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1 Che cosa si dice a un paziente terminale? Il 2 dicembre 1994 fui invitato a Reggio Emilia a tenere una relazione ad un seminario intitolato "Che cosa si dice a un giovane terminale? L'esperienza dei SerT nella regione Emilia Romagna", organizzato dal Prof. Umberto Nizzoli, Responsabile del Dipartimento delle Dipendenze Patologiche della Azienda USL di Reggio Emilia. Voglio utilizzare lo spazio di questa rubrica per riportare una versione dell'intervento che lessi a quel seminario. La relazione originale, intitolata "La psicoanalisi e il paziente terminale", è stata pubblicata sulla rivista Personalità/Dipendenze, 1996, II, 1: 43-50, diretta da Roberto Bertolli e Umberto Nizzoli, che ringrazio per avermi dato il permesso di pubblicarne una versione sul Ruolo Terapeutico (per una bibliografia più completa, rimando all'articolo originale [in fondo all'articolo viene pubblicata una bibliografia parziale]). La psicoanalisi e il paziente terminale L'approccio al paziente terminale, e quindi il problema del nostro rapporto con la morte e con tutte le emozioni che essa ci può evocare, non viene affrontato spesso, per motivi probabilmente legati alla tendenza inconscia ad evitare un tema così inquietante. In molti programmi di training per operatori della salute mentale vi è addirittura una scotomizzazione di questo problema, mentre in altri paesi già da anni viene dato ampio spazio a questo argomento con materie quali "Death and Dying" [La morte e il morire], inserite nell'insegnamento della tanatologia e nei programmi di Consultation & Liaison, cioè di "Psichiatria di Consulenza" e "di Collegamento" con la medicina, altrimenti detta Psicologia Medica. La psicoanalisi si è occupata più volte del problema della morte e del paziente terminale. Freud nel 1915 [Noi e la morte, OSF/Complementi, pp. 131-141; Il nostro modo di considerare la morte, OSF, 8, pp. 137-148) parlò del "nostro modo di considerare la morte", e tanti autori in seguito hanno affrontato il tema della tanatologia e del lavoro col paziente terminale [ad esempio K.R. Eissler, The Psychiatrist and the Dying Patient, New York: Int. Univ. Press, 1955]. Per quanto riguarda però la morte per Sindrome di Immunodeficienza Acquisita (AIDS), nonostante il fatto che siamo ormai giunti a più di un decennio dall'inizio di quella che può essere considerata la più grave emergenza medica di questa generazione e l'epidemia più letale di questo secolo, la psicoanalisi, tranne rare eccezioni, ha prestato poca attenzione a questo dramma. Ha dedicato ad esempio molti studi a temi come la guerra o la distruttività umana, l'incesto o la violenza nelle famiglie, la delinquenza, i disturbi psicosomatici, ecc., e relativamente pochi studi sui problemi creati dall'AIDS. Può essere che siamo ancora troppo vicini a questo dramma, o, peggio, che persistano ancora paure o pregiudizi (un altro tema che è stato trattato molto poco è il modo con cui affrontare la malattia terminale dell'analista - se e come dirlo ai propri pazienti - tema che solo in tempi recenti è stato discusso in modo sistematico [vedi ad esempio L. Barbanel, The death of the psychoanalyst, Contemporary Psychoanalysis, 1989, 3: 412-419]). Intendo discutere prima alcuni aspetti dell'approccio al paziente sieropositivo all'HIV, per poi allargare il tema al rapporto col paziente terminale. Il paziente sieropositivo, e a maggior ragione quello affetto da AIDS, è potenzialmente un paziente terminale, anche se, con le conoscenze attuali, sappiamo che la morte può essere ritardata di molti anni. La difficoltà di affrontare il problema della morte in un paziente terminale può essere alleviata dal riferimento a modelli teorici, anche se questi non possono essere completamente sostitutivi di una continua nostra elaborazione del modo con cui ci rapportiamo con la salute, la morte, le priorità

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Che cosa si dice a un paziente terminale?

Il 2 dicembre 1994 fui invitato a Reggio Emilia a tenere una relazione ad un seminario intitolato "Che cosa si dice a un giovane terminale? L'esperienza dei SerT nella regione Emilia Romagna", organizzato dal Prof. Umberto Nizzoli, Responsabile del Dipartimento delle Dipendenze Patologiche della Azienda USL di Reggio Emilia. Voglio utilizzare lo spazio di questa rubrica per riportare una versione dell'intervento che lessi a quel seminario. La relazione originale, intitolata "La psicoanalisi e il paziente terminale", è stata pubblicata sulla rivista Personalità/Dipendenze, 1996, II, 1: 43-50, diretta da Roberto Bertolli e Umberto Nizzoli, che ringrazio per avermi dato il permesso di pubblicarne una versione sul Ruolo Terapeutico (per una bibliografia più completa, rimando all'articolo originale [in fondo all'articolo viene pubblicata una bibliografia parziale]).

La psicoanalisi e il paziente terminale

L'approccio al paziente terminale, e quindi il problema del nostro rapporto con la morte e con tutte le emozioni che essa ci può evocare, non viene affrontato spesso, per motivi probabilmente legati alla tendenza inconscia ad evitare un tema così inquietante. In molti programmi di training per operatori della salute mentale vi è addirittura una scotomizzazione di questo problema, mentre in altri paesi già da anni viene dato ampio spazio a questo argomento con materie quali "Death and Dying" [La morte e il morire], inserite nell'insegnamento della tanatologia e nei programmi di Consultation & Liaison, cioè di "Psichiatria di Consulenza" e "di Collegamento" con la medicina, altrimenti detta Psicologia Medica.

La psicoanalisi si è occupata più volte del problema della morte e del paziente terminale. Freud nel 1915 [Noi e la morte, OSF/Complementi, pp. 131-141; Il nostro modo di considerare la morte, OSF, 8, pp. 137-148) parlò del "nostro modo di considerare la morte", e tanti autori in seguito hanno affrontato il tema della tanatologia e del lavoro col paziente terminale [ad esempio K.R. Eissler, The Psychiatrist and the Dying Patient, New York: Int. Univ. Press, 1955]. Per quanto riguarda però la morte per Sindrome di Immunodeficienza Acquisita (AIDS), nonostante il fatto che siamo ormai giunti a più di un decennio dall'inizio di quella che può essere considerata la più grave emergenza medica di questa generazione e l'epidemia più letale di questo secolo, la psicoanalisi, tranne rare eccezioni, ha prestato poca attenzione a questo dramma. Ha dedicato ad esempio molti studi a temi come la guerra o la distruttività umana, l'incesto o la violenza nelle famiglie, la delinquenza, i disturbi psicosomatici, ecc., e relativamente pochi studi sui problemi creati dall'AIDS. Può essere che siamo ancora troppo vicini a questo dramma, o, peggio, che persistano ancora paure o pregiudizi (un altro tema che è stato trattato molto poco è il modo con cui affrontare la malattia terminale dell'analista - se e come dirlo ai propri pazienti - tema che solo in tempi recenti è stato discusso in modo sistematico [vedi ad esempio L. Barbanel, The death of the psychoanalyst, Contemporary Psychoanalysis, 1989, 3: 412-419]).

Intendo discutere prima alcuni aspetti dell'approccio al paziente sieropositivo all'HIV, per poi allargare il tema al rapporto col paziente terminale.

Il paziente sieropositivo, e a maggior ragione quello affetto da AIDS, è potenzialmente un paziente terminale, anche se, con le conoscenze attuali, sappiamo che la morte può essere ritardata di molti anni. La difficoltà di affrontare il problema della morte in un paziente terminale può essere alleviata dal riferimento a modelli teorici, anche se questi non possono essere completamente sostitutivi di una continua nostra elaborazione del modo con cui ci rapportiamo con la salute, la morte, le priorità

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della vita, e così via. Consapevoli dunque che i modelli teorici possono avere per noi anche una funzione difensiva (in quanto ci portano ad inquadrare i dati in modo predefinito e quindi più rassicurante rispetto ad altri eventuali significati che essi possono avere) vediamo come alcuni autori hanno descritto la fenomenologia e la psicodinamica del paziente terminale.

Modelli teorici della psicologia del paziente terminale

E. Kübler-Ross nel 1969 [La morte e il morire, Assisi: Cittadella, 1979] ha fornito un modello per descrivere il decorso del paziente quando apprende di essere affetto da una malattia terminale. Questo modello è basato su cinque stadi successivi: 1) negazione, 2) rabbia, 3) contrattazione, 4) depressione, e 5) accettazione. Questi stadi possono succedersi in un ordine diverso e non necessariamente come entità separate. Ad esempio una delle prime reazioni da parte di un paziente che apprende di essere sieropositivo può essere una combinazione di negazione e depressione (stadi 1 e 4): la negazione è una difesa più massiccia che rivela la incapacità o impreparazione del soggetto ad essere consapevole di una sua possibile morte (a causa dei conflitti che si creano tra i desideri, le emozioni, i piani, ecc., connessi a una aspettativa di vita più prolungata, e il loro abbandono a causa della eventualità di una morte prematura); la depressione invece implica una consapevolezza, anche se a volte inconscia, della eventualità della morte. Questi due stati emotivi possono alternarsi, così come vediamo di frequente nelle persone che hanno subìto un lutto (momenti di tranquillità legata alla negazione del decesso, alternati da depressione o disperazione legate alla consapevolezza della realtà).

S.E. Nichols [Emotional aspects of AIDS: implications for care providers, Journal of Substance Abuse Treatment, 1987, 4: 137-140] descrive il decorso psicologico dopo la consapevolezza dell'infezione da HIV e propone un modello più semplice, caratterizzato solo da tre fasi successive che condensano alcune delle fasi del modello della Kübler-Ross (va ricordato che Flavio Bonfà [Percorsi di elaborazione psicologica dell'infezione da HIV in ex tossicodipendenti, Rivista Sperimentale di Freniatria, 1990, 3: 1057-1068], che dirige il SERT di Fiorenzuola, ritiene che il modello di Nichols non sia così facilmente generalizzabile, soprattutto in contesti socioculturali diversi da quello americano che era caratterizzato da pazienti quasi esclusivamente omosessuali). Vediamo comunque il modello di Nichols:

1) Una prima fase spesso caratterizzata da negazione.

2) Una seconda fase chiamata "transizionale" nella quale la negazione lascia il posto ad emozioni forti ed alternanti quali rabbia, paura, terrore, depressione, ecc. In questa fase vi è una certa disponibilità all'intervento terapeutico ma anche pericoli di suicidio. Nelle parole di Nichols, questa seconda fase inizia "quando la negazione e la nonchalance incominciano a incrinarsi e a svanire. Il paziente prova una serie di emozioni alternanti: rabbia, paura, terrore, depressione, e pensieri suicidiari. E' una fase davvero ribollente, ed è molto pericolosa. I pazienti, essendo così aperti, in questo momento sono anche molto disponibili all'intervento. Non dobbiamo dimenticare che quando vediamo i pazienti in questa fase caotica, essi possono avere la tendenza ad isolarsi, il che può essere la premessa al suicidio" (p. 138).

3) Dopo la seconda fase vi è una terza fase chiamata "di accettazione" o "di negazione rinforzata", nella quale i pazienti non negano la malattia ma si adattano ad essa vivendo meglio la loro vita, a volte molto meglio di prima, diventando più produttivi e più realistici, quasi come se avessero acquisito una nuova identità. Questa terza fase è il risultato di un complesso processo psicologico che sarebbe più appropriato definire come basato non su una "negazione rinforzata" ma su una rimozione riuscita, cioè sulla risoluzione del conflitto e la conseguente formazione di nuove strutture psichiche che conducono a un maggiore adattamento all'unica realtà possibile, con la

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rinuncia all'inutile desiderio di una vita irrealizzabile. M.J. Blechner [Psychoanalysis and HIV disease, Contemporary Psychoanalysis, 1993, 1: 61-80, p. 68], a illustrazione di questa fase, riporta il caso di uno scrittore, malato di AIDS, che aveva sempre avuto problemi nella vita (come idee depressive e suicidiarie) e che nei tre anni successivi alla diagnosi di AIDS riuscì a pubblicare due libri, a scrivere vari articoli, e a mantenere una profonda e stabile relazione sentimentale per la prima volta in vita sua.

A proposito però di questi cambiamenti così radicali, soprattutto in un paziente precedentemente affetto da una determinata psicopatologia, essi andrebbero ben differenziati da un tipo di reazione psicologica che ha origini diverse: alludo a quei casi, discussi soprattutto dagli psicoanalisti kleiniani, che mostrano un benessere interiore nella misura in cui compare un pericolo reale. Sono stati osservati, ad esempio, casi di scomparsa di depressione in tempo di guerra o di altre calamità naturali. La certezza che esiste un male "reale" può dare un momentaneo benessere nella misura in cui il paziente aveva una angoscia persecutoria interiore, la quale viene così facilmente proiettata all'esterno, nel senso che il paziente si rassicura che il male è fuori di lui, tale da deflettere l'attenzione da quello più minaccioso che teme di avere dentro. In altre parole, il paziente depresso o affetto da croniche angosce persecutorie (come può essere stato il caso descritto prima da Blechner), nel momento in cui apprende di avere una malattia grave o potenzialmente terminale può rispondere in modo paradossale, riunendo le sue forze per combattere la malattia che ora è più oggetivabile come malattia somatica, non psicologica; sarebbe come se il paziente dicesse a se stesso che la "colpa non è più sua ma di qualcun'altro" (oppure non della psiche ma del corpo). Nel linguaggio kleiniano o della scuola delle relazioni oggettuali, ora il paziente può sentirsi "tutto buono", mentre il male è "tutto fuori". A me è capitato ad esempio di osservare il caso di un paziente che aveva una serie di angosce e paure, e che quando scoppiò la Guerra del Golfo, che secondo alcuni commentatori politici poteva minacciare anche l'Italia, stette improvvisamente molto bene, fu di nuovo capace di provare affetto e di fare l'amore con la propria moglie, scomparvero le fobie di cui soffriva da tempo, per poi tornare come prima quando "purtroppo" la guerra finì e cessarono i pericoli di un coinvolgimento italiano nel conflitto. Del resto, sono ben noti i casi di paranoici che si tranquillizzano nella misura in cui trovano un nemico reale esterno, e peggiorano quando il nemico non si comporta come tale o non risponde alle loro provocazioni.

Per tornare all'approccio al paziente sieropositivo, nella prima fase dopo la consapevolezza dell'infezione (quella caratterizzata spesso dalla negazione o da momenti in cui essa si alterna con angoscia e depressione) è sempre meglio che l'operatore non cerchi di eliminare la negazione prematuramente tramite l'interpretazione o il confronto con la realtà (a meno che il paziente non intraprenda azioni eterodistruttive, come ad esempio trasmettere l'infezione ad altri, nel qual caso può essere consigliabile confrontarlo con la realtà); è meglio che l'operatore si renda disponibile ad assistere il paziente quando questi è pronto a superare la negazione. La realtà della infezione è talmente grave che i pazienti sono i primi ad affrontarla se ne hanno la capacità, e se ne sono impreparati la negheranno comunque (ciò a volte è ben testimoniato dalla tenace negazione della morte da parte di quei medici, magari specialisti in oncologia, che negano la propria malattia terminale, rifiutandosi di diagnosticare a se stessi la neoplasia maligna che li ha colpiti). Può essere indicato cioè, per quanto possibile, lasciare al paziente la scelta del modo con cui affrontare la consapevolezza della eventualità di una sua morte prematura, a seconda della struttura difensiva di cui dispone.

E' importante a questo proposito che il paziente venga informato sulle incertezze che ancora esistono riguardo al decorso dell'infezione. Bisognerebbe informarlo che è possibile, per coloro che sono sieropositivi e liberi da infezioni opportunistiche (herpes, funghi, polmoniti, ecc.), rimanere senza sintomi anche per 10 anni; che alcuni sembrano non progredire verso l'AIDS; che, per quanto si sa oggi, è possibile vivere con lo stesso AIDS per una decina d'anni o forse più; e che la migliore

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strategia di vita è quella di continuare a fare tutte le cose che si desidera fare meglio che si può per tutto il tempo possibile, cercando nel contempo di fare scelte informate per quanto riguarda il pericolo di infettare altri. Il paziente deve anche essere educato sulla natura esatta della infezione, sulla importanza della sua collaborazione eventualmente anche a discutere col medico diverse opzioni terapeutiche, e così via (mai come in questi casi possono essere utili le tecniche di "psicoeducazione" sulla natura della malattia, del contagio, e delle terapie esistenti - le fantasie conscie e inconsce, basate sulla ignoranza, sono sempre peggiori della realtà [per il concetto di "psicoeducazione", vedi la mia rubrica sul Il Ruolo Terapeutico, 48/1988, p. 32]). Può essere utile leggere periodici che informano sulla infezione HIV, intraprendere una terapia individuale, o partecipare a gruppi terapeutici o di self-help (auto-aiuto).

E' negli Stati Uniti che sono state accumulate le esperienze maggiori nell'approccio psicologico con i pazienti affetti da AIDS, dato che l'epidemia là ha raggiunto proporzioni molto vaste, anche se si è trattato inizialmente di un campione di pazienti diverso da quello italiano: come sappiamo, mentre in Europa l'epidemia si è diffusa prevalentemente tra tossicomani, negli Stati Uniti inizialmente fu tra omosessuali.

Reazioni controtransferali

Per parlare ora dell'operatore di fronte al paziente terminale, molte cose si possono dire sulle difese adottate e sulle varie reazioni "controtransferali" (nel senso di una accezione allargata del termine). Tra le più comuni reazioni controtransferali degli operatori vi è la negazione della morte, il non parlarne col paziente, il dimenticarsi di appuntamenti con pazienti particolarmente difficili, e così via. Tutti questi sono segnali del fatto che a livello inconscio percepiamo bene la problematica dolorosa della morte, connessa a nuclei più o meno bene elaborati dentro di noi, per cui evitiamo un problema nostro, oltre che del paziente. E' possibile però anche che la negazione della morte da parte dell'operatore sia una inconscia risposta empatica al bisogno del paziente di negarla; in questo caso l'operatore però dovrebbe essere pronto a parlarne se il paziente diventasse più disponibile.

