostro servizio o da  iniziative del  tutto personali di  gruppi di  colleghi, da noi  appoggiate. Abbiamo un gruppo di infermieri che si organizza, si incontra, apprende tecniche di massaggio e di rilassamento e le somministra ai pazienti che lo desiderano. Il massaggio e l’affettività della cura possono creare rapporti intensi e profondi. È una tecnica che viene utilizzata moltissimo in ematologia. Il progetto “scrivere  la cura”, partito recentemente, vede  la parola come rimedio e come cura. A volte erigiamo delle dighe:  sono una  strategia a  cui  i  sani  ricorrono per difendersi dalla  sinistra risonanza che suscita  il  lamento del malato. Si dà quindi  la possibilità – non solo ai nostri clienti, ma anche agli operatori – di definire quelli che sono i propri sentimenti. Stiamo facendo strada alla “medicina narrativa”, che pone al centro della relazione terapeutica  la costruzione di una trama narrativa  dove  si  devono  integrare  l’oggettività  biomedica  e  la  soggettività  dei  vissuti,  sia  del paziente che delle persone che se ne prendono cura.  Altro progetto – a cui tengo tantissimo, vi invito ad accedere al sito  www.risponderealsilenzio.it e a rispondere all’appello che abbiamo lanciato come infermieri – è “rispondere al silenzio”. La Capitale – così come tutto il territorio – è stata spesso teatro di episodi di violenza sulle donne. I nostri  Pronto  Soccorso  raccontano  molte  storie  di  questo  tipo.  Abbiamo  creato  un  gruppo multidisciplinare all’interno dell’azienda al fine di costruire un percorso diverso per  la donna che accede al Pronto Soccorso del nostro Policlinico a causa di violenze di qualsiasi natura. È un gruppo che  si  incontra  ormai  da  un  anno  e mezzo. Nella  “settimana  della  violenza”  facciamo  incontri formativi  ai  colleghi.  Nel  sito  web  da  noi  creato  è  presente  un  appello  in  cui  chiediamo  agli infermieri di aderire come categoria professionale per combattere questa grave problematica. “L’ospedale  senza  dolore”:  è  stato  creato  un  comitato.  Dolore  significa  cambiare  attitudini  e comportamenti  degli  operatori  sanitari,  perché  il  dolore  deve  diventare  un  evento  non ineluttabile. Quindi, accompagnare, sostenere, alleviare, migliorare la qualità di vita. 

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Un altro progetto è  il “gioco di squadra”: pensare  il percorso di cura per  i bambini attraverso  il gioco, la formazione al personale, l’ambiente e la cura dei genitori. Il percorso è quello di alleviare in qualche modo le difficoltà dei piccoli utenti all’interno dell’azienda. Il “progetto NUR” è  riferito alla  funzione del “counselor  interculturale”. La nostra è un’area con una  forte  presenza  di  persone  provenienti  dall’estero.  Il  “counselor  interculturale”  non  è  il “mediatore culturale”. È una situazione del tutto differente. Il “counselor” tratteggia  il profilo dei due  gruppi  di  appartenenza,  sia  dell’operatore  che  della  persona  che  accede  al  servizio,  in particolar modo al Pronto Soccorso. Il “counselor” deve rispondere alle aspettative e alle esigenze di  comunicazione dell’operatore e deve domandare,  accogliere  e  reinterpretare  la diversità del paziente straniero. “Zaino di Babele” è  l’ultimo progetto che vi presento:  l’ospedale come crocevia di culture. È un incontro  di  formazione  molto  importante  in  cui  i  nostri  “counselor”  e  psicologi  invitano  gli operatori che  lo desiderano a provare ad  indossare  il burka per capire cosa sente, come vede e come vive la persona. Senza  il coinvolgimento di tutti gli operatori non vi può essere reale miglioramento. Questa è  la nostra radicata convinzione, per cui  il percorso da  fare è collettivo. Uno degli obiettivi principali del nostro servizio sta nel garantire  il benessere degli operatori, ma questa è un’altra storia, che spero si affronterà in un altro momento, studiando il clima organizzativo dell’azienda.  Siamo  convinti  che  il mondo  –  anche  questo  terribile,  intricato mondo  di  oggi  –  può  essere conosciuto, interpretato, trasformato e messo al servizio dell’uomo, del suo benessere e della sua felicità.  La  lotta per questo obiettivo è una prova  che può  riempire degnamente una  vita. Con questa riflessione e questo spunto vi ringrazio.  

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    Barbara Chiapusso  (infermiere coordinatrice ASL TO 3 – Segretario Collegio IPASVi di Torino)    Seconda  Tavola  rotonda  di  questo  Convegno  che  vedrà  coinvolto,  come attivatore di riflessione, l’art. 8 del nostro Codice deontologico, che recita:  

“L’infermiere,  nel  caso di  conflitti  determinati  da  diverse  visioni  etiche,  si  impegna  a  trovare  la soluzione attraverso  il dialogo. Qualora vi fosse e persistesse una richiesta di attività  in contrasto con  i  principi  etici  della  professione  e  con  i  propri  valori,  si  avvale  della  clausola  di  coscienza, facendosi garante delle prestazioni necessarie per l’incolumità e la vita dell’assistito.” Sicuramente  sarà una Tavola  rotonda  impegnativa. Non per nulla  avrete quindi  la possibilità di leggere  le domande che  intendo rivolgere ai partecipanti sulle slides.  Incomincerei – con grande piacere e con onore – invitando il professor Elvio Fassone che, attraverso la sua Lettura Magistrale, ci permetterà di addentrarci pienamente all’interno di questa Tavola rotonda.  

  Obiezione di coscienza, clausola di coscienza e garanzia dell’assistenza – Lettura magistrale  Elvio Fassone  (Magistrato in quiescenza; Docente del corso di Dottorato in Sociologia del diritto ‐ Facoltà di Giurisprudenza)  

 1)  la nozione di obiezione di coscienza Sotto un profilo filosofico‐morale  l’obiezione di coscienza si configura come rifiuto di obbedienza ad  una  legge  positiva  in  nome  di  una  legge  superiore.    L’obiettore  trasgredisce  la  legge  degli uomini,  o  ne  rifiuta  l’osservanza,  invocando  il  suo  dovere  di  attenersi  ad  un  comando  che  la trascende.  Il modello  classico di questo  atteggiamento  è  rappresentato da Antigone,  la quale  ‐ professando obbedienza alle “leggi non scritte, inalterabili, fisse dagli dei:  quelle che non oggi, non da ieri vivono, ma eterne: quelle che nessuno sa da quando comparvero”  ‐ disobbedisce al divieto di Creonte di dare  sepoltura al corpo del  fratello ucciso.   E  la martirologia cristiana considera  il primo  obiettore  di  coscienza Massimiliano,  che  nel  secondo  secolo  rifiutò  di  prestare  servizio militare, poiché la sua fede gli vietava di portare le armi contro un altro uomo.  

3° SESSIONE:  

Capo  II  –  art.  8:  “L’infermiere,  nel  caso  di  conflitti  determinati  da  diverse  visioni  etiche,  si impegna a trovare la soluzione attraverso il dialogo. Qualora vi fosse e persistesse una richiesta di attività  in contrasto con  i principi etici della professione e con  i propri valori, si avvale della clausola di  coscienza,  facendosi garante delle prestazioni necessarie per  l’incolumità e  la vita dell’assistito”. 

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Il  tratto  comune  a  queste  e  ad  altre  numerose  situazioni  è  il  fatto  che  l’obiettore  accetta  la sanzione prevista a carico di chi non agisce  in conformità del precetto. Egli non  intende sottrarsi alle conseguenze previste per  la sua disobbedienza, anzi cerca di dare ad esse  il massimo risalto, per provocare una trasgressione diffusa, che porti alla cancellazione della  legge positiva ritenuta ingiusta.  Solo negli ultimi tempi l’obiezione di coscienza ha assunto anche una diversa intonazione, sotto il profilo giuridico.    In questi casi circoscritti  la sensibilità collettiva ha condotto alla  legalizzazione dell’obiezione,  cioè  ad  una  autorizzazione  a  non  osservare  la  legge  positiva  senza  subire  le conseguenze  connesse  all’inosservanza, ovvero  subendone  conseguenze molto miti.  Si parla,  in questi caso, di obiezione di coscienza legalmente riconosciuta.  E’ evidente che un simile riconoscimento del primato della coscienza individuale deve essere usato dal  legislatore  con  parsimonia  e  prudenza.    Se  si  affidasse  sempre  al  singolo  la  possibilità  di invocare  il  suo  personale  giudizio,  in  nome  dell’inviolabilità  della  coscienza,  la  legge  verrebbe meno alla sua essenza, che è quella di esigere l’universale osservanza dei precetti legali.  Tanto più in una moderna democrazia, nella quale si può presumere che una legge, per il fatto di promanare da un  legislatore eletto  liberamente da tutti  i cittadini, sia conforme al sentire della maggioranza dei medesimi.  2) La normativa In effetti  il  legislatore ha  legalizzato  l’obiezione di coscienza  in un numero molto  limitato di casi.  L’ha prevista a favore di chi rifiuta di prestare il servizio militare armato (legge 12 dicembre 1972, n. 772: peraltro questa legge conserva una sia pur lieve e diversa sanzione a carico dell’obiettore, rappresentata  dalla  maggior  durata  del  servizio  sostitutivo;  essa  prevede  inoltre  delle incompatibilità per chi detiene armi o ha compiuto reati di violenza).   L’ha  riconosciuta  altresì  al  personale  sanitario  nel  procedimento  abortivo  di  cui  alla  legge  22 maggio  1978,  n.  194,  peraltro  con  due  delimitazioni.    Da  un  lato  l’obiezione  non  esonera dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento.  Dall’altro lato, “l’obiezione di coscienza non  può  essere  invocata  …  quando,  data  la  particolarità  delle  circostanze,  il  [loro]  personale intervento è  indispensabile per salvare  la vita della donna  in  imminente pericolo”;   e “si  intende revocata  se  chi  l’ha  sollevata  prenda  parte  a  procedure  o  interventi  per  l’interruzione  della gravidanza previsti dalla presente legge” Ancora,  l’obiezione di coscienza è  riconosciuta dalla  legge 12 ottobre 1993 n. 413,  in materia di sperimentazioni sugli animali.  Ed infine è riconosciuta dalla legge 19 febbraio 2004 n. 40, in tema di procreazione medicalmente assistita,  la quale peraltro non esonera  l’obiettore dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento. Non  consta  che  vi  siano  altre  situazioni  legalizzate.    Anzi,  quando  si  è  cercato  di  estenderne  i confini  invocando  un’analogia  di  situazioni,  la  Corte  Costituzionale  ha  opposto  un  rifiuto.    E’ avvenuto quando  il  giudice  tutelare,  chiamato  ad  autorizzare  la minore  ad  abortire  secondo  le procedure di cui alla citata  legge n. 194 del 1978, ha chiesto che  la  legge gli  riconosca  il diritto all’obiezione  di  coscienza,  che  sarebbe  garantita  dagli  articoli  2  (inviolabilità  dei  diritti fondamentali della persona, tra  i quali quello di conformarsi alle proprie convinzioni profonde) e 19 (diritto di professare la propria fede religiosa).   La  Corte  (con  la  sentenza  del  25  maggio  1987,  n.  196)  ha  dichiarato  infondata  l’eccezione osservando,  quanto  all’asserita  disparità  di  trattamento  rispetto  al  personale  sanitario,  che  il giudice tutelare rimane esterno rispetto alla procedura di IVG, dovendo egli unicamente accertare il grado di maturità della minore;  e quanto al diritto di conformarsi alla propria coscienza, la Corte 

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ha risposto che tale diritto va bilanciato con altri valori anch’essi di rango costituzionale, tra i quali, appunto, l’indefettibile esercizio della giurisdizione. Vi è stato, tuttavia, un ulteriore caso di obiezione di coscienza costruito dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale:   è accaduto a proposito del giuramento  cui era  chiamato  il  testimone nel giudizio penale e civile  (le pronunce sono numerose:  l’ultima è  la n. 149 del 1995).   La Corte ha preso le mosse dal principio di laicità, secondo il quale né lo Stato né la Chiesa possono utilizzare ciascuno il punto di vista dell’altro:  la Chiesa non può pretendere di munire i suoi precetti morali della forza che promana dalla  legge;    lo Stato non può utilizzare  la soggezione morale che deriva da  una  convinzione  religiosa,  al  fine  di  rafforzare  un  proprio  interesse,  sia  pure  l’interesse istituzionale di ottenere dichiarazioni veritiere nei giudizi.   In conseguenza, oggi,  il testimone non “giura”, ma “si impegna” a dire la verità.  Si tratta, quindi, di una situazione nella quale non è più necessario  invocare  il dettato della propria  coscienza, nel  caso  specifico, poiché  la  stessa  è  già stata tutelata in via generale.    3)  Conclusioni in tema di obiezione di coscienza In  conclusione  si  può  affermare  che:    a)  le  situazioni  nelle  quali  l’obiezione  di  coscienza  è riconosciuta  sono  soltanto  quelle  sancite  espressamente  da  una  disposizione  di  legge,  e  non  è ammessa la creazione di altre situazioni per vie diverse da quella;  b) anche là dove l’obiezione di coscienza  è  legalmente  riconosciuta,  l’esonero  da  una  certa  condotta  viene meno  quando  ne conseguirebbe il pericolo per la vita di terzi, e  c) il diritto all’esonero non si estende al di là delle attività strettamente involgenti il principio superiore invocato dall’obiettore.   Non  può,  pertanto,  essere  invocata  l’obiezione  di  coscienza,  ad  esempio,  da  parte  del farmacista  il  quale  si  rifiuti  di  porre  in  vendita  un  determinato  prodotto;  né  da  parte  del parlamentare  il  quale  non  accetti  di  votare  in  conformità  della  linea  proclamata  dal  gruppo  di appartenenza,  su materie di particolare  rilevanza  (fermo  restando, ovviamente,  il  suo diritto di votare secondo coscienza, una volta uscito dal gruppo);   né da parte di un pubblico ufficiale che rifiuti di compiere o di ricevere un determinato atto, cui sia tenuto per legge.     In tutti questi ed  in consimili casi torna a valere  la regola di Antigone:    l’obiettore merita rispetto,  se ed  in quanto  rivendichi  il primato della propria  coscienza, ma  sia egli  stesso, e non altri, a sopportare  il prezzo della propria obiezione.   Anche  l’invito a praticare  l’obiezione, che è accaduto  di  sentire  da  parte  di  autorità  religiose,  deve  misurarsi  con  questa  regola,  che  è conseguenza non eludibile del principio di laicità dello Stato.  4)  I codici deontologici Il codice deontologico (in seguito: CD) è l’insieme delle regole etiche che un ceto professionale si dà per integrare la disciplina formale e legale che disciplina l’esercizio della professione.  Poiché il diritto, per doverosa auto‐limitazione, rappresenta  il minimo etico che disciplina un certo ambito di rapporti sociali, il CD è espressione della residua autonomia riconosciuta a quel gruppo sociale, e propone, di regola, un più alto livello di eticità nei comportamenti, dovuto alla sensibilità morale di  quanti  ne  fanno  parte.    Il  CD,  in  altri  termini,  si  propone  di  far  sì  che  la  condotta  dei professionisti  cui  si  indirizza  sia  la più  rispettosa possibile delle  aspettative del  cittadino  che di quella attività deve servirsi, od alla quale deve sottostare. Conseguono alcuni corollari  importanti.    Il CD non può contenere disposizioni  in contrasto con  la legge positiva, altrimenti si autorizzerebbe un ceto professionale a farsi legislatore. Il  CD  vincola  tutti  gli  esercenti  quella  professione,  e  può  generare  una  loro  responsabilità disciplinare in caso di inosservanza.  Non può essere invocato a giustificazione di una violazione di legge, salvo che la stessa lo preveda facendo rinvio alle sue disposizioni.  Può essere invocato per 

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rifiutare un’obbedienza gerarchica, quando  l’ordine che sia esso stesso contrario alla  legge od al CD Poiché  il  CD  oggetto  delle  presenti  riflessioni  fa  rinvio,  in  più  parti,  ai  “diritti  fondamentali dell’uomo”  ed  ai  “principi  etici  della  professione”  (v.  in  particolare  l’art.  5),  è  opportuno inquadrare il CD nella cornice normativa essenziale, al fine di dare un contenuto più concreto alle due locuzioni ora citate, nonché alla “clausola di coscienza”, che forma oggettoi specifico di queste riflessioni.    5)  La Costituzione e le Convenzioni internazionali Nella  materia  che  coinvolge  il  personale  sanitario  in  genere,  e  l’infermiere  in  particolare, assumono rilevanza alcune disposizioni di rango costituzionale. La prima è  l’art. 13 della Costituzione,  il quale afferma  il principio di portata generale, secondo  il quale “la  libertà personale è  inviolabile”.   La seconda è  l’art. 32,  il quale enuncia  innanzi tutto  il diritto dell’individuo alla salute ed alle cure, e quindi afferma il diritto all’autonomia del medesimo di  fronte  ai  trattamenti  sanitari  (nei  termini  che  saranno meglio  esaminati  più  oltre).   Queste disposizioni, illuminate entrambe dal principio generalissimo dell’art. 2 (“La repubblica riconosce e garantisce  i  diritti  inviolabili  dell’individuo”)  disegnano  con  chiarezza  il  principio  di  auto‐determinazione dell’individuo. Accanto  alla  Costituzione,  la  materia  riceve,  poi,  importanti  indicazioni  dalla  Convenzione  di Oviedo (propriamente “Convenzione per  la protezione dei diritti dell’uomo e  la dignità dell’essere umano  riguardo alle applicazioni della biologia  e della medicina”)  stipulata  a Oviedo  il  4  aprile 1997.    Essa  garantisce  ad  ogni  persona  “il  rispetto  della  sua  integrità  e  dei  suoi  altri  diritti fondamentali” (art. 1);   enuncia come regola generale che “Un  intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che  la persona  interessata abbia dato consenso  libero e informato”  (art.  5);    e  dispone  che  “i  desideri  precedentemente  espressi  a  proposito  di  un intervento medico  da  parte  di  un  paziente  che,  al momento  dell’intervento  non  è  in  grado  di esprimere la sua volontà, saranno tenuti in considerazione” (art. 9). La Convenzione è stata ratificata dallo Stato  italiano con  legge 28 marzo 2001 n. 145, e quindi fa parte del nostro ordinamento giuridico. Per compiutezza della cornice, non si può non  fare menzione del codice penale, che, sul punto, prevede  i  reati  di  lesione  personale  e  di  violenza  privata,  la  cui  anti‐giuridicità  viene meno  in presenza del consenso dell’interessato.   6)  Il codice deontologico dell’infermiere Il CD  in esame, varato nel gennaio del 2009, si differenzia  in molte parti dall’omologo codice del maggio 1999. a) Nei primi tre articoli esso arricchisce  il profilo professionale del professionista sanitario, e, ai 

fini  che  qui  interessano,  va  ricordato  come  l’art.  3  ‐  che  definisce  la  responsabilità dell’infermiere  ‐ enuncia  il principio  generale  secondo  il quale  lo  stesso  agisce  “nel  rispetto della vita, della salute, della libertà e della dignità dell’individuo”.   Il  dato  rilevante  è  costituito  dal  fatto  che  i  quattro  beni  elencati  sono  posti  sul medesimo piano.  Nulla è detto per il caso che due o più dei predetti valori entrino in contrasto tra di loro. 

b) Con il detto art. 3 si collega strettamente l’art. 5, il quale, riprende l’affermazione già presente nel testo del 1999, secondo la quale “il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e dei principi etici della professione è condizione essenziale per l’esercizio della professione infermieristica”. L’art. 5 non intende  né elencare i diritti fondamentali, né costruire delle gerarchie tra di essi.  Peraltro, data la subalternità del CD alla Costituzione ed alla legge, i diritti fondamentali vanno ricavati  dalla  cornice  istituzionale  delineata  sopra.    La  coppia  degli  artt.  3  e  5,  in  sostanza, 

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finisce  con  l’effettuare un  rinvio a quanto  la  scienza giuridico‐costituzionale ha elaborato  in tema di diritti fondamentali della persona. 

c) L’art. 4, che nel testo del 1999 si  limitava a chiedere all’infermiere di “[agire] tenendo conto dei valori  religiosi,  ideologici ed etici, nonché della cultura, etnia e  sesso dell’individuo”, ora incornicia questo compito chiedendo all’infermiere di “presta[re] assistenza secondo equità e giustizia”,  e  di  tenere  conto  “dei  valori  etici,  religiosi,  culturali,  nonché  del  genere  e  delle condizioni sociali della persona” E’ significativo  il fatto che è scomparso  l’accenno ai “valori  ideologici” ed all’“etnia” (fatto da valutarsi  positivamente).    Al  posto  della  prima  locuzione  compaiono  i  “valori  culturali”;    al posto della seconda “le condizioni sociali”. Desta invece qualche perplessità il fatto che ieri il testo era tutto ‐ e giustamente ‐ centrato sul dovere di “tener conto” dei vari fattori elencati;  vale a dire poneva il baricentro nelle esigenze della persona assistita, salva la considerazione che il “tener conto” non può essere inteso come un  imperativo assoluto. Nel codice attuale,  invece, questa priorità tendenziale deve misurarsi con dei vaghi e non ben definiti “principi di equità e di giustizia”. A giudizio di chi scrive, questa vaghezza, per la sua attitudine ad essere riempita da valutazioni soggettive molto labili, non può prevalere sui valori della persona enunciati dall’articolo stesso, dei quali l’infermiere deve “tenere conto”.  Equità e giustizia possono soccorrere solo quando i predetti valori non sono coinvolti direttamente nella questione (ad esempio, nel riconoscere o meno  una  precedenza,  nel  praticare  per  giusti  motivi  un  trattamento  differenziato, nell’acconsentire ad un’abitudine o ad una credenza che non abbia controindicazioni, ecc.). 

d) Particolare  attenzione  meritano  vari  articoli  del  CD,  che  sottolineano  concordemente  il principio di autonomia dell’assistito. L’art. 7 afferma che “L’infermiere orienta  la sua azione al bene dell’assistito …sostenendolo nel raggiungimento della maggiore autonomia possibile”. L’art. 25 stabilisce che “l’infermiere rispetta la consapevole ed esplicita volontà dell’assistito di non essere informato sul suo stato di salute …” L’art. 36 ‐ fondamentale nella disamina in oggetto ‐ dispone che “l’infermiere tutela la volontà dell’assistito di porre dei limiti agli interventi che non siano proporzionati alla sua condizione clinica e coerenti con la concezione da lui espressa della qualità della vita”. L’art. 37, non meno importante, afferma che “l’infermiere, quando l’assistito non è in grado di manifestare  la  propria  volontà,    tiene  conto  di  quanto  da  lui  chiaramente  espresso  in precedenza e documentato”. Vi  è  quindi  un  ricco  contesto  che  soccorre  nella  disamina  del  punto  nodale  delle  presenti riflessioni, costituito dall’art. 8. 

e) L’articolo 8 presenta notevoli innovazioni rispetto al CD del 1999. Esso si occupa di conflitti, che  ieri erano “determinati da profonde diversità etiche”, oggi da “diverse visioni etiche”.    I termini si prestano a riserve, poiché  il parlare di “visioni etiche” è linguaggio piuttosto  vago e meta‐giuridico.   Ma quel  che  comunque  va posto  in  rilievo è  il fatto  che  si  è  voluto  estendere  l’area  del  conflitto  coinvolgente  la  coscienza:  ieri  si richiedevano “profonde diversità”, oggi è sufficiente una “diversa visione”. Questa prima considerazione si lega con la modifica dell’ultima parte dell’articolo, perché ieri si consentiva all’infermiere di “avvale[rsi] dell’obiezione di coscienza”;  oggi si è preso atto che l’obiezione di coscienza non può essere  introdotta da un codice deontologico, né può essere invocata  ad  libitum  del  personale  (cfr.  il  punto  3),  e  si  è  introdotta  una  nuova  locuzione, prevedendo una  “clausola di  coscienza”  .   Si  tratta di vedere quale praticabilità  riveste  tale clausola. 

 

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 7)  La clausola di coscienza Il punto di partenza, a giudizio di chi scrive, deve essere  rappresentato dalla situazione che può fare  insorgere  la  clausola di  coscienza.    Secondo  il CD del 1999,  l’infermiere doveva  trovarsi di fronte ad una “volontà profondamente  in contrasto con  i principi etici della professione e con  la coscienza  personale”.    Secondo  il  CD  del  2009,  deve  trattarsi  di  una  “richiesta  di  attività”, anch’essa in contrasto con i principi etici della professione e (è importante l’uso della congiunzione in luogo della disgiuntiva) “con i propri valori”.   Poiché l’art. 8 ha avuto una laboriosa gestazione, si deve ritenere che il risultato finale non sia  casuale. Con  la nuova  formulazione  si è  voluto  ridurre  la  forza della  richiesta,  ampliandone l’area;  si è attenuata l’entità del contrasto poiché è scomparso l’avverbio “profondamente”; e si è ampliato  l’orizzonte  valoriale  invocabile,  posto  che  alla  “coscienza”  si  sostituiscono  i  “propri valori”.    Riassumendo,  sembra  potersi  dire  che,  da  un  lato,  si  è  abbandonato  il  richiamo all’obiezione di coscienza, e dall’altro lato si è allargata l’area delle situazioni considerate.   Si  tratta  allora  di  esaminare  quale  è  la  “richiesta”  alla  quale  l’infermiere  può  non  dare esecuzione, senza poter invocare una vera e propria obiezione di coscienza.   Schematizzando si può prevedere che  la  richiesta provenga   a) da un soggetto munito di un’autorità prevalente,   b) dall’assistito,   c) da una terza persona.  7.a)  Richiesta proveniente da soggetto sovra‐ordinato Nel  primo  caso  (questa  “autorità  prevalente”  non  deve  necessariamente  configurare  una subordinazione gerarchica, ma è comunque tale che l’infermiere deve dare ad essa esecuzione), il CD non contiene nessuna disposizione che  regoli  le eventuali problematiche nascenti da questo tipo  di  subalternità,  mentre  abbiamo  visto  essere  numerose  le  disposizioni  che  regolano  il rapporto dell’infermiere con la volontà dell’assistito. Appare pertanto corretto rifarsi all’unico modello ricavabile  in argomento, che è quello descritto dal  testo  unico  delle  disposizioni  sul  pubblico  impiego:  esso  non  si  applica  direttamente  alla situazione in esame, ma offre comunque uno schema utilizzabile. L’art. 17 del predetto testo unico (d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3) stabilisce che “l’impiegato, al quale venga  impartito  un  ordine  che  egli  ritenga  palesemente  illegittimo,  deve  farne  rimostranza, dichiarandone  le  ragioni.    Se  l’ordine  è  rinnovato  per  iscritto,  l’impiegato  ha  il  dovere  di  darvi esecuzione.    L’impiegato  non  deve  comunque  eseguire  l’ordine  del  superiore  quando  l’atto  sia vietato dalla legge penale”. Poiché la norma non esige che l’ordine sia palesemente illegittimo, ma che l’impiegato lo ritenga tale, si può ravvisare un primo spazio per la clausola di coscienza.  Se l’ordine entra in tensione con qualcuna delle disposizioni di cui si è fatta menzione, e segnatamente con gli artt. 36 e 37 del CD, l’infermiere  ben  può  invocare  la  clausola  di  coscienza,  poiché  non  si  tratta  di  recuperare surrettiziamente un’obiezione di coscienza non prevista, ma di giustificare l’opinione (il “ritenga”) che la richiesta sia illegittima. Alla  stessa  stregua,  la  clausola  può  essere  invocata  quando  la  richiesta  si  traduca  in un’ingiustificata e grave riduzione della garanzia di assistenza. Questo  tuttavia  non  risolve  il  problema  qualora  l’ordine  venga  ribadito  per  iscritto  (pur  non trascurandosi che  l’insistenza di fronte ad un’argomentata contestazione può avere conseguenze per colui che conferma l’ordine). La  domanda  si  sposta  allora  sul  secondo  versante  del  “modello”,  e  cioè  sulla  valutazione  se quell’ordine integri addirittura un illecito penale, e quindi giustifichi la non esecuzione.    

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 7.b) Il consenso informato e l’auto‐determinazione La risposta è delicata e si deve procedere con molta prudenza.  Tuttavia alcuni punti fermi possono essere proposti.  La scienza medica ha progressivamente acquisito coscienza che gli operatori non dispongono più illimitatamente  del  paziente,  siccome  depositari  di  una  conoscenza  che  egli  non  ha,  e  che  ‐ secondo un precedente modo di pensare  ‐ abilitava  i depositari della scienza ad agire uti domini nei confronti del bisognoso di cure. L’asimmetria  informativa oggi deve essere colmata attraverso  il consenso  informato, vale a dire attraverso  una  trasmissione  delle  conoscenze  essenziali  al  caso,  cosicché  l’assistito  possa esprimere una volontà consapevole (beninteso nel caso in cui egli sia in grado di farlo). Questa regola trova ormai un presidio  formale nelle citate disposizioni della Costituzione e della Convenzione di Oviedo. In particolare,  l’art. 32 Cost. offre  sostegno al principio di auto‐determinazione dell’assistito.    Il secondo  comma  della  norma,  infatti,  si  articola  in  tre  disposizioni  successive.    Con  la  prima (“Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario”) si enuncia il principio, il quale,  come  si  è  anticipato,  è  un  corollario  specifico  dell’inviolabilità  della  libertà  personale, sancita dall’art. 13. Con  la  seconda  proposizione  (“…  se  non  per  disposizione  di  legge”)  si  introduce  l’eccezione  al principio, circoscrivendola sia in ordine allo strumento usato (la legge) sia in funzione dell’interesse che giustifica l’eccezione, e che deve essere un interesse generale: si può pensare alle vaccinazioni, alla quarantena, al trattamento della malattia mentale, e simili. Con la terza proposizione (“la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona  umana”)    si  introduce  un  secondo  principio,  rafforzativo  del  primo.   Anche  quando  la legge e l’interesse generale legittimano un’invasione della sfera privata, deve essere fatto salvo il rispetto della persona:  il  trattamento,  cioè, non deve essere  troppo  invasivo, non può violare  il pudore  senza  adeguate  cautele,  non  può  protrarre  la  restrizione  della  libertà  oltre  lo  stretto indispensabile, non può sacrificare la dignità dell’individuo. Alcuni ritengono che l’art. 32 debba avere altra lettura.  La terza proposizione ‐ affermano ‐ funge in  realtà da  recupero e dilatazione della  seconda:  la  legge,  cioè, può  giustificare  il  trattamento sanitario coatto non solo  in funzione di un  interesse generale, ma anche per opporsi al sacrificio della vita, sebbene questo sia chiesto e voluto dal titolare della medesima.  Una simile volontà ‐ si afferma  ‐ offenderebbe “il  rispetto della persona”,  il quale è un bene di cui  l’individuo non può disporre.    Di  più:    il  primo  comma  dell’art.  32,  nel  considerare  la  salute  come  un  interesse generale, fa sì che nessuno può obbligare l’individuo a ricorrere alle cure mediche, ma quando egli richiede un  intervento di  cura, perde  la  sovranità  sia  sulla  gestione delle  cure  stesse,  sia  su  se medesimo, perché gli autori delle cure sono  tenuti  in ogni caso e modo alla preservazione della sua vita sino a che la scienza lo rende possibile. A giudizio di chi scrive, queste tesi non hanno sostegno nella Costituzione, anzi da essa ricevono smentita.   La terza proposizione della quale si è detto  (la salvezza  in ogni caso del rispetto della persona) non funge da restrizione del principio generale (l’auto‐determinazione), ma, al contrario, da restrizione dell’eccezione (l’intervento della legge).  Proprio la progressione concettuale interna al comma, e proprio la ripresa della stessa parola (“la legge”) dimostra che il rapporto “principio ‐ deroga”  viene  confermato,  attraverso un  contenimento della deroga, e non  attraverso una  sua riduzione. Né il primo comma dell’art. 32 può trasformare un diritto in una soggezione, tanto più che questa soggezione è espressamente contemplata, e circoscritta, nel secondo comma. D’altronde  il  lessico  della  Costituzione  è  univoco:   mentre  in  più  articoli  compare  l’aggettivo “inviolabile” (e tra questi l’art. 13 che tutela la libertà personale) a significare che nessun estraneo 

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può offendere quel diritto, in nessuna norma compare l’aggettivo “indisponibile”, a significare che quel diritto è sottratto anche alla disponibilità del suo titolare. Dunque,  se  la  condizione  del  singolo  non  ha  riflessi  sulla  salute  di  altri,  nessun  trattamento sanitario può essere imposto o praticato al di fuori del suo consenso.  Il dettato costituzionale, poi, è  ribadito e precisato dalla  ricordata Convenzione di Oviedo,  la quale  sancisce  l’importanza del consenso informato e il primato della volontà della persona assistita. Si può allora  ricavare un primo  indirizzo  in merito alla  clausola di  coscienza ed all’esecuzione o meno  della  “richiesta”.    Il  principio  di  auto‐determinazione  dell’assistito  comporta  che  ogni intervento sulla sua persona diventa illecito qualora non sia preceduto dal consenso: e si tratta di un illecito penale, poiché l’intervento non consentito può integrare, secondo i casi, i reati di lesioni o di violenza privata. Diversa è la situazione (e la si esamina solo di scorcio, per completezza) quando la richiesta, proveniente da soggetti sovra‐ordinati, non attiene ai principi fondamentali: ad esempio, quando essa si risolve in un de‐mansionamento dell’infermiere che non sia occasionale ma assiduo;  o un utilizzo improprio delle sue competenze professionali;  o quando si tratta di una richiesta di sovra‐prestazioni in via sistematica, a causa di carenze organizzative. In tutti questi ed  in simili casi non viene  in considerazione  la clausola di coscienza, poiché non si tratta di “diverse visioni etiche”, ma di un contenzioso attinente lo statuto di quel lavoratore, che potrà e dovrà essere risolto secondo le procedure ad esso dedicate. Diverso,  invece, e pertinente alla materia  in esame, è il caso di richieste non occasionali di azioni professionali da effettuarsi nell’impossibilità di garantire standard assistenziali adeguati: in questo caso  la  clausola  di  coscienza  può  essere  invocata,  perché  non  introduce  una  vera  e  propria “obiezione”, ma  rende  giustificato  il  rifiuto;    anche  se,  a  ben  guardare,  non  sarebbe  neppure necessario  fare  ricorso  alla  clausola  di  coscienza,  poiché  soccorre  già  il  principio  etico  della “prudenza al fine di non nuocere”, ricavabile dall’art. 9; e soprattutto soccorre la liceità del rifiuto quando la richiesta può generare una responsabilità di tipo penale.   In questa prospettiva trova risalto la “garanzia di assistenza” che costituisce il terzo elemento del trinomio oggetto delle presenti considerazioni.   8)   La “richiesta di attività” proveniente dall’assistito Non meno delicato è il problema della opponibilità della clausola di coscienza quando la richiesta di attività provenga dall’assistito.  L’art. 8 del CD considera una “richiesta di attività in contrasto con i principi etici della professione” (accantoniamo, per ora,  i “propri valori”), e questi principi  sono  ricavabili dall’art. 5,  subentrato all’art. 2 del precedente CD,  il quale elenca dapprima “i diritti  fondamentali dell’uomo” e subito dopo gli anzidetti “principi etici”. Ne  segue  che  la  richiesta  dell’assistito  ha  un  valore  preminente  quando  attiene  al  rispetto  dei propri diritti fondamentali.  Ha ancora lo stesso valore prevalente quando attiene ai “principi etici” che  siano  coerenti,  e  non  antagonisti,  rispetto  a  quei  diritti  fondamentali.    Non  ha  valore prevalente quando esorbiti da questi ambiti. Esemplificando,  la  richiesta  dell’assistito  non  può  essere  inascoltata,  attraverso  la  clausola  di coscienza, quando attiene alla vita, alla libertà, o alla dignità della persona.  Non ha, invece, valore prevalente  quando  è  estranea  a  questo  ambito:  ad  esempio  la  richiesta  di  un’alimentazione dannosa, o di una ambulazione sconsiderata, o di assunzione eccessiva di medicinale, o di visite fuori orario senza giusto motivo, o simili.  E non ha valore prevalente nemmeno una richiesta che attenga alla sfera dei diritti di un’altra persona: ad esempio, il rifiuto di una trasfusione di sangue relativa al proprio figlio minore  (con ciò si offre un principio di risposta anche in ordine alla terza situazione considerata in astratto, e cioè alla richiesta che provenga da un terzo). 

