a cura del prof. zanna michele per il dipartimento di lettere
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ISTITUTO TECNICO STATALE “G. PIOVENE”
A cura del prof. Zanna Michele per il Dipartimento di Lettere
1918-2008: 90° ANNIVERSARIO
DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE
10 suggerimenti X 5 percorsi =
50 tracce di memoria scomparsa
UN PERCORSO DIDATTICO TRA ATTUALITA’ POLITICA E
INSEGNAMENTO DELLA STORIA
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INDICE
INTRODUZIONE
LA STORIA TRA PASSATO E PRESENTE:
INTERVENTO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA GIORGIO NAPOLITANO
MASSIMO SALVADORI: L’INUTILE MASSACRO, LA REPUBBLICA
CARLO SGORLON: CI TORMENTA IL RICORDO DEI MORTI, AVVENIRE
GIAN ENRICO RUSCONI: QUESTA LA NOSTRA VITTORIA, LA STAMPA
E. GALLI DELLA LOGGIA: NOI FIGLI DELLA GUERRA, CORRIERE DELLA SERA
ANGELO D’ORSI: NON C’E’ NIENTE DA FESTEGGIARE, LIBERAZIONE
EMILIO GENTILE: LA MACELLERIA DELLA MODERNITA’, IL SOLE 24 ORE
5 PERCORSI PER DOCUMENTARSI:
STORIA E STORIOGRAFIA
IL VOLTO DELLA GRANDE GUERRA NEL CINEMA
LA GUERRA NARRATA
IMMAGINI, SUONI E STORIE
LA GRANDE GUERRA IN INTERNET
SCHEDE DIDATTICHE:
A FERRO E FUOCO: TUTTA LA VIOLENZA DELLE ARMI
SCHEDA SINTETICA SULLA PRIMA GUERRA MONDIALE
LE GUERRE DAL 1900 AL 1945
TEMA, SAGGIO BREVE, TERZE PROVE, ESERCITAZIONI
CITAZIONE:DON LORENZO MILANI. LETTERA AI CAPPELLANI MILITARI
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INTRODUZIONE
Tra i docenti più consapevoli che insegnano storia, a qualsiasi livello scolastico, è viva la
preoccupazione del netto prevalere dell‟ormai scandaloso uso politico della storia che sotto la
maschera dei cosiddetti revisionismi o del prevalere di una interpretazione dei fatti dettata da
ricostruzioni televisive spesso di scarso valore culturale, sta devastando lo stesso statuto scientifico
della ricerca storica, ridotta a una sorta di arsenale mistificatorio della polemica politica e deprivata
del suo ruolo di strumento indispensabile per comprendere il presente. Questo schema si è
puntualmente ripetuto anche per il novantesimo anniversario della prima guerra mondiale.
Ormai è diventato un clichè fisso: prima di una data di un certo rilievo partono le polemiche degli
storici o dei politici sulle pagine culturali dei maggiori quotidiani, la televisione manda in onda
fiction o documentari, l‟editoria specializzata manda in libreria nuovi lavori o ristampa qualche
vecchia ricerca che pochissimi leggeranno. Il grosso dei cittadini semplicemente non ascolta o non
comprende il vero motivo delle polemiche, ma in compenso quello che si è soliti definire il “senso
comune storico” regredisce a un livello sempre più basso e non c‟è insegnamento storico che possa
arginare questa deriva che porta prepotentemente a generazioni prive della memoria del passato.
Tutto questo proprio nel momento in cui i grandi processi di trasformazione in corso esigerebbero
una vigorosa coscienza storica, civile, politica.
Le conferme non mancano nemmeno dalle indagini di taglio sociologico. In un articolo
apparso sul Corriere della Sera del 4 novembre Renato Mannheimer scriveva un trafiletto
interessante che vale la pena di riportare per esteso. “Oggi è il 4 novembre, una ricorrenza di rilievo
nella storia del nostro Paese. Ma quanti, sanno esattamente che cosa si celebra in questa data? È
probabile che tra i lettori (che, anche per il fatto di consultare un quotidiano, sono mediamente più
informati del resto della popolazione) molti - ma non tutti - siano in grado di rispondere. Tra gli
italiani in generale, tuttavia, la situazione è assai diversa. Solo meno di un cittadino su quattro (24
per cento) riesce infatti a precisare, almeno a grandi linee, che cosa sia accaduto il 4 novembre.
Quasi uno su tre (31 per cento) risponde in modo errato e la maggioranza (45 per cento) dichiara
con grande schiettezza di non avere la minima idea del motivo della ricorrenza. La percentuale di
affermazioni «non lo so» è assai più elevata tra i giovani, a riprova delle carenze della formazione
storica nelle scuole: nella classe di età compresa tra i 18 e i 24 anni, due persone su tre non sanno
rispondere. La situazione non cambia granché in relazione al titolo di studio: il 41 per cento dei
laureati italiani ignora cosa sia successo il 4 novembre, né sa a quale periodo storico si faccia
riferimento. Il quadro non appare diverso nemmeno in relazione all‟orientamento politico. Anzi,
contrariamente a ciò che qualcuno si poteva forse aspettare, la percentuale di «conoscitori» della
ricorrenza è maggiore (ma sempre fortemente minoritaria: 29 per cento) tra gli elettori del
centrosinistra che tra quelli del centrodestra (22 per cento). Come si sa, è stato proposto di
reintrodurre il 4 novembre come festività nelle scuole, suscitando sia adesioni sia pareri contrari.
Ma, forse, prima di discuterne, sarà il caso di promuovere una campagna informativa che illustri,
specie tra i più giovani, che cosa oggi si ricorda di preciso”.
L‟obiettivo che si pone il lavoro che segue è proprio questo: cercare i linguaggi (oltre ai
libri, il cinema, la fotografia, i siti in internet, ecc…) i percorsi, le iniziative che, se utilizzati nella
scuola o nella società, sappiano mettere in campo una strategia utile per informare e formare
giovani e meno giovani, in modo corretto e con strumenti aggiornati. Certo a proteggere almeno in
parte la serietà della ricerca storica vi è la nicchia degli studiosi accademici: il presente lavoro nella
sua parte centrale ad essa si affida pur nella molteplicità delle posizioni culturali e delle
interpretazioni storiografiche; ma senza rinunciare ad utilizzare altri strumenti più vicini alle
abitudini e alla sensibilità di strati di popolazione ormai sempre meno abituati alla lettura di libri,
soprattutto della saggistica più impegnativa, e sempre più predisposti a rispondere a stimoli molto
diversi.
Le pagine che seguono si dividono in sostanza in tre parti, con l‟aggiunta di una
significativa appendice. Nella prima, “La storia tra passato e presente”, sono raccolti diversi
interventi, prevalentemente di storici, apparsi sui maggiori quotidiani italiani, preceduti però dal
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testo letto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il giorno della commemorazione
ufficiale. L‟intervento del capo della Stato si rivela ad una attenta lettura molto equilibrato,
sgombera il campo da ogni polemica politica pretestuosa, evita accuratamente toni trionfalistici,
cita sapientemente uno studioso di vaglia da pochi giorni scomparso come Giuliano Procacci; il
tutto pur nei limiti di un discorso che deve avere l‟enfasi di una commemorazione e come tale si
presta ad essere letto ad alta voce.
A seguire la polemica tra gli storici pur con differenze, anche notevoli, nello stile di una scrittura a
metà strada fra il saggio breve e il linguaggio giornalistico: quasi di taglio didattico il testo di
Massimo Salvadori apparso sulla “Repubblica”, carico di ricordi personali quello di Carlo Sgorlon
(“Avvenire”), come sempre molto problematico e ragionato l‟intervento di Gian Enrico Rusconi
sul quotidiano “La Stampa”. Di taglio decisamente più polemico i testi di Ernesto Galli della
Loggia (“Corriere della Sera”) e Angelo D‟Orsi (“Liberazione”). Al termine di questa prima
sezione è riportata una pagina del recentissimo e interessante libro di Emilio Gentile, “L‟apocalisse
della modernità. La grande guerra per l‟uomo nuovo”, anticipata anch‟essa dal quotidiano “Il Sole
24 ore”.
Nella seconda parte, “5 percorsi per documentarsi”, il tentativo è quello di ricostruire le
fonti attraverso le quali pervenire ad un aggiornamento culturale sul tema specifico della Grande
Guerra. Naturalmente al primo posto la storiografia più aggiornata nella sezione intitolata appunto
“Storia e storiografia”. Sono selezionati una quindicina di libri, fra i migliori, prodotti tutti da
storici particolarmente competenti italiani e stranieri: Traverso, Isnenghi, Rochat, Ceschin, Gibelli,
Keegan, Ferguson, Rusconi, Canfora, Gentile, MacMillan, Fussell, ecc…Per ogni libro si è
ricercata una recensione apparsa sulle pagine culturali dei quotidiani nell‟anno in cui il testo è stato
pubblicato: i nomi dei recensori e il giorno della pubblicazione sono citati al termine di ogni
articolo. Anche in questo caso ne viene fuori un collage interessante tra brevi saggi e articoli
giornalistici scritti con la penna, talvolta benevola talaltra acuminata, di storici che recensiscono
altri storici.
La sezione “Il volto della grande guerra nel cinema”, riporta una serie di segnalazioni (tutte
desunte dal dizionario dei film “ilMorandini” della Zanichelli) dei film più importanti sulla prima
guerra mondiale: i primi sono rispettivamente del 1916 (“Maciste Alpino”) e del 1918 (“Charlot
soldato”) e l‟ultimo del 2005 (“Joveux Noel: una verità dimenticata dalla storia”), passando per i
grandi capolavori di Renoir, Kubrick, Monicelli, Rosi, Weir, Tavernier. Non manca una
segnalazione di una videocassetta e di un dvd per rappresentare la variante, di valore diseguale, del
linguaggio documentaristico.
Sono una quindicina i romanzi individuati e recensiti nella sezione: “La guerra narrata”. Si tratta
di una produzione molto diversificata: dai grandi capolavori (Lussu, Remarque, Hemingway, Cèlin,
Rigoni Stern, ecc…) fino agli esiti talvolta molto incerti degli autori contemporanei. Resta il dato
che il linguaggio della letteratura e quello del cinema possono rivelarsi decisivi per un primo
approccio alle tematiche storiche.
Anche la fotografia e la musica attirano molto, come è ovvio, l‟attenzione degli studenti anche di
quelli più refrattari allo studio della storia. Nella sezione “Immagini, suoni e storie” si è cercato di
ricostruire una bibliografia imperniata sulle fonti più diverse: libri di fotografie, Cd musicali,
poesie, storie di singoli luoghi o personaggi, ecc…Emerge una scacchiera sulla quale ogni docente
può giocarsi con più facilità la carta di una più robusta motivazione allo studio di questo
argomento: insieme naturalmente ai vari siti nel web che sono segnalati nella sezione “La Grande
Guerra in Internet”.
Nella terza ed ultima parte, “Schede didattiche”, si riporta materiale elaborato in questi
anni in varie esperienze didattiche (i prospetti: “A ferro e fuoco: tutta la violenza delle armi”,
“Scheda sintetica della prima guerra mondiale”, “Le guerre dal 1900 al 1945”), oppure
esercitazioni didattiche utili per i docenti della scuola secondaria superiore che preparano le loro
classi ad affrontare gli esami di Stato, nelle varie tipologie in cui gli alunni devono mettere in gioco
le loro conoscenze storiche.
Al termine una lunga citazione “colta” certo non per caso: il testo integrale della lettera aperta di
Don Lorenzo Milani ai cappellani militari. Un testo, del 1965, che è importante leggere e far
leggere ancora oggi.
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“10 suggerimenti X 5 percorsi = 50 tracce di memoria scomparsa”: questo il titolo del
lavoro che altro non vuol essere se non una raccolta di materiale da offrire a docenti, bibliotecari,
studenti universitari ed appassionati di storia contemporanea. Ognuno ne farà quello che riterrà più
opportuno, ognuno coglierà quelle indicazioni che troverà più congeniali.
Lo scopo ultimo di questo lavoro è quello di posizionarsi a metà strada tra la documentazione di
quello che la ricerca storiografica produce e la capacità di saper decifrare la polemica culturale e
politica che ormai da un ventennio si registra intorno a molti nodi della storia italiana; di trovare il
giusto equilibrio fra lo studio della storia e la pratica didattica; di superare le frustrazioni quotidiane
dettate dalla scarsa importanza che la società italiana riserva alla memoria storica e alle condizioni
in cui versa l‟insegnamento di questa disciplina
in ambito educativo e formativo.
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INTERVENTO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
GIORGIO NAPOLITANO
Celebrazioni del 90° anniversario di Vittorio Veneto: 4 novembre 2008
Quest‟anno la ricorrenza del 4 novembre sta suscitando un nuovo fervore di iniziative e di
dibattiti. E se ne possono comprendere i motivi. Il lungo spazio storico che ci separa dalla
conclusione - vittoriosa per l'Italia - della prima guerra mondiale, ci consente una visione
finalmente matura di quel passaggio drammatico della nostra vita nazionale, ci induce a
coglierne significati e valori che fanno ormai tutt'uno con la coscienza del cammino
percorso da allora dal nostro paese, dall'Europa, dal mondo, con la coscienza delle
responsabilità cui nel presente siamo chiamati a far fronte.
Non è dunque formale, e meno che mai - in nessun senso - strumentale la celebrazione che
promuoviamo, e che sentiamo come necessaria e giusta, del novantesimo anniversario di
quella grande, luminosa giornata del 1918. E' una celebrazione che vediamo innanzitutto
come occasione di rinnovato omaggio alla memoria dei seicentomila italiani che caddero,
bruciati in quella spaventosa fornace bellica: verso di essi la nazione italiana ha un debito
inestinguibile, che dobbiamo continuare, sempre, a onorare. Nello stesso tempo, forte è in
noi il senso dell'occasione da cogliere per riflettere ancora sulla prova che diedero di sé, in
condizioni così dure, il nostro paese e il nostro popolo, su come ne uscirono cambiati, su
quali effetti e sviluppi positivi si sarebbe potuto contare nel futuro, al di là delle convulse
vicende che seguirono e che segnarono per oltre un ventennio la società italiana.
Proprio nel riaprirsi in queste settimane del dibattito pubblico sulla prima guerra mondiale
e in special modo sulla sua fase conclusiva, molte voci di studiosi si sono levate per
mettere in risalto l'effetto di identificazione del popolo con la nazione, di conquista del
senso dell'unità nazionale, che la prima guerra mondiale, per come fu vissuta in Italia, ci ha
lasciato in preziosa eredità.
Ricordare e valorizzare tutto questo non ha nulla a che vedere con esaltazioni retoriche, di
stampo nazionalistico e militaristico, che qualcuno sembra temere. Non è all'ordine del
giorno la riproposizione anacronistica delle dispute del 1914 e '15 sull'intervento dell'Italia
in guerra, sulle motivazioni e le modalità di quell'intervento, sul rovesciamento delle
alleanze e sulla impreparazione militare che segnarono per il nostro paese l'inizio di quella
guerra. Questi sono temi consegnati da tempo all'approfondimento degli storici: così come
l'analisi del composito insieme delle ispirazioni e delle forze - politiche, culturali, morali -
che sostennero l'entrata dell'Italia in guerra.
Sappiamo quanto si sia parlato e scritto su una visione liberale e risorgimentale
("idealizzata" in qualche modo) di quella scelta, e su una visione nazionalistica e perfino
imperiale che venne dal lato opposto. Ma da parte delle istituzioni non si vuole oggi - non
si può volere - l'attribuzione del crisma dell'ufficialità a qualsivoglia interpretazione
storica.
Torniamo allora alla constatazione di fondo, che nessuno può onestamente denunciare
come retorica e addirittura come esaltatrice e glorificatrice della guerra in quanto tale. Lo
dirò con le parole di uno studioso antiretorico per eccellenza, Giuliano Procacci, autore di
un esemplare profilo di storia degli italiani:
Con la guerra - egli ha scritto - "vastissimi strati sociali, il cui mondo era stato sino allora
circoscritto entro un orizzonte provinciale, venivano costretti per forza delle cose a
prendere coscienza del loro destino comune e dell'esistenza di una collettività nazionale.
L'Italia umile e provinciale, l'Italia di coloro per cui il problema primo era quello di tirare
avanti e che si muovevano dal loro paese e dal loro campanile solo per andare in America,
si trovò coinvolta nella guerra e i suoi figli poveri seppero di essere cittadini solo quando si
trovarono vestiti da soldati e furono mandati a combattere nelle trincee. Si può dire anzi
che un'opinione pubblica nazionale, nel senso più largo del termine, nacque in Italia solo
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con la prima guerra mondiale, la prima grande esperienza collettiva del popolo italiano."
Così lo storico. E si può ben aggiungere che quella grande e durissima esperienza culminò
nella reazione al disastro di Caporetto, nella resistenza sul Piave e sul Grappa,
nell'offensiva di Vittorio Veneto. Nel bel convegno svoltosi giorni fa alla Camera dei
Deputati per iniziativa del suo Presidente, il professor Monticone ha sottolineato come la
sconfitta di Caporetto, "con l'invasione del vasto territorio friulano e veneto sino alle linee
del Piave e del Grappa, segnò un radicale cambiamento nel carattere della guerra italiana".
Fu messa in forse l'integrità nazionale, mentre l'obbiettivo era stato quello di completarla;
si delineò "la possibile caduta nell'orbita del predominio delle Potenze centrali" contro cui
si era dichiarata la guerra persino con propositi espansionistici. Si diffuse la
consapevolezza "del dramma e del rischio per tutto il Paese". L'allarme fu generale,
l'appello "a tendere tutte le forze a un unico fine" venne anche da grandi personalità
inizialmente inclini al neutralismo: "la guerra - scrisse nel novembre 1917 Benedetto Croce
- che finora solo in parte era nostra, ora si fa veramente nostra".
Di qui una straordinaria risposta, fino alla vittoria che fu conseguita insieme dai soldati e
dai cittadini, dalle crocerossine al fronte e da figure umili ed eroiche come le portatrici di
Carnia. Una vittoria resa possibile, anche, da uno sforzo senza precedenti di mobilitazione
industriale, che ebbe per protagonista una moltitudine di operai. Né si può dimenticare il
prezioso sostegno che alla patria in guerra venne dalle donne rimaste a presidio delle
famiglie. L'Italia uscì in questo senso dalla prova del 1917-18 cambiata moralmente, forte
di un'acquisita comunanza di destino più che di uno status di grande potenza, riunita - con
la liberazione di Trento e Trieste - entro i confini sognati dai patrioti del Risorgimento.
Celebrare questo storico risultato non significa nemmeno per un momento dimenticare o
tacere errori fatali, responsabilità politiche e militari, cui si debbono far risalire costi umani
e rischi estremi imposti al paese. Celebrare la vittoria del 4 novembre ed esaltare i sacrifici
e gli eroismi che la prepararono e la forgiarono, non significa nemmeno per un momento
edulcorare le atrocità della guerra, le sofferenze subìte, l'immenso prezzo di vite umane
pagato dal popolo italiano. Appartengo alla generazione i cui padri combatterono per anni
nelle trincee della prima guerra mondiale: essi hanno trasmesso a ciascuno di noi una
testimonianza incancellabile di orrore per la guerra e di volontà di resistervi, di vivere e di
far vivere la patria italiana.
In un breve libro scritto al ritorno dal servizio prestato al fronte come ufficiale di
complemento, mio padre scrisse: "si è immensamente sofferto, ma si ritorna migliori".
"Tutto soffersero coloro che fecero la guerra, tutto sacrificarono, ma i sopravviventi hanno
ereditato un senso nuovo della vita".
E tra i ricordi che egli consegnò a quelle pagine, permettetemi ancora di citare questo :
"Non dimentico. A Buso del Termine, sull'Altipiano di Asiago, linea di partenza per Cima
di Valbella, dietro quella possente corazza di rocce frammentarie, diseguali, massicce e
sbilenche, così duramente e pertinacemente battuta dall'artiglieria nemica e così variamente
saggiata e valicata dai pugnaci combattimenti, mi si riempiva la gola di un groppo di
lacrime nel seguire i nostri umili fanti, tutti intenti a tracciare scavare comporre, nel luogo
che pareva il più coperto, tombe per i resti di poveri caduti. Essi riuscivano, con quelle
mani rudi, che eran passate dall'impiego della vanga e del ronciglio a quello della bomba a
mano e del fucile, riuscivano a fare delle piccole opere di bellezza" ... "Bisognava seguirli,
quei fanti, che non si svestivano da mesi, e vivevan la vita più aspra, e da un momento
all'altro dovevano salire alla contesa linea di Monte Valbella." Si, per la mia generazione la
storia della Grande Guerra è anche fatta di memorie familiari e di richiami affettivi.
Fu - lo ripeto con le parole che ho già citato - la prima grande esperienza collettiva del
popolo italiano: e i suoi frutti non furono annullati dalla convulsa crisi sociale e politica
che vi seguì, e che vide l'Italia partecipe per vent'anni dell'era dei totalitarismi in Europa,
soggetto e vittima di predicazioni belliciste e di ambizioni o illusioni imperiali.
Non fu annullato il prezioso frutto di una nuova coscienza nata tra gli italiani: l'esser parte -
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tutti - di una collettività nazionale, il riconoscersi nel valore dell'unità nazionale. E questo è
un retaggio che dobbiamo aver caro. Un retaggio identificabile con quell'amor di patria, e
quel senso della dignità nazionale, che sorresse i nostri combattenti a El Alamein - l'ho
appena ricordato dinanzi al sacrario dedicato a quelle migliaia di caduti -, che dopo l'8
settembre 1943 ispirò la disperata resistenza delle nostre forze a Cefalonia, che animò
nell'aspra fase finale della seconda guerra mondiale il rinato esercito italiano a Mignano
Monte Lungo o i militari impegnatisi accanto alle formazioni partigiane nella guerra di
Liberazione.
Ci muoviamo oggi in un paese e in un mondo radicalmente cambiati. Non c'è più lo spettro
della guerra sul territorio europeo. Si è spento il focolaio della prima e della seconda guerra
mondiale, entrambe esplose e sanguinosamente combattute nel cuore dell'Europa. C'è stata
riconciliazione nella pace e nella democrazia, via via rimuovendosi l'ipoteca e la minaccia
rappresentate dal persistere di vecchie ideologie di irriducibile contrapposizione. Che cosa
sia diventata l'Europa ce lo hanno detto in questi decenni alcune immagini-simbolo: il
rappresentante illuminato della resistenza al nazismo e della nuova coscienza nazionale
della Germania democratica che cade in ginocchio dinanzi al monumento ai caduti del
ghetto di Varsavia, il presidente francese e il cancelliere tedesco che si tengono per mano
onorando insieme la memoria degli eroi e delle vittime del massacro sul campo di battaglia
di Verdun.
Questo è diventata l'Europa, e con essa l'Italia. Repubblica democratica fondata sul lavoro.
Non si evochino, oggi, nel nostro paese, per amor di polemica politica o vetero-ideologica,
spettri che nessuno vuole più resuscitare. E' legge per tutti la Costituzione repubblicana:
"L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come
mezzo di risoluzione delle controversie internazionali" - "La difesa della Patria è sacro
dovere del cittadino" - "L'ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito
democratico della Repubblica" - "L'Italia consente ... alle limitazioni di sovranità
necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni e ... favorisce
le organizzazioni rivolte a tale scopo".
Sono queste le tavole del nostro impegno comune. Non c'è più spazio né per il militarismo
né per l'antimilitarismo. E' sancita una cultura della pace, di cui è parte l'attaccamento alla
Patria e il dovere di difenderla, e di cui è parte anche il nostro sostegno alle organizzazioni
internazionali deputate a garantire pace e giustizia nel mondo e alle decisioni che esse
possono assumere a questo fine. E si è tracciata così la nuova visione e funzione delle
nostre Forze Armate, che in nome della Costituzione oggi festeggiamo e a cui rendiamo
omaggio per l'impegno che pongono, con spirito di sacrificio e intelligenza, fuori dal suolo
italiano, al servizio di missioni per la pace e la sicurezza internazionale.
Come ha ben detto il Presidente Fini nel recente Convegno già da me richiamato, "è
impossibile oggi pensare la patria senza la libertà e i diritti del cittadino", "la nazione va
ancorata alla democrazia, e questa va legata, a sua volta, al valore della nazione". E' così
che dobbiamo calarci più che mai nella prospettiva dell'Europa unita ; abbiamo bisogno del
massimo di coesione nel riconoscerci in un patrimonio comune di storia e di valori e
nell'operare unendo le nostre forze, per poter dare un valido contributo alla costruzione
europea e far valere il nostro ruolo. Non c'è avvenire per il nostro paese senza tener ferma e
far vivere l'unità nazionale, in seno alla nuova Europa di cui siamo parte integrante.
E' qualcosa che sentiamo in modo particolare nel momento difficile che l'Italia, l'Europa e
il mondo stanno affrontando. La libera competizione sociale e politica democratica, il
libero confronto ideale e culturale, il libero esercizio dei diritti individuali e collettivi,
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compreso il diritto al dissenso e all'opposizione, sono pienamente compatibili con il senso
di appartenenza alla comunità nazionale che anche attraverso il drammatico cimento della
prima guerra mondiale abbiamo sempre di più riconosciuto e vissuto come fondamento del
nostro essere cittadini italiani. Un senso di appartenenza che implica consapevolezza della
complessità delle sfide che stanno oggi dinanzi all'Italia e dunque della necessità di non
sfuggire al dovere dell'impegno comune e solidale, al di là di ogni legittima e fisiologica
dialettica di posizioni, per salvaguardare il tessuto unitario del paese e garantirgli un futuro
migliore.
A questi pensieri, solo apparentemente così lontani dalla lezione di quegli avvenimenti, ci
induce la celebrazione del 90° anniversario della conclusione vittoriosa della prima guerra
mondiale. Pensieri di pace, di amor di patria, di responsabilità e unità nazionale.
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MASSIMO SALVADORI: L’INUTILE MASSACRO
LA REPUBBLICA 4 NOVEMBRE 2008
A esprimere ciò che ha rappresentato la prima guerra mondiale, la quale ha insanguinato
l´Europa come mai avvenuto in precedenza, sono stati anzitutto quanti l‟hanno vissuta:
militari, politici, intellettuali, uomini e donne di ogni ceto. Divisi tra loro nella valutazione
del suo significato e nelle posizioni assunte a favore o contro gli obiettivi dei rispettivi
paesi, li ha però accomunati un unico responso: che essa determinò il crollo di un mondo.
Lo percepì fin dal 1915, con un senso di orrore e spavento, Sigmund Freud, il quale
scriveva: «Ci pare che mai un evento storico abbia distrutto in tal misura il così prezioso
patrimonio comune dell‟umanità, (...) inabissato così profondamente tutto quanto vi è di
elevato». Ma di chi la responsabilità?
La pubblicistica politica e la storiografia hanno alimentato in proposito un dibattito
infinito. Merita in particolare di essere ricordato, per la statura degli studiosi, lo scontro
avvenuto negli anni „60 tra Fritz Fischer, sostenitore del ruolo primario avuto dalla
Germania nello scatenamento e nel proseguimento della guerra, e Gerhard Ritter, il quale
tale tesi ha vigorosamente contestato. Su questa questione, pare a chi scrive che parole
quanto mai persuasive abbia scritto il grande storico russo Evegheni V. Tarle, pochi anni
dopo la conclusione del conflitto, quando osservò che «entrambi gli schieramenti delle
potenze ostili avevano piani di conquista, entrambi erano capaci di far divampare
l‟incendio al momento che fosse parso loro vantaggioso, aggrappandosi al pretesto che
apparisse il più idoneo», ma che nell‟estate del 1914 la decisione fu presa da Germania e
Austria le quali si erano convinte che fosse allora venuta l‟occasione per esse più
favorevole.
La «grande guerra», iniziata tra le fanfare e tripudi di folle osannanti nell‟illusione di un
conflitto di pochi mesi e durata invece dall‟agosto 1914 al novembre 1918, fu così detta
perché mai nel passato ve ne era stata una eguale. Fu una guerra mondiale perché,
scatenata allorché il vecchio continente credeva di poter addirittura accrescere la propria
posizione di «centralità», ebbe come oggetto quale blocco di potenze europee dovesse
tenere il maggior dominio nel globo; e perché le sue conseguenze coinvolsero l‟intera carta
geopolitica del mondo. Fu al tempo stesso una guerra europea, in quanto tutto venne
giocato nei campi di battaglia europei, anche dopo l‟intervento americano nell‟aprile del
1917, e quasi tutte le immani devastazioni materiali e la grandissima maggioranza dei
morti e feriti riguardarono l‟Europa.
Fu una guerra che mobilitò come mai prima sotto il controllo crescente dello Stato le
risorse economiche - e anzitutto quelle industriali - preposte a fornire, in quantità
gigantesche, agli eserciti di terra fucili, mitragliatrici, artiglierie, mezzi di trasporto a
motore, alle flotte navi moderne e sottomarini, armi nuove come gli aerei e i carri armati,
equipaggiamenti di ogni genere; e le risorse umane tese allo spasimo, segnando l‟ingresso
nella produzione di fabbrica su una scala senza precedenti della mano d‟opera femminile.
E la vittoria andò al campo in grado di fornire tali risorse nel maggior grado.
Fu una guerra che provocò un immenso massacro. Le cifre dei caduti furono di 1.800.000
tedeschi, tra i 1.700.000 e i 2.500.000 sudditi dell‟impero zarista, 1.350.000 francesi,
1.300.000 appartenenti all‟impero austro-ungarico, 750.000 britannici e 190.000
appartenenti ai dominions, 600.000 italiani, 300-350.000 romeni, 300-350.000 turchi, 300-
350.000 serbi, 100.000 bulgari, 100.000 americani, 50.000 belgi.
Fu una guerra che maciullò i corpi e avvelenò gli spiriti degli europei. I corpi dei soldati
furono martoriati nelle grandi battaglie e negli scontri crudeli tra le opposte trincee e
intossicati dai gas usati per la prima volta, come fu narrato in maniera indimenticabile da
scrittori come Eric Maria Remarque in All´Ovest niente di nuovo e da Emilio Lussu in Un
anno sull´altipiano e in chiave cinematografica da registi come Lewis Milestone nel film
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tratto dal libro di Remarque e da Stanley Kubrick in Orizzonti di gloria, e documentato
dalle cineprese dei corrispondenti di guerra. Gli spiriti vennero avvelenati sia da schiere di
propagandisti e giornalisti al servizio dei governi e degli Stati Maggiori sia da intellettuali
anche grandissimi i quali, con poche eccezioni tra cui Romain Rolland che ne denunciò
l‟asservimento al potere e l‟accecamento, esaltarono chi la Kultur dei popoli germanici e
chi la Civilisation dei popoli liberali occidentali. Vi furono poi i più aspri conflitti tra i
militaristi-imperialisti e i pacifisti di impronta umanistica e religiosa, tra i socialisti
rivoluzionari intesi a sovvertire l‟intero ordine costituito e i loro vari oppositori e nemici.
Vi furono le chiese benedicenti gli eserciti, prima e dopo che Benedetto XV parlasse nel
1917 dell‟«inutile strage», e contadini, operai e soldati di tutti i fronti maledicenti. I
tribunali militari lavorarono a pieno ritmo; soldati ribelli o troppo stanchi vennero
decimati, fucilati, imprigionati, mentre i futuristi italiani parlavano di «estetica della
guerra» e si compiacevano della «bella guerra virile e tecnologica». Le classi dirigenti
operarono per «nazionalizzare le masse», per porle al totale servizio di una guerra in cui
«la morte di massa» - ha scritto Mosse - «fu innalzata nel regno del sacro».
Fu una guerra civile ideologica tra le potenze occidentali che - poco curanti di essere
alleate con l‟impero russo autocratico e carcere di popoli - sventolavano la bandiera della
democrazia e delle libere nazionalità e gli imperi centrali, alleati della Turchia, che
alzavano quella di un vero ordine fondato su gerarchie solidali e affidato alla guida di
monarchi, alti burocrati e militari.
Fu una guerra che lasciò un‟eredità spaventosa. Il valore della vita umana risultò annullato,
si diffusero uno spirito di violenza e una disponibilità a ricorrere ad essa che avrebbero
fatto sentire i loro effetti virulenti in futuro e che toccarono i punti estremi nelle pratiche
del bolscevismo, dei fascismi e del militarismo nipponico.
Fu una guerra che tradì la promessa tanto agitata di essere l‟ultima, quella che avrebbe
assicurato pace, democrazia, benessere. Provocò il crollo dell‟impero germanico,
dell‟impero asburgico e dell‟impero zarista; creò le condizioni per la conquista del potere
da parte dei bolscevichi in Russia e lo scatenamento di un‟ondata di convulsioni politiche e
sociali destinate a durare un‟intera epoca storica e a sconvolgere la società europea; fece
nascere molti nuovi fragili Stati; portò all‟emergere della potenza di un‟America che presto
voltò le spalle alla «pazza» Europa e si richiuse nell‟isolazionismo. Per l‟Italia la guerra fu
la «quarta guerra di indipendenza», ma essa mise in ginocchio il paese e vi attivò conflitti
distruttivi.
Come vide fin dal 1919 John Maynard Keynes, celebre autore de Le conseguenze
economiche della pace, le potenze vincitrici dettarono ai vinti una pace cartaginese «senza
nobiltà, senza moralità, senza intelletto», la quale seminò nuovo disordine, nuovi conflitti e
nuove guerre. In riferimento all‟animo con cui agirono in particolare i governanti francesi e
inglesi, che si imposero su un Wilson forte nella retorica ma debole in concreto, Keynes
osservava: «La vita futura dell‟Europa non li riguardava», la loro mente era tutta rivolta
alle frontiere, agli equilibri di forza, agli ingrandimenti imperialistici, «al futuro
indebolimento di un nemico forte e pericoloso, alla vendetta e a riversare dalle spalle dei
vincitori su quelle dei vinti gli insostenibili pesi finanziari». Così avvenne che si
coltivassero i germi patogeni di un secondo e ancora più catastrofico 1914: il 1939.
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CARLO SGORLON
CI TORMENTA IL RICORDO DEI MORTI. LA GUERRA RIPUDIATA.
AVVENIRE 4 NOVEMBRE 2008
Quando ero bambino, e poi adolescente, il IV Novembre era una giornata di duplice festa.