Un'altra reazione molto spesso osservata è quella opposta, cioè la fantasia onnipotente di curare l'AIDS. Questa reazione si può dire uguale e contraria a quella precedente, in quanto si nega ugualmente la realtà della malattia. La fantasia può essere quella di poter curare l'AIDS con terapie alternative o con mezzi psicologici: in certi paesi ad esempio si legge sui giornali la pubblicità di certi "curatori" che illudono con una possibile guarigione le persone meno equipaggiate culturalmente, per poi magari farle sentire colpevoli se non guariscono come era stato promesso. Ma anche alcuni di noi in un certo qual modo possono comportarsi come questi "curatori": si tratta di quegli operatori psichiatrici o quegli amici che si dedicano totalmente ai pazienti terminali, offrendo loro molto del loro tempo anche a domicilio, passando ore al capezzale del paziente, in una sorta di missionarismo che può rivelare una onnipotenza come negazione massiccia della morte, come incapacità a percepirla, come espressione di ansia da parte nostra. Questo che alcuni autori hanno chiamato "folle amore generoso e gratificante", questa "fusione patologica" basata su una "grandiosità maniacale", può avere momentanei effetti benefici se il paziente utilizza le stesse difese, ma può essere di corto respiro e condurre al burn-out dell'operatore [per una vivida descrizione clinica di questa "cura attraverso la follia", vedi il libro di R. Langs del 1985 Follia e cura, Torino: Bollati Boringhieri, 1988, cap. 17].

Opposta a questa difesa vi è la indifferenza, l'abitudine, tipica in coloro che hanno visto molti casi di pazienti o amici morti di AIDS. Negli Stati Uniti non solo gli operatori del settore, ma anche i membri di certe comunità omosessuali sono sottoposti a questo tipo di lutto esteso: c'è chi ha contato fino a 10 amici morti, o chi addirittura ha perso tutti gli amici, situazione che alcuni autori hanno paragonato a quella della guerra e dell'olocausto nazista. In molti casi questa indifferenza può

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essere adattiva. Va segnalato inoltre in alcuni di coloro che sono rimasti vivi è stata descritta la sindrome della "colpa del sopravvissuto", che eventualmente può essere rinforzata dal desiderio che spesso si ha avuto che un paziente o un amico affetto da AIDS avanzato morisse presto per l'orrore delle sue sofferenze.

Un'altra tipica difesa che si nota di fronte alla morte imminente è l'uso dell'ironia, allo stesso modo con cui alcuni sopravvissuti ai campi di concentramento hanno raccontato che venivano trattati coloro che incominciavano a mostrare gli inconfondibili segni del decadimento organico per eccessiva denutrizione, il passo incerto, ecc., il quadro insomma che regolarmente preludeva alla loro morte di stenti. Tale era l'angoscia di fronte a questi compagni che non ce la facevano più, e tale la paura di fare la stessa fine, che essa veniva negata col cinismo e l'ironia, e questi compagni moribondi, come hanno raccontato alcuni sopravvissuti, venivano derisi con nomignoli vari. L'uso dell'ironia come difesa da sensazioni angoscianti è stata descritta anche in tante altre situazioni cliniche (si vedano ad esempio le interessanti osservazioni di S. Perry del 1983 [Il bisogno di dolore, Psicoterapia e Scienze Umane, 1984, 3: 63-84] sui pazienti gravemente ustionati, come certi vigili del fuoco che avevano perso la quasi totalità della superficie cutanea e quindi anche ogni sensazione dolorifica, oltre al proprio senso di identità corporea, i quali venivano regolarmente chiamati "hamburgers" dallo staff infermieristico che cercava in questo modo di evitare l'angoscia di mettersi nei panni di questi poveri pazienti).

Un inquadramento teorico generale

Fin qui ho accennato ad alcuni modelli teorici delle reazioni psicologiche del paziente terminale, dato alcune sommarie indicazioni sul modo con cui l'operatore dovrebbe affrontarle, e illustrato alcune dinamiche controtransferali. Può non essere un caso che ho procrastinato di affrontare in modo approfondito il tema che è nel titolo di questa rubrica, cioè "che cosa si dice a un paziente terminale": questo tema ha a che fare con la nostra concezione della morte e con le più profonde reazioni psicologiche con le quali ci rapportiamo ad essa. Quando si parla della morte è difficile farlo in modo appropriato, tanto che forse è preferibile tacere, proprio come a volte il modo migliore con cui possiamo testimoniare la nostra partecipazione a un amico che ha subìto un lutto è quello di stare per un po' in silenzio accanto a lui; ogni nostra parola può non essere all'altezza della complessità e della delicatezza dei sentimenti che lui può provare. La morte è uno dei fenomeni meno comprensibili e meno immaginabili. Questo tema è stato affrontato da tanti autori dai punti di vista delle rispettive discipline: medicina, psicologia, filosofia, religione, ecc. (per una bibliografia dettagliata rimando al mio articolo su Personalità/Dipendenza, 1996, II, 1: 43-50). Io in questa sede mi limiterò a suggerire un inquadramento teorico generale dell'approccio al paziente terminale.

L'inquadramento teorico generale che ritengo più utile è quello di considerare la preparazione alla morte come un importante "evento di vita" (life event), cioè una di quelle situazioni destinate a provocare grosse ripercussioni nell'equilibrio psicologico del soggetto. Altri "eventi di vita" possono essere la morte di una persona cara, una separazione, un improvviso licenziamento lavorativo, ecc. Propongo cioè di non considerare la morte come un evento particolare rispetto a tutti gli altri (come si farebbe seguendo una determinata filosofia o concezione della morte), anche se si può obiettare che esso è di gran lunga il più significativo in quanto relativizza tutti gli altri. Ma l'impatto di qualunque evento dipende dai valori adottati dal soggetto e dai significati che esso assume in quel determinato momento del ciclo vitale. Non a caso gli eventi di vita vengono tradizionalmente divisi in due sommarie categorie: i timely events e gli untimely events. I primi sono gli eventi prevedibili che avvengono in un tempo "normale", e i secondi quelli invece non prevedibili che vanno contro al tempo che regola le aspettative della nostra esistenza. Un esempio di evento normale è la morte di un genitore in età avanzata, mentre un esempio di untimely event è la morte di un figlio per un genitore. Quello che voglio dire è che anche la morte può avere significati

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molto diversi: una cosa è morire in età avanzata dopo una ricca e soddisfacente vita, e ben altra cosa è morire in età giovanile per l'infezione di un virus (magari preso in modo accidentale o a causa di un comportamento illegale, di cui ci si sente in colpa e che si è poi abbandonato). Non solo, ma l'impatto della morte varierà a seconda dei rispettivi significati che ad essa darà ogni singolo paziente, del suo sistema di valori (se è religioso e, nel caso, di quale religione, oppure non credente e, nel caso, quel è la sua "ideologia"), e soprattutto a seconda della sua maturità o struttura psicologica, cioè del suo apparato difensivo. In determinati casi e in un determinato momento del percorso esistenziale, può essere più facile sapere cosa dire a un giovane terminale che a una persona disperata per aver perso un congiunto in un incidente o addirittura per essere stata lasciata dal proprio partner (questo evento può da taluni esser considerato peggiore della morte, tanto da preferire il suicidio ad una separazione).

Proporrei dunque di non adottare una determinata concezione della morte, ma semplicemente una psicologia delle reazioni agli eventi di vita (cioè una "psicologia dell'adattamento", perché di questo si tratta), cioè di considerare la morte come un evento tra i tanti, con i suoi significati particolari che variano da caso a caso. Come abbiamo visto, questi significati non sono universali ma dipendono da variabili del paziente (età, aspettative, struttura psichica, valori, ecc.) e anche dell'operatore (suo modo di concepire la morte, sua ideologia, suoi lutti subiti, sue difese, ecc.). L'adozione di una normale psicologia dell'adattamento si presta maggiormente ad essere utilizzata in un'epoca di "pluralismo etico" quale è l'attuale, in quanto rispetta i significati che ciascuno dà alla morte ed agli altri eventi della vita. Essa ha inoltre il vantaggio di fornire un inquadramento generale all'approccio anche verso altre situazioni cliniche, senza rinchiuderci nel vicolo cieco di una determinata tecnica. In questo senso, parafrasando il titolo di questo scritto, potremmo allo stesso modo chiederci "che cosa si dice a un paziente non terminale", cioè quali sono i significati che egli attribuisce agli eventi della propria vita, qualunque essi siano, dai più piacevoli ai meno piacevoli.

Abbiamo detto che una delle variabili importanti da cui dipende l'approccio alla morte è la teoria alle spalle dell'operatore, la quale può essere anche espressione del suo sistema di valori o di credenze (i quali a loro volta possono dipendere dal grado con cui ha risolto determinati conflitti, quindi dalle sue difese). Vediamo brevemente alcuni esempi che possono essere espressione di diverse tanatologie, rispettivamente quella freudiana, quella antropofenomenologica, e quella religiosa.

Freud credeva in una tanatologia secondo la quale nessuno nel profondo crede nella propria morte, della quale abbiamo sempre paura così come il bambino ha paura del buio. Sarebbe insomma una mistificazione accettare la morte come parte della vita, perché nel profondo tutti noi ci ribelliamo ad essa e vorremmo vivere in eterno. Alcuni psicoanalisti inoltre possono interpretare la morte come "qualcos'altro", ad esempio come una castrazione o una separazione dalla madre: dietro vi è l'assunto che esistano determinate pulsioni primarie universali che si oppongono alla morte, alle separazioni, ecc. Una siffatta interpretazione della morte può avere un effetto benefico in alcuni casi, ma un effetto ansiogeno e peggiorativo in altri perché può trasmettere inconsciamente al paziente la sensazione che il terapeuta si difenda nei confronti della morte, come se dovesse negarla e spostarla su qualcos'altro tramite l'interpretazione. Altri psicoanalisti invece adottando un'altra tanatologia, e ritengono che la morte possa essere accettata dall'individuo come parte naturale della vita, non postulano cioè una paura universale della morte. Oggi cioè molti non credono più che i significati della morte debbano essere interpretati secondo schemi precostituiti, eppure va ricordato che la morte, così come qualunque altro evento, in un certo senso va sempre "interpretata" per essere elaborata, ridimensionata e accettata all'interno della nuova struttura di significati del paziente. Ad esempio, una frequente fantasia riguardo alla propria morte prematura è che essa ci viene data come giusta punizione per determinati nostri comportamenti (per la tossicomania, per un comportamento sessuale vissuto come illecito, oppure, come è tipico della fantasia di castrazione

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"edipica", anche per un successo nella vita o nella carriera vissuto come proibito). Interpretare al paziente queste dinamiche può aiutarlo molto, ad esempio diminuendo il suo senso di colpa. La mente umana, fin da quando siamo piccoli, ha sempre la tendenza a costruire significati, a instaurare connessioni causali tra gli eventi per dare loro un senso: una delle cose più difficili da accettare è che certi eventi non sono spiegabili, che sono fuori dal nostro controllo. Pensare che è "colpa nostra" è anche rassicurante perché ci dà una illusione di onnipotenza (come se ci dicessimo: "se sono io a causare la morte, posso anche eliminarla").

Se guardiamo invece all'approccio antropofenomenolgico (ad esempio quello di Binswanger), viene data l'indicazione di accettare la morte in quanto tale, cioè come fenomeno che non va interpretato ma semplicemente "vissuto" assieme al paziente; questo approccio può essere di grande giovamento, aiutando molti pazienti ad accettare la realtà che hanno di fronte senza utilizzare altre difese. E' anche possibile però che alcuni pazienti non siano capaci di entrare in contatto col sentimento della propria morte, e che abbiano un assoluto bisogno di negarla. L'antropofenomenologo in questo caso dovrebbe saper rispettare il mondo interno del paziente senza imporre proprie verità.

Infine, la tanatologia religiosa può confortare il paziente dandogli la speranza di una vita ultraterrena, per cui la paura della morte come interruzione di tutto può essere molto alleviata se non addirittura eliminata. Ma una rassicurazione religiosa può avere un effetto paradossale in un non credente se questi vi legge un tentativo di negare un evento che lui si sente pronto ad accettare (si ricordino le imprecazioni de Lo straniero di Camus [1942] che non si sentì affatto capito dal sacerdote che voleva consolarlo prima della sua esecuzione capitale).

Prima abbiamo visto che di fronte alla propria morte il paziente può reagire con determinate difese (come la negazione), così come avviene nel tipico percorso di chi subisce un lutto (prima una negazione, poi momenti alternanti di disperazione e indifferenza, poi una depressione di alcuni mesi, e infine eventualmente una accettazione e un maggiore adattamento). In tutti questi casi si tratta sempre del lavoro psicologico che il paziente deve fare per riaggiustare i suoi schemi mentali, consci e inconsci, i suoi piani di azione, le sue aspettative, e rinunciare a desideri che prima aveva. Come ci ha insegnato la psicologia del lutto [S. Freud, Lutto e melanconia, 1915, OSF, 8, pp. 102-118], è necessario un tempo ben preciso affinché il soggetto riesca a portare a termine questo lavoro psicologico e ad adattarsi alla sua nuova realtà. Così come la cicatrice di una ferita cutanea necessita di un determinato tempo per rimarginarsi, allo stesso modo una ristrutturazione dei significati della nostra esistenza necessita di un tempo (in genere più lungo di quello necessario per una ferita fisica) per renderci disponibili a nuovi progetti o aspettative (le nostre mappe neuronali sono plastiche, ma hanno i loro tempi). In tutti i casi, l'operatore deve fare una valutazione dell'equilibrio difensivo del paziente e dargli il giusto aiuto nell'imprimere una direzione al processo affinché avvenga nel più breve tempo e nel modo meno doloroso possibile, rimuovendo gli ostacoli che si possono frapporre (distorsioni cognitive, fraintendimenti, illusioni, modificazione di valori o trasmissione di nuovi valori più adattivi di quelli precedenti, e così via).

Psicoanalisi o psicoterapia?

Vorrei finire toccare il problema delle cosiddette indicazioni terapeutiche, dato che viene posto spesso da autori che affrontano il tema dell'approccio al paziente terminale. Alcuni si pongono il problema delle indicazioni e controindicazioni della psicoanalisi versus psicoterapia espressiva o supportiva per i pazienti terminali. Vi è anche chi discute se sia appropriata una qualunque forma di psicoterapia. A mio parere questi ragionamenti nascondono dei fraintendimenti della teoria della tecnica psicoanalitica, basati su una concezione ormai superata. Come ho scritto più volte (anche sulle pagine del Ruolo Terapeutico, ad esempio nei numeri 59/1992, 60/1992, 69/1995 e 86/2001),

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il problema non è quello di cosa si deve fare, ma di cosa si può fare. E' il paziente che ci impone la tecnica a seconda del suo assetto psicologico (tipico è il caso dei pericoli della interpretazione della difesa della negazione, nella prima fase del modello descritto prima). Ma il problema non riguarda solo l'approccio al giovane terminale, in quanto è identico a quello affrontato, nella storia della psicoanalisi, per i pazienti non considerati i "classici nevrotici" (cioè gli psicotici, i borderline, gli adolescenti, ecc.): anche in questo caso la questione non va posta nei termini di fare o non fare la psicoterapia, o di fare la psicoterapia o la psicoanalisi, ma di adattare la psicoanalisi a seconda dei vari ostacoli e problemi che si presentano. Allo stesso modo un paziente adulto nevrotico può non tollerare una minima ferita all'autostima ed impedirci di analizzare una sua difesa per un certo periodo dell'analisi. Il problema delle indicazioni, a questo riguardo, si riduce alla scelta di quanto tempo dedicare al paziente (quanti colloqui settimanali, o eventualmente quante visite domiciliari), e ciò dipende da fattori logistici, oltre che soggettivi, di entrambi paziente e operatore (quanto tempo e quali interventi entrambi paziente e operatore possono permettersi, data la rispettiva strutturazione emotiva e culturale).

Queste tematiche erano già implicite in psicoanalisi nella prima metà del secolo nelle formulazioni della Psicologia dell'Io (l'analisi delle difese, il punto di vista adattivo, ecc.). Alcuni autori recenti (come ad esempio Gill: Psicoanalisi e psicoterapia: una revisione. In: Del Corno F. & Lang M., a cura di, Psicologia Clinica. Vol. 4: Trattamenti in setting individuale. Milano: Franco Angeli, 1989, pp. 128-157, pubblicato su Internet al sito http://www.publinet.it/pol/ital/10a-Gill.htm), sulla scia degli psicoanalisti della scuola interpersonale, hanno perfezionato queste teorizzazioni proponendo un abbattimento della barriera tra psicoanalisi e psicoterapia. Per un approfondimento di questa problematica, rimando al cap. 4 del mio libro Terapia psicoanalitica, Milano: Franco Angeli, 1995.

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E M O Z I O N E E S E N T I M E N T I N E L L A V O R O E D U C A T I V O E S O C I A L E

IN LISTA PER VIVERE

La convivenza di anni con un coniuge gravemente ammalato può essere distruttiva e inquinare anche i sentimenti più nobili, soprattutto se coincide con il fiore della maturità. Da un lato, infatti, ci sono i figli piccoli o adolescenti da crescere e da tutelare, dall'altro i genitori anziani da rassicurare e proteggere, e al centro l'ammalato, con le sue sofferenze fisiche e psicologiche e i suoi innumerevoli bisogni.

È impossibile conciliare le esigenze di tutti, a qualcosa si deve sempre rinunciare, in primo luogo al proprio diritto ad una vita normale. Il percorso diventa tortuoso e confuso, si perdono le coordinate della vita.