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 9)   I “propri valori” Ma gli interrogativi posti dall’art. 8 non sono esauriti. Se è abbastanza agevole trovare uno spazio alla clausola di coscienza quando la richiesta contrasta con  i  “principi  etici  della  professione”  (ed  a maggior  ragione  con  i  diritti  fondamentali  della persona, tutelati da norme di rango superiore), più difficile è la risposta quando la richiesta sia in contrasto con i “valori” propri dell’infermiere.   Per evitare che questa locuzione rappresenti un doppione della precedente, è giocoforza supporre che  questi  valori  siano  diversi  da  quelli  assunti  dal  CD,  e  cioè  siano  valori  personali,  anziché oggettivi o universali.   Anche  la congiunzione “e”, che  lega principi etici e valori propri,  sembra voler dire che valori non  rientranti  fra quelli assunti dal CD non sono, di per sé, da prendere  in considerazione.  Se così è ‐ e la logica non consente altra interpretazione ‐ questa parte dell’art. 8 finisce con l’essere vuota di contenuto effettivo. In effetti,  ricapitolando quanto sin qui detto, abbiamo visto  (par. 3) che  l’obiezione di coscienza non può essere  invocata al di  fuori dei casi espressamente considerati dalla  legge; e  la modifica apportata  dal  nuovo  CD  rispetto  a  quello  del  1999  ne  dimostra  la  consapevolezza.    Abbiamo ritenuto, al contrario, che l’infermiere può utilmente invocare i “principi etici della professione”, e che tali principi gli offrono scudo contro le richieste che vanno contro tali principi.  Non sembra ‐ a giudizio di chi scrive ‐ che vi sia spazio per dei “valori” soggettivi che non ricevano già copertura dai principi  etici:  ove  si  pensasse  diversamente,  si  aprirebbe  la  strada  non  a  ulteriori  valori, ma  a semplici convinzioni individuali, per quanto radicate e forti nel loro portatore. La  grande  ricchezza  ed  articolazione  del  CD  rende  difficile  ipotizzare  una  richiesta  “ingiusta” (definiamola  in  tal modo per brevità di  linguaggio) alla quale non  sia possibile opporre  il  rifiuto utilizzando  il CD,  senza necessità di  ricorrere  ad  altre  giustificazioni  soggettive:    la  richiesta,  ad esempio,  di  un  trattamento  sbrigativo  o  poco  diligente  nei  confronti  di  una  persona  perché  si tratta di un delinquente, o di un anziano, o di un nullatenente, o di un islamico, o di un rivoltoso, o simili, trova già ampio contrasto nei principi di equità e giustizia, contemplati nell’art. 4.   Lo stesso può dirsi per una  richiesta di eccessivo  rigore  (ad esempio  in  tema di visite) perché  l’assistito è omosessuale o convivente o seguace di altra confessione religiosa. Ancora meno  la clausola di coscienza può giustificare un rifiuto di esecuzione quando  la richiesta attiene ad uno dei diritti fondamentali, in particolare nella delicata materia del fine vita.  In questa materia, che richiede un supplemento di valutazione specifica, il CD enuncia dei principi di grande rilievo negli artt. 36 e 37, già ricordati: per cui, o la richiesta (di un terzo) va in direzione contraria alla volontà dell’assistito, ed  in  tal  caso è  sufficiente  invocare  i diritti  fondamentali ed  i principi etici contenuti nel CD;  ovvero è l’infermiere che ritiene di non poter dare esecuzione alla volontà dell’assistito, ed allora i suoi “valori” personali non possono prevalere sull’obbligo professionale di rispettare “la concezione da lui [dall’assistito] espressa della qualità della vita”.  10)  La “qualità della vita” L’art. 36 del CD,  la cui disamina è  indispensabile al  fine di completare  le valutazioni relative alla clausola di coscienza, risente dell’ampio dibattito che è in corso da tempo sulla “qualità della vita”, che espressamente richiama. I termini essenziali del dibattito sono noti, ma può essere utili richiamarli sinteticamente. Innanzi tutto, si sta affermando la consapevolezza che la morte non è un fatto istantaneo, ma un processo.    L’essere  umano  non muore  tutto  nello  stesso momento.    Alcune  sue  parti  possono  necrotizzarsi prima che si verifichi  la morte, quale oggi  individuata nel momento  in cui  l’attività cerebrale è del tutto spenta; altre continuano a vivere dopo la medesima, come i capelli, le unghie ed altro ancora.  

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Dunque il momento della morte è convenzionale.  E di riflesso è convenzionale la nozione di “vita” che la precede.  Di qui la possibilità di nozioni diverse dell’essenza della vita. Secondo un certo orientamento di pensiero, la vita è sacra ed inviolabile a qualunque livello essa si esprima.   La vita dell’essere umano è un  investimento di Dio, e perciò va preservata sempre,  in qualsiasi  forma  essa  si  manifesti.    Essendo  sacra,  in  quanto  dono  ab  externo,  la  vita  non  è disponibile  nemmeno  dal  suo  titolare. Questa  concezione  intende  la  vita  come  “vita  biologica” (per i Greci: “zoé”).  E’ vita quella di un organismo che funziona, non importa a quale regime.   Secondo un diverso orientamento, la vita è essenzialmente “relazione”.  Prescindendo da un’ottica atea, ed anche accettando  l’impostazione religiosa che vede nella vita un  investimento di Dio,  la vita  umana  è  il  culmine  della  creazione,  e  quindi  non  è  solamente  il  funzionamento  di  un organismo, ma è lo specifico che lo distingue dagli altri organismi.  La vita dell’uomo (e ovviamente della  donna)  è  la  narrazione  della  sua  storia,  del  suo  carattere,  delle  sue  aspirazioni,  dei  suoi progetti, del  suo  sentire, delle  sue  relazioni.   Si  tratta non di una vita biologica, ma di una vita “biografica” (per  i Greci: “bios”).  Mentre per  la precedente concezione è rilevante essere  in vita, per questa è  significativo avere una vita.   Per conseguenza,  la vita è  inviolabile  finché   è  storia.  Dopo, essa rimane inviolabile dai terzi, ma diventa rinunciabile dal suo titolare.       11)  Il diritto e le strategie di convivenza Il conflitto tra le due etiche non è componibile sul piano filosofico.  “Sacralità” della vita e “qualità” della  vita  riflettono  visioni del mondo  irriducibili, postulati non dimostrabili  e quindi  inidonei  a prevalere  l’uno sull’altro. Entrambe  le etiche assumono come valore primario  la dignità suprema della  vita. Ma divergono non appena  scendono a  specificare di quale  vita  si  sta parlando.   E  la nozione di vita, come si è detto, è diventata convenzionale. Né  una  legge  ordinaria,  né  tanto  meno  un  codice  deontologico  hanno  titolo  per  prendere posizione al riguardo.  Compito del diritto, in ambiti relativi ai principi fondamentali dell’esistenza, non è quello di sancire  il primato di una o di un’altra visione del mondo, ma quello di elaborare delle  “strategie  di  convivenza”.    Se  nessuna  di  esse  può  dimostrare  la  propria  preferibilità,    il possibile punto di equilibrio non può risiedere che nell’affidare al singolo la scelta, e nel tutelarla contro ogni pretesa contraria. A chi afferma  la sacralità della vita, quale che sia  il regime al quale essa è ridotta, nessuno potrà imporre  che  quella  vita  non  è  degna  di  essere  vissuta,  e  quindi  può  essere  soppressa.    A  chi, viceversa, rifiuta una vita che non è più storia né relazione, ma solamente condizione vegetativa o intollerabilmente  dolorosa,  nessuno  potrà  imporre  che  quella  vita  deve  essere  comunque preservata anche contro il suo volere. Se il diritto non deve far propria alcuna etica e non deve essere servente di alcuna ideologia, allora il diritto può e deve accordare tutela all’unico bene non controvertibile, e cioè la libertà di opzione del singolo individuo tra le varie visioni etiche. Il codice deontologico, nel richiedere la tutela della volontà dell’assistito in merito alla concezione da  lui  espressa  sulla  qualità  della  vita,  vuoi  attualmente  (art.  36),  vuoi  in  precedenza  (art.  37), mostra di uniformarsi a questa equilibrata saggezza.  E assumendo questa linea a “principio etico” della professione, offre un’indicazione esauriente per  risolvere  i problemi che possono scaturire dalla clausola di coscienza in questa delicata materia.      

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Tavola rotonda: A garanzia dei valori personali degli attori: persona assistita, professionisti  

  Barbara Chiapusso  (infermiere coordinatrice ASL TO 3 – Segretario Collegio IPASVi di Torino)   Grazie, professore. Sicuramente è  riuscito a  creare  la piattaforma  sulla quale 

adesso  ragioneremo  con  i partecipanti alla Tavola  rotonda. Ho  cercato di  riassumere quelli  che sono  i  concetti  importanti  emersi  durante  la  sua  relazione,  concetti  che  ora  svilupperemo.  In particolare  la volontà dell’assistito,  il primato dell’autodeterminazione o  libertà e – come  lei ha giustamente sottolineato – il conflitto e soprattutto le visioni delle due etiche, etica come sacralità della  vita,  etica  come  qualità  della  vita  e  quindi  essere  in  vita  e  avere  una  vita.  Di  questo  la ringrazio molto.  Comincerei invitando – in mero ordine alfabetico – i partecipanti alla Tavola rotonda: la signorina Rosalia  Buttà,  coordinatrice  infermieristica;  il  dottor  Francesco  Casile,  operatore  professionale dirigente;  il dottor Ottavio Davini, direttore sanitario di questa Azienda;  il dottor avvocato Dario Gamba, consulente legale del nostro Collegio infermieristico; il professor Maurizio Mori, direttore del master di bioetica dell’Università di Torino;  la dottoressa Cinzia Sanserverino,  tutor clinico e docente  di  infermieristica  ed  infine  il  professor  don  Giuseppe  Zeppegno,  direttore  del master universitario in bioetica della Facoltà Teologica di Torino.  

  Desidero focalizzare  l’attenzione su un aspetto  importante: nel momento  in cui ci avviciniamo al tema dell’etica – e soprattutto ci avviciniamo al tema dell’etica della cura – cerchiamo in qualche modo di sfidare  il dogmatismo della ragione. Noi siamo abituati, come esseri umani, a ragionare per semplificazione e cerchiamo sempre delle risposte univoche, delle regole che ci permettano di 

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poter così rispondere ai problemi che  incontriamo nella pratica. In realtà, come è stato detto dal professor Fassone, oggi risposte  intese come certezze non riusciremo a darne. Tanto è vero che l’obiettivo di questa Tavola rotonda è proprio quello di fissare un time‐out per ragionare su temi così  complessi e poco  inclini  ad una  soluzione definitiva,  consentendoci di portare nelle nostre realtà operative i contenuti che emergeranno.  Dunque, obiezione di coscienza. Nel momento  in cui parliamo di obiezione di coscienza  la nostra mente  va  alla  legge  194  o  anche  legge  meglio  conosciuta  come  “interruzione  volontaria  di gravidanza”.  Tutto  ci  sembra  apparentemente  chiaro  e  giuridicamente  tutelato:  abbiamo  una legge che dice come dobbiamo comportarci.  In  realtà non  sembrerebbe essere così e adesso  lo chiederemo in modo particolare all’avvocato Gamba. Tanto è vero che, facendo riferimento all’art. 9  della  legge  194  –  in  cui  vengono  suddivise  le  procedure  e  attività  dirette  a  determinare l’interruzione  di  gravidanza  da  quelle  assistenziali  antecedenti  e  conseguenti  all’intervento  – cercheremo  di  capire,  attraverso  il  suo  intervento,  quali  siano  oggi  le  interpretazioni  più consolidate. Anche perché, durante la mia attività svolta in Collegio, non nascondo di aver ricevuto delle domande da parte di colleghi che chiedevano quando ci si possa avvalere dell’obiezione di coscienza e quando invece no. Quindi, interpretazione restrittiva o interpretazione estensiva?  

   Dario  Gamba  (Avvocato, Consulente legale Collegio IPASVI di Torino)   In effetti questo è un grosso problema. Esso nasce dal  fatto che  il diritto vivente  su questo  tema è  abbastanza  latitante, nel  senso  che è un  tema 

che, per  la sua complessità,  lascerebbe  intendere che ci  siano centinaia di precedenti giudiziari. Trattasi del reato di chi si rifiuta di prestare assistenza ad un paziente che ne ha diritto in base al prima  citato  art.  32  della  Costituzione:  il  paziente  pretensivo  chiede,  autodeterminandosi,  un servizio;  ha  il  diritto  ad  abortire  perché  glielo  consente  la  legge,  un  diritto  costituzionalmente garantito  perché  si  fa  risalire  all’art.  32  della  Costituzione.  L’operatore  ha  un  altro  diritto costituzionalmente  garantito,  che  è  quello  di  esprimere  liberamente  e  di  comportarsi  di conseguenza in relazione al proprio modo di pensare e al proprio impianto ideologico. Ebbene, la contemperazione di questi due  interessi è  il problema giuridico generale e bisogna decidere,  in termini calcistici, chi vince. La legge sull’obiezione di coscienza lo ha fatto, ma lo ha fatto in termini non esaustivi, forse perché quando il legislatore si occupa di un tema così pregnante subentra una sorta di remora. Noi abbiamo diverse  leggi nel nostro ordinamento che hanno un  incipit aperto, cioè  lasciano al diritto vivente – ossia a ciò che accade  in concreto –  l’arduo compito di porre  il punto, lo stato dell’arte. È evidente che tale punto cambi in modo estremamente repentino. Da un giorno all’altro, da un posto all’altro  io posso ottenere un precedente giudiziario che mi sposta  i termini del discorso. Questo  relativismo assoluto  lasciato da uno  spazio normativo  sicuramente non aiuta la certezza del diritto. Infatti, “gli atti necessariamente diretti a provocare l’interruzione volontaria  di  gravidanza”  è  la  stessa  dicitura  che  viene  ripresa  dalla  legge  sulla  procreazione medicalmente assistita, legge molto più recente. Ma, anche in questo caso, il legislatore non se la sente di andare oltre. Riprende l’identica terminologia che aveva già creato vent’anni di dibattito e afferma:  “si  può  obiettare  agli  atti  che  sono  necessari  e  diretti  a  determinare  la  procreazione assistita”,  rimandando  al dibattito  culturale  e  giuridico,  rimandando,  in  sostanza,  all’attività  sul campo.  Noi  siamo,  da  questo  punto  di  vista,  appesi  ad  una  sentenza.  L’unico  precedente 

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giudiziario che c’è stato in materia di individuazione di “quali siano gli atti ai quali si può obiettare oppure no”, ai sensi dell’art. 9 della  legge sull’IVG, è stata una sentenza del 1983 del Pretore di Penne.  È  l’unico  precedente  giudiziario  che  abbiamo.  Il  Pretore  di  Penne  dice:  “giustissimo condannare  –  siamo  in  ambito  penale  –  per  omissione  di  atti  d’ufficio,  328  del  codice  penale, un’infermiera che  si è  rifiutata di preparare  il campo  sterile per  l’inserimento di una candeletta, quella dilatatoria, atto che si fa in vista dell’interruzione volontaria di gravidanza.”  Questo è  il Pretore di Penne, nel 1983. Poi più nulla. È lo stesso Pretore che aveva fatto  la prima sentenza dove imponeva ad  un’ ASL di somministrare la cura Di Bella.   La  cosa  stupefacente  è  che  poi  non  è  successo  più  niente.  È mai  possibile  che  non  si  sia  più ripresentato  il problema e non sia stato portato nelle aule di giustizia? Perché questo è un reato perseguibile  d’ufficio.  Qualsiasi magistrato,  qualsiasi  PM  che  venga  a  conoscenza  –  tramite  la Direzione  sanitaria  o  per  via  di  una  lettera  anonima  –  del  fatto  che  qualcuno  si  è  rifiutato  di compiere  quegli  atti  assistenziali  di  contorno  che  devono  essere  fatti  nell’IVG  –  interpretando estensivamente  la norma dell’art. 9 – deve esercitare  l’azione penale e  sottoporre  il  sanitario a processo. Non è successo più nulla, tranne che nel 1983.  L’altro fronte che si sarebbe potuto aprire, ma che non si è aperto, è quello davanti al giudice del lavoro, perché è evidente che se sono inserito in un contesto lavorativo pubblicistico devo erogare il  servizio.  Se  mi  rifiuto  di  eseguire  un  ordine  del  superiore  gerarchico  vengo  sottoposto immediatamente  a  procedimento  disciplinare.  Come mai  non  ci  sono  sentenze  dei  giudici  del lavoro  aditi  da  chi  veniva  ingiustamente  licenziato,  sanzionato  disciplinarmente  perché  aveva interpretato troppo estensivamente questa norma sugli atti avverso i quali si può fare obiezione di coscienza? Anche questo è un mistero. Forse perché il problema è così scottante che nessuno se la sente di stressarlo fino alle estreme conseguenze, perché poi, dal punto di vista giuslavoristico, si trova  il  sostituto  che  risolve  il problema. Dal punto di vista penalistico,  se non è  l’interessato a denunciare, ebbene, forse la Procura della Repubblica è impegnata in cose ritenute più importanti come le stragi, la mafia e quant’altro, e non ha la sensibilità di partire d’ufficio su una questione di questo tipo.  Queste possono essere  le  ragioni  che determinano questo diritto  vivente  così  latitante. Ripeto: l’unico  precedente  che  abbiamo  è  quello  del  Pretore  di  Penne  che  dice  “il  campo  sterile  va preparato”.  E  tutto  il  resto? Ci  sono  notizie  di  obiezione  di  coscienza  esercitate  sul  prelievo  di sangue finalizzato all’interruzione di gravidanza e tutta una serie di altri atti che sono di contorno, ma  sono  inequivocabilmente  all’interno  di  un  procedimento  di  IVG,  così  come  la  stessa preparazione del letto è all’interno di un procedimento di IVG.  Che cos’è dunque assistenziale, prodromico e successivo? Che cos’è un atto diretto?  Nessuno ce  lo dice. Lo dobbiamo  individuare al momento e  sarà quel povero giudice che dovrà stabilire  qual  è  l’equilibrio.  Noi  abbiamo  un  nocciolo,  “  procedure  e  attività  specificamente  e necessariamente  dirette  a  determinare  l’interruzione  della  gravidanza”  –  IVG,  procreazione medicalmente assistita – e poi abbiamo un contorno molto sfumato, di difficile  individuazione. Si tratterà di porre – anche qui  in termini un po’ calcistici, ma efficaci –  il giusto equilibrio tra quei due interessi contrapposti: quello del paziente ad essere assistito e quello dell’operatore ad agire. E  sarà  probabilmente  oggetto  di  future  sentenze,  sempre  che  il  problema  assurga  a  livello giudiziario. Comunque sia, oggi registriamo un vuoto abbastanza assoluto.       

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Barbara Chiapusso  (infermiere coordinatrice ASL TO 3 – Segretario Collegio IPASVi di Torino)  È come  immaginavo, anche perché, per preparare i contenuti di questa Tavola rotonda,  ho  letto  del materiale  in merito.  Sapevo  che  non  ci  sarebbe  stata un’interpretazione univoca che, in qualche modo, ci avrebbe potuto aiutare nel 

dire  “questo  lo  posso  fare  e  questo  non  lo  posso  fare”  e  mi  pare  di  capire  che  tu  l’abbia confermato.   

  Dario Gamba (Avvocato, Consulente legale Collegio IPASVI di Torino)  Sì.  In  termini  sanzionatori  si può dire che  laddove non  c’è  sanzione non  c’è responsabilità,  e quindi  si potrebbe dire  che è una  zona  commandos, dove comunque  la  scelta  è  una  scelta  personale,  soggettiva,  seguendo  i  propri 

valori ed  il rischio concreto – da un punto di vista giudiziario – statisticamente è vicino allo zero. Non è certamente  la mia un’istigazione a delinquere. È soltanto un registrare uno stato dell’arte tecnico‐pratico,  tutto  forense. Poi  ci  saranno  sicuramente altri  argomenti  che emergeranno nel corso della Tavola rotonda.  

  Barbara Chiapusso  (infermiere coordinatrice ASL TO 3 – Segretario Collegio IPASVi di Torino)  Vale la pena sottolineare come, pur essendo un terreno giuridicamente protetto, sia  comunque  un  terreno  friabile,  nel  senso  che  siamo  partiti  dall’obiezione proprio  perché  era  giuridicamente  tutelata,  e  in  realtà  risposte  univoche  non 

credo  riusciremo  a  portarle  a  casa.  Proprio  perché  non  riusciamo  a  portare  a  casa un’interpretazione univoca da un punto di vista giuridico, do la parola al professor Zeppegno e al professor Mori. Quali  possono  essere  le  indicazioni  che  la  disciplina  dell’etica  può  fornirci  per cercare di superare questi eventuali conflitti?   

  Giuseppe Zeppegno  (Direttore  scientifico  del  Master  Universitario  in  Bioetica  della  Facoltà Teologica)  Sottolineo,  in  riferimento  al  precedente  intervento,  la  difficoltà  che  l’art.  9 della legge 194 pone per gli obiettori di coscienza, in quanto può essere facile 

per un obiettore di coscienza dare assistenza conseguente all’intervento:  in questo caso non c’è più  il  problema  dell’aborto, ma  di  una  donna  che  soffre  e  che  quindi  va  aiutata.  È molto  più problematica  invece  la  dimensione  antecedente  e  in  questo  senso  nel  1983  ci  fu  un  altro 

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pronunciamento: è  la  sentenza 428 del Consiglio di  Stato  che affermò  la possibilità da parte di operatori sanitari di non eseguire esami di sangue preordinati ad un  intervento di  interruzione di gravidanza. Però, come veniva giustamente detto, sono situazioni non sufficientemente legiferate e quindi lasciano sempre molto spazio all’interpretazione dei singoli giudici e spesso non si ricorre al giudice,  in questi  casi. C’è però un’esigenza  che mi pare  fondante e  fondamentale,  che deve coinvolgere  tutti  gli  operatori  sanitari  ed  è  cioè  quella  di  poter  agire  secondo  coscienza.  Cosa significa agire secondo coscienza? Significa avere  la disponibilità nel poter  fare  riferimento al proprio mondo valoriale. Chi non  fa riferimento al proprio mondo valoriale e agisce indipendentemente dalla sua coscienza, credo che rischi di perdere di dignità e di  libertà.  In questo senso mi pare particolarmente utile  l’art. 8 del vostro recente Codice deontologico, perché lo considero attento alla situazione di conflitto che si può venire a generare. Il conflitto, se portato alle estreme conseguenze, rischia di provocare delle fratture  estremamente  gravi  che  possono  essere molto  dannose  nel  caso  dell’interruzione  di gravidanza per la donna che ha scelto questa strategia, ma anche per l’operatore sanitario.  Ritengo sia  importante portare alla vostra attenzione che  il Comitato Nazionale per  la Bioetica ci viene  in  soccorso  con  il  pronunciamento  sulla  contraccezione  di  emergenza  del  2004,  là  dove indica  che  l’operatore non  favorevole a  certe procedure deve  comunque dialogare –  così  come dice l’art. 8 del vostro Codice – fornendo – dice il Comitato Nazionale per la Bioetica – “alla donna una  informazione completa circa  il ricorso ai prodotti  in oggetto e ai  loro possibili meccanismi di azione”.  È  un modo  – mi  pare  utile  –  per  interagire,  per  sostenere  le  proprie  ragioni  e  per ascoltare,  nel  dialogo,  le  ragioni  dell’altro.  Questo  è  rispettoso  della  dignità  personale dell’operatore e della persona che non condivide  le  idee espresse dalla coscienza dell’operatore. Certamente,  in  ogni  struttura  sanitaria  abbiamo  altre  figure  che  possono  interagire,  a  cui l’operatore che ha manifestato una “clausola di coscienza” può delegare l’assistenza della donna. Mi rendo conto che questo provochi comunque una frattura. Allora cito Giovanni Fornero che  in un testo del 2005 intitolato Bioetica cattolica e bioetica laica segnala  che nella società multietnica e multiculturale è difficile trovare sempre valori condivisibili. Le diverse opinioni non possono fare a meno  di  coesistere  e  dialogare,  avvertendo  il  bisogno  di  un  dialogo  che  non  sia  una  giusta posizione  di monologhi, ma,  come  aveva  già  sostenuto  Scarpelli,  un  laboratorio  in  cui  principi differenti possono infine confrontarsi senz’odio filosofico e teologico. Credo sia questa la strategia. L’etica non sempre aiuta a risolvere i conflitti, ma può attenuarli e trovare una soluzione dialogica, rispettosa delle alterità che sono in dialogo.   

Maurizio Mori  (Direttore del Master di Bioetica dell’Università di Torino)   Io  la  vedo  un  po’  diversamente,  e  mi  scuso  se  non  farò  riferimento, volontariamente,  né  a  codici  né  a  sentenze  né  a  comitati.  Secondo me  il problema di fondo è quello di prendere atto di due considerazioni: la prima è che  il Codice deontologico, dal mio punto di vista, non è, come è stato detto 

prima, “il massimo etico espresso dalla professione”.  Io direi che è una media bassa di ciò che è espresso dalla professione, perché l’etica non è racchiusa nel Codice deontologico. L’ideale morale è qualcosa di più, perché altrimenti  i codici, se fossero già al massimo, non evolverebbero. Sono una media per mettere d’accordo una professione su quel che è l’etica professionale. Senz’altro il codice, in generale, è probabilmente più avanti di ciò che è il diritto – che vale per tutti – il quale, probabilmente,  è  sito  un  po’  più  in  basso.  I  codici  si  rifanno,  giustamente,  perché  c’è  una 

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evoluzione  della medicina.  Detto  questo,  oggi  il  problema  di  fondo  è  il  seguente:  noi  stiamo vivendo  la rivoluzione biomedica. Questo porta a dei cambiamenti straordinari nella medicina e, conseguentemente, porta, ad esempio, al nuovo ruolo che gli infermieri ricoprono nella medicina. Essi hanno acquisito una posizione nuova rispetto al passato e devono acquisirne consapevolezza così da agire in conseguenza di ciò. Invece noi continuiamo a ragionare come se fossero ancora gli infermieri di cent’anni fa. Questo discorso ci conduce ad un punto fondamentale sul piano etico, e cioè: qual è il valore primario nella medicina di oggi? Credo che il valore primario – su cui tutti noi dovremmo  perseverare  –  sia  il  fornire  e  garantire  i  servizi  al  paziente.  La medicina  è  fatta per garantire servizi ai pazienti, clienti, cittadini, chiamateli come volete, però a coloro che hanno delle esigenze e che richiedono la soluzione di tali esigenze. Se partiamo da questo punto di vista, credo che  il problema della “clausola di coscienza” o dell’obiezione di coscienza sia una questione che assume carattere secondario, limitato eventualmente a pochi problemi, perché il cittadino che va in ospedale deve essere sicuro di  trovarsi di  fronte all’erogazione del servizio. Ora, noi abbiamo avuto,  inizialmente,  nel  caso  dell’aborto,  un  solo  caso  specifico.  Si  pensava  fosse  una  piaga purulenta  da  tenere  limitata  e  forse  da  isolare:  si  è  data  l’obiezione  di  coscienza.  Tra  l’altro, secondo me, l’obiezione di coscienza era probabilmente giusto concederla a chi si era già iscritto a Medicina  ed  era medico  prima  dell’introduzione  dell’obiezione  –  trovandosi  cambiata  la  legge rispetto  alla  sua  iscrizione  alla  Facoltà  –, ma  in  seguito non  riesco più  a  comprenderla, perché quando una persona  si  iscrive  a Medicina è  consapevole del  fatto  che  l’aborto  è  incluso  tra  le pratiche mediche. Pertanto, mi riesce oscuro il concetto che, chi oggi si iscrive a Medicina, debba avere questa sorta di privilegio. Comunque  trattasi di  legge ed  io  la accetto, ma  la  rimetterei  in discussione. Il problema di fondo sta nel fatto che queste obiezioni di coscienza, che prima erano limitate ad un caso  solo, oggi  si  stanno moltiplicando. Questo  ingenera un problema, perché  se l’operatore deve rispettare  la propria coscienza a discapito dell’erogazione del pubblico servizio, allora  dovremmo  aprire  un    discorso  per  andare  ad  esaminare  quanto  queste  coscienze  siano effettivamente rispondenti e accettino un dialogo. Non amo  la dizione “clausola di coscienza”, e ritengo che anche giuridicamente vi siano delle difficoltà ad accettarla. Sono del parere che chi ha degli ideali etici debba essere disposto all’obiezione civile, altrimenti è come chiedere uno sconto in base a proprie convinzioni che uno chiama “di coscienza”, ma chi ci dice che non siano tabù o superstizioni  inveterate proprie dell’individuo? Se un Testimone di Geova diventasse medico od infermiere  potrebbe  dire:  “voglio  l’obiezione  di  coscienza  sul  problema  della  trasfusione  di sangue”.  Ciascuno  potrebbe  vantare  le  proprie  questioni.  Affermiamo  di  essere  in  grado  di contenere  le questioni razziali o di religione, ma, badate bene, è sufficiente che vi sia un gruppo ben organizzato che cominci a diffondere insistentemente determinate discriminazioni e si rischia di  generare  ulteriori  obiezioni  di  coscienza.  Il  punto  di  fondo  è  questo:  se  una  persona  vuole difendere un alto valore morale, esiste  la semplice disobbedienza civile, non serve  l’obiezione di coscienza. La disobbedienza civile è un atto in cui si afferma: “io non faccio questo servizio e pago le conseguenze”. Non si riesce a comprendere perché uno dovrebbe avere degli sconti.  Io credo che dal punto di vista etico questo sia molto più produttivo e porterebbe ad un reale dibattito che non  la  richiesta di alcuni gruppi organizzati alla  ricerca dello scontro. Dico questo pensando alla legge oggi in discussione in Parlamento sulla questione dell’alimentazione o idratazione artificiale. Domani  uno  potrebbe metterci  anche  la  ventilazione  ed  innumerevoli  altre  questioni.  E,  se  è proprio  vero  che  ciascuno  deve  rispondere  solo  alla  propria  coscienza,  avremo  ogni  genere  di obiezione, a seconda delle singole persone, gli arancioni, i buddisti, le obiezioni di tipo alimentare. In cucina potremmo avere chi obietta: “io non cucino i cibi con la carne” – ed io sarei favorevole, visto che credo che il vegetarianesimo sia un dovere morale – o potremmo trovarci di fronte le più svariate questioni. Mi rendo conto di sostenere degli argomenti che possono risultare controversi, ma credo sia giusto cominciare a riflettere anche su questi aspetti. Grazie. 

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  Barbara Chiapusso  (infermiere coordinatrice ASL TO 3 – Segretario Collegio IPASVi di Torino)  Mi pare di aver capito che ci sono due posizioni che si integrano per alcuni versi e per altri invece si discostano. Questo ci permette di rivolgerci al dottor Davini, anche  perché  i  precedenti  relatori  hanno  affermato  che  il  cittadino  deve 

ricevere  un  servizio.  Chi  si  iscrive  alla  Facoltà  di Medicina  dovrebbe  sapere  cosa  andrà  a  fare, diceva  il  professor Mori,  ed  il  professor  Zeppegno  puntualizzava  che  c’è  anche  la  possibilità, viceversa, di delegare l’assistenza.  Ritengo  che  lei,  dottor  Davini,  grazie  al  suo  campo  d’azione,  possa  essere  assunto,  in  questo momento, ad un ruolo un po’ più esterno di spettatore, e proprio da spettatore chiediamo – dal punto di vista istituzionale – quali meccanismi operativi possono essere messi in atto per facilitare la  gestione  di  questi  conflitti,  che  per  il  momento  erano  ancora  focalizzati  sull’obiezione  di coscienza, anche se in realtà siamo già andati all’interno del concetto della “clausola di coscienza”.   

 Ottavio Davini  (Direttore Sanitario AOU S. Giovanni Battista di Torino)  Innanzi  tutto  trovo  che  tutte  le  sollecitazioni  siano arrivate dalla bellissima introduzione del professor Fassone, che ho apprezzato molto.  Dai dubbi che le norme e la giurisprudenza trascinano nonché dalle diversità 

di  opinioni  del mondo  eticistico,  è  curioso  che  alla  fine  io  debba  cercare  di mediare  il  tutto. Tuttavia ci sta, nella misura in cui le istituzioni devono gestire i problemi nel concreto, quindi porsi di fronte ad un percorso di gestione di questo genere di problematiche.  Ho apprezzato nelle considerazioni che  faceva  il professor Fassone una parola che ha usato nel dire come, secondo lui, bisognerebbe affrontare questi temi, ed è la parola umiltà. Tento di fare un’introduzione per dare una risposta che sia coerente, perché è evidente che molte questioni, da qualunque punto di vista noi le si analizzi – sia dal punto di vista etico, sia dal punto di  vista  filosofico,  politico,  giuridico,  scientifico  –  non  sono  univoche  nel  senso  che  sussistono interpretazioni o opinioni differenti, molto articolate, ad esempio sul fine vita e inizio vita.  Credo  che questo  sia da porre  in  relazione – mi  riaggancio ad una  considerazione  che  faceva  il professor Mori sull’evoluzione dello scenario biomedico – ai cambiamenti all’interno della scienza e al fatto che le conoscenze aumentano e si moltiplicano. Secondo me è abbastanza chiaro – direi scontato –  il concetto che  l’etica non è  immutabile, ma  in qualche modo è  figlia dell’evoluzione della  società  e  dei  tempi.  Se  pensate  a  ciò  che  era  considerato  etico  qualche  secolo  fa probabilmente  inorridireste. Basta far mente  locale su alcuni episodi della nostra storia. Oggi c’è stata una grossa evoluzione, molte cose sono cambiate. Cito un paio di considerazioni di un  libro letto di recente e che ho apprezzato. Si  intitola “I due dogmi”, di Paolo Vineis e Roberto Satolli. Vineis è un professore di epidemiologia di Torino che  lavora a Londra, e non è  il suo primo  libro sull’argomento. Egli sollecita una visione non  integralista, sollecita  fortemente al dialogo perché molte questioni sul tappeto sono – per dirla con un anglicismo – “fuzzy”, cioè indistinte, non ben determinabili. Un  esempio:  probabilmente molti  di  noi  credono  ancora  che  vi  siano  differenze genetiche tra  le razze. La cosa non è vera, nel senso che analizzando  il genoma si è scoperto che non ci sono differenze genetiche tra le razze. 

