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7/15 7 Dopo aver rifiutato il marxismo-leninismo, perche la sinistra deve essere disposta a giurare su Luce Irigaray, per la quale I'unica cosa che il nostra tempo ha dapensare e Vaffermazione di genere' deUa donna? FT s u s 0 m e L L 0 sTTiH LE VEDOVE DI LENIN E LA DERIVA FEMMINISTA Fra le donne comuniste furoreggia il 'pensiero della differenza', che con le sue arroganti certezze echeggia le invettive bolsceviche contro la 'eguaglianza borghese' e la 'neutralita della cultura'. Fioriscono le sezioni per sole donne, si esalta la 'didattica sessuata' e si critica la costituzione perche 'non femminile'. Che peso avra questa cultura antiriformista nella futura 'Cosa'? MIRIAM MAFAI Campagna elettorale delle regional! del 1990. La prima manifestazione alia quale partecipo, come candidata del Pci, e la presentazione, in piazza del Pantheon, a Roma, della «legge sui tempi». La legge chiede una diversa organizzazione degli orari (delle scuole, degli uffici, degli ospedali, dei servizi), per rendere meno faticosa la vita delle donne, suUe quali si rovescia un insopportabile carico di lavoro: quello extradomesti- co, quello domestico e quello burocratico (nessuno puo immaginare di

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7/15 7 Dopo aver rifiutato il marxismo-leninismo, perche la sinistra deve essere disposta a giurare

su Luce Irigaray, per la quale I'unica cosa che il nostra tempo ha dapensare e Vaffermazione di genere' deUa donna?

FT s u s 0 m e L L 0 s T T i H

LE VEDOVE DI LENIN E LA DERIVA FEMMINISTA

Fra le donne comuniste furoreggia il 'pensiero della differenza', che con le sue arroganti certezze echeggia le

invettive bolsceviche contro la 'eguaglianza borghese' e la 'neutralita della cultura'. Fioriscono le sezioni per sole

donne, si esalta la 'didattica sessuata' e si critica la costituzione perche 'non femminile'. Che peso avra questa

cultura antiriformista nella futura 'Cosa'? MIRIAM MAFAI

Campagna elettorale delle regional! del 1990. La prima manifestazione alia quale partecipo, come candidata del Pci, e la presentazione, in piazza del Pantheon, a Roma, della «legge sui tempi». La legge chiede una diversa organizzazione degli orari (delle scuole, degli uffici, degli ospedali, dei servizi), per rendere meno faticosa la vita delle donne, suUe quali si rovescia un insopportabile carico di lavoro: quello extradomesti-co, quello domestico e quello burocratico (nessuno puo immaginare di

8 quante pratiche sia fatta la vita quotidiana di una famiglia, e queste pratiche sono generalmente affidate a una donna). Compresso tra queste diverse e tutte indilazionabili esigenze (portare un bambino aU'asilo, pagare un conto corrente alia posta, prenotare una visita alia Usl...) il tempo delle donne si assottiglia e il ritmo di vita diventa insopportabile. Eppure, basterebbe poco per cambiare: qualcuno (il sindaco, probabil-mente) dovrebbe studiare e imporre un «piano regolatore» dei tempi, che coordini gli orari della citta, privilegiando gli interessi degli utenti an-che, se necessario, a scapito degli interessi dei lavoratori degli stessi servizi. Orari scaglionati, prolungati, aperture serali degli uffici e dei negozi... Sembra poco, ma non e facile rompere abitudini inveterate e interessi radicati. Modena, comunque, che ha un sindaco donna, ci ha gia provato e qualche risultato e stato raggiunto.