Era il mio onomastico e il giorno in cui si celebrava la vittoria dell‟Italia e dei suoi alleati
sopra gli Imperi centrali. La mia giovanissima età e il clima politico creato dal Ventennio
faceva sì che sentissi la doppia festa con una particolare intensità. Le mie capacità di giudi-
zio non mi permettevano di riflettere in modi maturi su ciò che v‟era dietro l‟armistizio di
villa Giusti, e il testo di Armando Diaz, ossia il bollettino della vittoria. Quel testo era
riprodotto in targhe di bronzo sotto le logge di tutti i municipi, accanto alla lastra di marmo
che ricordava invece le «inique sanzioni» della Società delle Nazioni, perché l‟Italia aveva
attaccato e conquistato l‟antico impero di Etiopia.
Certo neppure oggi, dopo aver visto da vicino la seconda guerra mondiale, e dopo aver
letto tanti libri e assistito a tanti film sulle grandi guerre, e su cento altre, potrei dimenticare
ciò che significò per l‟Italia il IV Novembre. Il nostro Paese aveva raggiunto finalmente i
suoi confini naturali, che già Dante aveva indicato più di sei secoli prima che la nostra
patria unificata fosse una realtà. Aveva conquistato Trento, Gorizia e Trieste. Il trattato di
Saint Germain ci avrebbe assegnato anche la Dalmazia e l‟Istria, dove si parlava, almeno
lungo le coste, veneziano. Fu una decisione quasi giusta perché appartenute alla Se-
renissima in secoli lontani. Invece ingiustamente ci fu assegnato anche l‟Alto Adige, di
lingua tedesca.
La guerra dunque veniva considerata il quarto conflitto del nostro Risorgimento. Aveva
sviluppato l‟effetto di creare uno spirito nazionale, almeno in superficie. Aveva contribuito
a far nascere un sentimento di fratellanza tra le classi popolari, che avevano supportato più
delle altre i tremendi sacrifici della guerra. Ciò soprattutto tra i soldati, i giovani delle
campagne e dei quartieri popolari delle città, che erano stati profondamente accomunati
dalle esperienze crudeli e sanguinose delle trincee e degli assalti.
Queste cose dicono gli storici, e certo non si possono negare. Questo ripetono, più o meno,
anche gli uomini delle istituzioni, della politica e dell‟esercito, accanto ai monumenti e alle
lapidi che ricordano i caduti. Non è possibile criticarli. Ma da allora, dopo tanti decenni,
per me e per molti il IV Novembre significa anche parecchie altre cose. Dopo due
sanguinosissimi conflitti mondiali, noi europei abbiamo cambiato radicalmente opinioni e
sentimenti su quelle guerre, e sulla guerra in generale. Nessuno, almeno nell‟Europa
occidentale, ritiene più che la politica, quando non riesce a raggiungere i suoi scopi, debba
ricorrere alla violenza per conseguirli. L‟opinione di Von Clausewitz è ormai qualcosa di
arcaico. A nessuno passa più per la mente che si debbano derubare altri popoli dei loro
territori, come riteneva l‟imperialismo nazista e fascista, per aggiungere una palata di
gloria sporca alla propria storia.
Per me e per la stragrande maggioranza degli europei la guerra ormai è soltanto un cumulo
di orrori; significa sangue, morte, distruzione, fame, persecuzione, paura, miseria. Tutti
sappiamo cosa accadde dopo la fine della prima guerra mondiale, per averlo letto nei libri e
visto in film e documentari. La gioia e la celebraizone del trionfo militare furono soffocate
quasi del tutto da avvenimenti tragici e imprevisti.
Dunque noi cittadini, che non abbiamo obblighi di natura rappresentativa e istituzionale,
dobbiamo ricordare o celebrare ancora, dopo vent‟anni, il IV Novembre? Non significa
rievocare una sterminata tragedia, e rinverdire insofferenze e urti tra le nazioni allora
nemiche? Questo pericolo ormai è ridotto pressoché a nulla. Ma il IV Novembre deve
significare soprattutto il ricordo dei morti. Nella notissima scalinata di Redipuglia riposano
le salme di centomila soldati; a Oslavia, presso Gorizia, ve ne sono sessantamila. A Udine,
nel piazzale XXVI Luglio, v‟è un tempio-ossario che raccoglie i resti di altri trentamila
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caduti. Dobbiamo ricordare questi giovani sfortunati, cui la guerra impedì di vivere
normalmente, le cui vite furono troncate violentemente nell‟età migliore e più ricca di
speranza. E il IV Novembre è anche il giorno delle Forze Armate, cui oggi tutti si sentono
legati, compresi tantissimi pacifisti. Esse infatti sono un‟istituzione che garantisce ordine,
pace, difesa, a noi e persino ad altri popoli, anche lontani, purtroppo tuttora invischiati in
tragici conflitti con i propri vicini, o divisi all‟interno da guerre civili o tribali.
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GIAN ENRICO RUSCONI: QUESTA LA NOSTRA VITTORIA
LA STAMPA 4 NOVEMBRE 2008
Dietro la motivazione ideale irredentista i primi semi cattivi del nazional-imperialismo
festeggiamo senz‟altro il 4 novembre 1918 che ricorda la vittoria dell‟Italia contro
l‟Austria-Ungheria e la Germania. Questa festa ci appartiene. È parte della memoria
profonda del Paese che, nonostante la miseria della sua cultura storica, ha interiorizzato il
ricordo dell‟infinita schiera di giovani soldati morti, feriti e combattenti nella più grande
prova militare mai affrontata dall‟Italia. L‟ha interiorizzata come un evento traumatico
eppure grandioso con uno straordinario effetto di identificazione.
E‟ stata davvero «la nostra guerra» - ma non nel senso retorico ed enfatico dei politici
nazionalisti. In qualche caso addirittura contro di loro. Questo è l‟affascinante enigma della
Grande Guerra. Di fronte a esso qualunque tentativo delle parti politiche di adottarla come
propria maglietta identitaria è semplicemente miserabile.
Parliamo tranquillamente di «vittoria», senza dare a questa parola il significato sprezzante
o rivendicativo contro «il nemico storico». Non c‟è bisogno di aggiungere che noi non
vogliamo più nemici né vittorie di questo tipo. Sono sicuro che saranno d‟accordo anche i
nostri ex nemici di allora - austriaci, tedeschi, slovacchi, croati, sloveni ecc.
Detto questo, il 4 novembre non deve essere una commemorazione a-storica. O peggio un
patetico fervorino neo-nazionalista che confonde tutto e pretende di essere ecumenico. No.
Dobbiamo chiederci con maturo senso storico non solo se quella vittoria meritava lo
spaventoso sacrificio che ha richiesto. Non solo se è stata una pagina gloriosa della nostra
condotta militare, o se invece la vittoria è stata raggiunta grazie alla dedizione dei soldati di
ogni grado più che alle qualità e alla competenza degli alti comandi militari. Ma soprattutto
dobbiamo chiederci se era quella «la vittoria» per cui si erano mossi i fanti del 24 maggio
1915.
La guerra segna il crinale di due epoche. Prima c‟è l‟Italia presa in un tumultuoso processo
economico e sociale di modernizzazione, guidata da un ceto politico nazional-liberale che,
incalzato da un emergente movimento socialista radicale, tenta di risolvere i problemi
nazionali entrando nel grande gioco mortale delle potenze europee, a fronte di una
popolazione in gran parte ancora rurale e provinciale priva di sicuro orientamento. Ma
dopo il novembre 1918 c‟è un‟altra Italia, fuori controllo proprio in forza delle
straordinarie energie economiche, sociali, morali, culturali, politiche scatenate per superare
la prova le cui dimensioni e conseguenze erano impreviste. Da qui la crisi del sistema
parlamentare, l‟esplosione incontrollabile dei conflitti sociali, la radicalizzazione politica,
la reazione violenta di strada e di piazza, lo squadrismo, il mussolinismo, il fascismo - in
nome della «vittoria», «mutilata» non soltanto dal comportamento verso l‟Italia delle
potenze vincitrici, ma anche dalla reazione di rigetto di larghi strati di popolazione e dei
partiti di sinistra.
Qual è il nesso tra questi eventi e il 4 novembre? Si può festeggiare oggi questa data senza
farsi la domanda? Senza interrogarsi sul modo in cui la «vittoria» è stata politicamente
usata? Ma anche senza interrogarsi sull‟imperdonabile errore delle sinistre di allora di farsi
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scippare dalla destra ultranazionalista e fascista l‟ambivalente eppur profonda
identificazione popolare con la guerra?
Ma qui vorrei affrontare l‟altra faccia della questione: il nesso tra il 4 novembre 1918 e il
24 maggio 1915. La qualità della vittoria risponde alle ragioni dell‟intervento in guerra?
Risponde alle motivazioni e alle attese dei combattenti? Non dimentichiamo che l‟Italia
prende l‟iniziativa di dichiarare guerra nel maggio 1915, entrando nel conflitto europeo
dieci mesi dopo il suo scatenamento, quando sono diventate evidenti anche le nuove
caratteristiche materiali, tecnologiche e umane del conflitto.
Perché il governo italiano abbandona la neutralità, dichiarata nell‟agosto 1914, respinge
tutte le proposte di negoziazione e di compromesso offertegli per rimanere fuori dalla
guerra (l‟offerta del Trentino)? Perché intimidisce le opposizioni interne pur di fare la
guerra?
La risposta che ancora orienta le nostre narrazioni ufficiali e i libri di scuola dice che lo
scopo è la «liberazione» (la «redenzione») delle regioni italiane sotto il dominio straniero
(simbolicamente Trento e Trieste). È una risposta sacrosantamente vera per le migliaia di
soldati mobilitati e pronti a morire per il compimento del Risorgimento nazionale. Ma
l‟obiettivo che si pone il ceto politico dirigente (e la monarchia) - ora in modo esplicito ora
in modo mimetizzato in uno spregiudicato gioco politico e mediatico (sia pure limitato alla
sola stampa e pubblicistica), con una mobilitazione e pressione extraparlamentare ai limiti
della legalità, tesa a convincere e a intimidire una maggioranza parlamentare riluttante e
dubbiosa - è assai più ambizioso e avventuroso. L‟Italia deve diventare «una grande
potenza» nell‟area adriatico-danubiana a spese della monarchia asburgica, anche a costo di
entrare in frizione con gli stessi popoli che vi abitano. L‟«irredentismo» è soltanto la
motivazione ideale.
Siano dunque davanti a un obiettivo nazional-imperialistico, sia pure a raggio regionale (e
coloniale), che va ben oltre l‟aspirazione a «liberare» gli italiani del Trentino e dell‟area
triestino-istriana. Ma non dobbiamo né scandalizzarci né avere paura delle parole. La
logica di potenza guida tutte le nazioni del tempo. E sarebbe antistorico aspettarci un
comportamento diverso dalla classe politica italiana. Certo: i liberali moderati di Giolitti, il
movimento socialista, i cattolici tentano di opporsi. Ma al di là dei loro errori tattici e
strategici, la loro impotenza politica è impressionante. Lo slogan socialista «né aderire né
sabotare» esprime più di ogni altra considerazione l‟impotenza di ogni alternativa politica
all‟intervento.
Nei mesi cruciali della primavera del 1915 la stragrande maggioranza del popolo italiano
segue con docilità la sua classe politica che la porta in guerra. Soltanto in seguito, negli
anni successivi, ci saranno le proteste, le ribellioni, le diserzioni (ma non in numero
superiore alle altre nazioni belligeranti). Poi arriverà Caporetto, il Piave, il Grappa e
finalmente Vittorio Veneto.
Ma chi ha passato «il Piave che mormorava» nel maggio 1915 - se è sopravvissuto - non è
più lo stesso di prima. L‟esperienza della ferocia in trincea, il lutto profondo per i
compagni perduti, l‟ebbrezza nazionalista hanno attenuato se non cancellato i tratti di
liberalità e di idealismo che caratterizzavano l‟inizio. Altrimenti non si spiegherebbero le
politiche di nazionalizzazione, italianizzazione forzata e poi di fascistizzazione dei territori
etnicamente non omologhi - dall‟Alto Adige alla Dalmazia - annessi al regno. Sono così
gettati i semi cattivi che avrebbero germogliato - in modo diverso nelle diverse regioni -
nel secondo conflitto mondiale.
Non so se tutto questo fosse già presente o latente in quel lontano novembre 1918. Ma
certamente noi vogliamo festeggiarlo e ricordarlo con piena maturità critica. Questa è la
nostra vittoria.
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ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA: NOI, FIGLI DELLA GRANDE
GUERRA – CORRIERE DELLA SERA 29 OTTOBRE 2008
La rottura del rapporto storico con lo Stato unitario, in conseguenza della sconfitta del ' 40-
' 45, insieme all' avvento della democrazia e alla diffusa modernizzazione, hanno reso l'
identità italiana odierna qualcosa di difficilmente comparabile con quella di 90 anni fa. Ma,
se si guarda meglio, se si considera con più attenzione lo sviluppo delle cose, allora la
prospettiva muta. Allora cominciano a emergere i nessi tra oggi e quel tempo,
apparentemente lontano certo, ma che fu anche il tempo in cui cominciammo a diventare
ciò che siamo.
Avviene così che quegli anni intorno alla Grande Guerra ci si presentino non solo e non
tanto come un puro punto di partenza ma come qualcosa di assai più significativo. Essi ci
appaiono come una sorta di crogiuolo nel quale non è difficile rintracciare i prodromi dei
tratti salienti della odierna identità nostra che ho detto - la rottura dell' antico rapporto con
lo Stato, le avvisaglie della democrazia e della modernizzazione. E insieme, però, gli anni e
gli eventi stretti intorno al nodo della Prima guerra mondiale ci appaiono anche il
palcoscenico sul quale andò in scena la prima rappresentazione delle contraddizioni che
quei tratti della nuova identità italiana si portavano appresso, che tutt‟oggi si portano
appresso. Insomma, ogni volta che all' ordine del giorno della società italiana si pone
qualche questione riguardante il senso dello Stato, o l' ethos e i meccanismi della
democrazia, o il senso e gli effetti della modernità, ogni volta i problemi, i conflitti, le
inadeguatezze che avvertiamo al riguardo, rimandano in qualche modo a quel passato. È
come se la guerra del ' 15-18 e il vorticoso succedersi di eventi che da essa prese le mosse
costituiscano una sorta di Dna del nostro presente. Il paradosso di questo sovrapporsi di
lontananza e di presenza, di passato e di attualità, rispecchia bene la natura ambigua di
quella guerra, che fu insieme l' ultima guerra per l' unità nazionale, ma anche il primo
episodio di un aspro scontro interno al Paese: scontro che in modi e forme diverse era
destinato a caratterizzare gran parte del Novecento italiano, assumendo spesso toni e
contenuti di una guerra civile. Se è vero che il primo conflitto mondiale segnò la fine del
regime notabilare postrisorgimentale e quindi l' iniziale ingresso delle masse sulla scena
nazionale, cioè il principio di una moderna vita politica, ebbene, allora è impossibile non
osservare come, proprio a partire da quel punto, nel nostro Paese tale moderna vita politica
abbia subito una vera e propria rottura. All' Italia, infatti, non riuscì il passaggio cruciale tra
liberalismo e democrazia che il conflitto mondiale aveva messo dappertutto all' ordine del
giorno. Nella tormentata contingenza della guerra e del dopoguerra l' Italia scoprì da un
lato quanto fragile fosse l' involucro liberale dei suoi ordinamenti e di tanta parte delle sue
tradizionali classi dirigenti, e dall' altro, insieme, quale concezione primitiva della
democrazia avessero tanti che premevano per nuovi equilibri politici e sociali. Il 1919-22
fu una sorta di ultimo atto di quanto era iniziato nell' inverno-primavera del 1915.
Comparvero allora in tutto il loro rilievo quelli che nel cinquantennio successivo, e forse
oltre, sarebbero stati alcuni tra i fattori determinanti della scena italiana: una cultura e una
pratica di governo dominate dall' indecisione, il radicalismo intellettuale di parte
significativa del ceto dei colti, la variegata vocazione attivistica di gruppi consistenti di
piccola e media borghesia specie giovanile, il massimalismo largamente diffuso nei
pensieri e nell' azione degli strati popolari. A cominciare dalle «radiose giornate», dal
«biennio rosso» e poi dalla «marcia su Roma», a cominciare da questi tre atti di un unico
dramma, in quante altre occasioni della nostra storia sarebbe capitato agli osservatori più
acuti di notare il peso condizionante dei fattori che ho appena ricordati, presi da soli o
mischiati tra loro in varia misura! Proprio intorno alla Grande Guerra, insomma, si precisò
definitivamente e si approfondì quella propensione alla divisività che ha caratterizzato in
modo patologico, e per certi aspetti ancora caratterizza, la storia del nostro Paese. Una
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divisività che, lo sappiamo bene, oltre che riferirsi a una dimensione propriamente
ideologico-politica, anzi quasi prima di essa, tende a presentarsi addirittura in una
dimensione antropologico-culturale e perfino morale. Come uno spartiacque tra due
nazioni, tra due Italie, una buona e degna, l' altra cattiva e indegna, destinate perciò a farsi
in eterno la guerra. La nostra identità novecentesca, ci piaccia o no, sembra fatta anche di
questa incomponibile volontà contrappositiva, sempre pronta ad alimentare reciproche,
eterne, scomuniche. Ma proprio dal primo conflitto mondiale data anche l' inizio di un
fenomeno destinato in certo senso a fungere da paradossale contrappeso rispetto alla
divisività di cui ora ho detto, e destinato anch' esso a rappresentare un filo rosso della
moderna vicenda italiana. Mi riferisco alla frequente migrazione di personalità e di idee da
un' Italia all' altra, da uno schieramento politico-culturale all' altro, per essere più chiaro
dalla destra alla sinistra e viceversa. È qualcosa di sostanzialmente diverso dal vecchio
trasformismo ottocentesco in qualche modo rimesso a nuovo da Giolitti. Il carattere
variegato del fronte interventista nel ' 15 va visto piuttosto come il preannuncio della
«grande contaminazione di forze, di ideali, di gruppi» che la guerra produsse già al suo
inizio, e poi subito dopo, e che in seguito si sarebbe molte altre volte verificato nell' Italia
novecentesca in occasione di ogni grande sommovimento: per esempio nel 1943, e poi nel
1948, e ancora nel ' 68, e da ultimo nel ' 93-94. Un segno, tra i molti altri, di un che di
profondamente instabile, incerto e quindi potenzialmente e imprevedibilmente fusionale,
che caratterizza la moderna scena pubblica italiana, le sue culture e i suoi gruppi dirigenti,
costretti dalla storia a muoversi senza avere il punto di riferimento di alcuna stabile,
consolidata, tradizione nazionale. Non è certo un caso se ben due volte, in occasione dei
due conflitti mondiali, il nostro Paese abbia visto ogni volta mutare radicalmente il proprio
regime politico: e dunque ogni volta si sia posto puntualmente il dilemma di quanta parte
della vecchia classe dirigente ammettere nel nuovo ordine, o respingere.
Il testo qui pubblicato è una sintesi dell' intervento che Ernesto Galli della Loggia tiene
oggi alla tavola rotonda «L' identità nazionale italiana a novant‟anni dal 4 novembre», che
conclude il convegno «La Grande Guerra nella memoria italiana», organizzato a Roma
dalla Camera dei deputati presso la Sala della Lupa di Montecitorio, a partire dalle ore 10.
Alla tavola rotonda, moderata da Arrigo Levi, partecipano anche Edmondo Berselli, Piero
Melograni, Lorenzo Ornaghi, Francesco Perfetti. Il convegno prevede relazioni di Alberto
Monticone, Carlo Jean, Valerio Castronovo, Manuela Di Centa
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ANGELO D’ORSI: CANEA NAZIONALISTA, NON C’E’ NIENTE DA
FESTEGGIARE
LIBERAZIONE 21 OTTOBRE 2008
Il novantesimo anniversario della fine della Prima Guerra mondiale è stato poco ricordato
in Italia; assai di più, altrove. Per esempio in Francia. Ma come? Non certo con parate e
cerimonie, o con conferenze di generali; o concerti tricolorati. L‟anniversario è stato
l‟occasione per convegni, pubblicazioni scientifiche, seminari; si è, insomma, colto il
pretesto della data, per avviare ricerche innovative, per fornire nuove riflessioni, dare
ulteriori approfondimenti rispetto al lavoro, sempre in progress, della storiografia. Che, sul
conflitto 1914-‟18, ha prodotto finora una enorme quantità di studi, ma, come sempre,
davanti ai tornanti decisivi della storia, non cessa di produrne. Anzi, su quella guerra che
gli stessi contemporanei definirono “grande”, gli stessi oggetti e i parametri della ricerca
sono andati radicalmente cambiando a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo,
quando, in sostanza, si celebrava il cinquantennio. Si cominciarono a scoprire le
decimazioni, i processi sommari, la vera e propria guerra nella guerra che le gerarchie, a
cominciare da quell‟inetto pericoloso che fu Luigi Cadorna (comandante in capo fino
all‟autunno ‟17, ossia alla rotta disastrosa di Caporetto), condussero contro la truppa: che,
come è noto, era formata essenzialmente di contadini analfabeti, i quali sugli altipiani delle
Tre Venezie si facevano ammazzare senza
nemmeno sapere perché. Si studiò poi la vita (se vita la si può chiamare) di trincea: fango,
pidocchi, fame, infezioni, epidemie, dissenteria... E la morte che si affacciava repentina,
benché sempre attesa e temuta, portando via ogni giorno, ogni notte – con un colpo d‟obice
che cadeva all‟improvviso sulle teste di quegli uomini che conducevano un‟esistenza da
topi – il suo bottino di sangue. L‟atrocità immane, le carneficine, la pulsione distruggitrice
che si scatenò sul Vecchio Continente, travolse non solo i corpi, ma le menti dei soldati, e
spesso anche dei civili, che con quella guerra cominciarono a essere pesantemente
coinvolti dalle operazioni militari.
Gli storici passarono dunque a studiare le malattie psichiatriche, i ricoveri coatti, dopo aver
studiato le mutilazioni, e l‟impossibile rientro nella cosiddetta “vita civile” dei milioni di
smobilitati. Quella guerra fu un gigantesco trauma per l‟Europa, innanzi tutto, ma non solo
per l‟Europa; lo fu nel suo inizio, ma lo fu anche nella sua conclusione, per gli strascichi di
rancori e risentimenti, di problemi sociali ed economici, di difficoltà di reinserimento per i
combattenti, per l‟abitudine alla violenza che dal campo di battaglia tracimò nel campo
della politica, trasformando gli avversari politici in nemici militari, in «nemici interni»,
contribuendo in modo decisivo a una tremenda radicalizzazione e a una fortissima
ideologizzazione dell‟azione politica. Ne nacque, certo, un nuovo, importante
protagonismo delle masse, prima di allora, perlopiù, largamente inerti e subordinate, e che,
dopo la guerra, oscillarono tra adesione ai socialismi e ai nazionalismi. Se la doppia
rivoluzione russa fu il frutto “buono” di quel conflitto (a prescindere dalle sue inquietanti
deviazioni”), fascismo e nazismo ne furono i frutti velenosi: gli uni e l‟altra, esempi di quel
grandioso fenomeno di obilitazione delle masse cui accennavo. Si aggiunga che l‟Italia
entrò in quella guerra con una piroetta diplomatica che ci trasformò da allora nei traditori
per antonomasia (alleati all‟Austria e alla Germania ci schierammo con la Francia, Gran
Bretagna e Russia), ma soprattutto vi entrò contro la volontà del Parlamento, e dell‟intero
Paese, che non era affatto preparato: né tecnicamente, né economicamente, né sul piano
dell‟opinione pubblica, a gettarsi allo sbaraglio. Fu, come avrebbe notato un grande
storico, Luigi Salvatorelli, un vero e proprio colpo di Stato del re Vittorio Emanuele III: la
prima delle tante scelte sciagurate che condannarono la dinastia sabauda a finire nella
spazzatura della Storia.
Madre di tutte le guerre moderne, quella guerra, che mostrò come si potesse realizzare
tecnologicamente la morte di massa: con l‟uso di gas tossici, da tutte le parti belligeranti;
con battaglie di massa, condotte con armi per allora modernissime e potenti, che si
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risolvevano in mostruose carneficine; esempio eccelso degli effetti della “seduzione” che
la guerra e la violenza resa giuridicamente lecita, o comunque tollerata, esercitano, anche
nelle forme estreme: si pensi all‟uso delle parti anatomiche strappate, recise, sottratte ai
corpi dei nemici uccisi per farne dei simpatici gadget o souvenir da portare a casa, o
intanto, da tenere su di sé, addirittura come portafortuna. E si pensi al vergognoso
bellicismo di cui quasi tutti gli intellettuali dei diversi Paesi diedero prova, scrivendo
pagine tremende, di cui forse avrebbero dovuto chiedere perdono; cosa che, naturalmente,
non si sognarono di fare. Amiamo la guerra!, di Giovanni Papini, costituisce un esempio
emblematico di quel «tradimento dei chierici » che anni dopo Julien Benda avrebbe
denunciato, sulla scia di un altro grande intellettuale francese, Romain Rolland, che aveva
invitato letterati e studiosi, artisti e scienziati a non cadere nella «canea nazionalista».
Fu insomma, quella «guerra interimperialistica», per usare la categoria di Lenin, anche
l‟avvio di una gigantesca “guerra civile europea” che sarebbe terminata nel 1945: la
“seconda Guerra dei Trent‟anni”, secondo molti studiosi. Come la prima, foriera di
tempeste i cui effetti ancora gravano su di noi. C‟è dunque da celebrare? Difficile anche
solo pensarlo, alla luce appunto delle conoscenze storiche: celebrare poi una “vittoria”,
significa celebrare la “sconfitta” di qualcun altro; quel qualcun altro che magari oggi è
nostro partner nell‟Unione Europea o con il quale abbiamo scambi commerciali e culturali
importanti. Solo l‟ignoranza arrogante e presuntuosa dei nuovi vertici politici delle nostre
Forze Armate può spingersi a un tale traguardo: grottesco, innanzi tutto; ma altresì
pericoloso.
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EMILIO GENTILE: LA MACELLERIA DELLA MODERNITÀ
IL SOLE 24 ORE 30 NOVEMBRE 2008
La Grande Guerra fu considerata dai suoi contemporanei la prima guerra moderna,
combattuta con mezzi e metodi nuovi. Se la modernità si identifica con il “nuovo”, come
era convinzione predominante nella cultura e nella mentalità dell‟epoca, tutto nella Grande
Guerra era moderno, compresa la carneficina di milioni di uomini uccisi, feriti, mutilati,
impazziti. E altrettanto moderno era il sentimento di attesa del nuovo che la guerra aveva
diffuso. Che cosa sarebbe stato, che cosa avrebbe dovuto essere, il “mondo nuovo”, non
era chiaro a tutti; e non tutti quelli che volevano il “nuovo” volevano la stessa cosa. Il
contrasto delle opinioni sul mondo nuovo e sull‟uomo nuovo divenne un contrasto fra
nuove, contrastanti interpretazioni della civiltà moderna, vista attraverso l‟esperienza e le
conseguenze della Grande Guerra. Fin dall‟inizio delle ostilità, alcuni oppositori della
guerra avevano previsto le conseguenze catastrofiche che essa avrebbe avuto per l‟intera
civiltà europea. Come Romain Rolland, all‟epoca uno dei più celebri scrittori europei,
insignito nel 1915 del premio Nobel per la letteratura. Francese di nascita ma cosmopolita
di mente e di cultura, Rolland fu colto di sorpresa dall‟inizio delle ostilità, come la
massima parte dei suoi contemporanei, ma subito si rese conto, come annotava nel suo
diario il 4 agosto 1914, che «questa guerra europea è, dopo secoli, la più grande catastrofe
della storia, la rovina delle nostre più sante speranze nella fratellanza umana».
Quando la Grande Guerra iniziò, l‟uomo europeo pensava di appartenere a una
civiltà che era diventata la civiltà per antonomasia, trionfante ovunque nel mondo. Quando
la Grande Guerra cessò, l‟uomo europeo aveva perso l‟orgoglio della propria superiorità,
era angosciato dalla visione di un futuro senza speranza, dove la nozione stessa dell‟uomo
moderno quale elevata espressione di una superiore civiltà era stata brutalmente annientata
dall‟esperienza della guerra. «Eravamo dei cittadini laboriosi, siamo diventati degli
assassini, dei macellai, dei ladri, degli incendiari», affermava dopo la fine della guerra lo
scrittore austriaco Robert Musil, che aveva combattuto sul fronte italiano in Trentino. «La
guerra, affermava nel 1936 un soldato francese, non ha fatto di noi soltanto dei cadaveri,
degli impotenti, dei ciechi, ma, nel bel mezzo di stupende azioni di sacrificio e di
abnegazione, ha risvegliato nel nostro animo antichi istinti di crudeltà e di barbarie,
talvolta portandoli al parossismo. A me è capitato... a me che mai ho dato un pugno a
qualcuno, a me che ho in orrore il disordine e la brutalità, di provare piacere
nell‟uccidere».
L‟uomo europeo, durante la Grande Guerra, era stato artefice, protagonista e
vittima degli «ultimi giorni dell‟umanità», come li definì nel 1922 il caustico moralista e
critico viennese Karl Kraus, rievocando in un lungo dramma teatrale gli «anni in cui
personaggi da operetta recitarono la tragedia dell‟umanità». Nell‟epilogo del dramma, una
voce dall‟alto, proveniente dal pianeta Marte, annunciava la punizione inflitta al pianeta
degli umani: «Perché alfin sulla vostra ancor trepida terra,/ la vittoria finale ponga fine alla
guerra,/ e perché in alcun modo non sia contrastata/ con grande successo l‟abbiam
bombardata».
La Grande Guerra era stata una guerra europea, ma era diventata “mondiale” perché
l‟Europa era il centro del mondo, quando il conflitto era iniziato. Quando la guerra finì, il
mondo era cambiato e non aveva più un centro. «Noi europei - ricordava nel 1923 il
musicista, teologo e medico tedesco Albert Schweitzer - avevamo oltrepassato la soglia del
ventesimo secolo con incrollabile fiducia in noi stessi, e quanto si scriveva allora sulla
nostra civiltà non faceva che confermare l‟ingenua fede nel suo alto valore. Chiunque
esprimeva un dubbio veniva guardato con stupore». Ora, dopo la grande guerra, «è chiaro a
tutti che la morte della civiltà è data dal tipo del nostro progresso. Ciò che rimane non è più
saldo, resta in piedi perché non è stato ancora esposto alla pressione che ha fatto cadere il
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resto ma, costruito com‟è sulla ghiaia, facilmente verrà trascinato via alla prossima frana.
Quale processo ha portato nella civiltà tale affievolimento di energia?».
Non stupiscono, dopo l‟esperienza della Grande Guerra, le angosce sul destino
dell‟uomo moderno né le considerazioni sul declino della civiltà occidentale, sulla fine del
progresso, sulla crisi della ragione, sulla possibilità stessa, per l‟uomo moderno, di
costruire una civiltà capace di allontanare definitivamente lo spettro della barbarie dalla
vita individuale e collettiva. Mai nel corso della storia umana era accaduto, ai
contemporanei di qualsiasi epoca, di vivere in un periodo così breve l‟esperienza
catastrofica del naufragio di una civiltà che, appena un decennio prima, aveva celebrato il
primato della sua universalità, dominando nel mondo con la potenza delle armi, della
ricchezza, della scienza e della cultura. Quel che può invece destare stupore, è constatare
che le riflessioni sulla catastrofe della civiltà europea e sul destino dell‟uomo moderno non
erano nuove, ma erano state già quasi tutte anticipate negli anni precedenti la Grande
Guerra, nel periodo considerato l‟epoca bella della modernità trionfante, quando la civiltà
europea raggiunse l‟apoteosi con il trionfo della modernità come civiltà universale, e con
l‟egemonia dell‟Europa imperiale nel mondo.
Un capitano francese scrisse in una lettera: «Assistiamo alla fine di un mondo, ai
soprassalti di una civiltà che si suicida. Del resto, a parte le sofferenze che questo provoca,
non poteva fare di meglio». Enigmatica, meccanica, anonima, diabolica, bestiale, la
Grande Guerra appariva come una mostruosa simbiosi fra modernità e barbarie, fra
umanità e bestialità, e in questa simbiosi sembrava realizzare effettivamente, con una
crudeltà che superava qualsiasi immaginazione, le profezie sulla catastrofe dell‟uomo
moderno, travolto dalle stesse creature meccaniche che egli aveva inventato per accrescere
la sua potenza e il suo dominio. Anzi, la guerra stessa era una nuova apocalisse, cioè una
nuova rivelazione sul destino umano, non come previsione profetica del futuro, ma
descrizione della realtà del presente: la modernità, per sua essenza catastrofica, aveva
compiuto la distruzione della civiltà per mezzo di potenze tecnologiche, seminatrici della
morte di massa, che l‟uomo moderno aveva inventato per accrescere il suo dominio sulla
natura e sul mondo, diventandone alla fine schiavo e vittima.
Brano tratto dal libro Emilio Gentile “L‟apocalisse della modernità. La grande guerra per
l‟uomo nuovo”, Mondadori, pagg. 310, € 27,00, 2008
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STORIA E STORIOGRAFIA
E. Traverso, A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, Mulino
Sul piano storiografico il tema della «guerra civile europea» combattuta nel XX secolo è
certamente affascinante; su quello politico potrebbe essere ancora inquietante. La
definizione nacque in uno dei momenti più drammatici della storia d' Europa, nella Grande
guerra che devastò il continente dal 1914 al 1918: come ricorda Enzo Traverso nell' opera
densa e complessa che ha dedicato all' argomento (A ferro e fuoco. La guerra civile
europea 1914-1945, Il Mulino), fu adoperata probabilmente per la prima volta dal pittore
tedesco Franz Marc in una lettera scritta dal fronte. I grandi intellettuali di Francia, d'
Inghilterra e di Germania, tranne, forse, Romain Rolland e pochi altri, in quegli anni non l'
avrebbero accettata. Interpretavano il conflitto in corso come scontro tra civiltà e barbarie -
e la civiltà era rappresentata dal proprio Paese e dai suoi alleati -, nel tentativo di dargli più
nobili motivazioni. Thomas Mann, ricorda Traverso, lo considerò una lotta tra la Kultur,
intesa come civiltà, e la Zivilisation, civilizzazione (nel senso che le avevano attribuito gli
illuministi), vista da lui come sviluppo di una modernità senza anima. Da buon patriota
attribuì la Kultur alla Germania e la Zivilisation alla Francia. Finita la guerra però, nel
romanzo La montagna incantata, celebrò nel personaggio dell' illuminista Settembrini «l'
intellettuale democratico, razionalista e progressivo», appartenente dunque più alla
moderna Zivilisation che alla Kultur. Nel 1931 Ernst Jünger sostenne che quella guerra era
stata un' Apocalisse in cui l' Europa aveva mosso guerra all' Europa: guerra civile, dunque,
come conflitto interno a una stessa civiltà, tra due modi del tutto opposti d' intenderla. In
questo senso, quella europea potrebbe essere paragonata anche alla guerra civile americana
del 1861-65. Con l' enorme differenza che l' Europa sarebbe arrivata alla pace soltanto
dopo una seconda guerra mondiale che, come rilevò ancora Jünger nel 1942, avrebbe
superato, almeno sul fronte orientale, gli orrori di tutti i conflitti del passato e sarebbe stata,
insieme, guerra di religione (nel senso di ideologia) e tra Stati e popoli. Jünger coglieva qui
il carattere del tutto particolare della «guerra civile europea», paragonabile per questo
aspetto a quella dei Trent‟anni, che devastò l' Europa dal 1618 al 1648 e vide combattere i
cattolici contro i protestanti, ma in una situazione resa estremamente complessa dall'
esistenza anche di conflitti interstatali. Qualcosa di simile avvenne anche con la
rivoluzione francese. I paragoni storici potrebbero continuare, senza peraltro rendere più
chiara la definizione di «guerra civile europea», sintetica e suggestiva ma anche vaga e
incerta, come nota Traverso. Può essere intesa almeno in tre modi: lotta di classe tra
borghesia e proletariato; scontro tra fascismo e antifascismo; contrapposizione, come
scriveva Jünger, tra due modi opposti d' intendere la civiltà europea. Questa si rifaceva a
due differenti tradizioni sette-ottocentesche: l' illuministica e la romantico-nazionale.