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Il  concetto  di morte,  lo  ha  detto  prima  il  professor  Fassone,  si  è modificato  enormemente nel corso  degli  anni.  Possiamo  discuterne,  però  abbiamo  alcune  certezze,  seppur  molte  altre  ci manchino.  Tutto questo enorme evolvere del mondo scientifico, medico, sanitario e  la sua applicazione nel contesto,  nel  quotidiano,  deve,  secondo  me  –  sto  appunto  cercando  di  offrire  una  risposta istituzionale –  impiegare  lo  strumento del dialogo, della comunicazione, dell’informazione, della formazione. Non penso  che  ci possano essere dei paletti piantati per  terra  che definiscono per tempo  immemorabile quali  sono  le  regole al di  là delle quali non  si può andare, perché  le cose cambiano, e quello che noi scopriamo quotidianamente – e gli scenari che si aprono – modificano questo  contesto.  Su un  concetto  voglio e devo essere molto  chiaro  – non  chiaro  forse  come  il professor Mori, che ha  lanciato una provocazione forte sul tema della  laurea  in medicina – ossia che  il Servizio Sanitario Nazionale ha una sua missione che è figlia dell’art. 32 della Costituzione, dalla quale noi non possiamo derogare, e cioè: noi siamo qui per garantire l’assistenza ai cittadini che si presentano nelle nostre strutture, naturalmente nel contesto delle norme e delle regole – di carattere generale o di carattere specifico – che ci ha dato  il Parlamento, per quanto  riguarda  i comportamenti nel concreto sui diversi atti professionali.  Quindi è importantissimo – ci tornerò nel proseguo del dibattito – discutere, dialogare, così come è  importante  alzare  il  livello  di  compressione  dei  temi  che  spesso  restano  vincolati  ad  una contrapposizione  ideologica  preconcetta,  mentre  invece  bisogna  entrare  nel  merito.  Però,  è imprescindibile che quello che viene garantito dal Servizio Sanitario Nazionale faccia riferimento ai principi  di  solidarismo  e  di  accesso  universale  e  che  quindi  quelle  regole  non  possano  essere toccate, altrimenti andiamo a minare il senso ed il significato dell’art. 32.  Credo  che  tra  gli  strumenti  concreti  dovremmo  lavorare  anche  sulla  possibilità  di  coinvolgere organismi od organi interni alle aziende su cui questo tipo di temi possono essere portati in quanto affini come, per esempio, il Comitato Etico o il prospettato Consiglio delle Professioni Sanitarie che più degli organi attuali, secondo me, potrebbe essere idoneo ad affrontare questi temi. Qualcuno ha già anche prospettato che i Dipartimenti comincino a diventare una sede di dibattito su questi argomenti.  

 Barbara Chiapusso  (infermiere coordinatrice ASL TO 3 – Segretario Collegio IPASVi di Torino)  Premesso  che  è  evidente  che  le  osservazioni  saranno  diverse,  è  ovvio  che  i punti di  vista  saranno differenti  su un  tema  così delicato,  su un  terreno  così friabile. Proseguiamo ponendo  la domanda nuovamente  ai professori Mori e Zeppegno, perché è pur vero  che  il  cittadino deve  ricevere un  servizio, ma è 

altrettanto  vero  che  nel  nostro  operare  quotidiano  può  accadere  di  trovarci  di  fronte  ad un’alternativa, a volte lacerante, fra il comando della legge, che impone una determinata azione, e l’imperativo  della  nostra  coscienza,  rispondente  a  motivazioni  religiose,  ma  anche  etiche  o ideologiche, secondo cui quella azione risulta  inaccettabile: si crea un conflitto  interiore. Ed ecco che  arriviamo  ad  introdurre  il  concetto  nuovo  di  “clausola  di  coscienza”  per  superare  questo conflitto. La domanda  spunto di  riflessione che pongo ai due professori è appunto come  si può conciliare  il valore espresso da noi  infermieri nell’art. 4 del Codice – che recita per l’appunto che “l’infermiere  presta  assistenza  […]  tenendo  conto  dei  valori  etici,  religiosi  e  culturali  […]  della persona” – e l’imperativo della nostra coscienza, che verosimilmente può anche trovarsi di fronte a conflitti che non sono solo – e mi scuso per  il solo –  rispetto al  tipo di alimentazione, ma che 

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appunto possono  invece  essere  conflitti  contrastanti  con quello  che è  l’imperativo della nostra coscienza.   

  Maurizio Mori  (Direttore del Master di Bioetica dell’Università di Torino)  Oggi tutti difendono la 194, ma io sono critico verso questa legge. Sono critico in molti  settori,  incluso  il  concedere  l’obiezione di  coscienza anche ai nuovi medici  che  si  iscrivono  a  Medicina.  Lo  dico  perché  insegno  filosofia,  l’ho insegnata  anche nelle  Scuole  Inferiori.  Se nel mio programma di  studi – mi 

riferisco  a  quando  insegnavo  all’Istituto Magistrale  –  c’era  da  insegnare Marx  e  Nietzsche,  li insegnavo, anche se c’è chi può dire che sono autori da non insegnare. Non dimentichiamoci che in passato non erano previsti tra ciò che si doveva  insegnare. Se si deve  insegnare De Sade  lo si insegno, e  lo stesso vale per  la filosofia di Hitler, perché Hitler ha scritto un  libro, “Mein Kampf”, nel quale è presente tutta una filosofia – repellente fin che si vuole – ma che bisogna conoscere. Analogo discorso per quanto riguarda le altre questioni. Non è che se devo insegnare un certo tipo di programma posso dire: “io faccio il filosofo, però su queste cose faccio obiezione di coscienza”. No: se mi tocca farle le faccio. Detto questo, la mia più che una provocazione era un’osservazione sulla quale discutere, anche  in prospettiva  futura. Proviamo a pensare alla  futura discussione di legge  Calabrò.  Il  Presidente  dell’Ordine  dei medici  di  Bologna  ha  dichiarato  pubblicamente  al “Corriere della Sera” che se vincesse la posizione della Fnomceo –  attualmente contraria alla legge Calabrò –  ci  sarebbe una  sorta di  scisma. Queste,  in  sintesi,  le  sue parole:  “noi non  stiamo più nell’Ordine dei medici perché ce ne andiamo”. Guardate che questo è quello che è capitato in Gran Bretagna  con  la  Royal  Medical  Association,  ed  è  capitato  anche  in  Olanda.  Quindi,  queste avvisaglie  dobbiamo  prenderle  in  seria  considerazione,  non  possiamo  continuare  a  pensare  di risolvere tutto tenendo insieme, pensando che il conflitto faccia male.  Detto questo voglio rispondere alla domanda centrale. Credo che quello che vada  fatto, come minimo, sia  incentivare azioni come queste – se non più approfondite  –  di  riflessione  sull’etica,  su  cosa  è  effettivamente  l’etica  e  cosa  noi  possiamo accettare  come  coscienza degli  infermieri. Noi partiamo  sempre dal presupposto  che basta  che uno  senta  profondamente  qualche  cosa  e  quella  è  l’etica. Ma  in  una  situazione  come  è  stata sottolineata prima dal dottor Davini – di rivoluzione della medicina, di grande cambiamento della medicina – noi dobbiamo renderci conto che  il pericolo maggiore per  l’etica sono  i tabù, sono  le cose ricevute quando eravamo bambini, sono  le  tradizioni. Se continuiamo a pensare che  l’etica siano gli  insegnamenti della nonna che diceva “esci con  il velo” o “mi raccomando non uscire,  le gonne le devi avere, i pantaloni non metterli che sono da maschi” e tutte queste altre questioni, se riteniamo  che  questa  sia  l’etica  allora  possiamo moltiplicare  le  “clausole  di  coscienza”. Ma  noi dobbiamo mettere  in discussione che cosa  sia effettivamente  l’etica, e anche  su questo ci  sono senz’altro opinioni diverse, alcune palesemente sbagliate. Io credo che, ad esempio, l’obiezione al preservativo sia profondamente sbagliata perché è un presidio legittimo per le persone.  Se noi andassimo in questa direzione, allora la “clausola di coscienza” potrà esserci, ma sarà forse una  questione  residuale  sulla  quale  possiamo  eventualmente  metterci  a  discutere.  La  mia osservazione  di  fondo  è  che  dobbiamo  tener  conto  del  bilanciamento  della  coscienza dell’operatore,  ma  questa  coscienza  dell’operatore  va  profondamente  coltivata  e  riveduta  e, dall’altra parte, si deve dare peso – grande peso – alle esigenze dell’utente. Questo è  il punto di 

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fondo, mentre ho  l’impressione che talvolta vi sia uno sbilanciamento a favore dell’operatore:  la sua coscienza non deve essere violata, dopodiché va bene tutto. Grazie.  

 Giuseppe Zeppegno  (Direttore  scientifico  del  Master  Universitario  in  Bioetica  della  Facoltà Teologica)  Innanzi tutto mi pare doveroso ribadire che di fronte al conflitto troviamo due coscienze: quella del paziente – che è  l’agente principale della gestione della sua salute, ha  il dovere di custodirla, di promuoverla – e quella dell’operatore sanitario  che  è  chiamato  a  collaborare  con  il  paziente,  naturalmente  senza 

abdicare ai suoi valori. Come fare per superare questa frattura evidente? È il vostro stesso Codice deontologico  a  venirci  in  aiuto.  Cito,  ad  esempio,  l’art.  17,  il  quale  aiuta  l’operatore  sanitario perché lo rende libero da pressioni esterne. In questo senso può, come dicevo già prima, recedere dall’alleanza  precedentemente  stabilita,  sempre  garantendo  l’incolumità  e  la  vita  dell’assistito, come recita l’art. 8. Credo sia anche particolarmente utile la possibilità manifestata dall’art. 16 di chiedere  una  consulenza  etica  perché,  evidentemente,  si  può  poi  stabilire,  ragionando  con competenze diverse, qual è la strategia più autentica per quel paziente.  Mi pare opportuno, se prima ho parlato dell’inizio vita e dell’interruzione di gravidanza, accennare al fine vita. Notiamo prima di tutto che l’art. 38 vieta ogni forma di eutanasia attiva. Ritengo anche opportuno  ricordare  gli  art.  34  e  35,  laddove  si  invita  a  contrastare  il dolore  con  la necessaria palliazione. E ancora: cito l’art. 36 che invita a valutare, in un dialogo confidente con il paziente, i rischi dovuti alla messa in opera di interventi non proporzionati od irrispettosi della sua qualità di vita. Mi pare  che  all’interno di questo quadro  ci  si possa muovere  senza particolari difficoltà e credo  che proprio  voi,  con questi  articoli,  abbiate messo dei paletti efficaci per evitare,  già dal nascere, il conflitto. In questo ambito do atto che avete fatto un lavoro molto ricco.  

  Barbara Chiapusso  (infermiere coordinatrice ASL TO 3 – Segretario Collegio IPASVi di Torino)  Forse  il punto più caldo, più difficile è proprio questo:  io  infermiere mi  faccio garante  delle  prestazioni  necessarie  per  l’incolumità  e  la  vita  dell’assistito, quindi,  come  giustamente  diceva  lei  ci  sono  due  coscienze,  due  persone: 

l’assistito e l’infermiere. Se io, infermiere, mi rendo garante dell’erogazione delle prestazioni per la vita  dell’assistito,  come  posso  però  appellarmi  alla  “clausola  di  coscienza”,  se  in  essa  scorgo principi  in contrasto con  i miei valori? Posso quindi utilizzare gli spunti  importanti che voi avete fornito. È necessario incentivare riflessioni sull’etica e questo Convegno vorrebbe essere una sorta di “là” per il futuro. Sono in programma altri momenti di incontro e di riflessione sull’etica per quel che  riguarda  la  professione  infermieristica,  il  nostro  agire  quotidiano.  Il  professor  Zeppegno parlava di consulenza etica.  Secondo voi questo è  forse  il punto di  incontro di queste due posizioni?  Il punto d’incontro  tra questo mio essere infermiere, che deve in qualche modo essere sempre garante delle prestazioni necessarie per l’incolumità e – dall’altra parte – questo appellarmi alla “clausola di coscienza” nel non voler appunto, per dei conflitti miei, erogare questo tipo di assistenza.   

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 Giuseppe Zeppegno  (Direttore  scientifico  del  Master  Universitario  in  Bioetica  della  Facoltà Teologica)  Credo che quando il conflitto c’è e viene prospettato proprio come una rottura tra  paziente  e  operatore  sanitario,  debba  intervenire  un  discorso  etico  più ampio, perché evidentemente  il conflitto non può rimanere tra  i due, pena  la sedimentazione.  I  Comitati  etici,  nelle  strutture  ospedaliere,  a  volte 

privilegiano  la sperimentazione. Ci dovrebbe essere, a mio avviso, un altro  tipo di Comitato che privilegi invece la bioetica clinica, cioè quella che si fa al letto del malato. In questo senso diventa utile costruire  insieme qualcosa, valorizzando  la diversità degli operatori, perché un problema ad oggi irrisolvibile tra i due soggetti può magari venir risolto diversamente con la collaborazione del Comitato etico.   

  Maurizio Mori  (Direttore del Master di Bioetica dell’Università di Torino)  È  giustissimo  ciò  che  affermava  sul  Comitato  etico,  però  anche  dove funzionano  i  Comitati  etici  –  non  soltanto  come  da  noi  che  funzionano unicamente  sulla  sperimentazione  clinica  –,  intendo  dove  funzionano effettivamente per la consulenza etica, dobbiamo sottolineare che il compito 

del Comitato etico è meramente consultivo. La responsabilità è poi sempre personale – del medico o dell’infermiere – e quindi  funzionano da setaccio di quelle che sono  le coscienze. Questo può essere  molto  utile.  Sono  convinto  che  il  problema  stia  tutto  nell’incolumità  e  nella  vita dell’assistito.  Amo essere netto: quando si pensa è giusto pensare con pensieri forti, non deboli, riscaldati.  Il problema è che  il cosiddetto diritto alla vita vale nel contesto sociale generale – nel senso che uno non deve cagionare la mia morte con atti violenti – ma nei contesti sanitari la vita equivale alla salute, ovvero:  zero di  salute è  la morte, non  ci piove. Zero di  salute è  la morte.  La  salute può diminuire, e quando arriva a zero quella è la non‐vita. Chiamiamola non‐vita, morte.  Prima  c’è  stata  la  bella  lezione  sulla  “vita  biografica”  e  sulla  “vita  biologica”, ma  nel  contesto sanitario vale  il diritto alla salute. Ecco perché di  fronte al Testimone di Geova che dice: “io non voglio la trasfusione”, il medico – nella tutela della salute – deve rispettare l’autodeterminazione e lo stesso deve fare l’infermiere. Gli infermieri non devono, come è già capitato, insistere affinché il paziente  faccia  la  trasfusione –  insistenza  finalizzata alla  tutela della sua vita – e poi alla  fine  lo stesso accetta pur di non continuare a sentire la tortura degli infermieri.  Questa è la mia osservazione: privilegiare la coscienza dell’assistito.  Non  dimentichiamoci  la  forza  dell’assistenza:  l’assistenza  è  proprio  il  rispetto  dei  valori  della persona, anche se io non li condivido. Quando uno studente viene da me e mi chiede una tesi su un tema che non mi interessa, io lo rispetto e gli dico: “va bene, mi aggiorno così che lei possa fare la tesi sul tema che ha scelto”. Non gli dico: “no, questo non rientra nei miei piani di studi e  lei si arrangi”. Mi è capitato l’altro giorno: uno è venuto a chiedermi una tesi su temi bioetici che sono 

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un  po’  distanti  dai  temi  da me  frequentati.  Come  insegnante  –  l’etica  dell’insegnante  –  devo privilegiare gli  interessi degli studenti. Credo che qualche cosa del genere dovrebbe essere  fatto anche dagli operatori sanitari e dagli infermieri.   

  Barbara Chiapusso  (infermiere coordinatrice ASL TO 3 – Segretario Collegio IPASVi di Torino)  Lo verificheremo adesso grazie al dottor Davini a cui chiedo se nel suo operare quotidiano ha raccolto richieste da parte degli infermieri riferite alla “clausola di coscienza”.  Se  sì,  quale  atteggiamento  ha  assunto,  ovviamente  come 

istituzione, e, in caso negativo, come si comporterebbe in una tale situazione?    

  Ottavio Davini  (Direttore Sanitario AOU S. Giovanni Battista di Torino)  Direi  che  non  abbiamo  avuto,  direttamente,  segnalazioni  in  questo  senso. Credo  però  che  la  cornice  in  cui mi  sembra  corretto  inserire  questo  tipo  di 

ipotesi  deve  essere  quella  di  considerare  la  “clausola  di  coscienza”  –  come  è  emerso  in modo abbastanza  significativo  all’interno  di  questo  dibattito  –  nei  suoi  confini  naturali,  per  la  verità anche questi un po’ indistinti, al fine di evitare un’interpretazione  troppo estensiva. Gli esempi di osservazione – non di provocazione – che ha fatto il professor Mori sono molto chiari. Si è portato l’esempio  del  Testimone  di Geova, ma  potremmo  espanderci  all’infinito,  appellandoci  in modo generico  ad  aspetti  individuali  ed  interpretazioni  soggettive  della  realtà.  Lo  dico  con  molta franchezza: nelle  istituzioni si può misurare anche questo tipo di fenomeno, per evitare posizioni di  tipo  strumentale,  nel  senso  che  potrebbe  anche  venire  comodo  –  in  un  certo  contesto  – cominciare  ad  ipotizzare  che  l’applicare  o  l’appellarsi  alla  “clausola  di  coscienza”  consente  di eliminarsi  da  una  corvée  particolare. Questo  può  essere  un  problema  che  già  si  vive  in  alcuni contesti – non in questo ospedale perché non abbiamo l’ostetricia – per l’applicazione della 194. Quello che possiamo dire è che, anche se non sono arrivati ai piani alti segnalazioni  in relazione alla  “clausola  di  coscienza”,  abbiamo  percepito  che  in  alcune  aree,  in  alcune  situazioni  poteva determinarsi un problema  su questo  tipo di  linea.  La  sensazione è  che  spesso  ci  siano  stati dei problemi di  comunicazione e qualche  segnale  in questo  senso  lo  avevamo  avuto – dico questo perché è uno dei possibili esempi, sia strumentali che di applicazione iperestensiva – dal fatto che ci  si  potrebbe  appellare  alla  “clausola  di  coscienza”  per  quel  che  riguarda  le  sperimentazioni cliniche,  non  quelle  su  animali,  naturalmente.  Questo  è  un  argomento  che  è  nitido, fortunatamente,  nel  senso  che,  nel  caso  di  quest’azienda,  il  regolamento  del  Comitato  etico interaziendale recita, in premessa: “La  sperimentazione  clinica  costituisce uno dei  compiti  istituzionali dell’azienda  ospedaliera  San Giovanni Battista e del CTO, Comitato etico e  interaziendale,  le cui attività assistenziali, espletate da strutture complesse ospedaliere e universitarie, sono di riferimento regionale e nazionale.” 

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Cioè, la sperimentazione clinica è assolutamente connaturata alla Mission di un’azienda di questo tipo, a maggior ragione da quando dal 2007 questa azienda è un’azienda ospedaliera universitaria e quindi si potrebbe dire che se questo non è un argomento che ti appassiona, con cui non vuoi imbatterti, probabilmente ci sono altre realtà in cui puoi esercitare la tua professione senza porti questo  problema.  Potrebbe  essere  un  approccio  anche  per  altre  questioni,  ma  certamente ritorneremo di nuovo ad avere una linea un po’ dura. Invece mi piacerebbe continuare con questa filosofia dialogante.  Nel caso  invece  in cui – e su questo abbiamo  fatto delle riflessioni – ci si trovasse veramente di fronte ad un’ipotesi di “clausola di coscienza”, la prima domanda da farsi, evidentemente, è se c’è una norma che regola quel contesto, quindi se in realtà non siamo nel contesto dell’obiezione, e le obiezioni di coscienza, abbiamo sentito, sono nitide, poche e abbastanza ben definite, con tutte le sfumature che ci ha presentato l’avvocato Gamba.  Ritengo  che  il  secondo  aspetto  che  debba  essere messo  in  evidenza  è  se  esiste  veramente  un rilievo eticamente sensibile che sottenga a questa domanda di “clausola di coscienza” oppure se, come  ho  detto  prima,  possono  essere  altre  le  considerazioni,  cioè  se  veramente  sussiste  un aspetto che coinvolge  l’etica e  l’interpretazione del  rapporto  tra  il paziente e chi  lo assiste od  i propri  valori  esistenziali,  cercando  anche  qui  di  considerare  che  questi  devono  essere  però riconducibili e non possono essere generici o gonfiati.  A me sembra che le considerazioni fatte dalla vostra Presidente IPASVI nel famoso commentario al Codice  Deontologico    –  che  ho  letto  –  sono  fondamentali  e  sono  quelle  che,  come  dire, definiscono, bilanciano e consentono anche di esprimere considerazioni sulla accoglibilità o sulla coerenza o meno di una “clausola di coscienza”, perché quando lei sottolinea come l’obiettivo sia di  perseguire  la  centralità  dell’assistito  nei  processi  di  cura  –  questo  significa  per  l’infermiere riconoscere la dignità in ogni fase della malattia; non vado oltre perché il testo lo conoscete meglio di me – è chiaro che l’orientamento è prevalente verso l’autodeterminazione e la libertà di scelta del paziente. Quindi è evidente che questo diventa uno di quei grandi spartiacque, di quei grandi discrimini su cui gran parte del dibattito coinvolge non soltanto le categorie professionali – medici e infermieri – ma coinvolge spesso – sentendo anche degli sproloqui – il mondo politico. In realtà lo  spartiacque  diventa  un  po’  quello,  cioè  quanto  pesa  l’autodeterminazione,  l’opinione dell’assistito rispetto alle convinzioni di chi lo assiste. Le considerazioni che sentivo sull’Ordine dei medici di Bologna personalmente mi  trovano  fortemente  in disaccordo. E non è neppure chiaro dove  potrebbero  andare.  Facendo  un  bilancio  complessivo  –  anche  in  chiave  interpretativa  sul problema della “clausola di coscienza” – è importante comprendere qual è l’equilibrio e quanto ci si debba orientare sulla persona assistita e quanto sui nostri personali convincimenti. Credo che dalla  Costituzione  in  avanti,  attraverso  tutte  le  norme  e  la  giurisprudenza  –  secondo  me abbastanza significativa –  l’orientamento, fortunatamente, sia quello di privilegiare la soggettività. Grazie.   

  Barbara Chiapusso  (infermiere coordinatrice ASL TO 3 – Segretario Collegio IPASVi di Torino)  A  proposito  di  soggettività  del  paziente  e  di  rispetto  del  paziente,  riporto nuovamente  il  discorso  dal  punto  di  vista  dell’infermiere,  chiedendo all’avvocato Gamba qual è  il valore giuridico di questa “clausola di coscienza” 

poco conosciuta, perché l’obiezione, ripeto, ha una tutela giuridica che invece la clausola non ha. 

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Insomma,  io  infermiere  voglio  esprimere  il mio  conflitto  attraverso  la  “clausola  di  coscienza”: posso esprimere questo conflitto, come posso esprimere questo mio “no” per un conflitto etico? Questo solleverà sicuramente dei problemi, però vorrei capire se posso farlo, come posso farlo e quale valore giuridico ha questo mio farlo.   

  Dario Gamba  (Avvocato, Consulente legale Collegio IPASVI di Torino)  Secondo me la “clausola di coscienza” ha una doppia lettura. È la lettura di una  norma  profondamente  sovversiva,  perché  è  una  norma  che,  se  la leggiamo bene, ha degli elementi antisistema,  rivoluzionari. È una norma 

che dice, sostanzialmente, che se l’infermiere riceve una richiesta di attività – non chiarisce se da parte  dell’ASL,  quindi  della  pubblica  utilità,  o  da  parte  del  privato:  immagino  che  pensi  più  al privato perché le richieste di attività dell’ASL, come dicevamo prima, hanno una natura di ordine di servizio e quindi sarebbe ancora più sovversivo dire che uno si può contrapporre –  in contrasto con  i principi etici della professione e con  i propri valori,  si avvale della “clausola di coscienza”. Ora, il testo precedente, per chi si ricorda il Codice deontologico, non diceva “con i propri valori”, ma “in contrasto con  i principi della professione e  la deontologia professionale o con  la coscienza personale”.  Coscienza  personale  è  un  termine  sicuramente  generale  e  trascendente.  Si  poteva pensare  che  ci  fosse un  livello dell’empireo,  in  cui  la  coscienza personale, espressione di  valori generali, coincidesse con  i principi generali dell’ordinamento giuridico e quindi con quelle norme fondamentali  pregiuridiche  che  sono  presenti  anche  nella  Costituzione.  Pertanto,  si  andava d’amore e d’accordo. Ma quando dice “con  i propri valori” sta parlando dei valori  individuali del singolo. Quindi, raccolgo la provocazione del dottor Davini su questa cosa. Mi sovviene mia nonna, piemontese. Quando  le  esponevamo  delle  questioni  su  cosa  fare,  su  come  comportarsi,  come muoversi, ecc., lei, da buona piemontese, diceva: “ascolta me, fai quello che vuoi”. Mi sembra che qui  l’approccio sia un po’ questo, ossia: “le cose  in contrasto con  i propri valori”. Se  interpretata così è una norma fortemente antisistema, sovversiva al massimo.  C’è  da  pensare  invece  che  non  sia  questa  l’interpretazione  da  dare, ma  sia  quell’altra,  ovvero un’interpretazione  più morbida,  dove  forse  la  norma  deontologica  e  la  norma  giuridica  non  si considerano a vicenda, perché o  io  ipotizzo un ego  ipertrofico da parte dello  spirito del Codice deontologico oppure dico che lavoro in un campo diverso, metagiuridico, e forse questa è l’unica spiegazione possibile. Cioè, quando si dice “clausola di coscienza” si parla di un’obiezione a 360° che, secondo  il principio di  legalità, non è assolutamente consentita.  Io eccepisco  la “clausola di coscienza”, però poi aspetto la polizia, aspetto il cellulare che viene a prendermi e, come si diceva prima, come diceva  il professor Mori, questa è obiezione civile. Va benissimo, questa è prevista, non si può dire consentita, perché da uomo di  legge nulla che è vietato dalla  legge è consentito, però  io  la  faccio  su un piano  che è un piano metagiuridico. Questa è  l’interpretazione  che può consentirmi di accettare questo articolo nell’ordinamento.  Voi, d’altronde,  avete  la prova del  fatto  che  le perplessità del  farmacista,  che  abbiamo  sentito prima, sono  le stesse del medico e dell’infermiere. Nel Codice deontologico del farmacista non è prevista  la  “clausola di  coscienza”, però anche  il  farmacista  si  chiede:  “come posso  rifiutarmi di vendere  la  cosiddetta pillola del giorno dopo?”  La norma  sull’IVG no, perché quella al massimo l’art.  9  lo  posso  invocare  sull’RU,  l’altra  pillola  –  quella  che  interviene  su  una  gravidanza conclamata  –  e  infatti  quando  si  obietta  non  si  eccepisce  la  “clausola  di  coscienza”  sull’RU.  Si 

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eccepisce  l’art.  9  della  legge  sull’interruzione  volontaria  di  gravidanza  –  per  essere  sicuri  – altrimenti c’è  il rischio del cellulare che ti aspetta. E allora  il farmacista dice: “dove mi aggrappo per non vendere questa pillola?”  In effetti è un problema aperto, nella stessa misura di chi ha  la “clausola di coscienza”.  La “clausola di coscienza”, naturalmente, non fa da scriminante, cioè non evita  la punibilità di un eventuale  reato. Questo  dal  punto  di  vista  tecnico.  D’altronde,  il  Codice  deontologico  ha  una natura ben precisa. La Commissione per  la bioetica  lo ha codificato bene, ma d’altronde era nei principi dell’ordinamento. È un regolamento, quindi, è una norma, ma è una fonte secondaria che nella  gerarchia delle  fonti  sta  sotto  le  leggi e  i decreti,  ancor più  sotto della Costituzione e dei principi  fondamentali  dell’ordinamento  giuridico. Ha  una  natura  regolamentare,  anche  se  è  un regolamento  atipico,  cioè  un  regolamento  che  ha  una  vocazione  un  po’  più  ampia  della mera regolamentazione di dettaglio. Su questo il Codice deontologico ha perso molte occasioni.  Questo – in base allo spirito dei tempi – è ciò che oggi l’infermiere può fare, può obiettare.  Altra norma che potrebbe essere estremamente irredentista è quella di quell’articolo che afferma che  l’infermiere non compensa  le carenze della  struttura. Ma  siamo nell’epoca di Brunetta! Voi provate  a  non  compensare  la  carenza  delle  strutture,  con  le  nuove  tendenze  organizzative  del sistema, per chi è dipendente pubblico: rischiate il licenziamento e la denuncia penale. Quindi, se c’è un progetto brunettiano che prevede la compensazione delle carenze strutturali, voglio vedere come  si  fa  ad  invocare  il  Codice  deontologico  per  dire:  “non  mi  becco  né  il  procedimento disciplinare né il procedimento penale”. Quella sentenza del Consiglio di Stato, prima giustamente citata, era una sentenza giuslavoristica, perché allora TAR e Consiglio di Stato  facevano pubblico impiego, pertanto era il giudice del lavoro di allora. Quindi, probabilmente, era un dipendente che era stato portato davanti alla Commissione disciplina, sanzionato e poi era finito davanti al giudice.  Sicuramente  tutti  quelli  che  lavorano  nella  Sanità  e  nell’infermieristica  hanno  provato  un momento di grande euforia quando la legge 42 ha detto che il Codice deontologico diventava uno dei  tre  riferimenti  di  responsabilità  e  di  ambito  di  attività  dell’infermiere, ma  questo  non  ha significato,  tecnicamente  –  ci  abbiamo  pensato  tanto,  ci  si  è  riflettuto  a  tutti  i  livelli  –  che finalmente  il  Codice  deontologico,  da  norma  regolamentare  –  quindi  subprimaria  –  diventava legge. Perché non  è un  rinvio  recettizio, per  cui  è diventato dello  stesso  valore. Certo,  è  stato recepito  nell’ordinamento,  ma  come  compagno  di  strada,  nel  senso  che  deve  comunque rispettare,  secondo  il  principio  di  legalità,  i  principi  fondamentali  dell’ordinamento  giuridico,  le leggi e  i decreti, quei decreti che hanno valore di  legge e che stanno sopra, che sono prevalenti, gerarchicamente  superiori. Diciamo  quindi  che  è  stato  uno  sdoganamento  sub  condicione. Ma figuriamoci se il legislatore, con il ruolo che riveste – che è quello di farsi rispettare, di garantire la legalità di un Paese – si sottopone a critiche a 360° su una norma regolamentare, su qualsiasi cosa che risponda a dei valori propri, individualistici del singolo operatore che in quel momento agisce. Sarebbe l’anarchia totale, il nichilismo completo. Il valore da attribuire ad una norma deontologica sta nel valore della norma deontologica stessa, naturalmente letta dal punto di vista della legalità. Ovviamente  posso  avere  degli  altri  approcci.  Posso  sicuramente  fare  obiezione  civile,  posso sicuramente  sottopormi  alle  inevitabili  sanzioni  che  potranno  derivare  da  una  “clausola  di coscienza” a 360°. Quindi,  in base al principio di  legalità,  la “clausola di coscienza” non può mai consentirmi di sperare in una impunità quando mi pongo di traverso rispetto a quello che le norme giuridiche  prevedono.  Il  problema  è  stabilire  quali  sono  i  limiti  delle  norme  giuridiche  e  cosa prevedono, ma questo è un altro film. 

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   Barbara Chiapusso  (infermiere coordinatrice ASL TO 3 – Segretario Collegio IPASVi di Torino)  Quindi è un po’ quella che era  l’obiezione di  coscienza,  come diceva prima  il professore:  all’obiezione  corrisponde  un  rifiuto  e  di  conseguenza  bisogna pagare, in qualche modo. 

Anche  rispetto  alla  “clausola” mi  pare  d’aver  capito  –  seppur  quando  parlano  gli  avvocati  la terminologia non sia sempre di  immediata comprensione – che sia necessario riflettere, che non sia poi questo strumento così  formidabile, perché spesso sento che viene utilizzato  in una certa maniera – “è possibile evitare di far questo perché posso avvalermi della clausola di coscienza” – e invece pare non sia così semplice e scevro di conseguenze.   

  Dario Gamba (Avvocato, Consulente legale Collegio IPASVI di Torino) Non ci sono sconti.    

   

  Barbara Chiapusso  (infermiere coordinatrice ASL TO 3 – Segretario Collegio IPASVi di Torino)  Bene. Torniamo a quanto già detto e volgiamo alla conclusione. Mi sembra che di  contenuti  ne  siano  emersi  molti  e  vorrei  soprattutto  ci  fosse  anche  la 

possibilità di  fare delle domande. Premesso che  le scelte della nostra coscienza sono veramente liberanti se fatte nella verità, e questo era un po’ quanto dicevate voi prima: che non sia un’etica quella del mercato, tabù, pregiudizi, tutto quello che è legato alle sensazioni del momento, e che non credo si possa definire etica, io chiedo a voi, professori Mori e Zeppegno, come posso capire quando  è  più  il  senso  comune  ad  orientarmi  nelle  scelte,  nelle  valutazioni,  piuttosto  che  un riferimento  etico.  Mi  rendo  conto  che  la  domanda  sia  particolare.  In  realtà  nasce  da  una riflessione, nel senso che spesso può accadere di provare un sentimento che ti fa dire “questo  lo vorrei  fare e quest’altro no”, e poi magari è  solo  senso  comune, ma non è quello  che mi guida realmente nella vita.      

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   Maurizio Mori  (Direttore del Master di Bioetica dell’Università di Torino)  Mi è  stata  rivolta una domanda da  cento milioni di euro, nel  senso  che – a ragione – è uno dei temi fondamentali. Mi  limito a qualche provocazione per cercare di  tracciare delle  linee di  riflessione.  L’etica  la prendiamo  insieme al 

latte  che  si  ciuccia  da  bambini,  sta  nel  vento,  e  non  sono  sentimenti  del momento, ma  sono sentimenti profondi, quasi di seconda pelle, per cui certe mie affermazioni – vedo in sala qualche faccia  scura –  avranno  turbato  l’animo di qualcuno.  E  va bene,  lo  so.  Il più  grande pericolo,  in un’epoca di grande cambiamento dell’etica, sono  le tradizioni, perché continuare ad avvalersi di tradizioni passate senza rileggerle e reinterpretarle significa vivere come cent’anni fa in un mondo che è totalmente nuovo. Vivere come se non ci fosse il telefono, quando tutti abbiamo il cellulare. Questo, ad esempio, è quello che è capitato nella medicina. Si continua a rifarsi ad Ippocrate, con un’etica  di  3000  anni  fa,  quando  ormai  tutto  è  cambiato  nella  medicina.  Ippocrate  è  da dimenticare,  perché  noi  dobbiamo  rivedere  i  nostri  sentimenti morali  ed  avere  delle  ragioni. Dopodiché,  l’elaborazione di queste  ragioni diventa difficile.  L’ultima  considerazione di  fondo – così  da comprendere dove sta la grande differenza fra la cosiddetta etica laica ed etica cattolica – è  che  l’etica  cattolica  parte  dall’idea  che  ci  sono  dei  divieti  assoluti,  cose  che  non  si  possono assolutamente fare per nessuna ragione. Assolutamente vuol dire che non ammettono eccezioni. Il  papa  Benedetto  XVI,  quando  è  andato  in  Africa  e  ha  scandalizzato  tanti  dicendo  che  il preservativo non è la risposta all’Aids, suscitando problemi internazionali, ha detto semplicemente una  cosa  ovvia  dal  punto  di  vista  cattolico,  perché  il  divieto  di  contraccezione,  il  divieto  di prevenzione,  il  divieto  di  fecondazione  assistita,  ecc.,  sono  divieti  assoluti  che  non  ammettono eccezioni. Se avesse detto  il contrario avrebbe sgretolato  la propria etica. Questo può piacere o non  piacere.  Io,  ovviamente,  penso  che  invece  non  esistano  divieti  assoluti,  che  tutti  i    divieti debbano essere ricontrattati. La difficoltà nostra,  il compito nostro è quello di ripensare un’etica nuova. Questa non è una cosa facile, non è un bruscolino, è una cosa complicata che bisogna fare con  calma e mi pare  che  l’Ordine  svolga delle ottime  iniziative  con questi  incontri. Questa è  la questione. In questo ci si rimette in gioco. Poi avremo gli elementi di compensazione, di dialogo, di compromesso, perché  è  giusto  averli,  è  giusto  cercare di  arrivare  a  compromessi per  litigare  il meno  possibile,  anzi,  per  andare  d’accordo, ma,  detto  questo,  il  problema  di  fondo  è  che non possiamo pensare d’aver tutti quanti ragione. Secondo me – lo dico con chiarezza – continuare a ripetere che ci sono degli assoluti è sbagliato. È una palla al piede che ci impedisce di librarci verso il  futuro.  Io  la  penso  così,  ciò  non  toglie  che  umanamente  vado  d’accordo  con  il  professor Zeppegno, ma secondo me è profondamente sbagliato.  Il nostro compito, nell’etica, è cercare di elaborare questo concetto. Non dire: “mia nonna mi ha  insegnato queste cose qui, quindi questi sono  i miei valori etici”, perché poi, alla fine, sono  i valori della nonna, e quindi noi oggi diciamo che  “le  tagliatelle della nonna  sono più buone” – ovverosia  le  tradizioni – e proprio per questo bisogna  andare  alla  ricerca  delle  radici.  Questo,  secondo  me,  è  solo  conservatorismo  da dimenticare.      