Le donne comuniste hanno promosso una massiccia raccolta di firme a sostegno della legge. Metto la mia, naturalmente, e faccio molte riunioni di donne per parlarne. Ma nel corso di una di queste riunioni, una compagna mi rimprovera una concezione riduttiva del problema ed una illustrazione parziale della legge. Parlo, secondo lei, troppo delle «picco-le cose» (gli orari degli asili e dei negozi), e troppo poco della impostazio-ne ideale della legge che va ben al di la di questo. La legge infatti, derivando dal «pensiero della differenza», non chiede solo un «piano regolatore» dei tempi, ma una diversa organizzazione di tutta la societa, finora ordinata secondo un modello maschile e produttivistico. Capisco meglio il senso di questa obiezione quando, pochi mesi dopo, leggo le «Idee e proposte di programma» elaborate dal Pci per il future partito della sinistra italiana. Qui non c'e piu traccia degli obiettivi concreti della legge, di quel «poco» che potrebbe cambiare, ove realizza-to, la vita quotidiana delle donne. Quello che il programma chiede e invece «un modello sociale basato sulla plena espressione, per tutte le donne e gli uomini, della pluralita dei tempi che scandiscono la vita umana e sul riconoscimento di alcuni tempi di lavoro, di studio, per la cura, come diritti, sottraendoli alia forma della mercificazione». Affer-mazione generica e vaga, ma dotata di un aweniristico fascino e certo piii «antagonista» della modesta richiesta di un cambiamento degli orari delle scuole, dei negozi e dei servizi. Comunque, per rendere ancora piij avanzato questo programma, viene perentoriamente richiesta la settima-na lavorativa non di 35 ma di 30 ore.

Anche qui, dunque, il cosiddetto «pensiero della differenza» ha agito eludendo la sostanza riformatrice della proposta di legge e recuperando invece una sua auspicata valenza eversiva. Tra cio che si puo o si potreb­be fare e cio che per esser fatto richiede un totale rivolgimento dell'as-setto sociale, e sempre la seconda la scelta preferita. II riformismo non ha fascino, I'utopia si. II movimento operaio sembra portarsi dentro questa sorta di malattia o di difetto della vista per cui un obiettivo appare tanto piii importante e «di sinistra* quanto meno e realizzabile. La riforma e in

se e per se mediocre, non suscita passione. La mobilitazione e degna solo per qualcosa che vada al di la del concreto obiettivo possibile. II «pensiero della differenza» va portando, da qualche tempo, un non trascurabile contributo a questo vizio. Percio e necessario parlarne, nel momento in cui si apre (forse) la possibilita della formazione di un nuovo partito della sinistra italiana, nato dall'autosuperamento del Pci. II «pensiero della differenza» nasce fuori del movimento operaio e del suo quadro di riferimento teorico, ma depone presto le sue uova-idee dentro un Pci che, con il progressivo laicizzarsi della politica, soffre di perdita di certezze e di identita. Lungi da me I'idea, del tutto al di la delle mie forze, di ricostruire qui, anche per sommi capi, le origini e i percorsi di un pensiero che si presenta estremamente raffinato e complesso. Mol-to sinteticamente si puo affermare che questo pensiero pone la differen-za di genere a nuovo paradigma della conoscenza, a strumento di revisio-ne dei saperi. La differenza di genere e dunque valore fondativo della soggettivita ed ipotizza la sessuazione del mondo: un pensiero, un dirit-to, una politica contrassegnati dalla differenza. Questo pensiero grida forte «io sono donna», e di qui intende ricostruire il mondo e le relazioni, ma non sa dire, o non si preoccupa di dire e precisare, «cosa e una donna». Questo pensiero, elaborato soprattutto da gruppi di filosofe ed antropo-loghe, si e aperto un varco importante anche nella riflessione cattolica, che non ha mai condiviso la precedente impostazione «emancipazioni-stica» del movimento femminile italiano. II pensiero cattolico, del resto, aveva sempre fatto proprio il principio della «diversita» femminile, di cui e simbolo Maria. Di qui la tendenza a vedere nella Mulieris Dignitatem, lettera apostolica di Giovanni Paolo II, i segni di una assunzione, in positivo, dei principi della «differenza di genere». Ma a me interessa soprattutto capire come e perche questo pensiero abbia trovato tanto consenso nelle file del Pci e, in genere, della sinistra. Mi sembra inevitabile tornare a questo punto alia crisi delle ideologic alia quale facevo prima riferimento. Nel deserto di certezze di cui il movimento soffre (ma potrebbe essere anche I'inizio della sua guarigio-ne), il «pensiero della differenza» si presenta come un tutto compatto, severe, rigoroso, totalizzante. Gli orfani (e le orfane) della ideologia, i nostalgici della «contraddizione fondamentale» che dia vita al soggetto antagonista salvifico, trovano in questo pensiero un motivo di speranza e di conforto. C'e di piu. Questo «pensiero» ripropone quella critica della neutralita della cultura e del sapere che costitui il fondamento dei movimenti di sinistra dopo il Sessantotto, e quella critica della eguaglianza formale (borghese) che e fondamento del pensiero leninista. Non si tratta della stessa cosa, naturalmente. Ma in questa critica dell'uguaglianza il comu-nista sente quasi I'eco di un pensiero che pure fu suo, molti anni fa. In

