chi ha paura dell'uomo giallo?
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La paura del diverso genera veri e propri mostri. Ma fino a che punto le fobie possono trasformare la realtà quotidiana?TRANSCRIPT
Uno scontro di civiltà è pensabile solo sullo sfondo di una definitiva dipendenza dall’abitudine
e dalla necessità di muoversi in spazi conosciuti, dipendenza che genera la paura del diverso.
Il massimo rispetto è dovuto alla cultura Cinese, come a tutte le altre.
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Come ogni mattina negli ultimi sei anni e mezzo Bruno è in piedi puntuale alle sette e trenta ed il
tintinnio del suo collare va a tempo con il battito delle sue unghie sul pavimento mentre si avvicina
alla camera in fondo al piccolo corridoio.
Suona la sveglia.
Bruno è un maschio dal pelo lucido ed ordinato, dallo sguardo vivace ma pacifico, di taglia medio-
grande. Arrivato alla porta vi si accuccia davanti emettendo qualche impercettibile lamento.
-“Adesso arriva Bruno!”.
La coda inizia a muoversi ed un orecchio rimane alzato per concentrare l’attenzione.
La porta si apre e come ogni mattina negli ultimi sei anni e mezzo Domenico si alza un’ora prima
per uscire a fare una passeggiata. Tutto sommato lo fa volentieri per Bruno, tra loro c’è ormai
un’amicizia molto forte e profonda.
-“Ciao vecchio mio, dormito bene? Andiamo che mi faccio un caffè e poi sono praticamente
pronto”.
Bruno è già eccitatissimo ed attende impaziente davanti alla giacca con il guinzaglio in bocca.
-“Forza Bruno! Ogni mattina la stessa storia! Lo sai che mi devi dare almeno dieci minuti.
Ecco! Guarda! Faccio più in fretta possibile.
E’ inutile che mi guardi così, lo so che capisci benissimo quello che ti dico, non fare il cane!”.
La giornata non inizia senza il buongiorno di una sigaretta.
L’odore si spande velocemente in tutta la cucina mescolandosi a quello del caffè, un mix che
Domenico adora, gli fa capire che anche per quel giorno si è svegliato vivo.
Una mano regge la tazza colma e l’altra cerca il telecomando nel cassetto mentre il fumo della
sigaretta che si consuma tra le labbra lo acceca e gli fa lacrimare gli occhi. Una volta trovato ed
accesa la tv sul telegiornale del mattino il rito è quasi concluso, basta solo girarsi e guardare fuori
dalla finestra la vita che si sveglia.
Gli alberi del parco di via XXII Marzo sono gli indicatori delle stagioni, un ciclo abitudinario
imperturbabile che gli dà sicurezza. Ormai è Settembre inoltrato.
- “Incredibile l’autunno vecchio mio, so che piace anche a te correre tra le foglie con l’aria fresca e
poi tuffarti nella intima e calda accoglienza della nostra casa.
Ho finito! Metto i vestiti in un attimo ed andiamo.
Cazzo Bruno! Fammi passare almeno!”.
Da Corso Matteotti al civico 34 si percorre il medesimo in direzione centro passando davanti
all’edicola, al bar di un certo Franco, ad un fast-food e ad una serie di negozi tra cui il supermercato
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dove Domenico solitamente fa la spesa. All’incrocio si gira a sinistra appunto per via XXII Marzo
dove c’è il parco.
E’ piccolo e pochi ci passano perché si dice sia mal frequentato: al massimo una quindicina di
ragazzini nemmeno maggiorenni che si vendono a vicenda qualche canna di erba di bassa qualità.
E’ comunque ottimo per non incappare in quelli che abitualmente quando portano a spasso il cane
ed incontrano qualcuno che fa altrettanto gli riempiono le palle per ore con tutti quei discorsi
vomitevoli su quanto siano buoni, belli e simpatici i loro animali.
Bruno ha superato da tempo per Domenico lo stadio di cane, è ormai lo specchio della sua
quotidianità. Ora è libero e corre da un albero all’altro annusando chi sia passato di li prima di lui.
Ormai conosce benissimo la strada, deve solo seguire il vialetto che gira tutto intorno, il più esterno,
il più lungo ovviamente. Comunque ogni tanto sente che è il caso di fermarsi e voltarsi, giusto per
far notare che non decide da solo.
Domenico passeggia qualche metro più indietro superando a fatica la nuvola biancastra che gli
aleggia davanti ogni volta che fuma una sigaretta all’aria aperta.
Raramente a questo punto della mattinata ne ha fumate più di due. Molto spesso non ne ha
veramente poi così voglia ma la accende ugualmente pensando che quella situazione, quella pace
prima del lavoro, quell’aria fresca e quella solitudine potrà riaverle solo dopo che saranno passate
ben 24 ore.
Non si parlano mai durante il tragitto, ognuno intento a sbrigare le proprie faccende nel tempo a
disposizione: uno a caccia di odori e l’altro della speranza che non ce ne siano poi così tanti di
diversi dal solito.
La temperatura è davvero gradevole questa mattina e l’aria è asciutta, proprio come piace a
Domenico che invece detesta il caldo, il freddo, la pioggia e l’umido.
Il clima non è rilevante di fronte alla stupefacente ciclicità delle stagioni. Non potrebbe pensare di
vivere senza.
Fa un tiro dalla sigaretta buttando fuori il fumo dal naso e dalla bocca contemporaneamente per
gustarlo meglio. Oggi gli piace particolarmente.
Bruno scompare lentamente dietro il gruppo di cespugli che costeggiano la dolce ma costante curva
della stradina, con la testa bassa segue esattamente la traccia e fiuta il suo mondo, si sposta da destra
a sinistra apparentemente senza nessuna regola precisa. L’imprevisto è la sua regola, solo il
passaggio dei suoi simili modifica quello che lo circonda e lo fa agire di conseguenza.
Attraversando completamente il parco ha un’uscita anche in via Martiri della Libertà, praticamente
un isolato più avanti rispetto a casa, un quartiere simile, ma forse un po’ più bello, più nuovo e con
dei marciapiedi che permettono di camminare tranquilli. Bruno è già arrivato e sta aspettando
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seduto di fianco all’enorme cancello verde che viene chiuso alle ventuno per evitare che di notte il
boschetto diventi l’accampamento di qualche tribù di sbandati.
- “Pazienza vecchio mio, dà fastidio anche a me dovermi portare dietro questo
maledetto guinzaglio, ma sai com’è la gente…!”
Bruno appoggia la zampa sull’avambraccio di Domenico.
- “Forza, andiamo!”
Attraversando la strada si entra nel lungo Corso Garibaldi dove abbondano le banche, i negozi di
profumi e le macellerie. C’è anche la stazione della Polizia, giusto di fianco al botteghino che vende
i biglietti per i concerti. Ogni tanto c’è la coda e Domenico alcune volte ha pensato che molte di
quelle persone avrebbero fatto meglio a comprare un biglietto nella porta precedente e passare la
serata a provare l’ebbrezza della galera, che di sicuro è meglio che pagare per venire schiacciati e
non vedere assolutamente niente.
Bruno gli cammina di fianco per non far tendere il guinzaglio e sentirsi soffocare.
Per tornare a casa si potrebbe girare a sinistra al primo incrocio del Corso, ma Domenico preferisce
allungare il giro e passare poi davanti a un panificio dove hanno delle ottime brioches senza nessuna
schifezza dolciastra ed appiccicosa dentro. Poche decine di metri ancora, già si sente il profumo
nell’aria.
Bruno aspetta fuori con forzata pazienza e le orecchie perfettamente tese.
- “Buongiorno Domenico!”
- “Buongiorno.”
La signorina allunga la mano fuori del bancone sporgendosi un po’ per passargli il sacchettino
bianco che, come al solito, era già pronto e l’occhio di Domenico cade sulla generosa scollatura
bordata di un intreccio di bianco e verde tenero molto candido ed invitante. Anche il grembiule per
intero non le sta per niente male.
- “Ecco a lei, grazie e arrivederci.”
- “Grazie a lei, salve.”
Appena la porta si apre Bruno scatta in piedi.
- “Bella signorina sai, ma…ti ricordi qualche anno fa, quando abbiamo fatto venire a vivere
con noi Rossella? So che non era il tuo tipo, neanche il mio a dire la verità!”
Una mano entra veloce nel sacchetto e strappa un pezzetto di brioche. A Bruno piacciono al punto
che nemmeno le mastica.
- “….lasciava che i piatti si asciugassero da soli…tutte quelle odiose goccioline mummificate
sulle stoviglie…incredibile!…Voleva sempre uscire…cosa poteva capire dell’imbarazzo
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della nostra intimità di fronte ad una situazione del genere?…E il dentifricio sempre aperto?
Ti ricordi quante volte gliel’ ho ripetuto?
No, no! Non era proprio il caso di continuare a logorarsi il sistema nervoso a quel modo!
Domenico morde con gusto, forte della certezza di non trovare la marmellata in agguato, pronta a
rovinargli quell’opulento boccone.
Il guinzaglio attorno al polso permette alle mani libere di distribuire equamente quelle prelibatezze.
- “Eccezionali, non trovi vecchio mio? È un bel vizio!”
al primo cestino Domenico si ferma, si pulisce le mani con il sacchetto e poi lo getta mentre Bruno
non manca di marcare il paletto di sostegno. Entrambi ne avrebbero mangiate almeno una mezza
dozzina.
- “Mi dispiace veramente che tu non possa capire quanto è piacevole fumare in certi momenti.
Questa, ad esempio, è la sigaretta più buona di tutta la mattina, non credo riuscirò mai a
rinunciarci. Mi piace sentire il filtro asciutto sulle labbra asciutte che si inumidisce piano
piano…”
Gli occhi si chiudono dopo aver visto che l’accendino ha fatto il suo dovere, lentamente lascia
entrare dell’aria nella bocca per far scendere il fumo nei polmoni. Cerca di analizzare la sfuggente
consistenza del sapore del tabacco bruciato per ritrovato quel gusto-odore che gli piace moltissimo
quando alcune persone fumano le sue stesse sigarette, ma ogni volta conclude che funzione
esattamente come per i profumi che cambiano sfumature della fragranza quando sono portati da
persone diverse, fino a non sembrare più gli stessi.
Bruno cammina più rilassato ora che anche questa per oggi è fatta, e poi lo aspettano la sua bella
cesta con il suo bel cuscino e la tranquillità di almeno nove ore di solitudine. Non lo scuote
nemmeno il passaggio di alcuni altri cani, né di quelli che tentano un approccio pacifico, né di
quelli che si mostrano aggressivi, semplicemente coinvolto nei fatti suoi.
La madre di Domenico era stata una donna che per molti aspetti del suo modo di essere
rassomigliava a Bruno. Non aveva mai fatto uno sgarbo o mancato di rispetto a nessuno, era ben
vista per questo, non sarebbe mai stata in grado di nuocere a chicchessia e tutto ciò le aveva sempre
permesso di preoccuparsi solo di quanto le fosse in qualche modo proprio.
Domenico la ricorda con una luce particolare attorno.
Anche suo padre era stato un buon padre, un buon uomo ed un buon marito. Aveva lavorato tuta
una vita senza mai lamentarsi una sola volta di quello che aveva avuto in cambio e poi è morto
pochi anni dopo essere andato in pensione. Di lui non ricorda la stessa luce.
Fondamentalmente un innocuo. È un attributo che si addice a descrivere perfettamente la
caratteristica più evidente della sua famiglia. Poi innocuo è una di quelle parole neutre, dove non
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trovi qualità o difetti, bene o male, giusto o sbagliato. Il suono corrisponde esattamente al concetto
che identifica.
Anche Bruno è totalmente innocuo.
Consueta tappa dal tabaccaio, a parte rare eccezioni, quotidiana.
Domenico non comprerebbe mai una stecca. Avere tutte quelle sigarette lo farebbe sentire sicuro di
non restare senza per un bel pezzo e così perderebbe il senso di quante gliene mancano prima che
siano completamente finite. Compra solo quelle che prevede di consumare in quella giornata. La
stessa cosa vale per la benzina. È solo una forma mentale.
Alla fine della via si inizia ad intravedere la facciata della palazzina con quell’inconfondibile colore
azzurrino pastello molto chiaro ed il cancello bianco panna. È odioso, ma gli altri condomini non
hanno mai voluto spendere soldi per farla ridipingere. Anche quest’anno la proposta è stata bocciata
in assemblea, ormai se ne riparlerà tra sei mesi. Pazienza.
In ogni caso si trova bene nel suo appartamento, gli piace e per loro due è grande a sufficienza,
queste sono le cose che contano veramente. Se gli altri non hanno senso estetico è semplice: visto
che lui da solo non può permettersi quella spesa, che si fottano!
Le chiavi sono sistemate nello stesso ordine in cui si presentano le varie cose da aprire: il cancello
esterno, il portone condominiale, la cassetta delle lettere e la blindata dell’appartamento. La
semplicità prima di tutto. Quando esce non deve far altro che iniziare la sequenza dall’estremo
opposto.
Bruno libero dal guinzaglio inizia a fare le scale di corsa ed è già arrivato al primo pianerottolo.
L’orologio di Domenico inizia a suonare, è un Casio al quarzo, uno dei primi modelli, quelli con la
cinghietta di ferro, quattro pulsanti e la calcolatrice.
Sono esattamente le otto e trenta. Perfettamente in orario.
- “Ciao Bruno, io vado. Ci vediamo questa sera.” Una mano leggera passa alcune volte sul
pelo liscio della testa.
La porta si chiude.
Domenico sale in macchina dopo essersi tolto l’impermeabile e l’accende. Aspettando che il motore
si scaldi si accende anche una sigaretta. Arriverà con cinque minuti di anticipo, come al solito.
Da otto anni lavora in una compagnia di spedizioni, una di quelle che trasportano ogni cosa in ogni
parte del dannato mondo in massimo trentasei ore. È addetto alle relazioni con il pubblico via
telefono, nel senso che si occupa di rispondere a chiunque chiami per esporre un problema o abbia
bisogno di informazioni. Il suo lavoro gli piace, non è mai uguale e quindi è poco noioso, e spesso
capita che telefoni qualcuno che ha solo voglia di chiacchierare o sfogarsi, a volte ha ricevuto
minacce. Ma sono i rischi che si corrono normalmente avendo una linea gratuita. Gli piace anche
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perché ha un ufficio tutto suo, ed essendo quasi di continuo al telefono è raro che qualcuno entri per
parlargli e, cosa molto importante, può fumare liberamente senza subire le prediche dei colleghi
salutisti.
Non ha molte responsabilità e lo stipendi si adegua chiaramente a questa situazione, ma non gli
importa poi molto dal momento che gli basta per andare avanti in relativa tranquillità.
Salendo le scale immancabilmente una sensazione di astio vola alla maledetta sedia che per otto ore
al giorno gli tortura la schiena, ma la certezza di dover rimanere nei limiti del proprio posto gli ha
sempre impedito di chiedere che venisse sostituita.
Aprendo la porta lo sguardo gli cade sulla targhetta della scrivania che riporta il suo nome, bianco
su nero. L’appendiabiti sta tra l’armadietto e il cestino, l’ ha portato lui da casa. Una delle pareti,
quella di fronte alla scrivania, è occupata da un’enorme carta geografica planetaria politica dove
sono segnate le varie sedi dell’azienda e le zone coperte dal servizio di consegna. Gliel’ hanno
portata da appena sei mesi dicendo che gli sarebbe stata utile per dare informazioni precise senza
sforzare la memoria.
L’impermeabile è appeso, il pacchetto di sigarette con l’accendino sopra è già appoggiato vicino al
posacenere perfettamente pulito. Domenico lo svuota e lo lava ogni sera prima di andare a casa,
mentre apre un po’ la finestra per arieggiare la stanza.
Ogni nazione ha un colore diverso e questo fa risaltare le proporzioni tra i territori: l’Italia è un
campiello coltivato a frumento a confronto della Russia!
Il telefono squilla.
- “Cristo! Di già? Società Internazionale Trasporti, buongiorno…!?”
- “Vaffanculo!!” La comunicazione si interrompe.
- “Iniziamo bene oggi. Vaffanculo anche a te e…richiama quando hai bisogno di altre
informazioni!”
Domenico si dispiace quando capitano cose di questo genere, questo tipo di gente non serve certo a
far progredire la specie.
Ci sono almeno quattro minuti buoni prima dell’orario in cui inderogabilmente dovrà iniziare a
tenere l’orecchio incollato alla cornetta e forse sarebbe meglio prendere una dose di piacere puro,
ora che lo può considerare tale e non un’alternativa rapida alla coercizione produttiva: caffè e
sigaretta!
Naturalmente una piccola pausa anche durante il lavoro ormai se la può concedere ma la profonda
inclinazione alla professionalità gli impone di lasciare la cornetta alzata quando si allontana: è per
l’immagine dell’azienda. Cosa potrebbe pensare un potenziale cliente della serietà delle persone a
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cui dovrà affidare le cose che deve spedire se quando telefona la linea è libera ma nessuno è a sua
disposizione per aiutarlo e rispondere alle sue domande?
Questo sistema ha però su Domenico un effetto collaterale molto sgradevole: il pulsare ritmico del
segnale della linea occupata lo perseguita continuamente e ovunque, al bagno, davanti alla
macchinetta del caffè, in portineria, nell’atrio.
È una corsa nel fango. Lui gareggia per tornare in ufficio prima che quel suono diventi ossessivo.
Tre o quattro monete da cinquanta centesimi sono sempre a disposizione per la giornata, non di più,
la caffeina lo rende nervoso. È sempre stato così.
Nella pausa un pensiero di sincero affetto raggiunge Bruno.
La sigaretta è a metà.
- “Sarà meglio che mi avvii, ormai è tempo!”
il tempo è importante per Domenico, essenziale. Fin da quando era giovane aveva sempre cercato di
impiegarlo al meglio sia lavorando, che del resto nobilita, sia facendo progredire la sua
informazione culturale.
Libri, musei e mostre d’arte sono ancora alcune delle sue passioni.
Ovviamente anche sport, politica e cinema sono pezzi importanti per mantenere una buona socialità
e non sentirsi mai a corto di argomenti. E l’interesse per le cose pubbliche in una conversazione,
taglia fuori quello per le cose private. È una normale difesa della privacy.
Appena aperta la porta dell’ufficio il telefono inizia a squillare senza pietà. Domenico è ormai
molto competente nel suo lavoro e molto efficace nelle risposte che deve dare.
Con la cornetta appoggiata alla spalla lascia che lo sguardo scorra lentamente lungo tutto il
perimetro della stanza. Il riverbero della luce sulla superficie lucida gli cattura l’attenzione e gliela
appiccica alla carta geografica.
- “incredibile coincidenza! La Cina è colorata di giallo! Forse il satellite che ha fatto il
rilevamento ha mandato sulla Terra immagini completamente gialle! Cazzo! Sono talmente
tanti che se si fossero messi tutti a guardare il cielo nello stesso momento potrebbe anche
essere una teoria credibile.”
Il sorriso gli si accende appena.
- “…come diceva, scusi? Mi sono distratto un attimo, potrebbe cortesemente ripetere?”
Una vampata di calore lo aggredisce facendolo arrossire, lo sente perfettamente fino al momento in
cui non riattacca. È la prima volta che gli succede. Accende immediatamente una sigaretta. Il primo
tiro lo calma, il secondo lo rassicura.
Può capitare a tutti…
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Quasi quasi alla fine quella situazione lo fa sorridere a sé stesso con velata complicità, un calo
d’attenzione è trascurabile dopo tanti anni di lavoro perfetto…
Il suo vero soggetto però è rimasto leso nell’orgoglio, e Domenico sa che potrà nasconderlo a tutti
meno che a sé. Anche quando è da solo si comporta come se ci fosse sempre qualcuno che lo
osserva molto attentamente, se ne rende perfettamente conto, e difatti a volte riesce ancora ad
abbandonarsi all’istinto. È orrendo vivere con una telecamera puntata alla testa. Tutto era
cominciato il giorno in cui era entrato nel bagno di una banca per compiere un’azione
normalissima: urinare. Mentre era chiuso nello stanzino ci fu un tentativo di rapina e giorni dopo
venne a sapere leggendo il giornale che i rapinatori erano stati identificati grazie ai filmati delle
telecamere a circuito chiuso installate in tutto l’edificio. Da quando aveva circa dodici anni aveva
iniziato ad usare il lavandino al posto del water, e quella abitudine lo aveva silenziosamente
accompagnato come la più normale che esistesse. Non aveva mai provato a liberarsene, non gli
interessava, e la familiarità con quella azione lo legittimava a compierla anche in bagni che non
fossero il suo con estrema indifferenza. Ma dopo aver letto quell’articolo le cose cambiarono
radicalmente e il pensiero che un consistente numero di persone avesse esaminato accuratamente
ogni istante di quella sua profonda intimità lo aveva angosciato per un bel periodo di tempo e
ancora oggi, a distanza di anni, continuava saltuariamente a farlo. Forse lo faceva costantemente e
lui si era semplicemente abituato anche a questo…rimane il fatto che ora il suo atteggiamento
esterno è proprio quello di un sorvegliato a vista. Ogni mossa viene puntualmente valutata come se
esistesse la possibilità, magari molto remota, che qualcuno lo stesse spiando in qualche modo, a
volte gli capita anche a casa.