Qualunque cosa si faccia, ci si sente in colpa verso qualcuno; ogni posto in cui ci si trova, ci sembra sempre il posto sbagliato. Nei momenti più duri si arriva a desiderare che tutto finisca. Quando poi la persona cara muore, il senso di colpa per non aver fatto abbastanza e per essere sopravvissuti diventa persecutorio, ossessivo. Ho voluto ripercorrere le fasi della sofferenza di mio marito innanzitutto per mantenere viva la memoria del suo coraggio e della sua profonda umanità, ma anche per scacciare la paura dei ricordi e identificare i fantasmi che mi hanno tormentata nella penombra degli interminabili anni del dolore. Possano queste pagine aiutare chi sta vivendo una tragedia familiare simile alla nostra, nei diversi ruoli, a non vergognarsi delle proprie inevitabili miserie e a non lasciarsi distruggere dai sensi di colpa.

Gli innumerevoli patimenti provocati dall'assistenza ad un ammalato grave, in casa o in strutture sanitarie spesso inadeguate, potrebbero essere alleviati da una diversa qualità dell'intervento degli operatori del settore e da un'organizzazione più capillare delle associazioni di volontariato.

Ogni giorno c'è chi muore nell'abbandono; c'è chi, per sfuggire ad una sofferenza fisica resa ancora più insopportabile dalla Solitudine, con "le sue caverne e i suoi pensieri oscuri", decide di porre fine alla propria esistenza. Le liste d'attesa per i trapianti sono molto lunghe. Qualcuno, in questa attesa, cessa di vivere. Altri invece vengono miracolosamente salvati dal dono di un organo da parte di chi ha disposto di accendere un'altra vita andandosene da questo mondo. Un mondo dove ancora oggi gli infermi e i loro familiari vivono, troppo spesso, in condizioni drammatiche di isolamento e di deprivazione, anche perché, nonostante le informazioni dei massmedia, rimane carente la cultura della donazione, dell'accudimento e della solidarietà.

Gli uomini blu

Quel mattino, alle prime luci dell'alba, Rameres mi ha svegliata rantolando. Tentava di alzarsi dal letto, ma le gambe non lo sostenevano. Parlava confusamente. Ho chiamato l'ambulanza.

I portantini volevano distenderlo sulla barella, ma lui si è rifiutato irosamente: "Voglio uscire con le mie gambe". Vacillava. I portantini insistevano. La nostra piccola Sofia, di sette anni, già pronta per andare a scuola, si è addossata alla porta d'ingresso a braccia aperte, per sbarrare il passaggio, urlando tra le lacrime: "Lasciatelo stare, il mio papà può camminare da solo. E poi non è caduto, non sanguina neanche!". Io li ho supplicati: "Accendete le sirene un po' più in là". Poi l'ho accompagnata a scuola, lasciandola nel grande corridoio, e mi sono precipitata all'ospedale. Prima Montecchio, dopo poche ore Parma: si era liberato un posto nel polmone d'acciaio.

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Mia madre e Diana, mia cognata, mi hanno raggiunta immediatamente. I medici ci hanno fatto attendere nel reparto, poi mi hanno concesso una breve visita a mio marito nella stanza del respiro artificiale. È inesprimibile il pathos di quel momento. Il polmone d'acciaio è un respiratore automatico, un lungo cilindro metallico nel quale viene introdotto l'ammalato, con la testa sporgente appoggiata ad un cuscino. Emette un rumore ciclico, come di un mantice che aspira l'aria, dilatandosi fino allo spasimo, con una sorta di lamento, poi espira con un gemito che pare dissolvere il respiro. Per un attimo sembra che non debba più ricominciare. E invece riprende subito, colonna sonora incessante che accompagna la vita del reparto e che si incide indelebilmente nella memoria di chi l'ha udita anche una sola volta. Ho accarezzato la testa di Ram e lui ha sorriso. Mi ha sussurrato: "Non preoccuparti, sto già meglio". Ho capito per la prima volta il significato profondo della parola crepacuore. Quando sono tornata in città per riprendere nostra figlia, la maestra mi ha raccontato che Sofia è entrata in aula, insolitamente non accompagnata da uno dei suoi genitori, con il faccino gonfio di lacrime trattenute e ha dovuto giustificare da sola il ritardo: "Il mio papà è andato in ospedale perché stava molto male. È tossicodipendente". Stupore incredulo dell'insegnante. "Sì, ha spiegato lei ha sempre la tosse che non lo fa respirare, ma quando non ce l'ha sta bene". L'indomani ho portato in visita con me la madre di Ram. Benché sofferente di cuore, ha insistito per vedere suo figlio. Alla vista del polmone d'acciaio è impallidita, aveva la voce tremante e occhi di pianto, ma ancora una volta non ha accettato di riconoscere la realtà. Sulla strada del ritorno ha commentato: "Secondo me i dottori si sono sbagliati, come al solito hanno esagerato". Reazione prevedibile. Da sempre negava l'evidenza, oppressa dai sensi di colpa. Non aveva mai ammesso la malattia del figlio, probabilmente perché la considerava come una sorta di punizione che il destino le aveva crudelmente inflitto per la sua leggerezza giovanile e si difendeva dalla sofferenza negando. Lo aveva concepito a vent'anni, con un uomo sposato che non lo riconobbe mai come figlio. L'aveva affidato ai propri genitori, braccianti di una frazione di campagna, per poter lavorare. Era infermiera a tempo pieno nell'ospedale di Parma, che poteva raggiungere da Reggio solo in bicicletta. Le restava perciò ben poco tempo da dedicare al bambino, che crebbe molto solo, sofferente per l'assenza della madre, asmatico e con il complesso insopportabile di essere designato in tutti i documenti come figlio di N.N. e di dovere dichiarare a scuola, davanti ai compagni di classe, di essere figlio di padre ignoto.

La madre lo amava in modo viscerale, e cercava di farsi perdonare per il poco tempo che gli dedicava con regali, denaro, e con un eccesso di permissività che la portò fino all'errore estremo di consentirgli di fumare all'età di tredici anni. Per questa madre sventata, istintiva e generosa, il ragazzo nutriva un amore molto contraddittorio. Ne era morbosamente geloso e la proteggeva con atteggiamenti di tipo paterno, sempre pronto a soddisfare ogni suo bisogno, ma talvolta manifestava verso di lei sentimenti di rancore e di insofferenza. Quando era costretto a letto da una crisi respiratoria, la riceveva con malagrazia, irritandosi soprattutto se lei cercava di minimizzare la sua sofferenza o di falsificarne le cause, attribuendola al tempo e altre sciocchezze. Ma quando era la madre ad avere qualche problema di salute, lui si inquietava e l'assisteva con pazienza e disponibilità totale, sopportandone anche le stranezze e i capricci. Al ritorno da Parma anch'io mi irritai, come altre volte, per la sua affermazione, e le risposi con spietata durezza che le condizioni di suo figlio erano gravissime.

Non potevo sopportare la sua ostinazione nel negare la malattia, anche in un momento così drammatico, per tacitare la coscienza. Solo più tardi, con una nuova maturità forgiata dal dolore, ho capito quanto avesse sofferto per questo figlio non voluto, schiacciata dal peso della responsabilità di averlo messo al mondo in condizioni così avverse. Alcuni giorni dopo il ricovero di Ram, il Vescovo di Parma è salito su nel reparto ospedaliero per impartire la benedizione pasquale. Qualche ammalato era disteso nel letto, con il volto coperto dalla maschera dell'ossigeno, qualcuno era infilato nel polmone, con la sola testa fuori dal grande cilindro, altri sedevano sulle panchine del corridoio con i tubicini nel naso e lo sguardo sperduto.

Il Vescovo si è guardato attorno con un'espressione di intenso dolore. Ha recitato una preghiera, ha pronunciato parole di conforto, poi, con umiltà e discrezione, ha lasciato sommessamente quell'ultimo piano della sofferenza, quei suoi figli così prossimi alla casa del Signore.

Gli uomini di lassù sono già vicini al cielo, ne hanno anche il colore: bluastre le labbra, la fronte, le unghie. Non c'è ossigeno alle massime altitudini. Negli occhi e sulle bocche contratte dei familiari potevo leggere la mia stessa accorata invocazione, una nostra speciale preghiera: "Dio dell'Universo, chiunque tu sia, soccorrici. Guarda mio marito, guarda mio padre, guarda mio figlio. Ha una maschera verde sul viso

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collegata ad un lungo tubo infisso nel muro. Non può togliersela mai, e per andare al bagno trascina il tubo, come un cane al guinzaglio.

Qualche ora nel polmone d'acciaio, lunghe ore nel letto con la maschera dell'ossigeno, qualche passo al guinzaglio. Dio dell'Universo, così è scandito il tempo degli uomini blu".

Era il mese di Marzo del 1989.

Un giorno dopo l'altro

Dopo circa un mese, Rameres è stato dimesso dall'ospedale con la diagnosi di insufficienza respiratoria terminale da enfisema polmonare. "Il paziente è ossigenodipendente per 24 ore al giorno": una sentenza terribile, che significava bombola dell'ossigeno con maschera a lato del letto e, per gli inevitabili spostamenti, un contenitore a tracolla, a forma di borsello metallico, collegato a due tubicini da infilare nel naso. Inoltre, il paziente doveva assumere cortisone in dosi elevate, teofillina sempre e antibiotici al bisogno, e sottoporsi con frequenza settimanale, salvo imprevisti, all'emogasanalisi, per controllare gli scambi gassosi, vale a dire il grado di ossigenazione del sangue (rilevabile anche, più superficialmente, dal colore delle unghie). Quando era stato ricoverato a Parma, le sue unghie erano scure.

Da allora, se le guardava ossessivamente. Sull'automobile abbiamo dovuto mettere il cartellino arancione con il simbolo della sedia a rotelle: riconoscimento ufficiale dell'invalidità, che permetteva di circolare in centro. Subito abbiamo provato un senso di vergogna, forse di pudore, poi cinicamente abbiamo cominciato a sfruttarne i vantaggi. Risale a quel primo periodo di malessere psicologico un episodio traumatico: mentre passeggiavamo in città, dopo avere comodamente parcheggiato l'auto a poca distanza, l'invalido è crollato a terra davanti a un bar, perché le gambe poco ossigenate non potevano più reggerlo. È rimasto a terra per qualche minuto, con un'espressione stranita. I passanti lo guardavano con disprezzo, convinti che fosse ubriaco. Perdonami, Ram, io avrei voluto non esserci. Ti ho soccorso, ma con l'aria di non conoscerti, di averti incontrato per caso. Un giorno è caduto dalla scala di casa, mentre saliva in camera da letto. È precipitato all'indietro e il tonfo del suo corpo è stato preceduto dal rumore del borsello metallico che, sfilandosi dalla spalla, si è abbattuto sul pavimento. La nostra piccola, seduta sul divano del salotto davanti ai cartoni animati, è accorsa terrorizzata. Angelo mio, spero che tu abbia capito che non ho potuto prenderti tra le braccia e rassicurarti perché dovevo soccorrere tuo padre. Mesi d'inferno.

La tosse continua, che impediva il riposo; il catarro ripugnante; le cadute. Il via vai dei grossi contenitori dell'ossigeno liquido (in sostituzione delle bombole), che comportava ogni volta il faticoso spostamento di qualche mobile negli spazi ristretti della nostra casa. Qualche giorno prima del Natale, i manovali dell'ossigeno, durante un trasporto, hanno sbadatamente travolto il presepe preparato con tanta cura sul tavolino d'ingresso. Pastori, angeli, pecorelle, muschio e fiocchi di neve volavano dappertutto. Sofia piangeva, inconsolabile.

Si è rivolta a suo padre e gli ha gridato furiosa: "È tutta colpa tua!". Poi si è disperata per averlo detto. Il depliant illustrativo del contenitore dell'ossigeno raffigurava in prima pagina un papà sorridente, con i tubicini nel naso, intento a giocare con i suoi piccoli altrettanto gioiosi.

Il nostro papà, indicando quell'immagine, sosteneva, in tono leggermente ironico, che forse si può davvero convivere con bombole, tubi, maschere e borselli, e che la nostra vita non doveva cambiare. Però, a parte qualche momento sereno in cui coraggiosamente dominava la realtà, dimostrando una straordinaria capacità di rimozione, si manifestava ogni giorno di più, in lui, la tendenza a vivere ripiegato sul suo male, con accessi di insofferenza e di collera. Intanto la sua figura si incurvava e si gonfiava, il ventre sporgeva in modo grottesco, i lineamenti del volto erano contraffatti dal cortisone e sulla pelle delle mani cominciavano a comparire macchie di colore rosso cupo o violaceo. Purtroppo era già in corso una malattia tumorale di cui

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ben presto avremmo conosciuto il nome e l'origine. Talvolta lo guardavo in silenzio, ma con un ormai inarrestabile pianto interiore: "No, non è questo l'uomo che ho scelto". Non potevo sopportare lo scempio di quel corpo, un tempo amato e desiderato, che ora si corrompeva giorno dopo giorno davanti ai miei occhi. Ram, per me era una sofferenza sottostare ai tuoi abbracci, e tu lo avvertivi con immenso dolore. Lascia che ti abbracci io, ora, attraverso le stelle, e ti dica tutto il rimpianto e il rimorso di non essere riuscita ad amarti come prima.

Le mani

Il sarcoma di Kaposi.

Alcuni mesi dopo il ricovero nel polmone d'acciaio, il mio compagno, già così provato, ha dovuto prendere atto con disperazione che nella sua pelle qualcosa stava cambiando: apparivano sempre più spesso ferite anche lievi che però sanguinavano in modo anomalo. Le macchie che erano comparse sulle mani si ingrandivano lentamente e cominciavano ad apparire anche sui piedi. Somigliavano sempre più a grumi di sangue rappreso sotto la pelle e tendevano ad ulcerarsi. Durante un ricovero nell'ospedale della nostra città, a seguito di una violenta crisi respiratoria, i medici hanno sottoposto un campione di pelle all'esame istologico.

Il referto è stato immediato e inequivocabile: morbo di Kaposi, un tumore che colpisce le persone immunodepresse. In quel caso l'immunodepressione era stata provocata dall'uso prolungato di cortisone ad alti dosaggi. Rameres aveva affrontato con pacata rassegnazione i tubicini nel naso (li portava anche in ufficio, con una certa disinvoltura) e l'ossigeno a letto, ma ora non tollerava le macchie, soprattutto quelle sulle mani, sempre visibili a tutti. Le mani: mani per scrivere, per toccare oggetti, per accarezzare. Mani per stringere altre mani. Non sapeva come nasconderle, continuamente se le guardava e rigirava con ribrezzo per controllare l'estensione delle lesioni. Abbiamo cercato leggeri guanti di filo, ma si sentiva legato e ridicolo, ancora più esposto alla curiosità della gente.

Dopo una festa nella casa di campagna di un'amica della nostra piccola, ha avuto una crisi di furore: "Hai visto che tutti mi guardavano le mani? Mi sono sentito impestato, ripugnante. Perché sono venuto con voi? Non dovevi portarmi, non dovevi!". Insorgeva a poco a poco in lui il bisogno di nascondersi, perché ormai si sentiva un diverso.

Un uomo ai margini della processione. Una vita a perdere.

Si parla di trapianto

Febbraio 1991.

A meno di due anni dal ricovero nel polmone d'acciaio, un'altra notte di tormenti e un'alba drammatica. È accorso il nuovo medico di famiglia, un giovane competente e ostinato, sempre disponibile, deciso a usare tutti i mezzi per combattere la malattia. Ha praticato al malato le prime cure, senza nasconderci la sua preoccupazione e riservandosi di vedere come si sarebbe sviluppata la situazione nelle prossime ore prima di decidere un eventuale ricovero in ospedale. La notizia allarmante si è subito sparsa e, nel corso della giornata, diverse persone si sono alternate al capezzale del malato. Parenti, amici, colleghi. La vecchia madre, angosciosa personificazione del dolore incredulo e impotente. Tutti portavano conforto, libri, cioccolatini. Arrivavano con il viso contratto dall'ansia, ma su, in camera da letto, si scioglievano in forzati sorrisi di incoraggiamento e cercavano di convincere Ram che, assistito e temprato com'era, sarebbe guarito in breve tempo. Lui rantolava e tossiva penosamente. Nei rari momenti di tregua dal dolore dichiarava, ora supplice ora incattivito, che non voleva andare in ospedale; ci chiedeva di impedire che lo usassero come oggetto di esperimenti scientifici. Si era infatti convinto di essere un mostro, una creatura anomala di cui la Scienza avrebbe voluto impadronirsi per scoprirne i meccanismi infernali.

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Il medico, tra una visita e l'altra, ha tenuto la situazione sotto controllo fino a tarda sera. Quando se n'è andato, e tutti se ne sono andati, mi sono coricata nella camera della piccola. Nel silenzio della notte, ascoltavamo insieme la tosse rabbiosa e l'ormai noto rumore degli sputi nel catino.

Ogni volta che entravo nella stanza di mio marito sentivo di incrociare le ali della Morte. Forse l'ho desiderata, forse ho sperato che quel povero corpo straziato dalla sofferenza si spegnesse prima dell'alba. E invece al mattino lui era vivo, cianotico e piagato, sfinito dalla tosse e febbricitante, ma vivo.

È stato indispensabile il ricovero in ospedale, nel reparto di Pneumologia del Santa Maria Nuova: il giovane medico non aveva più risorse.

L'hanno bombardato di cortisone e di esami; dopo pochi giorni il primario ha emesso la sentenza: la malattia era in fase terminale, si poteva sperare al massimo in sette mesi di vita. Sette mesi? perché proprio sette? Come si calcola la spettanza di vita di una persona? Come si attende insieme a lei, a sua madre, a sua figlia, una morte annunciata con tanta precisione? Che cosa accadrà di nuovo in questi sette mesi, quali altri insulti dovrà subire quel povero corpo martoriato? Come reagirà quello spirito di combattente nella lotta impari contro un nemico insidioso e imbattibile?

A meno che…Dopo la sentenza di morte il primario ha detto che si poteva considerare un'altra opportunità: il trapianto di polmone. Operazione allora rarissima, praticata solo in pochi paesi, tra cui non figurava l'Italia.