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  Giuseppe Zeppegno (Direttore  scientifico  del  Master  Universitario  in  Bioetica  della  Facoltà Teologica)  Non solo tra me e il professor Mori c’è il massimo rispetto umano, ma ci sono anche dei punti di  convergenza. Uno qual è?  In un precedente  intervento  il professor Mori ha parlato di tabù. Ora, se un operatore sanitario, e ogni uomo, 

in generale, esprimesse dei pareri semplicemente perché li ha sentiti dire o fanno parte di quella sfera  di  tabù  che  ha  paura  di  contrastare,  non  agirebbe  in  coscienza  e  quindi  perderebbe pienamente  la  sua  dignità.  Io  credo  che  sia  quindi  indispensabile  non  seguire  l’emozione  del momento, non rincorrere i tabù, ma educare, formare la propria coscienza. In questo senso credo che  la  formazione della propria  coscienza avvenga attraverso  il  confronto  fra  tutti gli uomini di buona volontà, nella ricerca costante del vero e del bene. Io sono convinto che nessuno di noi ha in  tasca  il vero ed  il bene. E qui dissento da quanto precedentemente affermato dal Prof. Mori: credo  che  ci  siano  dei  valori  assoluti  che  però  dobbiamo  ricercare  insieme,  senza  aver mai  la certezza d’aver raggiunto la completezza della nostra conoscenza. Credo allora che per formare la coscienza  sia  necessario  quello  che  stiamo  facendo  ora:  convegni,  riflessioni, magari  anche  a piccoli gruppi. Credo altrettanto necessario  la ruminazione. Tutti noi ritorneremo a casa. Questo Convegno ci ha arricchiti, ma dobbiamo farci delle domande, chiederci cosa abbiamo capito, cosa abbiamo condiviso e non condiviso, cosa ci ha messo in discussione, perché non possiamo cercare sempre di  sistemare  le notizie  che  riceviamo  in base  ai nostri  canoni già ben  stabiliti. Cioè,  c’è bisogno anche di una conversione della coscienza, così da arrivare a dire,  in certi momenti della propria  vita:  “quella  suggestione  la  ripenso”  e  così  capisco  che  può  diventare  importante,  può diventare un valore da acquisire.  In ultima  istanza, qual è  la mia proposta? È  la proposta di non camminare brancolando, guardando a vista. Ed è anche  la proposta di non accettare  il pensiero forte di chi ha tutte le certezze già ben incasellate, ma di muoverci secondo un’ottica di pensiero umile, cioè quella capacità di dire: “ho i miei vissuti, le mie convinzioni, ma le metto costantemente a confronto per cercare in tutti gli uomini che si relazionano con me ciò che veramente vale di più”. Io credo che  il pensiero umile aiuti anche un operatore sanitario a non camminare su dei binari troppo rigidi, ma a cogliere le suggestioni e cercare, giorno dopo giorno, la verità e il bene.    

  Cinzia Sanseverino  (Tutor  Clinico  e  Docente  di  infermieristica  ‐  Presidente  AIURO  ‐ Componente Comitato Etico AOU di AL)  Mi permetto di fare due considerazioni. Vi ho ascoltati con attenzione ed è sempre  affascinante  quando  intervengono  gli  eticisti,  laici  e  cattolici, 

questo volersi provocare che non è mai un provocare, questo dire che non esistono gli assoluti e poi, in realtà, gli assoluti esistono, da una parte e dall’altra. Ma voglio specificare cosa intendo. È stato affermato che bisogna fare attenzione al fatto che l’etica non è il detto della nonna, non è ciò che  crediamo,  ciò  che  ci  è  stato  tramandato  dalla  nostra  famiglia.  Passiamo  questo  concetto. Sicuramente  gli  infermieri  di  questo  sono  ben  consapevoli. Gli  infermieri  sono  consapevoli  che quando si avvalgono di quesiti etici e si pongono delle domande non sono le domande sul sentito 

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dire, su ciò che mi hanno insegnato, ma si pongono in ascolto dei valori della persona e dei propri valori  che  sono  valori  di  coscienza  professionali  diretti  sull’assistenza  e  su  una  domanda  di sofferenza della persona. Su questo volevo essere un po’ più chiara e credo che  i colleghi qui  in sala si siano posti delle domande. Ascoltavo  il professor Mori quando diceva: “vorrei che  i medici non si  iscrivessero alla Facoltà di Medicina, poi fanno obiezione perché si sa già che  l’obiezione è presente” Sì, ha ragione, ma l’obiezione è talmente limitata su alcuni punti. Allora, da infermiera, mi pongo questa domanda: trent’anni fa, quando gli  infermieri – ci sono dei colleghi in sala che si ricordano  –    hanno  deciso  di  iscriversi  alla  scuola  di  infermieristica,  lo  hanno  fatto  perché  ci credevano,  perché  volevano  intraprendere  questa  professione.  Ebbene,  se  trent’anni  fa  gli avessero  detto  che  avrebbero  partecipato  ad  una  sperimentazione  o  che  avrebbero  dovuto somministrare  una  pastiglia  che  sarebbe  diventata  la  famosa  pastiglia  per  abortire,  avrebbero comunque  continuato a  fare questo  lavoro oppure avrebbero  cambiato mestiere? Purtroppo  la legislazione ci dà poco spazio, però non vorrei che passasse  il messaggio che, siccome  i giuristi ci dicono “attenzione”, noi non sappiamo più fino a che punto possiamo arrivare a protestare, a dire che  la “clausola di coscienza” ci può  in qualche modo tutelare. Continuiamo quindi a rimanere in ascolto dei nostri valori. Noi infermieri ci chiediamo continuamente: è giusto e fino a dove è giusto che io intervenga? È giusto continuare ad operare sulla persona, a violare quelli che sono i valori di quella  persona?  Purtroppo  manca  il  collegamento,  che  è  la  comunicazione  tra  l’operatore, l’infermiere ed  il medico,  l’equipe  stessa  curante.  È questo  che  viene  a mancare. Mancando  la comunicazione  noi  ci  mettiamo  in  ascolto  dei  valori  della  persona  e  ci  poniamo  tantissime domande. Per quanto riguarda i corsi di etica, di bioetica, ben vengano, devono essere fatti, in misura sempre maggiore e a tutti gli operatori sanitari. E ancora: possiamo porre  il quesito al Comitato etico, è vero, c’è una figura infermieristica che partecipa nei Comitati etici, possiamo avere un parere che non è vincolante, assolutamente non lo è, ma se non ne parliamo in equipe, anche con chi decide il  progetto  terapeutico  –  in  quanto  responsabile  da  un  punto  di  vista  legale,  correggetemi  il termine – ovverosia il medico, ebbene, se non ci mettiamo in ascolto tutti insieme non riusciremo a trovare la soluzione al problema. Non dimentichiamoci di continuare a metterci in discussione, di porci  le nostre domande, e  la  “clausola di  coscienza”  ci dà  anche  la possibilità di  farlo. Questo volevo dire. Grazie.   

   Barbara Chiapusso  (infermiere coordinatrice ASL TO 3 – Segretario Collegio IPASVi di Torino)  Ti  ringrazio,  perché  penso  che  in  questo modo  tu  abbia  risposto  anche  alla domanda sul Comitato etico, che sarebbe stata fatta fra poco. Proseguirei con 

la formazione. Francesco Casile.         

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    Francesco Casile  (Operatore  Professionale  Dirigente,  Presidio  Ospedaliero  Maria  Vittoria, Torino)  La formazione assume un ruolo estremamente fondamentale per affrontare problemi etici, bioetici e  relativi  ai Codici deontologici. Questa mattina ho ascoltato attentamente i colleghi e la memoria mi ha rimandato, sentendo il 

dibattito  sulla  “clausola  di  coscienza”,  ad  un  testo  pubblicato  all’inizio  degli  anni  ’80  dal  titolo “Dilemmi etici”  (Uses editore),  tradotto da due personaggi storici della nostra professione,  Italia Riccelli  e  Rosetta  Brignone,  i  quali  recuperavano  all’interno  di  questo  libro  una  serie  di  casi presentati  a  livello  internazionale  dall’International  Council  of Nurses.  Il  testo  cercava  di  porre delle domande rispetto a un caso, peraltro molto interessante. Si trattava giustappunto del caso di un’infermiera che andava a  lavorare  in un ospedale dove si facevano prestazioni di un certo tipo nei  confronti  delle  donne  e  dei  bambini,  e  non  intendeva  fare  queste  prestazioni.  I  curatori ponevano una serie di domande: l’infermiera sapeva che in quella situazione specifica si facevano quella serie di interventi? E se lo sapeva, perché l’infermiera è andata a lavorare in quel servizio e non ha chiesto di andare ad operare altrove?  Sono già  trent’anni che gli  infermieri si pongono questi problemi di natura etica. Da una  ricerca realizzata nel 2004 dal sottoscritto – con una serie di colleghi che collaborano con me –, ripetuta quest’anno per verificare se fosse cambiato qualcosa, abbiamo notato che nei corsi di  laurea per infermieri  c’è  la  presenza  di  corsi  disciplinari  sull’argomento  dell’etica,  della  bioetica  e  della deontologia. Naturalmente  lo  studio  del  2004  e  quello  del  2009  sono  sovrapponibili  perché  la risposta  dei  coordinatori  dei  corsi  di  laurea  era:  “siamo  in  attesa  di  cambiare  i  programmi formativi  e  quindi  non  abbiamo  fatto  niente  di  diverso”.  La  cosa  interessante  che  abbiamo riscontrato è questa: mentre al primo anno del corso di  laurea è appannaggio della professione infermieristica  l’insegnamento  di  alcuni  argomenti  che  sono  legati  all’etica  e  alla  deontologia, all’ultimo  anno  le  carte  si  mescolano  e  quindi  troviamo  varie  discipline.  Quindi,  ecco  che ritorniamo  a  quello  che  prima  diceva  la  collega  Sanserverino,  nel  senso  che  al  terzo  anno  noi troviamo  –  all’interno  dei  corsi  di  laurea  per  infermieri  –  il  filosofo,  il  giurista,  l’infermiere,  il medico  legale ed  altri  soggetti  che  interagiscono  all’interno. Questo  ci pone un problema:  se è vero che nella formazione di base oggi abbiamo una presenza della formazione in questo ambito – la media è di 18 ore di  insegnamento, che non è molto, ma comunque è già significativo – non basta che ci fermiamo all’interno della formazione di base, perché molto  incide nella formazione continua.  Volevo presentarvi un altro piccolo studio, sempre realizzato da questo gruppo. Abbiamo preso in esame un caso che è stato sottoposto agli studenti del terzo anno, alla fine del corso “Disciplina di infermieristica generale I” dell’Università di Torino: il caso specifico – con problematiche di natura etica – è quello di una paziente  che  arriva  in neurochirurgia e  viene  lasciata  su una barella;  ai parenti  viene  chiesto di  rimanere, altrimenti bisogna  contenere. Pertanto  c’è  tutta una  serie di problemi  di  tipo  etico  estremamente  forti.  L’identico  caso  è  stato  sottoposto  ad  un  gruppo  di infermieri  in malattie  infettive,  scelti  appositamente perché  sono persone  che  fanno, ormai da anni,  un  corso  annuale  sulla  prevenzione  delle  malattie  infettive,  all’interno  del  quale  sono previste almeno due ore di etica e di bioetica. Questo per  capire quale era  la differenza  fra gli studenti  infermieri e gli  infermieri. Vi posso dire che  i risultati hanno confermato quello che è  il 

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mio  pensiero:  che  la manutenzione  del  cervello  è  importante.   Mentre  gli  studenti  infermieri davano delle risposte che erano quelle che mi sarei aspettato da colleghi infermieri di reparti che non  fanno  formazione  in  ambito  etico  –  ovverosia  trovare  la  soluzione  più  rapida,  risolvere  i problemi  in  maniera  superficiale,  eccessivamente  accomodante  –,  gli  infermieri,  nonostante facciano  due  sole  ore  di  formazione  l’anno  –  da  una  decina  d’anni  –  hanno  dato  risposte decisamente più centrate sulla risoluzione del problema etico. Credo che nella formazione post base, quindi nella formazione continua e permanente, ci debba essere costantemente una presenza di formazione che tenga conto di andare a discutere dei casi, perché se avessi fatto a me la domanda che hai fatto a Davini, ti avrei risposto: “sì, mi è capitato”, nel  senso  che  nella mia  azienda  quest’anno  abbiamo  fatto  12  corsi  di  formazione  sui  Codici deontologici, ma era un corso di  formazione  fatto per  le professioni  sanitarie, quindi all’interno dell’aula  c’erano presenti  infermieri e anche professionisti di  tutte  le altre professioni  sanitarie. Abbiamo fatto 4 corsi sulle problematiche etiche nella professione infermieristica e ostetrica, e un infermiere  uscito  dal  corso  il  giorno  dopo mi  chiama  e mi  dice:  “il medico  vuole  fare  questa prestazione:  io come mi devo comportare?”. La mia risposta è stata quella data  in mattinata dal giurista: “se è palesemente illecita la fai, ma la discuti, se è illegale non la fai”, perché il problema di fondo è che molto spesso gli infermieri vengono a chiederti informazioni rispetto a questi ambiti dei quali, dentro  le unità operative, si discute poco perché  i problemi etici, nelle unità operative, sono  delle  cose  che  passano  sempre  in  secondo  piano  o  vengono  visti  più  come  problemi organizzativi che non come problemi etici. Il problema di fondo, che nasce anche nella formazione, è che molto spesso noi ci  fermiamo sugli aspetti dell’etica del quotidiano, ma sugli aspetti della biotetica  –  e  quindi  sulla  sperimentazione  clinica  piuttosto  che  su  altri  argomenti  –  poco  ci confrontiamo. È  chiaro  che  i Comitati etici  su questo possono offrire delle  consulenze, ma non possono dare delle risposte, tant’è che in un altro studio nazionale su 300 Comitati etici, solo l’11% dei Comitati etici discutono di problemi di natura etica che scaturiscono dalla professione.    

  Barbara Chiapusso (infermiere coordinatrice ASL TO 3 – Segretario Collegio IPASVi di Torino)  Infatti questa sarà per l’appunto la prossima riflessione.   

   

 Ottavio Davini (Direttore Sanitario AOU S. Giovanni Battista di Torino)   Su  questo  posso  permettermi  di  essere  sintetico.  I  Comitati  etici  hanno questa  tra  le  loro potenzialità. Nel  regolamento del nostro Comitato  etico 

c’è,  tra  le sue  funzioni, quella consultiva ed  in particolare “per  le strutture sanitarie,  le direzioni generali,  le direzioni  sanitarie delle  strutture afferenti al Comitato etico  interaziendale al  fine di ottimizzare i percorsi di buona pratica clinica e armonizzazione e, per il personale che lo richieda, in 

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relazione  a  questione  etiche  connesse  con  le  attività  scientifiche,  assistenziali  e  didattiche,  allo scopo di proteggere, promuovere  i valori della persona umana”. Dopodiché,  la maggior parte dei Comitati  etici,  questa  è  anche  l’esperienza  del  nostro,  lavorano  prevalentemente  sulle sperimentazioni cliniche – e va bene – perché presidiano un terreno importantissimo. Ritengo che da incontri come questo – e dalle riflessioni che è capitato di fare all’interno del Comitato etico – non si possa pensare – e lo dico con la chiarezza che posso usare in un contesto come questo – che queste tematiche si risolvano all’interno di una cerchia ristretta. È fondamentale che  il dialogo – apprezzo  il modello  formativo appena citato – riesca ad espandersi e riesca ad offrire strumenti per  affrontarlo,  perché  non  possiamo  minimamente  pensare  di  affrontarlo  alla  garibaldina, sprovvisti di qualunque tipo di preparazione specifica. L’evoluzione – citata e richiamata più volte – della medicina ha cambiato e ha sensibilmente mutato gli scenari ed ha, per esempio, modificato il  concetto  di  “naturale”. Quindi,  tutte  le  nostre  considerazioni  etiche  dovrebbero  riflettere  su questo: è cambiato moltissimo cosa è naturale e cosa non è naturale. Un teologo valdese in un suo libro ha scritto che “da tempo ormai la morte non è più un fatto naturale. Appena si varca la soglia di  un  ospedale  si  prende  il  commiato  dalla  natura.” Dobbiamo  confrontarci  con  questo  tipo  di realtà. Dobbiamo essere coscienti che questo è il contesto e quindi attrezzarci con un percorso di formazione e di diffusione dei temi. Sono del parere che questa presa di coscienza collettiva non debba  limitarsi  agli operatori. Voglio  citare un pensiero di un  grande  bioetico nord  americano, Daniel  Callahan,  che,  secondo  me,  ha  centrato  una  delle  questioni  alla  base  di  molte considerazioni che ci troveremo a sviluppare nel prossimo futuro sulla Sanità, sulla scienza medica, sulle professioni sanitarie, ma in un’ottica veramente ampia, e cioè: “Non  è  irragionevole  dire  che  la medicina  va  dove  va  la  società,  che  una  trasformazione  della medicina  richiede  idealmente una  trasformazione della  società giacchè  le due cose non possono più  essere  tenute  separate.  Per  ripensare  gli  scopi  della  medicina  –  e  qui  noi  potremmo aggiungere: per pensare quali sono i modelli etici – occorre ripensare nello stesso tempo gli scopi e i valori della società e del substrato culturale della società.” Ho  apprezzato moltissimo  l’idea  dell’etica  che  è  nel  vento,  che  si  collega  a  quanto  scritto  da Callahan. Lo diceva anche Bob Dylan: “the answer is blowing in the wind…”   

Intervento  (infermiera, Cinzia Sanserverino)  Solo  un’osservazione:  far  parte  dei  Comitati  etici  ci  impone  una  maggiore visibilità. Sfido i presenti a dirmi se sanno chi sono i componenti del Comitato etico di questa azienda, così come di qualunque azienda. Una volta costituiti siamo poco visibili, e questa è una nostra pecca, me ne rendo conto. Perché fa 

parte del nostro  regolamento, del  regolamento di ogni Comitato, dove è scritto che ci  facciamo promotori di formazione, ci facciamo promotori di giornate di aggiornamento su temi etici. Poi, in realtà,  stiamo  in  carica  3  anni,  ma  questo  non  avviene.  Mi  assumo  anch’io  le  mie  colpe. Sicuramente, essendo maggiormente  visibili e  trasmettendo agli operatori nelle unità operative l’elenco dei  componenti  interni dell’azienda e del  rappresentante  infermieristico – parlo per gli infermieri – potrebbe aprirsi questo ponte di comunicazione che attualmente non c’è.  

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 Barbara Chiapusso  (infermiere coordinatrice ASL TO 3 – Segretario Collegio IPASVi di Torino)  Concludiamo con il ruolo del coordinatore per sostenere il gruppo.    

  

   Rosalia Buttà  (Infermiere coordinatrice dell’assistenza, Oncologia ASL Bi)   Il  coordinatore,  innanzi  tutto,  ha  una  responsabilità  morale  rispetto  alle problematiche  etiche  che  si  vivono  nel  quotidiano.  Ieri  sentivamo  la  nostra 

Presidente parlare di ruolo di “advocacy” dell’infermiere nei confronti della persona assistita. Ecco, credo che lo stesso ruolo lo debba assumere il coordinatore nei confronti dei propri collaboratori perché  aiutare,  supportare  i  collaboratori  a  riconoscere  prima  di  tutto  i  problemi  etici  e  a dialogare, a confrontarsi per trovare una soluzione e dare quindi una risposta alle persone è una responsabilità molto  grande,  anche  perché  problemi  non  risolti  causano  delle  conseguenze  sul benessere  lavorativo degli  infermieri, oltre che non dare risposte adeguate alla persona assistita. Di  conseguenza,  il  clima  che  viene  a  crearsi  all’interno  della  propria  struttura  con  i  propri collaboratori  diventa  importante  per  favorire  il  dialogo,  affinché  questi  problemi  vengano esplicitati e ci possa essere un confronto.  Altro elemento fondamentale che può favorire il coordinatore è quello della formazione, come già detto  dal  collega.  La  formazione  permanente  attraverso  gruppi  di  lavoro  ed  il  confronto  può fornire  un  metodo,  degli  strumenti  che  possono  servire  ad  affrontare  queste  situazioni,  non basandosi  soltanto  su  quello  che  è  l’emotività,  quello  che  è  il  coinvolgimento,  quello  che  è  il proprio punto di vista o quella che è la consuetudine di un reparto. Quindi, individuare un metodo che fornisca degli strumenti per affrontare questi problemi ritengo sia fondamentale, proprio per argomentare – anche razionalmente – delle scelte e delle convinzioni.  Per ultimo, il confronto. Ritengo sia uno strumento del metodo, allargato. Ieri si diceva – così come in questa terza sessione, e ciò corrisponde alla realtà lavorativa quotidiana, tutti noi lo potremmo testimoniare – che i problemi oggigiorno sono molto complessi; quindi non è pensabile che un solo professionista possa risolvere un problema di una persona assistita, ma è necessario l’apporto ed il confronto multiprofessionale  e multidisclipinare,  al  centro  del  quale,  non  dimentichiamolo,  c’è sempre  la persona  assistita.  Il  rischio  che noi operatori  corriamo – nella pratica quotidiana – è quello di discutere molto fra di noi, anche in maniera approfondita, con tutte le migliori intenzioni, talvolta  dimenticando  la  persona  assistita,  talvolta  dimenticando  di  chiederle  –  a  lei  o  ai  suoi familiari, quando non è  in grado di dare un apporto di volontà – qual è  il suo desiderio, qual è  il bene che vorrebbe per sé, qual è la risposta che dobbiamo aiutarlo a trovare. Ecco, credo che, in estrema sintesi, questo possa essere il ruolo del coordinatore.     

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  Barbara Chiapusso  (infermiere coordinatrice ASL TO 3 – Segretario Collegio IPASVi di Torino)  Mi permetto di concedervi dieci minuti per un momento di dibattito con i nostri relatori.  Colgo  l’occasione  per  ringraziarli.  A mio  avviso  è  stato  un  dibattito molto interessante.  

    

 Intervento  (infermiera,  Ada Masucci  Docente  incaricato  di  deontologia  presso  il  corso  di Laurea in Infermieristica dell’Università di Torino)  Volevo ricordare una cosa molto importante. In un’occasione in cui si parlava del Codice  deontologico,  la  nostra  Presidente,  Annalisa  Silvestro,  ha  detto  che  il tempo dedicato all’elaborazione dell’articolo  sull’obiezione di  coscienza poteva 

essere quantificato in circa il 50% del tempo dedicato alla stesura di tutto il Codice. Questo la dice lunga sulle difficoltà, evidentemente anche sul dibattito, maturate all’interno del gruppo che ha elaborato il Codice. Tra l’altro ricordo che nella bozza del 2008 non c’era l’espressione “clausola” ma  “obiezione  di  coscienza”.  La mia  domanda  è  questa:  è  emerso  che  nei  codici  deontologici, quando  si parla di obiezione di  coscienza, oggi  l’orientamento è quello di  rendere preminenti  i diritti  dell’assistito.  Volevo  ricordare  che  in  altri  codici  deontologici  –  penso  al  codice  degli infermieri canadesi e  inglesi – questo orientamento era chiaramente esplicitato già nel 1985, se penso al Codice delle  infermiere canadesi. Nelle versioni più recenti si arriva a dire chiaramente che  il professionista deve comunque continuare a prestare assistenza al paziente  fino a quando non  si  trova  la  soluzione  organizzativa.  E  questo  viene  detto  in  maniera  forte  e  chiara.  La riflessione che ho fatto è stata questa e a voi pongo la domanda. Perché nei codici delle infermiere italiane degli ultimi 30 anni – il primo articolo sull’obiezione di coscienza lo si legge nel codice del ’77 – si è dovuti arrivare al 2009 per trovare un riferimento alla persona assistita? Ed il riferimento è in una forma che definirei piuttosto riduttiva, perché non dice che l’operatore deve continuare a prestare assistenza fino a quando si trova  la soluzione, ma deve garantirla soltanto quando c’è  il rischio della vita e dell’incolumità dell’assistito. Grazie.   

  Dario Gamba (Avvocato, Consulente legale Collegio IPASVI di Torino)  È  una  mia  opinione  e  come  tale  deve  rimanere.  Secondo  me l’autodeterminazione va bene per  riempire  i  salotti, però poi nelle aule di giustizia  non  è  passata,  non  sta  passando  perché  la maggior  parte  delle 

sentenze penali di ultima generazione calpesta tranquillamente l’autodeterminazione in onore del valore  sociale  e  benefico  dell’attività  sanitaria.  Sempre  più  spesso  vengono  pronunciate  delle 

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sentenze  dove  si  assolvono  i  sanitari  perché  prescindono  dall’interpello  del  paziente, dell’interessato,  non  lo  coinvolgono  nel  processo  di  formazione  del  contratto  sanitario, ma  lo fanno a fin di bene, dimostrando che poi c’è stato comunque un risultato sanitario. In ragione di questa finalità e beneficialità poco  importa che non si sia sentito  il paziente. I codici deontologici sono  figli dei  loro  tempi. Non  si può pretendere che  lancino – oltre una certa misura –  il cuore oltre  l’ostacolo,  in  quanto  risiedono  dentro  l’ordinamento.  Abbiamo  visto  come  sono  delicati  i rapporti con la norma giuridica. D’altronde, sempre nello stesso Codice deontologico, quando esso parla del consenso del paziente e delle opinioni da lui espresse, nuovamente viene ribadita quella clausola che aveva  fatto discutere quando era stata  inserita nel Codice deontologico dei medici, dove si dice che  il medico deve  tener conto delle opinioni espresse dal paziente. Questo “tener conto”  è  quanto  di  più  ambiguo  ci  sia,  perché  se  uno  fa  una  scelta  di  riconoscimento dell’autodeterminazione dice: “per me  la volontà del paziente, che è controparte contrattuale e negoziatrice, rappresenta una volontà e quindi la devo rispettare”, che è ben diverso dal “tenerne conto”. Io posso “tener conto” del fatto che a lei non faccia piacere che io la strangoli; poi faccio un salto al di là del tavolo, la raggiungo e la strangolo ugualmente, perché ho “tenuto conto” di tutto quel  che  mi  ha  detto, ma  penso  che  siano  un  sacco  di  fesserie.  Questa  ambiguità  di  fondo sull’autodeterminazione, presente nell’ordinamento giuridico, è un concetto che, man mano che si declina nel pratico, va sfumandosi. Questa è  la mia  impressione concreta, dal campo, dal diritto vivente. È un concetto molto ribadito. Più vado in su nei livelli, nei massimi principi lo ritrovo; più scendo  nelle  applicazioni  pratiche  meno  lo  ritrovo.  E  allora  qui,  probabilmente,  il  Codice deontologico  fa  il  suo  dovere,  fa  il  regolamento,  cioè  non  prende  posizioni  etiche  così  forti, malgrado le dichiarazioni di intenti, perché è una norma regolamentare, quindi non si prefigge di porre dei punti valoriali molto forti, ma lascia – lo abbiamo visto in diverse occasioni – che sia poi il rapporto di  forza  tra questi  interessi  contrapposti  che  si  viene  a  realizzare, mi  vien da dire nel mercato, ma  sarebbe  comunque  riduttivo, meglio dire nel dibattito, nella dialettica  tra  le  varie ideologie presenti, e lascia che il punto venga trovato lì, sul campo e non sulla carta della norma.   

  Francesco Casile (Operatore  Professionale  Dirigente,  Presidio  Ospedaliero  Maria  Vittoria  , Torino)   È  interessante  la  domanda  di Ada Masucci, ma,  come  diceva  giustamente l’avvocato Gamba, i codici sono figli dei loro tempi. Sicuramente l’art. 8 è un articolo molto discutibile,  lo abbiamo discusso  lungamente, continua a non trovarci d’accordo perché abbiamo una visione un po’ più liberale da questo 

punto  di  vista  rispetto  ai  bisogni  dell’utente,  però  teniamo  conto  che  il  Codice  del  ‘77  era  un Codice fatto da soli 9 punti, ed erano delle mere enunciazioni che ognuno poteva  interpretare a modo proprio, tant’è che il primo articolo io lo interpretai in maniera completamente diversa: non che sono contrario ad alcune prestazioni, anzi, sono  favorevole. Perché quando  il primo articolo diceva che l’infermiere lavora “per la vita”, era così generico dire “per la vita”: sacralità della vita o qualità della vita?  Il mio punto di  vista  lo pongo  sul  tavolo  come un punto di  vista personale  e  come  termine di discussione, di dibattito  all’interno di questa  assise. Però,  teniamo  conto  che questo  è  l’ultimo Codice, che nasce dieci anni dopo il penultimo, quindi in tempi molto più ristretti rispetto ai codici precedenti:  infatti  il  primo  è  del  ‘60,  il  secondo  del  ’77,  il  terzo  del  ’99. Questo  è  il  IV  Codice deontologico  che  tiene  conto  di  alcuni  cambiamenti.  Alcuni  punti  si  potrebbero  discutere, ma 

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teniamo  comunque  conto  che  è  un  Codice  deontologico  che  fa  riferimento  a  360.000 professionisti  con  punti  di  vista  che  sono  completamente  diversi  fra  di  loro.  Sicuramente  il dibattito  è  aperto.  Credo  sia  la  prima  volta  che  il  Codice  deontologico  degli  infermieri  viene discusso così lungamente fra gli stessi infermieri. Non era mai successa una cosa del genere, tant’è che questo Codice è rimasto nel sito della Federazione per alcuni mesi e ognuno poteva esprimere la sua opinione. Oggi noi esprimiamo le nostre opinioni e probabilmente fra 5 o 6 anni, quando si porrà  il  problema  di modificare  il  Codice  deontologico,  troveremo  sicuramente  dei  riferimenti diversi e su alcune parti riusciremo ad essere un po’ più avanti rispetto a quello che il Codice oggi ci dice.  Naturalmente questa è solo la mia opinione.   

  Barbara Chiapusso  (infermiere coordinatrice ASL TO 3 – Segretario Collegio IPASVi di Torino)   Ringrazio tutti i partecipanti per i contributi e le riflessioni fornite. 

              

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  M.A. Schirru (Presidente Collegio IPASVI di Torino)   Senz’ombra di dubbio possiamo affermare che questo evento finisce in termini decisamente    costruttivi.  Tutti  noi  abbiamo  assistito  ad  un  susseguirsi  di suggestioni  e  di  input  sui  quali  riflettere  a  lungo.  Nel  tempo  che  ci  rimane affronteremo i temi della ricerca e della sperimentazione.  Temi  che  vedono  coinvolti  gli  infermieri,  seppur  marginalmente  rispetto  a quella  che  dovrebbe  essere  la  logica  che  accompagna  l’evoluzione 

dell’assistenza.  Nelle  relazioni  a  seguire  sentiremo  come  nella  nostra  categoria  vi  siano  ancora  poche persone  che  si occupano  di  ricerca  ed  esse  sono quelle  che offrono  a noi  tutti  gli  strumenti per poter, operativamente, migliorare l’assistenza. Lascio quindi la parola al primo relatore, Valerio Dimonte, il quale affronterà il tema: “La ricerca in ambito infermieristico: quale beneficio per l’assistito?”  

      

4° SESSIONE:  

Capo III – art. 12: “L’infermiere riconosce il valore della ricerca, della sperimentazione clinica e assistenziale per l’evoluzione delle conoscenze e per i benefici sull’assistito. 

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  La ricerca in ambito infermieristico: quale beneficio per l’assistito  Valerio Dimonte  (Presidente Corso di Laurea in Infermieristica, Università degli Studi di Torino)  Buon  pomeriggio  a  tutti.  Desidero  sviluppare  assieme  a  voi  alcune riflessioni  sull’aspetto  della  ricerca,  tenendo  conto  che  stiamo ragionando  all’interno  di  un  convegno  sul  Codice  deontologico. 

L’obiettivo è quindi quello di  individuare degli spunti di  riflessione sul senso e sulla natura della ricerca  in  ambito  infermieristico,  nonché  comprendere  quali  possono  essere  gli  aspetti  di potenzialità e di problematicità; non ultimo, come affrontarli, per offrire una risposta di tipo etico‐deontologico al quesito: “quale beneficio per l’assistito?”. Espanderei la domanda: quale beneficio per  l’assistito  e  per  i  suoi  familiari  o  per  quelle  persone  significative  che  ruotano  attorno all’assistito?  E  ancora: quale beneficio per quelle due  grandi  categorie  chiamate  comunità  –  in senso generale – e Sistema Sanitario, in termini di un aumento generalizzato dello stato di salute o di un aumento della qualità dei servizi? Vi è un ulteriore aspetto da valutare: quale beneficio per l’infermiere e per  la professione? Studiare quindi se stessi  in quanto operatori che erogano una prestazione, proprio per via della particolarità di chi svolge questo genere di pratica professionale, che  è  appunto  quella  dell’assistenza  infermieristica.  Intendo  sottolineare  il  fatto  che  è  una prestazione strettamente a contatto con l’assistito: è un contatto col corpo, è un contatto fisico, è un  contatto  fatto  di  relazione. Non  a  caso  esistono  filoni  di  studio  e  di  ricerca  sugli  infermieri finalizzati a tale aspetto, valutando gli infermieri non certo in senso corporativo – ovvero gli aspetti inerenti  la  sfera  sindacale  della  categoria  infermieristica  –  ma  sul  significato  della  relazione assistenziale  e  quali  possono  essere  le  ricadute  sull’infermiere  stesso.  Questo  è  un  aspetto decisamente interessante. Un altro aspetto generale – sempre di tipo etico e deontologico, ieri la Presidente Silvestro  l’ha ben caratterizzato – sta nel passaggio che stiamo vivendo. Un passaggio radicale – dal punto di vista sociale e dell’organizzazione sanitaria – che riguarda  la ridefinizione dei bisogni. Li conosciamo questi bisogni, ma non dobbiamo  farli diventare una  sorta di  slogan. Quando  diciamo  che  vi  sono  bisogni  nuovi  della  popolazione  intendiamo  –  come  ieri  è  stato opportunamente  sottolineato  –  che  vi  è  una  natura  dei  bisogni  che  richiede  interventi  di  tipo professionale diversi da quelli di un tempo o complementari, che si  integrano rispetto a quelli di un tempo. Questi bisogni non sono più unicamente di tipo medico, ma anche di tipo assistenziale‐infermieristico, fisioterapico, dietistico e così via. Tutto questo è legato al discorso – trattato nella giornata di ieri – inerente a ciò che significa rispondere – con autonomia e responsabilità – a questi stessi  bisogni.  In  sostanza,  la  capacità  di  prendere  decisioni.  L’autonomia  non  esiste  senza  la capacità di prendere decisioni.  Questo cappello  introduttivo per sottolineare come  il prendere delle decisioni ha chiaramente a che fare con  la ricerca e con  i risultati della ricerca ed  il  loro utilizzo. Lo vedremo da un punto di vista  deontologico,  così  come  da  ciò  che  la  norma  e  il  decreto  delineano  come  Profilo professionale dell’infermiere e quindi quali sono  i contorni,  l’essenza dell’esercizio professionale infermieristico.  Ritroviamo  così  due  aspetti  che  sono  strettamente  legati:  la  ricerca  e l’autoformazione. Domandiamoci  il perché, non  tanto  in  termini di norma, di  regolamentazione, quanto in termini sostanziali.   