Per liberarsi di questo spettro pensa che probabilmente è solo un rigurgito di quella ingenuità che
quando sei adolescente ti fa credere fermamente di avere dei problemi a livello sessuale visto
l’accanimento con cui ti masturbi ogni giorno…poi cresci, capisci molte altre cose e scopri che
nove persone su dieci sono state toccate da questo dubbio. Scopri anche che è una cosa normale,
che ci sono passati tutti e che quindi tutti sanno perfettamente che anche tu lo hai fatto, ma
fortunatamente un diffuso senso del pudore evita che ci si metta in imbarazzo vicendevolmente e
così il tutto viene bollato col marchio della normalità e passato nel dimenticatoio.
Fortunatamente.
La mattina trascorre intensa ma tranquilla, addirittura a tratti il telefono non squilla e per Domenico
è sempre il momento giusto per una saporitissima sigaretta.
Gli alberi del cortile iniziano a perdere le foglie e si sta formando quel tappeto soffice e multicolore
che i scricchiola sotto i piedi lungo tutto il vialetto fino al parcheggio. È fantastico quando si alza
quella brezzolina frizzante che le fa muovere scatenando a volte turbinose danze circolari vicino
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agli angoli dei muri o sui bordi dei marciapiedi…c’è quel gusto di malinconico che ti fa riflettere su
miliardi di cose nello spazio di un attimo.
- “Il giovedì è sempre un giorno abbastanza leggero, ma il lunedì lo odio davvero! Ci sono
tutti quegli stronzi che si sono scordati di fare le spedizioni entro sabato mattina che
chiamano di continuo per vedere se in qualche modo è possibile accelerare le pratiche…
hanno urgenza, loro! Quello che è ridicolo è che tutti hanno un buon motivo per avere più
urgenza degli altri e ti chiedono cose impossibili, e passi mezze ore a spiegare i motivi
tecnici per cui qualcosa non si può fare.
Se solo certa gente pensasse un po’ di più a quello che questo schifo di mondo non andrebbe
così male! Quanto male vada non è dato sapere, ma che vada male è fuori da ogni dubbio.
Non ci si può più neanche permettere di viaggiare, non è più sicuro, a meno che non si vada
in qualche lussuoso villaggio turistico dove il personale parla italiano.
India? Se ti ammali sei sfottuto!
Sud America e Medio Oriente? Ci sono ovunque guerre civili e rivoluzioni!
Africa? Idem come sopra.
Cuba e i Paesi dell’Est? Ti ammazzano per dieci dollari!
La scelta è molto limitata ormai.
E se poi uno dovesse decidere di trasferirsi in un altro paese per vivere? Tra quelli che
restano la metà inizia a malapena oggi ad azzardarsi a dire che le guerre etniche che li hanno
devastati sono forse concluse, dell’altra metà l’ottanta per cento è così povero che tentare di
viverci normalmente è un’utopia.
Restano i paesi formati della Comunità…l’Occidente, in poche parole.
Forse non proprio tutto funziona alla perfezione ma almeno siamo civili, evoluti, puliti,
comunque gli unici ad avere un modello sociale che sarà anche zoppo, ma almeno si regge
in piedi con le sue forze.
A molti il nostro benessere scatena una cieca bramosia di raggiungerlo, una cattiveria
propria di gente rozza, noi invece siamo riusciti a dominarlo in qualche modo e queste
cellule impazzite vengono qui ad infettare i nostri equilibri dicendo che cercano solo un
lavoro e che è colpa del nostro sistema se non riescono ad inserirsi e se sono costretti a
rubare e a far prostituire le loro donne.
Non è così facile come credono!”
Si gira ed alza la cornetta per sentire se c’è ancora la linea: un silenzio così prolungato non capita di
frequente. Ma è anche una questione di coincidenze, il calcolatore del centralino che smista le
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telefonate le invia al primo apparecchio libero che trova e se c’è poco traffico può capitare che le
telefonate vengano passate tutte ai telefoni degli altri colleghi.
Tutto il corridoio ha la parte destra occupata dai micro uffici degli addetti alle relazioni telefoniche.
Sono complessivamente quattordici.
- “Mia madre diceva sempre che non bisogna mai rifiutare un piatto di minestra e un bicchiere
d’acqua a chi ne ha bisogno, ma lei non si era mai trovata nella situazione di essere derubata
o picchiata da uno straniero appena fuori di casa sua, nella sua città, nel suo paese.
È preoccupante!
Noi dobbiamo costruire la vera unità di questa realtà europea e poi avremo più possibilità di
andare veramente ad aiutare chi soffre, possibilità di costruire industrie, scuole e ospedali, di
creare negli altri paesi lo stesso tipo di benessere che c’è qui, avviare la macchina del
progresso.”
La sigaretta è quasi alla fine ma la voglia di fumare non accenna a diminuire, gli diventa
implacabile quando si spinge dentro questi spazi liberi dove può ragionare, è come un incitamento,
un vizioso desiderio di continuare a sentirsi a proprio agio tra le cose che lo circondano.
Uno sguardo al paesaggio completa l’opera. Con il mozzicone di una si accende un’altra sigaretta,
lo sbuffo di fumo è denso e obeso come la sua soddisfazione: gli strappi alle regole sono quelli che
non te le fanno sentire troppo pesanti. Si avvicina la mano agli occhi per poter vedere meglio la
magica regolarità con cui il tabacco brucia in senso circolare ed annusa il rivolo grigiastro che ne
sale, concludendo che quell’odore è più gradevole quando esce dalla bocca dopo che il fumo è
passato nei polmoni.
Gli torna in mente la vecchia casa, in periferia, dove aveva vissuto per così tanti anni e dove aveva
imparato ad amare questa stagione così mestamente vitale che in campagna dipinge paesaggi di una
bellezza folgorante…le solite banalità se si vuole: il sole arancione al tramonto e gli stormi di
uccelli che volano in formazione, leggera foschia che coinvolge tutto e tutti nello stesso gioco di
ombre opache e poco sfumate, le castagne e le patate dolci mangiate davanti al camino acceso, il
giorno dei Morti e il silenzio tipico delle domeniche.
Decide che quella domenica tornerà li a fare una passeggiata con Bruno per ritrovare adesso le
emozioni che una volta non era in grado di cogliere. Passeranno di sicuro una splendida giornata.
Non dovesse lavorare ogni giorno, passerebbe moltissimo tempo in giro per mercati e piazze, per
strade brulicanti di gente e quartieri deserti la notte, per bar e negozi, così, vagando senza una meta
precisa ma lungo un percorso che si snoda interamente nel suo habitat, dove antichissime monarchie
ancora resistono condividendo con le moderne democrazie, il Medioevo ed il Rinascimento, cultura
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e filosofia in ogni epoca, traffici di mercanti e belle-epoque, storia e arte, personaggi illustrissimi…
tutto concentrato nel suo conforto di far parte di una collettività più o meno collaudata.
Il telefono riprende a squillare perentorio e difficilmente succede che una chiamata non venga
seguita da molte altre.
La sigaretta finisce immediatamente fuori dalla finestra che è aperta dato che le ore centrali della
giornata sono ancora più che tiepide. La bella stagione pare abbia intenzione di non spegnersi più
quest’anno e tutto sommato non gli dispiace.
Il dovere cancella ogni tipo di pensiero e lo coinvolge nel concetto della squadra, facendolo come
sempre sentire fiero di quello che riesce a produrre per l’azienda, dell’impegno che ci mette con
quotidiana costanza a discapito della voglia che ogni tanto manca a lui come a tutti gli altri, ma si sa
che viene prima il dovere e poi il piacere.
La professionalità permette di capire tutto questo e di assumere di conseguenza un comportamento
stabile che non sia influenzato dagli umori che immancabilmente cambiano per una serie di fattori
imprevedibili. Così scorrono le ore, i mesi e gli anni, uguali per tutti eppure così diversi tra loro,
minimi particolari che hanno la capacità di farti cambiare direzione in ogni istante, che possono
allontanare come riunire.
Per circa un’ora la sequenza delle chiamate non si interrompe, come volevasi dimostrare il lavoro
procede a ritmo serrato senza più concedere soste e gli occhi di Domenico non si avventurano nel
territorio che ormai appartiene prepotentemente alla carta geografica.
Herrare humanum est, perseverare diabolicum!
Le parti si sono curiosamente invertite e sente che lo sguardo di quel pezzo di plastico gli si è
definitivamente posato addosso e lo pressa, lo insegue chiamandolo a voce bassa per strappargli
l’attenzione.
Riesce a non cedere.
Ogni volta che vuole spostare gli occhi, li dirige verso lo schermo del computer che usa
normalmente per verificare i listini dei prezzi delle consegne in ragione del peso dei colli, del loro
volume e del luogo in cui dovranno essere recapitati. Ricorda anche la simpatia del tecnico che ha
installato il programma e la sua disponibilità ad andare incontro alle esigenze di chi durante il corso
aveva trovato delle difficoltà nel capire le procedure di utilizzo.
Lui non aveva mai fatto domande, di solito preferisce che siano altri a farle, a volte ha dubbi perfino
sui suoi stessi dubbi.
- “Chiedo scusa, permetta che controlli sul terminale…le verrà a costare novantatrè euro e
cinquanta e se vuole assicurare la merce le costerà tre euro per ogni mille e cinquantaquattro
euro di valore dichiarato. Consegna in ventiquattrore al massimo.
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Grazie a lei. Buongiorno.”
Sguardo rapido all’orologio per vedere quanto tempo manca prima dell’ora di pranzo. Ancora due
ore. Di nuovo il trillo insistente gli si infila nelle orecchie come uno spillo. Meccanicamente una
mano alza la cornetta e l’altra incarica il dito indice di premere il tasto lampeggiante che passa la
chiamata, e il gioco ricomincia da capo.
Il conforto sta nel fatto che le regole sono sempre le stesse e che una volta che ci si è adeguati si
viaggia continuamente su un binario sicuro e praticamente privo di imprevisti. Tutta la difficoltà, se
così si può chiamare, è all’inizio, ma basta un briciolo di buona volontà per rimediare alla svelta.
Il posacenere inizia a contare un buon numero di mozziconi consumati fino al filtro e di sigarette
spente a metà, è diventato la quotidiana bilancia degli stati d’animo altalenanti in cui si alternano
caoticamente reali voglie da soddisfare ed esigenze non precisamente determinabili che vanno
addirittura al di là del desiderio in sé. In certi momenti non può fare a meno di accendere una
sigaretta. È una di quelle situazioni in cui non ci si chiede il motivo per cui si sta facendo una cosa:
la si fa e basta.
- “Cazzo! Si direbbe che il Mondo si sia svegliato tardi oggi! Di solito la maggior
concentrazione di telefonate arriva dalle otto e mezza alle undici, oggi invece…magari va a
finire che non riesco nemmeno a bere un caffè. Però posso sempre andare in bagno!”
Dal momento in cui decide di sospendere per riposarsi al momento in cui lo fa, di solito passa
parecchio tempo. Domenico programma le sue pause con largo anticipo e da quell’istante cerca di
resistere il più possibile per poi godersi al massimo relax e coscienza pulita. È solo una questione di
punti di vista, c’è anche chi preferisce non gustarsi la dolce attesa che anticipa gli effetti degli eventi
prolungandoli a ritroso nel tempo fino al momento in cui si ha già la percezione di ciò che sarà.
È lo stesso principio per cui gli era sempre piaciuta di più la sera della Vigilia che il giorno di
Natale, anche se nella sua famiglia i regali si aprivano rigorosamente la mattina del venticinque. Se
si sforza riesce ancora ad identificare quella eccitazione in qualche scorcio del suo presente.
Quando gli succede è come se ringiovanisse.
Le telefonate personali dagli apparecchi dell’ufficio sarebbero giustificate solo da casi di reale
necessità…Bruno è l’unica ragione che gli può far trasgredire quella regola. D’altro canto capisce
benissimo che se tutti telefonassero per motivi propri la bolletta lieviterebbe in maniera spropositata
e sarebbe un’ingiustizia nei confronti dell’azienda.
Fare qualcosa di nascosto lo mette in uno stato d’ansia totale perché si sentirebbe morire per
l’umiliazione se qualcuno un giorno venisse –ad esempio- a chiedergli una spiegazione delle sue
quotidiane infrazioni telefoniche. Ma una minima dose di rischio è inseparabile da qualsiasi azione
umana.
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Appena conclusa l’ultima chiamata riaggancia e frettolosamente rialza la cornetta prima che il
centralino gliene passi un’altra.
Compone il numero di casa e aspetta che dopo tre squilli si metta in funzione la segreteria. Odia la
sua voce registrata, gli pare di sentir parlare un sé stesso deficiente. Il messaggio finisce e parte il
famosissimo segnale acustico. Avvicina il ricevitore alle labbra e fischia al suo solito modo, quello
che da sempre usa per richiamare l’attenzione di Bruno.
- “Ciao vecchio mio! Come va? Io bene.
Cerca di avere pazienza, non manca molto…poi usciamo a fare le spese e ci facciamo un bel
giro, ok?
Fai il bravo, ciao.”
Bruno riconosce la voce e scodinzola stando in piedi ben ritto sulle quattro zampe.
Riattacca e si gira di scatto verso la porta per controllare che qualcuno non lo stia osservando. Con
la testa ancora girata dall’altra parte allunga un braccio e con la mano esplora la superficie della
scrivania per trovare il pacchetto di sigarette e l’accendino.
- “Speriamo non controllino mai le telefonate in uscita: una al giorno, ogni giorno per sei anni
e mezzo…dovrei avere una bella cifra di debito!
Ma si, tanto sono di sicuro il più corretto tra tutti quelli che lavorano qui! E poi figuriamoci
se i dirigenti, le segretarie e tutti quelli del piano di sopra non abusano.
Prima di fare un richiamo a me, dovrebbero farlo a tutti gli altri.”
Ha fatto tre tiri appena e già l’odore del fumo ha riempito mezza stanza, si alza e sposta un angolo
della cornetta in modo che la linea risulti occupata.
È tempo di prendersi un caffè. Lascia che le mani controllino dall’esterno delle tasche se le monete
ci sono e poi si avvia verso la porta con la sua solita andatura da manichino dinoccolato. È anche
colpa della sua statura se non riesce ad avere una camminata fluida, è anche vero però che proprio
grazie alla sua altezza quando era giovane era stato un buon giocatore di pallavolo e aveva militato
per anni nella squadra della città.
Ancora ricorda quanto gli costava partire da casa per andare nella palestra dove si allenava che era
vicina al centro. Doveva addirittura cambiare due autobus, ma lo faceva volentieri perché si
divertiva tantissimo e perché aveva delle soddisfazioni.
Fiaccamente percorre il corridoio che finisce nell’atrio, poi prosegue a destra per qualche metro
prima di arrivare allo stanzino delle macchinette distributrici. Aveva visto gente prendere a calci
quegli aggeggi infernali dopo che si erano trattenuti i cinquanta centesimi senza dare in cambio
l’ambito caffè. La carenza cronica di moneta all’interno dell’edificio aveva lasciato a bocca asciutta
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più di qualche collega, e di certo non si può salire in amministrazione a chiedere di cambiare dei
soldi.
A Domenico non è mai successo…è così semplice procurarsi della moneta durante la giornata che
con un po’ di scrupolo la si può accumulare dentro un vaso qualsiasi e poi metterla in tasca alla
mattina per usarla in ufficio. È solo una questione di prendere l’abitudine. Piuttosto che rimanere
senza caffè…
Il tipico rumore degli ingranaggi che si mettono in moto, il bicchierino di plastica che schizza fuori
e si blocca su quella strozzatura ad imbuto, il cucchiaino sparato con millimetrica precisione,
cascata di zucchero scrosciante, rigagnolo molliccio di acqua rovente di colore scuro che con gli
ultimi spruzzi forma una specie di schiumetta marroncina piena di microbollicine che una volta
scoppiate lasciano intravedere tra i vapori quello che può sembrare tutto meno che un caffè. Il gusto
che resta in bocca dopo averlo bevuto è comunque simile, sufficiente ad accendere lo stimolo di
fumare.
- “Che schifo! Da otto anni lo dico ogni giorno!” -fa il secondo sorso ed il naso gli si riempie
di quel vapore sbiadito che quasi puzza- “Dovrebbero cambiarle con qualche cosa di più
moderno, cazzo, non si può andare avanti così…e poi il caffè è un elemento essenziale per il
buon rendimento del personale, e questo è risaputo…”
Scuotendo il polso in senso circolare fa girare il liquido dentro il bicchiere per raccogliere lo
zucchero che non si è sciolto mescolando, poi fa un unico sorso allungando la lingua per cercare
qualche dolce cristallo superstite.
Pollice ed indice percorrono contemporaneamente un percorso simmetrico dagli angoli delle bocca
verso il centro per togliere quella sensazione di appiccicaticcio.
Mentre il bicchiere vola verso il cestino, Domenico lo guarda con aria un po’ disgustata: ormai è da
troppo tempo che quella bevanda gli fa rimpiangere l’ottimo prodotto della sua moka di casa.
Prende dell’acqua dal distributore li a fianco.
La sigaretta che aveva acceso poco prima di uscire dall’ufficio è piantata nella sabbia del
portacenere a colonna che c’è in atrio, tutta storta e spenta a meno di metà. Ma è proprio qui che
scatta la furbizia: questo piccolo escamotage psicologico gli permette di comporre la sequenza
sigaretta-caffè-sigaretta che lo appaga pienamente della pausa senza che si debba preoccupare del
fatto che fumarne due intere in cinque minuti potrebbe diventare una cattiva abitudine.
Semplicemente geniale.
Approfitta anche per fare una capatina al bagno, veloce, anche perché non è un posto che dà molta
soddisfazione alla sua privacy…water e lavandini sono alloggiati in stanze diverse, ed i secondi
sono subito a sinistra dopo la porta d’ingresso.
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Tira l’acqua schiacciando il pulsante con il piede perché gli fa schifo pensare a quante mani sporche
d’urina lo hanno già toccato. Esce e si lava le mani guardandosi allo specchio per vedere se i capelli
sono ancora in ordine. Ne nota qualcuno di bianco in più sui lati, vicino alle basette.
Il passo è spedito ora che deve rientrare, anche perché in ufficio lo attende il suo inimitabile amico
tabacco che gli offre la sua compagnia in qualsiasi momento senza mai volere in cambio
chiacchiere o sorrisi.
Spesso si conforta pensando che moltissimi altri condividono la sua stessa passione quasi morbosa
nei confronti di quel lungo cilindro che a volte risolve magicamente gli affanni della vita. Che senso
avrebbe guardare la tv-spazzatura alle quattro della mattina quando non si riesce a dormire se non si
potesse fumare?
Il desiderio lo aspetta nel suo stanzino, compresso dentro un pacchetto bianco e rosso dalla forma
rigidamente sicura.
Appena apre la porta già gli pare di sentire l’odioso suono costantemente petulante della linea
occupata, ma lo sguardo è immediatamente concentrato sopra la scrivania, a caccia della familiare
visione.
Accende e si gode il secondo tiro. Il primo non lo aspira mai per non inalare il gas dell’accendino
che a lungo andare si aggiunge al già buon numero di problemi che il fumo può causare
all’organismo.
Ora che non sta lavorando presta di nuovo attenzione alla carta geografica, tanto non ci si può
distrarre quando non si sta facendo nulla.
- “L’ hanno fatta gialla…veramente assurdo!
Però la Russia è più grande…” –sposta gli occhi all’estremo opposto- “…e anche il
Canada…ma sono di sicuro meno popolosi.
Quanti abitanti avrà la Cina? Un miliardo, uno e mezzo.