Il nostro medico si è subito documentato sul problema e ha individuato l'ospedale di Bordeaux, in Francia, come principale punto di riferimento.

Ha spedito una dettagliata relazione sulle condizioni del paziente ai referenti francesi, chiedendo di inserirlo nella lista d'attesa per il trapianto.

A questa iniziativa sono seguiti giorni di speranza, momenti di gioia. Non sarebbe stata una prova facile, la riuscita non poteva certo essere garantita, ma Rameres era fiducioso, pronto a lottare a qualunque prezzo. Ricominciò a fare progetti; talvolta mi chiedeva scherzosamente: "Mi vorrai ancora bene quando avrò il pezzo di ricambio?". Dopo circa due settimane arrivò la risposta da Bordeaux: l'intervento non era possibile.

Il giovane medico mi spiegò in sintesi le motivazioni. Troppo avanzata l'età del paziente (cinquantuno anni); il sarcoma di Kaposi costituiva un'ulteriore aggravante; non si potevano sprecare organi rari, difficilmente reperibili e compatibili come i polmoni, in operazioni destinate con molte probabilità all'insuccesso; la lista d'attesa dei pazienti francesi, con diritto di precedenza, più giovani e in condizioni di salute migliori, era già molto lunga. Intanto io avevo rinnovato la mia carta d'identità che stava per scadere e avevo ottenuto il permesso di espatrio per la nostra piccola. Non l'avremmo lasciato solo. Noi tre eravamo pronti per partire insieme. Per qualunque destinazione. Il medico mi consigliò di tacere al paziente il rifiuto dell'ospedale francese, ma lui lo intuì. Mi chiedeva: "Hanno risposto?", e io: "Non ancora". Una volta pianse e disse semplicemente: "Ho capito".

Pochi giorni dopo questo momento di disperazione, accadde un fatto straordinario. La televisione e la stampa divulgarono subito la grande notizia: al Policlinico di Milano era stato effettuato con successo il primo trapianto di polmone su un paziente di cinquant'anni. Il nostro dottore partì subito per Milano con la cartella clinica di Rameres, incontrò il grande chirurgo, il prof. P., e ritornò con la risposta: il paziente sarebbe stato ricoverato al più presto nel nosocomio milanese per "…essere sottoposto a valutazione per trapianto polmonare". Avrebbe affrontato un complesso iter diagnostico clinico e strumentale e un'intensa terapia riabilitativa. Se non fossero emerse controindicazioni, sarebbe stato il secondo della lista.

Era una scommessa con il destino, la posta in gioco era altissima, ma lui era sicuro di vincere. Ricominciò a fare progetti. Andò in pensione e depositò la liquidazione in banca per garantire a nostra figlia la possibilità di continuare gli studi, qualunque cosa accadesse. Un mese dopo lo chiamarono e così partimmo per Milano. Il cosiddetto viaggio della speranza.

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La prima cosa che aveva messo in valigia era una fotografia in primo piano di Sofia: il visino sorridente sotto un cappellino bianco a tese larghe, ornato da un nastro azzurro con i brillantini. Era la sua preferita, diceva che in quell'immagine la piccola sembrava una principessa. Quando varcò il cancello di casa tra i saluti dei vicini, mi si spezzò il cuore. Forse non avrebbe più rivisto il pesco selvatico che amava tanto, il grande pino che era stato per anni il nostro maestoso albero di natale e tutti gli arbusti che aveva fatto piantare recentemente e di cui aspettava di ammirare la crescita e la fioritura. Lui invece partì commosso ma molto determinato e fiducioso. Aveva di nuovo la possibilità di combattere e di sperare, non doveva più aspettare di consegnarsi inerme alla morte. Aveva sognato molto su Milano: Milano capitale del progresso economico e scientifico; Milano capitale della Medicina. Ippocrate abitava lì.

Il corridoio

Siamo arrivati al Policlinico in tre, tu, mio fratello Giuliano ed io, viaggiando in automobile attraverso una densa nebbia. Il reparto che ci ha accolto era squallido, grigio, disadorno, attraversato da un vasto corridoio che aveva come unico ornamento qualche sedia di metallo. Vi si accedeva attraverso una scala stretta o un cigolante ascensore d'anteguerra. Voi conversavate tranquillamente, mentre io ero impietrita dall'angoscia. Ma cosa avevo immaginato, una clinica luminosa con vasi di fiori e quadri alle pareti? Che diritti ha un malato grave che trattiene la vita per i capelli? Quali ambienti fastosi può mai pretendere?

Ti hanno subito assegnato la stanza, già occupata dall'altro paziente in attesa di trapianto. Avreste aspettato insieme, per qualche tempo, l'arrivo del traghetto. Ad ogni ricovero, non ho mai sopportato senza piangere di vederti disfare la valigia, indossare il pigiama e disporre le tue cose nello spazio consentito. Gli abiti e le scarpe nell'armadietto di metallo. Le ciabatte a fianco del letto, la coppia degli asciugamani in fondo al letto. La carta igienica in fondo al comodino, gli oggetti personali nel cassetto. Questo rituale dell'insediamento, che sancisce l'abbandono delle abitudini e delle cose appartenenti all'ordinaria quotidianità e confina la vita in uno spazio minimo, circoscritto, controllato, esposto a tutti, mi commuove in ogni ospedale, per ogni paziente che visito o che semplicemente intravedo.

E così ti ho abbandonato nei tuoi pochi metri quadri di speranza, e sono tornata a casa con la sensazione di averti tradito, di averti lasciato solo a giocare la tua partita con la Morte. Ormai appartenevi ad un altro pianeta, ad una dimensione spaziale e temporale lontana da me mille anni luce.

Sola, in giro per le stanze mute, cercavo il rumore della tua tosse. Ero smarrita. Accarezzavo i tuoi abiti nell'armadio, gli oggetti che ti appartenevano, e mi struggevo nei dubbi e nella nostalgia. Era maggio, tempo di scuola, perciò potevo venire da te con Sofia solo alla domenica. Tu da Milano telefonavi ogni giorno, sereno e rassicurante. Nel grande corridoio del reparto c'era un telefono a gettoni: lo raggiungevi con il guinzaglio e ci raccontavi i tuoi progressi. Ti stavano riducendo gradualmente il cortisone, le tue difese aumentavano e il morbo di Kaposi regrediva.

Ti sottoponevano a innumerevoli esami per valutare se il tuo organismo sarebbe stato in grado di sopportare un trapianto. Avevi superato i confini del letto e conquistato un nuovo spazio: il corridoio. Non più soltanto come luogo per telefonare, ma come palestra. Lungo il corridoio, infatti, dovevi esercitarti a spingere un carrello, più e più volte avanti e indietro, mentre un apparecchio misurava la tua capacità respiratoria. Il grande corridoio era diventato anche la tua agorà, il luogo per socializzare con gli altri degenti del reparto (purtroppo però ciò era raramente possibile a causa delle loro gravi condizioni) e per intrattenere familiari e amici. Quando arrivavo, intravedevo da lontano la tua figura solitaria nel corridoio troppo spesso deserto. Ci stavi aspettando, impaziente e radioso. Illuminato da una luce interiore, con la pelle incredibilmente schiarita dalle cure, sembravi una creatura astrale, impastata di luna e di solitudine. Si percepiva che vivevi introiettato in un tuo mondo esclusivo di terapie, carrelli, esami, piccoli progressi quotidiani, congetture, fantasie alterne di vita e di morte. Spiavi attentamente l'espressione dei medici, ti chiedevi e mi chiedevi quale sentenza avrebbero emesso. Quando ripartivo, mi tormentava sempre la stessa sensazione di averti tradito, lasciandoti solo a combattere una battaglia superiore alle tue forze, dall'esito troppo incerto. Tu ci salutavi dal corridoio e rimanevi là, nella penombra del tardo pomeriggio, quando ancora le luci non erano

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accese e la tua unica distrazione era guardare quello che ti si offriva dalle finestre: il grande cortile centrale, spesso occupato da ambulanze, e, tutt'intorno, gli altri severi padiglioni dell'ospedale. Quel corridoio desolante, inanimato, e il tuo passo faticoso per raggiungere il telefono murale che ti consentiva di mantenere i contatti con il mondo dei tuoi affetti, uscendo dal limbo della separatezza e della deprivazione.

Ti mancavano i tuoi cari, ma ti mancavano anche gli amici e i compagni con i quali avevi condiviso per decenni una forte passione politica.

La tua degenza non è durata giorni, né settimane, ma mesi. Mesi di primavera inoltrata, mesi d'estate, quando le giornate sono interminabili e sembra che non debba mai sopraggiungere la notte. Credo che, lungo il calvario di quel tempo senza fine, tu abbia potuto resistere agli agguati dello sconforto, ai fantasmi evocati dalla solitudine e dalla noia unicamente perché eri sorretto dalla formidabile speranza di riprenderti la Vita. Fin dall'inizio della degenza, avevi stabilito un buon rapporto con il cappellano del reparto. Benché non religioso, ti interessavi ai testi sacri, e discutevi volentieri con il Sacerdote sui passi più controversi della Bibbia. Gli chiedesti anche di concederti l'Estrema Unzione, nell'eventuale imminenza della fine.

Forse, nelle tue meditazioni sulla morte, si era fatto strada in te il bisogno di credere nell'aldilà, nell'immortalità dell'anima, nei verdi pascoli del cielo, da cui avresti voluto continuare a vederci e a proteggerci.

Papà, c'è posta dalla 3^ A

Quando la maestra di Sofia fu da me informata del ricovero a Milano di mio marito e delle prospettive di trapianto, reagì in modo straordinario. Donna religiosa, di profonda umanità, interessò tutta la classe (una terza elementare) al nostro dramma e Rameres diventò il Papà di tutti i bambini. Nella preghiera del mattino, prima dell'inizio delle lezioni, gli scolaretti chiedevano a Dio di vegliare su di lui e sulla nostra famiglia.

Ogni progresso veniva festeggiato con l'erbazzone della nonna Ave. Sofia non era sola, si sentiva importante, al centro di eventi speciali di cui parlava in classe con competenza e decoro, alimentando la curiosità e la partecipazione affettuosa dei compagni. Nutriva una fiducia incondizionata nella sua maestra e asseriva con convinzione: "Il papà guarirà presto, l'ha detto l'Annita!". Incominciò anche un fitto scambio epistolare tra la classe e il Papà. I bambini scrivevano lettere al Papà, io gliele portavo, lui rispondeva.

Un giorno la classe mi affidò un paccoregalo da recapitargli. Quando lo aprì, sorridemmo commossi: conteneva una biro usata ma di bell'aspetto, carta da lettere e qualche caramella. Un tesoro inestimabile.

Ram mi pregò di far pervenire ai bambini un vassoio di paste assieme alla sua lettera di ringraziamento. Mi chiedo ancora come avrebbe vissuto Sofia la drammatica lontananza del padre senza questa solidarietà infantile, ma molto forte e determinata. Grazie a voi, Giulia, Francesca, Carlo Alberto, Marco, Marina, e a tutti gli altri. Grazie soprattutto a te, Chiara, amica di sempre.

Spero che la partecipazione alla nostra sofferenza vi abbia aiutati a crescere, insegnandovi precocemente quanto possa essere difficile il mestiere di vivere. Alla fine del mese di Maggio, Sofia avrebbe ricevuto la Prima Comunione. Era credente, frequentava le lezioni di catechismo e si preparava a ricevere il sacramento con molta serietà. La sera prima del grande giorno, si sarebbe esibita in un teatro comunale, in occasione del saggio finale del corso di musica, suonando al pianoforte il brano "In a quiet forest". L'attendevano dunque due appuntamenti straordinari. Suo padre era molto partecipe e avrebbe voluto essere presente. Chiese ai medici il permesso di tornare a casa per tre giorni. Mentre aspettavamo la risposta, io ero agitata da sentimenti contrastanti.

Da un lato desideravo la sua presenza accanto alla bambina, dall'altro temevo che, interrompendo la terapia, potesse sentirsi male e compromettere la gioia di quei momenti tanto attesi. Riaffioravano i fantasmi del recente passato: le notti insonni per la tosse, le crisi respiratorie, le cadute, gli accessi di disperazione, le rinunce. Quando seppi che il ritorno a casa gli era stato sconsigliato, mi sentii infelice ma nello stesso tempo

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sollevata. Lui ne soffrì molto e telefonò alla piccola per farle gli auguri con la voce rotta dalla commozione. La sera del concerto avevo il cuore gonfio di pena; i nonni piansero.

Il giorno dopo, nella chiesa addobbata di fiori e candele, osservavo con amarezza i padri eleganti e orgogliosi che si predisponevano ad attendere i piccoli comunicandi per immortalarli con macchine fotografiche e cineprese. I bambini entrarono in fila, vestiti di un saio bianco. Le femmine avevano una coroncina di fiori tra i capelli e un giglio in mano. Si disposero a semicerchio davanti all'altare, ognuno con un genitore alle spalle. Quando i ragazzi della parrocchia intonarono i canti religiosi accompagnandosi con le chitarre, si creò un'atmosfera di toccante spiritualità. Io tenevo la mano sulla spalla della mia monachella e mi tremavano le gambe. Sofia era compunta e felice. Nei primi banchi della chiesa c'erano la sua maestra e alcuni compagni di classe: nell'ultima lettera l'avevano promesso al Papà.

Dopo la cerimonia andammo al ristorante con i nonni, alcuni parenti e qualche amichetta. Quando i camerieri ci condussero nella stanza che ci era stata riservata, ci arrestammo sulla soglia sbalorditi e commossi. Al centro del tavolo campeggiava una splendida composizione di fiori bianchi e nastri di seta. Tra i fiori un biglietto: "A Sofia, con amore, dal suo papà".

Il dono

Dopo due mesi di cure e di esami, il grande chirurgo si pronunciò: il trapianto si poteva fare. Chiese di parlare con i familiari. Andammo al colloquio Giuliano ed io.

Fummo ricevuti nello studio del professore. Anche Rameres era presente, emozionato, intimidito, riconoscente. Era seduto in disparte, nella sua solitudine lunare, e aspettava che si parlasse di lui, delle sue prospettive, delle percentuali statistiche di vita e di morte. L'assistente del chirurgo, il dottor Z., presentò una relazione molto dettagliata, semplificando per noi le parti più specialistiche, e concluse affermando che gli accertamenti compiuti e i risultati raggiunti con la terapia lasciavano intravedere buone possibilità di riuscita dell'operazione. L'unica controindicazione era costituita dal morbo di Kaposi, ma ancora non c'era abbastanza letteratura in materia per scoraggiare l'intervento: conveniva dunque tentare.

I sette mesi di vita potevano diventare qualche anno in più. Chi avrebbe rinunciato? Chi si sarebbe lasciato sfuggire l'occasione di sfidare il destino allontanando una morte annunciata, così palesemente incombente? Dopo alcuni minuti carichi di emozione, il professore si rivolse all'interessato con straordinaria gentilezza e signorilità.

Gli chiese se era disposto, dopo il trapianto, a sottoporsi a controlli periodici, settimanali nei primi mesi, poi più distanziati, e ad assumere con regolarità i pesanti farmaci antirigetto oltre a quelli ormai abituali (broncodilatatori, antibiotici, antinfiammatori, diuretici e via dicendo). Voleva garanzie di collaborazione totale, anche perché il polmone trapiantato non poteva essere sprecato. Si era sparsa la voce del "miracolo" di Milano e la lista d'attesa si era notevolmente allungata. Rameres sarebbe rimasto il secondo.

Prima il signor C., suo compagno di stanza, poi lui. Poteva essere un'attesa breve, di poche settimane. Noi tre ascoltavamo in silenzio. La speranza e l'angoscia si intrecciavano nei nostri cuori. Poi Ram parlò. Pacatamente. Lucidamente. Dava il suo consenso, garantiva la massima collaborazione prima e dopo l'intervento. Non aveva paura. Voleva vivere, pagando il prezzo necessario. Se gli tremava la voce, era solo per la commozione. Lo accompagnammo nel corridoio dei nostri incontri, e lì lo lasciammo, un po' trasognato, a vagheggiare nuove primavere e i fiori rosa del pesco selvatico. Nel salutarci, raccomandò scherzosamente: "Tenetevi pronti". Pronti ad accorrere quando fosse arrivato il suo momento, quando si fosse trovato l'organo compatibile. Era inevitabile che un uomo morisse e facesse dono di sé: questa la condizione perché mio marito potesse vivere. Ram aveva scherzato sul tema dei pezzi di ricambio finché il progetto del trapianto era stato incerto e remoto. Ora che diventava praticabile e imminente, cominciava a manifestare qualche crisi di panico.

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Lo turbava il pensiero di poter vivere grazie alla morte di qualcuno. Pensava a quel "qualcuno", ancora senza un nome, senza un volto e senza età, alla sua famiglia, e si sentiva come un ladro. D'altra parte lui stesso, per primo, non avrebbe esitato a donare gli organi. Fin dai tempi del primo trapianto di cuore, quando ancora non poteva presagire il suo drammatico futuro, aveva sostenuto appassionatamente la necessità di arricchire e divulgare le conoscenze scientifiche sul tema della donazione degli organi, allora molto scarse e distorte. I medici gli chiesero se voleva conoscere i familiari del donatore, dopo il trapianto.

Rifletté a lungo, poi rispose di no. Provato com'era, non si sentiva in grado di reggere emotivamente l'incontro con persone lacerate dal dolore per la perdita di un figlio, o padre, o fratello, della cui morte si era in qualche modo avvantaggiato. Avrebbe espresso riconoscenza eterna e il più alto apprezzamento per quell'ineffabile atto d'amore, ma incontrarli no, sarebbe stato troppo sconvolgente. Verso la metà di luglio venne operato il signor C., con un preavviso di poche ore. Si trovava in uno stato di grave depressione perché, circa dieci giorni prima, lo avevano preparato per il trapianto, trasportato in sala operatoria e poi riportato in reparto perché l'organo reperito si era dimostrato non perfettamente compatibile come misure.