Traverso colloca l' antifascismo nella prima, ritornando più volte sui richiami degli
antifascisti all' illuminismo; ricorda anche che l' intenzione di Goebbels di cancellare dall'
Europa le conseguenze della Rivoluzione francese allargò e consolidò il fronte antifascista
degli intellettuali. In questa prospettiva è possibile anche spiegare l' alleanza che, nel corso
della guerra mondiale, si verificò tra il liberalismo e il comunismo. Erano tutti e due, rileva
Traverso, figli dell' illuminismo. È un' interpretazione fondata, ma bisogna evitare di
collocarla all' interno di uno schema provvidenziale, proprio sia della storiografia liberale
sia di quella comunista: Traverso evita questo rischio, per esempio quando nota che «la
violenza nata dal regresso della civiltà si unisce, attraverso una singolare dialettica, con la
violenza moderna e tecnologica della moderna società industriale». Si può anche osservare
che non sappiamo se l' alleanza tra liberalismo e comunismo, decisiva per sconfiggere il
nazionalsocialismo, si sarebbe ugualmente verificata se il dittatore tedesco non avesse rotto
il patto di non aggressione con l' Unione Sovietica e non l' avesse invasa (e se gli Stati
Uniti non fossero intervenuti, ma anch' essi dopo essere stati attaccati dal Giappone). È un
dubbio angosciante, ma del tutto legittimo. La guerra civile spagnola che, in fatto di
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alleanze, prefigurò gli schieramenti del secondo conflitto mondiale, semplificando, rileva
Traverso, il triangolo liberalismo-comunismo-fascismo nella contrapposizione tra fascismo
e antifascismo, terminò con la vittoria del primo. Traverso dà ampio spazio alle posizioni
degli intellettuali, in pagine che sono tra le più interessanti dell' opera. Se però teniamo
conto dello svolgimento reale della «guerra civile europea», soprattutto nella sua fase
conclusiva, dal 1939 al 1945, vediamo che a deciderla non fu la superiorità di una visione
del mondo su un' altra, tanto più che, nonostante si fossero momentaneamente alleati, il
liberalismo e il comunismo rimasero inconciliabili e l' antifascismo non riuscì a farne una
sintesi. La «guerra civile europea», allargatasi a conflitto mondiale, fu decisa dalla potenza
militare e industriale degli Stati, e in primo luogo degli Usa e dell' Urss. Si può concordare
con Traverso quando scrive che alcune guerre civili devono essere combattute. Credo però
che la sua affermazione sia valida soprattutto per quelle combattute all' interno di una
stessa civiltà, per risolvere le sue contraddizioni, e nemmeno per tutte: non per la Grande
guerra (Niall Ferguson e John Keegan ci hanno spiegato che poteva essere evitata), ma
soltanto per quella del 1939-45, quando l' Occidente, di cui anche il fascismo era figlio,
compì scelte definitive. Che dovrebbero consentire di affidare ormai alla storia anche la
«guerra civile europea», impedendo che la politica, come pure continua spesso ad
avvenire, alimenti per i propri scopi pericolose memorie contrapposte.
(Aurelio Lepre, La lunga guerra, Corriere della Sera, 19/5/2007)
M. Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi: 1848-1945, Mulino
Da quelle d‟indipendenza alla seconda guerra mondiale per cento anni le guerre sono state,
per l‟italiano comune, il punto d‟incontro con la grande Storia; per cento anni ogni
generazione ha avuto la sua guerra da combattere, da descrivere, da ricordare. Isnenghi
propone un viaggio all‟interno di questo infinito discorso sulla guerra, suddividendolo in
maniera assolutamente originale, non secondo la cronologia, ma secondo il genere delle
testimonianze: i comizi, i proclami, i canti (dai cori al café chantant), le immagini (la
pittura, la fotografia, i manifesti), i giornali, la letteratura, le lettere dei soldati, i
monumenti, i musei, i nomi delle vie. Il volume compone così un quadro multicolore dove
eroici furori e propaganda, retorica e kitsch, felicità e fatica, dolore e nostalgia raccontano
gli atteggiamenti degli italiani dinanzi alle loro guerre e il ruolo che queste hanno svolto
nel forgiarne l‟immaginario.
M. Isnenghi e Daniele Ceschin, La Grande Guerra. Uomini e luoghi del ’15-18, 2 volumi,
Utet
La Grande Guerra è lo strumento più completo ed efficace per chi vuole andare oltre la
nozionistica storica e spingersi verso nuove prospettive di analisi del nostro passato. Con
La Grande Guerra, infatti, la storia è molto più di un insieme di date e di avvenimenti: è un
percorso stimolante che ci porta alla ricerca della nostra identità.
Il lettore varcherà le soglie del passato da una porta privilegiata, attraverso la quale entrerà
in contatto con emozioni, stati d‟animo, immaginari, percezioni di tutti coloro che,
direttamente o indirettamente, hanno vissuto il conflitto e si sono sacrificati per la nostra
patria.
La Grande Guerra è un'opera di narrazione e di interpretazione storica che attraverso una
pluralità di agili saggi analizza le forze sociali in campo della prima guerra mondiale in
Italia, intesa sotto diversi aspetti, non solo militare ma anche ideologico, politico e socio-
culturale.
M. Isnenghi e G. Rochat, La grande guerra. 1914-1918, Mulino
Sintesi solida e sfaccettata della Grande Guerra, di come fu voluta e non voluta, condotta e
contestata, maledetta e ricordata, questo volume intreccia due filoni di studio solitamente
divisi: vicende e passioni politiche e culturali e operazioni militari vengono rilette assieme
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alle ideologie, ai sogni e alle cifre del primo conflitto mondiale. Frutto del lavoro
congiunto di due storici diversi ma affini, "La Grande Guerra" racconta il ruolo delle forze
politiche e degli intellettuali, ma anche l'agire e il pensare di generali, soldati e società
civile, donne, prigionieri. Un esercizio di memoria che prosegue fino ai nostri giorni
perché, dicono i due autori, "la Grande Guerra - apocalissi del moderno - fu un memorabile
accumulo di vissuto collettivo. Correre subito, come oggi si usa fare, a dichiararne
l'assurdo e il non-senso - clamorosi, sino allo scandalo, agli occhi disillusi e stanchi dei
posteri, quasi cent'anni dopo - appare inconcludente e comunque assai più facile che
ristabilirne, contemporaneamente, il senso, o i significati, quali essi apparvero alle donne e
agli uomini mobilitati sulle illusioni, e i valori e disvalori di allora".
A cura di A. Gibelli, La prima guerra mondiale, Einaudi
È convinzione comune di molti storici che la Prima guerra mondiale rappresenti il
momento fondatore delle pratiche di genocidio del XX secolo. «Nata come una classica
guerra interstatale - sostiene Enzo Traverso - nella quale si sarebbero naturalmente dovute
applicare le regole del diritto internazionale, riconoscendo cioè nel nemico un justus hostis,
essa si trasformò a poco a poco, per l' entità e la dinamica delle forze mobilitate, in un
gigantesco massacro». I campi di battaglia, estesi per chilometri e chilometri, diventano
così enormi cimiteri. La guerra cambia volto e, agli scontri diretti degli eserciti, si
sostituiscono la trincea e la distruzione pianificata di villaggi e città con il conseguente
enorme carico di morti e di feriti tra i civili. È in questa fase che sembrano farsi strada una
nuova etica e una nuova mentalità in grado di trasformare cittadini rispettabili, padri di
famiglia e diligenti lavoratori in assassini senza pietà, al fronte: metamorfosi che verrà in
seguito glorificata come servizio alla nazione e missione patriottica. Il nemico si
disumanizza e diventa quasi invisibile, nonostante la vicinanza (nascosto nelle trincee o
nelle case); e spesso la morte è il prodotto di una «macchina» da guerra: un mostro
meccanico (l' aereo bombardiere, il carro, l' artiglieria pesante) o il risultato dell' utilizzo di
nuovi ritrovati bellici (gas tossici, lanciafiamme) Anche i campi per i civili, costretti ad
abbandonare le loro case e, soprattutto, i campi per i militari prigionieri si moltiplicano e
non solo in Europa, a causa della lunga durata del conflitto. E nei campi, la vita diventa un
inferno, il prigioniero un uomo di seconda classe, la cui morte non commuove e non desta
scalpore, rientrando nel «normale» corso del conflitto. Per esempio, su 600 mila prigionieri
di guerra italiani catturati dalle forze nemiche, tra il 1915 e il 1918, circa centomila
moriranno di fame, freddo, malattie. All' origine del primo genocidio del Novecento,
quello degli armeni sotto l' impero ottomano, la Grande guerra segna «l' inizio di un
imbarbarimento» del modo di concepire i conflitti, che ci appare oggi come una sorta di
«laboratorio» delle future violenze dei regimi totalitari. È probabilmente nei suoi campi di
battaglia, come scrive Omer Bartov che gli architetti, e gli ideatori della «soluzione finale»
conoscono il loro «battesimo di fuoco». Per comprendere e studiare meglio questo snodo
della storia europea, la casa editrice Einaudi ci propone una grande opera collettiva in due
tomi (edizione italiana a cura di Antonio Gibelli) ideata da Stéphane Audoin-Rouzeau e da
Jean-Jacques Becker, La Prima guerra mondiale (primo volume, p. 590, Euro 75; secondo
volume, pp. 790, Euro 80). Nata all' interno del Centro internazionale di studi di Peronne, l'
opera in edizione italiana si avvale di molti contributi nuovi che focalizzano e ampliano il
ruolo dell' Italia nel conflitto; tra questi il saggio di Gian Enrico Rusconi sui dilemmi dell'
intervento in guerra nel 1915; la puntuale ricostruzione di Nicola Labanca della tragedia di
Caporetto; il saggio di Bruna Bianchi su psichiatria e guerra, che affronta le dimensioni di
massa che aveva assunto il diffondersi di malattie mentali tra i soldati. L' opera è il frutto
di un intreccio molto equilibrato tra l' impostazione tradizionale attenta più all' aspetto
militare e politico della guerra, rappresentata qui da uno storico autorevole come Jean-
Jacques Becker, e le tendenze impersonate da Stéphane Audoin-Rouzeau, esponente della
nuova generazione di ricercatori interessati anche ai lati soggettivi ed esistenziali dell'
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esperienza dell' orrore e dell' insensatezza della guerra. Si ricostruisce così una «storia dell'
umanità offesa, una storia delle identità traumatizzate» e insieme delle culture e delle
memorie.
(Frediano Sessi, La matrice unica di lager e gulag, Corriere della Sera, 14/12/ 2008)
J. Keegan, La prima guerra mondiale: una storia politico-militare, Carocci
Si dice che i militari siano spesso i più decisivi avversari della guerra moderna, perché
sanno quali catastrofi potrebbe provocare. Sembra che anche gli storici militari se ne siano
convinti. John Keegan, uno dei maggiori esperti in questo campo, dopo avere esaminato le
vicende della prima guerra mondiale in un bellissimo libro di circa cinquecento pagine,
arriva alla conclusione che essa è tutta misteriosa: «Sono misteriosi sia le sue origini che il
suo svolgimento». L' ammissione di Keegan di essere incapace di pervenire a una
convincente spiegazione della Grande Guerra può sembrare una resa. Per uno storico la
rinuncia a spiegare è dolorosa: la storiografia politico-militare nacque proprio col tentativo
di Tucidide di capire perché era scoppiata la guerra del Peloponneso, «il maggiore
sconvolgimento» avvenuto fino a quel momento. A distanza di ventiquattro secoli,
confessare che la prima delle due terribili guerre che hanno sconvolto il XX secolo resta un
mistero significa mettere in crisi le ragioni stesse della ricerca storica. Keegan espone i
termini del problema fin dalla prima fase: «La prima guerra mondiale è stato un conflitto
tragico ed evitabile» delineandone così, in maniera straordinariamente efficace, i due
principali caratteri: la tragicità e la evitabilità. Potevano essere risparmiati dieci milioni di
morti, poteva non essere avviata la drammatica concatenazione di avvenimenti che iniziò
allora e si concluse, ma fino a un certo punto, con la seconda guerra mondiale. Nessuna
spiegazione delle cause di quest‟ultima, sostiene giustamente Keegan, può prescindere
dalla prima. Ma, se è così, dobbiamo dedurne che gran parte del XX secolo resta
inspiegabile. Fino a qualche decennio fa la posizione di Keegan avrebbe suscitato aspre
polemiche e forse non sarebbe stata presa sul serio. Di cause se ne trovarono fin troppe: il
nazionalismo, l' imperialismo, «l' assalto al potere mondiale» della Germania, gli interessi
economici dei fabbricanti di cannoni. Oggi, quella che sarebbe apparsa una vera e propria
provocazione, rischia di non suscitare nessuna reazione. Chi crede più alla razionalità della
storia? Ho definito Keegan uno storico militare, ma si tratta di una definizione troppo
limitativa. Come un altro studioso britannico della Grande Guerra, Martin Gilbert, Keegan
è anche uno storico della sensibilità e della mentalità. Protagonisti della sua opera non sono
soltanto i generali e i soldati, ma gli uomini, con i loro sentimenti e atteggiamenti mentali,
l' odio e l' amicizia, la paura e il coraggio, le speranze e le delusioni. Keegan dedica a
Ypres, il luogo che, per la durezza delle battaglie che si svolsero in quel saliente, può
essere considerato il simbolo della tragicità della Grande Guerra, alcune delle sue pagine
più belle. Quello di Ypres è «uno dei più tristi paesaggi dell' Europa occidentale». Durante
i combattimenti, le trincee, in cui si trovava anche Adolf Hitler, si riempirono di fango,
diventarono degli acquitrini pieni di cadaveri. La descrizione che ne fa Keegan ricorda «Il
fuoco», il romanzo di Henry Barbusse, e «Flandern», il famoso quadro di Otto Dix. Alla
fine della sua ricerca Keegan si chiede come siano riusciti milioni di «anonimi,
miserabili», privati di ogni briciolo di gloria, a combattere per quattro anni, legandosi ai
compagni di trincea per la vita e per la morte. «Questo è l' ultimo mistero della prima
guerra mondiale», risponde. Se riuscissimo a capirlo, «saremmo più vicini alla
comprensione del mistero della vita umana». Per un libro di storia politico-militare si tratta
senza dubbio di una conclusione molto originale.
(Aurelio Lepre, Grande Guerra. Dieci milioni di morti assurde, Corriere della Sera,
7/2/2001)
N. Ferguson, La verità taciuta, Corbaccio
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La Grande guerra a più di ottant'anni di distanza dalla sua conclusione continua ad animare
dibattiti e polemiche e questo non solo per la complessità intrinseca della materia ma
soprattutto – credo – per il fatto che essa ha contribuito fortemente a plasmare il mondo in
cui viviamo. L'imponente lavoro di Niall Ferguson – studioso di storia economica e
politica che qui ha esteso la sua area di indagine a una varietà di settori dagli studi militari
alla storia culturale passando per la diplomazia – è un ottimo esempio delle passioni che la
prima guerra mondiale può ancora suscitare. Come attesta una ricca bibliografia quella di
Ferguson è un'opera mastodontica che affronta i problemi più disparati dalle ragioni dello
scoppio del conflitto ai suoi costi finanziari sino all'uso della propaganda. Il limite di tale
impostazione consiste nel fatto che Ferguson lavora contemporaneamente su troppe
questioni così che il libro finisce per avere un assetto farraginoso. Se un filo rosso può
essere trovato in questa enorme massa di osservazioni va individuato in un ossessivo
antieuropeismo che porta l'autore a stabilire un ridicolo parallelismo tra la Weltpolitik del
Kaiser e l'Unione europea. Ferguson infatti rifiuta in blocco le tesi di Fritz Fischer circa i
progetti imperiali della Germania guglielmina che ritiene essere mere fantasie frutto della
germanofobia di alcuni settori dell'establishment britannico (un giudizio veramente
ingeneroso verso il proprio paese che nel secolo scorso si è opposto con coraggio e
determinazione per ben due volte al militarismo prussiano e ai suoi epigoni). Per Ferguson
il Kaiser puntava "soltanto" ad assoggettare economicamente l'Europa continentale e
questo – afferma contro ogni logica – non rappresentava un pericolo per l'Inghilterra che
quindi entrò in guerra inutilmente anche perché – si legge nelle ultime pagine – oggi con
l'Unione europea il sogno del Kaiser si sarebbe realizzato.
(Giaime Alone)
G.E. Rusconi, Rischio 1914. Come si decide una guerra, Mulino
Che oggi, come dieci o vent'anni fa, esista un pericolo di guerra mondiale, è un'
affermazione che tutti, o quasi tutti, gli osservatori politici potrebbero sottoscrivere. Che l'
equilibrio del terrore, vale a dire le conseguenze spaventose di un confronto nucleare, non
sia sufficiente da solo a scongiurare il pericolo, è dimostrato ampiamente dal senso di
sollievo e di gioia che è seguito in tutto il mondo alla firma degli accordi sui missili tra
Reagan e Gorbaciov, i leaders delle due superpotenze che si disputano il dominio del
pianeta. Del resto, nulla esclude che prima o poi possa esplodere un conflitto limitato per
tacito accordo alle armi convenzionali e, malgrado ciò, in grado di portare lutto e
desolazione su tutta la Terra. Viviamo dunque, esattamente come nel 1914, sull' orlo di un
abisso. Ce lo ricordano di continuo i movimenti pacifisti e studiosi eminenti, come di
recente il Norbert Elias di Humana conditio (Il Mulino). Da questo punto di vista si
comprende assai bene che uno scienziato politico come Gian Enrico Rusconi, sempre
attento ai problemi storici (era sua l' analisi della Crisi di Weimar apparsa nel 1977 presso
Einaudi) sia andato a scegliere la prima guerra mondiale come un caso interessante per
verificare la possibilità di estrarne un modello generale da applicarsi ad altre crisi. Il libro
che ne ha ricavato (Rischio 1914. Come si decide una guerra, Il Mulino, pagg. 278, lire
20.000) rivela, nei suoi tredici capitoli, il doppio registro sul quale l' autore ha lavorato. I
primi otto ricostruiscono, con l' aiuto della migliore storiografia (e con una giusta
rivalutazione dell' opera, spesso a torto trascurata, di Luigi Albertini) la trama politico-
diplomatica che segue all' attentato di Serajevo del 28 giugno 1914, in cui morì l' erede al
trono imperiale dell' Austria-Ungheria, e le modalità della decisione politico-militare che,
dopo circa un mese di inutili trattative, porta allo scoppio del conflitto tra le potenze dell'
Intesa (Russia, Francia, Gran Bretagna) e gli Imperi Centrali (Germania e Austria-
Ungheria). A Rusconi come appare chiaramente dal racconto puntuale di quel che accade
tra il 28 giugno e il 31 luglio 1914 interessa indagare in quella terra di nessuno che sta tra l'
analisi dei fattori strutturali che influiscono sul corso delle cose, e i processi decisionali
che, di volta in volta, spingono nell' una o nell' altra direzione. Secondo quali categorie
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mentali, quali previsioni, quali calcoli operano gli uomini non più di una ventina che hanno
in mano, in quei giorni, l' onere della pace o della guerra? Quale delle potenze ha spinto in
modo determinante verso il conflitto? E quali sono le responsabilità dei principali Stati
protagonisti della trama politico-diplomatica? Rusconi rilegge con grande finezza il
dibattito storiografico suscitato negli anni Sessanta dal libro di Fritz Fischer sull' Assalto al
potere mondiale (Einaudi) da parte della Germania guglielmina; tiene conto delle novità
maturate nell' ultimo ventennio e dialoga animatamente con la storiografia revisionista
tedesca, che di recente ha tentato di rovesciare sulle potenze dell' Intesa, e in particolar
modo sulla Gran Bretagna, una responsabilità pari, se non superiore, a quella di Guglielmo
II e del suo cancelliere Bethmann. Le conclusioni che Rusconi trae da questa attenta
rivisitazione della crisi del luglio 1914 trovano concorde chi scrive e si inseriscono in un
giudizio accettato da vasti settori della storiografia occidentale. E' sempre la Germania,
scrive Rusconi, che con la sua strategia coercitiva imprime al dilemma quella dinamica che
lo fa sboccare nella guerra. La posizione tedesca non è simmetrica con quelle delle altre
potenze, neppure con quella inglese. Non è pertanto giustificato il velato rimprovero (di
Klaus Hildebrand) al governo inglese di non aver tentato una strategia della distensione per
attenuare il comune dilemma della sicurezza... Il fattore cruciale nel 1914 non è l'
assassinio di Serajevo, nè l' inabilità di Londra di offrire compromessi, ma la
determinazione di Berlino di uscire vincente dalla crisi. A questo punto, come avevo
accennato, il discorso di Rusconi cambia registro e propone al lettore un' analisi
politologica della crisi e del suo rapporto con le presenti o future decisioni di guerra. Molto
interessante, in questa seconda parte, è la riflessione (sulla scorta soprattutto della
politologia americana) su differenze e analogie tra le crisi del 1914 e la situazione attuale.
L' autore giunge a conclusioni problematiche, che non possono escludere né pericolosi
equivoci tra le grandi potenze, né l' influenza di conflitti regionali e limitati sulla strategia
generale dell' Urss o degli Stati Uniti. In sostanza, il terrore dell' atomica non basta a
scongiurare completamente il rischio proprio di decisioni politico-militari come quelle che
maturano durante una crisi; così le speranze degli uomini restano legate alla forza dello
schieramento pacifista e al dialogo tra le superpotenze. L' autore, al di là della confutazione
di false analogie che molti politologi americani hanno stabilito (per loro l' Urss di oggi è la
Germania di ieri), insiste a ragione sul rischio che nasce, anche ai nostri tempi, dalla
difficoltà che gli uomini politici e i politici hanno, di riconoscere il punto di non-ritorno in
crisi apparentemente parziali e superabili. Questa seconda parte del libro non mantiene,
peraltro, tutte le promesse dell' introduzione. Rusconi individua alcuni paradigmi (dilemma
della sicurezza, strategie di rischio, politiche coercitive, disposizione strategico-militare)
che emergono dall' analisi della crisi, e che egli cerca di utilizzare pe costruire un modello
politologico da applicare ai meccanismi decisionali delle guerre; ma, proprio nell' esame di
questi paradigmi, se non ho capito male, l' autore deve verificare carenze e limiti dell' uno
o dell' altro di essi, segnalarne le lacune e le rigidità e collocarsi alla fine in una posizione
di relativa prudenza di fronte all' inquadramento categoriale della realtà storica passata e
presente. Allora, se le cose stanno così, se il tentativo di costruire un modello si presta a
riserve non marginali, qual è l' utilità del metodo interdisciplinare adottato da Rusconi?
Che cosa apporta di nuovo la concettualizzazione di processi decisionali che assai
difficilmente (e l' autore mi pare se ne renda conto) possono riprodursi senza varianti di
rilievo? Su questo piano che è senza dubbio quello cruciale nel rapporto tra la ricerca
storica e l' analisi politologica Rusconi scrive un testo ricco di osservazioni interessanti, ma
non giunge mi pare ad acquisizioni di rilievo. Le prospettive disciplinari contenute nel
libro nella ultima parte del saggio tendono a giustapporsi piuttosto che a fondersi in
maniera feconda. Ed è questo, a mio avviso, il limite maggiore di uno sforzo innovativo
che è in ogni caso da segnalare e da recepire più per l' innuizione di fondo che le muove,
che non per i risultati raggiunti, almeno fino a questo momento. Del resto, per chiarire
meglio il discorso occorre aggiungere che né la politologia americana, né quella europea
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sono riuscite finora a creare modelli appetibili anche per la ricerca storica; probabilmente
devono ancora essere risolti problemi teorici, di linguaggio e di tecnica argomentativa (cui
Rusconi accenna nelle pagine conclusive) che ostacolano una effettiva comunicazione tra
storia e scienza politica. O bisogna viceversa concludere che non è possibile assimilare tout
court la storia alle altre scienze sociali? Forse un altro merito del tentativo di Rusconi è
quello di riproporre agli storici questo interrogativo di fondo, che molti di noi tendono ad
accantonare. (Nicola Tranfaglia, Lezione di guerra, La Repubblica, 3 Febbraio 1998)
L. Canfora, 1914, Sellerio
Prima l'Europa del progresso, dopo il dramma della guerra con le sue lacerazioni; prima
l'Europa dei sapienti equilibri diplomatici, dopo gli scontri ideologici e di interessi; prima
l'Europa dell'armonica ascesa delle masse lavoratrici, dopo il prevalere degli odi egoistici,
ritmati dalle marce di uomini in divise funeree. E a far da spartiacque tra questi due modi
di essere di un'intera civiltà, l'anno fatale, il 1914, con il suo precipitare in quell'>>abisso -
come ha scritto Thomas Mann - che ha interrotto la vita e la coscienza del l'umanità<<. Ci
ripropone, ora, questo schema interpretativo dello snodo decisivo della storia del '900,
Luciano Canfora, in un agile volume tratto da una serie di conferenze svolte a Radio2,
dove la sua sensibilità di storico e la sua finezza di filologo gli consentono di riannodare i
fili intricati di tutte le variabili, destinate a confluire nelle vicende che fecero esplodere il
conflitto. L'autore sa bene, infatti, che nulla nella storia nasce all'improvviso e conduce,
quindi, l'ascoltatore, divenuto lettore, in un labirinto, disvelato passo dopo passo, di
valutazioni riguardanti la molteplicità degli attori operanti sulla scena di quel l'evento.
Ecco, allora, proporsi il tema delle radici di quanto accadde, rintracciabili nel disfacimento
dell'impero ottomano, come nella sconfitta russa del 1905 contro il Giappone e
conseguente insurrezione a Pietroburgo; non meno, certo, che nella ferita, anelante di
rivincita, inferta dalla Germania di Bismarck alla Francia con la conquista nel 1870-71
dell'Alsazia e della Lorena. Elemento principale, quest'ultimo, di un confronto tra i due
Paesi, acuito dalle iniziative dell'imperatore Guglielmo II e dalle sue spinte verso un ruolo
coloniale del Reich. Discutibile appare, comunque, all'autore la visione tradizionale di una
guerra dovuta alla contrapposizione tra democrazia e autoritarismo, laddove si evidenziano
i limiti partecipativi dei sistemi politici inglese e francese con argomenti, però, che non mi
pare riescano ad assimilarli alle chiusure autocratiche dei ceti dirigenti tedeschi.
Affascinante, nel suo rincorrersi di mosse e contromosse diplomatiche, politiche, ideali,
propagandistiche, è la ricostruzione del concatenarsi dei passaggi che portarono
all'esplosione bellica, con forse una considerazione troppo marginale dell'atmosfera
culturale, che si respirava allora in Europa, di fremente attesa per una guerra rigeneratrice e
suscitatrice di speranze. Un'aspettativa che non può essere liquidata come "folle" e
"criminale" - e tale certo è sotto il profilo etico -, ma che rappresenta un fattore decisivo
per cogliere il senso delle scelte di allora, comprese quelle dei principali partiti socialisti
europei schieratisi sui rispettivi fronti di guerra. Per capire, anche, le "radiose giornate di
maggio" dell'Italia del 1915, sedotta dalla magniloquente retorica di Gabriele D'Annunzio
e trascinata in una guerra alla quale anche i socialisti rivoluzionari (e con loro Mussolini)
finivano per attribuire il valore di ultima occasione per scardinare l'ordine borghese e
costruire un avvenire migliore per le masse popolari. Un sogno sinceramente vissuto e che
svanì nelle drammatiche involuzioni del dopoguerra. Che fu, poi, la stessa scommessa
fatta, con ben altro successo e determinazione, da Lenin nell'obiettivo di abbattere il potere
zarista.
(Angelo Varni, Il Sole 24 ore, del 16/7/2007)
G.E. Rusconi, L'azzardo del 1915. Come l'Italia decide la sua guerra, Mulino
Novant' anni fa, in questi giorni, l' Italia era impegnata nel più difficile e spericolato
negoziato diplomatico della sua storia. Per alcune settimane, tra il marzo e la fine d' aprile
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del 1915, fummo in bilico tra scelte diverse, ciascuna delle quali avrebbe cambiato il corso
della storia nazionale e prodotto conseguenze destinate a influire sulla vita delle
generazioni future. Le trattative furono segrete, ma non al punto di impedire che qualche
notizia giungesse sulla stampa e accendesse le emozioni della pubblica opinione.
Cerchiamo di « montare » rapidamente, come nella sintesi di un documentario storico, i
principali episodi di quel fatale momento della nostra storia. Dopo la crisi provocata dall'
assassinio di un arciduca austriaco a Sarajevo, l' Europa era in guerra: Austria contro
Serbia, Russia contro Austria, Germania contro Russia, Francia contro Germania, Gran
Bretagna con Francia e Russia contro Austria e Germania. L' Italia si era dichiarata
neutrale. Non aveva denunciato l' alleanza che la univa all' Austria e alla Germania, ma
aveva sostenuto, con ragione, che la guerra austriaca contro i serbi non rientrava fra quelle
che avrebbero reso necessario, secondo il patto della Triplice, il suo intervento. Mentre l'
Europa combatteva, noi restammo alla finestra. Vedemmo le incerte vittorie degli austriaci
contro i russi sul fronte orientale, il successo della Wehrmacht nella battaglia del
Tannenberg in Prussia orientale, il fallimento dell' offensiva tedesca sulla Marna in
settembre, la corsa al mare dei due eserciti sul fronte occidentale, l' inizio della guerra di
trincea. Avremmo potuto restare alla finestra sino alla fine del conflitto. Ma al momento
della pace qualcuno avrebbe guadagnato nuove province, mentre qualcun altro le avrebbe
perdute; e il governo sapeva che chi non guadagna nulla, in questi « rimpasti » , perde
terreno. Occorreva quindi negoziare il futuro buttando sul piatto il peso geografico (
considerevole) e il peso militare ( modesto) di cui il Paese disponeva. Negoziammo
spregiudicatamente su due fronti. Agli austriaci chiedemmo quanto avrebbero pagato la
nostra neutralità e agli anglo francesi quanto avrebbero pagato il nostro intervento. Due
negoziati con interlocutori tra loro nemici possono restare paralleli soltanto per un tempo
limitato. Il momento della scelta venne proprio in questi giorni. Il 27 marzo l' Austria si era
detta disposta a cedere una parte del Tirolo meridionale, compresa la città di Trento. Il
ministro degli Esteri italiano Sidney Sonnino considerò l' offerta « insufficientissima » e
dieci giorni dopo, l' 8 aprile, trasmise un memorandum con cui chiedeva Trento, Bolzano,
Merano, una correzione della frontiera sull' Isonzo, lo statuto di « città Stato » per Trieste e
alcune isole davanti alla costa dalmata, tra Spalato e Ragusa. L' Austria rifiutò con un moto
di insofferenza e dispetto. La Germania fece qualche pressione su Vienna e le lasciò capire
che avrebbe potuto riprendersi, dopo la vittoria, quello che era stato dato di mala voglia.
Ma il governo italiano riprese i negoziati con gli anglo francesi e concluse a Londra, il 26
aprile, un patto che lo obbligava all' intervento nel giro di qualche settimana e gli
garantiva, dopo la vittoria, Trento, Trieste e la Dalmazia. Per ricostruire le vicende di quei
giorni da un punto di vista italiano, esiste ora il libro che Gian Enrico Rusconi ha appena
pubblicato presso il Mulino. S' intitola L' azzardo del 1915. Come l' Italia decide la sua
guerra , ed è per molti aspetti il seguito di quello che l' autore aveva pubblicato nel 1987 (
Rischio 1914 ) presso la stessa casa editrice. Ma questo ci concerne, investe uno dei
momenti più cruciali della nostra storia e presenta almeno due meriti. In primo luogo non
cede quasi mai alle tentazioni della storiografia progressista e antirisorgimentale, che ha
dominato gli studi sulla partecipazione italiana alla Grande guerra negli ultimi cinquant'
anni. Rusconi sa che i mercanteggiamenti dell' Italia erano, nella situazione internazionale
d' allora, perfettamente giustificati e legittimi. Sa che la guerra creò « un enorme potenziale
di identificazione nazionale » . E sa infine che molte reazioni italiane furono dettate dall'
arroganza e dal disprezzo con cui l' Austria considerava le nostre pretese. Al vertice dell'
esercito austro ungarico vi era ancora Conrad von Hötzendorf, l' uomo che nel 1908, all'
epoca del terremoto di Messina, aveva proposto all' imperatore una guerra preventiva
contro l' Italia. Al vertice della diplomazia imperiale vi erano gli uomini che non avevano
dimenticato le guerre d' indipendenza e nutrivano per l' Italia unita una rabbiosa disistima.