Sono così strani i Cinesi, tutti uguali tutti piccoli, nazionalisti e
conservatori con una intricata trama sociale. Mi sembra di aver letto
da qualche parte che da quando anno sei anni fino all’università,
devono andare tutti a scuola obbligatoriamente con lo stesso
grembiule e lo stesso taglio di capelli per imparare l’uguaglianza.
È inconcepibile!
E come considerano le donne? Vorrei vedere se proponessero ad una
europea di vivere secondo le regole cinesi…
E poi hanno un miscuglio di dialetti e di religioni che crea un casino
infernale, Pechino e contadini che forse nemmeno sanno cosa sia il
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telefono, i terribili anni del Socialismo alla sovietica che ha
duramente statalizzato ogni attività produttiva, la chiusura politico-
economica all’interno dei propri confini…improvvisamente il
Capitalismo ha iniziato a diffondersi provocando divari e scompensi
enormi nella popolazione, come sempre accade quando non esistono
strutture in grado di reggerne il peso.
Però…! Pensa se un giorno decidessero di invertire la tendenza ed
invece di inglobare nella loro società i nostri metodi, preferissero
colonizzare il Mondo per farlo diventare cinese! Sono così tanti che
se si organizzassero un po’…!”
Medita qualche istante su questa considerazione prima di accorgersi che più di metà sigaretta è
ridotta ad un curvo scheletro di cenere che sta per cadere sul pavimento. Lentamente si gira e
raggiunge il posacenere appena in tempo.
- “Va bene. È ora di ricominciare…o prima finisco di fumare?”
Muovendosi urta inavvertitamente il tavolo e la cornetta si riposiziona correttamente sulla base
provocando un rumore inconfondibile.
Nemmeno si gira.
- “Allora è proprio destino!”
Passano ancora trenta secondi e poi il primo squillo.
Man mano che si avvicina, l’ora di pranzo appare sempre più lontana ed irraggiungibile, sfocata
dall’incalzare del bisogno e dal lento esaurimento delle energie che devono essere reintegrate.
Purtroppo non c’è modo di riempire il buco allo stomaco di metà mattino con qualcosa di diverso da
quelle millenarie merendine e cioccolatine in distribuzione a cifre folli nella macchinetta accanto a
quella del caffè.
Per un periodo era riuscito ad ovviare portandosi da casa qualche stuzzichino: un frutto, uno yogurt,
un panino col formaggio, poi –non che questi cibi non lo soddisfacessero- ma le operazioni per
ricordarsi di comprare la frutta o per fare il panino erano diventate troppo macchinose ed iniziavano
ad intralciarlo creando una certa confusione. Se prendi lo yogurt devi prendere il cucchiaino, se
prendi il cucchiaino devi portare via una salvietta per avvolgerlo quando è sporco, per non parlare
del sacchettino per contenere tutte queste cose, ricordarsi di prendere il tutto prima di uscire di casa
e prima di uscire dalla macchina per entrare in ufficio. Davvero una cosa stressante.
E’ bastato far passare del tempo ed il corpo si è abituato ai nuovi orari senza troppe difficoltà ed ora
lo stomaco non emette nemmeno più quei cupi brontolii con l’eco.
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Consulta il listino telematico scorre con un dito i giorni sul calendario prende la penna e riempie di
asterischi l’angolo di un foglio sorride istintivamente tamburella sulle dita sulla scrivania riaggancia
passandosi una mano tra i capelli guarda l’orologio alza la cornetta si mette il mignolo nel naso
appallottola la caccola e la lancia nel cestino cambia posizione inarcando la schiena per sganciarla
un po’ prende appunti, stringe la cornetta tra spalla ed orecchio con una mano sfila una sigaretta dal
pacchetto e con l’altra tiene l’accendino si avvicina il posacenere e si appoggia sullo schienale della
sedia facendo alzare le due gambe davanti dispensa informazioni precise e consigli si sente sempre
più stanco risponde parla riattacca si massaggia il collo squilla di nuovo risponde parla riattacca
risponde parla riattacca si alza si siede un violino suona un’incalzantissima carica di gusto
mediorientale sempre più veloce più veloce risponde parla riattacca più veloce più veloce ancora
velocissima su sfondo nero un uomo cromato oscilla sospeso nel vuoto appeso a due sottilissimi fili
in uno spazio che da la sensazione di essere molle come una gelatina.
Semplicemente qualche minuto di stacco. Totale.
- “Mi faranno diventare frenetico come un dannato cinese se vanno avanti così! O forse sto
invecchiando e non riesco più a sopportare la solita mole di lavoro?
Su, forza! Alla tua età dovresti essere ancora uno stallone e non un cazzo-moscio come glia altri
colleghi che a trentanove anni vanno solo la domenica a giocare a bocce!”
Un nuovo squillo lo prende per i capelli e lo tira fuori dai suoi pensieri così velocemente che la sua
espressione di disappunto sembra lasciare la scia ricomincia lento il violino deve fumare ancora
adesso sta in piedi ha le gambe indolenzite con l’indice attorciglia il cavo del telefono riesce ancora
a sorridere ed essere gentile parla e ascolta si scorda dei Cinesi non guarda comunque la carta
geografica spegne l’ennesima sigaretta svuota il posacenere nel cestino riattacca parla riattacca di
nuovo il crescendo musicale risponde parla riattacca risponde parla riattacca risponde parla
riattacca, riattacca.
È arrivata l’ora fatidica. Il tempo passa molto più in fretta quando si è impegnati.
- “Non è stata poi così dura!” –solleva un angolo della bocca sbarrando gli occhi e inclinando
la testa- “…ma si dice sempre così quando è finita.”
Preme il pulsante che inserisce l’annuncio automatico che informa i clienti sull’orario di riapertura.
Si rilassa sedendosi scompostamente sulla sedia, con le gambe allungate e le braccia che pendono
dai lati, la testa ribaltata all’indietro e gli occhi chiusi.
Segue attentamente il costante fermento dei passi dei colleghi lungo il corridoio, ma non lo
infastidisce, anzi, si fa trasportare da quel fiume di voci e fruscii, colpi secchi e risate, si allontana
pian piano con loro e vede ogni cosa esattamente come sta accadendo. Paola dell’amministrazione
sarà sicuramente a fianco di Giovanna e con Marcello, il responsabile del magazzino. Tutti hanno
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ormai capito da tempo che i due si frequentano anche per fatti che non c’entrano col lavoro. Eppure
lui è sposato ed ha una bambina nata da poco. Ricorda il giorno che la notizia era circolata assieme
ai bicchieri di spumante offerti dal neo-papà.
Domenico si può permettere di aspettare che tutti siano usciti prima di andarsene a sua volta, come
molti altri si deve fermare a mangiare fuori perché col traffico che c’è a quest’ora ci metterebbe
almeno il doppio del tempo per tornare a casa. Come in quel periodo in cui Bruno aveva
inspiegabilmente preso una specie di tosse che lo torturava giorno e notte ed il veterinario aveva
prescritto tre antibiotici al giorno come cura. Il fatto era che dovevano essere presi ad otto ore di
distanza uno dall’altro. Per quasi un mese aveva dovuto alzarsi alle cinque per fare in modo che il
secondo trattamento coincidesse con la sua pausa per il pranzo. Prendeva un panino al bar
all’angolo e lo mangiava in macchina in mezzo ai gas di scarico, poi arrivava a casa, dava la
pastiglia a Bruno e si rimetteva in corsa per essere in ufficio per le quattordici e trenta. Era stata
un’esperienza infernale, ma per il suo unico vero amico avrebbe fatto qualsiasi cosa.
Il trambusto scompare lentamente lasciando spazio a qualche motore che si accende, il rumore
viene dal parcheggio, dalle macchine di quelli che non fanno neanche un metro a piedi e di quelli
che possono tornare a casa a mangiare. Questi fortunati hanno un altro vantaggio oltre alla
comodità: poter utilizzare i buoni pasto forniti dall’azienda per andare a mangiare in altri posti per
conto proprio. Ormai un numero sempre crescente di ristoranti si convenziona, è conveniente e
comodo…per i clienti.
La maggior parte di quelli che lavorano con lui ha scelto un self-service poco distante dove si
mangia bene, si spende poco ed i bagni sono puliti e profumati. L’unico neo è che gli pare di
mangiare in ufficio vedendo sempre le stesse facce, e poi ha una sua teoria per cui la pasta cotta in
enormi pentoloni ed in quantità notevoli contemporaneamente, perde un sacco di gusto ed assume
una consistenza che gli risulta sgradevole…gli ricorda l’asilo.
Non che gli sia capitato qualcosa di negativo quando era all’asilo, ma l’unico ricordo che ha è il
cattivo sapore della pastasciutta delle suore.
Con calma si alza pensando, come ogni giorno, se mangiare bene al self-service ma in cattiva
compagnia, o se mangiare ancora la solita schifezza di panini e tramezzini, ma pacificamente solo.
- “Ma si. Mangerò degnamente questa sera, in fin dei conti questo potrebbe essere uno
stuzzichino, e mangiare abbondantemente una sola volta al giorno non è neanche sbagliato.
Vada per il bar da Ciccio.”
Per quanti sforzi faccia non riesce a sfuggire a questo circolo vizioso che gli sta aggrappato addosso
come un dato di fatto ma che giorno dopo giorno si mette in dubbio. Alla fine prevale sempre la
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voglia di soddisfarsi prima, e poi eventualmente soddisfare anche lo stomaco…quindi ingozzata
frugale, caffè e passeggiata con sigaretta.
Prende la giacca dall’attaccapanni e controlla se i preziosi buoni stanno nella tasca interna poi si
punta sui tacchi di entrambe le scarpe e facendo ruotare il busto lascia che le gambe lo seguano,
eseguendo una specie di goffo passo di danza per girarsi con la faccia verso la porta.
Con le mani in tasca e prestando voluta attenzione ad ogni passo, quasi voglia farli ognuno con la
precisa tecnica e la dovuta calma, arriva al portone d’ingresso e girando lentamente la maniglia
prova ad immaginare che effetto gli farebbe entrare in quel bellissimo edificio se fosse tutto suo, se
fosse il proprietario dell’azienda. Di ogni cosa ci sono pro e contro: probabilmente avrebbe molte
più preoccupazioni, sarebbe continuamente assillato dal pensiero che qualcuno a cui paga lo
stipendio non si impegni debitamente nel lavoro e allora vorrebbe sicuramente avere la possibilità di
controllare tutto e tutti di persona, ma rischierebbe di creare un rapporto di tensione con il
personale, d’altronde non lascerebbe mai che per colpa di un gruppo di lavativi i suoi sforzi ed i
suoi investimenti fossero vanificati. Senza contare la responsabilità indiretta di continuare a far
mangiare qualche centinaio di famiglie puntando solo sulle proprie forze e sulla fiducia che si ha nei
propri collaboratori più stretti.
-“ L’imprenditore è un lavoro che da delle soddisfazioni che a loro volte te ne permettono delle
altre, ma è anche rischioso. Stressante quantomeno. Non so proprio se lo farei.”
Spinge con forza la porta anche con la spalla ed appena fuori si chiude l’impermeabile fermandolo
con le braccia conserte, d’altra parte in questa stagione è maledettamente facile prendersi un
raffreddore e Domenico odia da morire starsene tutto il giorno a casa a vegetare quando è malato.
Non sa mai cosa fare, si sente inutile e poi Bruno soffre tantissimo quando è costretto a non uscire
per alcuni giorni.
Sono anni che non gli capita di stare male, al contrario di quando era un ragazzino e ad ogni cambio
di stagione aveva l’influenza assicurata…ma all’epoca stare a casa da scuola poteva fargli
sopportare qualsiasi cosa. Potesse tornare indietro a quei tempi con la coscienza del dopo,
sicuramente sopporterebbe qualsiasi cosa pur di andarci a scuola, e studierebbe con grande
passione. Il problema è che lo studio non te lo fanno amare quando è il momento giusto e quando si
hanno i mezzi per farlo ormai è troppo tardi, magari si è costretti a lavorare per continuare a
mantenere in piedi il palco delle proprie esigenze. Come è successo a lui.
Aveva vent’anni quando sua madre era morta, lo avevano lasciato lì da solo con quei quattro soldi
che erano riusciti a mettere da parte, la casa era in affitto. È stato allora che ha dovuto iniziare a
pensare seriamente a trovarsi un lavoro stabile e sicuro per poter andare avanti senza dover contare
sulle misere sovvenzioni di parenti lontani che forse nemmeno ricordavano si chiamasse Domenico.
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Aveva iniziato facendo l’apprendista da un idraulico, suo vicino di casa, sebbene avesse sorpassato
l’età massima consentita. Fu un’esperienza dura, e le seicentomilalire -di allora- al mese non
sbloccavano di certo la sua situazione.
Poi provò la fabbrica ma la catena di montaggio lo faceva impazzire.
Fu la volta del magazzino di un supermercato, e per la verità gli andava bene anche se lo stipendio
non era altissimo. Tutto andò liscio fino a che la società fallì e restò a piedi di nuovo.
Alcuni mesi dopo rispose ad un annuncio sul giornale ed ebbe il colloquio per un posto di
centralinista alla S.I.T.. ora quel lavoro è parte integrante della sua esistenza: ognuno non potrebbe
sopravvivere senza l’altro.
Ricorda che questo posto lo considerava come la sua ultima spiaggia quando le sue speranze di
avere una vita normale erano quasi ridotte a zero, l’ultimo tentativo prima di abbandonarsi agli
elementi così come venivano, senza più cercare di modificarli a proprio vantaggio. Ma a volte
capita che quando tutto sembra perduto, entra in scena un fatto nuovo, casuale, che cambia
completamente le carte in gioco. Ancora oggi crede che sia stata una sorta di ricompensa per tutto
quello che aveva passato…eccetto alcuni casi, esiste una certa forma di giustizia in questo mondo di
scompensi.
Usciti dal grande cancello elettrico bianco, si gira a destra per andare al self-service, a sinistra per il
bar da Ciccio.
Potrebbe anche usare la macchina, ma non ha fretta e si è profondamente convinto che ognuno, nel
proprio piccolo, sia tenuto a fare qualcosa per limitare il fottuto inquinamento che strangola le città,
ormai anche le più piccole. Così con le mani in tasca e leggermente ingobbito in avanti procede
lento come un’intera processione e la sua figura lineare scorre lungo il grigiastro retro dei
capannoni della zona industriale, lungo la solita scorciatoia di ghiaia, attraverso il cortile dell’ex
Italtech che ha chiuso circa tre anni e mezzo fa, lungo il marciapiede alto e largo che non ha mai
capito a cosa possa servire visto che l’unica cosa che si muove a piedi nei paraggi sono i gatti
randagi di notte, attraverso il piccolo boschetto in mezzo alla rotatoria che porta in tangenziale –
pesta una merda di cane…doveva succedere prima o poi…-, lungo tutto il violone a quattro corsie
costeggiato da orribili prefabbricati usati come depositi di generi alimentari, fastidioso rumore dei
motori delle celle frigorifere che ronza nelle orecchie, sbuffa e si accende una sigaretta.
La fame inizia a farsi sentire e quando lo stomaco chiede di essere riempito, fumare non gli dà lo
stesso solito piacere, solo un po’ di meno.
Guarda la sigaretta. Fa tre o quattro tiri riempiendosi la bocca al limite, poi aspira. Gli pare di aver
deglutito un sasso, aspetta qualche secondo e poi espira lentamente a bocca aperta per creare un
cono di fumo denso che ogni tanto spezza facendo qualche cerchio. Ripete l’operazione da capo e
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lancia lontano il mozzicone, con la stessa tecnica che usava da bambino per far correre le grosse
biglie di plastica con le facce dei campioni dello sport sulla pista di sabbia con le paraboliche.
Alla fine della strada ricomincia la città con tutti i suoi soliti servizi e si inizia ad intravedere il
capolinea degli autobus con la piccola piazzola creata apposta per fare in modo che si possano
girare senza intralciare il traffico, che nelle ore di entrata e di uscita dal lavoro è molto intenso
anche in quella zona. Chi usufruisce del servizio pubblico non è certo agevolato, infatti alcune
aziende distano anche un’abbondante quarto d’ora di camminata dalla fermata…potevano anche
pensare ad una corsa fatta esclusivamente per i lavoratori che facesse quanto meno il giro più
esterno dell’area industriale, giusto per evitare che praticamente tutti usino un mezzo proprio per
andare al lavoro, che è né più né meno di quello che succede ora.
Sorpassare la fermata è come sentire la campanella dell’ultimo giro in una corsa ciclistica su pista…
fa tirare fuori le ultime energie e magari si riesce ad essere più veloci nell’ultima parte della
competizione che in tutte quelle precedenti.
Ancora qualche centinaio di metri prima dell’arrivo.
Le vetrine del bar si presentano sporche come sempre e le orrende vetrofanie che richiamano le
forme dei panini e delle bibite danno a quel posto un aspetto decisamente periferico, da bettola di
porto industriale dove si spaccia droga e dove loschissimi soggetti si accoltellano per aggiudicarsi i
favori di qualche puttana eroinomane.
Appena si entra, se si trova il coraggio di farlo, ci si aspetta di vedere esattamente quello che si era
immaginato, condito dall’immancabile nuvola di fumo che ormai è diventata un controsoffitto e dal
forte odore di pesce fritto, invece gli occhi cadono subito su quell’enorme figura dallo sguardo
bonario che sta dietro il bancone, “Ciccio” per l’appunto. È così che si fa chiamare. Nel bar
lavorano lui e la moglie, anche lei una taglia forte, ed entrambi sono di una gentilezza squisita,
sempre con un sorriso pronto per tutti. La loro inflessione dialettale quando parlano l’italiano li
rende ancora più teneri.
Tutto è pulito perfettamente ed un gradevole profumo di fresco si mescola a quello dei panini che
sono sulla piastra, non si può fumare e non ci sono posti a sedere, solo qualche altissimo sgabello
che non dà nessun conforto alla schiena di chi è stato seduto tutta la mattina.
Domenico non ci sarebbe mai entrato in un posto come quello se non fosse stato per Gabriella, la
collega dell’ufficio accanto che un giorno l’aveva portato lì prima di convertirsi anche lei al self-
service. È piacevole confondersi tra gente che si conosce solo di vista ed ascoltare il ritmo caotico
del vocio in sottofondo che ti penetra fino a dare il tempo alla masticazione.
Il lato frontale del lungo bancone è tappezzato di cartoline che vengono da ogni parte del mondo ed
alcune sono addirittura in bianco e nero, altre hanno le immancabili donne nude che conservano
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ancora qualche cenno di attrazione. D’altronde un bel culo fotografato, a prescindere dal motivo per
cui è stato fotografato, è pur sempre un bel culo!
Ormai è prassi entrare, ordinare e mentre si aspetta scorrere con lo sguardo quelle centinaia di
rettangoli lucidi soffermandosi solo su quelli con qualche pezzo di qualche bella signorina.
-“ Finalmente!”- apre la porta facendo attenzione al gradino –“ Ciao Ciccio! Ciao Marisa! Cosa c’è
di buono oggi?” Si toglie l’impermeabile per sentirsi un po’ più libero nei movimenti. Orami sono
anni che frequenta quel locale ed ha una certa confidenza con i proprietari, ma gli piace anche il
fatto che essendo un cliente loro non tentano mai di sapere i fatti suoi con domande inopportune, e
così può condurre la conversazione negli argomenti che preferisce, oppure non iniziarla nemmeno.
Tutto comunque a sua discrezione. Odia la gente indiscreta.
-“ Come va, ragazzi? Visto che anche oggi vi degno della mia compagnia?”
- “ Bene, grazie Domenico. Tu?”
Si avvicina alla vetrina che contiene niente meno che cibo.
Ciccio si sposta a sua volta facendo scricchiolare la pedana sotto i suoi piedi.
-“ Come al solito…una fatica.
Oggi prendo un vegetariano, un toast farcito con le melanzane e la solita acqua minerale naturale,
grazie.”
Ciccio annuisce con la testa.
-“ E’ in gamba! Sa sempre dove fermarsi per non diventare invadente. È questo il modo di gestire
un locale, anch’io farei così!
Altro che i Cinesi che si opprimono con il carico del giudizio altrui e con la cortesia a tutti i costi!
Come cazzo faranno a vivere in quelle condizioni è una cosa che non capirò mai…mi scoppia il
cervello solo a pensarci!
Chissà se proprio non capisco o se è solo una questione di paura di cambiare sistema…comunque i
Giapponesi non se la devono passare molto bene…sarà una questione genetica!”
Una sola cosa lo infastidisce di quel posto: le gocce di formaggio colate sulla piastra che friggono
emanando un odore acutissimo che pizzica le narici fino in mezzo agli occhi, acido quasi.