Il suo rinvio fu un'esperienza terribile per tutti. C. si chiuse in un silenzio di piombo, rotto soltanto da accessi di pianto e dalla richiesta, urlata con disperazione, di poter tornare a casa, rinunciando a quella promessa di vita che evidentemente il destino non voleva mantenere. Anche in quell'occasione Rameres dimostrò la sua umanità e la sua forza d'animo. Consolò C., lo incoraggiò, lo dissuase dall'abbandonare l'ospedale. Lo accudiva come un bambino, cercando di soddisfare tutti i suoi desideri e sopportando i suoi capricci. Gli parlava della vita, che era a pochi passi da loro, e che non si poteva considerare inafferrabile solo per un tentativo fallito. Quando C. fu sottoposto al trapianto, l'operazione riuscì magnificamente.

Dopo una settimana lasciò il reparto di Rianimazione e tornò in corsia. Non aveva più i tubicini nel naso. Respirava autonomamente. Era trasfigurato dalla gioia e manifestava continuamente una gratitudine infinita al suo compagno di viaggio che lo aveva incoraggiato a non desistere.

Quando andavamo in visita, ci veniva incontro con passo sciolto e veloce. Giuliano commentò: "Si muove come un ballerino". Il prossimo organo, se compatibile, sarebbe stato per mio marito. Incominciò l'attesa, che ormai poteva essere di giorni o anche solo di ore. Fu un periodo drammatico, per lui innanzitutto, ma anche per tutti noi. Eravamo in uno stato di eccitazione e di ansia logoranti. Ogni telefonata poteva essere quella che ci chiamava urgentemente a Milano; ogni momento del giorno e della notte era gravato dal peso dell'aspettativa e tutto il resto era sfocato, lontano, insignificante.

Ci alternavamo nei viaggi da Reggio a Milano. I miei genitori erano tra i più assidui. Partivano insieme all'alba, con il treno, e tornavano alla sera, sfiniti ma sempre fiduciosi e rassicuranti. L'estate era torrida, il treno soffocante. I viaggiatori spalancavano i finestrini per respirare e la nostra piccola, nelle correnti d'aria, si prese un tosse che la tormentò per mesi. Però non voleva rinunciare a venire con me ogni volta.

La portai al mare per qualche giorno, sulla costa romagnola. Ma io non trovavo pace. Ogni volta che ci allontanavamo dall'albergo, lasciavo al direttore il mio recapito, perché potesse trovarmi immediatamente nel caso che arrivasse una telefonata da Milano, e non aspettavo che il momento di rientrare perché nell'hotel mi sentivo più tranquilla, più facilmente raggiungibile. Non disfeci mai le valige. Rameres era molto teso e quando telefonava mi trasmetteva un'ansia insostenibile. Spiava l'espressione e i comportamenti dei medici, notava movimenti insoliti nel reparto, come prima dell'operazione di C.; talvolta mi allertava, unicamente sulla base di ombre e suggestioni: "Preparatevi a partire subito". Ormai dormivo poco e male. Mi chiedevo amaramente, quasi con rancore: "Perché mi tormenta così? Io devo pensare alla bambina, ai nostri genitori anziani, non posso crollare".

Gli stati d'ansia persistenti possono uccidere, e io mi sentivo vicina alla morte. Durante un viaggio in treno arrivai persino a desiderarla. Mi auguravo che il convoglio deragliasse e che mia figlia ed io morissimo insieme per porre fine a quell'attesa sfibrante ed evitare la terribile prova che ci aspettava.

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Poi mi vergognai del mio cedimento, della mia codardia, pensando a lui e al suo coraggio, alla sua solitudine e al suo amore per noi. C. era già stato dimesso. Era un uomo giovane, non ancora quarantenne, con molte risorse fisiche. Quando andavamo in visita, il corridoio appariva ancora più deserto e squallido nella luce estiva. Mi chiedevo come si potesse vivere in quel limbo, distillando le ore in un'attesa che sembrava ormai interminabile.

Rameres resisteva, non si lasciava abbattere dall'ansia divorante che ormai si era insediata in lui. "C'è un tempo per ogni cosa…".

Ad ogni nuova alba pensava che forse quel giorno sarebbe arrivato anche per lui il tempo di vivere davvero. Nel pomeriggio del 31 Agosto del '91, mentre ci trovavamo tutti riuniti in città, a far festa agli zii di Palermo nel giardino dell'hotel in cui alloggiavano, mio fratello ricevette una chiamata sul telefono cellulare. Si allontanò dal gruppo, poi mi fece un cenno. Mi avvicinai a lui, che mi sussurrò emozionato: " È Ram, lo stanno preparando per il trapianto". Un ventenne aveva perso la vita in un incidente stradale a Parma. I suoi genitori avevano acconsentito all'espianto degli organi.

Il suo polmone destro, in un'automedica scortata dalla polizia, stava viaggiando verso Milano.

Il trapianto

Giuliano ed io avremmo voluto informare solo Diana, e partire immediatamente insieme, ma quando rientrammo nel gruppo, intuimmo da tutti quegli sguardi puntati su di noi che ognuno aveva capito. Sofia scoppiò a piangere (di paura? di gioia?); i miei genitori avevano il volto terreo. Gli zii di Palermo tentavano in ogni modo di tranquillizzarci.

Mia suocera non era presente e decidemmo di non informarla: temevamo per il suo cuore. Ma non fu una scelta facile. Forse le toglievamo arbitrariamente la possibilità di vedere suo figlio vivo per l'ultima volta. D'altra parte eravamo certi che lui stesso avrebbe voluto così. Rassicurati i nostri vecchi, Giuliano, Diana ed io ci organizzammo per raggiungere velocemente Milano.

La piccola, però, si interpose tra noi e dichiarò risoluta: "Vengo anch'io". "No, tesoro, è sera, non puoi passare la notte in ospedale, devi andare a dormire dai nonni". "Mamma, ti prego, non lasciarmi a casa. Devo venire con voi, prometto che sarò brava". Cercavo disperatamente di convincerla: "Amore, non è proprio possibile…". "E allora io scappo e vi raggiungo". Urlava tra le lacrime, con il viso in fiamme. Le misurammo la temperatura: 40° di febbre.

Quella fu la prima della serie di febbri altissime che da allora cominciarono ad abbatterla nei momenti di violenta emozione. I miei genitori vacillavano; ci guardavano smarriti. Forse nessuno di noi aveva creduto veramente che quel momento potesse arrivare; o forse nessuno aveva avuto tanta fantasia da riuscire a prefigurarsi il potente impatto emotivo che avrebbe provocato. Impietrita, io non sapevo più come dirigere la situazione. Giuliano decise al posto mio: "Tu rimani qua con la bambina, la mamma e il papà. Hanno bisogno di te. Per ora partiamo solo io e Diana. Ti terrò informata continuamente con il cellulare". Accompagnai a casa e rincuorai i miei genitori, poi mi ritirai con Sofia.

Avevamo bisogno di star sole, nel letto grande, con gli abiti a portata di mano, appese al filo del telefono. Immobile sotto le coperte, con la sola testa fuori, respiravo con difficoltà. Mi pareva di essere nel polmone d'acciaio. Risentivo ossessivamente il rumore ciclico del respiratore automatico. I minuti trascorrevano con la lentezza dei secoli. Poi, la prima comunicazione verso le ventidue: "Sta per entrare in sala operatoria. L'abbiamo visto. È sedato e sembra sereno". Dopo poco, un altro squillo: "Gli abbiamo parlato. Ha chiesto di voi e si è commosso. Ci ha fatto promettere che, se andrà male, ci prenderemo cura della bambina. Però è

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fiducioso. Vi abbraccia forte". Dopo un'ora, un'altra telefonata: "I medici hanno assicurato che l'organo è compatibile e che Ram è in buone condizioni fisiche e psichiche. C'è un grande spiegamento di forze, sono tutti mobilitati per lui". "Non essendo emerse controindicazioni…, in data 01.09.91, il signor Augusto T. è stato sottoposto a trapianto di polmone destro…".

Il giorno dopo vidi la famosa camera operatoria: un seminterrato dall'aspetto scoraggiante. D'altra parte chi ha mai stabilito che debbano esistere un luogo e un modo per duellare degnamente con la morte? Intanto, nel silenzio di quella notte popolata di fantasmi, i minuti si dilatavano fino allo spasimo. Verso le cinque, dopo quasi sette ore dalla prima comunicazione, gli squilli più attesi. Mi sentivo come se tutta la mia vita fosse stata finalizzata ad aspettare quella telefonata. L'intervento era riuscito. Un giovane assistente aveva informato mio fratello che il grande chirurgo e il suo aiuto avevano lavorato magistralmente per tutta la notte e che il trapianto era tecnicamente perfetto. Partimmo immediatamente per Milano, mia madre, Sofia ed io. Il treno era lento. Avrei voluto incitarlo con frusta e speroni, come un cavallo delle praterie.

Quando entrammo al Policlinico, avvistammo subito mio fratello e mia cognata. Piangevano, ma non di gioia. L'intervento era riuscito, ma il polmone trapiantato era inerte, non lavorava. Inoltre, Rameres aveva avuto una violenta reazione allergica ad una medicina. Era già stato trasportato in Rianimazione, tutti i medici si affannavano su di lui. Era in coma. Nessuno di noi poteva avvicinarlo. "…il decorso postoperatorio è stato complicato da una iniziale difficile ripresa degli scambi respiratori ed è stato necessario ricorrere ad una ventilazione polmonare indipendente..": la scrittura speciale dei medici per dire che la situazione era gravissima. Ci sedemmo affranti davanti alla porta della Rianimazione in attesa di notizie. Per ore non sapemmo nulla. Io tacevo, immobile. Mi sembrava abusivo muovermi, parlare, respirare. Un pensiero ossessivo mi torturava: " È morto, e non ho potuto parlargli e abbracciarlo per l'ultima volta: mentre lui si incamminava verso la morte, io non c'ero…". Avrei voluto che me lo restituissero, anche soltanto per pochi minuti, per dirgli tutte le cose mai dette negli ultimi mesi, per completare un discorso che da troppo tempo si era interrotto. Ram, nel momento in cui ho creduto che te ne fossi andato per sempre, ho capito quanto ti amassi, anche se le ingiurie subite dal tuo corpo e il nostro terribile rapporto triangolare con la morte mi avevano spaventata e allontanata da te. Nel primo pomeriggio, un medico aprì finalmente la porta della Rianimazione e mi disse: "Signora, può entrare un attimo per vedere suo marito".

In Rianimazione

Mi fecero indossare un camice verde, stivali, mascherina e berretto dello stesso colore. Nel breve tratto che percorsi per giungere a lui, percepii gemiti sommessi e intravidi corpi immobili nella penombra. Entrai nella sua stanza. Era disteso su un fianco, seminudo, coperto solo qua e là da teli sterili. Dal suo corpo partivano innumerevoli fili e tubi collegati alle macchine distribuite tutt'intorno. Aveva gli occhi chiusi e sembrava che dormisse di un sonno inespugnabile. Gli accarezzai la fronte e gli parlai. Gli dissi che l'intervento era riuscito, che tra poco si sarebbe risvegliato, che eravamo tutti a Milano e ci avrebbe visti uno dopo l'altro. Gli dissi che lo amavo, che ero orgogliosa del suo coraggio, che avevamo vinto. Dall'angolo di un occhio gli scese una lacrima. Qualcuno mi disse poi che si trattava di una reazione fisiologica autonoma, ma io volli credere che avesse capito. Notai che su un piccolo ripiano vicino al suo volto c'era la foto di Sofia. Mia cognata aveva provveduto a non separarlo dalla sua principessa. Il medico mi pregò di uscire. Mi informò che lo stato di coma perdurava, che la situazione era gravissima, ma non irreversibile.

Gli lasciai il numero telefonico dell'albergo in cui avrei alloggiato durante la notte, pregandolo di farmi chiamare per qualsiasi novità. Ci coricammo insieme, mia madre, la piccola ed io, in un hotel a pochi passi dall'ospedale. Un'altra notte infinita, scandita dalle urla del silenzio. All'alba tornammo al Policlinico con il cuore in tumulto. Rameres era vivo, ma ancora in coma.

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I medici mi informarono che, nell'estremo tentativo di salvarlo, gli avrebbero praticato la tracheostomia. Sgozzato come un agnello, con un tubo infilato nella trachea, non avrebbe potuto mangiare né parlare per un tempo imprevedibile. L'intervento venne effettuato il giorno dopo e il 4 Settembre, nel giorno del suo cinquantaduesimo compleanno, lui si risvegliò, emergendo a poco a poco dalla notte che lo aveva inghiottito. Quando mi permisero di entrare, mi sentii sollevata: appariva sofferente ma sereno. Poteva comunicare solo scrivendo, non senza difficoltà, su una specie di leggìo che gli avevano accostato al letto. Scarabocchiò su un foglietto: "Ce l'abbiamo fatta!". "Che giorno è oggi?". "Non sto poi tanto male". "Ho molta sete, puoi bagnarmi le labbra?". "È notte o giorno?".

Poi, dopo essersi riposato da questa immane fatica, scrisse : "Baciami la bambina, vorrei vederla". "Tranquillizza mia madre". L'accesso alla Rianimazione era vietato ai minori; per circa quaranta giorni (tanto durò la permanenza in quel reparto) padre e figlia non poterono vedersi. Lei però voleva venire a Milano con me ogni volta. Mi aspettava pazientemente, seduta su una panchina del corridoio antistante, con un libro da leggere o da colorare e il suo pupazzo preferito, un agnellino di peluche, accanto a sé.

La sua ostinazione nel seguirmi mi inquietava e mi complicava la vita. Avrei preferito lasciarla a casa, teneramente accudita dai nonni o dagli amici, per poi ritrovarla, la sera, stanca e serena come i bambini che durante il giorno si sono sfiniti nel gioco e nel chiasso. Temevo che la memoria di quelle attese interminabili nel silenzio compatto dell'ospedale, interrotto solo da gemiti o da urla (di disperazione, di dolore) potesse incidersi tragicamente nel suo animo e compromettere la sua vita futura. Ogni volta vedeva passare feriti e moribondi sulle barelle che medici e infermieri spingevano di corsa nel reparto. Una sera mi riferì, con naturalezza: "Oggi sono passati un infarto, un incidente stradale e un suicidio".

Se fossi stata sola, avrei trascorso con più tranquillità il poco tempo che mi veniva concesso accanto a mio marito; se fossi stata sola, avrei potuto scoppiare in lacrime all'uscita dalla Rianimazione e liberare il mio dolore fino alla stazione e sul treno fino a casa, elaborando pensieri che nessuno avrebbe potuto intercettare o interrompere. Così, invece, dovevo impormi una maschera più pesante e costrittiva di mille catene. Eppure non potevo disfarmi di questa piccola grande presenza; se l'avessi lasciata a casa avrebbe sofferto terribilmente. Mi disse che non accettava di essere trattata come un pacco, destinato un giorno a Canicattì e un giorno a Timbuctù, mentre suo padre si stava giocando la vita.

Lei voleva essere "dentro" alla situazione e tenerla sotto controllo (come se la sua presenza assidua e la conoscenza diretta degli avvenimenti potessero magicamente dirigere la storia verso il lieto fine).

Inoltre, credo che fosse latente in lei la paura di perdere anche me.

Una sera in cui tornai da Milano con due ore di ritardo rispetto al previsto, la ritrovai a casa di amici disfatta dall'angoscia. L'equilibrio che dimostra oggi mia figlia e la sua passione gioiosa e pulita per la Medicina mi paiono la conferma della validità della scelta che feci a suo tempo, tra dubbi e tormenti, di lasciarle percorrere insieme a noi tutte le stazioni del calvario. Quando finalmente ricominciò la scuola, le sue "visite" dovettero diradarsi.

La classe si mobilitò di nuovo per pregare e commentare i fatti giorno dopo giorno; l'Annita assicurò che il papà ce l'avrebbe fatta. Anch'io ripresi la scuola e mi alternavo davanti alla porta della Rianimazione con i miei genitori, Giuliano e Diana. Anche mia suocera, quando le condizioni di salute glielo consentivano, si faceva accompagnare a Milano, nella stanza del figlio; davanti a lui, però, non riusciva a controllare il suo immenso dolore, e lo lasciava sempre molto turbato. Gli orari d'accesso non erano certo funzionali a chi

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veniva da lontano: dalle tredici alle quattordici e dalle diciannove alle venti. Inoltre raramente venivano rispettati, perché spesso i medici erano impegnati su qualche paziente in condizioni disperate e il reparto non poteva essere aperto agli estranei. Talvolta non ci era permesso di entrare perché era proprio lui che stava male. In quelle circostanze, dopo un'intera giornata trascorsa davanti alla porta chiusa, tornavo a casa disperata e furiosa, con un senso di malessere e di frustrazione che, ancora una volta, mi toglieva il sonno e la voglia di vivere.

Nella notte, rielaboravo l'antico rancore verso il destino, e mi chiedevo se questo viaggio attraverso l'Inferno avrebbe mai avuto fine.

Rameres continuava a vivere nel suo mondo senza tempo, senza albe nè tramonti, intubato, adagiato sul fianco sinistro per consentire al polmone trapiantato di espandersi. Era depresso, cominciava a cedere. Un giorno, quando entrai, lo trovai agitatissimo. Piangeva. Scrisse sul foglietto: "Non ce la farò mai. Portami via di qua". Protestai, cercando di convincerlo che stava migliorando, che non doveva lasciarsi vincere dallo sconforto, ma lui scrisse: "Ho il diritto di scegliere dove morire".

L'immobilità e il silenzio a cui lo costringevano tubi e fili, la penombra di quei giorni sempre uguali che sembravano un'unica, interminabile notte, la stazionarietà delle sue condizioni di creatura ancora sospesa tra la vita e la morte, lo avevano prostrato. Parlai con i medici, chiesi di poterlo riportare a casa, ma fui dissuasa. Mi risposero che era gravemente depresso, che purtroppo non si potevano apprezzare miglioramenti significativi, ma che c'era ancora qualche speranza.