Il secondo merito di Rusconi è quello di avere individuato perfettamente i dilemmi della
politica estera italiana. Dopo qualche esitazione, una parte della nostra classe dirigente
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aveva concepito un sogno adriatico e balcanico che avrebbe fatto dell' Italia una grande
potenza europea. E questo sogno poteva realizzarsi, beninteso, soltanto a scapito dell'
Austria. Decidemmo di entrare in guerra perché le circostanze davano allo Stato italiano
una occasione irripetibile. E non dichiarammo guerra alla Germania nel maggio del 1915 (
vi fummo costretti dalle pressioni degli alleati nell' agosto del 1916), perché eravamo
convinti che le nostre ambizioni adriatiche fossero compatibili con l' egemonia tedesca sull'
Europa continentale. Antonino di San Giuliano, ministro degli Esteri prima di Sonnino,
disse ridendo a Olindo Malagodi nell' estate del 1914: « L' ideale sarebbe per noi che
fossero battute da una parte l' Austria e dall' altra la Francia » . Vi furono poi, fra le altre
ragioni della scelta italiana, quelle che Sonnino aveva confessato un giorno all' ex
cancelliere tedesco von Bülow. Mentre l' Italia trattava su due fronti, gli aveva detto che la
monarchia dei Savoia avrebbe resistito al papato e « al dilagarsi del socialismo nel suo
periodo più rivoluzionario » , soltanto se avesse continuato a incarnare le « idealità
nazionali » . E qualche tempo dopo, commentando quella conversazione, aveva concluso:
« Quindi, all' infuori di concessioni atte ad appagare in qualche misura il sentimento
nazionale, non restava che una sola alternativa: o guerra o rivoluzione » . Oggi molte di
quelle aspirazioni ci appaiono terribilmente datate e velleitarie. Oggi sappiamo che il Paese
era troppo gracile, economicamente e moralmente, per affrontare la sfida di una guerra
lunga, combattuta su uno dei fronti più difficili, con un esercito che non aveva alle spalle il
complesso industriale e le tradizioni militari delle altre potenze. E sappiamo infine che l'
analisi di Sonnino si rivelò drammaticamente sbagliata. Secondo il ministro degli Esteri, l'
Italia avrebbe dovuto fare la guerra per evitare la rivoluzione. Ebbe invece l' una e l' altra.
Per un tragico paradosso, fu il solo Paese vincitore che si comportò dopo il conflitto come
un Paese sconfitto e fu teatro per due anni di una strisciante guerra civile, durante la quale
una parte della società ingiuriò i reduci e denigrò la vittoria. È proprio da questa
constatazione ( un vincitore sconfitto da se stesso) che dovrebbe ripartire il dibattito sulla
pacificazione della memoria nazionale. La destra ( nazional liberale, moderata o radicale)
dovrebbe riconoscersi erede, nel bene e nel male, di tutti coloro che nel maggio del 1915
sognarono la grandezza e vollero a tutti i costi il conflitto. Ma la sinistra, a sua volta,
dovrebbe riconoscersi erede, nel bene e nel male, di quella parte del Paese che sognò la
rivoluzione bolscevica, sabotò la vittoria e le impedì di essere il cemento di una rinnovata
unità nazionale. Mentre la destra dovrebbe accettare l' eredità di tutti gli interventismi, da
quello politico e calcolatore di Sonnino a quello spavaldo e retorico di
D'Annunzio, la sinistra dovrebbe accettare l' eredità di tutti i disfattismi, da quello soffice
di certi socialisti a quello duro e becero dei massimalisti e dei comunisti. Se riusciremo a
metterci d' accordo su quel passaggio cruciale della storia nazionale che va dal 1915 al
1922, il secondo atto, dal 1922 al 1945, diventerà forse meno difficile da capire e meno
controverso.
(Sergio Romano, Italia 1918: la vittoria vissuta come sconfitta, Corriere della sera,
12/4/2005)
M. Isnenghi, Il mito della grande guerra, Mulino
Qui presentato nella sesta edizione il volume, fortemente innovativo per tesi,
documentazione e metodo, ha segnato uno spartiacque negli studi sulla prima guerra
mondiale. Le riviste dell'età della "Voce", i fogli interventisti, i diari di trincea e la
letteratura sulla guerra: rileggendo questa sterminata produzione Isnenghi ha ricostruito
l'atteggiamento di una intera generazione di intellettuali italiani nei confronti
dell'intervento e poi dell'esperienza bellica. Da Marinetti a Papini, da Prezzolini a Gadda,
da Soffici a Jahier, Serra, Malaparte, Borgese, d'Annunzio, la guerra si configura di volta
in volta come occasione rigeneratrice per l'individuo e la società, come veicolo di protesta
o, al contrario, antidoto alla lotta di classe. Le molte facce del mito della Grande Guerra
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compongono in queste pagine uno spaccato di storia mentale, sociale, politica dell'Italia nel
passaggio dalla politica delle élites alla società di massa.
M. MacMillan, Parigi, 1919. I sei mesi che cambiarono il mondo, Mondadori
Tra l'inizio di gennaio e la fine di luglio 1919, Wilson, Lloyd George, Clemenceau e
Vittorio Emanuele Orlando guidarono i lavori di una assemblea politica che arrivò a
definire l'assetto mondiale delle nazioni come ancora oggi lo conosciamo. Regnanti, primi
ministri, importanti esponenti diplomatici si trovarono a discutere del destino di popoli e
territori, da quello armeno alla minoranza austriaca annessa all'Italia. Per sei mesi Parigi fu
veramente il centro del mondo, il luogo da cui tutta la storia del Novecento ha inizio. In
questo saggio si descrive quel momento cruciale attraverso i ritratti dei protagonisti e le
decisioni dei grandi uomini che in quei giorni diedero nuova forma al mondo
P. Fussell, La grande guerra e la memoria moderna, Mulino
Questo libro ormai classico ha esercitato un'influenza decisiva nel rinnovamento del modo
di considerare la prima guerra mondiale e il peso da essa avuto sul ventesimo secolo. Non
è una storia del conflitto, non un esame dei suoi aspetti politici o militari: ricorrendo a una
ricca messe di testimonianze letterarie Fussell pone al centro la vita concreta dei soldati e
mostra come la trincea e la battaglia, le esperienze estreme dell'uccidere e del morire
incidano sui modi stessi della percezione e lascino una traccia duratura nelle strutture
emotive e intellettuali dell'uomo contemporaneo. Muovendosi fra la realtà effettiva della
guerra e l'immaginario da essa suscitato, Fussell illustra così come risalgano alla Grande
Guerra alcuni stereotipi della "memoria" del Novecento.
E. Gentile, L’apocalisse della modernità. La grande guerra per l’uomo nuovo, Mondadori
Il libro ricostruisce il contesto entro il quale maturò una delle più tragiche esperienze del
Novecento: la Grande Guerra. La vitalità febbrile e l‟atmosfera oscillante tra ottimismo e
catastrofismo che precedettero lo scoppio del conflitto e l‟apocalittico senso di sgomento
che le avrebbe poi sostituite. “La grande guerra distrusse definitivamente le certezze sulle
quali l‟uomo occidentale aveva fondato la sua visione della vita, della storia e del mondo,
innalzandola a superiore forma di civiltà universale”. La prima guerra mondiale non pose
fine solo alla Belle Epoque, ma bensì all‟orgoglio europeo di essere alla testa di una civiltà
trionfante. Molto del racconto di Gentile si basa sulle testimonianze degli artisti: scrittori,
pittori, commediografi, sceneggiatori.
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IL VOLTO DELLA GRANDE GUERRA NEL CINEMA
Maciste Alpino, G. Pastore, Italia 1916 23-5-1915: una troupe dell'Italia Film che sta girando in un paesino austriaco di confine è arrestata.
Maciste organizza una fuga verso il castello di Pratolungo, abitato da Giorgio Lanfranchi, patriota
italiano. Maciste, pugno pesante e cuor d'oro, si unisce a lui e ai suoi amici, passa il confine, si
arruola in un battaglione di alpini e ricomincia a fare il castigamatti dei “mangiasego” austriaci.
“La farsa popolare prevale sul romanzo d'appendice. Si ride. Sorride anche il censore che, in una
guerra così divertente e briosa non ha neanche il fastidio di togliere di torno i morti” (Mario
Isnenghi). Si sente l'influenza di Giovanni Pastrone (in arte Piero Fosco), sceneggiatore e
supervisore. Effetti speciali e trucchi: Segundo de Chómon. Muto.
Charlot soldato, C. Chaplin, USA, 1918 Grande guerra: trincee inondate di acqua e di fango. Charlot rientra nel rifugio e si stende su una
branda che si è trasformata in un catino ricolmo di pioggia. Un giorno deve mimetizzarsi dietro il
tronco di un albero per affrontare il nemico. Incontra una ragazza francese sullo sfondo di un
paesaggio in rovina, se ne innamora e prende il volo con lei. Travestito da ufficiale, combatte e
risolve la guerra da solo, mettendo in scacco tutto il quartier generale tedesco. Centrale nel film il
conflitto tra libertà individuale e coercizione sociale, intesa in una dei suoi aspetti più rigidi: quello
della vita militare. Muto.
Westfront, G. W. Pabst, Germania, 1930 Dal romanzo Vier von der Infanterie (Quarto fanteria) di Ernst Johannsen, adattato da Ladislaus
Vajda e Peter-Martin Lampel. La vita di tre soldati e un ufficiale tedesco negli ultimi mesi della
guerra 1914-18 sul fronte francese. Il film sonoro del regista G.W. Pabst che denuncia la follia
della guerra in nome della fratellanza e della solidarietà tra gli uomini. “Forse per troppa intensità
di sdegno o per soverchio impeto predicatorio ... risulta disutile e schematico.” (Francesco Savio).
Frammentario, procede a singhiozzo per quadri o episodi di genere, ora mirabili – specialmente nei
paesaggi e nei totali di guerra – ora penosi per patetismo, retorica, luoghi comuni. Accoglienze
critiche disparate spesso divise “tra il prestigio tecnico del cineasta e la povertà interiore del
contenuto” (Enrico Groppali). In Germania fu proibito il 27-4-1933 dalla censura nazista.
All’Ovest niente di nuovo, L. Milestone, USA, 1930
Dal romanzo (1929) di Erich Maria Remarque: nel 1914, istigati da un loro insegnante, alcuni
studenti tedeschi si arruolano volontari, ma presto al fronte scoprono che la guerra ha poco da
spartire col coraggio, il dovere o l'etica. Nessuno ritornerà. Un classico del cinema pacifista,
distribuito in Italia soltanto nel 1956. Fu uno dei primi “colossi” del cinema sonoro. La sua forza e
soprattutto la sua fama derivano da una sagace fusione delle sue componenti: il realismo della
regia, la spettacolarità delle scene di battaglia, il lirismo dei dialoghi. 2 Oscar: miglior film e
migliore regia. Ebbe un seguito (The Road Back, 1937, di James Whale) e un rifacimento nel 1979
con la regia di Delbert Mann, Niente di nuovo sul fronte occidentale.
Addio alle armi, F. Borzage, USA, 1932 Sul fronte italo-austriaco nella guerra 1914-18 un soldato americano del servizio sanitario ferito
durante la ritirata di Caporetto, s'innamora, ricambiato, di un'infermiera inglese. Tratto dal romanzo
(1929) di E. Hemingway, il film non passò la censura fascista. Oggi appare molto datato, ma val la
pena di vederlo almeno per la presenza della grande H. Hayes. Oscar della fotografia a Charles
Lang.
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La grande illusione, J. Renoir, Francia, 1937 Durante la guerra 1914-18 due aviatori francesi prigionieri, un aristocratico e un proletario, sono
inviati in un castello trasformato in campo di concentramento, comandato da un asso dell'aviazione
tedesca. Alcuni prigionieri evadono. Un capolavoro di J. Renoir, e dell'umanesimo al cinema. La
verità – dei fatti, dei personaggi, dell'atmosfera – si fa poesia in un accorato messaggio pacifista più
che antimilitarista che non trascura le differenze sociali. Scritto da Renoir con Charles Spaak,
possiede una generosa ricchezza ideologica che nasce dalla sua ambiguità. Grande galleria di
personaggi: P. Fresnay, J. Gabin, E. von Stroheim, M. Dalio. Molte sequenze memorabili tra cui la
più famosa è quella dei prigionieri francesi, travestiti da donna che cantano la “Marsigliese”.
Premiato a Venezia, fu proibito in Italia e Germania. Insieme a La passion de Jeanne d'Arc (1928)
di Carl T. Dreyer, è il solo film francese che figura stabilmente nelle classifiche dei “dieci migliori
film della storia del cinema”. Col medesimo titolo – The Great Illusion – nel 1910 uscì un libro
dell'inglese Norman Angell, amico di Bertrand Russell, che s'interrogava sui vantaggi che i vari
paesi europei avrebbero ricavato da una guerra tra loro.
Orizzonti di gloria, S. Kubrick, USA, 1957
Quel che accadde prima, durante e dopo uno di quegli attacchi frontali che si risolsero in veri
massacri sul fronte franco-tedesco durante la guerra 1914-18: un colonnello liberale contro un
generale mascalzone. Da un romanzo di Humphrey Cobb, sceneggiato dal regista con C.
Willingham e J. Thompson. Un capolavoro del cinema antimilitarista, e il solo film hollywoodiano
che analizzi la guerra e il militarismo in termini di classe. Racconto di suspense ideologica, è anche
un pamphlet satirico in cui il furore della denuncia e un certo schematismo ideologico sono quasi
interamente assorbiti nella forza dello stile. Conta il rapporto tra il settecentesco castello dove gli
ufficiali dello Stato Maggiore predispongono sulla carta (sulla scacchiera) le mosse dell'azione,
rispondendo alle proprie ambizioni, e il caos del “formicaio” in trincea dove l'azione veramente si
svolge. Fu distribuito in Francia soltanto nel 1975. Quando si toccano i generali, i censori hanno
una memoria storica di ferro. Suzanne Christian, la ragazza che canta con i soldati la struggente
canzone finale, diventerà la moglie di S. Kubrick.
La grande guerra, M. Monicelli, Italia, 1959
In divisa da fanti il romano Oreste Jacovacci e il lombardo Giovanni Busacca vivono da
opportunisti un po' fifoni il conflitto 1914-18. Catturati dagli austriaci, sanno morire con dignità.
Due grandi istrioni – e alcune sequenze memorabili – in un affresco di complessa, cordiale,
furbesca coralità. Sagace equilibrio tra epica e macchiettismo, antiretorica e buoni sentimenti.
Leone d'oro a Venezia ex aequo con Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini. Cinemascope.
2 Nastri d'argento: a A. Sordi e a Mario Garbuglia per le scenografie. Scritto con Luciano
Vincenzoni, Age & Scarpelli. Alla lontana ispirato al racconto Due amici di Guy de Maupassant.
Per il re e per la patria, J. Losey, Inghilterra, 1964
Nel 1917 un soldato britannico è processato per diserzione. Lo difende un capitano che non riesce a
sottrarlo al plotone d'esecuzione. Sarà lui a dargli il colpo di grazia. È considerato, con Orizzonti di
gloria (1957), il capolavoro del cinema antimilitarista del dopoguerra. Dramma-dibattito, è un film
che oscilla tra l'opera a tesi alla Brecht e la ricerca visiva di Losey. Tratto dal dramma Hamp di
John Wilson e sceneggiato da Evan Jones.
Uomini contro, F. Rosi, Italia, 1971
Sull'altopiano di Asiago tra il 1916 e il 1917 un giovane ufficiale italiano interventista scopre la
follia della guerra: battaglie ed eroi sono molto diversi da come li immaginava. Dal bel libro Un
anno sull'altipiano (1938) di Emilio Lussu (1890-1975) – sceneggiato da Tonino Guerra e Raffaele
La Capria – un film che ne ha sfrondato la chiarezza politica a vantaggio di una polemica
antiautoritaria e pacifista. L'indubbia efficacia spettacolare di molte pagine riscatta solo in parte una
certa demagogia.
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Niente di nuovo sul fronte occidentale, D. Mann, 1979 Prima guerra mondiale. Sei giovani studenti austriaci vanno volontari in guerra. Apprendistato duro
e violento. Trasposizione, girata per la TV, del romanzo (1929) di Erich Maria Remarque, già
portato sullo schermo nel 1930 da Milestone (All'ovest niente di nuovo). Sceneggiato da Paul
Monasch, il film – non più che diligente, corretto e rispettoso – ebbe 3 nomination (film, Borgnine,
Neal) agli Emmy Awards, gli Oscar televisivi.
Gli anni spezzati, P. Weir, Usa, 1981
Verso la fine del 1915 il porto turco di Gallipoli fu lungamente, inutilmente, sanguinosamente
assediato dalle truppe britanniche. Con gagliardo ardimento i volontari del Nuovissimo Mondo si
fecero massacrare. Più che un film bellico – sulla futilità e l'ignominia della guerra – è un racconto
picaresco di viaggio, avventure, amicizie virili. Weir ha mano felice nell'affettuosa descrizione dei
personaggi, nella rievocazione di un'epoca. Belle pagine di atletica nella 1ª parte, la più riuscita.
Capitan Conan, B. Tavernier, Francia, 1996
Nel settembre 1918 l'Armé d'Orient, il contingente francese nei Balcani, vince l'ultima battaglia,
facendo precipitare la resa della Bulgaria. La prima guerra mondiale è finita, ma la pace non è
ancora cominciata: il governo francese invia le sue truppe sul fronte rumeno contro i bolscevichi
che hanno preso il potere in Russia. In Romania, paese alleato, i francesi si comportano come forze
d'occupazione. Su questa storica tela di fondo si muovono due protagonisti, gli ufficiali Conan e
Norbert. Conan comanda una compagnia di guastatori d'assalto, paragonabili agli Arditi italiani
della stessa guerra. Si considera un “guerriero” e ha un solo amico, Norbert, di cui apprezza
l'intelligenza e la rettitudine. Da un romanzo (1934 – Premio Goncourt) di Roger Vercel, B.
Tavernier e il suo sceneggiatore Jean Cosmos hanno tratto un film antimilitarista, emozionante e
originale, che smaschera la stupidità e gli orrori della guerra, la violenza di ieri, di oggi, di sempre,
quella che portiamo dentro di noi e che, per amore di patria o ragione di Stato, può diventare una
seconda natura inestirpabile e letale come un tumore. È soltanto in piccola parte un film di guerra e,
più che la guerra, racconta i suoi effetti pubblici e privati. Ottimo esempio di cinema classico,
tradizionale anche nel suo impegno civile e nella sua capacità di valutare il destino degli uomini in
consonanza con il destino della Storia. “Bisogna amarlo, Tavernier, per reggere al suo classico
ritmo...” (Lorenzo Pellizzari) 2 premi César in Francia (regia, P. Torreton come Conan) e Gran
Premio a France Cinéma 1997 di Firenze.
La vita e niente altro, B. Tavernier, Francia, 1998
Nel 1920 una vedova di guerra, alla ricerca del marito disperso nel '18, s'innamora, riamata, del
capo dell'Ufficio di ricerca e identificazione dei militari caduti. In un clima di accesa necrofilia, con
risvolti di satira antimilitarista e guizzi di follia, è il raro caso di un film pacifista senz'enfasi,
aguzzo nel deprecare il recupero ideologico di quelle morti in battaglia. Un grande Noiret –
premiato con 1 César – in un racconto corale.
Una lunga domenica di passioni, J.-P. Jeunet, USA/Francia, 2004
Borghese, ventenne, zoppa, Mathilde si rifiuta di credere che il soldato Manech, suo promesso
sposo, sia morto, benché sappia che nel gennaio 1917 era stato condannato alla fucilazione per
lesioni volontarie. Nel 1920 intraprende una puntigliosa inchiesta personale per scoprire indizi e
prove della sua sopravvivenza o almeno la verità sulla sua morte. Dal romanzo (1991) di Sébastien
Japrisot (pseudonimo anagrammatico del corso Jean-Baptiste Rossi), sceneggiato con Guillaume
Laurant, il 50enne J.-P. Jeunet ha potuto fare, grazie al successo mondiale di Il favoloso mondo di
Amelie (2001), un film da 45 milioni di euro, necessari per mettere in immagini gli orrori della
guerra di trincea nella Somme. Espressa in immagini potenti sin dall'inizio, questa dimensione
antimilitarista, frutto di un'indignazione morale, critica e documentata verso gli alti comandi, è
stata sbrigata con sospetta fretta sui mass media. “Ma lei sa – scrive S. Japrisot – che la guerra non
genera altro che infamia su infamia, vanità su vanità, escrementi su escrementi”. Lei è la dolce
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Mathilde, tenace investigatrice impegnata in una speranza che si nutre di memoria. Non impersona
solo l'innocenza e la fede, ma anche quegli storici risoluti a riesumare quel che c'è di nascosto
dietro alla storia ufficiale. Svariante nei generi e nei toni (dal Kitsch all'epica, dalla commedia al
grandguignol, dal lirico al folcloristico), nei paesaggi (Somme, Bretagna, Parigi, Corsica), negli
effetti digitali (l'incendio dell'aviorimessa), ricco di citazioni (Milestone, Kubrick, Tavernier, anche
Tati) ha il passo lungo di un grande romanzo ottocentesco, sostenuto dalla gioia della narrazione.
Fotografia di Bruno Del Bonnel. Musica di Angelo Badalamenti. A.M. Cotillard il premio César
come attrice esordiente.
Joyeux Noel: una verità dimenticata dalla storia, C. Carion, Francia/Inghilterra, 2005 Il film è ispirato a fatti realmente accaduti nelle trincee dell'Artois durante la prima guerra
mondiale. Alla vigilia di Natale del 1914 soldati francesi, scozzesi e prussiani interrompono le
ostilità per qualche ora e brindano all'anno nuovo tutti insieme. Quella notte cambia la vita di 4
personaggi: un prete anglicano, un tenente francese, un grande tenore tedesco e la donna che ama,
un soprano. I fatti sono stati dimenticati e ben pochi insegnanti ne parlano a scuola. Nato e
cresciuto da famiglia contadina di uno dei 10 dipartimenti territoriali francesi occupati dai tedeschi
tra il 1914 e il 1918, C. Carion, dopo aver fatto una panoramica sulla vita in trincea – qualunque sia
il fronte – fatta di polvere da sparo, sudore, fango, paura (e si era solo all'inizio), riesce a raccontare
un fatto commovente romanzandolo ma evitando la trappola del buonismo banale e dando il suo
contributo morale e pacifista.
Vite in trincea, DVD, Cineteca del Friuli Com'è lontana la guerra vera da quella che appare sul grande schermo. I fanti sorridono guardando
verso l'obiettivo, assaggiano il rancio..., si preparano scrupolosamente all'assalto, scrivono lettere e
cartoline ai propri cari. Ma questa, ovviamente, è tutta propaganda, pellicola girata da operatori al
servizio degli alti comandi per inviare messaggi rassicuranti a casa, mobilitare i sentimenti
patriottici, preparare ai successivi, immani sforzi bellici. Per conoscere la verità c'è dunque bisogno
di un “Doppio sguardo sulla Grande guerra”: proprio come propone la Cineteca del Friuli (la stessa
che organizza le fenomenali Giornate del cinema muto): accanto alle immagini "addomesticate", le
visioni terrificanti dei soldati che escono dalle trincee per andare a morte certa, i bombardamenti
incessanti, le fiumane di profughi e prigionieri. E inoltre, il fronte visto dall'altra parte, il
"miracolo" di Caporetto (così fu per gli austro-ungarici), la crudeltà dei "barbari" italiani, la
"liberazione" del Friuli. Ma non è tutto: il primo dei due dvd inseriti nel cofanetto contiene un
documentario curato da Lucio Fabi e Gianpaolo Penco, che abbina alle immagini d'epoca la lettura
delle lettere dei fanti. Dall'inferno all'inferno: a Gorizia un giovane soldato racconta di dormire nel
cimitero, tra le bare di una grande tomba di famiglia. Immediatamente, i fotogrammi perdono ogni
aura di gloria posticcia, diventando allucinata testimonianza di una tragedia senza pari. Il secondo
dvd raccoglie straordinari materiali d'epoca, presentati in ordine cronologico e scelti con assoluto
scrupolo filologico, come testimonia il libretto di accompagnamento, in cui Fabi ricorda la
sterminata produzione cinematografica "dal vero" realizzata nel corso delle Grande guerra. (Articolo di Luigi Paini, Il Sole-20 ore, 12/11/2006)
Viedeocassetta. Musei della memoria: ad Asiago per capire la grande guerra Vi aspettate di incontrarli, di udire le loro voci e i loro passi, dietro una curva del sentiero, oltre il dosso che
chiude il paesaggio, in mezzo a quei boschi fitti in cui i raggi di sole non scendono mai. Italiani, inglesi,
austriaci, francesi, ungheresi, croati, rumeni, bosniaci, slovacchi. Venuti qui a combattere e morire a migliaia
in luoghi che per la loro struggente bellezza sono il piu' irresistibile invito alla gioia di vivere. La magia
dell'Altipiano dei Sette comuni è racchiusa in questa memoria custodita dagli abeti e dai pascoli, dai monti e
dalle caverne. La memoria della Grande guerra che spinge a fare domande. Non fatte di perchè: dopo 80 anni
è sempre più chiaro che più che una follia collettiva, i cui sintomi sono descritti nelle pagine finali della di
Mann, fu l'imposizione di una politica schiava della storia. Così i turisti occasionali e quelli che salgono
sull'Altipiano proprio per visitare i resti della Guerra si chiedono cosa sono quei resti: un ospedale da campo?
Un cimitero di guerra? Un comando? E chi ha scavato quelle trincee sull'Ortigara? Dove erano piazzate le
mitragliatrici che falcidiavano gli alpini lanciati all'assalto? Quali calibri hanno sbriciolato la roccia e
modificato per sempre la morfologia dei pascoli? Ma anche ci si chiede, o ci si dovrebbe chiedere per evitare
che questa curiosità sulla Guerra non si trasformi in passione per la guerra, come vivevano i soldati per
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esempio durante il terribile inverno del '16, con la neve alta più di sei metri. Come morivano con i corpi
dilaniati dagli obici dei mortai. Quali paure animali li invadevano sotto un bombardamento. Quali sentimenti
suscitavano ordini insensati, come quelli di mandare i bersaglieri all'attacco su per ripidi prati con in spalla le
loro biciclette pieghevoli. Finora a queste domande c'erano poche risposte. E bisognava cercarle non sul
posto, ma nei libri. Quelli commoventi di Lussu, Gadda, Monelli e Rigoni Stern. O quelli rigorosamente
scientifici sulle operazioni di guerra. Chi ad Asiago, il più importante dei Sette comuni, avesse cercato
informazioni o una semplice mappa, simile a quelle su cui sono segnati i sentieri e le vie ferrate, avrebbe
trovato ben poco. Al più la guida di un albergatore volonteroso. I più fortunati un incontro con Rigoni Stern.
Da questa carenza di offerta a fronte di un'elevata domanda, effettiva e potenziale, e' nato il progetto di un
museo, come spiega Mario Isnenghi, tra i maggiori studiosi della Guerra: occorre però organizzarlo, creare
degli itinerari guidati, apporre delle targhe che spieghino il significato dei luoghi. Le prime due iniziative del
Centro sono stati un incontro internazionale, che si e' svolto ieri, tra studiosi e organizzatori di musei sulla
Grande Guerra: Annette Becker dell'Historial di Peronne in Francia, Roberto Lenardon della
Dolomitenfreunde, Camillo Zadra del Museo della Guerra di Rovereto, Lucio Fabi, sui musei all'aperto del
Carso.
E la videocassetta, realizzata dal Centro e che monta spezzoni di film sulla Guerra (Uomini contro, I
recuperanti, Scarpe al sole), fotografie e filmati d'epoca con le immagini odierne dei luoghi, appunto, in cui
si svolse. Rigoni Stern conduce per mano lo spettatore, con la sua straodinaria carica umana che diventa
affabulazione. L'incontro di ieri e la videocassetta sono stati finanziati dagli operatori commerciali e turistici
dell'Altipiano. Non e' puro mecenatismo. Vittorio Cora', responsabile organizzativo del Centro, ha spiegato
che il rilancio 'storico' dell'Altipiano ha ricadute economiche. Ed e' sicuramente uno di quei felici incontri
tra interesse pubblico e privato che sono ancora una rarità nel panorama culturale nazionale.
(Articolo di Luca Paolazzi, Il Sole-24 ore, 1/9/1996,)
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LA GUERRA NARRATA
E. Lussu, Un anno sull’Altopiano, Einaudi
Scritto nel 1936, apparso per la prima volta in Francia nel '38 e poi da Einaudi nel 1945,
questo libro è ancora oggi una delle maggiori opere che la nostra letteratura possegga sulla
Grande Guerra.
L'Altipiano è quello di Asiago, l'anno dal giugno 1916 al luglio 1917. Un anno di continui
assalti a trincee inespugnabili, di battaglie assurde volute da comandanti imbevuti di
retorica patriottica e di vanità, di episodi spesso tragici e talvolta grotteschi, attraverso i
quali la guerra viene rivelata nella sua dura realtà di «ozio e sangue», di «fango e cognac».
Con uno stile asciutto e a tratti ironico Lussu mette in scena una spietata requisitoria contro
l'orrore della guerra senza toni polemici, descrivendo con forza e autenticità i sentimenti
dei soldati, i loro drammi, gli errori e le disumanità che avrebbero portato alla disfatta di
Caporetto.
M. Rigoni Stern, Storia di Tönle, Einaudi
La storia di Tönle Bintarn, contadino veneto, pastore, contrabbandiere ed eterno fuggiasco
è l'odissea di un uomo che tra la fine dell'Ottocento e la Grande Guerra rimane coinvolto
per caso nei grandi eventi della Storia e combatte una battaglia solitaria per la
sopravvivenza sua e della civiltà cui sente di appartenere.
L'anno della vittoria, continuazione ideale della Storia di Tönle, è quello che va dal
novembre 1918 all'inverno successivo e racconta la storia di una famiglia e di un paese che
devono risollevarsi dall'immane naufragio della guerra. Il lento ritorno alla vita, la fatica di
riannodare i fili degli affetti e dei sentimenti, la riscoperta di luoghi e ritmi di vita perduti:
Rigoni Stern dà voce alle cose, alle persone, alla natura nei loro aspetti piú autentici,
testimonianze di un'umanità di confine che vince nonostante la Storia.
F. De Roberto, La paura, E/O edizioni
"Nell'orrore della guerra, l'orrore della natura". Questo l'attacco del racconto che ne
anticipa l'ambiente, una trincea aperta "spaccando il vivo masso, a furia di mine"
nell'immaginaria ma assai realistica Valgrebbana. Di là gli austriaci, di qua gli italiani,
truppa composita e pluridialettale agli ordini del tenente Alfani. Dopo settimane in cui tra i
crepacci echeggia solo il consueto "nulla di nuovo", i cecchini nemici fanno fuoco sulle
sentinelle italiane di turno, che vengono colpite l'una dopo l'altra. In seguito ai rifiuti di
diverse altre riviste, La paura comparve sulle pagine di "Novella" nel 1921, sei anni prima
della morte del suo autore. Poiché il racconto è già stato edito in volume nel 1995 ed è
reperibile anche nel "Meridiano" dedicato allo scrittore, non si può parlare di una vera
riscoperta, quanto piuttosto di un tentativo di ampliare il pubblico dei lettori di De Roberto,
facendo seguito a quel rinnovato interesse che nel 2007 è coinciso con l'uscita del film che
Roberto Faenza ha tratto da I Vicerè, romanzo che sempre nello scorso anno ha registrato
la triplice ristampa da parte di Garzanti, degli "Oscar" Mondadori e della stessa e/o. La
scelta di rieditare La paura in un volume a sé stante e con un buon commento si motiva
inoltre per la pretesa di "apoditticità" del racconto stesso, che sin dal fulminante incipit è
teso a dimostrare il nonsenso della guerra attraverso la parabola di un plotone di soldati
mandati a "morte certa, inutile e ingloriosa": sono essi altrettante figure di "vinti", anche se
di quella "grande" guerra risulteranno poi dolorosamente vincitori.
(C. Lanfranco, L’indice dei libri del mese, 1995, n°8)
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G. Comisso, Giorni di guerra, Longanesi; Ardengo Soffici, La ritirata del Friuli, Longanesi
“Verranno i tedeschi, mi dissero verso l' ottobre ' 17: venticinque divisioni tedesche,
trentacinque divisioni tedesche! Guardavo con impazienza i miei informatori: Dio poi mi
ha punito della mia retòrica: ma questo è un resoconto e io devo registrare tutte le mie
cattive azioni: allora alzai le spalle e dissi agli uomini: ... le pallottole della mitraglia
bucano i tedeschi come bucano gli austriaci”. Queste parole sono nel Castello di Udine
(apparso nel 1934) di Carlo Emilio Gadda, che nella guerra aveva trovato la compiuta
immedesimazione del suo essere con la sua idea; ma potevano essere condivise da tutti i
giovani scrittori, insofferenti della stabilità e della pace, che avevano partecipato alle
manifestazioni per l' intervento nelle radiose giornate del '15, inneggiando a D' Annunzio
accorso dalla Francia per salvare da una ruina e da una ignominia irreparabili la patria in
punto di perdimento. Dopo più di due anni durissimi, quei giovani si erano resi conto che
la guerra non assomigliava, come avevano sognato, ad una avanzata irresistibile nella
parata delle bandiere al vento, al suono della marcia reale; ma perdurava la fiducia nello
stellone d'Italia. Lo stesso Gadda, che aveva presentito la guerra come dolorosa necessità
nazionale, confessava di non averla ritenuta così ardua. La tragedia di Caporetto colse
impreparati e increduli uomini esperti di guerra come Ardengo Soffici, che aveva concluso
il suo giornale di battaglia Kobilek parlando di stupefacente avanzata e di superba vittoria,
proprio nel '17. A distanza di mezzo secolo, Gadda ricostruì con precisione, per una
intervista, il suo ultimo giorno di combattente (che ora il lettore ha rivissuto grazie al
taccuino fin qui inedito): Il nemico aveva già passato il fiume, noi eravamo prigionieri in
una sacca e cominciammo a togliere i percussori alle mitragliatrici. Ci addossammo al
monte: un reparto di soldati tedeschi in alta uniforme di parata, la divisa blu e l' elmetto a
chiodo, marciava davanti a noi come il giorno della festa imperiale. La sicurezza del
generale Otto von Below aveva programmato, coi piani della battaglia, anche quella sfilata
del disprezzo. Caporetto significò per lui con la prigionia la fine del suo disciplinato
servizio di soldato d' Italia: Caporetto e la notizia della morte del fratello, al ritorno nella
patria vuota, si fusero in un unico blocco di dolore, di immaginazioni demenziali. Fra le
testimonianze di più autentico interesse letterario sulla grande rotta sono La ritirata del
Friuli di Soffici e Giorni di guerra di Giovanni Comisso, ripubblicati ora da Longanesi &
C. Decifriamo i primi fonogrammi. Sorpresa dolorosa per le notizie che arrivano. Le nostre
linee sono state arretrate davanti a Tolmino. Il nemico attacca da tutte le parti; avanza nella
valle di Caporetto; cala dalla parte di Saga. L' ansia, l' angoscia di tutti qui, è terribile,
sebbene dissimulata. Nelle facce pallide dei superiori, che s' intravedono mentre corrono da
una stanza all' altra, danno ordini, spiccano ufficiali, ciclisti verso le linee, si legge l'
inquietudine, il tormento dello spirito. Lorenzoni, il capitano Settimanni, il tenente Onofri
ed io, ritti in mezzo alla stanza, ci guardiamo in faccia senza osare di comunicarci i nostri
pensieri. Consultiamo in silenzio le carte appese ai muri... E' possibile?. Così Soffici nelle
sue note di un ufficiale della Seconda Armata; nelle pagine di Comisso è la confusione dei
Comandi, fra l' incalzare degli avvenimenti e l' interrompersi delle comunicazioni. Nel
diario di Soffici, l' occhio dello scrittore è attentissimo, nella proiezione cinematografica
della rotta, a cogliere le sequenze del grande dramma in particolari minimi nitidissimi e
nella sua vastità epica. Per la prima volta ebbi la sensazione intera della tragica enormità
del fatto che si svolgeva, e il dolore di vederlo senza rimedio. Si pensava ai grandi e
terribili avvenimenti della storia, dell' antichità: agli esodi biblici, alle migrazioni dei
popoli, alle anabasi orientali, alle fughe caotiche davanti ai flagelli ed ai cataclismi. I
Giorni di guerra di Comisso sono il libro di uno scrittore portato a rendere la fisicità della
sua esperienza in una trascrizione di sensazioni elementari e di impulsi momentanei. Il
mulo carico di due telefoni aveva preso un buon passo e noi dietro, decisi a fare presto, tra
la bellezza dei boschi tutti rossi d' autunno, pestando le foglie cadute, estasiando per
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fuggenti attimi lo sguardo sullo splendore di fiori azzurri, lungo il torrente che correva con
noi. Interminabile la valle e deserta. Non sono in lui i rovelli di Soffici che, per spiegarsi la
disfatta, ricorre alla ipotesi del tradimento, come tutti i nazionalisti incapaci di accettare la
sconfitta. In Comisso è soltanto qualche accenno di malinconia, la registrazione di un
brivido che lo prese alla testa ascoltando al telefono le notizie del disastro.