E anche lo sgabello, naturalmente.
Ma la tranquillità viene prima di tutto.
Dal primo giorno che l’ ha conosciuta, si è accorto che Marisa lo guarda in modo particolare, ma
ultimamente la cosa è diventata più evidente, sarà forse per il fatto che salta subito agli occhi la
differenza di età e di figura tra lui e Ciccio, ma questa situazione lo imbarazza dal momento che lui
non prova assolutamente nessun interesse nei confronti di quella donna, per cui da tempo ha deciso
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di non rivolgerle la parola direttamente o quanto meno di essere il più banale e generico possibile
quando le parla.
Non è mai scortese, non sia mai detto.
Semplicemente alimenta il dubbio di lei che questo suo comportamento sia dovuto alla normale
distanza da mantenere tra cliente ed esercente, e contemporaneamente la sua speranza di tornare ad
essere femminile conquistandosi le attenzioni di un giovane uomo.
Non troverebbe mai il coraggio di fare qualcosa che le facesse capire che il solo pensiero di vederla
nuda lo fa rabbrividire, neanche se fosse qualcosa fatto con la dovuta gentilezza e classe. È anche
una questione di carattere in fondo, non ricorda di aver mai detto in faccia a nessuno esattamente
quello che gli spettava, nemmeno quando la ragione era tutta dalla sua parte…è un’innata difficoltà
a dire o fare cose che sanno di offese.
Di solito preferisce lasciar perdere.
-“ Sono sicuro che se mi giro lei mi sta guardando.
Maledizione Marisa!
Toglimi gli occhi di dosso che hanno i denti che mi pungono la schiena.
Ma guarda che cazzo mi deve capitare…mai che mi succeda con una bella ventiduenne!
Però anch’io…ormai dovrei esserci abituato, e poi…mi spavento per una che si è già quasi scordata
la menopausa e che avrebbe solo voglia di un po’ di sesso?
Si vede che quest’ultimo periodo di astinenza mi ha rammollito.
Quasi quasi la faccio felice un paio di volte e interrompo la mia serie negativa, tutto
contemporaneamente!
Ma che cazzo stai pensando Domenico?
No, dico, che cazzo stai pensando? Non ti sarai mica bevuto il cervello?!?
Pensa a questa donna molliccia e sudaticcia che ti si dimena sopra come un’indemoniata e che
magari vuole sentirsi dire volgarità per scaricare anni di libidine repressa…ma poi, al di là di
tutto…che cazzo stai pensando?!
Cadere in basso va bene, ma così sarebbe davvero troppo.”
Riporta il pensiero al cibo senza muoversi di un millimetro, girando la pagina della Gazzetta che
non sta nemmeno leggendo. Non saprebbe come ingannare l’attesa ed evitare l’imbarazzo
altrimenti, non si può neanche fumare e alzarsi e uscire per farlo è fuori discussione: lo farebbe
passare per un tossico nicotinomane.
Non può nemmeno gustarsi i giornali dal momento che le notizie principali le ha già sentite al
notiziario della mattina in tv –d’altronde gli piace troppo quel tipo di compagnia quando si alza- e
delle minori non gli importa più di tanto, la cronaca locale la segue al telegiornale regionale della
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sera. Senza contare che l’apprendimento passivo lo soddisfa maggiormente e gli risulta meno
ingombrante…per leggere di disgrazie o cazzate fatte da questo o da quel politico dovrebbe
addirittura sforzarsi, il miracolo dell’audio-video scavalca agevolmente questo ostacolo. E poi adora
vedere i giornalisti alle prese con improvvise situazioni non inserite nella scaletta, gli piace
soppesare la professionalità dei vari cronisti in base al modo in cui reagiscono ad una variazione del
programma non calcolata.
Gli sarebbe piaciuto anche fare il giornalista, magari l’inviato o il corrispondente dall’estero, vivere
una vita sbriciolata e sparsa in luoghi diversi, senza orari né legami, e magari comprare una casa di
campagna nei dintorni dove rifugiarsi, magari proprio quella dove ha abitato con i suoi.
Forse non sarebbe stato tagliato per questo tipo di lavoro.
E se l’avessero mandato in mezzo ai Cinesi?
Magari a Pechino!
Sarebbe di sicuro impazzito!
-“Il pranzo è servito, Domenico.”
La sonora voce di Ciccio spacca il brusio condito dal bip caotico del registratore di cassa che in
questo orario difficilmente tace.
Si alza e si gira verso il banco tralasciando di fare attenzione ad ogni cosa fino a che non mette a
fuoco quella faccia tonda, solo per non incrociare lo sguardo di Marisa che lo fa sentire esattamente
come quando scoreggiava in classe e la puzza si diffondeva veloce tra i banchi suscitando conati di
vomito nelle compagne più a modo: un’indifferente colpevole idiota. Solo che le performances
scolastiche erano anche divertenti…
- “Grazie Ciccio.” Il piatto si presenta con un panino sopra l’altro.
- “Forse dovrei smettere di venire qui…ma dove vado a mangiare?
Povero Ciccio…nemmeno si accorge di quello che gli capita sotto agli occhi.
Le donne possono fare più danni di una bomba!”
Scuote la testa in segno di disapprovazione confondendo il movimento tra quello per allungare il
collo e quello per annusare il cibo.
Addenta per primo il vegetariano perché gli piace sentire la sensazione che dà il pomodoro a
fette caldo: sugosa e tiepida…se lo mangiasse per secondo di certo si raffredderebbe. Di solito
beve un sorso d’acqua subito dopo il primo boccone e poi tenta di regolarsi e di lasciare metà
bicchiere per il secondo panino.
Bruno è di ritorno dal bagno dove una cassetta per gatti piena di ghiaia fine sostituisce erba ed
alberi e riceve i suoi rifiuti organici mentre Domenico è fuori. La maggior parte delle volte
riesce tranquillamente ad aspettare, ma quando capita di non poterlo fare allora quel pezzo di
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plastica azzurra diventa indispensabile. Se dipendesse solo da una sua scelta chiederebbe di
vivere in una casa con il giardino.
Anche l’appartamento comunque va bene, è un posto caldo e sicuro e le occasioni per uscire
non mancano di certo. Da questi punti di vista, come da molti altri del resto, Domenico è un
compagno coscienzioso, di quelli che non dimenticano mai le esigenze di chi in qualche modo
dipende da loro.
La ciotola dell’acqua e del cibo sono sempre pulite e non hanno mai quell’odore sgradevole di
avanzi lasciati ad invecchiare, la coperta della cesta viene sbattuta e messa all’aria nel terrazzino
quasi ogni giorno, la vaschetta viene lavata e disinfettata dopo ogni uso, la salute è tenuta sotto
controllo con regolarità, il menù è vario e abbondante, la sterilizzazione è stata evitata, l’affetto
assicurato…e poi dicono della vita da cani!
È come se Bruno si rendesse conto di tutto ciò e ricambiasse la considerazione che gli viene
data tenendo a sua volta in considerazione la diversità dei ruoli all’interno del gruppo.
Il rispetto reciproco ha reso questo legame solido e piacevole da approfondire, anche se ormai
sono ben pochi gli atteggiamenti dell’uno che risultino nuovi od inaspettati per l’altro, e
viceversa.
È diventato così raffinato che ormai è quasi una questione di sole presenze, di delicate
consapevolezze sull’essenza della presenza, di equilibrio della coesistenza in uno stesso spazio,
in uno stesso tempo.
Odori, rumori, immagini vere o fantasiose, a volte preoccupazione.
Addenta il toast farcito sapendo già che non riuscirà a finirlo e che poi lo avvolgerà nella
salvietta e lo butterà nel cestino assieme al resto prima di appoggiare il piatto e il bicchiere sul
bancone. Gli secca tremendamente far vedere che butta lo roba da mangiare.
È il pensiero di non poter mangiare una buona pasta col sugo come quella che faceva sua madre
che gli smorza l’appetito. Guarda fuori della vetrina le macchine che passano. La mente si
rifiuta di pensare al rientro al lavoro: ogni cosa a suo tempo. Prima ci sono un buon caffè, una
passeggiata come digestivo ed una grandiosa sigaretta come dessert, com’è che si dice?!…
Dulcis in fundo!
Adora quei minuti di completa solitudine, camminare fumando per tornare verso l’ufficio lo
rilassa tantissimo e lo ricarica di buona volontà, tutta quella che gli serve per affrontare la
seconda parte della giornata di lavoro che, per fortuna, gli pesa sicuramente meno della prima.
Solitudine, compagnia…
Gli viene in mente che la sera dopo c’è la cena a casa di Marco, con Gigi ed Elisabetta che non
vede da quasi un anno, il pazzoide Sergio con i suoi soliti spinelli –non crescerà mai-, Roberto
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con la sua ultima fiamma Martina, Greg il canadese collega di Marco alla farmacia e altri amici
di amici che non conosce. Ci sarà anche Bruno con lui, naturalmente. È sempre ben accetto
nelle case degli amici, anche di quelli che hanno gatti, perché è tranquillo, ben educato e non dà
il minimo disturbo.
L’aver ricordato questo piacevole impegno gli ha sollevato il livello di resistenza alle fatiche del
lavoro.
Gli piace coltivare qualche amicizia discreta, poco chiasso, qualche cena tra intimi, qualche
mostra e qualche gita, qualche libro consigliato, a volte il cinema o la partita di coppa, poi amici
che continuano la propria vita privata. Quelle più strette sono quelle più datate, come spesso
accade, Sergio è un compagno addirittura delle medie, Marco uno dei primissimi conosciuti al
club di pallavolo.
Nessuno dei due è cambiato di tanto dal primo incontro…nemmeno lui, suppone.
È bello anche perché ognuno è per gli altri uno specchio su cui guardare che effetto fa il tempo
che passa e contemporaneamente un punto fisso a cui sono ancorati ricordi ed esperienze che
altrimenti sarebbero di certo andati alla deriva, che si sarebbero persi come chissà quanti altri
hanno già fatto. È difficile tenere il conto perché nel momento in cui vengono richiamati per
essere ricordati non sono più persi, e così quelli che scompaiono lo fanno senza lasciare traccia,
in silenzio e a tradimento.
Avere la coscienza di ciò che è stato è importante per capire dove si sta andando.
Forse proprio in questo sta la spiegazione del rapporto che ha con i luoghi che lo hanno accolto
il giorno che è nato e che lo hanno accompagnato fin dove è arrivato, –quante volte lo ha
pensato- quei luoghi che conosce alla perfezione e che sono diventati lo scenario
imprescindibile della sua vita, quelli che non lascerebbe per niente al mondo, quelli che gli
fanno venire voglia di tornare quando è distante, quelli che osservano e commentano tutto ciò
che fa perché lo conoscono, perché hanno la confidenza per poterlo fare, quelli che sanno chi
erano i suoi genitori, che sanno che la sua è stata una famiglia rispettabile e che altrettanto si
può dire di lui.
Fa parte della popolazione di quella città, lì ci sono le sue origini, le sue radici, ed un albero
senza radici non può crescere.
L’ultimo angolo del toast proprio non gli va giù, lo appoggia sulla salvietta e beve d’un sorso
tutta l’acqua rimasta nel bicchiere. Si asciuga la bocca e avvicinandosi al banco ordina il caffè.
Sembra impossibile ma il tempo corre quando ce n’è poco a disposizione ed arrivare tardi non
gli si addice, perciò visto che la passeggiata non ha tempo definito, di solito preferisce muoversi
appena terminato.
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Anche perché così può sfuggire alle silenziose proposte di Marisa.
- “Lo sai che il tuo caffè mi salva la vita, vero Ciccio?”
- “Ci mancherebbe…è il migliore!
Però costa…”
- “Immagino. Ma merita di essere pagato.”
Il sapore intenso e sincero e la consistenza cremosa gli invadono la bocca, con il cucchiaino
pesca lo zucchero sul fondo della tazzina riappoggiandola poi delicatamente sul piattino
spostando la bustina vuota. Una mano è già dentro la tasca alla ricerca dei buoni pasto. Saluta a
distanza un paio di persone con un cenno della testa ed un impercettibile movimento della
bocca.
Pagando con i buoni gli torna anche qualcosa di resto, che per la verità è qualcosa meno di un
pacchetto di sigarette, e sono soldi che a conti fatti gli sono utili a fine mese. Intasca le
banconote da una parte e le monete dall’altra gettando per terra lo scontrino accartocciato e con
un rapido movimento del piede ne devia la traiettoria prima che tocchi il pavimento, per farlo
rotolare più in là.
- “Forse ci vediamo domani!
Grazie e ciao.”
- “Ciao Domenico.”
Si gira verso l’uscita.
- “Ciao Marisa!”
Ora che se ne sta andando le concede uno sguardo ambiguo.
Appena fuori prende la direzione opposta a quella da cui è venuto per allungare il giro e perdersi
un po’ nei suoi pensieri. Sfila una sigaretta dal pacchetto e l’accende senza tergiversare, poi con
calma rimette via tutto, si sistema il colletto dell’impermeabile.
C’è anche qualche impiegato della banca per strada, i soliti inconfondibili gruppetti, quelli che
si riconoscono a duemila chilometri di distanza: cinque o sei bei fusti abbronzati da lampade
integrali con denti bianchissimi e capelli in ordine, giacca, cravatta e scarpe lucide color radica,
solitamente due donne ben vestite e cariche di splendida bigiotteria, una ha gli occhiali, e
talvolta chiude la sequenza il collega informale, blu-jeans, scarpe casual, camicia poco classica
e maglioncino.
A Domenico sembrano una pattuglia di marinai inglesi ubriachi fradici in giro per Bangkok per
la prima volta, all’epoca del colonialismo.
Sono divertenti.
Fa un lungo tiro.
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Sono baldanzosi e chiassosi, abituati ad essere al di là di un divisorio di vetro invisibile che col
tempo diventa psicologico, abituati a trattare in modo diverso la gente e a farsi trattare in modo
diverso dalla gente, d’altronde il denaro è campo di umiliazione o di adorazione.
Odia andare in banca, infatti…quelli sanno tutto di tutti ed ammesso che per professionalità non
divulghino confidenzialmente i fatti altrui, quando si è lì davanti il rapporto è sempre diretto,
uno a uno, uno che dell’altro sa e l’altro che dell’un sa più o meno nulla. Si entra uno alla volta,
si esce uno alla volta, il maledettissimo metal detector sulla porta che suona anche se si ha una
puntina infilata sotto la suola della scarpa. La riga blu che non si può oltrepassare per garantire
la riservatezza del cliente che sta facendo l’operazione…ma quale cazzo di riservatezza.
Sono un clan di indiscreti che semplicemente non hanno niente che possa farlo pensare.
Ma è l’istituzione-banca che li plagia. Lo stesso che succede a quei poveretti che sono obbligati
a lavorare come forsennati con orari allucinanti per non perdere quel posto da sottopagati
nell’enorme ingranaggio dell’organizzazione degli ipermercati stranieri. Eppure migliaia di
persone sono pronte a prendere il posto del primo che viene liquidato o che si licenzia per non
scoppiare. Ti fanno il lavaggio del cervello.
Si accorge improvvisamente che per seguire il gruppetto con lo sguardo sta quasi camminando
all’indietro.
Si gira e mette la sigaretta tra le labbra, facendo finta di niente. A volte un’innocente curiosità
viene scambiata per invadenza e crea equivoci spiacevoli. Gli è già capitato che la malizia delle
persone abbia distorto i suoi atteggiamenti.
Un autobus passa rumorosamente tagliando lo spazio che lo metteva in relazione con il
gruppetto all’altro lato della strada, dividendo le vicissitudini.
Ora lo sguardo ed il pensiero di Domenico sono rivolti in avanti e passo dopo passo la sua figura
si squaglia e si ricompone uguale a prima nella gioia di sentirsi protetto dall’indifferenza con cui
conosce perfettamente chi è in quel momento, da dove è partito e dove sta andando, muri di
palazzi e vetrine di negozi. Quello è il suo universo, quello dove qualunque estraneo deve
sentirsi un intruso con una maschera che ne nasconde l’identità, e per questo motivo potrebbe
essere sottoposto a lunghe valutazioni ed osservazioni.
Dopo un paio di isolati arriva l’unico punto un po’ fastidioso del tragitto, emotivamente
sconnesso. È la porta di ingresso dell’Eden bar. Anni fa era il locale in cui andava a mangiare
prima di conoscere Ciccio e da cui è scomparso improvvisamente senza mai più avere il
coraggio di ritornarci. Sarebbe stato molto imbarazzante tentare di trovare una scusa per
giustificare il suo comportamento se Antonio –il proprietario- gli avesse chiesto come mai fosse
sparito. Data la confidenza che aveva avuto quasi da subito, sarebbe stata una domanda
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assolutamente inevitabile e Domenico aveva deciso che si sarebbe risparmiato la mancanza di
tatto di rispondere che aveva trovato un posto dove si mangiava meglio e con meno soldi. Così
evita il luogo fisico per evitare quella domanda.
Ad ogni modo questo inconveniente non è mai riuscito ad essere più forte della sua voglia di
fare quella strada per tornare in ufficio e così si lascia rapire da distrazioni false come i comizi
elettorali, basta che provengano dal più distante possibile da quella porta. La vetrina è coperta
da una tenda per cui è questione di un attimo: spostare lo sguardo dall’altra parte della strada ad
esempio, e fare quei due passi per uscire dalla visuale che la porta consente e sfuggire
all’attenzione di chi sta dentro.
Gli capita di sentirsi ridicolo…un bambino con il corpo da adulto. Ma anche se il fottuto mondo
lo ignora, lui lo fa semplicemente per non offendere Antonio, non perché abbia paura di dire
come stanno davvero le cose.
Lancia lontano il mozzicone della sigaretta fumata avidamente. Gli occhi gli corrono avanti
lungo le facciate dei palazzi ed aspettano fissi in qualche punto che lui vada a riprenderli, e poi
ricominciano.
Domenico cristallinamente adora quella camminata.
L’ufficio postale…quelli si fanno una bella vita…gli statali…gente fortunata. Lo diceva sempre
anche suo padre e lui non aveva mai ben capito il perché, lo aveva preso come un luogo comune
sul lavoro fisso, sulla paga e la pensione assicurate, sulle poche controindicazioni di quel tipo di
impieghi. Da quando aveva lui stesso iniziato a lavorare, quelle dicerie erano diventate sempre
più delle verità, delle certezze, fino ad arrivare ad essere una sottile invidia.
Forse un fastidio per quella generica ingiustizia.
Ma la vita è così, ad alcuni va bene, ad altri meglio…ma c’è anche a chi va di merda! Questo -
diceva sempre sua madre- non bisogna mai dimenticarlo.
Subito dopo l’elettrauto, all’angolo con lo strettissimo Vicolo Lodigiani sulla destra, si aprono
le vetrate del ristorante cinese “Fior di Loto”, decorate con dragoni che sputano fiamme
attorcigliati su colonne fine intarsiate a spirale. Le luccicanze del rosso vivo e dell’oro, del
verde giada e del giallo e le sinuosità di quei due esseri, non passano inosservate. C’era anche
stato a mangiare una volta con Rossella. Lei adorava la cucina cinese e quello era probabilmente
uno dei locali migliori della città.
All’interno, da quel poco che si vede, sono in corso i ferventi lavori per l’apertura serale, per il
rito a cui parteciperanno molti altri Cinesi.
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È impressionante, ma ci sono sempre numerosi autobus da gran turismo che accompagnano
comitive di orientali forse stanchi del cibo italiano o magari solo diffidenti, che si riversano
come locuste nei ristoranti che servono la loro cucina tipica.
A Domenico è capitato di vedere gli stessi autobus più giorni di fila.
- “Magari è tutta una messinscena! Mettiamo che la presenza di un loro ristorante in ogni
quartiere di ogni città del mondo non sia proprio casuale.
È probabile che tutti i Cinesi che se ne vanno dal loro paese e si stabiliscono in un altro
finiscano per aprire un ristorante o per lavorarci?
Dico, si è mai visto un Cinese in un’edicola? In una tabaccheria? Un infermiere? Un fantino?
Un muratore? Un domestico o un alpinista? Sono tutti nei ristoranti!
A me pare che quando una coincidenza si ripropone in così larga scala, inizia a perdere di
credibilità…
E quando finiscono di lavorare cosa fanno? Non si vedono in giro. Vanno al supermercato?
Dove passano i momenti liberi?
Escono a bere una birra?