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Questo è  il profilo rappresentato – sottoforma di figura –  il quale sta a significare che  il core del Profilo  è  chiaramente l’assistenza:  assistenza di  varia  natura  che risponde  anche  ai nuovi  bisogni.  Notate come è stato messo  in risalto  l’aspetto educativo  così  come quello  relazionale.  Il messaggio  che  sta dietro a questa norma –  stiamo  parlando  del Profilo  del  1994  –  è che  non  è  possibile operare  una  buona assistenza  se  nel frattempo  non  ci  si aggiorna. Per praticare una  buona  assistenza 

devi  essere  aggiornato  e  per  essere  aggiornato  devi  accedere  ai  risultati  che  qualcun  altro  ha prodotto e che spesso sono  i risultati della ricerca. Questi due aspetti sono complementari: uno non  esclude  l’altro. Oltre  all’aggiornamento  –  quindi  cercare  di  recuperare  ciò  che  è  già  stato prodotto – un ulteriore aspetto – decisamente interessante – sta nel fatto che il Profilo consideri l’infermiere un autentico professionista laddove afferma che se ci sono domande senza risposta o con risposte dubbie, se ci sono problemi o bisogni delle persone assistite a cui non si riesce a dare risposte – perché non esiste ancora la conoscenza in materia – ebbene, quello è il momento in cui scatta  la  ricerca. Ci  troviamo di  fronte  ad un  aspetto  che possiede  anche una natura etica, nel senso che  il dovere è quello di offrire risposte ai bisogni delle persone. Lo stesso Profilo afferma anche  che  laddove  vi  siano  ambiti  sconosciuti  proprio  là  dev’essere  presente  il  percorso  che investe la ricerca. È interessante questo porre in relazione l’assistenza con gli aspetti organizzativi, gestionali,  formativi, ed anche con gli aspetti della ricerca e dell’utilizzo dei risultati della ricerca attraverso l’autoformazione, in quanto strettamente intrecciati con l’assistenza.  Dobbiamo operare una  riflessione  legata alla  ricerca e al Profilo professionale, un Profilo  che è stato  emanato  nel  1994,  il  quale  rispecchia  una  situazione  dove  non  esisteva  un’articolazione formativa, tantomeno dal punto di vista assistenziale per livelli di complessità. Pertanto rispecchia ancora –anche se il Profilo prevede la formazione complementare – la concezione di un infermiere unico,  ossia  di  un  infermiere  che  pratica  l’assistenza  in  tutti  gli  ambiti.  Posto  in  questi  termini parrebbe  che  l’infermiere  dovrebbe  essere  in  grado  di  portare  avanti  anche  la  ricerca.  È  un infermiere  laureato,  cioè  un  infermiere  frutto  di  tre  anni  di  formazione. Questo  è  un  aspetto problematico che oggi possiamo porci  in quanto, nel  frattempo, sono emerse delle novità da un punto di vista normativo e dell’organizzazione dei percorsi di studio ed in parte anche dal punto di vista dell’esercizio professionale. Dobbiamo pertanto ragionare su più  livelli, altrimenti rischiamo di commettere degli errori o di non risolvere dei problemi – ed anche questo è un errore – oppure ci aspettiamo che il livello di assistenza possa andar bene per tutti con una formazione triennale o – non ultimo – possiamo ritenere che con una formazione triennale si possano soddisfare tutte le esigenze che hanno a che fare con la ricerca. Commetteremmo un grave errore, pensando di fare ricerca  senza  effettivamente  farla,  per  le  ragioni  che  andremo  ad  analizzare.  La  Presidente  del 

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Collegio di Torino aveva richiamato l’art. 12. Richiamerei anche l’art. 11, nel quale si riscontra una stretta connessione con  il Profilo:  l’infermiere deve operare  sulla base di conoscenze validate e aggiornarsi di conseguenza. Ricordiamo anche l’art. 13 – quello della consulenza – seppur non sia così strettamente collegabile.  In ogni caso,  la consulenza parte certamente da un’esperienza, ma anche da una conoscenza approfondita ed  inoltre parte dal fatto che questi colleghi – che hanno competenze  tali da poter  fare consulenza – possono  sviluppare nuove conoscenze attraverso  la ricerca. Questi sono gli aspetti generali che trasmettono il senso del perché dobbiamo interessarci di ricerca all’interno di questa professione che soltanto da pochi anni è stata definita formalmente con tutte le caratteristiche di una professione. Dobbiamo acquisire la consapevolezza che ormai vi sono tanti e tali problemi che non possono essere affrontati e risolti soltanto da una componente che  –  fino  a  pochi  anni  fa  –  è  stata  prevalente,  ossia  quella medica.  È  una  componente  che continua  a  rimanere  fondamentale, ma  oggi  la  natura  dei  bisogni  ci  porta  a  riconoscere  che  è necessario  interessarsi anche di altri aspetti. Entriamo quindi nel merito degli  stessi. È possibile che alcuni oggetti di  interesse per  la ricerca possono essere maggiormente considerati da alcune categorie  di  professionisti  piuttosto  che  da  altre.  Cominciamo  così  ad  introdurre  aspetti  di problematicità oppure aspetti che meritano una riflessione al fine di comprendere quali possono essere le risorse o le strategie necessarie per superare i problemi che si vogliono evidenziare.  Essenzialmente dobbiamo considerare tutte le fasi che hanno a che fare con la ricerca. Iniziamo con la fase della scelta dell’oggetto: sembra la più banale, invece è una delle più difficili. La  scelta  dell’oggetto  non  significa  soltanto  definire  chiaramente  l’oggetto  –  l’obiettivo  della ricerca  –  da  un  punto  di  vista  tecnico,  ma  individuare  con  altrettanta  chiarezza  da  dove scaturiscono  le domande di ricerca. Questo è un aspetto che coinvolge tutti, non solo gli esperti della ricerca. Coinvolge tutto il mondo professionale che fa pratica, che deve imparare a porsi degli interrogativi a partire dalla quotidianità della pratica professionale così da far scaturire a sua volta domande che possono avere una risposta nelle conoscenze già esistenti, ma nella letteratura non sempre si individua una risposta. Proprio per questo è necessario avviare un percorso di ricerca.  Altro aspetto non secondario: fare ricerca. Naturalmente essa richiede – e li vedremo – aspetti che possono  essere  problematici.  Nella  sua  introduzione  Maria  Adele  Schirru  ha  giustamente affermato che siamo ancora  in una situazione dove c’è bisogno di sviluppo, c’è ancora molto da fare.  Ma  non  solo:  anche  dove  esistono  dei  risultati  sussiste  un  altro  aspetto  altrettanto problematico che è quello dell’utilizzo dei risultati della pratica clinica.  Rispetto alla scelta dell’oggetto desidero fare alcune riflessioni. Al nostro  interno talvolta si apre un dibattito: “facciamo ricerca biomedica piuttosto che umanistica, più di tipo clinico piuttosto che di tipo assistenziale, seguiamo gli aspetti fisici piuttosto che gli aspetti dell’esperienza del vissuto del  paziente,  facciamo  ricerca  quantitativa  piuttosto  che  qualitativa...”  Ebbene,  si  può  fare qualunque genere di ricerca. L’importante è chiedersi se siamo partiti dalla domanda giusta e  la domanda  giusta  è  sempre  quella  che  riguarda  il  paziente.  A  volte  possiamo  occuparci maggiormente  degli  aspetti  fisici,  altre  volte  di  quelli  relazionali,  educativi,  ecc.  Questa  mia sottolineatura non è così banale come può apparire: talvolta giriamo attorno al problema perché ha  a  che  fare  con  la  natura  stessa  dell’assistenza  infermieristica.  A  volte  diciamo  a  noi  stessi: “stiamo attenti a non replicare ricerche che sono di tipo medico o biomedico”. Certamente, ma la ricerca  infermieristica è un’altra  cosa.  Tuttavia, prenderei  con  cautela questa  affermazione, nel senso che sempre più  i problemi delle persone assistite sono talmente complessi che richiedono uno studio integrato da parte di più discipline e da parte di più professioni. Diventa quindi difficile dire:  “questa  è  una  ricerca  strettamente  di  assistenza  infermieristica,  questa  è  una  ricerca strettamente di tipo medico”.  Detto  questo,  c’è  poi  l’attenzione.  L’attenzione  che  può  cambiare,  da  parte  degli  infermieri rispetto  ai medici,  perché  abbiamo  esempi  di  ricerca  condotti  – mi  riferisco  al  leader  –  da  un 

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medico dove è presente la partecipazione degli infermieri; oppure possono esserci delle ricerche – caso decisamente più  raro – dove  la promozione è  infermieristica e al  loro  interno partecipano anche dei medici. Rispetto a  ciò,  il  riferimento dev’essere quello del Profilo. Abbiamo già detto quale  dev’essere  il  riferimento  chiave  per  scegliere  un  oggetto  di  ricerca:  deve  riferirsi  ad  un bisogno che al momento non ha una  risposta, un bisogno della persona assistita, dei  familiari o delle altre categorie precedentemente citate. La  tipologia  che  troviamo  nella  letteratura  scientifica  di  interesse  infermieristico  la  possiamo trovare anche nella letteratura scientifica di area sanitaria. Abbiamo quindi situazioni che possono presentare delle analogie con aspetti più di tipo biomedico così come più di genere educativo. E ancora: aspetti che riguardano la situazione degli infermieri, la qualità di vita dei pazienti, aspetti educativi;  non meno  importante,  l’efficacia  di modelli  organizzativi  come  ricaduta  sulla  qualità dell’assistenza e quindi come beneficio per le diverse popolazioni. Anche  in  Italia  abbiamo uno  sviluppo della  ricerca,  seppur  limitato. Esiste una produzione e  su questa mi soffermerò rispetto alle fonti e alla loro reperibilità. Un altro aspetto che richiede qualche riflessione e che pone delle problematicità da affrontare – in conclusione farò alcune proposte – è quello della gestione della ricerca, della progettazione, della valutazione,  dell’attuazione  dei  risultati.  In  questo  ambito  abbiamo  aspetti  che  riguardano  le competenze  tecnico‐metodologiche.  Non  si  può  fare  ricerca  senza  competenze.  Questo  è  un aspetto  non  certo  secondario:  proprio  per  questo  ho  voluto  richiamare  il  Profilo,  dove apprendiamo  che  un  infermiere  con  la  formazione  triennale  dovrebbe  essere  in  grado  di  fare ricerca. È un’affermazione non del tutto condivisibile in quanto difficilmente possiamo pensare ad uno studente che, alla conclusione dei tre anni, possa essere  in grado di progettare e gestire un percorso di ricerca. Accettabilità e adesione da parte di tutti  i coinvolti.  In un convegno etico‐deontologico  l’oggetto della ricerca deve essere condiviso da quelli che sono i cosiddetti oggetti della ricerca e da chi fa la ricerca. Questo non  soltanto per correttezza di  informazione del coinvolgimento, ma perché c’è anche  un  problema  di  tipo  etico  nell’utilizzo  delle  risorse.  Lo  dico  come  formatore  e  come responsabile di un corso di laurea: facciamo e promuoviamo ricerche e indagini a qualunque livello non  rendendoci conto che, attivando una qualunque di queste  iniziative –  le  tesi  fanno parte di quest’ambito – attiviamo anche un consumo di risorse, ed il consumo primo di risorse è la risorsa tempo dei malati, delle persone assistite a cui spesso chiediamo del tempo quando non di rado le ricerche  non  sono  soltanto  osservative, ma  richiedono  un’intervista,  richiedono  di  andare  ad indagare aspetti che non  sono  recuperabili dai dati della documentazione. Questo è un aspetto non  indifferente. Così come richiediamo spesso del  tempo anche ai colleghi  infermieri o ad altri colleghi  che  devono  utilizzare  una  parte  del  loro  tempo  per  sviluppare  anche  questo  tipo  di attività. Questo non  significa che  la  ricerca non deve essere  svolta. Significa  invece che bisogna prestare particolare attenzione a ciò che si fa, perché ciò che si fa deve essere anche utilizzabile e accettabile da parte di chi è coinvolto. Altro aspetto: è positivo partecipare a progetti di ricerca, si  impara anche  in questo modo. Nella maggior parte dei casi le ricerche – quelle che hanno anche un’attendibilità dal punto di vista dei risultati – in genere sono promosse da medici. Malgrado vi siano già delle esperienze in tal senso, bisogna  sviluppare  anche  le  ricerche  promosse  direttamente  dagli  infermieri.  Non  certo  per rivendicazioni  di  tipo  corporativo,  ma  per  responsabilizzarsi  maggiormente  rispetto  ad  alcuni aspetti dell’assistenza. In questo modo si potrà sviluppare una maggiore sensibilità ed attenzione da parte della componente infermieristica piuttosto che da parte di altre componenti.  Una  delle  questioni  più  importanti  è  quella  delle  risorse  finanziarie  ed  economiche:  non  si  fa ricerca senza soldi. La distribuzione dei finanziamenti segue delle regole in gran parte condivisibili: si  erogano  finanziamenti  a  chi  dimostra  d’essere  in  grado  di  svolgere  una  ricerca  e  quindi  di 

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produrre dei  risultati.  Tuttavia,  in  una  situazione dove  si  è  al principio del  cammino di  ricerca, molto  probabilmente  bisogna  pensare  –  anche  su  questo  presenterò  delle  proposte  –  alla creazione di condizioni che aiutino questo genere di sviluppo. Precedentemente  parlavo  della  formazione.  Riprendo  questo  riferimento  dai  cosiddetti “Descrittori di Dublino” che sono all’interno della omogeneizzazione del sistema  formativo post‐secondario, quello che per noi corrisponde alle  lauree magistrali e ai dottorati di  ricerca. Questi “Descrittori di Dublino”  rappresentano  le competenze attese alla  fine di un ciclo di studi, quindi alla fine dei tre cicli. Essi ci aiutano a ragionare: per quanto riguarda la ricerca, alla fine di un corso di laurea possiamo forse aspettarci che lo studente – il futuro professionista che andrà ad operare sul  campo  –  sia  in  grado  di  utilizzare  la  letteratura? Valutando  però  che  cosa?  Forse  il  singolo articolo,  cioè  la  singola  ricerca?  Forse  no,  perché  bisogna  avere  competenze  e  conoscenze  di ricerca approfondite. Tuttavia potrebbe essere in grado di riuscire a valutare la qualità dal punto di vista  della  tipologia  degli  articoli,  se  è  una  metanalisi  piuttosto  che  un  RCT,  una  revisione, un’esperienza. Inoltre, valutare la qualità delle fonti da cui l’articolo è stato recuperato, ovvero le riviste: quali riviste accreditate piuttosto che banche dati? Potrebbe,  in sostanza,  identificare dei quesiti.  Lo  abbiamo  detto:  è  proprio  del  professionista  il  farsi  le  domande  ed  il  partecipare  a progetti di ricerca. Per  quanto  riguarda  la  laurea  magistrale,  oltre  alle  competenze  prima  elencate  possiamo aggiungere che può esserci una responsabilità ed una competenza nel senso della diffusione dei risultati e della trasformazione degli stessi in pratica, cioè del loro impiego. Infine, è previsto il dottorato di ricerca dove si acquisiscono le competenze complete per essere in grado di gestire una ricerca dalla progettazione alla gestione, cosa veramente complessa.  Dico  tutto  ciò  perché  questo  è  un  sistema  che  si  è  sviluppato  successivamente  al  Profilo professionale. Il nuovo sistema prevede questo insieme di cicli di studio.  Esistono  innumerevoli  risultati  di  ricerca nel mondo – seppur la situazione italiana sia  un  po’  differente  –  ed  essi  sono recuperabili.  Naturalmente  bisogna sapere come poterli recuperare. Esistono banche  dati  –  come  molti  di  voi  già sapranno  –  finalizzate,  settoriali,  nel campo  sanitario,  nel  campo  medico  – tipo Medline – dove è presente anche  la letteratura  più  specificamente infermieristica.  In Medline ci  sono più di 300  riviste  indicizzate  di  tipo infermieristico  così  come  esistono banche  dati  specificamente infermieristiche  con  oltre  1.000    riviste  presenti  nella  banca  dati  Sinal.  Le  risorse  quindi  sono ampie, ma in genere la comunità scientifica le richiede con determinati criteri. Uno fra essi sta nel livello della  rivista: dev’essere accreditata e  seguire determinate  regole per accettare gli articoli pubblicati nonché presentare  i  resoconti delle  ricerche che sono  state condotte. Altro criterio è quello  dell’impact  factor  ossia  quanto  viene  utilizzato  quell’articolo,  quanto  viene  citato,  a dimostrazione  del  fatto  che,  probabilmente  –  sottolineo  il  “probabilmente”  –  tale  articolo rappresenta  un  punto  di  riferimento  molto  importante.  Esistono  anche  delle  riviste infermieristiche – una trentina – che prevedono l’impact factor. Come potete vedere ve ne sono di diversa natura:  riviste  infermieristiche con  tanto di  impact  factor che  trattano di clinica, altre di tipo generalista, una si occupa di etica, il che vuol dire che anche il dibattito e la ricerca sull’etica 

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segue criteri che possono essere di tipo scientifico. Anche rispetto ad aspetti qualitativi si possono utilizzare criteri di natura scientifica. Presento solo un dato per dire qual è il livello di disponibilità: nell’Università degli Studi di Torino, così come  in altre università  italiane, abbiamo  la possibilità di avere a disposizione molte  riviste on‐line a full text, cioè a testo pieno. Questo supera un problema che avevano gli infermieri delle generazioni precedenti: l’accesso alle informazioni. Passiamo  ora  ad  un  ulteriore  aspetto:  l’utilizzo  dei  risultati,  la  produzione  dei  risultati. Questi risultati possono essere prodotti in Italia o all’estero: come facciamo a recuperarli e quali sono le difficoltà? Ormai attraverso le banche dati on‐line i risultati sono disponibili.  L’accessibilità di questi risultati: ricerche dimostrano che se  l’accessibilità non è direttamente sul posto di lavoro difficilmente si utilizzeranno i risultati recuperati dalle banche dati.  Leggibilità dei risultati: significa che non sempre sono di immediata comprensione. Ci sono criteri scientifici  che  un  infermiere  potrebbe  non  essere  in  grado  di  valutare.  Si  presenta  quindi  la necessità di avere dei gruppi di  supporto  che aiutino a  comprendere  la validità  scientifica degli articoli. Non secondario il problema della lingua: l’80‐90% dalla letteratura scientifica è in inglese. Trasferimento  dei  risultati  nella  pratica  assistenziale:  esistono  delle  raccomandazioni  a  livello internazionale  sullo  sviluppo  di  questa  implementazione,  ma  è  fondamentalmente  partire  da quesiti clinici pratici – questo è basilare – e riscontrare se la soluzione del problema è già presente nella  letteratura;  la  si  andrà  quindi  a  recuperare  e  si  formeranno  dei  gruppi.  Ieri  si  parlava  di “comunità  di  pratiche”,  cioè  dei  gruppi  che  si  incontrano  su  un  dato  problema  e  fanno  una revisione  di  ciò  che  esiste  relativamente  alla  problematica  in  questione,  valutando  gli  studi  e facendoli  divenire  pratica  quotidiana.  Questo  funziona  se  diventa  effettivamente  pratica routinaria.  Fatta una  tantum non  funziona. È una nostra  caratteristica:  facciamo un’esperienza, risulta  positiva,  siamo  trasportati  dall’entusiasmo  del momento  e  poi  la  accantoniamo,  non  la trasferiamo nel quotidiano. Serve a ben poco, e qualora  la volessimo  riprendere, non essendoci appunto  la routinarietà, diventa difficile gestirla. Richiamo un concetto di EBP per affermare che ciò che  troviamo  in  letteratura non dev’essere  inteso come una prescrizione, ma come un aiuto alla presa di decisione. Veniamo alle tre proposte che desidero presentare a conclusione della mia relazione:  • come  facilitare  e  promuovere  i  progetti  di  ricerca.  In  Regione  Piemonte  sono  stati  già previsti dei finanziamenti che aiutano – non soltanto a livello universitario, ma anche a livello del Servizio  Sanitario  –  lo  sviluppo  delle  ricerche.  Dobbiamo  chiederci  se  possiamo  orientare  – chiedere di orientare – anche i finanziamenti su tematiche specificamente clinico‐assistenziali, non agli  infermieri,  ma  alle  tematiche  assistenziali‐infermieristiche.  Naturalmente,  tutti  i  soggetti coinvolti  nei  singoli  progetti  potranno  accedere  ai  finanziamenti. Questo  a  livello  regionale.  In qualche azienda, forse tra le più importanti, potremmo chiedere se è possibile utilizzare una quota di finanziamento orientata a questo tipo di sviluppo.  • le  informazioni  e  le  risorse  esistono  già,  però  le  utilizziamo  pochissimo  perché  non possiamo caricare sulle spalle dei singoli  infermieri che  lavorano nelle corsie anche questo carico morale ed etico dicendogli: “adesso devi anche aggiornarti e devi rispondere a tutti  i quesiti e ai problemi che si presentano a livello assistenziale”. Non glielo si può chiedere. È quindi necessaria la presenza di gruppi di  supporto  che aiutino a  recuperare  le  informazioni, a  ragionarci  sopra e a diffonderle all’interno delle singole aziende con dei centri o dei servizi deputati a tal fine.  • il dottorato di  ricerca. Senza  lo sviluppo di queste competenze siamo  in difficoltà perché altrimenti  rimangono  molti  esercizi  di  ricerca.  Esercizio  di  ricerca  significa  che  tali  ricerche possiedono  alcune  caratteristiche  dell’autentica  ricerca, ma  i  risultati  non  sono  generalizzabili perché spesso  le ricerche  le facciamo noi ed  i campioni sono decisamente  limitati: con  le risorse che abbiamo non siamo in grado di gestire delle ricerche in cui risultati possano essere estendibili 

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ad una popolazione più vasta. Non per niente – se ne parlerà anche nelle successive  relazioni – sono molte le ricerche che nascono da lavori delle lauree specialistiche, delle lauree magistrali che però, per forza di cose, sono alquanto circoscritte. Ecco  la nostra proposta: ci  impegniamo come Università, ma credo che in questo anche il Collegio possa rivelarsi utile in termini di progettazione e di sostegno vero e proprio. L’intenzione sarebbe quella di partire, qui a Torino – entro un anno o due – con dei dottorati di ricerca che siano rivolti soprattutto ai giovani perché il futuro sono loro e quindi è giusto che si investa sul futuro. Grazie.  

 L’Infermiere nei Comitati Etici Sanseverino Cinzia  (Tutor Clinico e Docente di infermieristica ‐ Presidente AIURO ‐ Componente Comitato Etico AOU di AL) 

 La mia  relazione  inizia prendendo  spunto dall’art 12 del nostro nuovo Codice Deontologico: “ l’infermiere riconosce il valore della ricerca, della sperimentazione clinica e assistenziale per l’evoluzione delle conoscenze 

e per  i benefici dell’assistito”, argomento di questa ultima, ma non meno  importante, sessione; e se mi è permesso, aggiungerei una mia riflessione in merito.  L’infermiere  risponde ad ogni  richiesta del paziente con competenza, pertinenza,  responsabilità, cercando sempre di ottenere  il “miglior bene possibile” per  la persona. Se pensiamo al concetto che  la  Bioetica  ha  tra  i  suoi  compiti  quello  di  verificare  la  “liceità”  dell’intervento  “dell’uomo sull’uomo”, allora possiamo affermare con certezza che  l’infermiere è un agente morale, proprio perché  compie  scelte  continue di natura etica.  Il binomio Bioetica e  infermiere non può essere scisso,  in  quanto  la  rilevanza  bioetica  riguarda  la  professione  infermieristica  e  degli  operatori sanitari in genere, diverse questioni legate alla quotidianità dell’agire professionale. 

L’inserimento, o meglio il riconoscimento dell’importanza del professionista infermiere nei Comitati Etici, è una conquista “ relativamente recente”, dagli anni 90’, sino all’ultimo D.M. 12‐05‐2006 “Requisiti minimi per l’istituzione,l’organizzazione e il funzionamento del Comitati Etici per le sperimentazioni cliniche dei medicinali”. 

In  effetti  nel  D.M.  18‐03‐19981,  si  legge:  “  la  composizione  dei  Comitati  Etici  deve globalmente  garantire  le  qualifiche  e  l’esperienze  necessarie  a  valutare  gli  aspetti  etici  e scientifico/metodologici  degli  studi  preposti”.  In  tale  decreto  si  evince  per  la  prima  volta l’importanza di altri membri  con  specifiche  competenze,  inserendo  la  figura dell’infermiere. Per l’infermiere vedersi riconosciuto come presenza importante in un C.E. è stato un punto di partenza e    non  di  arrivo,  in  quanto  non  è  solamente    una  presenza  “fisica” ma  può  e  deve  dare  un contributo  concreto  nelle  ricerche medico/scientifiche.  La  formazione  in  ambito  Etico/Bioetico diventa per  l’infermiere un  requisito  fondamentale  sin dal  suo percorso  formativo e necessario bagaglio, per un professionista  completo  in  grado di poter essere  componente di C.E., di porsi domande,  consapevole  di  potersi  avvalere  di  una  consulenza  Etica  durante  la  sua  pratica assistenziale, soprattutto quando emergono quesiti etici. Agli infermieri chiamati a far  parte come membri  componenti di Comitati Etici, si chiede giusta e adeguata preparazione per saper valutare un protocollo di sperimentazione clinica, o un caso clinico a forte rilevanza etica. Certamente una tale  preparazione  non  è  richiesta  solo  agli  infermieri.  Lo  stesso  CNB  ha  sottolineato  in  un  suo documento  l’importanza  della  formazione  etica  nel  campo  della  biomedicina  e  della medicina clinica come presupposto e garanzia di un  corretto esercizio professionale.                                                             1 D.M. 12‐05‐2006  

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L’infermiere  Assume  un  ruolo  fondamentale  in  merito  a  tutto  ciò  che  è  inerente  la sperimentazione clinica, per  l’uomo, sull’uomo; ed è di  fondamentale  importanza, che   conosca, per poter  intervenire nell’analisi dei protocolli di sperimentazione clinica,  i requisiti fondamentali di un protocollo di sperimentazione clinica secondo le Good Clinical Practice.   E’ un documento che descrive: 

gli obiettivi;  il disegno sperimentale;  la metodologia;  le considerazioni statistiche;  l’organizzazione di una ricerca;  i  suoi  eventuali  successivi  emendamenti  (  descrizione  scritta  o  chiarimento  formale  del protocollo). 

   L’infermiera sarà  in grado di conoscere  le fasi dello sviluppo clinico, di valutare  la validità scientifica del protocollo, ovvero  la pertinenza,  la validità  ,  il valore. Sarà  in grado di valutarlo  in merito anche a  chi  fa  che  cosa   e  come  reperirlo,  stimare  i  rischi dovuti al prodotto di  ricerca, stimare i rischi dovuti a procedure generali, stimare la fattibilità ed eventuali rischi/benefici per il soggetto dovuti alle procedure  inclusa  la rinuncia al miglior trattamento, solo fino a quando non dimostrata con certezza, endpoint primari e secondari,  il disegno dello studio da eseguire,  via di somministrazione del  farmaco,criteri di  inclusione ed esclusione,  rischi e disagi,  la durata attesa del  progetto,  criteri  di  interruzione  e  di  ritiro  del  soggetto,  gestione  dati  e conservazione,finanziamento e assicurazione, informazione e consenso.  

La  riflessione  che  nasce,  sull’importanza  della  figura  infermieristica  nei  CE,  è  proprio inerente alla valutazione dei protocolli sperimentali. Se è ben integrata con i membri del CE, se di volta  in  volta  valuta  ed  esprime  consenso  alla  sperimentazione,  il  suo  ruolo  da  infermiera  non dovrebbe fermarsi qui; nel senso che  l’infermiera tende a non andare oltre, non tende a cercare risposte.  Spesso  se  vogliamo  analizzare  gli  “aspetti economici della  sperimentazione”, eventuali “incentivi”, riguardano praticamente  la componente medica, anche se spesso  i protocolli vedono coinvolta  la  componente  infermieristica  assistenziale.  Ad  esempio  nella  somministrazione  dei farmaci  sperimentali,  rilevazione  dei  parametri  vitali  ovvero monitoraggio  per  eventuali  eventi avversi da sperimentazione, registrazione e raccolta dati per lo sperimentatore…. 

I problemi che possono emergere, e che l’infermiera si trova ad affrontare insieme agli altri componenti del C.E., possono essere: 

elementi  che  possono  influenzare  il  campione  oggetto  di  studio,  (influenzando l’attendibilità del risultato). 

valutazione  dell’innovazione  dell’eventuale  terapia  proposta  versus  una  già esistente/tradizionale (comprese eventuali modalità per la sospensione di uno studio che si dimostri inadeguato nei risultati o addirittura dannoso). 

costo/beneficio;  assicurazione, se presente;  privacy, conservazione dei dati;  correttezza e completezza delle informazioni;  Consenso informato. 

  A tal proposito, il professionista è consapevole che il consenso informato assume un ruolo 

fondamentale  nella  sperimentazione,  è  un  momento  etico  in  cui  il  soggetto  assume  delle responsabilità di fronte a sé stesso.  Nel protocollo secondo le GCP ICH‐ Maggio 2004, recepite nel 

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nostro stato con D.L 200 del 6‐11‐072, nei principi da considerare inerenti al consenso informato si legge : “ in nessun caso il consenso del soggetto può implicare una rinuncia al diritto‐indisponibile ed  inalienabile‐  alla  vita  e  all’integrità  personale,  (fisica,psichica  e  morale).  Le  ricerche  o sperimentazioni  sull’essere umano non possono giustificare atti  in  se  stessi  contrari alla dignità della persona e alla legge morale, l’eventuale consenso dei soggetti non giustifica simili atti…..”. 

Purtroppo  succede  spesso,  che  gli  stessi  infermieri  non  sono  a  conoscenza  della sperimentazione  clinica  che  avviene  nella  loro  Unità  Operativa,  per  tale  motivo  mi  ritrovo  a chiedermi quanto potrei io, in quanto componente di C.E,  e quanto i miei colleghi nei loro C.E di appartenenza, potrebbero essere incisivi e chiedere, con il consenso di tutti i membri e soprattutto del  Presidente  del  CE,  di  parlare  con  lo  sperimentatore  e  di  coinvolgere  l’intera  equipe infermieristica, di citarla nelle pubblicazioni scientifica, di coinvolgerli anche per la distribuzione di eventuali incentivi.  

Coinvolgere gli infermieri nella sperimentazione clinica, in un progetto di ricerca, vuol dire avvalersi  anche  della    rappresentante  delle  professioni  infermieristiche,  componente  del  CE,  la quale  potrebbe  essere  un  valido  supporto  nel  passaggio  di  informazioni,  ottenendo  così  uno scambio  comunicativo  continuo  anche  per  la  valutazione  in  itinere  della  sperimentazione,  e  gli infermieri non sarebbero più solo esecutori di assistenza. 

Certamente, un altro passo  fondamentale per  la nostra professione è quella di diventare promotori  stessi  di  studi  sperimentali,  in  cui  attraverso  uno  “  sguardo  infermieristico”  ne conseguirà comunque un protocollo multidisciplinare, in cui la ricerca attiva coinvolge competenze cliniche, specialistiche, metodologiche, statistiche,farmacologiche… 

Nel 1998 vennero pubblicate alcune linee guida dalla Research Society of the Royal of Nursing, con  lo  scopo  di  dare  alcune  semplici  indicazioni  agli  infermieri  con  un  ruolo  di  supervisori  a ricerche sperimentali che si svolgono nelle loro Unità Operative3 : 

Essere d’accordo con delle precise linee‐guida prima dell’avvio della sperimentazione;  Essere  consapevoli  dei  principi  etici  che  guidano  la  ricerca  e  accertarsi  che  essi  siano condivisi da tutti coloro che vi partecipano; 

Accertarsi che tutti  i ricercatori che partecipano alla ricerca conoscano e si attengano alle linee guida sull’integrità morale del ricercatore; 

Aiutare  coloro  che  conducono  la  ricerca  a  esplicitare  i  dilemmi  etici  che  emergono  dal progetto stesso e a trovare le relative soluzioni; 

Assicurarsi che  l’intento perseguito dalla ricerca sia  formalmente presentabile ai Comitati Etici interni ed esterni; 

                                                            2 Requisiti di un protocollo di sperimentazione clinica secondo la GCP ICH maggio 2004 tratto da  A. Bignamini. Comitati etici. Storia e funzioni ‐ maggio 2004. Tratto da  A. Spagnolo. 3 Christine M. Beerman. Nurse's role in bioethics. In AORN Standard Recommended  Practices, and Guidelines. 1997. Ralph Pinnock, Ian Crosthwaite. The Ethics Committee within the hospital in Auckland (New Zealand): The first 7 years. The New Zeland Medical Journal – 5 Novembre 2004, vol 117 n°1205 McDaniel, Charlotte phD, STM . the Hospital etich committees and the nursing parteciaption . the Journal of nursing administration,  da http:// www.ovidsp.it accesso il 10 nvembre 2009.  F.D.Pilotto, I comitati di Bioetica e l’infermiere. Alpha Omega, VIII,n.2,2005‐ pp 263‐281. A cura della redazione, dossier, Infermieri e sperimentazioni cliniche. Assistenza Infermieristica e ricerca 2004, 23, 2 . A.Liberati. Editoriale. Una flebo di trasparenza per i Comitati. R&P 2004; 20: 89‐90 P.Culotta,  I.Feroce,  L.Callegaro.  Recensione,    Ricerca  clinica.  Dalla  Good  Clinical  Practice  alla  buona  Assistenza. Giornale Italiano di Farmacologia, 22, 1, 2008. Comitato  Nazionale  per  la  Bioetica,  bioetica  e  formazione  nel  sistema  sanitario,  Presidenza  del  Consiglio  dei Ministri,1991. Leavitt F.J. Education nurses for their future role in bioethics, in Nursing ethics 3/1 1996 39‐52. 

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Assicurarsi,  prima  di  iniziare  la  ricerca,  che  il  progetto  di  ricerca  proposto  sia  stato approvato da tutti gli organi competenti; 

Assicurarsi, prima dell’inizio della  ricerca, che ci sia stata  l’approvazione da parte dei C.E locali,  e  di  quelli  coordinatori,  (cioè  dei  Comitati  del  centro  di  riferimento  di  una sperimentazione multicentrica), quando  il progetto coinvolge pazienti e clienti tutelati dal Servizio Sanitario Nazionale; 

Conformarsi alle linee guida riguardanti l’integrità morale del ricercatore;  Fornire training, tutoraggio e una costruttiva valutazione dell’operato del ricercatore. 

Facendo  un  analisi  della  letteratura  sull’infermiere  nei  Comitati  Etici,  ho  trovato  un interessante  articolo  tratto  da  “  the  Journal  of  Nursing  Amministration”,  nel  quale  si  parla dell’intervento  degli  infermieri  nei  CE  ospedalieri.  Attraverso  una  ricerca multidisciplinare  si  è analizzato  lo  scambio  comunicativo  fra  i  vari  componenti  i  CE,  e  il  contributo  fornito  dai  vari professionisti che vi aderiscono. E’ stato scelto un campione di 4 CE ospedalieri di un'unica grande regione Inglese, fra gli 8 presenti e che avevano chiesto di far parte della ricerca.  Sono stati scelti in base a questi 4 criteri:  

struttura del CE presente da almeno un anno;  i Componenti non dovevano avere avuto altre esperienze nei CE;  facilmente raggiungibili;  composizione multidisciplinare. 