Qualche giorno dopo mi annunciarono che il polmone trapiantato stava cominciando a funzionare. Quando tornai a casa, telefonai a tutti con la voce strozzata dalla gioia. Il mio vecchio leone si era risvegliato, aveva ripreso il dominio della situazione. Alcuni tra i suoi più cari amici cominciarono a fargli visita, in ben organizzata successione, e al ritorno riferivano che Ram aveva dialogato serenamente con loro, sempre attraverso il foglietto, chiedendo notizie del mondo esterno. Un giorno, la nostra amica Laura, al ritorno da Milano mi telefonò trionfante: "I medici hanno detto che forse, tra poche ore, potranno togliergli il tubo dalla trachea". "…In 30ª giornata postoperatoria il signor T. è stato estubato ed ha ripreso la ventilazione spontanea". Quella sera, mentre la piccola ed io stavamo cenando, squillò il telefono. Come sempre, ci precipitammo entrambe per rispondere; lei, più veloce, afferrò la cornetta: "Pronto?". "Ciao tesoro, come stai? Sono il papà". Dopo qualche minuto di dialogo, ("parole tremanti nella notte"), Sofia mi passò l'apparecchio e si addormentò di schianto sulla poltrona.

Aveva la febbre a quaranta e un sorriso raggiante sul suo musino da cerbiatto.

A casa

Sull'agenda del '91, Rameres aveva diligentemente compilato solo la parte riservata ai numeri telefonici, ma tra centinaia di pagine desolatamente bianche, quella del 24 Ottobre si distingueva per una scritta a caratteri cubitali: "A CASA!!!". Dopo la sera della telefonata, infatti, trascorse ancora qualche giorno in Rianimazione, una settimana nel reparto, poi venne dimesso. Senza i tubicini nel naso. "In data 24/10/91 il paziente è stato dimesso libero da ossigeno supplementare…Sono stati eseguiti numerosi controlli a scadenze predeterminate che hanno confermato un'ottima ripresa funzionale respiratoria…". Nel frattempo io avevo restituito al servizio sanitario il grande contenitore d'ossigeno che era rimasto di fianco al nostro letto in attesa degli eventi. Trattenni solo una bombola, acquistata a suo tempo in farmacia, perché non si sa mai…Però la nascosi dietro alla porta, in modo che, entrando in camera, nessuno potesse vederla. Il ritorno a

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casa fu trionfale. Sofia ed io adornammo di palloncini colorati la porta d'ingresso e incollammo sul vetro uno striscione di carta con la scritta "BENTORNATO!".

Quando lui scese dall'auto di Giuliano, la sua apparizione mi provocò un violento moto del cuore. La piccola volò tra le sue braccia; sua madre lo toccava incredula. I miei genitori lo abbracciarono e si ritirarono in disparte, come sempre. Avevano combattuto in prima linea, senza risparmiarsi, sottoponendo a dure prove i loro corpi indeboliti dall'età già avanzata e il loro spirito già provato da una vita difficile, ma anche in quel momento di tripudio collettivo stavano nell'ombra, con discrezione, per non "disturbare".

I vicini offrirono champagne per festeggiare con tutta la famiglia.

L'unico elemento di disturbo fu l'intromissione sfacciata della stampa locale nella nostra vita privata. Qualcuno aveva informato i quotidiani del ritorno di Rameres e il giorno del suo arrivo, sulle locandine delle edicole, comparve la notizia a caratteri cubitali. Veniva definito "il trapiantato", noi "i familiari del trapiantato". Il nostro lessico si arricchiva di questo nuovo termine, più appropriato per una serra o per un orto botanico. Gli articoli, poi, tracciavano una biografia dettagliata di tutti i membri della famiglia, con nomi, cognomi, data di nascita, professione, segni particolari. Un'emittente locale ci chiese di rilasciare subito un'intervista.

Era certamente doveroso per i media dare notizia dell'evento, per fornire informazioni utili e accendere speranze; fu però un atto di insopportabile invadenza penetrare nelle pieghe più riposte della famiglia, violarne brutalmente l'intimità dando in pasto a tutti, con considerazioni spesso di una banalità irritante, le nostre emozioni e i nostri sentimenti più segreti. Quando ci ritrovammo finalmente soli, noi tre, commossi e storditi, cominciammo a ricostruire la nostra vita familiare, a partire dalle piccole cose di ogni giorno. Di nuovo la tavola fu apparecchiata con tre coperti; in bagno ricomparvero tre coppie di asciugamani, schiuma da barba e rasoio; sull'attaccapanni giacche e soprabiti maschili. La casa, che era stata spesso deserta, si rivitalizzò. Gli amici, i parenti, gli ex colleghi di lavoro passavano a salutare, portavano libri e cioccolatini. A scuola i bambini fecero festa grande con l'erbazzone della nonna Ave, pasticcini e cocacola a gogò.

Riprendemmo anche a litigare, come una famiglia normale. Non c'erano più contenitori d'ossigeno e tubicini nel naso, né macchie e lesioni sulla pelle. Rameres si comprò un bellissimo completo grigio che indossava principalmente per andare a Milano, alle visite settimanali di controllo. Desiderava fare bella figura, compiacere i medici e sentirsi dire che aveva un bell'aspetto. A Natale volle esprimere la sua riconoscenza a dottori, infermieri e suore del reparto inviando a tutti grandi pacchi confezionati con prodotti scelti della nostra terra: punte di grana parmigianoreggiano, lambrusco d.o.c., salumi.

Quel Natale. Per la prima volta fu davvero, per noi, la celebrazione della famiglia. Contro le previsioni più pessimistiche, c'era lui, radioso e quasi incredulo, elegante e commosso nel suo abito grigio. Al centro del salone della casa di Giuliano esplodeva, come un inno alla gioia, un albero tutto dorato, alto fino al soffitto. Le carte luccicanti dei regali giocavano con i bagliori del fuoco del camino e irradiavano tutt'intorno riflessi di luce, quasi a voler moltiplicare mille e mille volte le pulsioni iridescenti della nostra felicità. Il dono per il nostro trapiantato era accompagnato da un biglietto, scritto da mio fratello, che recitava così:

Io regalo questo tu regali quello,

ma il regalo di Ram è per tutti il più bello.

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Nel quotidiano, però, la vita non era sempre facile. Ogni giorno Rameres doveva assumere una grande quantità di farmaci, attenendosi scrupolosamente allo schema terapeutico e alla tabella oraria che gli erano stati consegnati al momento della dimissione. I più importanti erano gli immunosoppressori. "…il signor Taddei dovrà assumere ad oltranza una terapia costituita da farmaci antirigetto". Li tollerava bene, ma talvolta aveva scatti d'ira perché si sentiva schiavo della tabella oraria e temeva di dimenticare qualche "passaggio". Inoltre, era ossessionato dalle infezioni. Le sue difese organiche dovevano rimanere forzatamente basse per impedire che l'organo estraneo venisse combattuto e demolito: questo lo esponeva al rischio, non sempre controllabile, di aggressioni batteriche e virali. Si misurava la febbre più volte al giorno; nel periodo delle influenze e delle malattie da raffreddamento indossava una mascherina protettiva, sia in casa che nei luoghi pubblici. Gli pesava l'ozio, e accettò di lavorare qualche ora al giorno nell'ufficio di Giuliano, incoraggiato anche dai medici milanesi che lo seguivano.

Poi, ebbe un'idea molto stimolante: raccogliere in un libro alcuni tra i più brillanti corsivi che un caro amico aveva pubblicato su quotidiani locali per diversi anni. L'iniziativa fu accolta con entusiasmo da amici e conoscenti, che si incaricarono di raccogliere i fondi per stampare l'opera. Il libro, con una sua elegante introduzione, fu presentato una sera, nel corso di una cena a cui partecipò un numeroso gruppo di persone.

Quello fu per lui uno dei momenti più gioiosi e appaganti dopo il trapianto. A poca distanza di tempo vinse alcuni milioni al Totocalcio, che ci permisero di acquistare una cucina nuova, un divano e un tappeto persiano che raffigurava l'albero della vita. Questa vincita, del tutto inaspettata, ci parve una sorta di risarcimento del destino. Il primo inverno della nostra nuova esistenza trascorse dunque abbastanza serenamente, senza incidenti. Ci concedemmo anche una breve vacanza sulla neve.

Qualcosa però cominciava a cambiare nel suo atteggiamento rispetto ai controlli programmati: mentre le prime visite a Milano erano per lui una fonte di soddisfazione, direi quasi di piacere, dopo qualche mese divennero un fastidio, forse un motivo di angoscia. Alla vigilia di ogni controllo era molto teso, nervoso, spesso litigioso, e dormiva male durante la notte.

Al ritorno, però, ci portava sempre un piccolo regalo.

Durante l'estate andammo in vacanza sulla Costa Azzurra. Scegliemmo insieme la località, ma qualche giorno prima del viaggio cominciò ad essere divorato dall'ansia di poter star male e di non avere l'assistenza necessaria.

Calcolava sulla carta la distanza del nostro luogo di villeggiatura da Milano, e faceva congetture pessimistiche. I medici lo incoraggiarono e gli fornirono diversi recapiti, al bisogno. Quando arrivammo sul posto, si sentì subito rassicurato dalla mitezza del clima e fu conquistato dalla magia dei paesaggi. Proponeva escursioni sulla costa e nell'interno, faceva bagni di mare e di sole. Voleva che lo riprendessi con la macchina fotografica in tutte le situazioni: in acqua, sulla spiaggia, nei giardini botanici, sulle scogliere, nei campi di lavanda, sulle barche colorate dei pescatori. Avrebbe portato le foto a Milano, per documentare le sue buone condizioni di salute e la sua intraprendenza.

Era particolarmente fiero di apparire asciutto, senza gonfiori ai piedi e alle mani. Il primo anno dopo il trapianto era considerato il più rischioso per il rigetto, e ormai stava concludendosi felicemente, anche se con un sottofondo costante di tensione e di vigilanza contro gli agguati imprevedibili del destino, che avrebbe potuto distruggere in pochi giorni ciò che era stato costruito ad un prezzo così elevato. La vacanza comunque fu serena e divertente, come dimostrano le immagini e il diario di bordo tenuto da Sofia.

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Le foto di quell'estate: Ram che nuota, che cammina in salita, che osserva interessato la fabbricazione del sapone di Marsiglia negli stabilimenti Fragonard; Ram nei giardini di limoni e tra le piante esotiche; Ram sotto l'ombrellone con il Walkman e la visiera del berretto girata all'indietro; Ram che s'abbuffa di cozze e di insalata nizzarda.

Le ricordo una ad una, le foto di quell'estate, ma ancora oggi non riesco a riprenderle in mano: hanno il sapore troppo amaro e deludente della promessa mancata.

Chi ha calpestato i gigli di mare?

L'estate del '93 andammo in vacanza a Minorca, in un villaggio sul mare. Rameres era molto teso e arrivò sull'isola con pessima disposizione d'animo: il reparto di Pneumologia del Policlinico di Milano era stato smantellato, il grande chirurgo operava altrove e il suo aiuto era diventato primario in un altro importante ospedale della città. Gli avevano detto di fare riferimento, per i controlli periodici, al dottor S., l'unico rimasto dell'èquipe dei trapianti. A Milano non ritrovava più le note, rassicuranti figure di un tempo, e tornava sempre più depresso. Per gli esami strumentali doveva andare in altri reparti, talvolta addirittura in Rianimazione. A casa aveva troppo tempo per pensare, perché nell'ufficio presso il quale aveva lavorato per qualche ora al giorno non c'era più bisogno di lui. Si sentiva inutile ed elaborava pensieri negativi, anche perché i piedi e le mani ricominciavano lentamente a gonfiarsi e a mostrare qualche piccola lesione. A volte commentava con amarezza e con l'aria di voler sfidare un nemico imprecisato: "È molto duro vivere così, ma non ho nessuna intenzione di andarmene". Di tutti gli amici che si erano affollati intorno a lui nella fase del trapianto, ben pochi gli erano rimasti vicini.

Ognuno era preso dalle proprie occupazioni; chi non viveva con lui non si rendeva conto della sua solitudine immensa e della sua crescente paura. Stava diventando sempre più insofferente, talvolta anche con la bambina.

Si misurava continuamente la febbre e, nel villaggio delle nostre vacanze, vedeva dappertutto minacce alla sua salute: troppa gente, poca igiene, milioni di germi in libertà. Sulla spiaggia crescevano, a poca distanza dal bagnasciuga, numerosi cespugli di gigli di mare.

Un giorno lo fotografai seduto vicino a questi fiori rigogliosi di grazia e di profumo e lui ebbe, inaspettatamente, un brusco moto d'ira. Si alzò di scatto dallo sdraio, scansò con un calcio i gigli e disse che non voleva essere fotografato perché si sarebbero notati i piedi gonfi e arrossati. La memoria di quei giorni è legata soprattutto a questa immagine: i fiori violati, che raffiguravano, in un mucchietto informe di vita offesa, le sue speranze calpestate, e che furono il primo pretesto per liberare, senza inibizioni, il sordo furore che gli stava crescendo dentro.

Sofia andava ogni mattina al maneggio e da lì, con il maestro e con un'amica, partiva per lunghe cavalcate in riva al mare, sempre a dorso del devoto cavallo Andarin. Io gioivo nel vederla sfrecciare a distanza, stagliata tra mare e cielo, mentre proprio suo padre, che da tempo l'aveva avviata con entusiasmo all'equitazione, si lamentava perché non stava in compagnia con noi. Cercava sempre, avidamente, la sua presenza, e si sentiva defraudato quando lei, ormai undicenne, sceglieva gli amici.

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Gli spettacoli organizzati dagli animatori lo infastidivano. Le escursioni lo stancavano; una sera, dopo una gita in automobile a Cap de Cavallerie, ebbe una crisi di nervi perché temeva di avere respirato troppa polvere lungo i sentieri sterrati. Non aveva voglia di socializzare con nessuno, e si innervosiva se io mi intrattenevo a conversare con altri ospiti del villaggio. Dopo pochi giorni cominciò ad evitare i pranzi al buffet, perché temeva le infezioni, e consumava pasti frugali da solo, nel nostro villino. Solo una volta si rallegrò: quando, dopo una lunga escursione in auto sulla costa meridionale dell'isola, ci fermammo sul porto di Mahon a mangiare l'aragosta. In quell'occasione mi chiese di fotografarlo a tavola, mentre succhiava le chele del pesce, e scrisse una cartolina al dottor S. di Milano per raccontargli il fatto. Quello fu l'unico momento di spensieratezza, forse di gioia, di tutta la vacanza. Contava i giorni che lo separavano dal rientro a casa. Il suo unico passatempo era la lettura, alla quale si dedicava con la passione di sempre.

I tramonti sul mare, che si potevano ammirare anche dal nostro letto, le spiagge di cipria, le acque del colore del turchese o dello smeraldo, i fiori e gli arbusti profumati che crescevano ovunque, lo lasciavano indifferente. La sua mente era altrove; i suoi occhi e il suo pensiero erano distratti dai piedi gonfi e dalle lesioni sulla pelle. Stava progressivamente rientrando nella condizione del malato ripiegato su se stesso, impegnato a riconoscere e a combattere i sintomi del male, di nuovo aggrappato alla Vita come chi sente che rischia, ancora una volta, di perderla, dopo un'illusione durata troppo poco.

Sconfitta ai rigori

La vacanza a Minorca contrassegnò, simbolicamente, l'inizio del regresso fisico e psicologico. Rameres era sempre più impegnato ad interrogare il suo corpo, a scoprirne i tradimenti, e si attribuiva anche malattie immaginarie. Era entrato nel tunnel della paura, senza scampo. Soffriva di insonnia, e durante la notte ascoltava ossessivamente, per ore, gli stessi struggenti brani di musica, oppure guardava la televisione, qualunque programma pur di sfuggire ai fantasmi delle tenebre. Durante il giorno, di conseguenza, era stanco e irritabile e si muoveva con fatica. Se io mi lamentavo per la stanchezza (la scuola, la bambina da accompagnare dappertutto, la casa da governare), lui commentava acidamente: "Tu sei fortunata perché puoi farlo". Poi si pentiva di essere stato brusco e mi diceva accarezzandomi: "Povero musino, come dev'essere difficile anche per te!". Per lui ormai si susseguivano giorni sempre uguali, giorni grigi e nebbiosi, di solitudine e di furore. La ricomparsa del morbo di Kaposi gli era insopportabile. Sapeva che avrebbe potuto compromettere irrimediabilmente l'esito del trapianto e talvolta si commuoveva pensando con tenerezza al giovane che, morendo, gli aveva donato la vita. Si sentiva in colpa perché non riusciva a conservarla. I controlli periodici a Milano erano sempre più deprimenti.

Il dottor S. era preoccupato per il Kaposi, ma non sapeva come combatterlo perché, per un maligno intrigo della sorte, il morbo era stato riattivato dagli immunosoppressori e avrebbe potuto essere curato solo con un farmaco incompatibile con quelli che dovevano essere assunti contro il rigetto. Tra noi familiari, nessuno riusciva a concepire l'idea che Ram, dopo la rinascita, potesse essere carpito dalla morte. Aveva vinto la grande sfida, e questa vittoria non doveva essere annullata. Lui stesso, pur tra i tormenti, riusciva talvolta a dimenticare la sua condizione e a fare progetti per il futuro. Insieme a Sofia, contro la mia volontà, tramò a lungo per comprare un cane, precisamente un pastore tedesco, come quello che in passato aveva vissuto con noi per quattordici anni. Così, in occasione del dodicesimo compleanno della nostra ragazzina, arrivò Byron, uno splendido esemplare della sua razza, ultimo grande regalo del papà alla sua piccola che lo desiderava da tempo. "Del cane ci prenderemo cura noi, mi rassicurarono, tu non dovrai occupartene. E poi sarà un incentivo a camminare di più". In realtà Byron si rivelò un cane agitatissimo, intelligente e simpatico, ma ingovernabile.