Io li ho visti solo all’ufficio di collocamento per rinnovare il libretto di lavoro, e ogni volta
ognuno accompagna un amico appena arrivato che ancora non sa la lingua.
E poi svaniscono.
Quanti Cinesi ci sono in Italia?
Quando muoiono, dove vengono sepolti? Non ho mai visto la lapide di un Cinese al cimitero!
Vuoi vedere che un’altra coincidenza ha voluto che fin’ora tutti gli immigrati Cinesi siano
riusciti a tornare nel loro paese prima di morire? E così sarebbero tutti sepolti lì, tra la loro
gente…potrebbe essere…
Sono essenze, sembra che facciano di tutto per non farsi notare, per
passare inosservati.
Com’è che un nero lo si nota subito per strada anche se ce ne sono una moltitudine in giro,
mentre ad un Cinese non fa caso nessuno?
C’è mai stato un articolo sul giornale che parlasse di qualche Cinese coinvolto in qualcosa di
illegale o deceduto in un incidente spaventoso che lui stesso aveva causato?
C’è mai stato un Cinese terrorista? Non qui!
A nessun Cinese è mai venuto in mente di spacciare droga, proprio a nessuno?
Non ricordo di aver mai sentito di qualche Cinese incazzatissimo od uscito di testa che ha
ammazzato qualcuno, o che si sia suicidato.
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Dove vanno in vacanza? Tutti in Cina? Quelli che si incontrano sui litorali sono tutti turisti. È
incredibile!
Sembra che cessino di esistere materialmente, una volta usciti dai ristoranti.
Ma forse c’è una spiegazione: lavorano diciotto ore al giorno e poi vanno a letto, e così per tutta la
vita…e poi, mica tutti i ristoranti cinesi saranno in attivo, è normale che per qualcuno le cose non
abbiano girato per il verso giusto…succede anche agli occidentali! Qualcuno sarà pur stato costretto
ad invecchiare qui.
Giuro che tra i pochi che ho visto in giro non c’era nemmeno un anziano. Quasi tutte giovani coppie
con un bambino o gruppetti di uomini…cosa fanno? Li mangiano i vecchi? Oppure ad un certo
punto si reincarnano in un corpo più giovane…
Quanti sono cittadini italiani? Non ne ho mai visti ai seggi elettorali.
Sono fantasmi, silenziosi ed iperattivi proprio come le formiche, tanti come le formiche, con la testa
grossa come le formiche. Chissà se nascondono mascelle a tenaglia dietro quei sorrisi
appiccicosamente accondiscendenti. Chissà se non li useranno per divorarci…”
La strada continua a scorrere sotto i piedi di Domenico.
Si accende un’altra sigaretta.
-“E se invece i ristoranti non fossero altro che punti di ritrovo, filiali dell’Impero dove si addestrano
gli animi dell’esercito che dovrà conquistare l’Occidente…
Punti di soggiorno e di ristoro per attivisti in fuga dopo azioni destabilizzanti portate a termine in
altri paesi…
Sedi rionali del Partito…
Nascondigli di armi e informazioni…
Uffici di reclutamento…
Magari in ogni retro bottega si nasconde il posto in cui si riuniscono per concordare le nuove
strategie e per adorare le loro divinità.
Magari è proprio per questo che non si vedono nei luoghi pubblici…hanno altro da fare, e vivono
nella perfetta legalità e nel perfetto anonimato per non avere problemi con le forze dell’ordine
locali. Come quando dei rapinatori fuggiti in macchina dal luogo della rapina e confusi nel traffico,
evitano di passare con il rosso e di superare i limiti di velocità.
Sono come le dannate sette segrete!
Come i batteri in incubazione in un fisico sempre più debole…aspettano il momento opportuno per
saltare fuori ormai talmente forti e convinti da essere invincibili.
Per il momento vivono in mezzo a noi, mescolati, per studiarci e per mettere a fuoco con precisione
i punti in cui colpire, i modi in cui colpire, facendo la parte di quelli che lavorano onestamente e che
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si danno semplicemente una mano tra connazionali, esattamente come facevano i nostri emigrati
decenni fa.
Esistono molte Little Italy come molte China Town, molti ristoranti italiani e molti cinesi in ogni
parte del globo. L’unica differenza è che la presenza degli Italiani è evidente, chiassosa, conosciuta
e solare. Perfino le congreghe mafiose lo sono…tutti sanno e tutti vedono. Ma tutto finisce lì,
nell’esagerata protezione della famiglia come interesse superiore, nel culto dello scambio di favori,
nella patologica diffidenza nei confronti di uno Stato saccheggiatore ed assente da secoli. Poi la
società moderna ha iniettato in questi concetti la violenza, il business, la ricchezza, lo scadimento
dei codici d’onore rigidi e con radicate origini morali in favore di potere puro e semplice. Il grande
compromesso con la classe politica.
Quella cinese non è una comunità, non è un clan, è una semplice organizzazione, aggettivo che è
stato ultimamente usato per etichettare anche Cosa Nostra: crimine organizzato. Un qualcosa con
uno scopo ragionato che scaturisce solo dalla fredda determinazione e non più dai sentimenti. Ed
ecco che si sfocia nel fanatismo, quello coatto, quello folle, quello che esplode in una sola
devastante deflagrazione.
Io me li immagino: ometti insignificanti umilmente prostrati ai piedi dei superiori, servilismi e
reverenze pompose. Tutti hanno due volti, quello del sottomesso e quello del dominante, in una
scala che si perde all’orizzonte con intrecci intercontinentali, posti di lavoro che improvvisamente si
liberano e velocemente vengono rioccupati da altri gialli, tanto nessuno se ne accorge.
Una mattina ti svegli e scopri che l’appartamento all’ultimo piano che credevi sfitto è invece abitato
da Loro, da quelli che non avevi mai visto né sentito far alcun rumore, oppure la tua vicina
scompare ed il giorno dopo te li trovi lì con le valigie da disfare…e forse è successo tutto perché
quella casa in quella posizione a Loro serviva…e tu non ne sai nulla…”
Una certa sensazione di disagio gli si aggrappa ad una gamba e si fa trascinare.
Si guarda attorno trovandosi a tratti un po’ ridicolo a pensare certe cose.
- “Ridicolo un cazzo!
Non ci avevo mai pensato, nessuno forse ci ha mai pensato, o forse non gli ha dato importanza.
Se è venuto in mente a me, non capisco perché sarebbe da escludere che possa essere venuto in
mente anche ad un Cinese…in fondo lui avrebbe più motivi di me per voler schiacciare gli
occidentali, e visto che Loro sono molti più di noi, la teoria delle probabilità assicura un buon
numero di cervelli bacati che potrebbero pensare di organizzare un’operazione simile. Anche se
potrebbe essere un progetto tramandato da dinastie e quindi ormai trasmesso da secoli negli
animi delle nuove generazioni come lo scopo ultimo e fondamentale.
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E poi vengono qui e ti sorridono e sono gentili, e intanto pensano a quando ti vedranno in catene
in fila per essere giudicato utile come servitore o come concime per le risaie.
E Loro abiteranno in splendide regge circondate da giardini meravigliosi, vivranno nel lusso
della loro cultura millenaria fatta di onore, di fede, di coraggio e di saggezza…e di tutte le altre
cose che sporcano le mani, che non saranno più mani gialle.
Si prenderanno tutte le donne e le useranno come fanno con le loro, senza rispetto, fino al punto
in cui dopo qualche secolo di incroci le altre razze si estingueranno.
Ma forse era già tutto scritto nei codici dell’evoluzione della nostra specie.
Ricordo che a scuola ci avevano spiegato le teorie dell’evoluzione con un esperimento fatto da
un tizio, un certo Mendel se non sbaglio, che aveva incrociato delle piante di piselli di cui
alcune avevano la caratteristica di dare frutti verdi e lisci, altre di un altro colore e rugosi.
Osservando i risultati degli incroci nelle generazioni successive, riuscì ad evidenziare che
determinate caratteristiche, che chiamò caratteri, risultavano recessive, altre dominanti. Accertò,
ad esempio, che i frutti tendevano ad essere quasi tutti rugosi. Ormai è arciprovato che questa è
una legge fissa: se un soggetto bianco e uno di colore hanno un bambino, indipendentemente da
quale dei due genitori sia di colore, il bambino avrà la pelle scura.
Tutti i neri africani presentano caratteristiche equivalenti: bocca grande, naso schiacciato con
narici larghe, fronte robusta e forma del cranio leggermente diversa dalla nostra.
Questi sono tutti caratteri altamente trasmissibili a tutte le razze…ma non ai Cinesi!
Se un nero ed un Cinese hanno un bambino, nascerà anche con la pelle scura, ma i tratti saranno
spiccatamente orientali!
Cazzo! Questa è una catastrofe!
Mongoli, Giapponesi, Tibetani, Nepalesi, Coreani, Siberiani, Cinesi…soprattutto i Cinesi…si
somigliano tutti…sono tutti della stessa razza e le poche differenze sono dovute alla diversità di
habitat! Ed ogni volta che uno di loro genera figli mescolandosi con un’altra razza…è una
contaminazione lenta ma inarrestabile!
Oh cazzo!
Predominanza genetica…ecco cosa!
È fottutamente incredibile…diventeremo tutti cinesi prima o poi, e non possiamo farci niente!
È come un cancro che infetta pian piano una cellula alla volta, ha tempo, sa di non poter essere
asportato!
Diventeremo Cinesi diventando Cinesi…”
Domenico si trova particolarmente perspicace.
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Inizia ad agitarsi…tutta quella fluida logicità nelle considerazioni e nelle conclusioni che
spiegano molte cose, non gli sembra solo un gioco di fantasia.
Affretta il passo infilandosi le mani nelle tasche e tenendo lo sguardo in avanti.
- “Adesso inizio a capire.
Stanno sempre tra di loro perché che senso avrebbe integrarsi in una società in via d’estinzione?
Terranno in vita qualche esemplare di qualche specie minore per farli accoppiare, qualche
esemplare non incrociato, di pura razza bastarda, giusto il necessario a garantirsi le scorte di
servitori.
Altro che armi ed eserciti!
Deve essere così!
Non può che essere così!
Come ho fatto a non capirlo prima?
Stanno aspettando che la Storia faccia il suo corso, stanno aspettando di rimanere gli unici, i
prescelti, e intanto iniziano a colonizzare i nuovi territori per sfruttarne meglio le risorse quando
tutto sarà loro.
Maledetti gialli!
Hanno già la partita vinta e lo sanno!
Sono tutti d’accordo su cosa devono fare, ognuno di loro conosce perfettamente il proprio posto,
il proprio ruolo e lo scopo finale…soprattutto quello…sanno che forse non riusciranno a vedere
quel giorno, ma godono della certezza che arriverà!
E noi?
Allora ci stiamo trascinando come vermi in una latrina, andiamo avanti perché non possiamo
immaginare quello che ci aspetta, quello che succederà ai figli dei figli dei nostri figli…”
Una piccola folata d’aria gli scompiglia i capelli e gliene adagia un fine ciuffo sulle ciglia, una
mano nervosamente li rimette a posto con un gesto vecchio quanto lui stesso, ripetuto decine di
volte al giorno come quello di togliere la sigaretta dal pacchetto –come sta facendo ora- e
riuscire ad accenderla all’aperto entro il secondo tentativo, ma tanto che importanza può avere
ogni stupida cosa arrivati a questo punto della vita che non si accontento neanche più di
dedicarti i peggiori problemi che le vengono a portata di mano ma ti riserva anche la sorpresa
finale di farti sapere che prima o poi tutti diventeremo fottuti Cinesi con le loro fottute regole e
le loro vomitevoli tradizioni buone solo per un popolo di braccianti cresciuti con i piedi nel
fango.
Un lungo tiro gli smorza le palpitazioni.
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- “Devo stare tranquillo…ci deve essere una via d’uscita…non può essere già tutto deciso,
non possiamo essere destinati a soccombere geneticamente, non possiamo umiliare un
orgoglio di secoli di cultura illuminata!
Cazzo, non faremo mica la stessa fine dei dinosauri? Da dominatori ad estinti, da colonne
portanti al ruolo di scomparsi senza i quali il sistema procede ugualmente…e poi tutto per
lasciare spazio a dei Cinesi?
Buon Dio! Con tutte le razze che ci sono…
A proposito…dimmi Dio, hai gli occhi a mandorla?! Sono davvero loro i tuoi prediletti? Cosa
hanno fatto per meritarlo?
Tu sei il Dio unico, e loro nemmeno ti venerano…allora perché?
Siamo noi il tuo popolo, quello per cui hai diviso le acque, che erano un pericolo insignificante
confronto a questo, ti ricordi? Quello a cui hai dettato le tue leggi, quello che per te è stato
perseguitato, quello che si è immolato nel tuo nome, quello che porta la tua parola, quello che
sta scontando le conseguenze del peccato originale…vuoi abbandonarlo adesso?
Forse…forse questa è la punizione per aver crocifisso tuo figlio?
Ma tu sei misericordia infinita…! Non puoi averci programmato una fine simile!”
Del Cristianesimo Domenico non accetta il ruolo della Chiesa, il lusso dello Stato Vaticano, la
figura del Papa e dei Vescovi e le loro sfarzose cerimonie.
Sua madre diceva sempre che ogni posto e ogni momento sono buoni per pregare e che i preti
non servono a niente, non sono meglio di un altro cristiano che fa del bene e cerca di seguire le
leggi di Dio.
Anche lui si è sempre trovato d’accordo e ha conservato la sua fede nel più profondo del suo
animo, lontana dai calendari religiosi e dalle confessioni di massa. Molto lontano dalle chiese e
dai preti, “..quelli che mangiano a sbafo…” era come la sua povera mamma li chiamava quasi
con disprezzo, eppure in chiesa ci andava nelle occasioni più importanti e aveva un buon
rapporto con il parroco.
Forse se fosse ancora viva ora avrebbe una buona parola o un buon consiglio da dargli.
Si sente un po’ solo.
Bruno.
C’è.
Dio.
C’è.
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Ancora poche centinaia di metri e la passeggiata sarà finita. In lontananza vede alcuni colleghi
che entrano nel cancello piccolo e che percorrono il vialetto per tornare al loro posto, ognuno
alla propria scrivania, ignari di tutto e con una visione del futuro completamente distorta.
Nulla di quello che stano progettando per le loro discendenze si realizzerà, ma non lo sanno e
continuano a sacrificarsi per costruire…costruire una casa che due giorni dopo essere stata finita
crollerà sgretolata dal terremoto…la beffa finale.
Una rapida occhiata alla sigaretta accerta che non c’è bisogno di rallentare il passo per poterla
fumare tutta prima di entrare nell’atrio. Si sente svogliato, demotivato, che stimolo può avere
per tornare al lavoro? A che scopo affannarsi in quel modo? Perché dovrebbe continuare questa
messinscena? Ma forse è quello che vogliono Loro: se non ti accorgi di nulla bene, se riesci a
capire più del dovuto ti trovi tutte le strade sbarrate.
- “Cosa posso fare? Non posso andare in giro per gli uffici a dire a tutti di smettere di lavorare
e di pensare a un modo per difenderci da questa minaccia…penserebbero che sono
impazzito!
E se ne parlassi alla cena con gli altri? Mi conoscono da sempre e sanno che non potrei
inventare una cazzata del genere senza motivo. Poi potrebbero aiutarmi a spiegare a tutti… No!
Forse è meglio se vengono con me dal sindaco o da qualche altra autorità per confermare quello
che dico.
O forse è meglio parlare con qualche giornalista, qualcuno che lavora in un piccolo giornale e
che è a caccia dello scoop importante, ci vorrebbe uno sveglio e pronto a credere…uno aperto e
curioso!
Magari sarebbe meglio provare prima con qualche lettera anonima ai giornali per vedere che
effetto fa! Se avessi delle prove più sicure…delle foto di qualche riunione segrete, delle
registrazioni…anche solo qualcosa visto di persona.
Forse potrei provare a procurami qualche informazione in più!
Forse potrei telefonare alla Polizia e dire che a volte –di notte- vedo persone andare e venire da
qualche ristorante cinese…forse se facessero qualche controllo…ma che cazzo sto dicendo!?
Non è mica un reato riunirsi in un locale tra connazionali!
Ok!
Devo sedermi in ufficio e riflettere con calma.”
Camminando per l’edificio gli sembra di essere un medico responsabile del reparto dei malati
terminali senza speranza, spacciati ormai da chissà quanto tempo, forse nati solo per morire…
uno di quelli che oltre ad essere dottore deve anche essere attore e comportarsi come se tutta la
situazione non fosse poi così drammatica.
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Bisogna trattare i pazienti come se ognuno di loro avesse ancora la possibilità di uscire di lì e di
ricominciare a vivere come prima… l’unica differenza è che qui non ci sono i familiari a cui
dire come stanno veramente le cose e così l’unico che si fa carico di tutte queste tragedie è lui,
in triste segretezza.
Un giorno, al posto di quello stabile, potrebbe esserci una pagoda con il tetto in argento ed uno
splendido giardino con gli animali.
Oppure un ristorante!
- “Forse potrei fare delle locandine e poi potrei andare ad attaccarle di notte su tutti i muri
della città…
No!
Non si fermerebbe nessuno a leggerle, la gente non ha tempo per ricevere questo tipo di
messaggi, ci vuole qualcosa di più diretto.
Cinesi bastardi!
Hanno pensato a tutto!
Ci stanno isolando, quelli che sanno sono isolati, hanno capito che devono giocare sul fatto che
gli ottusi occidentali si sentono al sicuro nella loro idea di potere e democrazia, e che il solo
pensiero di poter essere dominati li fa sorridere, non sentono il pericolo abituati come sono ad
essere colonizzatori.
Chissà come godono loro vedendoci derisi, umiliati, fatti passare per paranoici in preda a manie
di persecuzione, agitati e con i convulsi nervosi di chi dice la verità e non viene minimamente
creduto. E loro si comportano in modo da favorire la nostra emarginazione, sorridendo e
facendo inchini, parlando con quelle vocine soavi e innocenti –non ho mai sentito un Cinese con
la voce grossa!- cosicché tutti peschino nella propria arroganza la convinzione che delle creature
così piccole e fragili non hanno nemmeno la forza di pensare di sottometterci, e tutto finisce in
una risata generale…isterica di quelli che sanno, grassa di quelli che non credono perché non
vedono, e soddisfatta di tutti Loro.”
Gli pare che l’aria odori di fritto.
Decine di migliaia di consegne all’anno in Cina, e chi può sapere ormai cosa contenevano quei
pacchi…informazioni, rapporti, resoconti, suggerimenti, elenchi dei nuovi nati in terra straniera,
foto e registrazioni, segreti industriali e chimici…Domenico sente che in tutta questa faccenda
esiste un evidente filo conduttore, una trama. La porta dell’ufficio.
Dietro quella porta lo aspetta la sua cella, il luogo in cui è costretto –a questo punto- a dare il
suo contributo alla produzione della ricchezza che deve mantenere in vita questo sistema fino al
giorno del passaggio del testimone.
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Deve pur continuare a mangiare, a pagare l’affitto, le sigarette…e così è per tutti quelli che
hanno visto la luce.
La luce dell’inferno.
Il falò dell’Occidente in fiamme.
La maniglia è sempre stata difettosa e per farla ruotare bisogna tenerla premuta verso l’alto in
modo che non si incastri.quel semplice gesto lo rituffa nel suo mondo, quello dove si sente al
sicuro, quello dove potrebbe muoversi con assoluta precisione se un giorno diventasse
improvvisamente cieco, quello che parla male di lui, ma almeno tiene presente che esiste.
Entra ed apre la finestra,da anni chiaro segno dell’imminente accensione dell’ennesima
sigaretta, odora l’aria ripensando malinconicamente a quando viveva senza sentire il carico della
vita sulle spalle, a quando –proprio in questo periodo- iniziava a prendere accordi con gli altri
ragazzini per formare i gruppetti che avrebbero aiutato i vicini a vendemmiare.
Non tutti avevano le vigne.
La sua famiglia, ad esempio.
Forse era proprio questo il motivo per cui si sentiva così eccitato per quell’avvenimento.
Sarebbe salito sul vecchio carretto trainato dal trattore, vestito con una maglietta e i calzoncini
corti, il cappello e i sandali senza calzini, pronto per trascorrere molte ore di allegra
spensieratezza, e la sera ci si riuniva tutti per la grande mangiata e i bambini continuavano i loro
giochi in libertà mentre gli adulti preparavano le tavole con le candide tovaglie di stoffa che
ancora profumavano di bucato.