Totali dei componenti CE presi in esame 99. I dati sono stati raccolti da un ricercatore osservatore, che ha registrato tre sessioni di CE, per 9 mesi, ( riunioni di CE mensili, dalla durata media di 1h e 30’). 

Le  conclusioni  che  si  traggono  dalla  lettura  è  che  gli  infermieri  che  partecipano  ai  CE possono  essere descritti per  la maggior parte di  sesso  femminile, di età media di 45  anni,  che ricoprono  ruoli  amministrativi  e  gestiscono  la  parte  clinica  assistenziale. Gli  infermieri  nei CE  o sono eletti o hanno scelto autonomamente di parteciparvi ed il loro incarico e di circa 4 anni. 

Sono  state  analizzate  le  informazioni  sulla  comunicazione  /  informazione    percepita  e ricevuta.  La  comunicazione  fra  il  Presidente  e  i  componenti  il  CE  è  abbastanza  equilibrata, ma parte sempre dal Presidente. Lo studio rivela che nonostante la partecipazione al CE da parte degli infermieri  sia  numerosa,  vi  è  poca  comunicazione,  e  vi  sono  molti  studi  che  riportano  che nonostante la loro partecipazione, la loro presenza non è una presenza “ attiva”. Il presidente del CE è quasi sempre un uomo, è sempre un medico.  Emerge  anche  un  altro  dato  interessante,  la mancanza  di  informazioni  sui  componenti  il  CE, all’interno della stessa azienda, la loro poca preparazione in ambito etico, la quasi totale assenza di comunicazione fra il CE interno e tutti gli altri professionisti presenti in ospedale.  

La  partecipazione  dell’infermiera  come  componente membro  del CE, potrebbe  sicuramente essere  più  incisiva  e  pregnante  se  oltre  alla  valutazione  dei  protocolli  sperimentali  di  ricerca clinica, potesse essere punto di riferimento per la consulenza etica. In effetti possiamo affermare che il ruolo dell’infermiera all’interno di un CE potrebbe essere così articolato: 

Conoscenza  e  aderenza  ai  “  valori”  propri  della  professione  e  attenzione  alla  persona, riconoscendo il suo coinvolgimento etico nei problemi che emergono durante l’assistenza; 

esprimere eventuale disaccordo  con  le decisioni mediche  se non  inerenti  al  valore della persona; 

riconoscere  i proprio valori e problemi e comprendere se siano centrati davvero su quelli del paziente; 

conoscere  e  rispettare  la  persona  soprattutto  sul  concetto  di  solidarietà  e  ricerca  del  “ bene dell’uomo”; 

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partecipare  sempre  agli  incontri  del  CE,  sollecitare  e  promuovere  eventuali  discussioni etiche, partecipando anche alle riunioni infermieristiche e multidisciplinari; 

proporre soluzioni all’interno di un CE;  aggiornarsi per migliorare i proprio sapere e l’autocoscienza;  se è possibile, portare il dibattito etico anche al pubblico. 

   Lo spessore etico dell’attività  infermieristica è evidente,  il contributo all’elaborazione etica è 

unico  e  insostituibile;  il  sapere  esperienziale  infermieristico  porta  raccolto  in  sé  la  storia  del paziente,  la  sua  sofferenza,  il quesito etico  che  in ogni momento dell’assistenza può emergere. Tutto ciò avviene manifestandosi  in un modo completamente differente  rispetto a  tutte  le altre professioni,  rendendo  la  professione  infermieristica  una  delle  più  autorevoli  espressioni  della crescita morale che un gruppo di professionisti può sviluppare.   

Riflettere sull’agire, presupposto per la coerenza nell’azione  Daniela Resta  ( infermiere coordinatore – AOU S. Giovanni Battista di Torino – S.C. Geriatria e Malattie Metaboliche dell’Osso – sede IRV )   In sistemi complessi che si configurano per dare risposte a domande sempre più complesse, ciò che viene prodotto attraverso le continue 

interazioni  degli  elementi  che  li  compongono,  diviene  l’elemento  strategico  e contemporaneamente  flessibile  che  spinge  costantemente  i  sistemi  a  interrogare  se  stessi. L’approccio  riflessivo  utilizza  una  conoscenza  dei  fenomeni  processuale,  circolare,  basata  su sistemi  di  retroazione  continua  tra  soggetti,  contesti,  strumenti  e  considera  la  realtà  una costruzione riflessiva che avviene attraverso tali relazioni, incluso l’intervento del professionista. Il professionista risponde alla complessità con una gestione selettiva delle  informazioni disponibili, attraverso costruzione di deduzioni che gli consentono di osservare  le cose senza  interrompere  il flusso  dell’indagine  in  atto.  Ciò  diviene  possibile  in  quanto  egli  ha  costruito  un  repertorio  di esempi, di  immagini, di chiavi  interpretative e di azioni che derivano dalla pratica. Nel cogliere  il senso di una  situazione  la  vede  come un qualcosa  che è già presente nel proprio  repertorio di conoscenze ed esperienze. Ciò  gli permette di  considerare  similitudini e differenze  rispetto  alla situazione  consueta.  La  fenomenologia qui  implicata  è  che ogni  volta  che  si dice  che qualcuno prende una decisione, quello che in realtà accade è che sta lavorando retrospettivamente. Quando ci si sente pronti a dichiarare che una decisione è stata presa, si ha a portata di mano un risultato che  deve  essere  stato  provocato  da  una  scelta  più  antica.  Decidere  consiste  nel  localizzare, articolare,  ratificare  tale  scelta  più  antica  riportandola  al  presente.  La  storia  recente  è  vista  in retrospettiva, con in mano i risultati provvisori per vedere quale decisione potrebbe render conto di quel risultato. Quella decisione plausibile è  la decisione che  le persone annunciano. L’aspetto cruciale in tutto ciò è che una decisione è un atto di interpretazione e non un atto di scelta. Questo non  sminuisce  né  banalizza  in  alcun modo  l’atto  della  decisione. Quello  che  fa  è  suggerire  un percorso diverso per giungere a decisioni migliori.  L’infermiere è attivo rispetto all’assunzione di decisioni che riguardano  la scelta e  l’attuazione di azioni  infermieristiche  in  risposta  ai  bisogni  identificati.  Le  decisioni  cliniche  e  i  processi  che  le sostengono rappresentano un aspetto importante nella cura e nell’assistenza infermieristica. Sono 

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infatti le decisioni cliniche che determinano l’efficacia dei comportamenti sanitari e gli stessi esiti sulla salute dei pazienti.4  Ma su quali basi il professionista sanitario prende la sua decisione clinica?  A partire dagli anni  ’70, si è sempre più sviluppato  il concetto di assistenza basata sulle prove di efficacia.  La nascita dell’era dell’informazione,  la  rapidità  con  cui  le  informazioni e  il  loro  flusso attraversano il mondo, hanno trasformato i processi decisionali dei professionisti della salute. Essi stessi hanno evidenziato la necessità di sostenere il processo decisionale attraverso l’utilizzo delle migliori prove di efficacia disponibili. L’Evidence Based Practice,  fondando  l’attività professionale sulla  nozione  di  processo  decisionale  razionale5,  consentirebbe,  da  una  parte,  all’utente  di usufruire dell’intervento ragionevolmente più efficace e con i minori effetti collaterali (dimensione etica),  e,  dall’altra,  al  professionista  di  agire  non  solo  sulla  base  di  presupposti  teorici  o  di esperienze personali  (dimensione professionale) ma  anche  sulla base delle  risorse disponibili  ai trattamenti di provata efficacia (dimensione economica).6  Tuttavia, dati di  letteratura  internazionale e  indagini  locali  indicano che molti professionisti, nel prendere  decisioni,  si  riferiscono  prevalentemente  a  quanto  appreso  durante  la  formazione  di base o  i  corsi di  formazione permanente, all’esperienza pregressa e al  consiglio di  colleghi o di esperti.7    Il  ricorso  a  tale  conoscenza  empirica  indica  che,  nel  processo  di  decision‐making,  gli infermieri  ricorrono  spesso  a  ”scorciatoie”  metodologiche  nei  confronti  delle  informazioni disponibili.  Essi  utilizzano  solo  una  parte  delle  informazioni  a  loro  disposizione  sul  contesto  di riferimento  per  elaborare  decisioni,  influenzando  l’orientamento  delle  scelte  con  una  forte impronta soggettiva. Le ricerche condotte nell’ambito della psicologia cognitiva dimostrano come i 

processi  decisionali  risultino condizionati dagli schemi cognitivi dei decision makers, attraverso i quali essi costruiscono  la  loro rappresentazione del  mondo  ed  il  loro  scenario  di riferimento.  Si  pone  dunque  il problema  di  analizzare  tali  schemi, allo  scopo  di  cogliere  più  a  fondo  le relazioni  tra  i  diversi  fattori contingenti  e  soggettivi  che contribuiscono  alla  strutturazione dei processi decisionali.  I  dati  presentati  nella  relazione  sono tratti  da  uno  studio  qualitativo  che affronta  il  problema  relativo  alla 

pregnanza del concetto di bisogno di assistenza  infermieristica nelle decisioni assistenziali. Scopo del  lavoro  era  di  descrivere  le  rappresentazioni mentali  degli  infermieri  riguardo  il  concetto  in esame e le correlazioni esistenti tra queste e le decisioni assistenziali, in modo da rendere evidenti i  sistemi  di  credenze  attraverso  i  quali  vengono  generate  le  decisioni  e  attribuito  loro  un significato.   

                                                            4 Thompson C. Clinical experience as evidence in Evidence‐based Practice, Journal Advanced Nursing, 2003, 43  Esperienza clinica o prove di  efficacia? Nursing Oggi 2004, 1 5 Hamer S. Collison G. Evidence Based Practice Assistenza basata su prove di efficacia, Mc Graw Hill, 2002, p.11   

6 Gamberoni L. Marmo G. Bozzolan M. Loss C. Valentini O.   Apprendimento clinico, riflessività e tutorato EdiSES, Napoli, 2009, p. 118    7 Gamberoni L. Marmo G. Bozzolan M. Loss C. Valentini O. op. citata, p. 119 

Bisogno di assistenza

infermieristica

Assistenza infermieristicaDecisioni

assistenziali

INFERMIERE

PAZIENTE

COMPORTAMENTI

RAPPRESENTAZIONI MENTALI

esprimono

leggono

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Il  concetto  di  bisogno  di  assistenza  infermieristica  rappresenta  la  prospettiva  con  cui  viene considerata la persona assistita e l’elemento che giustifica l’interazione con quest’ultima. Tuttavia, il suo essere categoria astratta non permette agli  infermieri  la sua osservazione diretta, ma solo inferenze a partire dall’osservazione dei comportamenti delle persone assistite. Tale caratteristica comporta che, per poterlo possedere, maneggiare in diverse interpretazioni e traduzioni operative e per  cogliere  ciò  che  serve alle persone  che  si assistono,  il  concetto debba essere elaborato e “mentalmente  rappresentato”.  La  pluralità  di  costrutti  culturali,  a  volte  molto  diversi,  rende ancora più difficoltosa  la  rappresentazione  simbolica del  concetto. Ci  si  trova  in una  situazione “paradossale” in quanto, alla grande abbondanza di idee e di concezioni teoriche non corrisponde una rappresentazione dell’oggetto circoscritta e realistica. E non solo perché sia difficile scegliere, ma perché,  in tale abbondanza, è difficile vedere8. Ne consegue che  lo spazio  lasciato   all’utilizzo delle rappresentazioni mentali personali nella comprensione della richiesta assistenziale è molto ampio, correndo il rischio che queste vengano costruite attraverso sistemi di rapporti e paradigmi di linguaggio attivati di volta in volta. Le  rappresentazioni  si  costituiscono quali punti di  contatto  tra  il  soggetto e  la  realtà esterna.  Il legame che unisce il soggetto alle proprie rappresentazioni è duplice: da un lato queste conducono l’interpretazione della  realtà  sulla base degli  schemi  cognitivi del  soggetto, dall’altro, attraverso questi  schemi,  il  soggetto  costruisce  la  propria  rappresentazione  del mondo  e  lo  scenario  di riferimento9.  Il  legame  fra rappresentazioni mentali e processi decisionali è stretto: conoscerlo e descriverlo  significa  poter  cogliere  ciò  che  dà  forma  all’azione,  almeno  quella  intenzionale  e consapevole.  Lo studio è stato condotto seguendo il metodo Cognitive Mapping Approach che utilizza le mappe cognitive per rappresentare gli schemi cognitivi del decisore. L’acquisizione dei dati e l’estensione delle mappe è stata ottenuta seguendo le fasi del Documentary Coding Method: al campione di 14 infermieri,  individuato secondo  la tecnica di campionamento non probabilistico a palla di neve, è stata  proposta  la  lettura  di  un  caso  assistenziale  complesso  e  richiesto    di  rispondere  a  tre domande aperte. Il software T‐LAB® nella versione Pro.6.0.02 ha consentito di realizzare le analisi tematiche e comparative sui testi e di ricostruire le mappe cognitive su cui avviare l’analisi dei dati.  Successivamente  all’analisi  dei  testi,  secondo  il  metodo  e  gli  strumenti  prima  descritti,  si  è proceduto ad una  loro attenta  lettura allo scopo di estrarre  le affermazioni significative dal  loro contenuto. Questo ha permesso di raffinare ulteriormente le rappresentazioni ottenute attraverso le mappe cognitive e contestualizzare le dichiarazioni offerte dagli intervistati I risultati dello studio evidenziano una significativa variabilità nell’interpretazione della situazione assistenziale esposta nel  caso  tale da portare  i decisori a  scelte anche molto diverse  tra  loro  in merito al caso in oggetto.  Dal punto di vista dimensionale, la mappa ottenuta dall’analisi dei testi è  composta da 202 unità  lessicali;    la  frequenza  con  cui queste  ricorrono nei  testi hanno valori intercorrenti  da  4  fino  ad  un massimo  di  108.  Le  unità  lessicali  più  frequenti  risultano  essere rispettivamente  Paziente,  Bisogno,  Figlia,  Infermiere.  Queste  quattro  parole  rappresentano  i concetti con maggiore centralità cognitiva, ovvero quelli su cui poggiano  i processi cognitivi degli intervistati.  A  partire  dai  testi  ricavati  dalle  interviste  è  stato  possibile  disegnare  una mappa  concettuale complessiva, presentata nella figura seguente. 

                                                            8 Olivetti Manoukian F. Produrre servizi. Lavorare con oggetti immateriali. op. citata, p. 69 9 Muzzi C. Ortolani C. Le mappe cognitive come strumento di analisi delle distanze cognitive nel processo decisionale. Rivista di Studi Organizzativi, Franco Angeli Editore, Milano, 2003  

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Lo  spazio  bi‐dimensionale  è organizzato  da  due  assi  (X  = orizzontale e Y = verticale) che, in analogia  con  le  mappe topografiche,  consentono  di individuare  i  “punti  cardinali”  e quindi  di  orientarsi nell’interpretazione.     A partire da questa prima lettura, i  testi  sembrano  essere  complessivamente  organizzati dalle  direttrici  illustrate  nel grafico alla pagina successiva.   

  

                  Per ognuna delle parole chiave sono state dettagliate le associazioni fra queste e i termini presenti all’interno dei testi. I risultati hanno prodotto rispettivi grafici dove il lemma selezionato è posto al centro e gli altri distribuiti intorno ad esso, ciascuno a una distanza proporzionale al suo grado di associazione.  Di  seguito  viene  presentato  il  diagramma  delle  associazioni  relative  al  lemma “bisogno”.  

Interventi educativi

Competenze educative

Interventiassistenziali

AreeIndagine

diagnostica

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Sulla stessa parola chiave si è avviata l’analisi  delle  sequenze  a  partire  da una  matrice  in  cui  sono  registrati tutti  i  termini  predecessori  e  tutti  i successori  di  una  singola  unità lessicale.  Il  valore  della  loro frequenza  è  stato  trasformato  in valori di probabilità e visualizzato  in grafici,  all’interno  dei  quali  la distanza  di  un  termine  dal  lemma centrale  è  proporzionale  alla probabilità  che hanno di precederlo o  di  succedergli.  Nella  figura  che segue viene riportata la riproduzione grafica  dell’analisi  delle  sequenze relativa  al  lemma  “bisogno”:  a 

sinistra,  in  blu,  sono  riconoscibili  i  termini  predecessori mentre  a  destra,  in  rosso,  i  probabili successori.  Se  tra  i  termini  predecessori  del lemma  in  oggetto  sono  presenti vocaboli  relativi  all’esercizio  delle competenze  infermieristiche nell’ambito  della  valutazione, individuazione,  rilevazione  dei bisogni, queste scompaiono del  tutto se si considerano i termini successori, importanti  per  segnalare  il  livello  di interdipendenza  del  nodo  centrale rispetto  ai  concetti  espressi all’interno di un testo.  In questo caso assistiamo ad una desertificazione del campo,  nel  quale  non  è  presente alcun rimando al concetto di  bisogno di assistenza infermieristica. L’assenza dei contenuti specifici professionali (presente anche nei diagrammi relativi ai termini “infermiere” e  “paziente”)  genera  il  rischio  di  concepire  l’assistenza  infermieristica  quale  assistenza  non richiedente  l’esclusivo contributo  infermieristico. Le probabili cause di ciò  sono da  ricercarsi nel fatto  che  è  praticamente  assente  la  correlazione  dei  bisogni  di  assistenza  infermieristica  ai problemi  di  salute  descritti  nel  caso,  alle  abitudini  di  vita  del  paziente  e  ai    fattori  che  ne influenzano  la contestualizzazione. Assenza, questa, che non permette di comprendere  l’insieme della  situazione  di  bisogno  di  quella  persona,  impedendone  una  lettura  integrata  tra  il  piano scientifico  dato  dalle  evidenze  e  quello    della  comprensione.  Un’ulteriore  conseguenza  della mancata  contestualizzazione  e  collegamento  con  il  problema  di  salute  è  la  rappresentazione semplificatoria dell’assistenza  infermieristica. Questa emerge dai dati  raccolti  come  l’insieme di attività  volte alla gestione del bisogno anziché delle decisioni prese  in  sua  risposta.  Il  fatto  che nessuno  degli  intervistati  abbia  dichiarato  di  assumere  le  proprie  scelte  anche  alla  luce  delle evidenze  scientifiche  aggiornate,  fa  pensare  che  le  relative  rappresentazioni  dei  bisogni discendano soprattutto dalle sole conoscenze di senso comune piuttosto che dall’associazione di 

- 0,04 - 0,03 - 0,02 - 0,01

0,8 1,2 2,00,4

- 1,0

- 2,0

0,050

0,025

INDIVIDUAZIONE

VALUTARE

RILEVARECONSIDERARE

INFERMIERE

CHIRURGICO

EVIDENZIAREFAMIGLIARE

BISOGNO

- 0,05

INFERMIERISTICOPAZIENTE

PAZIENTE

AUSILIO

INESPRESSO

SICUREZZA

ASSISTENZA

1,6

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queste  con  quelle  derivate  dalla  riflessione  sull’esperienza  e  pratica  professionale  e dall’elaborazione concettuale.    I  testi delle  interviste e  le mappe disegnate evidenziano  le difficoltà  incontrate dai  soggetti nel definire  il  concetto  di  bisogno  di  assistenza  infermieristica:  per  descriverlo,  essi  utilizzano  dati legati alla pratica quotidiana, ovvero le azioni e le attività intraprese in sua risposta, invece che gli elementi professionalizzanti che lo contraddistinguono.  In assenza del processo del ragionamento diagnostico, quale base per l’individuazione dei bisogni di assistenza infermieristica, sembra piuttosto che il percorso utilizzato per il loro riconoscimento avvenga a ritroso: poichè svolgo quell’azione, quell’azione mi riguarda e mi conduce al bisogno. In questa  chiave,  non  essendo  vincolata  dalle  regole  metodologiche  del  processo  assistenziale, l’individuazione dei bisogni  e  le decisioni  assistenziali  sono  agite nella  totale discrezionalità del singolo e basate su scelte di senso comune.  In situazioni di questo tipo  il processo decisionale di scelta avviene “nel corso di una carriera di azioni”, ovvero che, come afferma Garfinkel10,  i suoi risultati sono resi sensati retrospettivamente al fine di sostenere la scelta operata.  La rappresentazione del termine “infermiere” attraverso il grafico che riassume le unità lessicali a questo  associate,  disegna  una  figura  di  professionista  in  cui,  in  questa  situazione  assistenziale,  sembra prevalere la componente tecnica dell’assistenza infermieristica, abbracciando un concetto di competenza che è prodotto di una logica tecnico‐strumentale.   I dati emersi dallo studio, seppur bisognosi di successive  indagini, hanno messo  in evidenza che sembra  non  esistere,  per  gli  infermieri,  un  concetto  di  bisogno  di  assistenza  infermieristica definito,  al  quale  riferirsi  quando  impegnati  nelle  scelte  decisionali.  Il metodo  utilizzato  nella conduzione  dello  studio  ha  permesso,  attraverso  l’estensione  delle  mappe  cognitive  quali rappresentazioni  della  parte  del  sistema  di  credenze  di  un  individuo  attivata  dal  problema  in esame, di mettere  in  luce  la  varietà  e  le differenze nelle  rappresentazioni del  concetto  e della distanza fra queste e quanto definito centrale per la professione infermieristica.  Tale  distanza  si  traduce  nell’ancoraggio  delle  decisioni  assistenziali  piuttosto  che  ai  paradigmi fondanti della disciplina infermieristica e a una visione sistemica in risposta alla complessità delle situazioni,  ai  rituali  provenienti  dalla  pratica  quotidiana  e  al  senso  comune.  Inoltre,  poiché  le rappresentazioni  mentali  sono  connotate  culturalmente  e  socialmente,  una  rappresentazione mentale  del  concetto  portante  della  professione  infermieristica  così  sprovvista  di  elementi distintivi  e  un  linguaggio  utilizzato  per  descriverlo  così  vago  e  insufficiente  dal  punto  di  vista simbolico,  intacca  la capacità di rappresentazione di sé come professionista e, di conseguenza,  la capacità di  rappresentarsi  agli  altri  come  tale.   Tuttavia  sarebbe  riduttivo  considerare  tali  limiti come  sola espressione dell’inadeguatezza dei  singoli professionisti: questi ultimi  sono piuttosto portatori degli effetti di un processo di professionalizzazione ancora giovane e per questo fragile. La centralità di concetti e paradigmi condivisi, l’utilizzo del ragionamento diagnostico come pratica quotidiana non sono obiettivi così lontani, ma occorre, per usare le parole di Olivetti Manoukian, “staccarsi da ciò che si deve, per  investire su quello che si può perché quello che si può è quello che già c’è e che non è visto e valorizzato”. Quella che può apparire un’arretratezza può essere allora  colta  come  un’opportunità  e  diventare  un  terreno  di  sperimentazione  di  un  legame  da costruire tra pratica, sviluppata e diffusa e ricerca.  Per affrontare ciò sono necessari strumenti che superino la sola condivisione e la concordanza su concetti  o  paradigmi,  per  non  cadere  nell’equivoco  descritto  da  Weick:  “quando  le  persone concordano su un paradigma, è probabile che siano d’accordo sulla sua esistenza più che sulle sue 

                                                            10 Garfinkel H. Studies in Ethnometodology. Prentice Hall. Englewood Cliffs. NJ. 1967 Disponibile al seguente indirizzo web: http://www.scienzepostmoderne.org/Libri/StudiesEthnomethodology.html  (ultima consultazione 22/10/2009) 

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regole o  sulla  forma  razionalizzata”11.   Si  tratta di  ricostruire  i determinismi e  i modelli culturali interiorizzati  che  hanno  strutturato  i  pensieri  tanto  da  essere  connaturati:    per  poter  aprire  e mobilitare delle possibilità di conoscenza che non  siano  solo attivazione di pensieri pre‐pensati, applicazione di saperi precostituiti e per poter dare agli elementi della realtà esterna dei significati che non siano solo quelli già acquisiti12. Un primo strumento che si delinea come utile a tale scopo deriva dal metodo impiegato in questo studio  e  si  configura  nelle  mappe  cognitive,  che  oggettivano  le  rappresentazioni  mentali  dei soggetti  e  contemporaneamente  ne  esplicitano  i meccanismi  sottostanti. Ma  non  si  tratta  solo della  loro  costruzione:  il  passo  successivo  necessario  per  sfruttare  appieno  il  loro  supporto  è quello di condividerle. Questo permetterebbe di avviare il confronto sui punti di distanza cognitiva nelle  percezioni  dei  diversi  soggetti  e  passare,  successivamente,  alla  loro  ricomposizione.    Il confronto tra  le mappe e  le diverse  interazioni mentali che   raffigurano, arricchisce  i costrutti e  i nessi  causali  che  li  legano e   permette di affrontare  le distinte  visioni e  costruzioni della  realtà originate dal personale set di esperienze e dal ruolo professionale del soggetto.  Quale  può  essere  lo  spazio  dove  tale  confronto,  così  intenso,  può  avvenire?  Quale  luogo  di incontro per i professionisti? Le Comunità di Pratica si presentano come lo strumento che offre le caratteristiche  utili  ai  soggetti  per  interagire,  collaborare,  cooperare  attraverso  una  forma  di apprendimento mutuato, basato cioè sulla condivisione delle esperienze.  I dati ricavati dal lavoro suggeriscono la possibilità di attivare Comunità di Pratica Infermieristiche dove  i professionisti convergano  le  loro  riflessioni  su quegli elementi oggettivi   che, offrendo  la chiave di interpretazione delle rappresentazioni mentali, facilitino il passaggio dall’operatività alla concettualizzazione.  Processo,  quest’ultimo  che  porta  a  riflettere  sul  rapporto  tra  pensiero, linguaggio  e  cultura,  in  questo  caso  professionale.  La  possibilità  di  analizzare  e  condividere rappresentazioni mentali di concetti apre  la possibilità di non essere parlati dalla cultura, ma di poter  riflettere  su  di  essa.  La  condivisione  e  diffusione  di  queste  conoscenze  anche  nelle  loro componenti tacite è fondamentale, perché un individuo è in grado di elaborare concetti solo se è consapevole  di  ciò  che  conosce.  La  spirale  continua,  così  attivata,  è  possibile  che  alimenti costantemente  la  pratica  riflessiva  su  cui  attivare  processi  di  apprendimento  per  i  singoli professionisti, per la comunità professionale, per le organizzazioni, avviando nel tempo anche una trasformazione del linguaggio, via per una trasformazione comportamentale.    

 La fatigue: comprendere per aiutare.  Gianna  Regis  (Responsabile  del  progetto  di  Educazione  Terapeutica,  In collaborazione  con  tutto  il  gruppo  Infermieristico  S.O.C.  Oncologia dell’Ospedale di Ivrea ASL TO4)   Le parole chiave di questo  lavoro sono “la fatigue nella persona assistita in  ambito  oncologico”,  e  “l’educazione  terapeutica  quale  momento fondamentale  dell’essere  infermieri”.  Come  un  intervento  educativo 

effettuato  dagli  Infermieri,  rivolto  agli  Utenti  con  patologia  oncologica,  può  modificarne  i comportamenti e quindi migliorarne la qualità di vita.  

                                                            11 Weick K. Senso e significato nell’organizzazione. op. citata p. 129 12 Olivetti Manoukian F. Produrre servizi. Lavorare con oggetti immateriali. op. citata, p. 72

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La CANCER RELATED FATIGUE è un malessere persistente, un soggettivo senso di stanchezza o di esaurimento correlato al cancro o ai suoi trattamenti, non proporzionale alle attività svolte e che interferisce con le normali attività quotidiane.  E’ una condizione soggettiva spesso più  invalidante del dolore, della nausea e della depressione, descritta  dai  Pazienti  in  vario modo  utilizzando  aggettivi  come  “affaticato,  indebolito,  esausto, spossato,  sfiancato,  stanco,  intorpidito”.  Alcuni  Pazienti  percepiscono  la  fatigue  come  un’ alterazione  psicologica  ,  ad  esempio  la  perdita  di  concentrazione  e  di memoria  o mancanza  di volontà o del desiderio di compiere qualsiasi cosa.  Dal 2000 la fatigue è riconosciuta a tutti gli effetti come una malattia correlata al cancro e non più considerata  semplicemente come un  insieme di  sintomi che affliggono  l’ esistenza e  fiaccano  la volontà del malato di tumore.   Incidenza: E’ il più comune sintomo dei Pazienti oncologici: il 70‐80% ne è affetto.   In corso di chemioterapia       80% In corso di radioterapia           80% A due anni dal trattamento    70% In fase terminale                      80‐90%  Cosa percepisce il Paziente: 

• Sensazioni fisiche: difficoltà a svolgere le quotidiane attività • Sensazioni di tipo emozionale: diminuite motivazioni e cambiamenti del tono dell’ umore • Sensazioni di tipo cognitivo: difficoltà a concentrarsi o a formulare pensieri compiutamente  

 Destinatari del progetto educativo I destinatari di questo progetto sono tutti i Pazienti oncologici ( di qualsiasi età, sesso , e patologia) che  afferiscono  al  Day‐Hospital  del  Centro  Oncologico  dell’Ospedale  di  Ivrea,  ASL  TO4,    in trattamento chemioterapico.  Analisi dei bisogni educativi dei destinatari Presso  il  Day‐Hospital  oncologico  di  Ivrea,  viene  regolarmente  distribuito  a  tutti  i  Pazienti  il QuestionarioTIQ ( Therapy Impact Questionnaire), per  la valutazione della qualità della vita e per rilevare i sintomi che maggiormente hanno afflitto i Pazienti. (ALLEGATO 1) Il TIQ E’ uno strumento multidimensionale, che considera 4 aree ritenute fondamentali nella valutazione della qualità della vita, per un totale di 36 item. Le domande tendono ad evidenziare le difficoltà o gli stati  negativi subiti dai Pazienti tramite una scala verbale di tipo Likert con 4 possibili risposte   (  no,  un  po’, molto  ,moltissimo)  .  Il  TIQ  può  essere  utilizzato  nei  Pazienti Oncologici,  sia  nella ricerca che nella pratica clinica. Le 4 dimensioni che definiscono operativamente in questo strumento la qualità della vita sono: 

• effetti fisici concomitanti alla malattia e ai suoi trattamenti ( 24  item) stato funzionale ( 3 item) 

• effetti emotivi e cognitivi concomitanti ( 6 item) • interazione sociale( 2 item) 

Alle suddette aree si aggiunge un singolo item globale “ E’ stato fisicamente male?” 

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La  somministrazione  del  TIQ  avviene  da  parte  del  personale  infermieristico  preparato  al  suo utilizzo. Di facile compilazione in 5/10 minuti da parte del malato, o in caso di condizioni precarie di salute, da parte dell’ Operatore tramite intervista al malato.  Presso il Day Hospital di Ivrea, sono stati analizzati alcuni Questionari TIQ  : il campione analizzato comprendeva  32  Pazienti  ,  di  cui  16  affetti  da  carcinoma  polmonare  e  16  Pazienti  affetti  da carcinoma della mammella. Elaborando le risposte date alle domande presenti nel TIQ, è emerso che oltre l’80% dei Pazienti riferisce stanchezza, mentre sintomi quali il vomito vengono riferiti dal 31,25% dei Pazienti e l nausea è riferita dal 50% dei Pazienti. Da tali dati emerge che la fatigue è il problema più comune a questo tipo di Pazienti ed è quello da loro maggiormente sentito. E’ stata effettuata quindi una ricerca di dati che confermassero o meno quanto emerso dall’ analisi delle cartelle del campione preso in esame: la ricerca effettuata è stata fatta utilizzando materiale bibliografico e materiale disponibile on line. I dati provenienti dalla letteratura confermano che la fatigue è uno dei problemi maggiormente sentiti  dai Pazienti oncologici e meno trattati.   Obiettivi:   OBIETTIVO DI DESTINATARI • miglioramento della qualità di vita • mantenimento del peso corporeo • potenziamento della forza e della funzione dell’ organismo • miglioramento dell’ immagine corporea • mantenimento della propria autonomia nello svolgimento delle funzioni inerenti la propria • persona ( cura di sé, igiene personale, cura dell’ abbigliamento,..) • mantenimento  per  il maggior  tempo  possibile  dell’autonomia  nella  vita  relazionale,  sociale, 

lavorativa,…dei Pazienti oncologici    OBIETTIVO DEI FORMATORI  • sensibilizzazione e presa di coscienza dell’      importanza dell’educazione terapeutica  in campo 

oncologico • apprendimento di informazioni sulla metodologia dell’ educazione all’adulto • apprendimento di informazioni sulla fatigue, e stimolo all’ insegnamento ai pazienti   OBIETTIVO DELL’ AZIENDA • offerta di un servizio sanitario pubblico che comprenda    l’ aspetto educativo per  i pazienti e 

familiari   • riduzione delle chiamate a Medici di Medicina Generale, Medici della Continuità assistenziale, 

Oncologi, per disturbi legati all’ astenia intensa, perdita di peso,., nei Pazienti Oncologici seguiti presso il Centro dell’ Ospedale di Ivrea. 

     

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Risorse: a. economiche 

• Costo della carta per la stampa dei questionari TIQ • Costo della carta colorata per la stampa dei diari e dei libretti informativi per i Pazienti • Utilizzo delle attrezzature informatiche della SOC di Oncologia  

b. umane  • costo‐tempo per gli Operatori che partecipano al progetto per : • riunione di presentazione ( fuori orario di servizio) • riunione organizzativa   prima dell’  inizio dell’ attuazione del progetto  (  fuori orario di 

servizio) • 2 incontri formativi (in orario di servizio per i Docenti e fuori orario per i Discenti) • effettuazione colloqui individuali ( in orario di servizio) • riunioni bimestrali di verifica dell’ andamento del progetto ( fuori orario di servizio) 

e.  logistiche • necessità   di una  sala per  incontri  formativi  : Biblioteca ospedaliera o  Studio medico 

utilizzato già regolarmente per i GIC o le riunioni di reparto • necessità di uno spazio in cui sia garantita la privacy per colloqui singoli con Pazienti e 

parenti f.  di tempo 

• tempo  di  progettazione  :  tutta  la  fase  progettuale  che  è  stata  svolta  nei  mesi  da gennaio a maggio 2008  è stata effettuata non in orario di lavoro, ma dedicando tempo personale.  Sono stati effettuati in orario di servizio i colloqui con i Responsabili e i vari professionisti interessati nel progetto , come pure la ricerca di dati on‐line.  

• tempo di attivazione : vedere cronoprogramma • tempo di valutazione : si presume che il tempo necessario per la fase di valutazione  sia 

stimabile in circa 30 ore, comprensivo di revisione dei dati, compilazione delle schede di rilevazione dati, redazione del report conclusivo. 