Queste due testimonianze si inseriscono nel capitolo ricco e intenso della letteratura della
grande guerra, fra le lettere dal fronte di Serra, i taccuini di Slataper, due scrittori caduti nel
' 15, e Il porto sepolto di Ungaretti, il libro più nuovo della giovane poesia italiana. Gadda
sosteneva che della sua retorica patriottarda e militaresca non lo aveva purgato la guerra,
né il dopoguerra, né l' ora che volge (1933), ma, mezzo secolo dopo la fine del conflitto, il
suo giudizio fu amaro: non credo più alle vittorie; ogni vittoria in guerra è una vittoria di
Pirro. Caporetto restò per decenni come un incubo nella storia italiana, non compensato
dalla vittoria del ' 18: una lezione durissima per quella generazione che Boine definì
torbida e immatura.
( G.Cattaneo, La Repubblica, 21/10/1987)
P. Monelli, Le scarpe al sole, Neri Pozza
La scorsa primavera, durante uno dei soliti pellegrinaggi notturni del telecomando in cerca
d' un film, e' spuntata sul video l‟immagine d‟un alpino folgorato dallo scoppio d‟una
bomba a mano. La memoria ha subito raffrontato quel momento alla famosissima
fotografia di Robert Capa con il miliziano spagnolo colpito a morte da una fucilata. Ma l'
immagine che stavo vedendo apparteneva alla finzione del cinema, e ne era protagonista un
attore specializzato in ruoli bruschi e bonari, Camillo Pilotto, che fu anche un eccellente
Mago Cotrone nei "Giganti della montagna" di Pirandello. Un vecchio film, s' intende: Le
scarpe al sole del 1935, regia di Marco Elter, con Pilotto nel personaggio di Bepo, Cesco
Baseggio in quello di Duriga‟n, Carlo Lodovici in quello del giovane Toni e Isa Pola come
moglie di Toni. Sicuramente la malandata pellicola in bianco e nero, proposta da una tv
privata, sarebbe già un ricordo sbiadito e confuso con cento e cento altri, se proprio in
queste settimane non fosse stato ristampato il libro che fornì il soggetto al film: Le scarpe
al sole di Paolo Monelli (editore Neri Pozza, pagine 208), uscito per la prima volta nel
1921. Una ristampa che è anche un modo per commemorare il decimo anniversario della
scomparsa del grande giornalista, avvenuta il 19 novembre 1984. Quale senso può avere la
rilettura del diario che il tenente Monelli scrisse quando apparteneva al battaglione Val
Cismon? Rispondo subito che, insieme a Giornale di guerra e prigionia di Gadda, a Un
anno sull' altipiano di Emilio Lussu e a Con me e con gli alpini di Piero Jahier, il diario di
Monelli resta una delle maggiori testimonianze letterarie sulla Grande Guerra. Sono passati
settantasei anni dalla conclusione di quell‟evento, ma basta una ricorrenza, il ricupero d'
una testimonianza o una delle sempre piu' frequenti indagini sulle origini del fascismo, per
tornare al vecchio dilemma: la Grande Guerra fu "epopea nazionale" o "inutile strage",
secondo la condanna di papa Benedetto XV? Giaà nel 1921 (con i soldati dispersi ancora
attesi in migliaia di case; con i primi, drammatici sintomi di un nazionalismo subito messo
a frutto da Mussolini; con le ambigue manipolazioni della vittoria...) un libro come Le
scarpe al sole si era posto al di fuori del dilemma, rispondendo nel modo piu' semplice e
piu' umano: la guerra era stata epopea e strage insieme, immagine di vita e immagine di
morte, senza squilli altisonanti di trombe ma anche senza dilagare di viltà. Un lungo,
troppo lungo, squarcio nell' esistenza di milioni di uomini, capaci di ricostruire, nelle pause
del combattimento, una qualche parvenza della vita lasciata alle spalle. Proprio questa
caratteristica di carica umana, di spazio concesso alla nostalgia, di fraterna pieta' , ci
sembra sia la ragione della durata del libro e della possibilità di riproporlo ancora:
"Cronaca di gaie e tristi avventure di alpini di muli e di vino", dice il sottotitolo. Ed e'
opportuno spiegare che, nel gergo degli alpini, "mettere le scarpe al sole" significa morire
in combattimento. Un diario non si può riassumere, gremito com' e' di episodi, di
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personaggi, di fugaci frammenti. Il lettore avvertirà che, ogni tanto, nella prosa di Monelli,
fanno capolino D' Annunzio e il Dino Campana dei Canti orfici per certo gusto ornato della
parola: "Ho sradicato l' anima ciondolona dalle vigliaccherie mattutine del letto", "Battere
di chiodi sul gelo. Pallore di stelle", "Dov' e' il nemico? Alba di sonno", "Esclamativi di
pallottole frullanti e qualche punto fermo di granate". Sono inevitabili pedaggi, pagati alle
dominanti regole estetiche dell' epoca. Quel che conta e' , come si direbbe oggi, la "presa
diretta" col mondo della montagna e della trincea, con l' incessante confronto tra la morte e
la giovinezza, tra la realtà orrida della prima linea e il raggelante distacco degli alti
comandi. Un mondo dove, accanto al sangue delle battaglie, hanno posto le bevute e le
bestemmie, il desiderio delle donne, l' arrivo della posta, le ore della malinconia, le
bellezze sopravvissute delle cime e dei boschi. Alcuni anni fa, ebbi occasione d'
intervistare Monelli, il piccolo, elegante Monelli che fissava l' interlocutore con l' aiuto del
monocolo ("si può dire anche caramella", precisava) e cedeva alla debolezza di nascondere
la sua vera età . Era il 1966, confessava di averne appena compiuti 72, ma io sapevo che
erano tre di più . Tema dell' intervista fu la sua abituale crociata contro le parole straniere.
Aveva scritto sul "Corriere" un veemente articolo per difendere "il sig. Cartellone, il sig.
Passatempo, il sig. Recipiente e il sig. Logorio" dall' assalto di "Mr. Poster, Mr. Hobby,
Mr. Container e Mr. Stress". Gli feci anche una domanda sulle Scarpe al sole, di cui si
stava preparando un' edizione tascabile. La più ovvia, la più banale delle domande: dei
tanti personaggi del libro, qual era quello che ricordava di più ? La risposta fu immediata
come se Monelli leggesse nell' ordine alfabetico di un ruolino di marcia: "L' alpino Fa' oro
Daniele da Lamon, provincia di Belluno, professione contrabbandiere". Il valoroso Fa' oro
che era andato da solo alla baionetta contro quattro austriaci e una sera gli aveva confidato:
"Sior tenente, se fa la guera per slargar el confin, e mi perdo el mestier".
In questo libro l'allora Capitano Monelli ricostruisce non solo la vita quotidiana dell'alpino
al fronte, con le necessità di tutti i giorni, il combattimento e la trincea, la sofferenza per le
condizioni di vita e quelle climatiche, le legittime lamentele, i comportamenti al di sopra
delle righe (specie in rapporto al consumo alcoolico) ma riesce a renderci partecipi dei più
intimi pensieri, le recondite speranze, la saggezza intrinseca, lo spirito indomito ed il
coraggio non comune di questi uomini di montagna prestati alla guerra. Ad impreziosire la
presente edizione, 24 litografie di Mario Vellani Marchi, originalmente prodotte per
l'edizione limitata e numerata del 1933 per i tipi Treves. (G. Nascimbeni, Corriere della sera, 3/8/1994)
C. E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia. Diario di Caporetto, Garzanti Questo "Giornale di guerra e di prigionia" raccoglie tutti i diari che il sottotenente degli
alpini Carlo Emilio Gadda tenne tra il 24 agosto 1915 e il 31 dicembre 1919. È una
testimonianza straordinaria, in primo luogo per gli eventi di cui Gadda è stato protagonista.
Nell'ottobre del 1917 si trovava infatti in prima linea a Caporetto e venne fatto prigioniero
dagli austriaci sulle rive dell'Isonzo. Il «Diario di Caporetto», che rende conto di quelle
drammatiche giornate e dell'inizio della prigionia, è rimasto a lungo nascosto, protetto «dal
più rigoroso silenzio», ed è stato pubblicato solo molti anni dopo la morte dell'autore.
E. Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, Mondadori
Il suo vero nome era Remark con la kappa, che poi lo scrittore cambiò in Remarque per
ricordare le origini francesi della sua famiglia (e anche per questo, oltre che per il suo
pacifismo ad oltranza, fu aspramente criticato da gran parte dei tedeschi), nonostante il
successo strepitoso della sua opera più celebre, Niente di nuovo sul fronte occidentale
tradotto in 25 lingue, 6 milioni di copie vendute in pochi decenni, nonostante le cifre da
capogiro incassate per i diritti cinematografici dei suoi libri che divennero film epocali
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(oltre All' ovest niente di nuovo, Arco di trionfo, Tempo di vivere, tempo di morire), Erich
Maria Remarque, di cui si festeggiano oggi i cento anni dalla nascita, non ebbe certo vita
facile, non solo agli inizi, quando non riusciva a trovare un editore per quel suo diario di
guerra terribile nella sua semplicità che è considerato il suo capolavoro, ma anche dopo,
quando, come si diceva un tempo, fu baciato dalla fortuna. Individuato, ma soprattutto
osteggiato per la sua ottica pacifista, per il suo martellante insistere sui guasti irrimediabili,
sulla frantumazione dell' io, provocati nell' individuo dagli orrori della guerra, suscitò nel
suo paese polemiche a catena, accusato di disfattismo ancor prima che i nazisti avessero il
predominio e bruciassero le sue opere al rogo dopo avergli tolto la cittadinanza. Oggi la
Germania festeggia alla grande il suo Remarque, uno dei pochi autori tedeschi che ha
raggiunto fama mondiale: esce un romanzo "nuovo" di Remarque, Station am Horizont
(Stazione all' orizzonte, ed. Kiepenheuer & Witsch, pagg. 230), una storia finora mai
pubblicata in volume; esce una grandiosa biografia di quasi 500 pagine, la prima ampia ed
esauriente sullo scrittore, intitolata Come se tutto fosse l' ultima volta (Als ware alles das
letzte Mal, di W. von Sternburg, ed. Kiepenheuer & Witsch); escono ben cinque volumi di
prose, lettere, diari, abbozzi di drammi finora sconosciuti; e infine, in edizione tascabile,
una raccolta di articoli e interviste dal 1929 al 1966, intitolata Un pacifista militante. Nato
a Osnabruck, in Sassonia, il 22 giugno 1898, Remarque viene chiamato nel 1917 al fronte
dove combatte solo per un mese, un mese che segnerà però per sempre la sua vita; dopo la
guerra fa un po' di tutto, anche lo scrittore di pubblicità, ironico e divertente nel
confezionare brevi storielle illustrate che inneggiano alla gomma e ai suoi derivati; poi
diventa redattore di una rivista chic di Berlino, Sport im Bild, dove pubblica a puntate
Stazione all' orizzonte, la storia che oggi appare per la prima volta in volume. E' il 1927, lo
stesso anno in cui scrive, di getto, Niente di nuovo sul fronte occidentale, eppure non si
possono immaginare due opere più diverse come spirito e come stile. La prima reazione,
nel leggere Stazione all' orizzonte, è lo sconcerto; della prosa scarna priva di ogni lirismo,
che caratterizza il capolavoro di Remarque, non c' è traccia, il mondo descritto è lontano
anni luce dalla reale esperienza dello scrittore. La storia, imperniata su un corridore
automobilistico di nome Kai, si svolge in ambienti sontuosi tipo film dai telefoni bianchi:
alberghi di lusso con piscine e romantici pavillon, Casino e feste principesche a
Montecarlo popolate da donne abili e misteriose; si susseguono liriche descrizioni della
Riviera e della costa palermitana con palme, agavi, stelle e romantici tramonti sul mare. Il
protagonista, affetto da dandismo, ha qualcosa di dannunziano nel suo amore per la sfida,
le corse folli, i motori ("le vibrazioni del motore nel sangue"); corteggiato da tre donne
affascinanti è in eterna (e lussuosa) vacanza fino a quando accetta di correre a Monza e poi
di partecipare al Gran Premio d' Europa. Insomma, siamo di fronte al classico romanzo d'
evasione da leggere sotto l' ombrellone, con personaggi e situazioni improbabili, ma dall'
indubbio fascino un po' rétro. La storia si fa avvincente nella seconda parte, quando la
cronaca mozzafiato della gara automobilistica prende il sopravvento su tutto il resto. E'
certo il più suggestivo dei romanzi giovanili di Remarque. Il successo internazionale
Remarque lo raggiunge solo dopo che il regista americano Lewis Milestone porta i suoi
libri sullo schermo; tra gli esuli tedeschi è certo uno dei più fortunati, eppure gli riesce
difficile accettare la sua condizione, continuare a scrivere. Da Parigi dove si è rifugiato dal
' 33 al ' 39, si trasferisce in America, diventa cittadino statunitense, ricco, festeggiato,
sempre sulla cresta dell' onda; frequenta Marlene Dietrich, Ernst Lubitsch, Lion
Feuchtwanger, sposa in seconde nozze Paulette Goddard. Ma fino alla sua morte, avvenuta
a Locarno nel 1970, rimarrà sempre attaccato al suo paese, coinvolto dal suo destino, dai
suoi problemi, dalle sue tragiche guerre. In un breve racconto (pubblicato di recente da
Mondadori nella raccolta Il nemico), il protagonista, un ex combattente in visita ai campi
di battaglia, osserva: "Hanno ragione a erigere dei monumenti perché mai si è sofferto di
più di quanto si sia sofferto lì e tutto intorno. Ma hanno dimenticato di scrivere una cosa:
mai più". –
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(P. Sorge, La Repubblica, 5/7/1998)
E. Hemingway, Addio alle armi, Mondadori
Composto febbrilmente tra il 1928 e il 1929, "Addio alle armi" è la storia di amore e guerra
che Hemingway aveva sempre meditato di scrivere ispirandosi alle sue esperienze del 1918
sul fronte italiano, e in particolare alla ferita riportata a Fossalta e alla passione per
l'infermiera Agnes von Kurowsky. I temi della guerra, dell'amore e della morte, che per
diversi aspetti sono alla base di tutta l'opera di Hemingway, trovano in questo romanzo uno
spazio e un'articolazione particolari. È la vicenda stessa a stimolare emozioni e sentimenti
collegati agli incanti, ma anche alle estreme precarietà dell'esistenza, alla rivolta contro la
violenza e il sangue ingiustamente versato. La diserzione del giovane ufficiale americano
durante la ritirata di Caporetto si rivela, col ricongiungimento tra il protagonista e la donna
della quale è innamorato, una decisa condanna di quanto di inumano appartiene alla guerra.
Ma anche l'amore, in questa vicenda segnata da una tragica sconfitta della felicità, rimane
un'aspirazione che l'uomo insegue disperatamente, prigioniero di forze misteriose contro le
quali sembra inutile lottare.
E. Junger, Nelle tempeste d’acciaio, Guanda
“La guerra ci aveva afferrati come un‟ubriacatura. Partiti sotto un diluvio di fiori, eravamo
ebbri di rose e di sangue. Junger fotografa lo stato d' animo con cui andavano alla mattanza
della Grande Guerra i giovani tedeschi. L‟ubriacatura eroica finiva presto nel fango delle
trincee della Somme o della Champagne, ma una certa ebrezza, se non di rose, almeno di
sangue, restava. Ed ha ragione Giorgio Zampa ad affemare che alcuni episodi raccontati in
questo libro presentano i caratteri dell' omicidio legittimo, anzi legittimato. Vivere
significa uccidere, dice Junger. E' la tragica e perversa realtà della prima guerra mondiale;
e questo libro la restituisce con la fredda esattezza e il polso fermo del grande scrittore.
Nato come diario di guerra di un giovane ventenne pubblicato a proprie spese dal padre di
Ernst, Nelle tempeste d' acciaio è diventato uno dei libri più importanti della letteratura
tedesca di questo secolo. E' , come dice André Gide, incontestabilmente il più bel libro di
guerra che abbia letto; di una buona fede, veracità, onestà perfette. E' questo il punto: l'
onestà intellettuale, la perfetta aderenza del giovane Junger a ciò che viveva, l' assoluta
assenza di ideologia o, comunque, di enfasi. L‟accettazione della guerra per quello che era.
Ma certo, anche, nessuna condanna. Da questo punto di vista, siamo lontanissimi da Erich
Maria Remarque e dal suo Niente di nuovo sul fronte occidentale e, in generale, da ciò che
Bertolt Brecht chiamava l' umanismo declamatorio della corrente letteratura dell' epoca.
Junger, comunque, è un personaggio scomodo e di difficile classificazione, tanto che di lui
è stato detto che è un rivoluzionario reazionario.”
(G. Manacorda, Repubblica, 29/12/1990)
R. Graves, Addio a tutto questo, Piemme
Trincee come fiumi di fango, campi allagati, la pioggia fitta che si insinua sotto gli abiti e
nelle scarpe e, invece di lavare, sporca, illividisce, porta a galla i corpi in decomposizione
dei soldati morti e abbandonati ovunque. Questo è il paesaggio che appariva ai soldati della
Somme, in quel novembre del 1916. E non era cambiato molto dal primo giorno di
battaglia, cinque mesi prima, solo dieci chilometri di terreno strappato ai tedeschi a fronte
di 620.000 soldati inglesi e francesi uccisi, un numero imprecisato di feriti e perdite
incommensurabili. Robert Graves ha diciannove anni e un bagaglio di patriottismo e
ingenue convinzioni quando decide di arruolarsi per combattere sui campi di battaglia della
Prima Guerra mondiale. Un'intera generazione di giovani, figli dell'Inghilterra edoardiana,
parte con lui. Plasmati da un'educazione repressiva, piegati all'obbedienza, impreparati agli
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orrori della guerra che conoscono solo da lontano, nessuno di loro pensa che si possa dire
no. Quando torneranno - chi di loro tornerà - avranno perso qualcosa di più prezioso della
vita: la fiducia in quel mondo che li aveva nutriti e mandati a morire. A tutto questo Robert
Graves dice addio. Il suo capolavoro è un commiato alla patria e a un mondo che si è
sbriciolato sui campi di battaglia. È l'addio di un'intera generazione che la guerra ha
spazzato via.
T. Findley, Guerre, Neri Pozza
È il 1915 a Toronto, in Canada. I giornali riportano le notizie dal fronte: a Ypres, nelle
Fiandre, c'è stata una tragica disfatta… seimila tra morti e feriti. La guerra che doveva
finire entro Natale forse si protarrà fino all'estate, forse anche all'autunno. Le truppe
marciano lungo Yonge Street. Le donne dimenticano il loro riserbo e si precipitano in
strada gettando fiori e sventolando bandiere. I ragazzi rincorrono i soldati in bicicletta. Le
bambine, a bocca aperta, non hanno il coraggio di fare altrettanto. Gli uomini più anziani si
tolgono il cappello. DIO SALVI IL RE! proclama uno striscione. Dovunque si volta lo
sguardo, si vedono navi salpare dai porti e treni uscire dalle stazioni.
Su uno dei treni diretti a Kingston, in Ontario, dove si trova il centro di arruolamento
nell'artiglieria da campo, è appena salito Robert Ross. Ha con sé una valigia nuova di zecca
e in testa un berretto a scacchi. Indossa un impermeabile corto al ginocchio in modo da
poter camminare nell'acqua (lo chiameranno ovunque trench tra un po', il soprabito da
trincea). Ha diciannove anni ed è bello anche se ha le orecchie un po' sporgenti e la
mascella troppo larga. In questo momento, pensa forse di partire per la guerra che porrà
fine a tutte le guerre, la grande guerra per la civiltà, la guerra della morte romantica, in cui
gli eroi spirano lentamente mentre qualcuno preme magari pezze di lino sulle loro ferite!
Non sa che si troverà in una terra in cui uomini e cavalli affogheranno nel fango e nel
sangue; in un mare, grigio e puzzolente, di sterco, detriti e corpi in decomposizione, dove i
fiocchi di neve sapranno di gas e centomila granate all'ora costituiranno la colonna sonora
di migliaia di omicidi al giorno. Non sa, soprattutto, che il suo tempo, quel tempo
straordinario e folle in cui l'umanità è apparsa per la prima volta mostruosa e fuori di
senno, non è stato reso tale da persone straordinarie ma da uomini comuni, da signori «non
diversi dal macellaio o dal fruttivendolo che ci vendono carne e patate dietro il bancone».
Romanzo che esplora tutte le ossessioni che alimentano la scrittura di Timothy Findley, la
violenza, la solitudine, la sopravvivenza dell'individuo nella follia del mondo, Guerre è
uno di quei rari capolavori della letteratura in cui la speranza e la barbarie, il sentimento e
la dissoluzione della vita sono illuminate dalla «feroce verità dell'opera d'arte».
P. Barker, Rigenerazione, Il nuovo melamgolo
Pat Barker, nata nel 1943, è una scrittrice inglese di grande successo, soprattutto grazie alla
Trilogia bellica di cui Rigenerazione è il primo volume. Il terzo, The Ghost Road, ha
ottenuto nel 1995 il Booker Prize, consacrazione di molti romanzieri di lingua inglese, da
Rushdie e Ondaatje. Rigenerazione evoca i giorni della prima guerra mondiale dalla
prospettiva di un ospedale psichiatrico scozzese per ufficiali reduci dal fronte. Fra questi il
protagonista silenzioso del libro, il poeta Siegfried Sassoon, che, dopo aver combattuto
valorosamente in Francia, ha reso pubblica una Dichiarazione di un soldato, critica nei
confronti dell‟inutile strage. La cosa potrebbe meritargli la corte marziale, ma un
compagno d'armi anch'egli poeta, Robert Graves, riesce a dirottarlo nell'ospedale. Sassoon
ha la fortuna di imbattersi in uno psichiatra sensibile, Rivers, che gli fa da padre e lo
incoraggia a tornare al fronte, non perché creda nella guerra, ma per lealtà nei confronti dei
suoi uomini. Rivers, anch'egli personaggio storico, è con la sua tolleranza partecipe al
centro della narrazione, un antropologo solitario che contempla lo spettacolo di un mondo
dalle regole artificiali. Ne nasce una storia inglese, con molta pioggia, qualche paesino di
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pescatori sul mare, una corrente sotterranea di omosessualità repressa, una working class
cockney rappresentata dalla genuina ragazza Sarah che con l'affetto e il sesso contribuisce
alla guarigione di uno dei pazienti più difficili di Rivers. Molto inglese, l'abile e pacato
racconto della Barker, anche per lo spazio che dà alla poesia. Fra i personaggi sono tre i
poeti: Sassoon, Graves e Wilfred Owen, che conosce Sassoon all'ospedale e gli mostra
timidamente i suoi versi, destinati a rimanere i più significativi e amari della guerra: "Quali
rintocchi per coloro che cadono come bestie?/ Solo il mostruoso sonaglio dei cannoni".
Versi che Benjamin Britten musicò in apertura al suo grande War Requiem. È come se un
nostro scrittore evocasse la vita al fronte di Ungaretti, Sbarbaro, Montale e Solmi, visti
come uomini fra altri uomini. Lo scrivere versi è per la Barker e la cultura cui appartiene
un'attività come tante altre. Ciò non toglie che i versi possano cambiare il nostro modo di
vedere la realtà, come dimostrano le numerose citazioni, apparentemente inconsce, di un
altro poeta di quegli anni, l'Eliot di The Waste Land (vedi ad esempio la scena del pub del
decimo capitolo, e la seconda sezione del poema eliotiano). Il romanzo della Barker
disegna un quadro attendibile di un momento storico, e acquista spessore per questa sua
dimensione documentaria (e documentata, in appendice).Gli manca forse un certo scatto
fantastico, che del resto non è nelle corde della tradizione che esso raffigura e di cui fa
parte. Ma Rigenerazione, ambiguo fin dal titolo (visto che la "cura" di Sassoon e compagni
non si può dire conclusa), resta nondimeno un ottimo e istruttivo viaggio nella coscienza
nazionale. E un esempio di scrittura penetrante ed efficace. (M. Bacigalupo, Indice dei libri del mese, 1997, n°10)
A. Baricco, Questa storia, Fandango
La modernità, o il Novecento come la chiama lui, per Alessandro Baricco comincia nel
maggio del 1903, con la corsa di automobili Parigi-Madrid sospesa per eccesso di incidenti
e di morti. Fu allora che per la prima volta la gente scoprì il mondo nuovo delle macchine:
il rumore, la velocità, la meccanica, l' azzardo, e l' odore di olio e benzina che rimpiazzava
quello del letame. L' ordine secolare delle campagne, quel giorno, veniva lacerato dai
prodigi della tecnica; iniziava la strana battaglia fra caos e ordine, avversari che nel secolo
breve spesso si sono scambiati i ruoli. Sì, perché se l' auto che sfreccia sulle strade di
polvere di mezza Europa scompagina tutte le regole del vivere tradizionale, dall' altra è il
prodotto di uno sforzo razionale per organizzare, dominare risorse energetiche e mezzi di
produzione avanzati e infinitamente più redditizi. Tra caos e ordine (anni fa si diceva tra
avanguardia e restaurazione) si gioca tutto il nuovo romanzo di Baricco, Questa storia
(edito da Fandango), racconto che si apre nei primi del Novecento e si chiude nel 1969,
quando però Ultimo Parri, figlio di Libero, il contadino piemontese che agli albori del
secolo vende le vacche per aprire un garage, è morto ormai da quindici anni. Padre e figlio
si sono fatti affascinare dal nuovo, dal caos che scatena un traumatico risveglio di vita: tutti
e due dedicheranno la loro esistenza ai motori. Quando poi cercheranno di ristabilire l'
ordine, non ci riusciranno: non è certo ordine la vita di Libero, che ha perso una gamba in
una corsa e da allora si è ridotto a guidare furgoni per piccoli trasporti di merce a Torino; e
meno che mai lo è la vita di Ultimo, randagio per il mondo a inseguire il sogno di un
circuito perfetto per le corse d' auto, in fuga dalla famiglia e dalla donna, Elisaveta, che
avrebbe potuto renderlo felice. Fra il primitivo rally del 1903 e le Mille Miglia degli anni
Cinquanta, Questa storia intreccia piccole e grandi vicende. Una di queste si aggiudica una
sezione a sé, 62 pagine sulle 275 del libro, che diventa il vero cuore del racconto. S' intitola
«Memoriale di Caporetto», è la ricostruzione in forma romanzesca della disfatta dell'
ottobre 1917, quando «in pochi giorni più di tre milioni di persone si riversarono in una
piccola porzione di terra facendovi convergere ogni tipo di illusione e di ragionamento». Il
computo include più di un milione di soldati italiani in ritirata, un milione di austriaci e
tedeschi che li incalzavano, oltre trecentomila civili in fuga davanti al nemico. In quell'
esplosione di caos assoluto, più di trecentomila soldati italiani furono fatti prigionieri (e fra
loro c' è anche Ultimo Parri). Molti furono quelli processati e fucilati subito per diserzione.
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Poi, a novembre, l' esodo si arrestò sulla linea del Piave, la logica della guerra riprese il
sopravvento, le sorti degli Imperi centrali imboccarono un declino senza ritorno, qualcosa
molto presto cancellò, almeno nella memoria collettiva, il ricordo di quei giorni. Eppure,
anche se per un tempo brevissimo, sembrò che quella fosse destinata a restare una data
epocale, con i soldati che buttavano via le armi e gridavano che la guerra era finita, l'
assenza di ordini e gerarchie che dava un improvviso senso di libertà, l' aria di festa, di
carnevale che c' era nella sovversione di tutti i ruoli, di tutti gli ordinamenti. «Quel corteo
di folli gonfio di rancore e liberato da qualsiasi disciplina» poteva essere la rivoluzione,
come Baricco fa dire a una delle due voci narranti di questo «Memoriale» (è il chirurgo da
campo che racconta quei giorni al vecchio professore che vuole riabilitare la memoria del
figlio, giovanissimo capitano fucilato per diserzione). Negli stessi giorni dell' «incubo
bolscevico», gli «straccioni armati» in fuga dalle trincee avrebbero potuto rivolgere la loro
rabbia contro i comandanti e poi contro i borghesi che li avevano mandati là. «E invece
marciarono mansueti». Di Caporetto la storiografia italiana si è occupata con grande
ritardo. Quasi con reticenza, come spesso capita alle rivoluzioni mancate. Anche sulla
Grande guerra, del resto, superate le stagioni della retorica nazionalista, si sono compiuti
studi seri non da tanto tempo. I lavori di Mario Isnenghi, la bella antologia di Andrea
Cortellessa (Le notti chiare erano tutte un' alba, edito da Bruno Mondadori), la traduzione
del libro di Paul Fussell (La grande guerra e la memoria moderna, Il Mulino) e,
ovviamente, la pubblicazione dei verbali dei tribunali militari prima e dopo Caporetto: di
tutto questo Baricco ha chiaramente tenuto conto per le sue pagine. Il suo merito è quello
di aver usato questa memoria a lungo rimossa
per farne il nucleo centrale di un romanzo, dato assolutamente raro in un panorama come
quello italiano dove, se di storia si deve trattare, la narrativa continua a occuparsi della
guerra civile 1943-45, stragi, rappresaglie, zone grigie, morti neri e morti rossi sullo sfondo
di quella che oggi si usa chiamare Morte della patria. È come se un filo si riannodasse con
episodi lontani e preziosi, i diari di Gadda, Monelli (Le scarpe al sole), Malaparte (La
rivolta dei santi maledetti), il Soffici della Ritirata dal Friuli, che solo in pochissime
occasioni sono tornati a tentare scrittori e cineasti, come Emilio Lussu con Un anno sull'
altipiano (poi portato in film da Francesco Rosi in Uomini contro) e, sullo schermo, Mario
Monicelli con La grande guerra. Invece, in Francia è una pratica frequente, incoraggiata
pure dalla riabilitazione, nel 1998, che l' allora primo ministro socialista Jospin concesse ai
fucilati dai tribunali militari. Cinema e letteratura, là, non hanno dimenticato: in meno di
dieci anni, Bertrand Tavernier ha realizzato due film sulla guerra, La vita e nient' altro,
1989, e Capitan Conan, 1996. Sébastien Japrisot, poi, ha scritto Una lunga domenica di
passioni da cui Jean-Pierre Jeunet ha tratto un film. In Inghilterra, intanto, Sebastian Faulk
ha firmato uno dei bestseller del decennio scorso raccontando la vita nelle trincee della
Somme: Il canto del cielo; e la trilogia di Pat Barker, Regeneration, ha dato spunto al film
con Jonathan Pryce. Da noi tutto questo è lettera morta. O - dove esistono ancora - materia
da cineclub, con il Renoir della Grande illusione che si alterna con la prima versione di
Addio alle armi e Orizzonti di gloria di Kubrick. L' aver riaperto un capitolo fondamentale
del nostro Novecento è uno dei non pochi punti di merito di Baricco, la cui ambizione di
scrivere un romanzo massimalista, se non ha paura di mettere in scena i più bizzarri
capricci del destino e gli intrecci meno probabili, ha pure il coraggio di ridar vita a una
materia storica che ancora oggi stenta a entrare nel patrimonio comune di conoscenze. il
libro Alessandro Baricco (nella foto) è nato a Torino nel 1958. Tra i suoi successi,
«Oceano mare» e «Castelli di rabbia» (Bur) Il suo nuovo romanzo, «Questa storia» (pp.
275, euro 15), è il primo che Baricco pubblica con la casa editrice Fandango
(P. Ranieri, Corriere della Sera, 17/11/2005)
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L-F. Cèlin, Viaggio al termine della notte, Corbaccio
«A pagina 90 di Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline (Corbaccio,
traduzione di Ernesto Ferrero, pagg. 575, euro 24) mi sono chiesta: "Ma perché non l´ho
letto prima?". E poi mi sono detta: "Perché pensavo che Céline fosse un fascista". E così,
per cecità, per partito preso, mi ero sempre rifiutata di prendere in mano il suo capolavoro.