Ora, se tutto andrà bene, la generazioni future saliranno a forza su carri bestiame per essere
dislocate a mondare il prezioso alimento di cui i padroni sono ghiotti.
Come cambiano in fretta le cose.
Il fortissimo contrasto tra ciò che era e ciò che sarà gli fa lentamente perdere il controllo del
sistema nervoso costringendolo a pensare in fretta senza avere il tempo di valutare le risposte al
problema che gli vengono in mente. Si accende la sigaretta.
Nemmeno questo faceva durante l’infanzia.
Tutto per colpa di quella dannata carta geografica a cui categoricamente non vuole più prestare
attenzione per la paura di vederla in qualche modo sghignazzante, consapevole che il segreto
che ha rivelato ha smontato tutti i riferimenti di uno che di gran lunga avrebbe preferito non
sapere. Ma lei ha voluto metterlo sulla pista giusta…e questo è il risultato. Che bisogno c’era?
Domenico ha lavorato per anni senza e non ricorda gli sia mai successo di sbagliarsi. Allora che
bisogno c’era?
Era già scritto che doveva andare così? Alza gli occhi al cielo.
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- “Perché proprio a me?
Che bisogno c’era? Non ti pare che ne abbia già passate abbastanza?
Almeno dimmi chi sono gli altri che hanno già saputo, lasciami una possibilità!
Non mi puoi abbandonare così, da solo non ce la posso fare!
Ma!!…Forse Loro…”- una specie di rivelazione regala uno spiraglio nella confusione che ha in
tesata- “…Forse Tu…forse è questo il segno…maledetti figli di puttana!
Ecco cosa riescono a fare! È incredibile!
Gran bastardi…come faccio a farmi fregare così da queste cazzate! Stanno cercando di farmi
sentire sempre più solo ed impotente…se riescono a fare in modo che io mi convinca che anche
Tu mi hai voltato le spalle e che stai da sempre dalla loro parte…io sono fottuto!
Maledetti…chissà quanti ne hanno fatti impazzire così, chissà in quale clinica stanno.
Ecco! Non devo espormi! Questo devo fare! La cosa più importante è che resti libero di agire e
soprattutto di cercare altri che sono nella mia stessa situazione.
E io che volevo dire tutto ad un giornalista qualsiasi…mi avrebbero rinchiuso dopo due giorni!
E i pezzi di merda avrebbero avuto di nuovo partita vinta!
Adesso sono io in vantaggio: io che so e Loro che non sanno che io so…vedremo chi riderà alla
fine!”
Percepisce che le possibilità di trovare una soluzione sono aumentate improvvisamente. Finché
si comporterà come ha sempre fatto, nessuno potrà capire che ha scoperto il gioco, così avrà
tutto il tempo che gli serve per riflettere.
Calma.
C’è bisogno di calma.
Non serve l’istinto.
Bisogna ragionare.
Ma non c’è tempo. Il telefono squilla e Domenico deve pensare ad altro, l’elastico torna ad
accorciarsi trascinandolo fatalmente verso l’obbligo. Una mano incerta alza la cornetta per
scoprire un’altra sterile conversazione mentre le formiche gialle dilagano.
Se tutto dovesse succedere in pochi decenni, anche lui sarebbe coinvolto nei drammatici
cambiamenti: non potrebbe più comprarsi le brioches al mattino, non potrebbe aver con sé un
cane, non potrebbe gradire la compagnia delle sigarette, non potrebbe più fare assolutamente
nulla…la sola ipotesi gli gela le tempie, e questo solo pensando di eliminare i “vizi”, senza
contare tutto il resto.
- “Non voglio!” –dice una voce.
E si dimena incazzata.
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E Domenico la osserva assente.
E si dimena incazzata.
E Domenico la osserva assente.
E si dimena incazzata.
E Domenico la osserva.
E si dimena.
E Domenico…
Un neo nasce sulla schiena per non far vedere che si ingrandisce.
Con questa logica si evolvono alcuni fenomeni di questo mondo.
Altre chiamate seguono.
Milioni di chilometri di cavi che portano la voce a spasso per il globo e dove non si possono
mettere i cavi il problema si risolve con il satellite che cattura il segnale e lo trasferisce ad un
altro satellite che lo rimanda ad un ripetitore a terra che lo invia al numero di utenza digitato
oppure c’è la possibilità di parlarsi via internet schiacciando dei tasti oppure via fax per non
parlare del telefonino che funziona perfino in aereo e anche dall’inferno se hai l’abbonamento
specifico con scheda intercambiabile prepagata e ricaricabile anche da casa. E lui non può dire
tutto quello che sa a chi sta nell’ufficio accanto? Bella cagata la comunicazione globale!
Sono anni che vive, ma una cosa così non gli era mai successa prima.
- “…e poi la odio, la cucina cinese! Soprattutto gli involtini primavera!
E poi se non voglio, se proprio non voglio, se assolutamente non voglio essere il servitore di un
muso giallo, non c’è niente al mondo che possa farmelo fare.
Cazzo, potrò almeno essere padrone della mia vita?
Piuttosto mi imbottisco di tritolo, mi tuffo sulla vetrina di qualche ristorante e faccio una strage!
Cosa pensano? Di avere a che fare con dei cacasotto? Con delle meduse impaurite senza
tentacoli?
Sono loro le formiche, e io ho il quarantasette di piede…”
Trova di nuovo rifugio in una sigaretta che batte sul tavolo diverse volte prima di lisciarla con
due dita e appoggiarla tra le labbra, che nei confronti di una forma cilindrica di quelle
dimensioni sono diventate prensili come le mani.
Fiducia nella sicurezza. Di questo sente la mancanza adesso.
Non sa nemmeno spiegarsi di quale genere di sicurezza, come quando non si riesce a capire che
ingrediente manchi in una pietanza, ma la sua assenza è comunque evidente.
Corposi tiri ravvicinati hanno formato un lungo tizzone conico.
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Con la testa completamente da un’altra parte Domenico continua il suo tondo lavoro, ancora
scosso e senza la possibilità di reagire a questa condizione.
Non vede l’ora di essere a casa.
Non vede l’ora di essere solo.
Non vede l’ora di mettere le ciabatte.
Non vede l’ora di rivedere Bruno.
Non vede l’ora che tutto finisca, in qualsiasi modo.
La scrivania in trucilolare laminato in finta noce, la maledetta sedia, il caro vecchio posacenere,
l’armadietto con la serratura sempre inceppata, l’attaccapanni, la maniglia della porta col trucco,
il cestino dei rifiuti in plastica, la grande finestra, il telefono con mille tasti diversi, le veneziane
che scendono una volta su tre, otto anni di vita.
No carta geografica.
Schemi di gioco regolari senza imprevisti: sicurezza.
Ripetitivi: fiducia.
La grande Mercedes del titolare percorre silenziosamente il vialetto, lucida come fosse appena
uscita dal salone del concessionario. Anche questa è un segnale del cambio di stagione…durante
l’estate di solito usa una spider inglese d’epoca, di quelle con la guida a destra, rossa fiammante
e con la capotta che si apre.
Con impertinenza il Casio ufficializza l’ingresso in una nuova ora.
Domande inutili, risposte inutili, richieste, piaceri, deleghe, informazioni, dettagli, programmi,
obiettivi, cortesia, strategie, servizio, chiarezza, qualche risata, rapporti umani e professionali,
stanchezza, affetti, impegno, fare la spesa, divertimento, preoccupazioni, salute, ricordi,
previsioni, vacanze. Domenico sente che tutto sta sotto la soglia di minima priorità, quella
nuova…e il dover a tutti i costi continuare il suo normale vivere lo mette in una situazione di
bilico che ancora non riesce a stabilizzare, il risultato è l’angoscia di non riuscire a reggere e
finire per tradirsi.
- “Devo assolutamente parlare con qualcuno!
Ma con chi? L’unica possibilità che mi resta è incontrare altri che abbiano capito tutto…da
solo…sarebbe impossibile spiegare…troppo complicato, troppo ipotetico, troppo lungo.
Ma cazzo! Se aspetto che un giorno alla fermata dell’autobus qualcuno mi domandi cosa penso
di fare per fermare i dannati Cinesi prima che ci facciano sparire…stiamo freschi!
E non posso certo chiederlo io a qualcuno, anche perché chi sa e non è morto o rinchiuso in
qualche clinica completamente impazzito, si comporterà esattamente come me: indifferenza e
completo controllo di tutte le mosse.
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Ma allora come faccio a riconoscere glia altri?
Oh merda! Non ci incontreremo mai perché non potremo mai riconoscerci! E non ci aiuteremo
mai perché staremo pensando solo a come fare per incontrarci…e Loro ci coglieranno uno ad
uno quando saremo maturi.
Un segnale, datemi un segnale, un’indicazione, non lasciatemi solo…ho paura anche per i vostri
figli!”
Le porte inceppate di un ascensore si chiudono e si aprono istericamente e una figura tenta di
farsi sempre più fina per passare nei brevi intervalli.
-“ …forse qualche americano fanatico anticomunista potrebbe starmi a sentire senza ridere o
senza pensare che sono completamente fuso…potrei prendere le redini di qualche gruppetto di
teste calde ed usarli come falange armata, per loro contro i comunisti, per me contro i gialli…
tanto gli invasati sono stupidi e facilmente manovrabili…forse davvero potrei farcela!
Basterebbero trecento, quattrocento uomini di quelli giusti ed un po’ di organizzazione…a
gruppi di tre in azioni simultanee e mirate, tutti lavori puliti…quattrocento incensurati armati!”
Si concentra e si lascia andare per vedere che effetto gli fa l’idea libera di affermarsi e
contraddirsi senza influenze esterne.
Squilli.
Lo sguardo lascia la bava come una lumaca scorrendo sugli oggetti, fino a che si fissa sul
telefono diventando inspiegabilmente squadrato ed acuminato nella messa a fuoco, telecamere
montate sulle cornee registrano le immagini e le tengono in memoria fino a che la mente non ne
prende coscienza, poi torna la diretta.
- “Pronto?
Si, buongiorno.
No! Attenda che le passo l’amministrazione, chieda della signorina Marta.
Salve.”
Il chirurgo che ha aperto la cassa toracica ha ricucito perfettamente le due metà del petto, ma si
è scordato dentro un gommone pneumatico sgonfio, grande come un pugno…è all’ultimo nodo,
vicino allo sterno, ma non si accorge che il filo che sta usando per cucire è quello che, se tirato,
fa gonfiare il…troppo tardi! Domenico vorrebbe urlare così forte da farsi scoppiare i polmoni.
La folla chiede a gran voce solitudine. L’oratore non è legittimato a concederla. Si intravedono
gli estremi per una nuova rottura. Cosa può fare quell’ometto che ora è come tutti gli altri? Cose
troppo complicate anche solo da pensare…e poi la costruzione geosemantica delle isole infantili
che retroagiscono nel fonodramma atavico di un’epoca dissoluta e vagabonda in terre di
giornalai con il berretto rosa e farfalle con tredici ali per occhio porta a credere alla strage delle
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macchine da scrivere per mano di zebre che avevano ricevuto ordini e compensi da una
manciata di sabbia protesa alla fotosintesi per la legalizzazione dell’autoproduzione e del
consumo di droghe leggere vanificando innumerevoli tentativi di mietere consensi dal mondo
accademico da parte di regioni meccanicisticamente influenzate dal pensiero materialista e
antiaderente con il fondo di cinque millimetri che mantiene i cibi ascorbici in riduzione
potassica sublimata con rilascio di feti multicervicei di piante di alloro che molto tempo addietro
sono state paleoconvertite in eczemi ad assoluta fedeltà. Se ne è andato anche il pomeriggio,
forse il peggiore che Domenico ricordi.
Il contachilometri segna ventidue, forse ventiquattro, ma a quest’ora è già anche troppo se non
si sta fermi completamente. Davanti ai suoi occhi solo un grosso cuscino da mettere sulla testa
per avere un po’ di pace: la passeggiata con Bruno.
- “Starà iniziando a stiracchiarsi –sa che è arrivata l’ora- e poi si distenderà dietro la porta per
vedermi subito appena entro.
Quel blocco di realtà chiuso tra sei metri quadrati di lamiera verniciata di bianco, si muove a
scatti in sincrono con moli altri uguali ma di colore diverso, e tutti assieme navigano verso casa
in un torrente di asfalto liquido…facendo attenzione a non urtarsi, ovviamente.
Chi può sapere in quanti di essi è rinchiuso un altro di quelli che sanno?
Questo passa ripetitivamente nella testa di Domenico, ripetitivamente quasi quanto gli capita di
trovarsi in bocca una sigaretta già accesa, ripetitivamente come l’aereo con lo striscione
pubblicitario che da piccolo vedeva in spiaggia, dall’ombrellone numero sedici, quello che i
suoi affittavano ogni anno a luglio assieme alla cabina che portava lo stesso numero.
Oggi il traffico lo soffoca, e sapere che purtroppo non ha nessun modo per evitarlo, gli fa sudare
le mani sul volante. Non gradisce subire delle imposizioni, non più. Il tempo delle difese è
passato, ora è tempo di strategia e controffensiva, ma valutando bene la situazione.
Il bisogno di divincolarsi e di arrivare a casa inizia a farsi sempre più pressante, ma le soluzioni
al problema latitano.
- “Adesso scendo e parcheggio questa dannata macchina da qualche parte e poi me la faccio a
piedi, almeno ci sarà un motivo per cui ci avrò messo tre quarti d’ora.
E che cazzo! È una situazione insopportabile, devo assolutamente comprarmi una bici o meglio
un motorino usato. Magari risparmiando un po’ mi compro un cinese ed uno di quei carretti che
si tirano correndo a piedi!
Si, si, ridi pure coglione…forse adesso sei ancora in tempo.”
L’amante ha appena ucciso lei e il marito –non poteva più sopportare il pensiero di saperla a
letto con lui- ed ora che è tornato a casa si è seduto sul divano ad aspettare che lo vengano a
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prendere per portarlo in prigione per sempre. Così Domenico inizia a vedere il suo futuro,
circondato dalla stessa atmosfera al paté d’ansia.
Disordinatamente corregge le traiettorie mentre si distrae per accendere una sigaretta. La meta
sembra ancora lontana.
Faticosamente ogni giorno in fila per qualcosa di diverso e faticosamente ognuno si convince
che è normale, che è inevitabile, che è giustificato addirittura. In fila anche per morire, in ordine
di scomparsa.
Si sente in corsia preferenziale, assieme a pochi altri.
Le chiavi di casa sono già appoggiate sul sedile a fianco, quasi potessero funzionare come le
sirene dell’ambulanza che le aprono varchi inaspettati nel groviglio di macchine e la fanno
scivolare veloce come fosse su delle rotaie. Di solito anche lei trasporta carichi di sofferenza e
di angosciante incertezza, anche lei lotta contro il tempo per arrivare prima che succeda
l’irreparabile, anche lei è attrezzata solo con l’indispensabile.
Con un movimento rapido e sicuro apre il posacenere a cassetto, anche questo sempre pulito.
Dodici metri più avanti.
Gli sembra di sentire gli scricchiolii dei pneumatici schiacciati dal peso dell’auto, migliaia di
piccolissime grida di dolore, milioni di formiche terrorizzate dalla potenza del Dio che rotola,
decine di milioni di omicidi, Cinesi che scappano in tutte le direzioni scoppiati come bollicine.
Il rivolo di fumo sale dritto dalla mano che regge il volante e Domenico ne sente il tepore tra le
dita, e c’è sincerità in quella percezione, almeno in quella. Guarda le facce dentro le altre
macchine come se in qualche modo potesse accorgersi di un particolare utile a riconoscere
qualcuno degli altri, gliene basterebbe anche solo uno, anche solo per avere una parola di
incoraggiamento, per avere un fratello, un compagno, un amico, qualcuno, qualcuno, qualcuno,
qualcuno, qualcuno, qualcuno, qualcuno, qualcuno, qualcuno, qualcuno, qualcuno, qualcuno,
qualcuno, qualcuno, qualcuno, qualcuno, anche Bruno è qualcuno, qualcuno, qualcuno,
qualcuno, qualcuno, qualcuno, qualcuno, qualcuno, qualcuno.
La pazienza ha cambiato domicilio.
Più di qualche volta Domenico ha provato ad immaginarsi cittadino di una grande città –Roma
ad esempio- ,una di quelle dove il traffico ti scorre sui nervi e l’isteria è un fenomeno di
costume da tempo: sarebbe di sicuro impazzito dopo non più di due anni. È una cosa che ha
sempre pensato, ed ora è costretto a vedere che anche i piccoli centri iniziano ad avere gli stessi
problemi, in proporzione. Apre il finestrino e già sa che da quella piccola fessura entrerà solo
aria fetida e nociva, ma non sopporta più di sentire i rumori ovattati, e quello spiragli permette il
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riciclo della realtà all’interno dell’abitacolo. Sente necessaria l’appartenenza ad un qualsiasi
spazio-tempo abitato da simili.
- “Il latte, la frutta per la macedonia, minestrone surgelato, preparato per il soffritto, riso
soffiato per Bruno, carne macinata, sei bottiglie d’acqua, qualche pacco di pasta, passata di
pomodoro, basilico, dimenticato qualcosa?
Ah, lo zucchero!
Caffè ne abbiamo, sale anche.”
Il foglietto è appoggiato sul cruscotto e visto che ha tempo, preferisce fare subito la lista per non
dover rimanere troppo a lungo chiuso tra le mura di casa, sa già che non lo sopporterebbe. Come
non sopporta il traffico.
La cosa bella è che l’intasamento si verifica puntualmente solo sul grande crocevia prima
dell’ospedale, all’incrocio delle due arteria che attraversano la città, e non c’è modo di fare
un’altra strada, almeno non c’è per tutti quelli costretti a restare in coda, il semaforo che resta
verde giusto per far passare sei o sette macchine, poi si imbocca una strada deserta, si
incontrano un altro paio di auto e scatta la molla dell’ira.
Lo stress.
La gente accalcata e accaldata negli autobus che sembrano perennemente fermi, i conducenti
che leggono il giornale e i poveri diavoli che alla fermata aspettano venti minuti il mezzo che
sta a quindici metri da loro.
- “Dai muoviti, muoviti, muoviti, muoviti!
Siii! È fatta!
Meglio di un orgasmo!”
Guarda nel retrovisore quello dietro di lui che picchia le mani sul volante con lo sguardo fisso
all’odiata luce rossa.
- “Fossi il sindaco, obbligherei tutti ad usare i mezzi pubblici per muoversi in città!
Vuoi circolare con la tua macchina lo stesso? E io ti faccio pagare cinquanta o cento euro per
ogni giorni che la usi…poi vediamo a fine mese se la prendi ancora per andare dall’amico che
abita a mezzo chilometro di distanza! Maledetti politici! Più macchine si muovono e più benzina
si consuma, più bolli si pagana, più la Stato guadagna!”
Ora la strada è libera, e in pochi minuti sarà arrivato, ma ormai il tempo non conta nemmeno
più, conta solo la non coincidenza tra il bisogno e la sua soddisfazione.
Decide che nemmeno oggi parcheggerà in garage. Sta perdendo quell’abitudine ora che la
macchina mostra i segni di tutti i suoi anni. Gliela ha lasciata suo padre quando è morto. La
tensione è diminuita abbastanza e lentamente inizia a sentirsi al sicuro, in uno spazio più largo
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con aria migliore e di nuovo capace di riflettere in modo produttivo, distaccato. Ecco, è proprio
questo che tenta di fare: essere distaccato, lucido e freddo, determinato.
Appena aperto il portone della palazzina non può fare a meno di notare il solito odore che ormai
da anni delimita il territorio della signora Giordani, la vecchia impicciona che abita all’ 1/A da
tempo immemorabile, quella che sa sempre tutto di tutti, quella che incontra praticamente ogni
mattina sulle scale con lo sguardo indagatore, quella delle domande mirate a portare la
conversazione sugli argomenti che le interessano per farti dire in confidenza quello che non
avresti mai fatto seguire ad un normale buongiorno o buonasera.
Domenico non sopporta l’invadenza.
Il ticchettio dei passi fa scattare in piedi Bruno. La porta si apre.
- “Ciao vecchi mio!
Si, si, piano…ho capito che sei contento di vedermi…anch’io!
Dai che usciamo subito.”
Bruno è ancora fermo con le zampe davanti puntate su suo petto e scodinzola così velocemente
che il movimento si è esteso fino al bacino. Al primo passo di Domenico si gira e lo precede al
posto dove è appeso il collare. Bruno è un cane davvero intelligente, a volte sembra umano.