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Venne presto soprannominato Il Birra a causa della sua manifesta preferenza per questo tipo di bevanda, che aveva assaggiato una prima volta in cortile attingendo furbescamente dal boccale offerto al giardiniere e che poi continuò a rubare ogni volta che poteva. Combinava un sacco di guai e non si poteva portarlo a passeggio perché trascinava l'accompagnatore con la forza di una coppia di buoi, costringendolo ad una fatica insostenibile, soprattutto per Rameres che aveva le gambe sempre più gonfie e deboli. Così anche il cane diventò un elemento costante di irritazione. Quando arrivò il momento di decidere la vacanza estiva, scegliemmo, anche per ragioni climatiche, l'isola greca di Corfù. Lui però non era tranquillo: una febbriciattola misteriosa compariva e scompariva senza essere accompagnata da sintomi particolari, le lesioni sulla pelle si estendevano. I medici consultati ci consigliarono ugualmente di partire. Il dottor S. assicurò che al ritorno dall'isola avrebbe programmato in tempi brevi tutti gli esami necessari.

Era l'estate dei mondiali di calcio e nel nostro villaggio turistico c'era molta attesa per la partita finale ItaliaBrasile. I ragazzi, tra cui la nostra Sofia, erano in grande fermento: con il viso dipinto di verde, bianco e rosso, gonfiavano enormi palloni con gli stessi colori da liberare nel cielo notturno e sul mare dopo l'eventuale, ambitissima vittoria dell'Italia. Ram, che pure aveva seguito con interesse il campionato, in quel momento si dimostrò addirittura infastidito. Niente lo interessava; l'entusiasmo e i preparativi dei tifosi lo innervosivano. Seguì la partita da solo, nella stanza da letto, mentre noi eravamo nell'arena degli spettacoli, dove era stato allestito uno schermo gigante. L'Italia perse ai rigori.

Quando rientrammo in camera, lui consolò la figlia delusa commentando amaramente: "Vedi, con avversari molto forti è impossibile vincere, anche se si combatte bene fino alla fine". Ormai aveva istituito una sorta di rituale quotidiano: ogni mattina andava nell'ambulatorio del villaggio a farsi misurare la febbre e auscultare il respiro. Nel pomeriggio dormiva in camera.

Il medico era sconcertato. Avvertiva che qualcosa non andava, ma non aveva esperienza di trapianti, perciò gli propose di ricoverarsi nell'ospedale di Corfù. Ma cosa avremmo trovato là? Quali competenze? Prendemmo piuttosto in considerazione l'idea di un ritorno a casa anticipato, ma lui volle resistere: sperava che il buon clima prima o poi l'avrebbe aiutato. In un momento di relativo benessere, ci iscrivemmo ad una mini crociera, della durata di un giorno, alle isole di Paxos e Antipaxos.

Alla vigilia della gita andammo a letto eccitati, ma al mattino Ram disse che non se la sentiva di partecipare e che avremmo dovuto andare noi due sole. Sofia non capiva perché, e gli serbò rancore. Al tramonto, quando tornammo con qualche ora di ritardo a causa del mare mosso, lo trovammo ad attenderci sulla riva del mare. La sua figura curva e solitaria, nell'ombra della sera, ci apparve da lontano, tra sabbia e cielo, come l'immagine della disperazione. Aveva il volto contraffatto dall'angoscia.

Ci abbracciò con le lacrime agli occhi e disse: "Ho avuto paura che vi fosse successo qualcosa. Il tempo non passava mai. Non sono più capace di proteggervi". Un giorno riuscimmo a visitare insieme, con un'auto a noleggio, la parte settentrionale dell'isola, famosa soprattutto per uno splendido monastero ortodosso. Pranzammo alla greca sotto il pergolato di un ristorante sperduto. In quell'occasione, mi chiese di scattargli una foto, tra i piatti di olive e formaggio sul tavolo rustico, e i tralci di vite che sovrastavano le nostre teste. "Sarà l'ultima", spiegò. Infatti.

E sola e senza nido l'aquila volerà attraverso il sole (K. Gibran)

Quando ritornammo dall'isola, era visibilmente sollevato, nonostante la persistenza del malessere. A casa si sentiva protetto, aveva le coordinate giuste per attivare i soccorsi. Mia madre, che già da qualche mese aveva colto le novità inquietanti della situazione, mi confidò: "Ho avuto paura di non vederlo più. Che

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tornasse in una bara". Il sollievo del rientro durò poco: dopo alcuni giorni arrivò una violenta crisi respiratoria, accompagnata da febbre alta. Il nostro medico dispose l'immediato ricovero in ospedale. Telefonammo subito a Milano, con la speranza di poter accedere al Policlinico, ma non c'era posto. Il dottor S. assicurò che avrebbe cercato di programmare in tempi brevi tutti gli esami previsti e di trovare un postoletto. Intanto, però, Rameres dovette sopportare una lunga degenza in un reparto di Medicina del nosocomio della nostra città. Fu ricoverato in corsia, in una camera a sei letti, lui che era immunodepresso, esposto a tutte le infezioni. Non c'erano stanze singole disponibili. Un anziano morì nel letto di fianco al suo, e il corpo, prima di essere rimosso, rimase per qualche tempo dietro al paravento che abitualmente difende la privacy dei cadaveri.

Quando andai in ospedale per la visita consueta, incontrai mio marito nel corridoio, febbricitante e sconvolto. "Non posso tornare in camera", spiegò. "C'è un morto proprio di fianco a me. So che dai corpi senza vita si liberano batteri e virus, non posso rischiare di prendermi altre infezioni". Fermammo un medico che stava passando proprio in quel momento e gli sottoponemmo il problema. Lui ci guardò infastidito e commentò: "Balle".

Faticosamente riuscii a convincerlo a rientrare in quella stanza: voleva tornare a casa. Sapevo bene che ciò non sarebbe stato possibile. L'aiuto primario mi aveva detto, proprio il giorno prima, che il polmone nativo stranamente respirava meglio del polmone trapiantato, che era in atto una bronchite acuta e che il morbo di Kaposi, già in fase molto avanzata, esponeva mio marito a tutti i rischi che corre un malato di AIDS, compreso quello di un peggioramento rapido e letale. Il dottore mi informò anche, con apprezzabile umiltà, che nessuno dei medici locali aveva esperienza di trapianti polmonari e che, pertanto, era indispensabile un consulto con il medico di Milano. Il dottor S., che non era riuscito ad organizzare il trasferimento a Milano, venne spontaneamente in visita una domenica mattina. Esaminò i referti degli esami, si ritirò con alcuni medici del reparto per discutere il caso, poi pronunciò la tanto temuta sentenza: "Rigetto".

Un grammo di cortisone al giorno, da aggiungere naturalmente agli altri innumerevoli farmaci. Ci assicurò che questa strategia terapeutica era già stata sperimentata con successo in America.

Ricominciammo a sperare. Rameres iniziò lentamente a riprendersi, giorno dopo giorno, anche sul piano psicologico, e alla fine della terza settimana di degenza venne dimesso. Aveva trascorso in ospedale il giorno del suo cinquantacinquesimo compleanno, perciò lo festeggiammo quando tornò a casa. Sofia gli fece la torta con le candeline: due cinque affiancati, di cera azzurra, con un buffo cappello dal quale usciva lo stoppino. Trascorremmo una decina di giorni di relativa tranquillità, poi, nel corso di una notte, il male riesplose con ferocia: febbre da delirio, accessi di tosse soffocanti.

Cercammo di contattare immediatamente il nostro medico, ma invano. Diana ed io, in preda al panico, lo accompagnammo in ospedale, al Pronto Soccorso. Venne disteso su una barella, dove rimase per ore in attesa della visita. Aveva bisogno di urinare ma, nel caos dell'astanteria, non si riusciva a trovare un "pappagallo". Era sofferente e furioso. Si sentiva abbandonato. Io mi aggrappai al telefono e cercai il dottor S., utilizzando tutti i recapiti telefonici che avevo a disposizione. Dopo alcuni tentativi falliti, riuscii a contattarlo. Gli descrissi la situazione, scongiurandolo di trovare un postoletto a Milano. Lui promise, ma Rameres commentò: "Non ci credo". Poi ebbe un improvviso slancio di tenerezza verso di me e, accarezzandomi i capelli, disse dolcemente: "Sei giovane e carina, hai un buon lavoro e la mia liquidazione, potrai rifarti una vita". Ancora una volta provai il sentimento insopportabile del crepacuore. Quando finalmente venne ricoverato nel solito reparto di Medicina, gli assegnarono una camera a due letti.

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Era stremato dall'interminabile attesa sulla barella, non trovava una posizione che gli desse sollievo e aveva la febbre altissima. I medici erano molto preoccupati, non sapevano come affrontare il problema, e ancora una volta dissero: "Milano". Mi promisero che avrebbero tenuto personalmente i contatti con il Policlinico e che si sarebbero occupati delle modalità del trasferimento. Ogni giorno chiedevo: "Novità?". La risposta era sempre la stessa: "Non c'è posto". Io riferivo: "Va tutto bene, potrebbe essere questione di ore, andremo con l'ambulanza". Lui replicava: "Non ci credo". Mi chiese di evitargli le visite di amici e lontani parenti. Lo stancavano troppo, o forse voleva lasciare il palcoscenico con discrezione, senza troppi spettatori.

Accettava solo i familiari più stretti; in particolare, avrebbe voluto avere sempre accanto me e la bambina. La bambina. Aveva dodici anni, non opponeva resistenza quando la portavo con me in ospedale, ma non chiedeva mai spontaneamente di andare in visita. Ai tempi del trapianto era sempre presente, come un piccolo Cristo pantocratore, certo che, con la forza del suo amore, avrebbe potuto aiutare la scienza a soffiare la vita nel corpo di suo padre. Ora si ritraeva delusa, tradita; la sua riluttanza ad andare in ospedale poteva facilmente essere interpretata come una sorta di rifiuto a rendersi complice della morte, che appariva sempre più incombente.

Credo che l'immagine di suo padre sofferente, piagato, devastato anche nello spirito, le fosse insopportabile. Una sera, al ritorno da una visita, uscì da un silenzio carico di dolore con un'esclamazione rabbiosa: "Non è giusto!". Era stata ingannata dal destino. Ritirava la sua collaborazione.

Rameres talvolta chiedeva di vedere sua madre. La interrogava a lungo sulla sua infanzia; gli piaceva farsi raccontare particolari della vita di suo nonno, socialista, autodidatta, che aveva letto tutta l'opera storica del Barbagallo e gli aveva trasmesso la passione per la politica. Ricordava che il nonno, per tenerselo vicino, lo deponeva sulla carriola e lo portava con sé nella melonaia della Contessa, dove lavorava come bracciante. Parlava della nonna, della sua apparente durezza di contadina abituata alle fatiche e agli stenti, che nascondeva un cuore d'oro sotto la maschera della severità.

Chiedeva notizie dei vicini di casa, per i quali aveva sempre eseguito in città le più svariate commissioni, in cambio della loro benevolenza. Ripensava con nostalgia al bar del paese e alle balere dei suoi primi incontri. Un giorno le chiese inaspettatamente: "Che nome metterete sulla mia lapide?". Il suo nome di battesimo, Augusto, era stato infatti abbandonato da quando uno zio mattacchione, affascinato da un film di cui era protagonista l'eroe messicano Ramirez, aveva imposto questo nome al nipotino di pochi mesi. Ramirez, subito storpiato in Rameres dalla nonna e da tutti i compaesani, diventò il suo nome definitivo, al punto che pochi lo conoscevano come Augusto. Sofia poi, quando cominciò a parlare, lo abbreviò in Ram (papà Ram) e così lo chiamavamo in famiglia e tra amici. I momenti di affettuosa intimità con la madre erano tuttavia piuttosto rari: spesso la riceveva con malagrazia, con un'insofferenza che rivelava l'antico rancore. Intanto le settimane passavano, le sue condizioni peggioravano, Milano taceva. Una domenica pomeriggio lo trovai in uno stato allarmante di agitazione. Stringeva i pugni, piangeva.

Mi raccontò che il medico di guardia era passato a visitarlo e aveva dimenticato sul suo comodino un biglietto promemoria con la scritta "Malati terminali". Il suo nome era il primo della lista. Dopo qualche giorno, la dottoressa che lo seguiva più assiduamente ci annunciò che il dottor S. aveva telefonato da Milano: c'era posto nel reparto di Medicina d'Urgenza.

Il trasferimento era già stato programmato per l'indomani. Nel pomeriggio accompagnai sua madre e sua figlia a salutarlo. Si commosse, ebbe una crisi di panico, disse che a quel punto non voleva più partire. Poi, il

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coraggio e la voglia di vivere prevalsero ancora una volta, benché infiacchiti dalle prove troppo numerose e troppo atroci.

Così, in un'alba grigia di fine ottobre salimmo in tre sull'ambulanza: lui, la dottoressa ed io. Giuliano e Diana ci seguivano in automobile.

Quando oltrepassammo i confini della nostra provincia, sentii che quel viaggio sarebbe stato senza ritorno: ormai erano scaduti i termini per la domanda di grazia, la sentenza era inappellabile. I medici del Policlinico che accolsero Rameres, dopo la visita e le radiografie ci chiamarono immediatamente e scossero la testa. Avrebbero tentato tutto il possibile, ma con scarse speranze: il polmone trapiantato era stato aggredito e non funzionava più. La sera stessa lui mi telefonò a casa, con l'aiuto di un infermiere.

Disse che si sentiva meglio, che era fiducioso. Il giorno dopo gli portai un cellulare preso a noleggio, ma stava troppo male per riuscire ad impararne l'uso. Misi il telefono in carica e lo posai sul comodino, pregando l'infermiere di aiutarmi a tenere i contatti. Con me c'era mio padre. Rimase sconvolto alla vista di quell'uomo dolorante, ricoperto solo da un lenzuolo sterile, che non trovava pace in nessuna posizione: era divorato dalla sete e chiedeva continuamente di essere voltato e rivoltato da un fianco all'altro. Mio padre non riusciva a parlare. Per tutto il tempo della visita rimase silenzioso in un angolo della camera, con il volto contratto dalla pena. Alla stazione, mentre aspettavamo il treno paralizzati dall'angoscia, improvvisamente mi abbracciò e scoppiò a piangere: "Dovrei essere io al suo posto. Sarebbe più giusto per lui, per te, per la bambina. Io sono vecchio, tocca a me andarmene". Babbo caro, ormai anche tu te ne sei andato, ma sono certa che avresti davvero scelto di anticipare la tua morte in cambio della vita di quell'uomo che amavi come un figlio. Che ti vergognavi di sopravvivergli. Questo è il ricordo più tenero e struggente che mi è rimasto di te. All'alba del giorno dopo, mentre mia nipote Federica si dirigeva a Milano, io telefonai. L'infermiere porse il cellulare a Ram che rantolò, da infinite distanze: "Stanotte sono stato malissimo, ho urlato per il dolore".

Due ore dopo mi chiamò il primario del reparto: "Signora, se vuole vedere suo marito vivo, venga subito. Stiamo per portarlo in Rianimazione". Partimmo immediatamente in automobile, Giuliano, mia suocera, mia madre, Sofia ed io. La piccola tremava dentro al suo piumone nuovo e aveva il viso in fiamme: il febbrone dei momenti speciali. Suonammo il campanello della Rianimazione e, dopo un'attesa che mi parve interminabile, un medico uscì per parlare con me. Disse che non c'erano più speranze. Chiesi di poter entrare, anche sua madre scongiurava il dottore di farla entrare, ma lui si oppose con delicata fermezza: "È meglio di no, ha già perso conoscenza. Ricordatevelo da vivo". Ci consigliò di tornare a casa, ormai era troppo tardi per qualunque cosa. Saremmo stati informati degli sviluppi della situazione sul telefono di Giuliano, che si incaricò di fare da tramite per tutelare Sofia e me. Federica, che aveva raccolto le poche, povere cose di malato che Ram aveva con sé, ci raccontò poi che, mentre lo preparavano per il trasferimento finale, lui, ancora cosciente, le aveva sussurrato: "Non credevo che fosse così difficile andare a morire".

Il duello con la vita

Eravamo partiti in tre e siamo rimaste in due. A fare i conti con la vita che doveva continuare. Con il dolore. Con la solitudine. Una solitudine profonda come una voragine, sulla quale ci affacciavamo smarrite, quasi incredule. Lui se n'era andato per sempre. Ma non riuscivamo a stargli lontane perché era ancora troppo presente dentro di noi.

Alla notizia della sua morte, avvenuta alle 22 del 26 ottobre 1994, Sofia aveva urlato tra le lacrime:

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"Voglio andare con lui!". Toccava a me trattenerla nella vita, aiutarla a continuare il suo cammino senza il padre, a non provare rancore verso di lui perché era scomparso. A me, che mi sentivo svuotata, annientata dal dolore e dai sensi di colpa. Ero arrivata a Milano troppo tardi, per poche ore avevo perso l'appuntamento con la sua morte, avevo mancato l'occasione di tenergli la mano nel trapasso e raccogliere il suo ultimo respiro. "Oggi si muore così, da soli, in un'asettica stanza di rianimazione. Non si muore più in casa, come un tempo, nel proprio letto, circondati dalle persone care. Anche la morte è diventata un fatto tecnologico". Lo psicoterapeuta a cui mi rivolsi per chiedere aiuto cercò di tacitare i miei sensi di colpa con queste parole.

Ero gravemente malata di depressione e invidiavo Rameres perché aveva finito di soffrire. Lo stesso analista mi accompagnò per mesi nella mia nuova vita di donna sola e stremata dalla sofferenza, con l'obiettivo di compiere su di me l'operazione che io avevo avviato con mia figlia: tenermi ancorata alla realtà, per ricostruire le coordinate di un'esistenza accettabile e riaccendere ciò che mi si era spento dentro con la morte di mio marito. Dovevo abituarmi a convivere con il dolore.

Perché, si sa, "la morte si sconta vivendo".

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La seconda ombra è un film del 2000 diretto dal regista Silvano Agosti.

Il film tratta le vicende legate a Franco Basaglia direttore del manicomio di Gorizia e promotore

della legge che porta il suo nome che ha rivoluzionato la concezione del malato mentale.