Poi, qualche giorno fa, ho visto il libro a casa di un amico. E non l´ho mollato più. Lo
leggo la sera tardi, dopo il telegiornale. Leggo Céline che racconta la prima guerra
mondiale e penso a Gaza. Guardo le immagini di Gaza e penso a Céline. Dopo tre righe,
già ti prende: è un fetente Céline. Strepitosa la traduzione di Ferrero: rende ogni sfumatura
linguistica adottata nel romanzo. La parlata militare, lo slang. Ci sono tutte le forzature di
un uomo colto che sbaglia volutamente la sua lingua per rendere vitale, concreto il
racconto».
«È la storia della guerra e dei suoi parassiti - a tratti mi ricorda addirittura Eduardo -
descritta in prima persona da un anti-eroe che ha un unico obiettivo: mettere in salvo la
pelle. Perché la letteratura di guerra, da Tucidide in poi, è sempre uguale. Chi sperimenta
la guerra ha un solo desiderio: arrivare al termine della notte».
(D. Pappalardo, Intervista a Valeria Parrella, La Repubblica, 17/1/ 2009)
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IMMAGINI, SUONI E STORIE
A cura di G. De Luna e G. D’Autilia, L’Italia del Novecento. Le fotografie e la storia,
Vol.1 primo tomo, Il potere da Giolitti a Mussolini, Einaudi
Una «storia fotografica dell'Italia» insolita e innovativa: nei tre volumi che costituiranno
l'opera, il rapporto testo/immagine è capovolto, con il testo che assume un ruolo ancillare
rispetto alle immagini. Le fotografie non illustrano un discorso storico già impostato su
documenti scritti, ma diventano uno strumento autonomo del raccontare e una fonte per la
conoscenza storica, in grado di mostrare la storia «latente» degli uomini: quello che essi
provano senza sapere che i loro dolori, il loro lavoro e il loro riposo è a pieno titolo
«storia». Il primo volume è dedicato allo sguardo dall'alto, quello istituzionale del potere
politico che si autorappresenta; in particolare, al rapporto tra l'organizzazione dello spazio
pubblico e il potere durante il fascismo. Numerose sono le foto dell'Istituto Luce che
documentano la rappresentazione di tale rapporto attraverso gli eventi, la
monumentalizzazione dei luoghi, la simbologia, ma anche e soprattutto attraverso la
«fisicità» della politica, la dimensione che i «corpi» hanno assunto nella politica
massificata del '900.
Il saggio direttamente interessato è il seguente: “La nazione in armi. Grande Guerra e
organizzazione del consenso” di A. Gibelli.
E. Friedrich, Guerra alla guerra. 1914-1918: scene di orrore quotidiano, Mondadori
Nel 1924 un giovane anarchico tedesco, Ernst Friedrich, decise di rivelare al mondo il vero
volto della guerra, e lo fece nel modo più sconvolgente, pubblicando una raccolta di
fotografie terrificanti e commoventi che, come negli stessi anni facevano i dipinti di Grosz
e Dix o i romanzi di Remarque, raccontavano cos'era successo davvero durante il Primo
conflitto mondiale. Denunciando gli orrori della guerra, Friedrich raccontò attraverso le
immagini cosa era accaduto durante gli anni della Grande Guerra nelle trincee e nei campi
di battaglia, le mutilazioni fisiche e psicologiche, la distruzione della natura, le sofferenze
di chi aveva combattuto e di chi era restato nelle città, il dolore per i morti e quello dei
sopravvissuti.
Sullo stesso argomento si vedano anche: Autori Vari, 1918-2008. Piccole memorie dalla
grande guerra. Un libro fotografico sui luoghi del fronte veneto, Editore Canova; e M.
Galbiati, Millenovecentodiciassette. Storia fotografica della grande guerra, Nordpress
Istituto Ernesto De Martino: O Gorizia tu sei maledetta, Le canzoni della prima guerra
mondiale
Ala Bianca Group: Distribuzione Warner Music Italia.
10.000 titoli di canzoni popolari raccolte e registrate tra le varie etnie regionali italiane da
musicologi e ricercatori dell‟Istituto Ernesto De Martino. Duecento anni di storia d‟Italia
attraverso le canzoni, dai canti giacobini del dopo rivoluzione francese ai canti garibaldini
dell‟unità d‟Italia, ai canti degli emigranti dei primi del „900, ai canti del Lavoro, ai canti
della Resistenza, delle osterie, degli anarchici, fino alla contestazione studentesca del „68;
di questo grande patrimonio ALA BIANCA ha ripubblicato circa 50 CD nella prestigiosa
collana "I DISCHI DEL SOLE" e la rimasterizzazione è in atto per future pubblicazioni.
Attraverso un‟iniziativa speciale denominata "AVANTI POPOLO", sono state pubblicate
12 monografie ad argomento vario, estrapolate dall‟intera raccolta: il ‟68, i canti contro la
guerra, i canti anarchici, ecc…
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A cura di Mario Rigoni Stern, La guerra sugli Altipiani: 1915/18, Neri Pozza
Un libro come questo è in Italia un caso più unico che raro. Tratta della Grande Guerra in
un singolo settore riunendo in modo sistematico testimonianze dovute ai protagonisti di
quella esperienza. Tra gli autori presenti nella raccolta troviamo qualche scrittore di prima
grandezza come Robert Musil e Carlo Emilio Gadda, insieme a tanti bravi o eccellenti
memorialisti, da Attilio Frescura a Emilio Lussu, da Paolo Monelli a Giani Stuparich, ad
Angelo Gatti, a Piero Jahier. I testimoni, chiamati in causa con lunghi brani, sono
venticinque in tutto.
Viene fuori una guerra molto simile a quella che si è combattuta altrove in Italia. Gli orrori
sono quelli, e il macello, e le sofferenze. Qualcuno che ha sperimentato il saliente di Ypres
trova, a un certo punto, che ci fu di peggio. Forse, in altre situazioni, si toccarono livelli più
alti di violenza distruttiva. È certo in ogni caso che questa guerra sull‟Altopiano dei Sette
Comuni, tra l‟Astico e il Brenta, era notevolmente diversa da quella che negli stessi anni
insanguinò il Carso. Era diverso il quadro, prima di tutto. Una conca verde, che lasciava
sperare “alberi, foreste e sorgenti, vallate ed angoli morti” (Lussu), non aveva molto a che
vedere con una pietraia “squallida, senza un filo di erba e senza una goccia di acqua, tutta
eguale, sempre eguale, priva di ripari” (sempre Lussu).
Bella soddisfazione, si dirà: morire per morire, uno scenario magnifico rende la morte
ancora più atroce. Ma i combattenti non erano dei prigionieri in attesa della morte. Erano
uomini senza una certezza del futuro, e proprio per questo portati ad assaporare ogni gioia.
Nei brani scelti, più volte il rapporto con la natura permette di allontanare la tristezza.
La guerra sull‟Isonzo e sul Carso aveva spesso un carattere offensivo. Anche sotto questo
profilo l‟Altopiano rappresenta un caso a parte. Sono gli austro-ungarici a vedere nel fronte
trentino la via maestra di un possibile sfondamento. Gli italiani per parte loro
contrattaccano o cercano di migliorare il quadro difensivo. La nostra è davvero su questo
fronte una guerra per la protezione delle famiglie e di un patrimonio storico, pro aris et
focis. Nei primi mesi di guerra gli alpini dell‟Altopiano combattono sui monti di casa. Nel
maggio 1916 l‟Austria-Ungheria scatena la cosiddetta “spedizione punitiva”. La
preoccupazione di vedere il nemico arrivare a Treviso o a Venezia si fa sensibile. Di nuovo
nel 1917, dopo Caporetto, sono numerosi i soldati italiani provenienti da zone poste sotto
la minaccia di un‟occupazione nemica, o addirittura invase.
Il presidente della Repubblica Ciampi, nella prefazione che ha scritto per il volume evita di
soffiare sul fuoco dell‟odio tra le nazioni. Riprende tra l‟altro la formula dell‟“inutile
strage”, parla delle guerre fratricide che hanno funestato l‟Europa. Quelli rievocati nelle
pagine del volume erano certo altri tempi. Era possibile allora che dei condannati a morte
trovassero giusta la punizione che veniva loro inflitta. Ma era ugualmente possibile che
l‟umanità del nemico fosse riconosciuta e suscitasse sentimenti di simpatia; due o tre
episodi del genere sono rintracciabili nelle testimonianze.
(G. Carpinelli, Indice dei libri del mese, 2001, n°7)
Si vedano anche i libri dell’editore Rossato, fra i quali: A cura di Michele Campana, Un
anno sul Pasubio, Edizioni Rossato
A cura di A. Cortellessa, Le notti chiare erano tutta un’alba. Poeti italiani nella prima
guerra mondiale, Bruno Mondadori
Destino singolare è toccato all'antologia di Andrea Cortellessa. Nata da poco, mentre è
ancora nella condizione di libro attuale, anche grazie a un'ottima (e ben meritata)
accoglienza, di quella attualità si trova a sperimentare un imprevisto rilancio: la guerra sarà
pure "un asintoto mentale", come scrive l'autore a conclusione delle dense pagine
introduttive, sarà pure "un concetto-limite", "l'assoluta negatività concepibile", ma non è
poi detto che "abbiamo finalmente imparato a conoscerla", se oggi, ancora oggi, molto
vicino a noi le bombe cadono e devastano, ufficialmente legittimate da "scopi umanitari" e
soprattutto guidate da una rassicurante "intelligenza". Se mai sorgerà una letteratura
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intorno a questa ultima guerra, allora un'eventuale antologia che voglia ispirarsi ai criteri
tassonomici utilizzati da Cortellessa per ordinare lo sterminato materiale poetico prodotto
intorno al primo conflitto mondiale dovrà certo eliminare qualcuna delle sue caselle, ma
sarà autorizzata ad aggiungerne altre; e potrebbe trattarsi di veri e propri virtuosismi
ossimorici: La guerra intelligente e La guerra umanitaria. Tutto questo per dire che Le
notti chiare erano tutte un'alba è un libro che non riusciamo più a leggere come quando è
uscito, solo pochi mesi fa, alla fine del 1998, e cioè come un volume appartenente al
genere della critica letteraria: un'antologia tematica relativa alla produzione poetica delle
generazioni primo-novecentesche, originale occasione per fare il punto sulla letteratura di
quei decenni. Slittamento di prospettiva che dipende anche da Cortellessa, il quale del suo
ruolo di selezionatore e ordinatore dei testi ha accettato tutta la responsabilità, non facendo
nulla per raffreddare l'incandescenza della materia, non privilegiando un'asettica analisi
letteraria rispetto all'urgenza del giudizio critico e morale. Se questa antologia mette in
campo una produzione tematica per la quale i termini della difficile coppia storia-
letteratura trovano una indiscutibile tangenza, il suo ideatore ha letto la poesia senza mai
perdere di vista la traumaticità dell'occasione specialissima che di tale poesia è stata fonte.
Risultato è che questo libro si presenta insieme come una riflessione originalmente ricca
sul Novecento alla luce del nesso ineludibile "modernità-violenza"; come una osservazione
storico-antropologica del fenomeno guerra e dei suoi orrendi risvolti ideologici e umani;
come una interpretazione critica della poesia dei primi decenni del nostro secolo. Un
proposito tanto ambizioso nelle abili mani di Cortellessa trova una naturale attuazione. E la
trova in primo luogo grazie al criterio mediante il quale i tanti materiali vengono ordinati
(anche se va subito manifestata la discutibilità della definizione "antologia" per un libro
nato su un'ispirazione interpretativa così forte; come discutibile è l'occultamento di colui
che a tutti gli effetti ne è l'autore dietro la inadeguata qualifica di "curatore"). La
martellante ossessività con cui nei capitoli-contenitori si riafferma la presenza ipertrofica
della guerra quale protagonista di una simile originale ricostruzione (La guerra-attesa, La
guerra-festa, La guerra-cerimonia, La guerra-comunione, La guerra-percezione, La
guerra-riflessione, La guerra-lontana, La guerra-follia, La guerra-tragedia, La guerra-
lutto, La guerra-ricordata, La guerra postuma) è ingrediente strutturale che rende la
cornice tutt'altro che esornativa: autori e testi vi trovano una loro collocazione funzionale
alle singole posizioni ideologiche e ai diversi esiti estetici, mentre la storia che ne risulta è
storia, insieme letteraria e intellettuale, della generazione delle avanguardie, con tutti gli
equivoci e con tutte le ambivalenze inestricabilmente connesse alla letteratura di guerra.
Chi, come D'Annunzio o i futuristi, la guerra la esaltò quale estrema estetizzazione,
mediante registri ludico-sportivi, che precorrevano le forme oscene della attuale
spettacolarizzazione dell'evento bellico; chi la visse da dentro, nello spazio separato,
liminare, incomunicabile della "zona di guerra" e furono i più e i più grandi (Ungaretti e
Rebora), e chi, invece (Gozzano), ne fu spettatore e ne scrisse da lontano (Boine o
Palazzeschi); chi la pensò mentre vi erano dentro (Rebora), o la ripensò tra "le bianche
parentesi quadre" degli ospedali o dei sogni (Ardengo Soffici o Umberto Saba); chi la
desiderò quale farmaco e rimedio, chi (pochissimi) seppe subito e senza incertezze
rifiutarla, come Sbarbaro, Palazzeschi, Thovez; la guerra per tutti fu un'esperienza radicale,
dopo la quale nessuno sarebbe più stato lo stesso; e tanto meno la poesia e l'arte. I testi
letterari sono i testimoni di questa metamorfosi generazionale, insieme a tante
testimonianze più umili, qui non esplicitamente esaminate, ma comunque presenti sullo
sfondo della ricognizione (i riferimenti ai canti di guerra o alla proliferazione delle
leggende orali). Letto nella sequenza che Cortellessa propone, entro uno spazio
affollatissimo di parole poetiche, talora alte talaltra modeste, questo insieme di testi mostra
come la poesia si misurò con l'estremo; come fu chiamata a esprimere la tragedia della
guerra e la sua intrinseca follia, la confusione e la coesistenza della vita e della morte,
l'inesprimibile dell'orrore, la mescolanza del corporeo allo stato più degradato e delle più
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complesse percezioni dei sensi. No, il libro "antologia" di Cortellessa non è una delle tante
antologie tematiche: a sfogliarlo, prima di leggerlo, appariva un libro interessante e utile;
dopo la lettura è diventato un libro necessario.
(N. Bellucci, Indice dei libri del mese, 1999, n°6)
F. Minniti, Il Piave, Mulino
Il Piave è “fiume, battaglie e canzone, è dunque un luogo della memoria”, un simbolo
fondante dell‟identità italiana perché da tutti condiviso e accettato. Questa la tesi di
Fortunato Minniti. Dopo la ritirata di Caporetto, il Piave assurse a simbolo della resistenza
al nemico invasore. Torrenti di parole vennero dedicati alle sue acque “sacre”; in
particolare una canzone, La leggenda del Piave, peraltro non citata integralmente, si
impose nel dopoguerra fino ad assumere carattere di inno e a entrare, nel 1929, nei
programmi della Pubblica istruzione, seppure censurata. L‟esposizione degli eventi che
caratterizzarono il 1918, non solo in Veneto ma anche nel resto d‟Italia, pur essendo
necessariamente rapida, non trascura cenni alla storiografia e risulta impreziosita
dall‟attenzione rivolta ad aspetti meno consueti.
È nel capitolo intitolato Il mito del Piave e l’identità italiana che emerge la motivazione
del volume e la giustificazione della sua pubblicazione nella collana diretta da Galli della
Loggia: per Minniti il Piave è il simbolo che ridusse la distanza tra identità italiana e
identità nazionale grazie alla resistenza militare e alla solidarietà sociale inscritte nel mito
del fiume sacro. “Con il popolo, la patria e lo Stato, ebbe molto a che fare allora il Piave
creatore di identità entro i limiti non angusti dell‟indubbio coinvolgimento popolare”.
Nessun dubbio sulla riuscita della mobilitazione dei ceti medi, ma non siamo certi che lo
stesso si possa sostenere per quelli più umili. Mantenuti volutamente estranei ai fini della
guerra durante i primi tre anni e accusati di non essersi battuti a Caporetto, non sappiamo
quanto l‟opera di coinvolgimento nei loro confronti abbia avuto successo. Ciò non
diminuisce l‟importanza storica dell‟aver tentato, per la prima volta, di far partecipare
attivamente l‟intero corpo sociale alla vita e ai destini del paese.
(G. Luigi Gatti, Indice dei libri del mese, 2001, n°7)
L. Cadeddu, La leggenda del soldato ignoto all’Altare della Patria, Gaspari editore
L'idea della patria come una fusione dell'idea di libertà con la cultura fatta di memorie
condivise dei sacrifici e delle sofferenze patiti dal popolo italiano, trova nel Soldato ignoto
dell'Altare della patria uno dei simboli più noti. Pochi cittadini tuttavia conoscono la storia
che portò un umile fante sconosciuto a rappresentare i sacrifici compiuti dai cittadini-
soldati. Questo libro narra della lungimiranza e del coraggio di un gruppo di uomini il cui
impegno per la libertà si tradusse in un'opera di compassione e carità collettiva sugli undici
campi di battaglia della Grande Guerra alla ricerca delle salme di altrettanti soldati
sconosciuti dai quali, poi, una madre avrebbe scelto quello che sarebbe diventato il
simbolo dell'immane sacrificio di un popolo. Mai, fino ad allora, ci fu una partecipazione
emotiva così diffusa e intensa in tutta Italia attorno alla cerimonia che portò il Soldato
sconosciuto da Aquileia a Roma.
“No, il milite ignoto non è un‟invenzione italiana, come sembra credere l‟autore di questo
libro, quando scrive: “L‟idea del Douhet varcò (…) velocemente i confini nazionali per
essere recepita e realizzata da Francia, Inghilterra, Belgio e Stati Uniti”. Nientemeno. In
realtà, quando nel luglio 1920 l‟allora colonnello Douhet – oggi più noto come teorico
della guerra aerea – lanciò la sua idea in Italia, una proposta simile circolava già in Gran
Bretagna da alcuni anni. In Francia, d‟altra parte, già nel 1919 la parata della vittoria sfilò
dinanzi a un catafalco che simboleggiava tutti i caduti e che era eretto sotto l‟Arco di
Trionfo all‟Etoile; dopo la guerra franco-prussiana si era pensato ugualmente a una scena
simile. Detto questo e mettendo da parte la querelle erudita sul primato degli italiani, il
libro è assai interessante. Mostra in base ad articoli di giornale, memorialistica e fotografie
pagina 50 di 77
(in gran numero queste ultime) quanta risonanza e quanta commozione abbia suscitato tra
il popolo la salma reale e simbolica al tempo stesso del milite ignoto. Anche in Italia il
culto dei caduti in guerra andava al di là delle divisioni politiche. Prese forma nell‟Italia
liberale prima ancora che il fascismo arrivasse a dominare la scena. Folle piene di
venerazione accompagnarono tra l‟ottobre e il novembre del 1921, nel suo ultimo viaggio,
un feretro che finì poi inghiottito nel marmo del Vittoriano.”
(G. Carpinelli, Indice dei libri del mese, 2002, n°6)
Sullo stesso argomento il libro di B. Tobia, L’Altare della patria, Mulino
A cura di Paolo Gaspari, Guida storica ai luoghi dimenticati della Grande Guerra,
Gaspari editore
Fu solo con la Grande Guerra che si formò l'identità nazionale italiana, quel senso di
appartenenza che è alla base della crescita civile. È da quella conoscenza che ogni
generazione deve ripartire per avere la vera consapevolezza di sé. Vi sono però luoghi in
cui i segni della guerra si vedono ancor oggi, ma vi sono luoghi in cui non vi sono segni
ma dove ci furono combattimenti e avvenimenti, luoghi che ci raccontano di avventure,
paure ed eroismi di quei cittadini che ci hanno preceduto nella storia.
F. Caffarena, Lettere dalla grande guerra, Unicopli
Uno dei campi di ricerca più fertili sulla storia della Grande guerra, negli ultimi due
decenni, è stato quello sulle fonti di estrazione popolare: fonti a lungo trascurate e che
vengono ora invece ricercate, accuratamente editate, minuziosamente analizzate. Pionieri
in Italia in questo settore furono i lavori del gruppo roveretano "Materiali di lavoro",
specializzatisi nello studio dei diari di guerra dei soldati (e delle loro famiglie). Ma, con
loro, molti altri studiosi lavorarono alla soggettività delle classi subalterne durante, sotto, e
spesso contro, la guerra.
Accanto ai diari, però, ci sono le lettere: lettere dal fronte a casa, lettere dalle famiglie ai
soldati. Ma come utilizzare queste altre fonti? E, poi, queste fonti, quali problemi storici
sono in grado di interrogare? Antonio Gibelli, che ha avuto un ruolo di assoluto rilievo in
questo campo di ricerca, e che firma una Presentazione a questo studio, è esplicito:
"Intendiamoci, l'illusione che le lettere dei soldati, così copiosamente tornate alla luce dai
depositi degli archivi privati e in qualche caso dalle raccolte pubbliche, ci permettessero di
attingere senza diaframmi alla soggettività incontaminata dei loro autori (....) - se mai è
stata coltivata - ha dovuto subito essere abbandonata".
A cosa quindi possano servire è spiegato da Fabio Caffarena in questo suo studio, a partire
dal sottotitolo. Il volume è articolato in tre parti (un'ampia bibliografia completa il
repertorio.) Nella prima segnala le forme di queste fonti popolari, che vengono definite
"scrittura del quotidiano". Nella seconda fornisce un'esemplificazione delle strategie, anche
istituzionali, che dopo la Grande guerra furono perseguite per raccogliere le lettere dei
combattenti e farne dei "monumenti della memoria". La terza, dopo aver ripercorso
rapidamente la recente polemica francese sulla "dittatura della testimonianza" (nata però
dall'uso dei diari, più che delle lettere, dei combattenti), fornisce un primo e assai utile
repertorio di raccolte di lettere di soldati nei principali archivi pubblici italiani.
In particolare questo repertorio sembra di grande utilità. È ormai abbastanza chiaro, a
partire dall'opera pionieristica del gruppo di "Materiali di lavoro", dove, in Italia, sono
conservati diari e memorie inedite di combattenti o di semplici cittadini del tempo di
guerra. Era invece difficile, prima di questo repertorio, orizzontarsi nelle raccolte
pubbliche di lettere, e non solo di lettere dei "grandi" protagonisti della "grande" storia.
Adesso invece, proprio grazie al repertorio di Caffarena, tutto ciò comincia a essere
possibile. Osserviamo solo che non sempre è facile, ancora, attingere a questa tipologia di
documenti: né, per la verità, c'è, allo stato attuale degli studi, un'adeguata
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concettualizzazione di come affrontare e utilizzare questa documentazione.
In ogni caso, chiunque vorrà studiare questo tipo di fonti, o sarà interessato a quella parte
della storia delle soggettività nel tempo di guerra che attraverso le "lettere a casa" può
essere fatta emergere, dovrà passare d'ora in poi da queste pagine.
(Nicola Labanca, Indice dei libri del mese)
Si veda anche a cura di A. Monti, Lettere dalla grande guerra, Araba Fenice
A.Gibelli, L’officina della guerra. La Grande guerra e le trasformazioni del mondo
mentale, Bollati Boringhieri
L'officina della guerra è il frutto di un decennio almeno di ricerche di Gibelli in
collaborazione con altri studiosi (in primo luogo il gruppo di Rovereto che pubblica la
rivista "Materiali di lavoro") sui combattenti italiani della Grande Guerra, visti finalmente
nella loro dimensione di uomini travolti da un conflitto che non avevano voluto né capito.
Le fonti sono di due tipi: le testimonianze scritte di protagonisti anonimi e dimenticati
(lettere, diari, memorie assai più frequenti di quanto si credesse un tempo, tanto da
sopravvivere in parte all'incuria dell'Italia ufficiale) e i materiali elaborati dalla medicina
militare nel corso del conflitto per fronteggiare l'afflusso imprevisto di decine di migliaia
di soldati di cui la guerra aveva minato o distrutto l'equilibrio psichico (un campo che
Gibelli è stato il primo ad affrontare in Italia e il più assiduo ad approfondire, sia negli
archivi che nella produzione tecnica italiana e straniera di allora e di oggi). I risultati di
queste ricerche, dice Gibelli, non possono essere quantificati, non siamo cioè in grado di
calcolare quanti tra i quattro milioni di italiani che andarono al fronte ne tornarono distrutti
dentro, non soltanto per l'insufficienza delle fonti, ma più ancora per la labilità dei confini
tra "normalità" e "follia" in tempo di guerra. Tutti coloro che vissero l'esperienza della
trincea ne furono in vario modo segnati per sempre, con emozioni e lesioni interne più o
meno recuperate dalla maggioranza, esplose invece per una minoranza attraverso una serie
di comportamenti, che vanno dalla follia ufficialmente riconosciuta e come tale curata dai
medici militari (con un misto di scrupoli scientifici e di durezze patriottiche) ad altre forme
di stranezza antisociale e di rifiuto dell'irreggimentazione bellica sbrigativamente
classificate come disunione, insubordinazione e simili. Più che quantificare queste vicende,
a Gibelli interessa descriverle in modo da farle pesare sulla storia della guerra e la
riflessione su di essa. Perciò sottolinea efficacemente la vivacità e originalità delle
testimonianze che emergono dalle lettere e dai diari dei soldati, sotto l'apparente uniformità
della comunicazione scritta da parte di chi doveva ricorrervi per la prima volta (p. 58),
nonché l'ambivalenza dei sentimenti tra rifiuto della guerra e adesione ai suoi valori e
stereotipi (pp. 96, 101). Dalla ricerca escono confermate la forte dell'egemonia politico-
culturale della classe dirigente liberale capace di ottenere obbedienza se non
partecipazione, nonché l'eccezionale grandezza dei costi umani della guerra a tutti i livelli,
dalle trincee ai manicomi. L'officina della guerra è uno studio che fornisce un'apertura
straordinaria sulle diverse (e spesso coesistenti) articolazioni di consenso, dissenso e
devianza nella Grande Guerra. Rimane aperto l'altro aspetto del problema, cioè come
potesse la maggioranza dei combattenti superare le terribili tensioni e sofferenze della
trincea. In questa direzione il volume di Gibelli è comunque assai più utile e vivo di quello
di E. Leed, Terra di nessuno (Il Mulino, 1985), così ricco di stimoli e provocazioni, ma
così chiuso dinanzi alle dimensioni politico-sociali del conflitto.
(G. Rochat, Indice dei libri del mese, 1991, n°3)
L. Del Boca, Grande Guerra piccoli generali. Una cronaca feroce della prima guerra
mondiale, Utet Libreria
Alla vigilia dello scoppio della Prima guerra mondiale, i più immorali pensavano soltanto
di ricavare dei guadagni per potersi adeguatamente arricchire. Gli idealisti, invece,
credevano di offrire all‟Italia l‟opportunità di conquistare peso e prestigio internazionale,
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in modo da restituirle quel ruolo che vagheggiavano ma che, dopo i fasti della Roma dei
Cesari, era rimasto incartato nei libri della storia classica. Negli ultimi dieci anni, prima di
quel 1914, i soldati erano cresciuti alle direttive del generale Paolo Spingardi, ottimo
oratore parlamentare e del generale Alberto Pollio, ottimo scrittore. L‟uno e l‟altro – con
tutto lo stato maggiore – coltivavano il mito di Napoleone del quale leggevano con avidità
biografie, recensioni, commenti strategici e valutazioni tattiche. Anche culturalmente, gli
ufficiali erano rimasti con i piedi e con la testa nelle pastoie del secolo precedente. Come
se il tempo fosse trascorso senza lasciare traccia. Al momento dell‟entrata in guerra,
l‟esercito italiano venne affidato a Luigi Cadorna che, se avesse ottenuto risultati
proporzionali alla sua presunzione, avrebbe conquistato il globo terracqueo. I guai
maggiori di chi combatteva per l‟Italia vennero dagli stessi italiani che dimostrarono di non
aver maturato alcuna idea e che, tuttavia, a quel nulla, si aggrapparono con convinzioni
incrollabili. Si armarono di ordini assurdi. Pretesero di mandare le truppe all‟assalto anche
quando ogni logica l‟avrebbe sconsigliato. Insistettero nello sfidare le leggi della fisica per
fortificare posizioni insostenibili. Per ottenere un‟obbedienza supina, fucilarono quelli che
apparvero più riottosi o anche solo meno pronti a sacrificarsi. Instaurarono un regime di
oppressione che sarebbe risultato odioso per una qualunque dittatura, pur spietata. E
provocarono la morte di un numero imprecisato di loro uomini, piazzando le mitragliatrici
dei carabinieri dietro le file destinate all‟assalto con la disposizione di aprire il fuoco alla
schiena dei soldati, se avessero appena ritardato a lanciarsi fuori dalle trincee.
Stefano Biguzzi, Cesare Battisti, Utet
Cesare Battisti (1875-1916) è uno dei personaggi più rimossi dell‟Italia novecentesca,
ormai ridotto a mera risorsa toponomastica per strade, scuole e caserme. Il regime fascista
l‟aveva accolto nel proprio pantheon, come un antesignano delle camice nere, anche se
l‟irredentista trentino non era mai stato un nazionalista, bensì un socialista mangiapreti
(quasi come il giovane Mussolini!) e in seguito un interventista democratico, sulla scia di
Parri, Salvemini Lussu. L‟Italia “pacifista” risorta nel ‟45 si dimenticherà invece ben
presto di quell‟indomito combattente, impiccato dagli austriaci per alto tradimento il 12
luglio 1916, insieme a Fabio Filzi. Ora, per riscoprirlo, possiamo finalmente leggere la sua
“biografia definitiva”, firmata dallo storico Stefano Biguzzi: torrenziale, talvolta
debordante, ma scritta con piglio sicuro e scorrevole. L‟ultimo capitolo, di oltre cento
pagine, è una biografia nella biografia, perché si spinge sino ai giorni nostri, indagando
l‟altalenante fortuna della sua figura, tra mito e oblio. Alla fine, persino il fascismo – che
aveva eretto in suo onore i monumenti di Bolzano (1982) e Trento (1935) – dopo il “Patto
d‟Acciaio” fra Mussolini e Hitler (1939) comincerà a considerare Battisti, effigie della
resistenza latina contro pangermanesimo, “ un‟ ingombrante pietra dello scandalo sulla via
dell‟idillio nazifascista”.
Le pagine dedicate agli ultimi due anni della sua vita sono ricche di pathos. Lo scoppio del
primo conflitto mondiale ( luglio 1914). La fuga in Italia. L‟infaticabile tribuno
interventista che gira in lungo e in largo lo Stivale. L‟arruolamento volontario negli Alpini,
il 29 maggio 1915. la promozione a ufficiale. Sino al triste epilogo sul Monte Corno,
all‟alba del 10 luglio 1916, quando, al termine d‟una sanguinosa battaglia, sarà catturato
dagli austriaci, forse anche alla delazione di alcuni suoi soldati, indispettiti da quel
comandante temerario, che li coinvolgeva in azioni troppo rischiose. Nel frattempo, quella
guerra da lui immaginata come garibaldina e risorgimentale aveva mostrato il suo autentico
volto: ”uno scannatoio, qui non è solo guerra di soldati contro soldati; ma è furore bestiale
contro ogni cosa, contro la proprietà, contro gli inermi, contro la terra stessa” (alla moglie
Ernestina).
Assai stuzzicanti pure i capitoli antecedenti alla Grande Guerra. E‟ qui che rifulge il
Battisti meno conosciuto: giornalista, geografo, editore, bestia nera dei clericali alla De
Gasperi, ma anche socialista irredentista, nonostante la “questione nazionale” fosse
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patrimonio della borghesia. Tra le sue battaglie civili ci fu pure quella contro la pena di
morte. “Quanto Medioevo resta da spazzar via”, scriveva nel novembre 1900, redigendo
per il suo quotidiano “ Il Popolo” la cronaca dell‟impiccagione a Rovereto del pluriomicida
Floriano Grossrubatscher (che avrebbe ispirato a Musil il personaggio di Moosbrugger
nell‟Uomo senza qualità). Ecco il drammatico resoconto di Battisti: “il Presidente dice in
tedesco al boia: signor carnefice, compia la sua funzione. S‟avvicinano gli aiutanti, legano
le mani dietro il dorso della vittima che viene posta appiedi al palo. Il boia sale per una
scaletta, fa passare il laccio per una carrucola che sta alla cima del palo. Poi non sono stato
più capace di guardare”.
Sedici anni più tardi, quello stesso boia ormai imbolsito giungerà da Vienna per allestire il
patibolo destinato a Battisti e a Filzi nella fossa dietro al Castello del Buonconsiglio di
Trento. “si credeva di aver impiccato l‟Italia”, commenterà Karl Kraus, “ma sotto la forca
in verità stava l‟Austria”.
(R. Liucci, Battisti: il martire sgradito, Il Sole 24 ore, 26/10/2008)
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LA GRANDE GUERRA IN INTERNET
www.lagrandeguerra.too.it/
Il portale dell‟ANPI di Roma cura questa sezione specifica dedicata alla Grande Guerra.
Percorsi didattici e una guida on line ai siti più importanti.
www.primaguerramondiale.it/
Percorsi didattici semplici, ma anche di immediata comprensione. Foto, cronologie e
cartine esplicative.
www.grandeguerra.com
La Grande Guerra, un interessante itinerario fotografico tra le Alpi centro-orientali italiane
a cura di Enrico Guerrazzi, appassionato e studioso della prima guerra mondiale.
All'interno si può sfogliare l'album fotografico delle più suggestive zone alpine del
Trentino e del Veneto che, tra il 1915 e il 1918, furono scenario di dure e sanguinose
battaglie tra l'esercito italiano e quello austro-ungarico.
http://it.wikipedia.org/wiki/Prima_guerra_mondiale
La prima guerra mondiale fu il conflitto cominciato il 28 luglio 1914 a seguito
dell‟assassionio dell‟arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell‟Impero Austro-
Ungarico, compiuto a Sarajevo (Bosnia) il 28 giugno 1914 da parte dello studente
nazionalista serbo-bosniaco Gavrilo Princip, e conclusosi l‟11 novembre 1918…
Dalla più famosa delle enciclopedie in linea: molti anche i rimandi ad altre voci per
opportuni approfondimenti.
www.museodellaguerra.it
Da più di ottant'anni il Museo della Guerra di Rovereto è impegnato nella raccolta e nella
conservazione di documenti relativi alla Prima guerra mondiale. Ai visitatori presenta
un'esposizione permanente e offre i propri servizi. Il Museo organizza mostre temporanee
dedicate alla memoria della Grande Guerra e dei conflitti moderni.
www.lagrandeguerra.net
Sito ricco di dati, biografie, immagini sul primo conflitto mondiale a cura dello scrittore
Alessandro Gualtieri.
www.camillopavan.it
Sito dello studioso trevigiano Camillo Pavan sull‟ultimo anno della Grande Guerra.
www.albodoroitalia.it
I caduti di tutta Italia, con possibilità di ricerca per regione.
www.historial.org/
In Francia, a Péronne, opera una delle più valide istituzioni culturali relative alla prima
guerra mondiale. Del comitato scientifico fanno parte ricercatori francesi, tedeschi, inglesi,
italiani e russi. Molto ricco il "centro di documentazione" con libri, giornali, filmati d'epoca
(In francese, tedesco o inglese).
www.worldwar1.com/
Ottimo sito contenente una vastissima raccolta di materiali, informazioni e documenti
riguardanti gli avvenimenti, i luoghi e le popolazioni coinvolte nella Prima Guerra
Mondiale (In inglese).