- “E’ stata una giornata infernale, sai?
Speriamo che fare quattro passi mi faccia bene. A te di sicuro, non è vero?
Hai ragione, sei stato tutto il giorno chiuso qui dentro.
Ma a me non va meglio. Mentre tu sei imprigionato qui, io sono nelle tue stesse condizioni, ma
dentro una stanzetta di dieci metri quadrati e costretto a lavorare…forse non vorresti fare
cambio!”
Di nuovo il Casio.
Sempre i soliti ritmi.
- “E per fortuna c’è –dico, il lavoro- e ci ha sempre fatto mangiare. Si, proprio una giornata
infernale. E poi quei maledettissimi Cinesi.
Ah, Bruno, se ti potessi spiegare, se tu potessi capire. Saremmo una bella squadra io e te!
Te lo immagini?
Bruno e Domenico disinfestazioni.
Specializzati in formiche gialle.
Potremmo avere un bel fuoristrada rosso con le sirene sopra!”
La mano si appoggia al collare e lì ha un attimo di pausa, quasi volesse lasciare libera la mente
di riflettere senza doversi preoccupare di coordinare altre operazioni, poi lo stringe e lo toglie
dall’appendiabiti.
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Un latrato unico ma nitido esprime approvazione.
Ricorda ancora il giorno che era andato a prenderlo al canile municipale, lui non c’era mai
andato prima e non aveva più avuto il coraggio di tornarci. Ne aveva potuto adottare solo uno
purtroppo, e il momento della scelta gli era sembrata l’ultima mossa in un cinico gioco di
casualità, di giustizia e ingiustizia.
Numero di giocatori: illimitato.
Tutti contro tutti.
Scopo del gioco: fare qualsiasi cosa pur di lasciare quell’inferno e trovare un padrone.
Lui aveva scelto quel cucciolo robusto che nei suoi affetti sarebbe diventato Bruno.
Pareva non gli importasse mettersi in mostra più degli altri, pareva avesse capito che troppe
coincidenze pesavano sulla scelta, pareva tentare la tecnica opposta per distinguersi, o forse
aveva solo perso le speranze. I volontari che prestavano servizio gli avevano detto che più di
qualche cane passava l’intera vita in uno di quei recinti, i cuccioli hanno più possibilità di essere
scelti…ma quelli ciechi, senza una gamba, vecchi o malati, chi li avrebbe presi?
Questo Domenico si chiedeva lasciando quel posto.
Il fatto di averne sottratto almeno uno a quella sorte gli pareva non essere abbastanza di fronte
all’impossibilità di fare di più. Si era sentito impotente.
Se non era stato in grado di fare qualcosa per quei cani, avrebbe potuto ora fare qualcosa per
l’Occidente intero?
L’improbabilità di poter dare una risposta affermativa rende ancora più grave l’urgenza di
trovare qualcuno con cui far gruppo. Ma il tempo non manca, quindi meglio usarlo per studiare
la situazione senza scoprirsi solo per essere stati frettolosi. Il consorzio civile non perdona
determinate uscite di carreggiata, e le pene sono sempre e solo afflittive, distruttive, tendenti
all’emarginazione e alla riduzione al silenzio…psicofarmaci.
Il mondo è popolato di pazzi, alcuni manifesti, la maggior parte travestiti. I primi finiscono
rinchiusi, i secondi in Parlamento o in un posto di lavoro. Com’è strano il modo, ma è così. Ci
vuole anche un po’ di furbizia per non fare quella fine, e lui crede di averla, deve solo usarla al
meglio sfruttando al massimo il piccolo vantaggio che il caso ha voluto accordargli: i musi gialli
non sanno di avere un nemico in più da cui guardarsi.
Aria, manca l’aria dentro quelle mura, uscire, bisogna uscire subito, ora, adesso,
immediatamente.
Bruno percepisce la fibrillazione e si affretta per precederlo sulla soglia.
Subito fuori dal cancello il legame tra quelle due figure si fa più evidente, più forte, di ferro
come la catena che le congiunge. Si attraversa la strada.
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Camminando si lasciano indietro i pensieri e le preoccupazioni che fanno sfondo a qualsiasi
altra azione quotidiana, svoltando prima a sinistra, poi a destra, e a destra ancora e fermandosi e
ripartendo si riesce a far perdere le proprie tracce, ci si può confondere, mimetizzare nel
garbuglio di intrecci caotici e senza logica che fanno pulsare una città. Si diventa clienti di amici
e amici di clienti, fruitori, degenti e pazienti, consumatori, utenti, atei o miracolati, risorse
umane, dipendenti, simpatizzanti o sostenitori, possessori a titolo gratuito, contraenti, passanti e
turisti, parte e controparte, una continua metamorfosi, un carnevale al minuto. Ma non oggi,
dannatamente non oggi. Forse mai più da oggi in poi, forse ieri è stato l’ultimo oggi di quella
specie in inconsapevole via d’estinzione, oggi Domenico sa perfettamente chi è, chi sono i
nemici, qual è il pericolo e cosa deve fare per fronteggiarlo.
Giornata atipica.
Ogni cosa lo distrae dal pensiero fisso del colore giallo, qualsiasi cosa è amica in momenti come
questo. Normalità e indifferenza, comunque. Nemmeno si guarda riflesso sulle vetrine, per non
riconoscersi ancora di più. Bruno cammina sotto muro fermandosi di tanto in tanto ad analizzare
qualche odore familiare e per lasciare il suo, gocciolante da qualche mattone o da qualche
pneumatico.
- “Se anche noi avessimo un modo alternativo per comunicare, sarebbe tutto più facile. Ci
vorrebbe qualcosa che gli altri esseri umani non possono decifrare, qualcosa tipo un codice,
forse qualcosa di organico, ma cosa?
Basterebbe pisciare sui muri come i cani.”
Istintivamente sposta lo sguardo sul suo fedele amico soffermandosi a lungo a osservare i
riflessi del pelo rossiccio che cambiano quando i muscoli delle spalle sono in movimento,
facendo ritmica attenzione alle zampe che una alla volta si alzano e ritoccano terra, cercando di
indovinare per quale particolare rumore le orecchie si drizzano…fino ad arrivare al collo,
possente e con un’attaccatura che evidenzia nervi e tendini sottopelle, come le radici di un
grosso albero, la mandibola quadrata e forte, lo sguardo fiero ma non arrogante che esce dritto
dagli occhi scuri che si allungano verso le tempie per effetto di quel contorno rosso ramato che
sembra essere stato disegnato con una matita cosmetica, una di quelle che usano le donne. Una
linea sottile e precisa, marcata ed evidente, in contrasto con lo sfondo più chiaro, mai notata ed
esaminata come ora.
Un brivido freddo gli percorre la schiena, vertebra dopo vertebra dall’alto verso il basso, poi
risale fino alla testa velocissimo come un giudizio a bruciapelo e gli coinvolge la faccia in una
vampata calda che cerca in ogni modo di controllare lanciando rapide occhiate alle gente attorno
per vedere se il suo comportamento ansioso e scomposto non attiri l’attenzione.
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- “Calmo Domenico!
Stai calmo!
Ma non è possibile. Bruno, hanno preso anche Bruno! Com’è potuto succedere?
Stanno tentando di tagliarci fuori!
È abbastanza semplice da capire Domenico.
Ma come hanno fatto?! No, no vi prego, Bruno no!
Zitto! Non capisci? Ormai è fatta! È anche lui dalla loro parte, volente o nolente!
Ma io non potevo immaginare…non potevo sapere…pensare!
Ormai le scuse non servono più a niente, e poi quegli occhi a mandorla…adesso non mi venire a
dire che non sono un segno evidente! Forza Domenico, più chiaro di così!
Ma prova a metterti nei miei panni. E poi è un cane!Un cane, capisci? Solo un cane, lo vedi? Un
dannato cane. Come può un cane diventare Cinese? Come può un cane avere un ruolo in tutta
questa storia?
Coglione! Il cane è un mezzo per arrivare a te, è questo che Loro vogliono, solo questo.
Ma come hanno fatto? Ti prego, dimmelo!
Forse sono solo più potenti di quello che credi.
Ma qui non è una questione di potere! Cazzo, parliamo di un cane che diventa Cinese! Cristo!
Sto affondando nella paranoia, ecco la spiegazione!
Stanno riuscendo a farti perdere il controllo della situazione, Domenico. Domenico?! Ascoltami,
ragiona, Loro giocano su questo, soprattutto su questo! Solo stamattina non potevi pensare –
forse nemmeno immaginare- che mentre tu vivevi una vita qualsiasi, alle tue spalle più di un
miliardo di gialli si stava preparando a saccheggiare il mondo come lo conosci, e così è stato
anche alle spalle di tuo padre, del padre di tuo padre, del nonno del padre di tuo padre. Ora i
fatti dicono che si sono presi anche Bruno, non è incredibile, è solo che non lo vuoi accettare!
Ma, ma allora cosa dovrei fare secondo te? Avanti! Dimmelo! Subito!
Devi mantenere la calma.
Tu sei completamente pazzo!
Io sono quello che tu vuoi, Domenico. Sono arrivati a Bruno, cosa gli impedisce di prendere
anche te? Non devi mollare proprio adesso che ci siamo trovati. Ora non sei più solo, Bruno non
è più Bruno! Bruno è morto! Quello che vedi è il Cinese che lo ha ucciso! Quello che l’ ha fatto
soffrire, che magari l’ ha torturato, o magari mangiato. Doveva prendere il suo posto, starti
vicino e godere vedendoti impazzire piano piano! Lo vedi? È lì di fianco a te! Sa perfettamente
che non gli farai del male, per questo ha preso ilo posto di Bruno: è al sicuro!
Ma come ha fatto a sapere che ho scoperto il loro gioco?
50
Loro non lo sanno! Siamo tutti sotto controllo, Loro sono ovunque. Sospettano di tutti. Ora
aspettano una tua reazione qualsiasi per intervenire. Se reagisci hai capito tutto, e sei fottuto. Se
non reagisci, non hai capito nulla, o sei più furbo di loro. Da che parte vuoi stare, Domenico?
Quello è un Cinese assassino!
Quei gran figli di puttana!”
Sente il corpo caricarsi di una forza sovraumana, quella forza che si nutre di odio profondo,
stringe il guinzaglio fino a che la mano non inizia a sudare, poi l’asciuga spacciando un gesto di
disprezzo per una carezza affettuosa.
- “Ormai ho imparato le regole, bastardi.
Sono fiero di te, Domenico. Serve tempo per trovare altri che sono più furbi di loro. Serve
tempo. Serve tempo. Finché stai calmo e riletti tu starai portando a spasso un Cinese al
guinzaglio, ci pensi? È quasi ridicolo.
Fino al momento giusto, normalità fino al momento giusto. Questo è quello che devo fare. Già,
deve ancora nascere il giallo che può fregarmi.”
Di nuovo una finta carezza.
La mano libera fruga nervosamente nella tasca alla ricerca della lista della spesa che è ormai
l’unico brandello di quotidianità rimasto intatto, l’ultima difesa di un microcosmo che sta
crollando a pezzi.
Il vuoto assoluto ruota intorno ad un essere vivente appartenente alle razza umana che secondo
le usanze tipiche di quella specie è stato chiamato Domenico. La soggettività della situazione gli
pesa come mille tonnellate di nulla.
Nessun pensiero razionale riesce più a fare presa, se non quello di tentare di essere razionale per
non cedere all’istinto che potrebbe fargli commettere degli errori irreparabile. È in gioco la sorte
dei popoli, oltre che la sua.
Bruno.
È difficile credere che non ci sia più lui dentro quel cane.
È difficile scoprire di non averne mai pianto la morte.
È difficile credere che dei bastardi lo abbiano assassinato con la stessa superficialità con cui si
schiaccia una zanzara.
È difficile aspettare il momento giusto per fargliela pagare, quando le mani già fremono per
l’odio.
È difficile vivere.
Lentamente la collera si sta annidando tra un respiro e l’altro sciogliendosi nelle vene per
arrivare fino agli angoli più nascosti, e Domenico la sente scorrere.
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Alla fine della via si vede l’insegna del supermercato. L’adesivo ben visibile appiccicato alle
porte automatiche riporta la sagoma nera di un cane, con sopra due strisce rosse che tagliano
l’immagine da un angolo a quello opposto incrociandosi. Fino a ieri l’aveva sempre odiato,
aveva sempre odiato legare Bruno alla ferraglia dove si parcheggiano le biciclette e lasciarlo
discriminatamente ad aspettare. Oggi le cose sono assolutamente cambiate: il Cinese resterà
fuori ad aspettare solo come un cane, mentre lui in completa tranquillità potrà rilassarsi e
scaricare la tensione senza preoccuparsi di essere costantemente controllato.
Fulminea e involontaria si presenta un’altra interpretazione di quell’adesivo.
Elimina il cane!
La porta si apre al passaggio di una signora.
Elimina il cane!
Elimina il cane!
Un uomo anziano esce.
Elimina il cane!
A ritmo forsennato quel messaggio si propone perentorio e definitivo.
Lentamente si piega per girare il guinzaglio attorno al solito tubo di ferro. Il cane capisce e si
siede scodinzolando.
- “Stai buono e aspettami. Faccio presto.”
La solita frase, tutto normale.
Due o tre carezze sulla testa, una sotto il mento.
Domenico si alza e appena gira le spalle attende i due latrati scanditi che Bruno usava sempre,
come per salutarlo.
Puntuali.
- “Figlio di puttana!”
Le mani si stringono a pugno dentro le tasche e a fatica riesce a trattenere le lacrime.
Altri quattro o cinque passi, la porta si apre con il solito rumore della fotocellula che scatta.
Elimina il cane!
La luce bianca e asettica dei neon gli aggredisce immediatamente gli occhi sommandosi
all’effetto irritante di otto ore passate davanti al monitor del terminale, ma riconoscerla è
comunque un conforto, una sicurezza, l’indirizzo di un rifugio. Le corsie, i prodotti allineati e
divisi per genere, le offerte della settimana, la fila alla cassa, altre persone…forse all’oscuro di
tutto o forse altre spie cinesi che tagliano salumi e formaggi, o che li comprano. Tutto
comunque appare familiare e accogliente: gli odori, i suoni, i gesti, le situazioni tipiche, tutto,
tutto di tutto appare familiare.
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Il carrello piano piano si riempie ma Domenico non se ne accorge, una mano invisibile lo fa per
lui, una mano che ormai ha i calli, sempre gli stessi da anni, sempre negli stessi punti, una mano
inconsapevole che consapevolmente si muove con estrema precisione e sicurezza all’interno di
una sfera immutabile, non influenzata dallo scorrere del tempo, una mano che addomestica
l’abituale quotidiano per farlo diventare regola fissa, addormentando la parte di lui che prima se
ne occupava attivamente.
L’abitudine.
L’abitudine che logora la fantasia e lo abbraccia in un tepore confortante e sincero, un amico
che lo sgrava di tante mini-preoccupazioni inutili che altrimenti gli affollerebbero i pensieri
come cavallette impazzite, o come formiche.
Ora solo un pensiero è chiaramente fermo nella sua mente: il Cinese che aspetta fuori. E allora il
giro si allarga, la scelta diventa terribilmente lenta, il passo si accorcia, tutto per fargli subire più
a lungo gli svantaggi della sua momentanea condizione di subordinato costretto ad adeguarsi
alla volontà di un essere superiore.
La mascella gli duole, è sempre così quando è nervoso, l’ ha ereditato da suo padre. Quante
volte aveva visto quei muscoli contrarsi aritmicamente sul suo viso quando si agitava.
Tra un po’ sarà il turno dei cervicali.
È la solita catena di conseguenze dello stress che conosce da anni, almeno da quando è morta
anche sua madre.
Microscopiche gocce di sudore gli imperlano la fronte facendola scintillare, altre più grandi le
sente scendere dalle ascelle e correre giù fin quasi alle mutande. Gli capitava anche a scuola
quando dalle labbra de professore usciva il suo cognome e lui sapeva benissimo di non essere
preparato, sapeva che avrebbe fatto una figura di merda rimanendo in silenzio a farsi umiliare
ma sapeva anche che sarebbe stato altrettanto se avesse tentato di giustificarsi. Quella situazione
lo faceva innervosire e sudare, aumentando la sua sensazione di colpevolezza per non essere
stato in grado di fronteggiare le proprie responsabilità.
Con il fazzoletto di stoffa si tampona delicatamente la fronte e la zona tra il naso ed il labbro
superiore.
Acuta si fa sentire la mancanza di una sigaretta.
Questo impulso lo scuote dallo stato di incoscienza in cui era entrato per stare un po’ al riparo
da occhi indiscreti.
Un rapido riepilogo delle corrispondenze tra la lista e il contenuto del carrello e poi si muove
verso l’ultima corsia, quella che finisce con le casse, il luogo dell’inevitabile confronto con un
altro essere umano, non gli è dato sapere di quale razza sia, sarà o sia stato, magari fino a ieri.
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Mentalmente cerca di prevedersi, di immaginare le varie cose che la cassiera gli potrebbe dire –
dalla più banale alla più assurda- e i vari comportamenti che normalmente terrebbe in quelle
circostanze, quasi un ripasso prima di un esame orale.
Si sistema i capelli per riprendere possesso di sé.
Improvvisamente si trova fuori del supermercato con due borse in mano –una per lato- e l’unica
cosa di cui si capacita è che quella di destra pesa più dell’altra. Con apparente tranquillità le
posa e stacca il guinzaglio mentre Bruno approfitta della vicinanza della sua faccia per leccarlo.
Un inaspettato conato di vomito gli sale fino alla gola, ma è costretto a far finta di niente e
lasciare che le bave di quella creatura gli si appiccichino addosso.
Con la coda dell’occhio guarda attraverso la vetrina per assicurarsi che la cassiera non lo stia
ancora guardando. Visto che non ricorda nulla, potrebbe aver fatto o detto di tutto.
No.
Tutto pare essere andato liscio.
Finalmente può mettere mano al pacchetto di sigarette e sentire tra le labbra quel rigido
capezzolo di seno materno da cui poppare un po’ di gassosa sicurezza. Questo gesto è ormai
l’unico che non ha bisogno di essere valutato a fondo prima di venir fatto, l’unico che ha la
normalità come attributo fondamentale, l’unico in cui può ritrovarsi uguale a ieri
spontaneamente, non per assoluta esigenza o per volontà.
Il gesto sempre uguale a sé stesso è amico.
Ora entrambe le borse stanno dalla stessa parte, l’altra mano si occupa del guinzaglio e della
sigaretta.
La temperatura è scesa e si è alzato un po’ di vento, i fari delle macchine splendono come
piccole stelle nell’aria tersa di questa serata che Domenico sa gli sarebbe piaciuto vivere i
serenità, con le solite cose di cui si è sempre accontentato, con le sue piccole ma fondamentali
soddisfazioni, con la sua casa, il suo cane, la sua libertà, i suoi ricordi e i suoi vecchi sogni, il
suo lavoro…la sua vita.
E invece ci si è messa in mezzo questa storia assurda, quasi incredibile.
Ci si sono messi di mezzo i Cinesi che vogliono togliergli per sempre il suo mondo per
trasformarlo nel loro, retrogrado ed oppressivo, e che usano tutti i mezzi possibili per
raggiungere lo scopo, omicidio compreso.
- “Io ve la farò pagare!
Dovete pagare fino all’ultima tutte le sofferenze che mi state causando.
Io vorrei sapere che cazzo volete qui!
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Non avete una terra dove stare? Si che ce l’avete, ed è anche grande! Allora tornate a casa
vostra e lasciateci in pace.
Ormai è tardi Domenico. Non fare il bambino. Tua madre non sarebbe fiera di te se ti sentisse
parlare così. E tuo padre? Lui ha dovuto sparare per difendere la patria. E gli anni della
prigionia? Pensi non abbia mai avuto momenti di sconforto?
Io non sono sconfortato, provo solo odio! Ma ti rendi conto di quello che sta succedendo?
Questi tizi riescono a prendere il posto di un cane e Dio non dice niente. Ma che sta facendo?
Dorme? Noi assaggiamo una mela e quello ci condanna alla vita sulla Terra, questi stravolgono
la Natura che lui ha creato e nemmeno si incazza? Capisci? C’è qualcosa che non funziona in
tutto questo.
Domenico! Domenico. Ora non ha più importanza. Pensa in piccolo, pensa sempre e solo alla
mossa successiva, non ti preoccupare di nient’altro. Adesso è il momento di salvare il nostro
culo, poi penseremo al resto. D’accordo?