   Stakeholder: individuare i portatori di interesse e la modalità di coinvolgimento Medici Oncologi Centro formazione Ufficio Relazioni con il Pubblico Infermieri dei Distretti Personale dell’Hospice             

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                               Analisi fattibilità:    In  un  primo momento  era  stata  valutata  la  possibilità  di  effettuare  incontri  comuni,  con  più Pazienti  che avessero gli  stessi bisogni, gli  stessi  interessi,  lo  stesso  sviluppo di  competenze.  La fattibilità  degli  incontri  di  gruppo  è  stata  valutata  sia  con  gli Operatori,  che  con  un  campione ristretto  di    Pazienti,  e  tutti,  hanno  evidenziato  la  difficoltà  di  partecipazione  a  tali  incontri,  in quanto arrivano da  lontano, alcuni non sono  in grado di guidare autonomamente nel periodo  in cui effettuano  chemioterapia per  cui dovrebbero  ricorrere al  supporto di un  familiare  ( …” mio figlio perde già tante ore di lavoro per accompagnarmi a fare le terapie , gli esami, le visite,…, che non voglio chiedere altro aiuto in questo periodo…magari più avanti…”).  Si  è  scelto  quindi,  almeno  in  questa  fase  iniziale  del  progetto  di  utilizzare  il  metodo  dell’ INSEGNAMENTO  INDIVIDUALE. Pur consapevole che  la ricchezza dello scambio di esperienze che avviene  tra diversi Pazienti, all’interno di un gruppo, non si può  riproporre nel  rapporto a due  ( Operatore  sanitario‐Paziente),  si è pensato  che  in questo momento,  in questa  situazione,  sia  il metodo  educativo  più  efficace.  Nel  rapporto  a  due  vengono  integrati  strettamente  l’ insegnamento,  la  valutazione  e  il  sostegno  psicologico.  Costituisce  il metodo  di  elezione  per  l’ 

attività Feb. Mar. Apr. Mag. Giu. Lug. Ago. Set. Ott. Nov. Dic. Gen. Stesura progetto di base

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Verifica TIQ e analisi dati

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Analisi bibliografia

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Colloquio con Direttore SOC

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Colloquio con Responsabile Polo Onc.

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Riunione con Infermieri

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Contatto con gli Specialisti

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Predisposiz. Libretto informativo

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Predisposiz. diario

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Predisposiz. Schede monitoraggio

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Incontri formativi per gli Infermieri

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Riunione organizzativa e avvio

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Inizio colloqui con Utenti

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1° verifica e riprogettazione

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educazione  continua  del  Paziente.  Permette  anche  di  rivalutare  i  bisogni  del  Paziente,  le  sue competenze e di orientarle verso una attività pedagogica più appropriata. Insegnamento individuale   VANTAGGI Personalizzazione Relazione privilegiata Possibilità di circoscrivere i bisogni specifici del Paziente Rispetto del ritmo del Paziente Miglior contatto Migliore conoscenza del Paziente Permette di affrontare il vissuto del Paziente    SVANTAGGI Nessun confronto con gli altri Pazienti Assenza della dinamica di gruppo Rischio di insegnamento poco strutturato Richiede troppo tempo Rischio di influenza dell’ Operatore sul Paziente Rischio di incompatibilità con un Paziente “difficile” Stanchezza dovuta alla ripetizione  Stesura piano operativo  

• Stesura del progetto di base  Sulla base di quanto si sta apprendendo e discutendo con il gruppo del Corso di Educazione Terapeutica, si pensa a come stendere un progetto educativo, mirato a Pazienti oncologici e ai loro familiari, che abbia come obiettivo un cambiamento di comportamenti atti a migliorarne la qualità di vita. 

  

• Verifica dati questionario TIQ e rilevazione sintomo prevalente Vengono analizzati  i dati  ricavati dai questionari TIQ di 32 Pazienti, da cui si evidenzia che  il sintomo più  frequentemente  segnalato è  la  fatigue. Si pensa quindi  che  tale valutazione  sia meritevole di maggiore approfondimento, per capire se può essere utile investire delle risorse per  fare  un  progetto  educativo  centrato  sul miglioramento  della  fatigue,  con  conseguente miglioramento della qualità di vita del Paziente. 

  

• Analisi bibliografia inerente Si  effettua  una  ricerca  bibliografica  (  sia  su  testi  che  on‐line)  per  confermare  o meno  la frequenza  ,  l’  importanza  della  fatigue  e  il  suo  impatto  sulla  qualità  di  vita  dei  Pazienti oncologici. 

    

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• Colloquio con il Direttore della SOC di Oncologia per discussione del progetto  Durante il colloquio con il Direttore della SOC di Oncologia, si presenta il progetto, gli obiettivi educativi,  la  necessità  di  coinvolgimento  anche  del  Personale  Medico  sia  nella  fase  di formazione del personale infermieristico, sia come coinvolgimento successivo, durante la parte operativa (presenza e supporto eventuale all’Infermiere durante i colloqui con i Pazienti,...) 

  

• Colloquio  con  il  Responsabile  di  Polo  e  Direttore  del  Dipartimento  Oncologico  per discussione del progetto  

Il colloquio con  il Responsabile di Polo e Direttore del Dipartimento Oncologico dell’ ASL TO4 ha  l’  obiettivo  di  illustrare  il  progetto  nel  suo  complesso,  e  richiederne  l’  approvazione  e eventuali  critiche  e/o  suggerimenti.  Si  chiederà  inoltre  l’  autorizzazione  per  l’  utilizzo  delle risorse umane, economiche e logistiche necessarie. 

  

• Riunione con gli Infermieri dell’Oncologia e condivisione del progetto Nella  riunione,  a  cui  sono  invitati  tutti  gli  Infermieri  della  SOC  di Oncologia  di  Ivrea,  viene illustrato  il  progetto  nel  suo  complesso,  soffermandosi  maggiormente  sugli  obiettivi,  sull’ importanza  dell’  educazione  terapeutica  nella  professione  infermieristica,  sull’  utilità  di  un’ impronta educativa in tutto ciò che i professionisti dell’ assistenza svolgono accanto a Pazienti oncologici e loro familiari. Si discute insieme delle fasi operative del progetto, dove è previsto il coinvolgimento di tutto il gruppo infermieristico. 

 • Predisposizione  del  materiale  per  la  discussione  con  i  colleghi  Infermieri  dei  concetti 

basilari dell’ educazione  terapeutica.  Tutti gli  Infermieri,  in quanto tali, hanno   delle competenze  in educazione terapeutica, ma si ritiene utile condividere con  loro alcuni concetti che sono stati appresi durante  il corso. Ciò è previsto  durante  il  primo  incontro  formativo,  che  si  terrà  a  settembre  2008,  attraverso  la distribuzione di materiale illustrativo precedentemente preparato e successiva discussione con il gruppo infermieristico. L’obiettivo è di sensibilizzare il gruppo all’acquisizione di competenze educative, e ad imparare a farlo in modo organizzato, continuo, e controllato. 

 • Contatto con gli Specialisti del gruppo interdisciplinare di Educazione terapeutica Si  prevede  un  colloquio  individuale  con  i  quattro  Professionisti  che  si  occuperanno  della formazione degli Infermieri , con la presentazione del progetto globale, e con la discussione e condivisione degli argomenti da trattare.  • Oncologo • Fisioterapista • Psicologa • Dietista 

 • Predisposizione del libretto informativo da distribuire ai Pazienti  

Attraverso l’analisi della bibliografia, e lo studio di alcuni libretti informativi già costruiti, si tenta di predisporre un  libretto semplice,  facilmente  riproducibile, e soprattutto di  facile lettura da parte di Pazienti di ogni età, cultura,... La bozza di tale libretto verrà discussa con l’ equipe  infermieristica, e verrà proposta a un piccolo campione di Pazienti, per avere un parere globale e soprattutto critiche e suggerimenti. 

 

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• Predisposizione del diario per i Pazienti Si ritiene utile l’utilizzo di un diario per far riflettere il Paziente sui momenti della giornata in cui ha più energie e quindi concentrare le attività più faticose in questi momenti.  

  

• Predisposizione schede di monitoraggio del progetto Si predispongono alcune schede per il monitoraggio e la valutazione del progetto. 

  

• Organizzazione di 2 incontri formativi per gli Infermieri  Vengono  coinvolti  tutti  gli  infermieri  della  SOC  di  Oncologia  dell’  Ospedale  di  Ivrea,  che saranno parte attiva nel progetto. Il dettaglio operativo dei due incontri formativi, si trova all’ allegato 7.  Il primo  incontro è previsto con  la responsabile del progetto, con  l’ Oncologo e  la Psicologa, mentre il secondo sarà con la dietista e la fisioterapista, da effettuare nella seconda metà del mese di settembre 2008. 

  

• Riunione organizzativa e avvio fase di attuazione del progetto  La riunione organizzativa che si terrà subito prima dell’avvio della parte operativa del progetto ha  l’obiettivo di discutere con  il gruppo  infermieristico tutti  i dettagli operativi, e predisporre una sorta di “manuale”  interno per permettere a  tutti di  trasmettere  le stesse  informazioni, con le stesse modalità, perseguendo gli stessi obiettivi. 

 • Inizio colloqui individuali con i Pazienti e Parenti  E’ la fase operativa vera e propria. Tutti i nuovi pazienti che accedono al servizio CAS – Centro Accoglienza  e  Servizi,  per  la  presa  in  carico  e  che  necessitano  di  un  trattamento chemioterapico, vengono inseriti in questo progetto. Il primo colloquio è previsto durante la visita CAS, e prevede la somministrazione del libretto informativo. Durante il secondo colloquio ( al 1° ciclo di chemioterapia), verranno ripresi alcuni dei concetti già discussi durante  la visita CAS, verrà consegnato  il diario , e si spiegherà come compilare il questionario TIQ. 

 • Organizzazione di  incontri di gruppo rivolti a Pazienti e Parenti  Si  organizzeranno  alcuni  incontri  di  gruppo,  rivolti  a  Pazienti  e  parenti,  durante  i  quali,  la responsabile  del  progetto,  la  Dietista,  la  Fisioterapista  e  la  Psicologa  daranno  una  serie  di informazioni  sulla  fatigue,    consigli  alimentari,  sull’  esercizio  fisico,  suggerimenti  di  tipo psicologico. 

 • Monitoraggio     strumenti per ricerca dati da monitorare Per monitorare l’andamento del progetto si prevedono i seguenti strumenti:  o riunioni   di equipe di verifica e monitoraggio da tenersi ogni 2 mesi  , a partire da ottobre 

2008  ( data inizio parte operativa progetto) o compilazione schede raccolta dati per la valutazione dello strumento colloquio o compilazione schede raccolta dati sull’uso del questionario TIQ 

 

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 • Piano di valutazione: 

di processo  

Valutazione dello strumento COLLOQUIO Indicatore:  

 numero di nuovi casi che hanno avuto il colloquio al primo ciclo di chemioterapia 

___________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________ 

numero totale nuovi casi di Pazienti che iniziano Chemioterapia nel DH di Ivrea  

 Valutazione dello strumento QUESTIONARIO TIQ Indicatore: 

numero di TIQ compilati dai nuovi Utenti al 2° ciclo di chemioterapia ________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________ 

n° totale nuovi Utenti sottoposti a 2° ciclo di chemioterapia   di risultato n° Utenti che hanno mantenuto il peso corporeo iniziale al termine della chemioterapia _______________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________ 

n° Utenti sottoposti a chemioterapia  

L’ indice atteso è del 50 %: si prevede cioè che circa metà dei Pazienti che faranno chemioterapia, grazie alle informazioni ricevute, alla gestione corretta dell’ alimentazione possa mantenere il peso corporeo iniziale al termine della chemioterapia. 

 • Attuazione  Per monitorare tutta la fase di attuazione del progetto, verrà istituito una specie di “registro di classe”, su cui verranno annotate tutte le riunioni, gli incontri, i partecipanti, le criticità emerse durante le varie fasi dell’attuazione del progetto e le relative ipotesi di soluzione. 

  

• Riprogettazione / attuazione correttiva La riprogettazione verrà effettuata in tempi successivi, con l’ aiuto di tutto il gruppo infermieristico che partecipa al progetto, e sarà dettagliatamente descritta sul “registro di classe” del progetto . 

 Dopo 6 mesi di fase di attuazione ( dal 1/10/08 al 31/3/09) si analizzano i primi risultati.   Materiali e metodi di analisi 

• diario : 10 pagine, anonimo, con scopo di ricerca, ma anche per mantenere un “dialogo” con se stessi 

• questionario di verifica finale: somministrato a tutti i Pazienti telefonicamente , alla conclusione del percorso di chemioterapia 

• questionario di valutazione della tossicità da chemioterapia: viene utilizzato regolarmente in DH di Oncologia di Ivrea, per la valutazione dei più frequenti disturbi legati alla tossicità da Chemioterapia. 

 

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Risultati Nei primi 6 mesi di attuazione, sono stati arruolati 42 Pazienti , di cui : 

• 33 hanno completato tutte le fasi del programma • 5 in fase terminale di malattia • 1 non ha dato il consenso alla compilazione del questionario • 3 sono irreperibili • La maggior parte dei 33 sono di sesso femminile(23), con una fascia di età maggiormente 

rappresentata tra i 59 e i 68 anni Nei grafici A e B sono riassunti rispettivamente i dati relativi alle difficoltà incontrate nei vari ambiti e l’adesione ai consigli di chi ha avuto difficoltà nei singoli ambiti di interesse. Come si può vedere l’ambito in cui si sono registrate le maggiori difficoltà è stato quello dell’esercizio fisico in cui l’84,8% ha risposto di aver avuto difficoltà nello svolgere le solite attività di vita quotidiana. Di questi il 78,5% ha seguito i consigli ricevuti, mentre il restante 21,5% non li ha seguiti.  Nell’ambito “dieta” invece difficoltà sono state incontrate dal 72,7% del gruppo, con l’87,5% di essi che dichiarano di aver seguito i consigli ricevuti e il 12,5% che invece dichiara di non averli seguiti. Difficoltà nel sonno sono state dichiarate dal 51% degli intervistati, di questi, hanno seguito i consigli nel 52,9% dei casi, mentre non li hanno seguiti nel 47,1% . Infine una percentuale minore di Pazienti che hanno registrato difficoltà si è avuta nell’ambito dell’ansia, dove solo il 45,4% dichiara di aver incontrato difficoltà e di questi il 46,7% ha seguito i consigli ricevuti, mentre il 53,5% non li ha seguiti. 

     Grafico A . Difficoltà del gruppo relative ai 4 ambiti.          

  Grafico B . Consigli seguiti relativi alle difficoltà riscontrate nei 4 ambiti.    

0,00%10,00%20,00%30,00%40,00%50,00%60,00%70,00%80,00%90,00%

eserciziofisico

dieta sonno ansia

sìno

0,00%10,00%20,00%30,00%40,00%50,00%60,00%70,00%80,00%90,00%

100,00%

eserc

izio f

isico

dieta

sonn

oan

sia

sìno

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Il  giudizio  del  Paziente  sull’utilità  dei  consigli  ricevuti  sulle  strategie  da mettere  in  pratica  per affrontare  la  fatigue  si  differenzia  per  i  vari  ambiti  che  sono  interessati.  L’ambito  relativo all’esercizio  fisico è quello  che ha  registrato  il maggior numero di giudizi positivi  (N=22); anche nell’ambito della dieta un’alta percentuale degli  intervistati  (N=21) dichiara di aver trovato utili  i consigli ricevuti. Nell’ambito del sonno e dell’ansia  la percentuale di giudizi positivi sull’utilità dei consigli invece scende (N=9) (N=7).  Frequenza dei consigli scelti tra quelli proposti nell’ambito dell’esercizio fisico consigli ambito dell’esercizio fisico sì no totale

a. Svolgere un esercizio fisico semplice come Camminare

22 0 22

b. Programmare la giornata inserendo un’attività leggera

10 12 22

c. Trovare un buon equilibrio tra attività e riposo 12 10 22 d. Altro 5 17 22 Frequenza dei consigli scelti tra quelli proposti nell’ambito della dieta Consigli ambito della dieta sì no totale

a. Mangiare poco ma spesso 20 1 21 b. Adottare un’adeguata igiene del cavo orale 20 1 21 c. Bere molto 18 3 21

d. Altro 10 11 21 Frequenza dei consigli scelti tra quelli proposti nell’ambito del sonno Consigli ambito della sonno sì no totale

a. Svegliarsi tutte le mattine alla stessa ora 4 5 9 b. Dormire quanto basta 2 7 9 c. Evitare il consumo di sostanze eccitanti 7 2 9

d. Altro 6 3 9

Frequenza dei consigli scelti tra quelli proposti nell’ambito dell’ansia Consigli ambito dell’ansia sì no totale

a. Concentrarsi su ogni singola parte del corpo

3 4 7

b. Eseguire esercizi di respirazione 5 2 7 C Ascoltare suoni registrati 4 3 7

d. Altro 2 5 7  Attraverso  il questionario finale è stata richiesta anche una valutazione da parte del Paziente del grado di utilità, chiarezza ed interesse percepiti relativamente all’informazione che fornita sia con l’opuscolo sia con  i colloqui. Le  informazioni sono state ritenute “molto” o “moltissimo” utili dal 63,6%  dei  Pazienti,  percentuale  che  sale  all’84,4%  quando  ne  viene  valutata  la  chiarezza.  La valutazione positiva dell’interesse delle informazioni ricevute si colloca all’80,6%.     

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Grado di valutazione Utilità Chiarezza Interesse Per niente - - - Poco 36,4% 18,2 % 21,2 % Molto 48,5% 60,6 % 66,7 % Moltissimo 15,1 % 21,2 % 12,1 % Totali 100 % 100 % 100 %  Alla domanda diretta sui cambiamenti dei comportamenti sulla base delle informazioni ricevute, una maggioranza consistente del gruppo, pari al 78,8% dichiara di aver modificato i propri atteggiamenti nella vita quotidiana,. Solo il 21,2 % dichiara di non aver cambiato per nulla i propri comportamenti. Il grado di cambiamento introdotto varia da “un po’” nel 51,5% dei casi, a “molto” nel 21,2% fino a “moltissimo” nel 6,1%.   Modifica dei comportamenti della vita quotidiana.   

noun po'moltomoltissimo

   Bibliografia del progetto   Marcello Tamburini .TIQ Therapy Impact Questionnaire . Strumenti di valutazione della qualità della vita. EDISES Milano 1993 Juith M. Wilkinson. Diagnosi infermieristiche con NOC e NIC. Casa Editrice Ambrosiana. Milano 2005 Anne Lacroix‐ Jean Philippe Assal Educazione terapeutica dei Pazienti. Nuovi approcci alla malattia cronica. Edizioni Minerva Medica. Torino 2005. Jean Francois d’Invernois. Remi Gagnayre Educare il Paziente. McGraw‐Hill Milano 2006 Anne Destrebecq. Stefano Terzoni. Management infermieristico.      Carocci Faber 2007 Rapporto di un gruppo di lavoro OMS. Educazione terapeutica del Paziente.CESPI  Torino 1998 Enrico Auteri. Management delle risorse umane. Edizione Guerini  Milano 2004 Daniela Pittaluga, Loredana Sasso. Tra il dire e il fare.  Sorbona   

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 Il contatto pelle a pelle con  la madre nei neonati da parto cesareo. Uno studio sperimentale  Silvia Gouchon  (Coordinatore Infermieristico – SS. Cure Domiciliari ‐ ASL TO3 – Pinerolo (TO)  Giovanna  Patrucco13,  Amabile  Picotto14,  Marco  Nangeroni15,    Dario Gregori16 , Paola Di Giulio17 

  

“Quando al mattino guardai la luce, subito sentii che non ero uno straniero 

in questo mondo” Tagore 

 Quando si parla di contatto pelle a pelle o “skin to skin” ci si riferisce al posizionamento prono del neonato  sul  torace della madre  al momento della nascita o  comunque nelle prime ore dopo  il parto. Già a partire dagli anni ’50 Bowlby1  comincia a parlare di processo di attaccamento tra il neonato e  l’adulto. Poi, nel corso degli anni  ’70 comincia a diffondersi  la consapevolezza che  i processi di attaccamento,  e  in  particolare  la  relazione  madre‐bambino,  avvengono  molto  precocemente. Klaus e kennel nel 1982 pubblicano uno studio2 che analizza la nascita del legame tra i genitori e il bambino fin dai primi momenti di vita, considerati un “periodo sensibile” perché permette da un lato alla madre di essere sensibile e reattiva ai bisogni fisici e psicologici del bambino e al neonato di  sopravivere e di adattarsi alla nuova  realtà. E’  indubbio  che uno dei principali meccanismi di adattamento che il neonato  mette in atto alla nascita è proprio l’adattamento termico (passa dai 37 gradi ai 21‐24 gradi dell’ambiente esterno). Nel  loro studio Klaus e Kennell hanno valutato  il comportamento del neonato ed hanno verificato che il neonato, posto nelle condizioni di maggior benessere, protetto dal freddo, asciugato con teli tiepidi e soprattutto esposto al contato pelle a pelle  con  la  madre,  riceve  gli  stimoli  che  favoriscono  la  sua  tranquillità  e  il  suo  benessere, facilitando l’adattamento alla vita extrauterina. L’efficacia del contatto pelle a pelle è stata ampiamente dimostrata e raccomandata nei neonati da parto spontaneo e nei prematuri per i suoi effetti sia sul controllo termico, che sull’allatamento, che  sullo  sviluppo  della  relazione madre‐bambino,  quello  che  viene  definito  “bonding”  e  sullo sviluppo del neonato3. Nei neonati da parto spontaneo e nei prematuri questa è una procedura assistenziale abitualmente adottata.  Tuttavia quando il parto avviene in sala operatoria, il contatto pelle a pelle tra mamma e neonato è poco praticato, per  ragioni pratiche e di  sicurezza. Persiste  la preoccupazione  che  il neonato possa  incorrere  in una  ipotermia. Obiettivo dello studio   è quello di confrontare  le  temperature medie dei neonati da cesareo che praticano il contatto pelle a pelle (tenuti nudi a contatto con la pelle della mamma), rispetto al gruppo tradizionale (vestiti, nel letto con la mamma o nella culla), durante le due ore successive al rientro della mamma dalla sala operatoria.                                                             13 ex‐Dirigente Responsabile SS Neonatologia – ASL TO 3 Pinerolo (TO) 14 Coordinatore Infermieristico – SS Neonatologia ‐ ASL TO3 – Pinerolo (TO) 15 Dirigente Responsabile SS Neonatologia – ASL TO 3 Pinerolo (TO) 16 Professore università degli Studi di Torino 17 Professore Università degli Studi di Torino 

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Inoltre esiti secondari dello studio sono la valutazione dell’efficacia della prima poppata al seno, il momento del primo attacco,  il pianto del neonato,  l’allattamento alla dimissione e nei primi  tre mesi di vita e il gradimento delle mamme sulla pratica del contatto pelle a pelle. E’ stato quindi disegnato uno studio di tipo sperimentale di non inferiorità (vuole dimostrare che il gruppo  pelle  a  pelle  non  ha  temperature  significativamente  inferiori  rispetto  al  gruppo tradizionale).    Il Campione   è  rappresentato da donne di nazionalità  italiana,  con parto  cesareo elettivo, fuori travaglio, con anestesia locoregionale che partoriscono neonati fisiologici a termine con un apgar > a 7 ed un peso > a due kili e mezzo. La dimensione del campione è stata calcolata in 34  coppie mamma‐neonato  per  ogni  livello  di  analisi,  per  avere  una  potenza  dell’80%  ed  una significatività del 5%. Lo studio è stato approvato dal Comitato Etico Locale. E’ stato richiesto alle donne/coppie il consenso scritto dopo aver presentato loro lo studio. Le  donne  sono  state  randomizzate  all’uno  o  all’altro  braccio  di  studio  utilizzando  buste  opachi contenenti  l’allocazione,  in base ad un elenco di numeri casuali generati dal computer,  il giorno dell’intervento.  Alle  donne  è  stato  comunicato  il  gruppo  d  appartenenza  al  rientro  dalla  sala operatoria. Sono stati raccolti  i dati ed  infine è stato valutato  il gradimento da parte delle donne che hanno praticato il pelle a pelle somministrando loro un questionario con 7 domande a risposta chiusa su una scala di likert a 5 punti. Se è vero come abbiamo sentito dire oggi che il Codice deontologico è una sorta di manifesto dei valori che  i professionisti eleggono a  fondamento della pratica professioale e  in quanto  tale è  il documento di  identità che permette di capire e di definire chi è  l’infermiere e in quali rapporti si pone con altri professionisti, qual è  il contesto socio‐culturale  in cui esercita possiamo affermare che nell’art. 12 (e nel precedente) viene riconosciuto un grande valore all’attività di ricerca4.  E’ quindi  importante che  l’infermiere promuova e partecipi alla  ricerca e che  l’attività di  ricerca venga condotta secondo principi etici. Se  l’etica è  il “luogo”  (mentale,  fisico, dialogico) dove  riflettere sul “che  fare”, su “cosa è giusto fare?” o meglio del “chi  si è chiamati ad essere” vorrei condurre una  riflessione  sulla  ricerca5 a partire dalla griglia che Spinsanti6 propone per  l’analisi dei casi … provando ad applicarla anche allo studio. Spinsanti suggerisce di analizzare il comportamento su tre livelli: 1. il comportamento obbligato: ovvero se vi è rispetto del comportamento a cui siamo tenuti per 

obbligo di  legge, per deontologia professionale, per  regolamenti e normative  (si propone di verificare  quali  conseguenze  medico‐legali,  penali  o  civilistiche  o  deontologiche  possono derivare dal comportamento in questione); 

2. il  comportamento eticamente giustificabile: valuta  se  i  comportamenti  sono orientati da un lato alla difesa del minimo morale e dall’altra alla promozione del massimo morale. Secondo il principio di difesa del minimo morale valuta se il comportamento è orientato a : - evitare ciò che nuoce o danneggia il paziente (principio di non maleficità) - opporsi a discriminazioni e ingiustizie (principio di giustizia) Secondo  la  promozione  del  massimo  morale  il  comportamento  eticamente  giustificabile prevede: - l’orientamento al bene del paziente (principio di beneficità) - il coinvolgimento del paziente nelle decisioni che lo riguardano (principio di autonomia) 

3. il comportamento eccellente: rispetto  al “quadrilatero della soddisfazione” (che contrappone giusta  soddisfazione  o  giusta  insoddisfazione  alla  ingiusta  soddisfazione  o  ingiusta insoddisfazione) Spinsanti suggerisce di valutare se tutte  le persone coinvolte (professionisti, 

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pazienti, familiari, autorità sanitarie) raggiungono  la posizione della “giusta soddisfazione” (o almeno della “giusta insoddisfazione”). 

Utilizzare  queste  categorie  per  valutare  uno  studio  significa  condurre  una  riflessione  critica  a partire dai valori professionali condivisi. Innanzitutto si valuta il comportamento obbligato, con riferimento agli obblighi di legge, quali l’art. 32 della Costituzione (libertà di scelta), o all’art. 610 (reato di violenza privata) del codice penale, o alla normativa che ha riguardato la protezione dei soggetti partecipanti a studi clinici in Italia7 quali il DM 27 aprile 1992  “Disposizioni  sulle documentazioni  tecniche da presentare a  corredo delle domande di autorizzazione all'immissione in commercio di specialità medicinali per uso umano, in attuazione della direttiva (CEE) n. 507/91” o DM 15  luglio 1997 che ha stabilito  le Linee Guida di riferimento per  l’istituzione e  il funzionamento dei Comitati Etici, nonché ai requisiti che devono essere contenuti nel consenso informato (qualità della comunicazione e dell’informazione fornita, comprensione  dell’informazione,  libertà  decisionale  del  paziente,  capacità  decisionale  del paziente),  o  secondo  quanto  previsto  all’art.  20  del  codice  deontologico  2009.  Nel  caso  dello studio  in  questione  questo  è  stato  garantito  richiedendo  alle  donne/coppie  il  consenso, informandole  sullo  studio e  sottoponendo  il protocollo di  ricerca  all’approvazione del Comitato Etico. In  relazione  al 2°  livello:  valutazione del  comportamento eticamente giustificabile è  importante rispondere ad alcuni interrogativi: 

- si  è  evitato  di  nuocere  al  paziente?  ovvero …  lo  studio  può  nuocere  al  paziente?  cosa prevedeva  il  protocollo  di  ricerca  se  si  fosse  evidenziato  un  rischio  di  ipotermia  per  i neonati  esposti  a  skin  to  skin?  Lo  studio  è  disegnato  allo  scopo  di minimizzare  i  rischi? (Principio di non maleficità) 

- ci  si  è  opposti  a  discriminazioni  e  ingiustizie? Ovvero …  dal  diniego  del  consenso  ne  è conseguita  qualche  forma  di  discriminazione?  …  è  stato  adottato  un  comportamento diverso tra  i soggetti coinvolti/esclusi dallo studio? Sono state trattate  in modo diverso  le donne assegnate ai due gruppi? (principio di giustizia) 

- lo  studio  è  orientato  al  bene  del  paziente?   …  qual  è  l’oggetto  della  ricerca? …  qual  è l’obiettivo? … nel caso presentato lo studio si inscrive nelle pratiche human caring oriented ed è finalizzato a valutarne la sicurezza per il paziente … (principio di beneficità)   

- c’è  stato  il  coinvolgimento  del  paziente  nelle  decisioni  che  lo  riguardano?  E’  stato presentato  alla  donna  lo  studio?  Le  donne  erano  libere  di  scegliere  se  partecipare  allo studio? … potevano ritirare il consenso? se hanno dato  il loro consenso e poi decidevano di  non  seguire  il  trattamento  previsto  (pelle  a  pelle  o  no)  potevano  scegliere  il trattamento? Sono state informate sui rischi potenziali che potevano correre partecipando allo  studio?  Sono  state  prese  le  giuste  misure  per  salvaguardare  la  riservatezza  dei soggetti? E’ stata rispettata la confidenzialità dei dati? (principio di autonomia). 

Ed  infine  rispetto  al  3°  livello  che  comprende  la  valutazione  del  comportamento  eccellente  la riflessione  può  operarsi  attorno  al  seguente  interrogativo:  gli  operatori  e  le  donne  sono  stati giustamente soddisfatti? …quale gradimento? Ho provato ad utilizzare questa chiave di lettura per valutare l’eticità di uno studio, probabilmente ce  ne  potrebbero  essere  altre …  forse  può  non  essere  esaustiva …  per  esempio  non  ci  siamo soffermati  sull’eticità  della  scelta  del  disegno  di  studio,  del  tipo  di  ricerca, ma  può  essere  uno strumento interessante per orientare il comportamento dell’infermiere coinvolto in un progetto di ricerca che deve muoversi tra due esigenze: da un lato il rigore scientifico e dall’altro l’interesse di ogni singolo paziente coinvolto nello studio. E per  concludere  riporto  I  risultati dello  studio  che hanno messo  in evidenza  che  il neonato da parto cesareo esposto al contatto pelle a pelle entro un’ora dal parto non è a rischio di ipotermia 

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ma anche che i neonati esposti al pelle a pelle piangono di meno, si attaccano più precocemente al seno, assumono più latte materno esclusivo o prevalente sia alla dimissione che nei primi tre mesi ed è elevato  il gradimento da parte delle mamme.  Inoltre  lo studio ha consentito di verificare  la fattibilità della pratica e la sostenibilità anche sotto il profilo organizzativo. Quindi non resta che l’auspicio che la pratica del pelle a pelle possa essere estesa a tutti I neonati, anche a quelli nati da parto cesareo. 