Torna all‟inizio
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A FERRO E FUOCO: TUTTA LA VIOLENZA DELLE ARMI Prof. di italiano e storia: Michele Zanna
ANNO LUOGO AVVENIMENTO CONSEGUENZE
24
giugno
1859
Europa Battaglie di Solferino e S. Martino (MN). Le forze francesi e piemontesi sconfiggono duramente
l‟esercito austriaco. A Solferino i francesi lasciano sul campo
12.000 uomini, gli austriaci 18.000. Quando la nebbia tra i
due fronti si diradò lo scenario fu infernale: un vero
mattatoio. Lo descrisse, in un libro edito nel 1862: Un
souvenir de Solforino, un uomo d‟affari di Ginevra poco più
che trentenne: Dunant.
Il libro ebbe un successo enorme e sconvolse le coscienze.
Dunant fondò il
Comitato
internazionale per il
soccorso ai feriti in
guerra.
22
Agosto
1864
Ginevra Prima convenzione di Ginevra. Sottoscritta da 16 Stati.
Incentrata su tre punti. La cura e la protezione dei feriti
di qualsiasi nazione. Il rispetto del personale e del
materiale sanitario. Un segno distintivo, la croce rossa,
per proteggere gli operatori umanitari.
Da questi presupposti
nascerà la Croce
Rossa italiana.
1896 Cuba Gli spagnoli reprimono la rivolta dei cubani per ottenere
l‟indipendenza utilizzando campi di
“riconcentramento”.
90.000-200.000 morti
In gran parte donne e
bambini.
1899
1907
Prima e seconda conferenza dell‟Aia.
Giugno
1900 Cina La rivolta dei Boxer. Il 19 giugno 1900 gli appartenenti
alla società segreta “Pugno del diritto e della armonia”,
detti comunemente Boxer, assassinarono un ministro
tedesco e assediarono le legazioni straniere a Pechino.
Una spedizione militare congiunta di sei nazioni liberò
le legazioni: alcuni reparti saccheggiarono Pechino e
truppe tedesche condussero una spedizione punitiva
separata.
Migliaia di cinesi
vennero uccisi con
metodi brutali.
L‟imperatore fu
costretto a pagare
una cifra altissima.
1900 Sud-
Africa
Guerra anglo-boera. Gli inglesi organizzano 58 campi
di concentramento contro i boeri che hanno dato inizio
alla guerriglia.
Su 100.000 internati
ne muoiono 28.000
1885
1908
Congo Il re del Belgio Leopoldo II è personalmente
proprietario di un vasto territorio (nel 1908 lo cederà
allo stato belga con tutti i debiti accumulati). La
popolazione indigena è ridotta in condizioni servili e
disumane per lo sfruttamento intensivo degli alberi della
gomma.
La popolazione
congolese si
dimezza con 10
milioni di morti.
1904 Namibia In Africa sud-occidentale il genocidio degli Herero. Il
generale Lothar von Trotha è inviato dal parlamento di
Berlino per deportare questa popolazione. Nel 1905 per
la prima volta il campo di concentramento viene
associato al lavoro forzato (i prigionieri vennero
marchiati con le lettere “GH”: Herrero catturato). I
campi sono utilizzati al di fuori di un contesto militare:
nel 1908 vengono smantellati. Nel 1911 si registrano sui
15.000 Herero: più dell‟80% di quel popolo è
scomparso nel giro di sette anni.
50.000-70.000 morti
Seimila sterminati in
battaglia, con i 30.000
che li
accompagnavano.
Altri 30.000 vengono
deportati nel deserto e
abbandonati .
1905 Africa
del sud
La rivolta dei Maji-Maji: alcune tribù dell‟Africa sud-
orientale (Kibata, Yao, Logoro, ecc…) si ribellano
75.000 morti
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contro i colonizzatori tedeschi per la loro condizione di
schiavitù.
1912-
1913
Balcani Le prime due guerre balcaniche del novecento Migliaia di morti
1914-
1918
Europa Prima guerra mondiale. Appare sulla scena
internazionale il concetto di “guerra totale”.
Guerra tradizionale e guerra moderna insieme; la durata;
l‟estensione; Il ruolo della propaganda; la crisi del
movimento socialista internazionale; il fronte interno; il
lavoro femminile; il declino dell‟Europa e l‟emergere
degli USA; le ideologie di nazionalismo, militarismo,
imperialismo.
Otto milioni di
morti sui fronti e sei
milioni di invalidi.
10 milioni i civili
uccisi
28
giugno
1919
Francia Trattato di Versailles
Articoli 227 e 228 del trattato.
10
agosto
1920
Trattato di Sèvres
Articolo 230 del trattato
Aprile
1915
Turchia In Anatolia il genocidio degli Armeni. La “questione
armena” era diventata sempre più rilevante man mano
che la crisi dell‟impero ottomano si approfondiva.
Da 700.00 a
1.500.000
morti
1928
Patto Briand-Kellogg che condanna il ricorso alla
guerra per la risoluzione dei conflitti
1921
1953
URSS Sistema dei Gulag e dekulakizzazione
Nel 1929 nasce ufficialmente il sistema
concentrazionario sovietico: i bolscevichi dopo aver
vinto sulle armate bianche, avviano il paese, già nel
1921, verso una guerra ideologica e di classe. Per più di
trenta anni si alterneranno deportazioni di kulak e
minoranze nazionali, fucilazioni in massa,
l‟organizzazione di vari Gulag. Stalin muore nel 1953,
ma il sistema concentrazionario gli sopravvive a lungo.
Cinque milioni di
morti nella guerra
civile e nella
carestia del ‟22.
Quattro milioni le
vittime della
repressione
1932-
1933
URSS
Ucraina Genocidio per carestia
Stalin impartisce l‟ordine di isolare intere regioni:
milioni di contadini vengono fatti morire di fame e
stenti in Ucraina e nei territori cosacchi del Caucaso
settentrionale.
Da tre a sei milioni
di morti
1933
1935
Germania Eliminazione dei pazienti nei manicomi tedeschi
1936 Etiopia Nel maggio del 1936 Mussolini proclama la nascita
dell‟Impero. Per la faticosa conquista dei territori si è
fatto ricorso anche ai gas tossici. Il generale Rodolfo
Graziani, nominato viceré d‟Etiopia, fa ricorso al terrore
e all‟uccisione sistematica di civili accusati di
connivenza con i partigiani eritrei ed etiopici.
250.000 morti
1931-
1937
Cina Nel 1931 il Giappone occupa il territorio della Cina
chiamato Manciuria e vi crea un governo fantoccio. Nel
1937 inizia l‟invasione vera e propria della Cina. La
capitale Nanchino è costretta ad arrendersi.
L‟occupazione è accompagnata da una ondata di
Da 200.000 a
300.000 morti:
Massacro di
Nanchino
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violenza che colpisce soprattutto la popolazione civile
1936-
1938
Spagna Guerra civile spagnola scatenata dalla sollevazione dei
militari di Franco nel luglio 1936. Tra gli episodi più
noti la strage commessa a Badajoz, il massacro dei
detenuti politici del carcere di Madrid, il
bombardamento della cittadina basca di Guernica
(aprile 1937) da parte di aerei Junker tedeschi.
200.000 morti di cui
almeno due terzi per
opera dei franchisti
1940 URSS Deportazione di intere popolazioni del Caucaso
1939
Germania Invasione della Polonia da parte della Germania.
1939-
1945
Europa
Africa
Asia
Seconda guerra mondiale. Il coinvolgimento dei civili
diventa sistematico, soprattutto attraverso il
bombardamento aereo delle città. Il genocidio degli
ebrei chiamato Shoah: 6 milioni di ebrei uccisi in tutta
Europa. I tedeschi uccidono anche migliaia di zingari,
omosessuali, Testimoni di Geova, prigionieri russi e
polacchi. Durante e dopo la guerra si attuò un processo
di espulsione, migrazione, reinsediamento forzato delle
popolazioni. Oltre il milione di morti sui campi di
battaglia. Da ricordare i bombardamenti delle città di
Londra, Coventry, Dresda, Tokyo.
50.000.000 di morti.
Oltre la metà civili
35 milioni nella sola
Europa, di cui 25
milioni in URSS.
Gennaio
1942 Conferenza di Saint-James Palace sul crimine di guerra e la
sua repressione
1941/44 Croazia Massacro di massa della popolazione di origine Serba Ottobre
1943 Costituzione della Commissione delle Nazioni unite sui
crimini di guerra
Aprile
1945 Progetto di San Francisco sulla definizione dei crimini da
reprimere
Agosto
1945 Giappone Il 6 Agosto viene sganciata su Hiroshima la prima
bomba atomica. Il 9 agosto la seconda su Nagasaki.
Le conseguenze dello scoppio si fanno sentire ancora
oggi.
Più di 200.000 mila
morti entro il primo
anno.
Agosto
1945 Accordo di Londra: dichiarazione costitutiva del TMI.
Prima menzione giuridica del crimine contro
l’umanità
Ottobre
1945 Ottobre
1946
Processo di Norinberga
Processo contro alcuni gerarchi nazisti catturati dagli
alleati alla fine della seconda guerra mondiale. Il
personaggio più importante alla sbarra era Hermann
Goering, fondatore della Gestapo, la polizia segreta di
Hitler. I capi di imputazione erano: crimini di guerra e
crimini contro l‟umanità. Undici gerarchi vennero
condannati a morte. Goering si suicidò con una capsula
di cianuro.
1/1946 Carta del TIM di Tokyo
11/12
1946
Risoluzione 95: conferma i principi del diritto
internazionale stabiliti a Norimberga. Risoluzione 96:
definisce il genocidio
21/9/
1947
L‟ONU crea una Commissione di diritto internazionale
9/12/
1948
L’ONU adotta la Convenzione per la prevenzione e la
repressione del crimine di genocidio
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1946-
1947
India Nel Punjab circa dodici milioni di persone
attraversarono i confini di quelli che il 15 agosto 1947
divennero i nuovi stati indipendenti dell‟India e del
Pakistan. I massacri furono migliaia e vennero compiute
da tutte le comunità presenti: hindu, sikh, musulmani.
500.000 morti
10/12/
1948
L’ONU adotta la Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo
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SCHEDA SINTETICA SULLA PRIMA GUERRA MONDIALE Prof. di italiano e storia: Michele Zanna
LE CAUSE I motivi di tensione nell‟Europa prima dello scoppio della guerra; Contrasti tra la Germania e
l‟Inghilterra per il primato industriale; Il tentativo di rivincita della Francia sulla Germania per la
sconfitta subita nel 1870; Controllo dei vari possedimenti coloniali; L‟affannosa ricerca di materie
prime e mercati di sbocco;
Il ruolo dell‟industria bellica e dei relativi interessi finanziari; Alleanze di carattere difensivo:
Triplice intesa: Inghilterra – Francia – Russia; Triplice alleanza: Germania – Austria – Italia
CRONOLOGIA ESSENZIALE
1914 28 giugno: Attentato a Sarajevo, da parte di uno studente serbo, contro l‟erede al trono austriaco Francesco
Ferdinando. Luglio/agosto: Dichiarazione di guerra dell‟Austria-Ungheria alla Serbia e successivo ingresso
in guerra delle altre potenze: Russia, Germania, Francia, Inghilterra. Agosto: la Germania sferra la guerra
lampo e invade il Belgio; la battaglia della “Marna”. La Turchia entra in guerra con gli Imperi centrali e il
Giappone a fianco di Francia e Inghilterra
1915 24 Maggio: Ingresso dell‟Italia in guerra a fianco della Intesa. Nel paese ci sono stati forti contrasti tra
“Neutralisti” (liberali di Giolitti, parte dei socialisti, cattolici) e “Interventisti” (nazionalisti, alcuni liberali e
socialisti, il re e l‟ambiente di corte, i capi militari e gli industriali). Battaglie dell‟Isonzo da giugno a
dicembre.
La Bulgaria entra in guerra a fianco degli Imperi Centrali e la Romania per l‟Intesa.
1916 Battaglia di Verdun e della Somme. Maggio/giugno: spedizione punitiva dell‟Austria contro l‟Italia. Morte
dell‟imperatore Francesco Giuseppe (1848/1916): l‟impero austro-ungarico si avvia alla dissoluzione.
1917 Marzo: Rivoluzione in Russia a Pietrogrado. Aprile: Dichiarazione di guerra degli USA alla Germania.
Agosto: Disfatta a Caporetto dell‟esercito italiano. Novembre: I bolscevichi prendono il potere in Russia.
1918 Gennaio: presentazione dei “Quattordici punti” di Wilson. Marzo: Pace di Brest-Litovsk
Luglio: ultime offensive tedesche. La Germania è alla fame, mentre per i paesi dell‟Intesa arrivano i
rifornimenti USA. Ottobre: disfatta austriaca a Vittorio Veneto.
Gennaio 1919: Conferenza di pace di Parigi; nel Giugno: Trattato di pace di Versailles.
CARATTERISTICHE GENERALI LA DURATA: guerra tradizionale e guerra moderna insieme;
L‟ESTENSIONE: si combatte in Europa ma tutti gli stati ne furono coinvolti;
GUERRA TOTALE: tutti e tutto all‟interno dei singoli paesi furono coinvolti;
LA PROPAGANDA: l‟importanza della “guerra” delle idee;
LA CRISI DEL MOVIMENTO SOCIALISTA: internazionalismo operaio spezzato;
LA CRISI INTERNA DEI VARI PAESI: scioperi, diserzioni, ammutinamenti, ecc…;
IL DIFFONDERSI DEL LAVORO FEMMINILE: per la prima volta insostituibili;
IL DECLINO DELL‟EUROPA: al via la supremazia americana;
I CONCETTI DI MILITARISMO E IMPERIALISMO: espansionismo del capitale finanziario.
TRE QUADRI COMPLESSIVI IL COMPIMENTO DELLE VOCAZIONI GIA‟ PRESENTI NEL 1800: liberazione delle
nazionalità dagli imperi tiranni; affermazione delle democrazie liberali contro gli stati del
militarismo e delle aristocrazie terriere.
LE ROTTURE CON IL PASSATO: repubbliche al posto delle democrazie; crollano 4 imperi:
germanico, austriaco, turco e russo; ad esempio dall‟impero ottomano scaturiscono: la Turchia,
otto stati nuovi, 7 stati medio-orientali semi coloniali; 16 stati-nazione: Polonia, Germania, Austria,
Ungheria, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Finlandia, Estonia, Lituania, Lettonia. La tendenza a
sostituire le monarchie con le repubbliche.
UN COMPENDIO DI QUELLO CHE VERRA‟ IN FUTURO: armamenti, atrocità sui civili,
bombardamenti sulle città, violazione delle norme sui prigionieri, guerra ideologica, mobilitazione
degli intellettuali, ecc…
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LE GUERRE DAL 1900 AL 1945 Prof. di italiano e storia: Michele Zanna
19 giugno 1900 La rivolta dei Boxer in Cina. I nazionalisti attaccano le legazioni straniere
29 luglio 1900 Il re italiano Umberto I viene ucciso a Monza dall‟anarchico Gaetano Bresci
Settembre 1900 Guerra anglo-boera. Gli inglesi estendono i loro domini in Sudafrica
1904 Il genocidio degli Herero in Namibia
1905 Alcune tribù dell‟Africa sud orientale si ribellano ai colonizzatori tedeschi
1905 In Russia scoppia un esteso movimento rivoluzionario
1910 Il Congo entra a far parte dell‟Africa equatoriale francese
1911 In Cina viene instaurata la repubblica
1910-1914 La rivoluzione messicana di Emiliano Zapata e Pancho Villa
1912-1913 Prima e seconda guerra balcanica: un nuovo assetto nei Balcani
Settembre 1911 Guerra di Libia: l‟Italia dichiara guerra alla Turchia 18 ottobre 1912 Trattato di pace di Losanna: nasce la colonia italiana di Libia
28 giugno 1914 A Sarajevo uccisione di Francesco Ferdinando, erede al trono austriaco
28 luglio 1914 Dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia
6-15 settem. 1914 La battaglia della Marna: muoiono 500.000 soldati francesi
Aprile 1915 Genocidio della popolazione armena in Turchia
24 maggio 1915 L’Italia dichiara guerra all’Austria-Ungheria
1916 Le battaglie di Verdun e della Somme sul fronte occidentale
6 aprile del 1917 Gli Stati Uniti dichiarano guerra alla Germania
Febbraio 1917 Crollo del regime zarista in Russia: governo del socialista Kerenskij
25 ottobre 1917 I bolscevichi di Lenin prendono il potere: trattato di Brest-Litovsk
22 ottobre 1917 Sconfitta militare italiana di Caporetto: gli austriaci fermati sul Piave
4 novembre 1918 Vittoria di Vittorio Veneto, firma dell’armistizio e fine della prima guerra
mondiale
1919-1921 La guerra civile in Russia: milioni di morti per entrambi gli schieramenti
1919-1920 I dopoguerra in Italia: dalla “vittoria mutilata” e al “biennio rosso”.
30 ottobre 1922 Nasce il governo Mussolini: l‟Italia si avvia verso un ventennio di dittatura
1927 Guerra civile in Cina: nazionalisti contro comunisti di Mao Tse-Tung
1927-1929 Forte speculazione finanziaria in USA e crollo della borsa di New York
1930-1940 Diffusione in quasi tutta l‟Europa dei regimi autoritari e filofascisti
1933 Germania: dopo la repubblica di Weimar, si instaura il regime nazista di Hitler
3 ottobre 1935 Attacco degli italiani sul fronte tra Eritrea ed Etiopia: l‟impero coloniale
1936-1939 Guerra civile spagnola: la Spagna divisa fra repubblicani e franchisti
26 settemb. 1937 Aerei tedeschi radono al suolo la città di Guernica
28 marzo 1939 Le truppe del generale Franco entrano a Madrid: inizia una lunga dittatura
Luglio 1937 Attacco del Giappone alla Cina: mire di controllo ed espansionistiche
13 dicemb.1937 “Lo stupro di Nanchino”: 300.000 soldati e civili vengono barbaramente uccisi
1 settembre 1939 L‟esercito nazista invade la Polonia: Gran Bretagna e Francia dichiarano
guerra alla Germania
Giugno 1940 L‟Italia entra in guerra a fianco della Germania: la “guerra parallela”
Settembre 1940 Il Giappone aderisce al patto tripartito con le potenze dell‟Asse
22 giugno 1941 Hitler attacca la Russia nonostante il “patto di non aggressione” del 1939
7 dicembre 1941 Attacco giapponese a Pearl Harbor: ingresso USA in guerra
1939-1945 Lo sterminio degli ebrei: dalla discriminazione alla soluzione finale
Febbraio 1943 Si arrende l‟armata tedesca che assedia Stalingrado
25 luglio 1943 In Italia cade il fascismo. L‟8 settembre con la firma dell‟armistizio: nasce la
Resistenza
28 aprile 1945 Hitler si suicida e nel maggio la Germania firma la resa incondizionata
6-9 agosto 1945 Scoppio della bomba atomica a Hiroshima e Nagasaki. Il Giappone firma
l‟armistizio
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ESAME DI STATO: PRIMA PROVA
REDAZIONE DI UN ARTICOLO DI GIORNALE O SAGGIO BREVE
TIPOLOGIA “B”: AMBITO STORICO-POLITICO CONSEGNE: Sviluppa l'argomento scelto o in forma di "saggio breve" o di "articolo di giornale", utilizzando i documenti e
i dati che lo corredano.
Se scegli la forma del "saggio breve", interpreta e confronta i documenti e i dati forniti e svolgi su questa
base la tua trattazione, anche con opportuni riferimenti alle tue conoscenze ed esperienze di studio.
Da' al tuo saggio un titolo coerente e ipotizzane una destinazione editoriale (rivista specialistica, fascicolo
scolastico di ricerca e documentazione, rassegna di argomento culturale, altro).
Se lo ritieni, organizza la trattazione suddividendola in paragrafi cui potrai dare eventualmente uno specifico
titolo.
Se scegli la forma dell'"articolo di giornale", individua nei documenti e nei dati forniti uno o più elementi che
ti sembrano rilevanti e costruisci su di essi il tuo 'pezzo'.
Da' all'articolo un titolo appropriato ed indica il tipo di giornale sul quale ne ipotizzi la pubblicazione
(quotidiano, rivista divulgativa, giornale scolastico, altro).
Per attualizzare l'argomento, puoi riferirti a circostanze immaginarie o reali (mostre, anniversari, convegni o
eventi di rilievo).
Per entrambe le forme di scrittura non superare le quattro o cinque colonne di metà di foglio protocollo.
TITOLO: LA PRIMA GUERRA MONDIALE
DOCUMENTI*
Fu una guerra di coalizione, i cui principali contendenti furono l‟Inghilterra e la Germania,
le due nazioni più potenti e più progredite dell‟Europa occidentale. Impossibile individuare
con precisione l‟oggetto della contesa, sebbene sia chiaro che il campo, al quale si riferiva
in modo più immediatamente aspro la rivalità, era l‟Europa sud-orientale e il Vicino
Oriente, incluso il Mediterraneo orientale. La disgregazione e il crollo dell‟Impero turco
precapitalistico, già in corso da qualche tempo, crearono un intrico di problemi
internazionali e di ambizioni che coinvolsero tutte le potenze imperialistiche europee.
L‟occasione effettiva dello scoppio della lotta fu messa in relazione alle aspirazioni delle
nazionalità oppresse dei Balcani all‟indipendenza nazionale. Tuttavia, appena la guerra si
diffuse, anche tali questioni si ampliarono fino a includere l‟intero problema della
redistribuzione del mondo. I trattati di pace mostrano quello che fu il punto centrale della
guerra più chiaramente di tutte le particolari e relativamente minori dispute che fecero
esplodere la conflagrazione.
P.M.Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico, Einaudi, Torino 1951.
Perché, dunque, la prima guerra mondiale fu condotta dalle potenze che guidavano i due
schieramenti come un gioco all‟ultima mossa, cioè come una guerra che poteva essere o
totalmente vinta o interamente perduta?
La ragione fu che questa guerra, diversamente dalle guerre precedenti, che erano condotte
per obiettivi limitati e specifici, aveva come posta scopi illimitati. Nell‟Età degli imperi, la
politica e l‟economia si erano fuse. La rivalità politica internazionale si modellava sulla
crescita e sulla competizione economiche, ma la caratteristica di questi processi era per
l‟appunto la loro illimitatezza. Le “frontiere naturali“ della Standard Oil, della Deutsche
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Bank o della De Bers Diamone Corporation erano i limiti estremi del globo, o piuttosto i
limiti della loro capacità di espansione. Più concretamente i due principali contendenti,
Germania e Gran Bretagna, l‟unico limite doveva essere costituito dal cielo, poiché la
Germania voleva una posizione di predominio politico e marittimo mondiale pari a quella
britannica, che avrebbe perciò automaticamente relegato a un rango inferiore la potenza
inglese già in declino. Era un aut aut. Per la Francia, allora come nella seconda guerra
mondiale, la posta in gioco non era così alta, ma era ugualmente pressante:
controbilanciare la crescente inferiorità economica e demografica dinanzi alla Germania,
che sembrava inevitabile. Anche in questo caso era in questione il futuro della Francia
come grande potenza. In entrambi i casi un compromesso avrebbe semplicemente
significato rimandare il confronto.
E.J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli
Una Saint Etienne prodigiosa […] sputa come un‟andalusa fuoco di passione e garofani
rossi dal suo balcone mascherato di fogliami […] non si inceppa mai se è servita e
accarezzata dal suo amico mitragliere […che] non ha mai bisogno di smontare la sua
amante per pulirne il cuore. La domina impugnandone la groppa flessuosa, la pizzica, la
solletica. E la Dama elegante in nero si curva giù sugli abissi dove fervono le serenate
austriache e sputa, sputa i suoi innumerevoli fiori veementi che uccidono i romantici e
audaci suoi serenatori.
F.T.Marinetti, L’alcova d’acciaio, Serra e Riva
Accadde e me come a centinaia di migliaia di persone che, strappate dal giro della loro
vita, “arruolate”, furono per lunghi anni estraniate e tenute lontane dalla loto professione e
dai propri affari; e non furono lo Stato e l‟esercito, bensì il tempo stesso ad arruolarmi in
servizio spirituale armato per più di due anni; […] da quel servizio oggi torno al mio
derelitto tavolo di lavoro, non proprio nelle migliori condizioni, o, devo pur dire come un
mutilato di guerra.
T.Mann, Considerazioni di un impolitico, De Donato
La guerra sottomarina scatenata dalla Germania […] è una guerra contro l‟umanità […]. È
una cosa terribile conduce questo grande popolo pacifico in una guerra che è la più
spaventosa e disastrosa […] ma il diritto di coloro che, piegati sotto l‟autoritarismo,
devono pur far sentire la propria voce nella condotta del governo, per i diritti e le libertà di
tutte le piccole nazioni.
Dalla dichiarazione di guerra del presidente Wilson davanti al Congresso americano
La guerra in generale è una eterna necessità dello spirito contro la quale è inutile
battagliare con le parole, e per la quale è solo utile prepararsi con tutte le forme dell‟animo
e i migliori mezzi. Per questo intesa come categoria metafisica, è morale; considerata poi
come fatto empirico, cioè come questa o quella guerra in questo o quel periodo storico, non
può essere detta dallo storico, a volta a volta, morale o immorale, giusta o ingiusta. Le
guerre, quale esse si siano, si giustidicano solo per il fatto stesso che sono avvenute, e si
giudicano da sé.
L.Russo, Vita e disciplina militare, Il Saggiatore
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Ma nel suo interno l‟Europa è una cosa sola; Francia, Germania, Italia, Austria,Paesi Bassi,
Russia, Romania, Polonia, pulsano della stessa vita, appartengono sostanzialmente alla
stessa struttura e civiltà. Sono fiorite insieme, insieme sono precipitate in una guerra […] e
possono rovinare insieme. Qui sta il significato distruttivo del Trattato di Parigi. Se la
guerra civile europea dovesse concludersi con una Francia ed un‟Italia che abusano del
loro momentaneo potere di vincitori sulla Germania e sull‟Austria – Ungheria, oggi
prostrate, le prime chiederebbero con ciò la loro stessa distruzione: tanto profondi ed
inestricabili sono gli invisibili legami, psicologici ed economici, che le uniscono alle loro
vittime.
Parigi era un incubo e tutti ne erano partecipi. Una scena mondana su cui gravava un senso
di catastrofe imminente, la futilità e la piccolezza dell‟uomo di fronte ai grandi eventi che
gli si oppongono, il significato equivoco e l‟irrealtà delle decisioni, la leggerezza, la cecità,
lo sprezzo insolente, le grida confuse dall‟esterno: tutti gli elementi della antica tragedia
erano presenti. In mezzo alla teatrale messinscena delle sale di rappresentanza dello Stato
francese, vi era da chiedersi se i volti straordinari di Clemenceau e di Wilson, immobili nei
tratti, immutabili nel colorito, fossero veramente volti umani o non piuttosto maschere
tragicomiche di un qualche strano dramma o di uno spettacolo di marionette. In tutte le
riunioni di Parigi regnava questa atmosfera di suprema importanza e di estrema futilità a un
tempo. Le decisioni sembravano grevi di conseguenze per il futuro della società umana,
eppure l‟aria stessa diceva che le parole non avevano carne, che tutto era vano, senza
senso, o effetto, dissociato dalla realtà.
J.M. Keynes, Esortazioni e profezie, Il Saggiatore
* Citazioni tratte da: M. Ariotti, Tempi di guerra. Le guerre del secolo breve, Paravia
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ESAME DI STATO: PRIMA PROVA
TEMA DI ARGOMENTO STORICO
TIPOLOGIA “C”
Traccia 1 * La prima guerra mondiale costituisce un momento essenziale nella storia della società attuale.
Dopo di essa niente è stato più come prima e ancora oggi viviamo le conseguenze, positive e
negative, di quel tragico conflitto (si pensi, per esempio, all‟emancipazione della donna o al ruolo
centrale degli Stati Uniti nello scacchiere internazionale a scapito dell‟Europa). Illustra le fasi
salienti della guerra avendo cura di chiarire il meccanismo e il funzionamento delle alleanze
internazionali. Evidenzia inoltre le trasformazioni politiche e sociali indotte dal conflitto e ciò che
di esse rimane agli occhi dell‟osservatore contemporaneo.
Spunti per lo svolgimento
1. Lettura e analisi della traccia
a. argomento principale: i momenti decisivi della prima guerra mondiale, dalla “guerra
lampo” alla “guerra di posizione”; il sistema delle alleanze internazionali; le trasformazioni
politiche e sociali prodotte dalla guerra e la loro permanenza nel mondo attuale.
b. Concetti chiave della traccia e concetti connessi: alleanza internazionale; Triplice
alleanza; Triplice intesa; pangermanismo; eurocentrismo; interventismo/neutralismo;
emancipazione delle donne; questione operaia
Alleanza internazionale: accordo fra due o più Stati sovrani finalizzato alla
cooperazione, che spesso prende la forma di reciproca copertura in caso di azioni
offensive da parte di paesi terzi
Triplice alleanza: patto firmato da Italia, Germania e Austria nel 1882
Triplice intesa: patto di alleanza tra Inghilterra, Francia e Russia perfezionato tra il
1907 ed il 1914 per fare da contrappeso alla Triplice alleanza sullo scacchiere
internazionale
Pengermanismo: movimento diffuso durante i primi anni del XX secolo teso a riunire
in un unico Stato tutte le popolazioni tedesche
Eurocentrismo: ruolo dell‟Europa come principale protagonista delle vicende storiche
Interventismo/neutralismo: sono le due correnti in cui si divise l‟opinione pubblica
italiana durante le prime fasi della guerra e indicano le opposte volontà di partecipare o
di restare estranei al conflitto
Emancipazione delle donne: processo di riconoscimento progressivo di pari diritti tra
la donna e l‟uomo
Questione operaia: tutto ciò che riguarda i problemi legati alla condizione operaia
(l‟orario di lavoro, il salario, il diritto di sciopero, ecc.)
2. Riepilogo schematico dei dati storici ai quali la traccia fa riferimento a. excursus storico sulle alleanze internazionali in Europa tra la fine del XIX e
l‟inizio del XX secolo
b. la geografia delle alleanze: una visione di insieme dell‟Europa prima della
Grande guerra
c. ricostruzione delle cause storiche della prima guerra mondiale: la politica ed il
meccanismo delle alleanze; la rivalità imperialistica tra Germania e Inghilterra; i
Balcani contesi da Russia e Impero austro-ungarico; uccisione dell‟arciduca
austriaco Francesco Ferdinando
d. conseguenze geopolitiche e sociali del conflitto a livello internazionale
3.Elaborazione critica delle interpretazioni storiografiche S. Audian-Rouzeau e A. Becker (La violenza, la crociata, il lutto. La Grande guerra e la storia
del Novecento, Torino, Einaudi, 2002) espongono chiaramente la teoria della prima guerra
mondiale come “punto di non ritorno” per il mondo intero e come fine del periodo di ottimismo
che aveva animato la società e le politiche occidentali nel periodo precedente. Approfondire la
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tesi di J. Joll (Le origini della prima guerra mondiale, Bari, Laterza, 1999), che analizza le
cause, più o meno dirette, della prima guerra mondiale facendo attenzione a fattori quali le
caratteristiche della politica estera e interna dei vari paesi, le pressioni dei gruppi economici,
l‟atmosfera culturale e le rivalità fra potenze imperiali. Per uno sguardo sulle novità cui
l‟universo femminile è andato incontro durante la guerra, leggere il libro di S. Bartolini
(Italiane alla guerra. L‟assistenza ai feriti 1915-1918, Venezia, Marsilio, 2003).
4. Scaletta
a. introduzione
l‟Europa tra i due secoli: alleanze, ambizioni imperialiste, istanze irredentiste
e massimalismo etnico (pangermanismo e panslavismo)
disegno delle alleanze
lo scoppio della prima guerra mondiale: breve excursus sulle cause dirette e
indirette
b. le fasi della guerra
l‟invasione del Belgio e l‟illusione di una ”guerra lampo”
l‟intervento di Francia e Inghilterra e la “guerra di posizione” (altrimenti detta
“guerra di logoramento”)
l‟Italia divisa tra interventisti e neutralisti; il Patto di Londra e l‟alleanza con
l‟intesa
i problemi della “guerra di logoramento”: la supremazia economica e
l‟approvvigionamento delle truppe; la “corsa al mare” per il controllo delle
vie marittime che permettono i rifornimenti
la guerra totale e il cosiddetto “fronte interno”: la popolazione civile nel
conflitto e il ruolo delle donne (per sostituire gli uomini impegnati sul fronte)
e in guerra (come crocerossine, cuoche, addette alle comunicazioni)
l‟uscita della Russia dal conflitto e l‟ingresso degli Usa
l‟inutile massacro: bilancio dell‟enorme sacrificio di vite umane e di risorse
economiche
c. le epocali trasformazioni politiche, geopolitiche e sociali imposte dalla guerra
la fine dell‟eurocentrismo e il nuovo status internazionale di Stati Uniti e
Giappone
la disgregazione dell‟Impero Ottomano e dell‟Impero austro-ungarico
la nascita di un organismo sovranazionale: la Società delle Nazioni
la partecipazione delle donne al conflitto accelera il processo di
emancipazione femminile e facilita il loro ingresso nel mondo del lavoro
l‟affermarsi del socialismo in Russia favorisce e facilita legislazioni più
progressiste e in favore della classe operaia anche in altri paesi
d. conclusione
alla luce delle conoscenza maturate, esponi il tuo pensiero sul rapporto tra
guerra e trasformazioni sociali.