D’accordo un cazzo! Dio è dalla loro parte, esattamente come avevo pensato! Questa è la verità.
È un Cinese…anche lui un Cinese…e io che lo prego da quando ho quattro anni. Lo pregavo di
proteggere la mia famiglia e sono rimasto solo, lo pregavo di proteggere almeno me e guarda in
che casino mi fa finire! Mi odi? Hei tu, perché mi odi? Dimmelo!
Domenico!? Lui non ti ascolta esattamente come ha fatto fin’ora, non parlate la stessa lingua,
capisci?”
Un’altra dose di rabbia per via endovenosa.
Ogni cosa sembra essere diversa stasera ed è anche nata la possibilità che non sia mai stata
come lui l’ ha sempre vista, forse tutto è una grande allucinazione e forse sono stati proprio
Loro a mettere qualche sostanza nell’acqua, magari anche in quella in bottiglia.
L’ansia gli sta stritolando lo stomaco.
Ora si vede, riesce a vedersi, riesce a vedere il suo corpo che cammina lento dall’altra parte di
questa strana parete trasparente che si trova davanti, però è anche qualcosa che lo protegge da
tutta quella confusione. Dietro le spalle si è aperta una strana via che sicuramente porte da
qualche parte lontano da qui, ma non riesce bene a capire dove e poi sente che deve restare per
aiutarsi a togliersi completamente da quella situazione. Se si allontana, che fine farà l’altro
Domenico?
Con uno sforzo enorme riesce a far muovere quella bocca.
- “Adesso passiamo per il parco così puoi stare libero. Te lo meriti anche tu.
Poi a casa a mangiare.”
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Le borse gli pesano come non mai e sente chiaramente sulle dita il punto in cui i manici gli
bloccano la circolazione.
Il mondo gli scorre a fianco veloce ed indifferente, anche gli alberi sembrano guardare da
un’altra parte, quasi avessero vergogna di vederlo in compagnia di quell’essere mutante
malvagio che gli cammina a fianco come se quello fosse il suo posto naturale, e poi tutto diventa
grigio e piatto e le strade spariscono, le case spariscono, le macchine spariscono, le persone
spariscono e solo quelle due figure restano definite e camminano, camminano, camminano,
camminano in equilibrio sulla line d’orizzonte di uno spazio infinito sempre uguale, lui le
guarda con un binocolo tenuto al contrario e nessuna alterazione di quella ripetitività è in vista.
Bruno trotterella alla sua sinistra e Domenico è sconvolto e stupito dal fatto che non una virgola
del suo comportamento è cambiata rispetto a quando lì dentro c’era davvero un cane.
- “Forse è meglio così. Almeno mi aiuta a trattarlo come ho sempre fatto prima di scoprire
tutto!
Ecco. Così ti voglio sentir parlare, amico mio. Adesso riconosco in te un vero alleato su cui
contare al cento per cento! Lo so che non è facile mantenersi tranquilli e continuare a ragionare.
Sono fiero di te.
È anche merito tuo. A proposito, come ti chiami?
Che importanza ha? Sceglilo tu un nome per me, sei l’unico che lo può fare.
Va bene, ci penserò.”
Il cancello del parco è diventato quasi invisibile con il buio e lo stesso la recinzione che lo
circonda, ora sembra un’oasi naturale rimasta incastrata nel cemento.
Ogni albero è contrassegnato da una targhetta metallica con inciso un numero di codice –ricorda
il giorno che ha visto gli uomini della sorveglianza che le applicavano- che li ha fatti entrare di
diritto nella lista dei beni da proteggere. Alcuni hanno quasi due secoli e facevano parte del
giardino di una splendida villa fatta costruire da un facoltoso mercante in occasione
dell’attribuzione alla sua famiglia del titolo nobiliare per meriti legati allo sviluppo dell’attività
commerciale.
La casa padronale è andata perduta nel corso degli anni per vari motivi, e tutto ciò che resta è un
a dependance che una volta era la dimora della servitù e un pezzo di giardino che, per fortuna,
qualcuno ha pensato bene di salvaguardare.
Domenico ha un grande rispetto di quel luogo e l’ ha sempre vissuto come se fosse suo, come la
sopravvivenza di quelle piante fosse in qualche modo legata alla sua, un sentimento che non
prova negli altri parchi che frequenta con Bruno. Anche lui ama quel posto, l’unico in città dove
può stare senza guinzaglio in uno spazio grande abbastanza da poter fare delle belle corse, non
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come al giardino di via XXII Marzo, ma al mattino il tempo disponibile è di meno, così
conviene andare in quello più vicino.
La solita panchina. C’appoggia le borse e ci si siede.
Scioglie il cane seduto di fronte e lo fissa durante tutta l’operazione, e lui appena libero si
guarda attorno sparendo poi per fare il solito giro di perlustrazione.
Accende una sigaretta coprendo l’accendino con la mano per proteggerlo dal vento. Solo ieri
quella era una delle sue situazioni preferite, una di quelle per cui vale la pena vivere, una
ventina di minuti di stacco totale da tutto e da tutti, la solitudine rilassante lontana milioni di
chilometri dalla frenesia dei ritmi della vita moderna, il silenzio che ronza nelle orecchie.
Questa sera tutto è colorato di giallo-ansia e i minuti passano lentissimi, uno sull’altro come una
lunga fila di macchina in un tamponamento creando una confusione che gli fa perdere il senso
della distanza temporale tra un pensiero e l’altro, tra un’azione e l’altra, tra una sigaretta e
l’altra, poi affannosamente tenta di riprendere il filo che di nuovo gli sfugge dividendosi in altri
mille che a loro volta si dividono in altrettanti che a loro volta fanno lo stesso, fino a farlo
ricadere nella vischiosa agitazione di partenza.
Gli manca la sua intimità, la sua sfera personale privata, il suo anonimato silenzioso, ora è sotto
i riflettori la sera della prima, e la sera della prima non è concesso alcuno sbaglio, proprio
nessuno. Il pubblico è composto solo di Cinesi e la sala appare uniforme in altezze e colori, lui
nasconde un mitra sotto il frac ma non lo usa perché sa che i colpi comunque non gli
basterebbero. Le mani e le gambe gli tremano ma tutto deve apparire sotto controllo.
I rumori misteriosi del sottobosco lo distolgono da quei pensieri e lo trasportano ancora una
volta nella dolce realtà di qualche momento normale –come una volta erano tutti- dove riesce a
gustare il sapore del fumo ed il piacere di aspirarlo e sentirlo danzare nei polmoni.
Sente quel vizio come un conforto che non si può spiegare a parole.
- “Chissà dove s’è cacciato il Cinese.
Magari da sempre approfitta di questa situazione per andare a fare rapporto. D’altronde sarebbe
il momento migliore, io sono sempre distante quando stiamo qui. Riferisci, riferisci pure
bastardo! Riferisci che anche per oggi non mi sono accorto di nulla.
Magari riprende una forma umana quando si presenta ai suoi superiori. Domani voglio vedere
cosa fa quando è solo, anche se già me lo immagini fin nei minimi particolari.”
Continua a fumare per ingannare l’attesa, cercando di pensare al modo migliore per seguire il
cane senza farsi scoprire.
L’aria porta con sé un miscuglio di odori tra cui spicca quello delle foglie secche che in autunno
si ammassano ai piedi di quei giganti secolari ed immobili che possentemente mantengono il
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loro posto, quelle che la Natura ha loro assegnato, quello che non verrà improvvisamente
occupato da palme tropicali. Li invidia sinceramente.
Il Casio suona il cambio dell’ora. Tutto procede come al solito e tra cinque minuti sarà
finalmente arrivato il momento di lasciare quel luogo pieno di ricordi che sono ognuno una
pugnalata al suo cuore ormai pieno solo di odio e rabbia.
Il pensiero di dover passare altre giornate come quella lo sconforta profondamente, ma è
conscio di non poter fare altrimenti, per una mera questione di sopravvivenza.
Improvvisamente decide che è arrivato il momento di andare, senza esitazioni, è stufo di dover
rispettare dei tempi precisi, alla fine nella normalità lui è il padrone, Bruno il cane, perciò se lui
decide di tornare a casa prima, si torna e basta. Il solito fischio ripetuto due o tre volte è il
segnale. Dopo qualche istante –puntuale- il cane si presenta scodinzolando e si stende vicino ai
suoi piedi, la lingua di fuori e il respiro veloce.
- “Ciao vecchio mio, tutto bene?”
la mano passa tra le orecchie.
- “Hai il fiato corto, maledetto assassino? Ti ho fatto correre, vero? Non ti aspettavi che ce ne
saremmo andati prima stasera. Anche tu hai delle regole da rispettare se non vuoi farmi
insospettire! Siamo in pieno pareggio, ma io sono più furbo di voi.”
Il moschettone del guinzaglio si attacca all’anello che penzola dal collare.
- “Dobbiamo proprio andare, Bruno. Dispiace anche a me, ma devo fare da mangiare,
riordinare un po’ la casa, fare una lavatrice e forse anche stirarmi i pantaloni per domani.
Che vuoi fare, anche noi uomini abbiamo i nostri problemi.”
Dall’uscita del giardino al portone di casa, Domenico arriva senza più accorgersi di nulla, quasi
avesse preso una scorciatoia nello spazio che porta da un punto all’altro così velocemente che
non si riesce nemmeno a rendersene conto. La vista della macchina parcheggiata gli riporta la
mente al traffico, e la sensazione di disagio che sente nello stomaco aumenta.
Appena entrato appoggia le borse sul tavolo della cucina, sedendosi pesantemente sulla sedia di
sinistra, quella vicino al ripiano dove di solito prepara da mangiare. Il cane nel frattempo è
andato a bere nella sua ciotola, come ha sempre fatto tutte le volte che sono tornati da una
passeggiata.
Accende la televisione direttamente sul canale che tra poco più di mezz’ora trasmetterà le
notizie regionali.
La pubblicità: rassicurante.
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Per un istante soltanto dimentica ogni cosa e quella situazione torna sinceramente comune,
usuale, assolutamente certa e confortevole, poi tutto sparisce in una nuvoletta di fumo bianco
proprio come quelle dei fumetti ed il sangue inizia a ribollire e i nervi riprendono a contrarsi.
Delle voci ridono. Un organetto suona una stupida musichetta allegra. Il cane sta tornando. Il
guinzaglio trascinato emette un rumore odioso. Le voci ridono ancora. Il cane sta arrivando.
Eccolo, è sulla porta. Arriva, arriva. Ti vuole prendere. Ti si sta appoggiando sulle gambe con la
bocca bavosa.
Una mano scatta verso la mensola, afferra il lungo coltello per il pane che passa veloce e
silenzioso da una parte all’altra del collo dell’animale.
Quattro occhi sbarrati.
Un lamento soffocato nel liquido.
Una sensazione di calore gli si spande sulla coscia.
La bestia cade a terra su un fianco col sangue che zampilla ad ogni battito del cuore e le zampe
che si muovono come se scappare potesse essere ancora una via di salvezza.
Un’enorme pozza si espande veloce sul pavimento e sotto i mobili. Domenico si alza, prende
quel cadavere e ci si siede sopra per tenerlo rivolto con la pancia in su, affonda il coltello
all’altezza dello sterno ed inizia a tirare verso di sé per aprire il petto.
Le ossa scricchiolano e si rompono di fronte alla forza della lama che imperterrita si fa strada.
Si ferma un attimo per guardarsi con soddisfazione le mani rosse.
Quando il taglio è arrivato a metà pancia, lancia il coltello, infila una mano nello squarcio e la
tira fuori stringendo il cuore del cane.
- “Gran figlio di puttana! Dov’è Bruno? Cosa gli hai fatto?
Ah, già, non puoi rispondere adesso, vero?
Non puoi riferire un cazzo a nessuno, che figura ci farai? Hai fallito la missione!
Ah,ah,ah!
Adesso cosa farete? Me ne mandate un altro?
Intanto mi riprendo tutto l’amore che ho dato a Bruno.
Mi avete sentito, stronzi?”
A grossi morsi inizia a mangiare quel cuore che aveva ricevuto il suo amore e deglutisce i
bocconi senza masticare.
- “Tutto me lo riprendo! Tutto fino all’ultima briciola, non vi voglio lasciare niente!”
Appena finito si mette due dita in gola e vomita tutto sopra quel corpo martoriato.
- “Tenete bastardi! Vi restituisco…-un colpo di tosse-…vi restituisco il vuoto! Ah, ah, ah!”
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Si pulisce con la manica della camicia e rutta. Gli schizzi e le gocce che perde lo hanno
imbrattato completamente, soprattutto i pantaloni sono sporchi. Una grossa chiazza copre la
coscia sinistra.
Gli sforzi di vomito continuano, mentre un forte sapore di selvatico gli pervade la bocca.
Lunghi momenti di smarrimento.
Frettolosamente raggiunge il bagno, apre l’acqua della vasca e aspettando che si riscaldi ci
mette sotto le mani per levarsi di dosso un po’ di quel sangue contaminato. Si lava i denti.
La testa gli gira come quando aveva fumato aspirando la prima volta, lo stomaco è sottosopra.
Si spoglia mettendo i vestiti gocciolanti in un sacchetto di plastica, gira la manopola che
trasferisce l’acqua alla doccia ed inizia a lavarsi meticolosamente, quasi fosse finito in una
piscina piena di liquame radioattivo. Una bottiglia di bagnoschiuma gli è appena sufficiente per
sentirsi pulito.
Si asciuga sommariamente, nessun pensiero fa capolino.
Gli abiti puliti che sanno di bucato gli forniscono una nuova identità, un po’ di gel aggiusta i
capelli.
- “Domenico?! Che cazzo hai fatto?
Non mi rompere i coglioni, tu! Ho fatto quello che era giusto, gli ho dato quello che meritava!
Ma ti rendi conto che adesso sapranno tutto? C’ hai messo nella merda, Domenico.
Io mi sono messo nella merda! Vai via, mi arrangio da solo da adesso in poi!
Ma cosa vuoi fare da solo?
Non ti preoccupare. Vai via e dimenticati di avermi conosciuto. Ce la farai!
Non si può fare Domenico. Tu puoi solo farmi stare zitto se vuoi.
Allora stai zitto per sempre e lasciami in pace!”
Passando nel corridoio per andare nello sgabuzzino, si ferma per contemplare il macabro
spettacolo che gli si presenta. Una lacrima scende fino al mento e poi cade a terra. Sputa dentro
la stanza e prosegue allacciandosi i bottoni del cardigan.
Mette la scarpe, torna in cucina, sale sul tavolo e mette i piedi sulla sedia dove prima era seduto
per evitare di calpestare il sangue che ormai si è sparso su quasi tutto il pavimento. Recupera il
guinzaglio e le sigarette dalla tasca dell’impermeabile inzuppato, appoggiato allo schienale.
Scende.
- “Andiamo Bruno!”
prende le chiavi della macchina dalla mensola sopra il termosifone, vicino alla porta d’ingresso.
Esce.
- “Gliela abbiamo fatta pagare per bene, non trovi vecchio mio?
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Ti vedo di nuovo in forma!”
Arrivato alla macchina apre lo sportello dal lato del passeggero.
- “Forza bello, sali.”
Lancia il guinzaglio sul sedile e monta a sua volta.
Nei due minuti in cui fa scaldare il motore guarda intensamente le finestre di casa e prova un
sollievo infinito pensando al peso che si è tolto.
La giustizia che si compie è sempre sollevante.
Li vede in un ristorante che con i loro bastoncini banchettano inconsapevolmente con i resti di
un loro simile.
Accende i fari, ingrana la prima e prende la direzione per la periferia.
La meta non è lontana, ma ripensandoci, la strada sembra non finire mai.
Ora hanno bisogno di un rifugio perché prima o poi qualcuno andrà a cercarli.
A Domenico è sempre piaciuto guidare di sera, quando le strade sono deserte e negozi mai
notati sbucano timidamente dai muri come gnomi dagli alberi di un bosco, e i palazzi sembrano
diversi dal solito, quando l’aria non è satura di gas di scarico e rumori assordanti. Mille
immagini al secondo gli passano davanti agli occhi in un collage continuo ed improbabile.
Il respiro gli si è fatto pesante per l’affanno di sentirsi come un ricercato costretto alla fuga, il
momento richiede una sigaretta per calmare il nervosismo.
- “Sai Bruno, tra un po’ dovremo separarci. Non voglio che ti facciano del male di nuovo!
Ma non ti devi preoccupare. Appena le acque si saranno calmate ti verrò a cercare e ti troverò!
Hai capito?
Si? Bravissimo!”
Poco prima dell’imbocco della tangenziale, l’auto svolta a destra e prende una stradina di sassi
che si inoltra per la campagna, la percorre per circa due chilometri e poi si ferma. Le luci si
spengono.
Domenico scende, apre l’altro sportello e prende il guinzaglio.
- “Ok, è arrivato il momento di salutarci.
Allontanati e trovati un posto dove stare al sicuro, ci rivedremo presto!
Vai adesso! Io proseguo per la strada, tu vai per i campi.”
Velocemente si incammina stringendo tra le mani l’unico ricordo dell’amico più caro.
Anche con il buio riesce a riconoscere i luoghi che frequentava da bambino, quando era
veramente spensierato. Anche adesso avrebbe potuto più o meno esserlo, se non fosse stato per
Loro!
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Ora ha bisogno di sentirsi al sicuro, non solo di esserlo fisicamente. Nessun posto gli è sembrato
migliore della vecchia casa in cui abitava con i suoi genitori. Ha bisogno di tranquillità per
pensare al da farsi, deve ragionare.
Ormai sfitta da anni, la casa è diventata un rudere cadente sepolto sotto le sue stesse macerie e
coperta per buona parte da edera che non le dà proprio un aspetto rassicurante.
Tutto attorno regna il silenzio più assoluto, accompagnato dal lento brusio della tangenziale
trafficata giorno e notte.
Domenico entra e si siede tra i resti di quella che era la cucina, al centro della stanza c’era un
vecchio tavolo in legno massiccio, con una metà più liscia dell’altra perché la sua povera
mamma lavorava sempre dalle stessa parte: gnocchi, pasta fatta in casa, impasti per dolci e
focacce, lasagne, tutto sano e genuino. Si accende una sigaretta.
Del soffitto sono rimaste solo le solide travi che lo sostenevano.
Improvvisamente uno strano bagliore gli cattura l’attenzione.
Sale le scale che portano alla terrazza al piano di sopra scavalcando tre gradini alla volta e
tenendosi stretto al traballante corrimano in ferro.
La luce proviene da un enorme buco nel cielo e si intravedono lontane delle sagome in
movimento.
Domenico rimane esterrefatto.
- “Oh cazzo!
Possibile che siano già qui?”
Strizza gli occhi per cercare di mettere a fuoco meglio, senza riuscire a distinguere qualcosa di
più.
L’adrenalina gli stuzzica i centri nervosi per mantenerlo iper reattivo.
- “Avanti, fatevi vedere!”
La voce si alza di molti toni.
Velocemente si definiscono i primi contorni.
Una gigantesca barca a remi con centinaia di enormi ruote alloggiate sulla chiglia, armata di
grosse colubrine a tre bocche e circondata da migliaia di bici-elicottero, mongolfiere a pedali
monoposto galleggiano poco più in basso, scintillanti draghi alati dai denti di diamante sono
tenuti a catena, monopattini-deltaplano volteggiano come condor, un esercito di soldati dalle
preziosissime armature si spostano velocissimi in formazione su piccoli dischi di metallo a vela.
Tutti portano come vessillo un triangolo d’oro.
- “L’armata di Dio!
Ah, ah, ah! Vi siete scomodati in così tanti per uno come me? Devo essere importante!”
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Urla sempre più forte.
- “Dio?! Dio, mi senti?
Sapevo che stavi con Loro, lo sapevo dall’inizio!
Pensi di spaventarmi con questo spiegamento di forze? Io non ho paura di te!
E nemmeno del tuo dannato esercito!
Avanti! Venite a prendermi, stronzi!
L’armata di Dio…avanti!
Forza, vi sto aspettando!”
Inizia a ridiscendere le scale.
- “Non mi avrete mai!
Non vi farò mai da schiavo. Credevate fosse così facile?”
Torna in cucina –l’unica stanza in cui il soffitto è raggiungibile-, prende una grossa pietra e la
porta esattamente sotto la trave maestra. Ci sale. Si gira il guinzaglio attorno al collo ed attacca
il moschettone al gancio di ferro che una volta serviva a sorreggere il lampadario.
Un passo in qualsiasi direzione per la libertà.
A sinistra.
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