 “Il prototipo di tutto il prendersi cura 

del bambino è il tenere in braccio;  il contenere in braccia umane” 

D. W. Winnicott    

BIBLIOGRAFIA  1 Boowlby J. Attaccamento e perdita, Bollati Boringheri, Torino, 1982 2 Klaus M H, Kennell J H Parent‐Infant bonding, Mosby, St. Louis, 1982 3Anderson,  G. C., Moore, E., Hepworth, J., & Bergman N. (2007). Early Skin to Skin Contact for mothers and their healthy newborn infants [review]. Cochrane Database of Systematic Reviews 2007, Issue 3. Art. No.: CD003519. DOI: 10.1002/14651858.CD003519.pub2 

4 Silvestro A (a cura di) Federazione Nazionale dei Collegi IPASVI. Commentario al codice deontologico dell’infermiere 2009,  McGraw‐Hill, Milano, 2009 

5 LoBiondo‐Wood G, Haber J, Palese A (ed. italiana a cura di) Metodologia della ricerca infermieristica, McGraw‐Hill, Milano, 2004 

6 Spinsanti S  Bioetica e nursing. Pensare, riflettere, agire, McGraw‐Hill,  Milano, 2001 7 Scuderi L, Guidoni L, Rosmini F, Petrini C La normativa sulla protezione dei soggetti partecipanti a studi clinici in Italia: dagli anni Novanta al 2004 Ann  Ist Super Sanità 2004; 40(4): 495‐507 

   

 La Ricerca per le Buone Pratiche in Pediatria: Testimonianze e Riflessioni  Vagliano Liliana (Scuola di Dottorato in Scienze Biomediche ed Oncologia Umana – Indirizzo in Pediatria Sperimentale – XXIV Ciclo)   La  disciplina  dell’Infermieristica  Pediatrica,  in  maniera  assimilabile 

alla Medicina Pediatrica, rappresenta una branca a se stante all’interno del Nursing. La ricerca delle buone pratiche implica, in tutti gli studi di ricerca, un’attenta considerazione delle questioni e degli standard etici. Gli infermieri e gli infermieri pediatrici, come tutti i professionisti che  conducono  ricerche, hanno  la  responsabilità professionale di assicurare  che  il disegno degli studi,  siano  essi  di  tipo  qualitativo  che  quantitativo,  rispetti  i  principi  etici  e  protegga  i  diritti umani1. In Pediatria, oltre alle Good Clinical Practice e agli altri documenti che regolano l’attività di ricerca  (come  ad  esempio  l’Human  Right  Guidelines  for  Nurses  in  Clinical  and  Other  research dell’American Nurses Association), è necessario  tenere  in considerazione anche  i documenti che 

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tutelano  i  bambini,  come  la Convenzione  sui Diritti  dell’infanzia  dell’ONU  – UNICEF,  pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’11 giugno 19912. L’articolo 12 del suddetto documento stabilisce che il punto  di  vista  dei  bambini/adolescenti  debba  essere  preso  in  considerazione,  anche  in  base  al grado di maturità raggiunto. Naturalmente questo non vuol dire che la decisione venga trasferita completamente  al  bambino/adolescente,  ma  che  ci  sia  una  decisione  condivisa  dalla  diade bambino – adolescente/famiglia ed equipe dei professionisti sanitari, ponendo attenzione a che il processo di inclusione del minore nella discussione e nella decisione non sia solo simbolico, con un impatto minimo sulla scelta finale. La  comunità  scientifica  pediatrica  sta  riflettendo  e  lavorando  per  il  riconoscimento,  non  solo formale,  dell’autodeterminazione  del  bambino/adolescente,  anche  attraverso  l’adozione  di  un modello condiviso di consenso e di comunicazione con il minore e la sua famiglia3.    Nella  pratica  clinica  e nella  conduzione  degli  studi  in  Pediatria  si  aggiunge  quindi  un  elemento ulteriore di difficoltà, oltre a quello di una maggior difficoltà a reperire la produzione di letteratura scientifica specifica4. Nonostante  questi  elementi,  le  ricerche  infermieristiche  effettuate  in  ambito neonatologico/pediatrico sono numerose e grazie anche alla “neonata” Società Italiana di Scienze Infermieristiche Pediatriche, la cultura della ricerca si sta diffondendo sempre più.  In  sede  congressuale  verranno  presentate  diversi  filoni  di  ricerca  infermieristica  in  ambito pediatrico e in particolare verrà presentata una ricerca descrittiva condotta presso l’AO Ospedale Infantile  Regina  Margherita  –  S.  Anna  di  Torino  sulla  manipolazione  dei  farmaci  in  ambito pediatrico.  Bibliografia 1.  Rasero  L.  Considerazioni  etiche  nella  ricerca  infermieristica.  Giornale  Italiano  di  Scienze Infermieristiche 2006; 2 (II): 119 ‐ 21 2. ONU – UNICEF. Convenzione sui diritti dell’infanzia. G.U. 11 giugno 1991 3. Baston J. Healthcare decisions: a rewiew of Children’s involvement. Paed Nurs 2008; 20 (3): 24 – 26 4.  Dall’Oglio  I,  Loreti  A.  La  letteratura  per  l’Infermieristica  Pediatrica.  Giornale  Italiano  di  Scienze Infermieristiche 2006; 3 : 114 – 20  

  La Gestione del Dolore in Pronto Soccorso. Valutazione dell’Efficacia di un Intervento di Miglioramento.  Gavetti Dario  (Centro Formazione Emergenza AO C.T.O. Torino) Frigerio SΩ. Di Guilio Pρ, Dimonte Vρ.  Introduzione Il  dolore  è  tra  i  sintomi  più  comuni  riferito  dai  pazienti  che  accedono  al 

servizio  di  Pronto  Soccorso  [PS]1.  Diversi  studi  dimostrano  che  il  60‐70%  dei  pazienti  prova dolore2,3  e  in  oltre  la metà  dei  casi  il  dolore  al momento  del  triage  è  di  intensità moderata  o grave4. I pochi studi che hanno analizzato le modalità di valutazione e gestione del dolore in questi reparti5 concordano nell’affermare che circa  il 70% dei pazienti che ha dolore non riceve nessun 

                                                             ρ Università degli Studi di Torino

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tipo di analgesia, o  la riceve con notevole ritardo6,7.  In particolare, meno della metà dei pazienti riceve un trattamento per  il dolore durante  il ricovero8 e  il 60% dei pazienti dimessi ha dolore di intensità  maggiore  rispetto  all’ammissione9.  Tra  le  cause  associate  a  questa  mancanza  sono descritte  lo  scarso  utilizzo  di  strumenti  per  la misurazione  e  registrazione  del  dolore,  la  scarsa comunicazione tra il personale di assistenza, l’inadeguata formazione sulla valutazione e gestione del dolore e la diffusione di preconcetti tra gli infermieri sull’affidabilità nella stima del dolore da parte dei pazienti 8.  Una delle componenti irrinunciabili nella gestione del dolore è la sua accurata misurazione2. Sono molte  le  variabili  legate  a  questo  aspetto,  ma  un  particolare  accento  è  posto  sui  metodi  e strumenti utilizzabili. Una recente revisione della  letteratura10 evidenzia come nel 95% dei casi  il personale sanitario tende a sottostimare il dolore in fase di triage rispetto all’autovalutazione del paziente  [p<0.001].  Il  problema  è  diffuso,  tanto  che  in  uno  studio11  si  arriva  a  concludere  che accettare  l’autovalutazione del dolore effettuata dal paziente è  il primo e più  importante passo per il miglioramento della sua gestione in PS.  Esistono  diversi  strumenti  per  l’autovalutazione  del  dolore  negli  adulti  in  pronto  soccorso, ma quelli più utilizzati sono la Scala Visiva Analogica [VAS] e la Scala di valutazione Numerica [NRS] 12 .  Nonostante numerosi studi di validazione abbiano dimostrato la validità ed attendibilità di questi strumenti nella misurazione del dolore negli adulti  in PS12, 13, 14, poco è stata studiata  la ricaduta della  loro  applicazione  nell’attività  quotidiana  ed  in  particolare  l’impatto  del  loro  uso  nel miglioramento della gestione del dolore.   Uno  studio  retrospettivo1  con  disegno  pre‐post  su  1000  pazienti  [521  prima,  479  dopo]  consecutivi di un pronto soccorso, ha valutato l’effetto dell’introduzione di una scala numerica per l’autovalutazione  del  dolore  al  triage  su  incidenza  e  tempo  di  somministrazione  di  analgesici, dimostrando  una  differenza  significativa  [p<0.001]  sia  nella  somministrazione  di  analgesici  che nella riduzione del tempo di attesa per la somministrazione.  Stalnikowich et al., in un altro studio pre‐post6 su 140 pazienti, ha invece valutato l’efficacia di un pacchetto di  interventi  sulla  riduzione della differenza di valutazione del dolore  tra  il personale sanitario  e  pazienti,  e  su  incidenza  e  tempo  di  somministrazione  degli  analgesici.  Oltre  ad introdurre  la scala, è stato formato  il personale sul dolore ed  introdotto un protocollo per  il suo trattamento, dimostrando differenze statisticamente significative per ciascuno degli esiti misurati.  Nel nostro paese,  i dati  su modalità e  strumenti utilizzati per  la gestione del dolore  in PS  sono carenti.  Parte  del  problema  è  forse  dovuto  alla  carenza  di  conoscenze  sul  dolore  da  parte  del personale15.  Le  indagini  condotte  in  altri  contesti6,13,16  fanno  ipotizzare  che  lo  stesso  problema possa essere presente anche tra gli operatori del PS.  Uno studio pilota del 2007 sulle modalità di gestione del dolore condotto nel contesto ospite17 ha confermato i risultati di altri studi18: il dolore è sottovalutato, trattato con notevole ritardo o non trattato  affatto,  e  l’oligoanalgesia  rappresenta,  anche  in  questo  contesto,  un  problema importante. Questo studio si pone l’obiettivo di valutare l’efficacia dell’introduzione di una scala di valutazione del dolore nel migliorarne la qualità della gestione.   Obiettivo dello studio Valutare  l’efficacia  dell’introduzione  di  una  scala  di  autovalutazione  del  dolore  nel  ridurre l'intensità del dolore nei pazienti in dimissione dal PS, rispetto all’ingresso.  Materiali e Metodi CONTESTO E POPOLAZIONE Pronto  Soccorso  della  piccola  traumatologia  del  Dipartimento  di  Emergenza  ed  Accettazione dell’ASO CTO ‐ Maria Adelaide della città di Torino. In questo reparto afferiscono in media 37.500 

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persone  all’anno  [dato  2006].  Vi  prestano  servizio  21  infermieri,  3  infermieri  generici  e  10 operatori  di  supporto  all’assistenza. Gli  infermieri  hanno  turni  di  servizio  di  8  ore.  Il  personale medico  è  costituito  da  41  ortopedici,  ripartiti  in  4  divisioni  che  ruotano  ogni  24  h.  Il  turno  di servizio di ciascuna coppia di ortopedici è di 12 h.  Sono stati considerati arruolabili tutti i pazienti consecutivamente sottoposti a triage che avevano dolore  all’accettazione  e  quelli  senza  dolore  che  avevano  assunto  analgesici  subito  prima dell’accesso in PS. Sono stati esclusi i pazienti che seguivano percorsi diversi da quelli standard [es. visite programmate], con codice rosso, trasferiti ad altro reparto dopo il triage, sottoposti a tutela giudiziaria, non in grado di comprendere la lingua italiana, con un alterato stato del sensorio. Sono stati anche esclusi i pazienti con meno di 18 anni non accompagnati da un genitore. Tutti i pazienti per  i  quali  non  è  stato  possibile  completare  la  raccolta  dati  alla  dimissione,  sono  stati  esclusi dall’analisi. A tutti i pazienti è stato richiesto il consenso verbale all’intervista. MODALITA’ DI RACCOLTA DATI  I  dati  sono  stati  raccolti  in  9  giornate  indice  [GI],  5  nella  fase  pre,  4  nella  post  [fino  al raggiungimento  del  numero  di  pazienti  necessari],  in  turni  di  osservazione  di  circa  9  ore,  tra Ottobre 2007 e Febbraio 2008. Le GI  sono  state  scelte  in modo da poter osservare  il personale delle  4  divisioni  ortopediche  che  a  rotazione  prestano  servizio  in  PS.  La  raccolta  dati  è  stata effettuata da due  infermieri, di cui uno  responsabile dello  studio, entrambi dipendenti dell’ASO CTO‐Maria Adelaide ma esterni al PS.  I pazienti sono stati  intervistati utilizzando una scheda strutturata  in due sezioni, sia al momento dell’accettazione  [dati  anagrafici,  codice  di  triage,  intensità del  dolore,  desiderio  di  ricevere  un analgesico] che alla dimissione.  Al paziente veniva richiesto di indicare su una scala NRS ad 11 punti l’intensità di dolore provata in quel momento, [0 nessun dolore e 10 il peggior dolore possibile].  Alla  dimissione  sono  stati  raccolti  i  dati  sul  dolore  durante  il  ricovero,  i  principali  trattamenti ortopedici e radiologici ricevuti, l’eventuale somministrazione di analgesia, e l’intensità del dolore, con la NRS. Le informazioni sulla diagnosi di dimissione sono state raccolte consultando il database delle cartelle cliniche di PS.  E’ stata considerata leggera un’intensità di dolore 1‐4, moderata 5‐7, grave 8‐10. Al  termine della prima  fase,  i dati  raccolti  sono  stati presentati  al personale  infermieristico del reparto insieme alla proposta di adozione dei seguenti interventi di miglioramento: 1.  introduzione  di  una  NRS  ad  11  punti  per  l’autovalutazione  del  dolore  al  momento dell’accettazione in triage,  2.  segnalazione  dell’intensità  del  dolore  sulla  cartella  di  triage,  poi  trasmessa  alla  sala  visita, utilizzando un’etichetta adesiva colorata, 3.  affissione  di  poster  esplicativi,  indirizzati  al  personale,  delle  nuove modalità  adottate  per  la valutazione del dolore in tutte le sale visita del reparto,  4.  diffusione  dell’iniziativa  a  tutto  il  personale  medico  ed  infermieristico  dell’azienda  tramite newsletter. Dopo 3 mesi dall’introduzione dei  cambiamenti è  stato  rivalutato  il dolore.  I pazienti  sono  stati intervistati dall’infermiere che, come parte del triage, chiedeva loro di segnalare il proprio dolore utilizzando  la NRS.  I  ricercatori hanno  completato  l’intervista  in  ingresso  e  valutato  il dolore  in dimissione ed i dati raccolti non venivano comunicati al personale in servizio. DIMENSIONI DEL CAMPIONE Per ottenere una differenza  statisticamente  significativa di 1.39 punti  sulla differenza media  tra dolore prima e dopo  la dimissione, con una potenza del 90% ed una significatività del 5% è stato necessario arruolare 100 pazienti per fase. Ipotizzando di non riuscire a completare le interviste al 

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20% dei pazienti, ne sono stati arruolati 120.  Il valore di 1.39 è stato preso come riferimento  in quanto riconosciuto clinicamente rilevante per indicare una variazione del dolore2, 19.  ANALISI DEI DATI L’elaborazione  dei  dati  raccolti  è  avvenuta  con  il  programma  Excel  di  Microsoft  Office.  Per confrontare  i  risultati delle due  fasi è  stato utilizzato  il  test del  chi quadro per  la differenza  tra proporzioni.   Risultati Nella fase pre dei 172 pazienti consecutivamente giunti in PS durante le giornate di osservazione, sono risultati eleggibili 157 [10 non avevano dolore, 1 non ha dato il consenso all’intervista, 3 non capivano  l’italiano, 1 paziente è stato escluso per  il peggioramento delle condizioni cliniche]. Per 29 [18.5%] non è stato possibile completare  l’intervista  in dimissione. Dei 128 pazienti  inclusi, 33 [25.8%] sono stati arruolati nella prima giornata, 32 [25%] nella seconda, 26 [20.3%] nella terza, 22 [17.2%] nella quarta, e 15 [11.7%] nella quinta.  Dei 142 pazienti della fase post, sono risultati eleggibili 134 [6 non avevano dolore e 2 non hanno dato  il  consenso  all’intervista].  Per  13  [9.7%]  non  è  stato  possibile  completare  l’intervista  in dimissione; 29  [24%]  sono  stati  arruolati nella prima  giornata di osservazione, 30  [24.8%] nella seconda, 31 [25.6%] nella terza e 31 nella quarta.  Vengono pertanto presentati  i dati  su 128 pazienti nella  fase pre, e 121 nella post. La  tabella 1 descrive le caratteristiche basali della popolazione.   TABELLA 1. CARATTERISTICHE BASALI DELLA POPOLAZIONE   PRE  POST   CARATTERISTICHE  N=128  %  N=121  %  p value 

MASCHI  56  43.8  63  52.1  0.18 SESSO 

FEMMINE  72  56.2  58  47.9  0.2 MEDIA [DS]  46 [19]  49 [19]  0.23 

ETÀ RANGE  12‐81  15‐91   BIANCHI  100  78.1  87  72  0.27 VERDI  28  21.9  32  26.4  0.40 CODICI AL TRIAGE GIALLI  0  2  1.6   <=20 

 [RANGE 12‐20] 17  13.3  3  2.5  <0.01 

21‐40  33  25.8  48  39.6  <0.05 41‐70  63  49.2  49  40.6  0.14 

ETÀ [ANNI] 

71‐80  15  11.7  21  17.3  0.21 ANALGESIA A DOMICILIO  SI  30  23.4  17  14.1  0.06 

DISTORSIONE/DISTRAZIONE  27  21.1  28  23.1  0.70 ALGIA DI NATURA NON TRAUMATICA 

[ANT] 36  28.1  31  25.7  0.67 

CONTUSIONE   17  13.3  22  18.2  0.29 LOMBALGIA/SCIATALGIA  14  11  11  9.1  0.62 FRATTURA/INFRAZIONE  13  10.1  13  10.7  0.88 

DIAGNOSI ALLA DIMISSIONE   

ALTRO  21  16.4  16  13.2  0.48 

 I pazienti non differiscono, se non per una diversa distribuzione nelle due fasce di età più giovani, per le principali variabili.  

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Come si può osservare  in  tabella 2, quasi  la metà dei pazienti,  indipendentemente dal codice di accesso  al  pronto  soccorso,  e  quindi  dalla  priorità  di  accesso  in  sala  visita,  ha  dolore  elevato [grave], che meriterebbe pertanto una sedazione. Nel periodo pre è maggiore il numero di pazienti con dolore leggero al triage [p=0.03], mentre le differenze per i pazienti con dolore moderato o grave non sono statisticamente significative [rispettivamente p 0.15 e 0.9].   TABELLA 2. INTENSITÀ DEL DOLORE AL TRIAGE 

  PRE  POST CODICE AL TRIAGE 

NRO PTI  INTENSITÀ DEL DOLORE n [%]  NRO PTI INTENSITÀ DEL DOLORE n [%] 

  N  LEGGERA  MODERATA  GRAVE  N  LEGGERA  MODERATA  GRAVE 

BIANCO  100  21 [21]  37 [37]  42 [42]  87  10 [11.5]  44 [50.6]  33 [37.9] VERDE  28  5 [17.9]  10 [35.7]  13 [46.4]  32  3 [9.4]  10 [31.3]  19 [59.3] GIALLO    2  /  1  1 TOTALI  128  26 [20.3]  47 [36.7]  55 [43]  121  13 [10.7]  55 [45.5]  53 [43.8] 

I dati riportati  in tabella 3 evidenziano come  le due popolazioni siano confrontabili per  la durata del dolore. L’intensità del dolore non porta necessariamente il paziente a rivolgersi al PS entro le 24 ore: infatti tra i pazienti con dolore grave più di 1/3 [45.5% fase pre e 37.7% fase post] si rivolge al PS dopo due giorni dalla comparsa del dolore.  In totale 53 pazienti sia nel pre [41.4%] che nel post [43.8%] si sono rivolti  in PS dopo più di 2 giorni.  In maggioranza erano pazienti con algia di natura  non  traumatica  [37.7%  nel  pre,  39.6%  nel  post]  e  con  lombalgia  [19%  nel  pre,  17%  nel post]. Nei restanti casi si trattava di pazienti con patologie di natura traumatica tra cui distorsioni [15.1%  nel  pre,  9.4%  nel  post],  contusioni  [1.9%  nel  pre,  9.4%  nel  post]  fratture  [5.6% rispettivamente nel pre e nel post ] ed altre patologie [21% nel pre, 19% nel post].   TABELLA 3. DURATA DEL DOLORE  ED INTENSITÀ  

  PRE N=128  POST N=121 DURATA DEL DOLORE  INTENSITÀ DEL DOLORE  INTENSITÀ DEL DOLORE  

LEGGERA  MODERATA  GRAVE  LEGGERA  MODERATA  GRAVE 

 

 

n=26 [%]  n=47 [%]  n=55  [%]  n=13 [%]  n=55 [%]  n=53 [%] p  

value 

< 24 H  12 [46]    18 [39]   23 [42]  6 [46]  23 [42]  22 [41.3]  0.9 > 24 H  5 [20]   10 [21]  7 [12.5]  3 [23]  3[5.5]  11 [21]  0.48 > 2 GG  9 [34]   19 [40]  25 [45.5]  4 [31]  29 [52.5]  20 [37.7]  0.71 

  La  tabella  4  mostra  la  percentuale  di  pazienti  che  avrebbero  voluto  la  somministrazione  di analgesico  al momento  del  triage.  Ovviamente  più  elevato  è  il  dolore maggiore  il  numero  di pazienti che vorrebbe un analgesico. Più di 2/3 dei pazienti tra quelli con dolore moderato e grave vorrebbero  ricevere un analgesico  subito.  La percentuale è elevata  [intorno al 40%] anche  tra  i pazienti con dolore lieve.  TABELLA 4. INTENSITÀ DEL DOLORE/ANALGESICO SUBITO 

  PRE N=128  POST N=121 INTENSITÀ DEL DOLORE  n   n analgesico subito [%]  n   n analgesico subito [%] 

LEGGERA  26   11 [42]  13   5 [38.5] MODERATA  47   31 [66]  55   32 [58.2] GRAVE  55   46 [83.6]  53   38 [71.7] 

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Le  patologie  più  dolorose  sono  le  lombosciatalgie  che  causano  dolore  grave  nel  73%  dei  casi, mentre le fratture nel 50%; le contusioni nel 42% mentre le distorsioni nel 36% dei pazienti.  Come descritto in tabella 5, la differenza media dell’intensità di dolore prima e dopo l’introduzione della scala nei pazienti in dimissione non è statisticamente significativa [p=0.6]. Se si considerano  solo i pazienti con dolore moderato e grave, la riduzione è di 1.4 punti e la differenza di intensità  del dolore nelle due fasi tra pazienti con dolore moderato e pazienti con dolore grave è  statisticamente significativa [rispettivamente p<0.001].   TABELLA 5. DIFFERENZA NELL’INTENSITÀ DI DOLORE  

  PRE N=128 PAZIENTI  POST N=121 PAZIENTI FASE DEL PERCORSO 

INTENSITÀ MEDIA DEL DOLORE  INTENSITÀ MEDIA DEL DOLORE 

  LEGGERO  n=26 

MODERATO  n=47 

GRAVE  n=55 

LEGGERO  n=13 

MODERATO 

n=55 GRAVE  n=53 

INGRESSO  3.1  6.1  8.6  2.8  6.4  8.7 DIMISSIONE  2.4  5.7  7.8  3.2  5.2  7.1 Differenza  

[I‐D] ‐0.7  ‐0.4  ‐0.8  +0.4  ‐1.2  ‐1.6  

Media  ‐0.6  ‐0.8 

 Durante  la  permanenza  in  PS  hanno  ricevuto  analgesia  7  pazienti  [5.5%]  nella  fase  pre  [3  con dolore grave, 3 moderato e 1  leggero], 16 dopo  l’introduzione della scala [13.2%], p<0.03 [9 con dolore grave, 5 moderato e due leggero].  L’analgesia è stata somministrata dopo  la prima visita  [4 casi nel pre ed 11 nel post], prima del trattamento ortopedico [1 caso nel pre, 1 nel post], e subito prima della dimissione [2 casi nel pre, 4 nel post].  Il dolore alla dimissione è complessivamente diminuito in 37 pazienti su 128 [29%] nella fase pre, ed in 48 su 121 [39.6%] nella fase post [Tabella 6]. In particolare, tra i pazienti con dolore grave, ne sono  stati dimessi con meno dolore  il 26.8% nella  fase pre e  il 51.8% nella  fase post, p<0.001]. Complessivamente però nella fase post tra i pazienti con dolore grave quasi il 50% viene dimesso con dolore invariato o addirittura aumentato.    TABELLA 6. VARIAZIONE NELL’INTENSITÀ DI DOLORE 

PRE [N]= 128 PAZIENTI  POST [N]= 121 PAZIENTI   INTENSITÀ DEL DOLORE ALL’INGRESSO    INTENSITÀ DEL DOLORE ALL’INGRESSO 

DOLORE IN DIMISSIONE 

LEGGERO n=26 [%] 

MODERATO n=46 [%] 

GRAVE n=56 [%] 

DOLORE IN 

DIMISSIONE LEGGERO n=12 [%] 

MODERATO n=55 [%] 

GRAVE n=54 [%] 

DIMINUITO  11 [42.3]  11 [24]  15 [26.8]  Diminuito  0  20 [36.4]  28 [51.8] INVARIATO O AUMENTATO 

15 [57.7]  35 [76]  41 [73.2] INVARIATO O AUMENTATO 

12 [100]  35 [63.6]  26 [48.2] 

 Discussione  Il problema dell’oligoanalgesia nei pazienti che afferiscono al PS è diffuso:  l’attenzione da parte del personale  sanitario nel procurare un’appropriata analgesia è ancora  insufficiente  2,3 e pochi sono  ancora  i  dati  disponibili1,4. Nella maggior  parte  dei  casi  si  tratta  di  studi  retrospettivi,  su cartelle cliniche.  Nonostante la disponibilità di scale di valutazione del dolore in PS, pochi studi ne hanno valutato l’efficacia nel miglioramento della sua gestione4.  

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I  risultati  di  questo  studio  evidenziano  che  far  misurare  il  dolore  al  paziente  e  comunicarlo all’equipe  che  lo  prende  in  carico  contribuisce  ad  avviare  un  trend,  seppure  lento,  verso  il miglioramento  del  suo  controllo.  Si  tratta  di  interventi  semplici,  a  basso  costo,  che  non comportano un aumento del carico di lavoro degli operatori in triage.  I pazienti nei due periodi dello studio sono confrontabili tra loro per le caratteristiche basali, e non sono cambiate le equipe né sono stati introdotti farmaci o tecniche analgesiche nuove. La  differenza  media  dell’intensità  di  dolore  in  dimissione  non  è  risultata  statisticamente significativa anche se si è osservata una riduzione media del dolore di 1.4 punti nei pazienti con dolore moderato e grave.  E’inoltre aumentato [anche se di poco], il numero di pazienti che hanno ricevuto un’analgesia.  In altri lavori l’efficacia dell’introduzione di una scala per la misurazione del dolore è stata valutata assieme all’introduzione di un protocollo  farmacologico per  il suo  trattamento5,6 documentando un aumento della proporzione di pazienti che hanno ricevuto analgesia.   

La  sola  introduzione  della misurazione  del  dolore  ha  però  prodotto  risultati  simili  nei  pazienti oncologici22:  l’adozione della VAS e di  altri 4  strumenti per migliorare  la descrizione del  tipo di dolore e della  sua  localizzazione, ha determinato  l’aumento della prescrizione di analgesici e  la diminuzione dell’intensità di dolore nei pazienti. In uno studio Nelson et all1 ha valutato su 1000 pazienti [521 prima, 479 dopo]  l’introduzione di una  scala  di  valutazione  del  dolore  dimostrandone  l’efficacia  nell’aumentare  la  proporzione  di pazienti che ricevevano analgesia  in pronto soccorso. Gli operatori erano all’oscuro dell’obiettivo del lavoro e non avevano ricevuto nessuna formazione specifica.  Nel nostro caso gli operatori conoscevano l’obiettivo del lavoro, ma non erano al corrente dei dati raccolti durante l’intervista [ad eccezione di quelli sull’intensità di dolore del paziente in triage].  Gli  interventi  adottati  hanno  probabilmente  aumentato  l’attenzione  degli  operatori  al  dolore. Durante  lo  studio,  il  Comitato  aziendale  Ospedale  Senza  Dolore  ha  organizzato  un  corso  di formazione  sulla  gestione  del  dolore  in  ospedale,  cui  hanno  partecipato  solo  7  infermieri  del reparto  e,  pur  non  potendolo  escludere  a  priori,  è  poco  probabile  che  questa  iniziativa  abbia influito in modo rilevante sul loro comportamento.   Resta comunque difficile spiegare la riduzione ottenuta nella media del dolore in dimissione, dato che  la prescrizione di analgesici è aumentata solo di poco. Non esistevano controindicazioni alla prescrizione  di  analgesici  per  i  problemi  presentati  dai  pazienti.  Non  esistendo  protocolli  di trattamento,  la prescrizione di analgesici dipende dal medico ma sono state osservate tutte  le equipe. Sono stati somministrati più analgesici rispetto alla prima fase, nei pazienti con dolore moderato [5 casi] e grave [9 casi] che sono quelli che ne fanno più richiesta anche in triage e nel secondo periodo sono [anche se di poco] aumentati  i pazienti con contusione, evento traumatico doloroso che generalmente non viene trattato con  farmaci ma con  l’immobilizzazione dell’arto. Queste due variabili possono aver contribuito a determinare,  nei  pazienti  con  dolore moderato  e  grave  la  diminuzione  dell’intensità  del  dolore,  pur  in assenza di un aumento importante del numero di pazienti a cui è stato somministrato un analgesico. Nello studio non era stato previsto di raccogliere dati sulle tecniche antalgiche utilizzate.  In fase post inoltre i dati sull’intensità di dolore al triage sono stati raccolti dall’infermiere. Questo può aver determinato un aumento dei casi di sovrastima da parte dei pazienti [con  l’aspettativa di accedere prima alla  visita]  che  quando  dimessi  hanno  forse  riferito  un’intensità  di  dolore  molto  inferiore aumentando lo scarto11.  Il nostro studio pur essendo stato correttamente dimensionato ha il limite dei risultati riferiti ad un campione non molto numeroso. Inoltre non è stato condotto in cieco come l’esperienza di Nelson e questo non permette di escludere  con  certezza  che  gli operatori  [a  conoscenza dell’obiettivo dello studio] possano in qualche modo aver modificato il loro comportamento durante la presenza dei ricercatori nel servizio.  

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Quindi,  i risultati di questo  lavoro vanno  interpretati con cautela.  Inoltre, tra  l’introduzione della scala e la valutazione dei suoi effetti sono intercorsi tre soli mesi ed i risultati osservati potrebbero essere determinati in parte dall’entusiasmo iniziale degli operatori. Sarebbe utile ripetere la stessa valutazione tra un anno, per verificare se il trend osservato si mantiene. La sola introduzione della scala  e  la  comunicazione  dei  risultati  agli  operatori  non  è  sufficiente  a  modificare  in  modo rilevante la situazione: l’aumento di pazienti che hanno ricevuto un’analgesia è inferiore al 10% del totale, e  il 45% dei pazienti con dolore grave vengono dimessi con situazione  invariata o dolore aumentato.   Conclusioni Gli  interventi  per  il  miglioramento  della  gestione  del  dolore  adottati  in  questo  studio  hanno comportato un  aumento dell’attenzione  al dolore, del numero di pazienti  trattati  con  analgesici durante  il  ricovero,  e  una  riduzione  della media  dei  punteggi  di  dolore  nei  pazienti  con  dolore moderato e grave superiore rispetto al periodo precedente. Questi dati  , confermano, assieme a quelli di altri  studi1,2,20,  come  l’oligoanalgesia  sia ancora un problema  importante,  sottolineando come, nonostante  il miglioramento conseguito, ci  sia ancora molto da  lavorare per migliorare  la gestione del dolore, considerato in letteratura il V segno vitale21.   

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  Intervento dal pubblico (Piccin Nives): Sono una Caposala di questo ospedale. Credo che il tema affrontato dal collega  –  relativo  alle  sperimentazioni  cliniche  –  sia  un  quesito molto importante che dovremmo porci per la necessità di svolgere una ricerca che  non  sia  solo  una  ricerca  per  le  industrie  farmaceutiche  –  come effettivamente  accade  il  più  delle  volte  – ma  perché  sia  una  ricerca veramente  utile  e  metodologicamente  corretta.  Se  c’è  un coinvolgimento di più persone nella valutazione del disegno della ricerca, delle  finalità,  degli  obiettivi  di  quanto  deve  essere  realizzato, 

probabilmente si svilupperà un maggiore senso di responsabilità ed una visione critica da parte di tutti  nell’esatta  valutazione  delle  finalità  ultime  del  lavoro  di  ricerca,  che  non  è  un  lavoro irrilevante in quanto coinvolge – in termini economici e di dispendio di energie – molti colleghi. Su questo punto auspicherei una partecipazione maggiore dei colleghi. Come lo vogliamo chiamare? Consenso  informato  per  gli  infermieri?  Collaborazione  informata?  Contributo,  coinvolgimento? Non saprei, ma ritengo sia importantissimo.  Desidero  rivolgere  una  domanda  a  Cinzia  Sanseverino    sulla  gestione  dei  risultati  della  ricerca. Nelle valutazioni che vengono fatte all’interno dei Comitati etici è prevista anche una proprietà dei risultati della ricerca? Dico questo perché purtroppo diverse storie del passato – non certo positive – ci hanno insegnato che lasciare unicamente alle industrie farmaceutiche la proprietà dei risultati può far correre dei seri rischi a chi in seguito assume le terapie. Lasciatemi  infine esprimere  il mio ringraziamento a voi tutti. Complimenti, sia per  l’interesse dei temi proposti sia per  l’alto  livello di significatività statistica presente nelle varie  relazioni. Grazie ancora.  

 Cinzia Sanseverino  Ti  ringrazio  per  la  domanda.  Attualmente  ci  sono  delle  direttive  ben precise che obbligano le segreterie dei Comitati etici di farsi promotrici nel seguire gli studi che sono stati avallati dai Comitati etici. Quindi, alla  fine dello  studio  e  in  itinere  il  Comitato  etico  può  chiedere  –  se  non  è  il Comitato etico aziendale che è il principale promotore dello studio, ma se è una ricerca multicentrica –  al Comitato etico che è il promotore, che fa 

da referente a tutti gli altri Comitati, come sta proseguendo la sperimentazione. Un dato che viene a mancare,  ce  ne  rendiamo  conto,  è  quello  relativo  alla  sospensione  dello  studio  poiché  si  è appurato  che  è  inefficace.  Lì  si  perdono  i  dati.  Però,  sulla  sperimentazione  in  itinere  –  nonché quando essa è conclusa – il dato c’è e lo sperimentatore deve riportarlo.       

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 M.A. Schirru (Presidente Collegio IPASVI di Torino)   Prima  della  conclusione  vorrei  fare  una  riflessione  circa  l’intervento  del collega:  il  Collegio  –  grazie  a  questa  iniziativa  –  ha  dimostrato  di  volersi sentire  coinvolto  nei  problemi  dell’etica  e  della  deontologia  così  come  di 

voler divenire un punto di riferimento per tali problematiche.  Sul  tema  della  sperimentazione  clinica  meriterebbe  pensare  ad  un  incontro  che  valuti approfonditamente  i  suoi  vari  aspetti.  Sarei  grata  se  i  presenti  –  o  coloro  ai  quali  parlerete  di questa  iniziativa  –  porteranno  al  Collegio  i  problemi  inerenti  questa  tematica,  evidenziando  gli aspetti da chiarire e da approfondire. Il tutto potrà divenire oggetto di proposte a livello delle varie aziende per  la specificità e  le problematicità di quel contesto. È necessario approfondire – anche attraverso la programmazione di una giornata dedicata al tema – questi aspetti unitamente a tutte le tematiche inerenti la sperimentazione clinica, quali problemi essa pone agli infermieri e come gli infermieri  possono  farvi  fronte.  E  ancora:  come  riusciamo  a  collaborare  con  altre  figure professionali al  fine di non portare avanti discorsi o percorsi paralleli. È necessario quindi avere una  visione  globale  che  ci mostri  tutti  gli  attori  che  partecipano  alla  sperimentazione  clinica. Questo potrebbe  condurci  a portare  avanti delle  iniziative assieme  agli Ordini dei medici e  alle Università. È stata più volte ribadita  la necessità di trovare delle convergenze su problemi che – seppur su piani e competenze differenziate – toccano tutti e hanno un obiettivo unico ossia fare una sperimentazione che abbia un senso ed una finalità sola: produrre miglioramenti dal punto di vista  terapeutico  o  assistenziale  per  i  pazienti.  Pertanto  raccolgo  questa  proposta,  siamo disponibili. Consentitemi  alcune  battute  conclusive.  Sono  state  due  giornate  intense.  Non  ho  molto  da aggiungere a quanto detto: le suggestioni e gli stimoli sono stati molti. Vorrei lasciarvi con un’unica suggestione:  non  avevamo  certo  la  pretesa  di  offrirvi  delle  verità.  Non  esiste  –  lo  abbiamo compreso dai vari interventi – un’unica verità. Esistono delle verità o possibili percorsi per trovare una  verità  che  si  contestualizza  sullo  specifico  problema  che  quotidianamente  ci  troviamo  ad affrontare. Ritengo che l’elemento di complessità sia emerso in tutta la sua forza.  Abbiamo anche parlato di  livelli di  responsabilità. A questo proposito vorrei  fare un’importante sottolineatura: chi ha  livelli di responsabilità si responsabilizzi per davvero perché non possiamo pretendere  –  lo  hanno  detto  chiaramente  i  colleghi  –  che  gli  infermieri  che  si  occupano  della clinica –  i quali hanno diverse problematiche da affrontare – debbano avere anche una visione a 360° di quelle che sono le condizioni a livello aziendale o di contesto più allargato, la qual visione è di  responsabilità  di  qualcun  altro.  Questa  mattina  ho  apprezzato  l’intervento  della  collega Caposala: ha dato alcuni spunti di riflessione su quale dovrebbe essere la competenza di chi guida dei gruppi. Attenzione: non ho detto “guidare” in termini di gerarchia perché è  importante che il contenuto  di  responsabilità  sia  un  contenuto  di  responsabilità  diffuso.  Partendo  da  questo presupposto  ci  troviamo di  fronte a  livelli di  responsabilità differenziati.  Lo  sostenevo nella mia relazione di  ieri, e  lo  ripeto: non esistono persone più  importanti o meno  importanti all’interno dell’organizzazione.  Il problema è  riuscire a porsi un obiettivo comune e che questo obiettivo – quantomeno nel contesto dell’unità operativa  in cui operiamo ogni giorno –  riesca ad avere un intento unico. E allora, è bene che chi ha  la  responsabilità se  la assuma  tutta. Non  lo dico  io, è confermato da dati di  ricerca: nel nostro Paese  il punto debole è costituito dalla  leadership.  Lo vediamo anche all’interno delle nostre organizzazioni:  la leadership è debole. Rivolgo un  invito, e lo rivolgo con forza: se nella clinica vogliamo far crescere gli infermieri si concedano i giusti spazi di 

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protezione  –  affinché,  all’atto  pratico,  si  possa  operare  una  buona  assistenza  –  e  chi  ricopre incarichi di responsabilità crei un sistema di protezione dalle bufere esterne che ci distolgono dalle varie  situazioni.  E  ancora:  chi  ricopre  incarichi  dirigenziali  cominci  ad  essere  la  voce  vera  della professione. Lo dico da dirigente  infermieristica: non andiamo da nessuna parte se non abbiamo intenti  unici.  Dunque,  non  viviamoci  come  controparte.  Viviamoci  come  appartenenti  ad  un gruppo professionale  che ha  sicuramente bisogno di  crescere. Ai nostri dirigenti  trasmettiamo  i problemi, ma  forniamogli anche delle  suggestioni per  risolverli, altrimenti è  il  solito gioco dello scaricabarile, del passarsi la palla l’uno con l’altro. Come Collegio invece vorremmo offrire il nostro contributo,  costruendo una politica professionale  che  abbia un  senso per  chi  lavora nelle unità operative  ed  ogni  giorno  fatica  nell’affrontare  la  realtà  quotidiana.  Forniteci  gli  strumenti  per potervi  aiutare:  segnalateci  le  vostre  critiche  ed  anche  i  vostri  ritorni  positivi…  ogni  tanto  le carezze fanno bene a tutti, ma soprattutto le carezze fatevele fare da questo Collegio. Grazie.   

                                                                                               

Edizione a cura di: Associazione CESPI Via G. Botero n. 19 10122 TORINO 

  

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