Tratto da:
A. Brancati e T. Pagliarani, Il nuovo Dialogo con la storia, Guida all’esame di Stato, La
Nuova Italia
Traccia 2
Nella fase preparatoria e nel corso del primo conflitto mondiale si verificano diverse prese
di posizione contro la guerra. Esponi i motivi che le animano, con particolare riferimento
all‟Italia.
Traccia 3
I volti della guerra: la vita in trincea, il fronte interno, le diserzioni e il problema dei reduci.
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PROVA SOMMATIVA: TIPO TERZA PROVA
QUESITI A RISPOSTA MULTIPLA*
LA GRANDE GUERRA E LA RIVOLUZIONE RUSSA
1. Uno dei motivi che spinsero i vari Stati ad aderire alla Prima guerra mondiale fu
quello che
a. la Serbia voleva imporre il suo controllo sull‟Impero asburgico
b. la Serbia voleva distaccarsi dall‟Impero asburgico
c. la Germania era in conflitto con l‟Inghilterra per il monopolio del
commercio internazionale
d. la Gran Bretagna aveva mire territoriali sul continente a scapito della
Francia
2. La battaglia della Marna segnò
a. l‟inizio di una guerra breve e di movimento
b. la fine della possibilità di una guerra breve e di movimento
c. la dissoluzione del «fronte occidentale»
d. una rapida avanzata tedesca verso la Prussica orientale
3. La gran parte degli italiani all’inizio del 1915 si trovava
a. su posizioni neutraliste e/o pacifiste
b. su posizioni comunque interventiste
c. su posizioni interventiste a favore dell‟Intesa
d. su posizioni divise tra interventisti e neutralisti
4. L’Italia decise, in ultima analisi, di prendere parte alla Prima guerra mondiale
perché
a. secondo il patto do Losanna, in caso di vittoria, avrebbe ottenuto Fiume, il Tirolo
settentrionale, le isole slave e greche potenza marittima e navale
b. secondo il patto di Londra, in caso di vittoria, avrebbe ottenuto il Trentino, l‟Alto
Adige, Trieste, l‟Istria e la Dalmazia
c. in caso di vittoria avrebbe ottenuto dall‟Austria, dalla Francia e dalla Germania dei
territori di confine che le avrebbero permesso un‟espansione territoriale e un
maggior ruolo, così, nell‟ambito degli equilibri di potenza europei
d. secondo il patto di Londra, in caso di vittoria o di sconfitta, non ci sarebbero state
variazioni alcune relativamente ai propri confini territoriali
5. Nei primi mesi del 1916, i tedeschi per sbloccare la situazione sul fronte
occidentale
a. intrapresero la tattica della «guerra di usura»
b. attaccarono direttamente la Gran Bretagna
c. avviarono una serie di incursioni rapide e brevi in territorio francese
d. concentrarono tutte le truppe sul fronte orientale
6. Gli Stati Uniti intervennero nel conflitto
a. alla fine del 1915
b. nel maggio del 1916
c. alla fine del 1916
d. nel corso del 1917
7. Il 1917 fu un anno decisivo per l’andamento della Prima guerra mondiale
a. perché gli Stati Uniti entrarono in guerra a fianco delle potenze dell‟Intesa
b. perché l‟Italia uscì dalla guerra in seguito alla disfatta di Caporetto
c. perché i bolscevichi, andati al potere in Russia, decisero la prosecuzione del
conflitto mondiale
d. perché l‟Impero asburgico si frantumò in una serie di repubbliche
indipendenti
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8. Il 14 punti del presidente americano Wilson, tra le altre cose
a. affermavano la superiorità politica e militare degli Usa rispetto alle otenze
vincitrici dell‟Intesa
b. ribadivano il diritto dei popoli all‟autodeterminazione
c. sostenevano la creazione di un pianificato sistema di barriere economiche
d. sostenevano l‟abolizione delle barriere economiche ma solo nei rapporti con
la Gran Bretagna
9. Durante la Conferenza di pace tenutasi a Versailles nel gennaio del 1919, tra le
altre cose
a. vennero mantenute tutte le promesse territoriali fatte dall‟Italia all‟indomani
del suo ingresso in guerra
b. furono stabilite gravi sanzioni nei confronti della Russia
c. furono imposte alla Germania le condizioni più dure
d. fu data all‟Austria la possibilità di riunificarsi con la Germania per poterle
imporre le stesse sanzioni economiche e le stesse perdite territoriali
10. La folla interventista che manifestò nelle piazze nell’agosto del 1914 era
a. la maggioranza della popolazione
b. composta per lo più da contadini e operai
c. costituita per lo più da giovani uomini di città, di classe media
d. costituita per lo più da esponenti della borghesia liberale e del ceto colto
11. Quando i bolscevichi giunsero al potere decretarono
a. la soppressione delle grandi proprietà terriere e la distribuzione della terra
tra i contadini
b. il controllo delle fabbriche da parte di un ristretto comitato rivoluzionario
c. la prosecuzione del conflitto mondiale
d. la supremazia dell‟etnia russa nell‟ambito dei territori dell‟ex impero zarista
12. Dopo la presa di potere il governo bolscevico dovette superare vari ostacoli a
causa
a. del trattato di Brest-Litovsk firmato con la Germania, che suscitò una
violenta opposizione dei social-rivoluzionari
b. della presenza di una forte e intraprendente classe borghese desiderosa di
ritagliarsi un ruolo importante nella nuova compagine statale
c. dell‟imponente fenomeno di emigrazione politica, che determinò la fuga e
l‟allontanamento del capitale umano più attivo e intraprendente
d. di un imprevisto attacco da parte del Giappone, desideroso di approfittare
del caos interno della Russia per avviare un‟espansione territoriale in
Siberia
13. Nella primavera del 1918 scoppiò in Russia una guerra civile
a. le varie anime del Partito bolscevico
b. bolscevichi e menscevichi
c. bolscevichi, monarchici e gruppi anarchici rivoluzionari
d. gli operai filobolscevichi e quelli vicini alle posizioni socialiste moderate di
kerenskij
Tratto da:
Anna Bravo, I nuovi Fili della memoria, Guida per il docente, Editori Laterza
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LA PRIMA GUERRA MONDIALE E LA RIVOLUZIONE RUSSA
1914/18 – ESERCITAZIONI*
Inserisci gli stati coinvolti nella prima guerra mondiale in uno schema che prevede le due
alleanze contrapposte: Austria, Germania, Inghilterra, Francia, Romania, Giappone,
Serbia, Grecia, Bulgaria, Russia, Turchia, Stati Uniti, Italia.
Paesi dell‟Intesa Imperi Centrali
Rispondi alle domande relative al primo anno di guerra e all’intervento dell’Italia nel
conflitto
a) Quale è l‟evento che scatena la prima guerra mondiale?
b) Indica almeno due delle cause profonde della prima guerra mondiale.
c) Perché la prima guerra mondiale viene considerato un conflitto totale?
d) Perché i tedeschi invadono il Belgio
e) Che cosa impedisce ai tedeschi di portare a termine vittoriosamente la guerra lampo
f) Perché si passa da una guerra lampo a una guerra di posizione?
g) Perché, nonostante il Parlamento sia prevalentemente neutralista, L‟Italia entra in
guerra?
Costruisci uno schema in cui inserisci le forze neutraliste e quelle interventiste in Italia:
INTERVENTISTI NEUTRALISTI
Scrivi un breve testo (max 10 righe) descrivendo le nuovo tecnologie militari che fanno la
loro comparsa nella prima guerra mondiale
- sommergibili; - carri armati; - gas asfissianti; - lanciafiamme; - bombardamenti aerei
Scrivi una breve definizione dei seguenti concetti o eventi relativi agli aspetti socio-politici
della guerra:
- governo di concentrazione nazionale
- fronte interno
- carne da cannone
- speculatori o “pescicani”
- inutile carneficina
Rispondi alle seguenti domande relative al terzo anno di guerra:
a) Perché quando l‟Italia entra in guerra la situazione non è favorevole per l‟Intesa?
b) Quali sono le azioni militari compiute dall‟esercito italiano subito dopo l‟ingresso nel
conflitto?
c) Come si conclude l‟offensiva tedesca di Verdun?
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d) Come si conclude la spedizione punitiva austriaca contro l‟Italia?
e) Quali sono le forze che dopo la morte di Francesco Giuseppe sperano nella fine del
conflitto?
Scrivi un testo (max 20 righe) mettendo in luce gli aspetti sociali (situazione di nobiltà,
borghesia, piccoli proprietari terrieri, contadini, proletariato industriale, intellettuali), gli
aspetti politici (autoritarismo zarista, movimenti di opposizione, divisione del Partito
socialdemocratico) e gli aspetti economici (industria e agricoltura) della Russia allo
scoppio della rivoluzione russa d’ottobre.
Completa le fasi relative alla rivoluzione russa:
Il governo provvisorio formatosi nel marzo del 1917 è espressione:
a) della borghesia
b) del proletariato urbano
c) dei soviet contadini
Lenin sostiene la necessità:
a) di arrestare lo zar e la sua famiglia
b) di accelerare il movimento rivoluzionario facendo in modo che i soviet prendano il
potere e trasformino la rivoluzione borghese in rivoluzione proletaria
c) di appoggiare il governo guidato dal socialdemocratico Kerenskij
L‟ occupazione del Palazzo d‟inverno, sede del governo, è una risposta
a) all‟arresto dello Zar
b) al colpo di mano del generale reazionario Kornilov
c) allo scioglimento dei soviet e all‟arresto di Lenin
Il nuovo governo rivoluzionario.
a) chiede e ottiene la pace con Austria e Germania, che viene siglata a Brest-Litovsk
b) dichiara guerra alle forze controrivoluzionarie
c) rispetta l‟Assemblea costituente, liberamente eletta
Distingui le affermazioni vere da quelle false per descrivere la conquista del potere da
parte dei bolscevichi:
La guardia rossa è il corpo armato di operai formato dai bolscevichi V F
La guardia rossa assalta il Palazzo d‟Inverno per appoggiare il governo Kerenskij,
ritenuto espressione degli interessi della borghesia V F
La presa del Palazzo d‟Inverno da parte della guardia rossa permette a Lenin di
rovesciare il governo Kerenskij e di portarsi alla guida dello Stato V F
Dopo la rivoluzione d‟ottobre l‟unico partito ammesso è quello bolscevico V F
Il risultato dell‟elezione dell‟Assemblea costituente è favorevole ai bolscevichi V F
Dopo le elezioni alla Assemblea costituente Lenin conferisce tutto il potere ai soviet e dà
vita al nuovo Stato sovietico V F
Le forze dell‟Intesa danno il loro appoggio alle forze controrivoluzionarie russe
V F
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Le forze controrivoluzionarie sono formate dai ceti privati degli antichi privilegi e da
coloro che auspicano una evoluzione in senso democratico V F
Tra rivoluzionari e controrivoluzionari si scatena una sanguinosa guerra civile che dura
circa tre anni V F
Dopo una breve fase di scontro politico, le forze controrivoluzionarie riescono a creare un
governo democratico che guida il paese per alcuni anni V F
Scrivi un breve testo (max 10 righe) per spiegare le conseguenze politiche a livello
internazionale della rivoluzione russa.
Descrivi in un testo (max 15 righe) la situazione del fronte italiano nel 1918
Rispondi alle domande relative al quarto anno di guerra
- Quali sono le ragioni politiche, economiche e ideali che spingono gli Stati Uniti ad
entrare in guerra?
- Che conseguenze ha per l‟Intesa il ritiro dei russi dalla guerra?
- Qual è l‟apporto degli USA alla guerra?
- Qual è l‟esito della seconda battaglia sulla marna?
- Che regime politico si danno Austria e Germania dopo la firma dell‟armistizio?
- Che cosa prevedono i “Quattordici punti di Wilson”?
Indica per i trattati di pace qui riportati i principali contenuti.
1) Conferenza di pace di Parigi
2) Trattato di Saint Germani
3) Trattato di Sèves
4) Dichiarazione di Balfour
Descrivi in un testo (max 20 righe) il nuovo assetto dell’Europa dopo la prima guerra
mondiale, mettendo in luce le entità statali che sono sparite e i nuovi stati che sono sorti in
seguito ai trattati di pace.
Descrivi in un testo (massimo 20 righe) le principali trasformazioni geopolitiche
dell’Europa dopo la prima guerra mondiale, mettendo in luce i seguenti aspetti:
- fine dell‟eurocentrismo
- prevalere del peso politico degli USA
- nuova condizione della donna
- legislazione sociale
- progresso tecnologico
* Tratto da: P. Zani, Strumenti per l‟esame di stato: storia, La nuova Italia
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LA GRANDE TRASFORMAZIONE
1914/1929 – ESERCITAZIONI*
1 Gli schieramenti nella Grande Guerra: indica per ognuno dei paesi elencati di quale
schieramento facevano parte. Paesi dell‟Intesa (P.I.) oppure Imperi Centrali (I.C.):
1. Austria-Ungheria 2. Bulgaria
3. Cina
4. Francia
5. Germania
6. Giappone
7. Grecia
8. Impero turco
9. Inghilterra
10. Italia
11. Romania
12. Russia
13. Serbia
14. Stati Uniti
2 Quali caratteristiche accomunano nel corso della guerra gli Stati europei retti da governi
liberali? (tre risposte corrette)
a. Dirigismo statale e controllo dell‟economia.
b. Militarizzazione dell‟industria.
c. Allargamento degli spazi di democrazia.
d. Maggiore libertà di iniziativa economica
concessa agli imprenditori.
e. Rigido controllo della stampa.
3 Secondo il presidente degli USA Wilson a quali principi si sarebbero dovute ispirare le
relazioni internazionali nel dopoguerra? (due risposte corrette)
a. Liberoscambismo.
b. Protezionismo.
c. Miglioramento dei rapporti fra le potenze coloniali e le rispettive colonie.
d. Autodeterminazione dei popoli.
e. Vincoli molto restrittivi sulla navigazione fuori dalle acque territoriali.
f. Istituzione di un organismo di governo internazionale, la Società delle nazioni,
composto esclusivamente dalle potenze vincitrici della guerra.
4 Quali principi istituzionali vennero sanciti dalla Costituzione di Weimar? (tre risposte
corrette)
a. Ordinamento federale dello Stato.
b. Sistema elettorale maggiorato.
c. Riconoscimento dei diritti sociali.
d. Suffragio esclusivamente maschile.
e. Garanzia della libertà di associazione.
5 Quali delle seguenti affermazioni caratterizzano correttamente la NEP (nuova politica
economica)? (quattro risposte corrette)
a. Il passaggio dal comunismo di guerra alla NEP fu dovuto all‟inizio della guerra
civile.
b. La NEP consentì ai contadini di vendere autonomamente parte del prodotto del loro
lavoro.
c. Durante la NEP si registrò un maggior controllo dello Stato sulle aziende.
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d. La NEP consentì la gestione privata delle piccole imprese.
e. Le aziende sia contadine sia industriali, secondo la NEP, potevano decidere
autonomamente sia i livelli produttivi sia della commercializzazione dei prodotti.
6 Indica se le segueti affermazioni sono vere o false:
1. Il primo Stato a cedere del fronte degli Imperi centrali fu la Turchia, dopo la vittoria
anglo-francese in Palestina e in Siria.
V F
2. La Germania invasa dalle truppe anglo-francesi chiese la resa.
V F
3. Alla fine della guerra l‟imperatore austriaco Francesco Giuseppe abdicò e a Vienna si
instaurò
la repubblica.
V F
4. Il primo governo repubblicano tedesco fu guidato da un esponente del Partito
socialdemocratico.
V F
5. Negli USA degli anni Venti a un grande incremento della produzione corrispose
l‟imponente
diffusione dei consumi di massa.
V F
6. Negli Stati Uniti nel primo dopoguerra si sviluppò una forte e diffusa ostilità nei
confronti degli
immigrati.
V F
7. Negli USA del dopoguerra si ricostituì l‟organizzazione razzista del Ku Klux Klan.
V F
8. Negli USA del dopoguerra si realizzò la completa emancipazione femminile.
V F
9. Negli anni Venti il proibizionismo riuscì nell‟intento di imporre a tutti gli statunitensi
un austero
modello di vita.
V F
10. L‟Inghilterra confermò nel dopoguerra la propria leadership economica.
V F
11. Nel dopoguerra in Inghilterra il suffragio venne esteso alle che avevano compiuto
trent‟anni.
V F
7 Rispondi alle seguenti domande in 5/7 righe:
1. Quale posizione assunsero i partiti socialisti e socialdemocratici europei nei confronti
della
guerra?
2. Che cosa prevedevano le clausole del trattato di pace con la Germania?
3. Quali furono le scelte politiche di Lenin che determinarono il passaggio dalla prima
alla seconda
fase della Rivoluzione portarono alla fine dell‟intermezzo democratico in Russia?
4. Come mutò lo scenario coloniale in Asia e Africa dopo la Prima guerra mondiale?
* Tratto da: La scena del tempo: materiali per l‟insegnante, Paravia
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GRIGLIE DI VALUTAZIONE
PROVA SCRITTA DI ITALIANO: TIPOLOGIA C
Alunno/a________________________ Classe___________ Data__________
INDICATORI DESCRITTORI PUNTI
Correttezza e proprietà
linguistica
Molto scorretta e povera lessicalmente
Parzialmente corretta
Sufficientemente corretta
Corretta, scorrevole e ricca lessicalmente
1
2
3
4
Pertinenza alla traccia e
ricchezza dei contenuti
Frammentaria
Parziale
Sufficiente
Ampia
Completa e approfondita
1
2
3
4
5
Capacità argomentativa e
coerenza interna
Incompleta e molto imprecisa
Parzialmente sviluppata
Sufficientemente sviluppata
Articolata e approfondita
1
2
3
4
Organicità delle opinioni e
spirito critico
Parzialmente rispondente
Pertinente e ben sviluppata
1
2
L‟insegnante____________________ Totale punteggio__________
TABELLA PER LA VALUTAZIONE DELLA TERZA PROVA
Alunno/a________________________ Classe___________ Data__________
INDICATORI DESCRITTORI PUNTEGGIO
PERTINENZA E
CONOSCENZA DEI
CONTENUTI
Scarso
Carente
Gravemente insufficiente
Insufficiente
Sufficiente
Discreto
Buono
Ottimo
1
2
3
4
5
6
7
8
PROPRIETA’ LINGUISTICA:
CONOSCENZA E CORRETTEZZA
TERMINOLOGICA
Insufficiente
Sufficiente
Discreto / Buono
1
2
3
CAPACITA’ ESPOSITIVA E DI
SINTESI
Insufficiente
Sufficiente
Discreto
Buono
1
2
3
4
L‟insegnante____________________ Totale punteggio__________
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CITAZIONE “COLTA” PER CASO
Si riporta il testo integrale della lettera aperta di Don Lorenzo Milani ai cappellani militari.
E' un testo del 1965, più di quaranta anni fa. Costò cara al suo estensore, che subì due
processi penali per apologia di reato, l'ultimo dei quali si concluse dopo la sua morte.
Don Lorenzo Milani aveva una visione del mondo fortissima, suggestiva, ispirata al
vangelo e arricchita da una cultura moderna. Poneva al centro di tutto due cose: il diritto
all'istruzione, al sapere; e il diritto dei poveri a combattere le ingiustizie sociali. Don
Milani morì nel giugno del '67, ma è impossibile pensare al '68 italiano senza tener conto
del suo pensiero e delle sue iniziative. La «Lettera a una professoressa», che fu pubblicata
pochi mesi prima della sua morte, è un libro fondamentale per costruire una coscienza
politica e pedagogica: contiene la più chiara, netta e rigorosa condanna della scuola di
classe e della società di classe. Fu un evento quel libro che scosse dal torpore una intera
generazione di giovani e molti futuri insegnanti: la lettera ai cappellani militari invece è
una pietra miliare del pacifismo.
Lorenzo Milani: L’obbedienza non è più una virtù
Da tempo avrei voluto invitare uno di voi a parlare ai miei ragazzi della vostra vita. Una vita che i
ragazzi e io non capiamo.
Avremmo però voluto fare uno sforzo per capire e soprattutto domandarvi come avete affrontato
alcuni problemi pratici della vita militare. Non ho fatto in tempo a organizzare questo incontro tra
voi e la mia scuola.
Io l'avrei voluto privato, ma ora che avete rotto il silenzio voi, e su un giornale, non posso fare a
meno di farvi quelle stesse domande pubblicamente.
Primo perché avete insultato dei cittadini che noi e molti altri ammiriamo. E nessuno, ch'io sappia,
vi aveva chiamati in causa. A meno di pensare che il solo esempio di quella loro eroica coerenza
cristiana bruci dentro di voi una qualche vostra incertezza interiore.
Secondo perché avete usato, con estrema leggerezza e senza chiarirne la portata, vocaboli che sono
più grandi di voi.
Nel rispondermi badate che l'opinione pubblica è oggi più matura che in altri tempi e non si
contenterà né d'un vostro silenzio, né d'una risposta generica che sfugga alle singole domande.
Paroloni sentimentali o volgari insulti agli obiettori o a me non sono argomenti. Se avete argomenti
sarò ben lieto di darvene atto e di ricredermi se nella fretta di scrivere mi fossero sfuggite cose non
giuste.
Non discuterò qui l'idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni.
Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro
senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato,
privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il
diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente
anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono
e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi
approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche
armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto.
Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del
Vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se son uomini
che per le loro idee pagano di persona.
Certo ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una
scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra,
tra la Patria e valori ben più alti di lei.
Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo . È troppo facile dimostrare che Gesù era contrario
alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa.
Mi riferirò piuttosto alla Costituzione.
Articolo 11 - «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli...».
Articolo 52 - «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino».
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Misuriamo con questo metro le guerre cui è stato chiamato il popolo italiano in un secolo di storia.
Se vedremo che la storia del nostro esercito è tutta intessuta di offese alle Patrie degli altri dovrete
chiarirci se in quei casi i soldati dovevano obbedire o obiettare quel che dettava la loro coscienza. E
poi dovrete spiegarci chi difese più la Patria e l'onore della Patria: quelli che obiettarono o quelli
che obbedendo resero odiosa la nostra Patria a tutto il mondo civile? Basta coi discorsi altisonanti e
generici. Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L'obbedienza a
ogni costo? E se l'ordine era il bombardamento dei civili, un'azione di rappresaglia su un villaggio
inerme, l'esecuzione sommaria dei partigiani, l'uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche,
la tortura, l'esecuzione d'ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni (scegliere
a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria),
una guerra di evidente aggressione, l'ordine d'un ufficiale ribelle al popolo sovrano, la repressione
di manifestazioni popolari?
Eppure queste cose e molte altre sono il pane quotidiano di ogni guerra. Quando ve ne sono
capitate davanti agli occhi o avete mentito o avete taciuto. O volete farci credere che avete volta
volta detto la verità in faccia ai vostri «superiori» sfidando la prigione o la morte? se siete ancora
vivi e graduati è segno che non avete mai obiettato a nulla. Del resto ce ne avete dato la prova
mostrando nel vostro comunicato di non avere la più elementare nozione del concetto di obiezione
di coscienza.
Non potete non pronunciarvi sulla storia di ieri se volete essere, come dovete essere, le guide
morali dei nostri soldati. Oltre a tutto la Patria, cioè noi, vi paghiamo o vi abbiamo pagato anche
per questo. E se manteniamo a caro prezzo (1000 miliardi l'anno) l'esercito, è solo perché difenda
colla Patria gli alti valori che questo concetto contiene: la sovranità popolare, la libertà, la giustizia.
E allora (esperienza della storia alla mano) urgeva più che educaste i nostri soldati all'obiezione che
all'obbedienza.
L'obiezione in questi 100 anni di storia l'han conosciuta troppo poco. L'obbedienza, per disgrazia
loro e del mondo, l'han conosciuta anche troppo.
Scorriamo insieme la storia. Volta ci direte da che parte era la Patria, da che parte bisognava
sparare, quando occorreva obbedire e quando occorreva obiettare.
1860. Un esercito di napoletani, imbottiti dell'idea di Patria, tentò di buttare a mare un pugno di
briganti che assaliva la sua Patria. Fra quei briganti c'erano diversi ufficiali napoletani disertori
della loro Patria. Per l'appunto furono i briganti a vincere. Ora ognuno di loro ha in qualche piazza
d'Italia un monumento come eroe della Patria.
A 100 anni di distanza la storia si ripete: l'Europa è alle porte.
La Costituzione è pronta a riceverla: «L'Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie…». I
nostri figli rideranno del vostro concetto di Patria, così come tutti ridiamo della Patria Borbonica. I
nostri nipoti rideranno dell'Europa. Le divise dei soldati e dei cappellani militari le vedranno solo
nei musei.
La guerra seguente 1866 fu un'altra aggressione. Anzi c'era stato un accordo con il popolo più
attaccabrighe e guerrafondaio del mondo per aggredire l'Austria insieme.
Furono aggressioni certo le guerre (1867-1870) contro i Romani i quali non amavano molto la loro
secolare Patria, tant'è vero che non la difesero. Ma non amavano molto neanche la loro nuova
Patria che li stava aggredendo, tant'è vero che non insorsero per facilitarle la vittoria. Il
Gregorovius spiega nel suo diario: «L'insurrezione annunciata per oggi, è stata rinviata a causa
della pioggia».
Nel 1898 il Re «Buono» onorò della Gran Croce Militare il generale Bava Beccaris per i suoi
meriti in una guerra che è bene ricordare. L'avversario era una folla di mendicanti che aspettavano
la minestra davanti a un convento a Milano. Il Generale li prese a colpi di cannone e di mortaio
solo perché i ricchi (allora come oggi) esigevano il privilegio di non pagare tasse. Volevano
sostituire la tassa sulla polenta con qualcosa di peggio per i poveri e di meglio per loro. Ebbero
quel che volevano. I morti furono 80, i feriti innumerevoli. Fra i soldati non ci fu né un ferito né un
obiettore. Finito il servizio militare tornarono a casa a mangiar polenta. Poca perché era rincarata.
Eppure gli ufficiali seguitarono a farli gridare «Savoia» anche quando li portarono a aggredire due
volte (1896 e 1935) un popolo pacifico e lontano che certo non minacciava i confini della nostra
Patria. Era l'unico popolo nero che non fosse ancora appestato dalla peste del colonialismo
europeo.
Quando si battono bianchi e neri siete coi bianchi? Non vi basta di imporci la Patria Italia? Volete
imporci anche la Patria Razza Bianca? Siete di quei preti che leggono la Nazione ? Stateci attenti
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perché quel giornale considera la vita d'un bianco più che quella di 100 neri. Avete visto come ha
messo in risalto l'uccisione di 60 bianchi nel Congo, dimenticando di descrivere la contemporanea
immane strage di neri e di cercarne i mandanti qui in Europa?
Idem per la guerra di Libia.
Poi siamo al '14. L'Italia aggredì l'Austria con cui questa volta era alleata.
Battisti era un Patriota o un disertore? È un piccolo particolare che va chiarito se volete parlare di
Patria. Avete detto ai vostri ragazzi che quella guerra si poteva evitare? Che Giolitti aveva la
certezza di poter ottenere gratis quello che poi fu ottenuto con 600 mila morti?
Che la stragrande maggioranza della Camera era con lui (450 su 508)? Era dunque la Patria che
chiamava alle armi? E se anche chiamava, non chiamava forse a una «inutile strage?» (l'espressione
non è d'un vile obiettore di coscienza ma d'un Papa canonizzato).
Era nel '22 che bisognava difendere la Patria aggredita. Ma l'esercito non la difese. Stette a
aspettare gli ordini che non vennero. Se i suoi preti l'avessero educato a guidarsi con la Coscienza
invece che con l'Obbedienza «cieca, pronta, assoluta» quanti mali sarebbero stati evitati alla Patria
e al mondo (50 milioni di morti). Così la Patria andò in mano a un pugno di criminali che violò
ogni legge umana e divina e riempiendosi la bocca della parola Patria, condusse la Patria allo
sfacelo. In quei tragici anni quei sacerdoti che non avevano in mente e sulla bocca che la parola
sacra «Patria», quelli che di quella parola non avevano mai voluto approfondire il significato, quelli
che parlavano come parlate voi, fecero un male immenso proprio alla Patria (e, sia detto
incidentalmente, disonorarono anche la Chiesa).
Nel '36 50 mila soldati italiani si trovarono imbarcati verso una nuova infame aggressione:
Avevano avuto la cartolina di precetto per andar «volontari» a aggredire l'infelice popolo spagnolo.
Erano corsi in aiuto d'un generale traditore della sua Patria, ribelle al suo legittimo governo e al
popolo suo sovrano. Coll'aiuto italiano e al prezzo d'un milione e mezzo di morti riuscì a ottenere
quello che volevano i ricchi: blocco dei salari e non dei prezzi, abolizione dello sciopero, del
sindacato, dei partiti, d'ogni libertà civile e religiosa.
Ancor oggi, in sfida al resto del mondo, quel generale ribelle imprigiona, tortura, uccide (anzi
garrota) chiunque sia reo d'aver difeso allora la Patria o di tentare di salvarla oggi. Senza
l'obbedienza dei «volontari» italiani tutto questo non sarebbe successo.
Se in quei tristi giorni non ci fossero stati degli italiani anche dall'altra parte, non potremmo alzar
gli occhi davanti a uno spagnolo. Per l'appunto questi ultimi erano italiani ribelli e esuli dalla loro
Patria. Gente che aveva obiettato.
Avete detto ai vostri soldati cosa devono fare se gli capita un generale tipo Franco? Gli avete detto
che agli ufficiali disobbedienti al popolo loro sovrano non si deve obbedire?
Poi dal '39 in là fu una frana: i soldati italiani aggredirono una dopo l'altra altre sei Patrie che non
avevano certo attentato alla loro (Albania, Francia, Grecia, Egitto, Jugoslavia, Russia).
Era una guerra che aveva per l'Italia due fronti. L'uno contro il sistema democratico. L'altro contro
il sistema socialista. Erano e sono per ora i due sistemi politici più nobili che l'umanità si sia data.
L'uno rappresenta il più alto tentativo dell'umanità di dare, anche su questa terra, libertà e dignità
umana ai poveri.
L'altro il più alto tentativo dell'umanità di dare, anche su questa terra, giustizia e eguaglianza ai
poveri.
Non vi affannate a rispondere accusando l'uno o l'altro sistema dei loro vistosi difetti e errori.
Sappiamo che son cose umane. Dite piuttosto cosa c'era di qua dal fronte. Senza dubbio il peggior
sistema politico che oppressori senza scrupoli abbiano mai potuto escogitare. Negazione d'ogni
valore morale, di ogni libertà se non per i ricchi e per i malvagi. Negazione d'ogni giustizia e d'ogni
religione. Propaganda dell'odio e sterminio d'innocenti. Fra gli altri lo sterminio degli ebrei (la
Patria del Signore dispersa nel mondo e sofferente).
Che c'entrava la Patria con tutto questo? e che significato possono più avere le Patrie in guerra da
che l'ultima guerra è stata un confronto di ideologie e non di patrie?
Ma in questi cento anni di storia italiana c'è stata anche una guerra «giusta» (se guerra giusta
esiste). L'unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana.
Da un lato c'erano dei civili, dall'altra dei militari. Da un lato soldati che avevano obbedito,
dall'altra soldati che avevano obiettato.
Quali dei due contendenti erano, secondo voi, i «ribelli», quali i «regolari»? È una nozione che
urge chiarire quando si parla di Patria. Nel Congo per esempio quali sono i «ribelli»?
Poi per grazia di Dio la nostra Patria perse l'ingiusta guerra che aveva scatenato. Le Patrie aggredite
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dalla nostra Patria riuscirono a ricacciare i nostri soldati.
Certo dobbiamo rispettarli. Erano infelici contadini o operai trasformati in aggressori
dall'obbedienza militare. Quell'obbedienza militare che voi cappellani esaltate senza nemmeno un
«distinguo» che vi riallacci alla parola di San Pietro: «Si deve obbedire agli uomini o a Dio?». E
intanto ingiuriate alcuni pochi coraggiosi che son finiti in carcere per fare come ha fatto San Pietro.
In molti paesi civili (in questo più civili del nostro) la legge li onora permettendo loro di servir la
Patria in altra maniera. Chiedono di sacrificarsi per la Patria più degli altri, non meno. Non è colpa
loro se in Italia non hanno altra scelta che di servirla oziando in prigione.
Del resto anche in Italia c'è una legge che riconosce un'obiezione di coscienza. È proprio quel
Concordato che voi volevate celebrare. Il suo terzo articolo consacra la fondamentale obiezione di
coscienza dei Vescovi e dei Preti.
In quanto agli altri obiettori, la Chiesa non si è ancora pronunziata né contro di loro né contro di
voi. La sentenza umana che li ha condannati dice solo che hanno disobbedito alla legge degli
uomini, non che son vili. Chi vi autorizza a rincarare la dose? E poi a chiamarli vili non vi viene in
mente che non s'è mai sentito dire che la viltà sia patrimonio di pochi, l'eroismo patrimonio dei
più?
Aspettate a insultarli. Domani forse scoprirete che sono dei profeti. Certo il luogo dei profeti è la
prigione, ma non è bello star dalla parte di chi ce li tiene.
Se ci dite che avete scelto la missione di cappellani per assistere feriti e moribondi, possiamo
rispettare la vostra idea. Perfino Gandhi da giovane l'ha fatto. Più maturo condannò duramente
questo suo errore giovanile. Avete letto la sua vita?
Ma se ci dite che il rifiuto di difendere se stesso e i suoi secondo l'esempio e il comandamento del
Signore è «estraneo al comandamento cristiano dell'amore» allora non sapete di che Spirito siete!
che lingua parlate? come potremo intendervi se usate le parole senza pesarle? se non volete onorare
la sofferenza degli obiettori, almeno tacete!
Auspichiamo dunque tutto il contrario di quel che voi auspicate: Auspichiamo che abbia termine
finalmente ogni discriminazione e ogni divisione di Patria di fronte ai soldati di tutti i fronti e di
tutte le divise che morendo si son sacrificati per i sacri ideali di Giustizia, Libertà, Verità.
Rispettiamo la sofferenza e la morte, ma davanti ai giovani che ci guardano non facciamo
pericolose confusioni fra il bene e il male, fra la verità e l'errore, fra la morte di un aggressore e
quella della sua vittima.
Se volete diciamo: preghiamo per quegli infelici che, avvelenati senza loro colpa da una
propaganda d'odio, si son sacrificati per il solo malinteso ideale di Patria calpestando senza
avvedersene ogni altro nobile ideale umano.
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