Gran parte del cast è composto da persone che hanno realmente lavorato o vissuto nei manicomi di Gorizia

e Trieste.

Il titolo del film sarebbe dovuto essere "Il Muro", «perché io volevo raccontare questo momento fiabesco in

cui Basaglia ha detto ai suoi 1200 ricoverati buttiamo giù il muro in modo che la gente veda cos’è il

manicomio, e ho costruito questa fiaba di questi straordinari personaggi che decidono di buttare giù la

barriera fisica che li separa dal mondo circostante, sperando inutilmente che cadano anche tutte le altre

barriere... io ho intitolato il film la seconda ombra perché questo personaggio mi ha profondamente

colpito, guardate che sintesi perfetta di 250 anni di realtà manicomiale: "Quando medici e infermieri con la

scusa di curarmi, mi torturavano, io mi rifugiavo nella mia seconda ombra, e non sentivo più niente". E

cos’è la seconda ombra forse? È il destino che ogni persona non ha vissuto e non sta vivendo, mi sarebbe

straordinariamente caro che le persone si chiedessero almeno una volta al mese o alla settimana, "ma io

sto vivendo il destino che mi ero preconizzato e che volevo vivere?". Sarei tanto contento che i più

rispondessero di sì, finora credo che le cose siano organizzate in modo tale che sia abbastanza impossibile

rispondere di sì».

Trama

Sotto la veste di fattorino quello che sarà il nuovo direttore del manicomio di Gorizia si rende conto delle

condizioni in cui vivono i pazienti del manicomio.

Tra elettroshock, lobotomie, camicie di forza, percosse e clausura i malati mentali vivono in una

raccapricciante situazione. Diventato direttore riesce a modificare il ruolo di operare dei medici e degli

infermieri e migliorare le condizioni di vita dei pazienti. Sfrutterà l'ampio giardino dell'ospedale prima

interdetto ai pazienti per passeggiate e pranzi all'aperto. Arriverà a proporre l'abbattimento del muro che

divide i malati dal resto della società e così avverrà.

Franco Basaglia (Venezia, 11 marzo 1924 – Venezia, 29 agosto 1980) fu uno psichiatra e neurologo italiano,

professore, fondatore della concezione moderna della salute mentale, riformatore della disciplina

psichiatrica in Italia e ispiratore della cosiddetta Legge 180, anche nota infatti come "Legge Basaglia", che

introdusse un'importante revisione ordinamentale degli ospedali psichiatrici in Italia e promosse notevoli

trasformazioni nei trattamenti sul territorio.

Secondo di tre figli, trascorre un'adolescenza tranquilla e agiata. Dopo aver conseguito la maturità classica

nel 1943 si iscrive alla facoltà di medicina e chirurgia dell’Università di Padova, dove nel 1949 consegue la

laurea. In questo periodo si dedica ai classici dell'esistenzialismo: Sartre, Maurice Merleau -

Ponty, Husserl e Heidegger.

Nel 1953 si specializza in Malattie nervose e mentali presso la clinica neuropsichiatrica di Padova. Lo stesso

anno sposa Franca Ongaro, che gli darà due figli, sarà coautrice col marito di alcune opere sulla psichiatria

ed entrerà in Parlamento per Sinistra Indipendente. Nel 1958 Basaglia ottiene la libera docenza

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in psichiatria. Per le sue idee innovative e rivoluzionarie non viene bene accolto in ambito accademico,

cosicché nel 1961 decide di rinunciare alla carriera universitaria e di trasferirsi a Gorizia per dirigere

l'ospedale psichiatrico della città. Si tratta di un esilio professionale dovuto soprattutto alle scelte politiche

e scientifiche. L'impatto con la realtà del manicomio è durissimo. Teoricamente si avvicina alle correnti

psichiatriche di ispirazione fenomenologica ed esistenziale (Karl Jaspers, Eugéne Minkowski, Ludwig

Binswanger), ma anche a Michel Foucault e Erving Goffman per la critica all'istituzione psichiatrica.

A Gorizia, dopo alcuni soggiorni all'estero (fra cui la visita alla comunità terapeutica di Maxwell Jones), avvia

nel 1962, insieme ad Antonio Slavich, la prima esperienza anti-istituzionale nell'ambito della cura dei malati

di mente. In particolare, egli tenta di trasferire il modello della comunità terapeutica all'interno

dell'ospedale e inizia una vera e propria rivoluzione. Si eliminano tutti i tipi di contenzione fisica e le terapie

elettroconvulsivanti (elettroshock), vengono aperti i cancelli dei reparti. Non più solo terapie

farmacologiche, ma anche rapporti umani rinnovati con il personale. I pazienti devono essere trattati come

uomini, persone in crisi. Fu l'inizio di una riflessione sociopolitica sulla trasformazione dell'ospedale

psichiatrico e di ulteriori esperienze di rinnovamento nel trattamento della follia, alternative anche alla

esperienza di Gorizia.

Nel 1967 cura il volume Che cos'è la psichiatria?. Nel 1968 pubblica L'istituzione negata. Rapporto da un

ospedale psichiatrico, dove racconta al grande pubblico l'esperienza dell'ospedale psichiatrico di Gorizia.

Quest'ultima si rivela un'opera di grande successo editoriale.

Nel 1969 lascia Gorizia e, dopo due anni a Parma dove dirige l'ospedale di Colorno, nell'agosto

del 1971 diviene direttore del manicomio di Trieste. Basaglia istituisce subito, all'interno dell'ospedale

psichiatrico, laboratori di pittura e di teatro. Nasce anche una cooperativa di lavoro per i pazienti, che così

cominciano a svolgere lavori riconosciuti e retribuiti. Ma ormai sente il bisogno di andare oltre la

trasformazione della vita all'interno dell'ospedale psichiatrico: il manicomio per lui va chiuso ed al suo

posto va costruita una rete di servizi esterni, per provvedere all'assistenza delle persone affette da disturbi

mentali. La psichiatria, che non ha compreso i sintomi della malattia mentale, deve cessare di giocare un

ruolo nel processo di esclusione del "malato mentale", voluto da un sistema ideologico convinto di poter

negare e annullare le proprie contraddizioni, allontanandole da sé ed emarginandole. Nel 1973 Trieste

viene designata "zona pilota" per l'Italia nella ricerca dell'OMS sui servizi di salute mentale. Nello stesso

anno Basaglia fonda il movimento Psichiatria Democratica, favorendo la diffusione in Italia

dell'antipsichiatria, una corrente di pensiero sorta in Inghilterra nel quadro della contestazione e dei

fermenti rivoluzionari del 1968 ad opera principalmente di David Cooper.

Nel gennaio 1977 viene annunciata la chiusura del manicomio "San Giovanni" di Trieste entro l'anno.

L'anno successivo, il 13 maggio 1978, in Parlamento viene approvata la legge 180 di riforma psichiatrica.

Nel 1979 Basaglia parte per il Brasile, dove, attraverso una serie di seminari raccolti successivamente nel

volume Conferenze brasiliane, testimonia la propria esperienza. Nel novembre del 1979 lascia la direzione

di Trieste e si trasferisce a Roma, dove assume l'incarico di coordinatore dei servizi psichiatrici della Regione

Lazio.

Nella primavera del 1980 si manifestano i primi sintomi di un tumore al cervello, che in pochi mesi lo

porterà alla morte, avvenuta il 29 agosto 1980 nella sua casa di Venezia. A distanza di 30 anni, benché sia

stata più volte oggetto di discussione e di tentativi di revisione, la legge 180 è ancora la legge quadro che

regola l'assistenza psichiatrica in Italia.

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Il pensiero

Già durante gli anni di studio universitario e di specializzazione in neuropsichiatria presso l'Ateneo

padovano, Basaglia tenta di integrare la rigida impostazione medica di matrice positivista, con un nuovo

approccio filosofico di stampo fenomenologico-esistenziale. Egli è alla ricerca di nuovi strumenti di

validazione funzionali alla nuova idea psichiatrica che gradualmente sta maturando in lui proprio grazie alle

letture filosofiche.

Impostazione positivista e fenomenologica in psicologia

Basaglia supera la semplice visione positivista, facendo proprie istanze di una visione fenomenologica della

psichiatria:

• Secondo l'impostazione positivista, i sintomi della malattia vengono considerati "dati oggettivi",

"fatti" osservati empiricamente, per classificare in modo oggettivo la malattia, ipotizzare una

eventuale prognosi, con un approccio non dissimile al metodo di osservazione tipico delle scienze

naturali.

• Secondo l'impostazione fenomenologica, la psichiatria non può ridurre il malato ad una serie di

sintomi classificati, sebbene la loro osservazione e la loro descrizione dettagliata rimangano

strumenti preziosi. Il paziente non si può osservare solamente dall'esterno, poiché la psiche umana

è decisamente più complessa e misteriosa, la psichiatria non deve “oggettivizzare” il malato in una

diagnosi.

Basaglia sostiene che il medico non deve solo saper osservare la malattia, soffermarsi sui suoi sintomi,

pretendere di darne una spiegazione. Il medico deve anche saper avvicinare il paziente mettendosi dalla

sua parte, stabilire una relazione con un ascolto attento e partecipe senza temere l'esperienza

dell'immedesimazione e della sofferenza. Lo psichiatra avvicinandosi al paziente deve prendere in carico

tutta la persona, il suo corpo e la sua mente, il suo essere nel mondo e dunque la sua storia e la sua vita.

Husserl, Heiddegger, Minkoswski, Sastre: studiando questi filosofi Basaglia prende sempre più coscienza

che gli insegnamenti dei diversi modelli si integrano nella concezione della dimensione corporea come

prioritaria, sulla quale il lavoro della psichiatria deve affondare i propri strumenti, proprio in ragione della

natura specifica del corpo stesso.

Egli matura l'urgenza di migliorare la gestione e la custodia dei malati mentali. Da questa analisi teorica

parte la critica radicale dell'istituzione del manicomio, come luogo di emarginazione e non di cura, e il

perentorio mandato di ridare dignità al malato in quanto persona, fuoriuscendo dall'etichettamento della

malattia.

« Dal momento in cui oltrepassa il muro dell'internamento, il malato entra in una nuova dimensione di

vuoto emozionale ([...]); viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo

inoffensivo ed insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo

annientamento della sua individualità, come luogo della sua totale oggettivazione. Se la malattia mentale è,

alla sua stessa origine, perdita dell'individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il

luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell'internamento.

L'assenza di ogni progetto, la perdita del futuro, l'essere costantemente in balia degli altri senza la minima

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spinta personale, l'aver scandita e organizzata la propria giornata su tempi dettati solo da esigenze

organizzative che – proprio in quanto tali – non possono tenere conto del singolo individuo e delle

particolari circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionalizzante su cui si articola la vita dell'asilo. »

(Franco Basaglia, 1964)

Basaglia si convince che il folle ha bisogno non solo delle cure per la sua malattia, ma anche di un rapporto

umano con chi lo cura, di risposte reali per il suo essere, di denaro, di una famiglia e di tutto ciò di cui anche

i medici che lo curano hanno bisogno. Insomma il folle non è solamente un malato, ma un uomo con tutte

le sue necessità. Trattato come uomo, il folle non presenta più una "malattia", ma una "crisi", una crisi

vitale, esistenziale, sociale, familiare che sfugge a qualsiasi "diagnosi" utile solo a cristallizzare una

situazione istituzionalizzata.

Basaglia si occupa da psicopatologo della malattia mentale con la preoccupazione di salvaguardare la

soggettività del malato di fronte alla violenza del sapere psichiatrico e di riscoprire la dimensione più

misteriosa, e dunque più particolare, dell'essere umano. La follia non è malattia. L'analista deve restare in

ascolto dell'altro e spogliarsi d'ogni certezza, per poter far questo, avverte sempre più pressante la

necessità di operare una sospensione, una epoché, di tutte le categorie sclerotizzate per poter ridare parola

al paziente. Il pensiero esistenziale e fenomenologico eviscerato in questi anni di studio gli dà anche

un'altra certezza: non si può trasformare il mondo senza trasformare se stessi, senza esporsi al rischio di

diventare altri da ciò che si è.

Legge Basaglia

Con Legge Basaglia si intende la legge italiana numero 180 del 13 maggio 1978, "Accertamenti e

trattamenti sanitari volontari e obbligatori".

Estensore materiale della legge fu lo psichiatra e politico democristiano Bruno Orsini.

Basaglia si impegnò nel compito di riformare l'organizzazione dell'assistenza psichiatrica ospedaliera e

territoriale, proponendo un superamento della logica manicomiale.

Come disse lo stesso Basaglia intervistato da Maurizio Costanzo:

« Non è importante tanto il fatto che in futuro ci siano o meno manicomi e cliniche chiuse, è importante

che noi adesso abbiamo provato che si può fare diversamente, ora sappiamo che c'è un altro modo di

affrontare la questione; anche senza la costrizione. »

La Legge 180 è la prima e unica legge quadro che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò

il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici.

Prima della riforma dell'organizzazione dei servizi psichiatrici legata alla legge n. 180/1978,

i manicomi erano spesso significativamente connotati anche come luoghi di contenimento sociale, e dove

l'intervento terapeutico e riabilitativo scontava frequentemente le limitazioni di un'impostazione clinica che

si apriva poco ai contributi della psichiatria sociale, delle forme di supporto territoriale, delle potenzialità

delle strutture intermedie, e della diffusione della psicoterapia nei servizi pubblici.

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La legge stessa voleva anche essere un modo per modernizzare l'impostazione clinica dell'assistenza

psichiatrica, instaurando rapporti umani rinnovati con il personale e la società, riconoscendo appieno i

diritti e la necessità di una vita di qualità dei pazienti, seguiti e curati anche da strutture territoriali.

La legge n. 180/1978 demandò l'attuazione alle Regioni, le quali legiferarono in maniera eterogenea,

producendo risultati diversificati nel territorio. Nel 1978 solo nel 55% delle province italiane vi era un

ospedale psichiatrico pubblico, mentre nel resto del paese ci si avvaleva di strutture private per il 18%, o

delle strutture di altre province per il 27%.

Di fatto, solo dopo il 1994, con il "Progetto Obiettivo" e la razionalizzazione delle strutture di assistenza

psichiatrica da attivare a livello nazionale, si completò la previsione di legge di eliminazione dei residui

manicomiali.

Nonostante critiche e proposte di revisione, le norme della legge n. 180/1978 regolano tuttora l'assistenza

psichiatrica in Italia.

Applicazione della legge quadro Basaglia

Attualmente la riforma del sistema dell'assistenza psichiatrica ospedaliera e territoriale ha avuto reale

attuazione solo nella regione Friuli Venezia Giulia, nel comune di Pistoia e in altre località minori dove come

ha dichiarato lo psichiatra e all'epoca assistente di Basaglia Peppe Dell'Acqua "il settore pubblico e privato

sociale funziona bene, le persone in cura vivono nelle loro case o in luoghi in cui possono esprimere i propri

desideri in relazione con altri, ambire a un lavoro e alla realizzazione di obiettivi". .

TSO

Con trattamento sanitario obbligatorio (T.S.O.), in Italia si intendono procedure sanitarie normate e con

specifiche tutele di legge, che possono essere applicate in caso di motivata necessità e urgenza clinica,

conseguenti al rifiuto al trattamento del soggetto che soffra di una grave patologia psichiatrica o infettiva

non altrimenti gestibile, a tutela della sua salute e sicurezza e/o della salute pubblica.

Il trattamento sanitario obbligatorio, istituito dalla legge n. 180/1978 (legge Basaglia) e attualmente

regolamentato dalla legge 23 dicembre 1978 n. 833 (articoli 33-35), è un atto composito, di tipo medico e

giuridico, che consente l'effettuazione di determinati accertamenti e terapie a un soggetto affetto da

malattia mentale che, anche se in presenza di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi

terapeutici, rifiuti il trattamento (solitamente per mancanza di consapevolezza di malattia).

Il concetto di T.S.O. basato su valutazioni di gravità clinica e di urgenza - e quindi inteso come una

procedura esclusivamente finalizzata alla tutela della salute e della sicurezza del paziente - ha sostituito la

precedente normativa del 1904 riguardante il "ricovero coatto" (legge n. 36/1904), basato sul concetto di

"pericolosità per sé e per gli altri e/o pubblico scandalo", concetto maggiormente orientato verso la difesa

sociale.

Competenze e casi di applicazione

Il T.S.O. viene disposto dal sindaco del comune (il sindaco è la massima autorità sanitaria di un comune)

presso il quale si trova il paziente, su proposta motivata di un medico. Qualora il trattamento preveda un

ricovero ospedaliero, è necessaria inoltre la convalida di un secondo medico, appartenente a una struttura

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pubblica. La procedura impone infine la convalida del provvedimento del sindaco da parte del giudice

tutelare di competenza.

Il T.S.O. ospedaliero viene disposto quando:

• una persona affetta da malattia mentale necessiti di trattamenti sanitari urgenti;

• rifiuti il trattamento;

• non sia possibile prendere adeguate misure extraospedaliere.

Il T.S.O. ospedaliero ha una durata massima di sette giorni, ma può essere eventualmente rinnovato e

quindi prolungato nel caso ne permanga la necessità clinica motivata.

Durante il T.S.O., che si svolge nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti

dalla Costituzione, e può essere trasformato in qualunque momento in ricovero volontario su richiesta del

paziente, viene mantenuto anche, per quanto possibile, il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di

cura.

Per quanto riguarda il T.S.O. ospedaliero, la legge indica la scelta del luogo di ricovero nei reparti di

psichiatria esistenti negli ospedali generali (i cosiddetti Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, o SPDC).

TSO in altri ambiti

Possono essere effettuati interventi di TSO, a tutela della salute pubblica e con specifiche previsioni di

legge, anche in ambito infettivologico; ad esempio, nel caso di malattie infettive e contagiose per le quali

esista l'obbligo di denuncia (titolo V, L. n. 1265/1934), o per quanto riguarda le vaccinazioni obbligatorie

previste dalla Legge.