10 questo pensiero, cosi radicale, riconosce una pur esile radice comune. Per questo vi acconsente. Devo avere ancora in qualche scaffale della mia biblioteca, ingiallito dagli anni e dalla dimenticanza, un vecchio quaderno di appunti, a righe, intitolato a Stato e Rivoluzione e al Rinnegato Kautsky. AUora, su quei testi di Lenin i giovani (e le giovani) comunisti apprendevano gli inganni della democrazia formale e delle sue istituzioni, il carattere tutto formale e quindi ingannevole dei grandi principi di eguaglianza sortiti dalla rivoluzione francese. Questi limiti sarebbero stati tutti superati, un gior-no, attraverso la rottura, piii o meno violenta, dello stato di cose esistente e la instaurazione della dittatura del proletariato. Questi temi e questa critica ci appaiono oggi lontani. Ce n'e voluto di dibattiti, di sconfitte, di congressi, di strappi, di rotture, di delusioni, di tragedie, per farci con-vinti del fatto che la democrazia non toUera aggettivi (il che non significa, naturalmente, che le forme concrete in cui di volta in volta si manifesta non possano e non debbano essere sottoposte a critica). Chi di noi e approdato dunque al riconoscimento della democrazia come valore, e del principio della uguaglianza «in diritti» come il terreno sul quale impo-stare una battaglia per il riconoscimento e il superamento delle differen-ze (al plurale), non puo riconoscersi nella critica femminista al principio di uguaglianza, formulata questa volta non in nome del proletariato ma in nome del genere femminile.

Dopo aver rifiutato Lenin, perche dovrei oggi giurare su Luce Irigaray? Puo darsi che Marx semplificasse quando sosteneva che la storia della societa e storia della lotta delle classi, ma ancora meno sono disposta a credere, con la Irigaray, che il probleraa del nostro secolo sia I'afferma-zione «di genere» della donna, suUa base del principio che «ogni epoca ha una cosa da pensare. Una soltanto. La differenza sessuale e quella del nostro tempo». Questa affermazione mi appare non solo riduttiva, povera, insufficiente, ma terribilmente arrogante. Questo pensiero si sovrappone alle donne concrete, agli individui di sesso femminile, pretende di rappresentarle/li senza aver ottenuto in realta per questo nessuna delega. Che possibilita ho io come cittadino/a della repubblica italiana di sottrar-mi alia proposta/imposizione di un partito, una scuola, un diritto, un seggio elettorale separati? Ci sara mai un giurista disposto a sostenere la mia causa di «cittadino neutro» di fronte alia Corte costituzionale? E se nel frattempo le teoriche della differenza fossero riuscite a metter mano anche alia costituzione per piegarla verso una cittadinanza diffe-renziata per sesso? Che faro io se in quella scelta non mi riconosco? Infelice me, biologicamente definita come donna e tuttavia decisa a definirmi sul piano giuridico come semplice cittadino... Non e uno scherzo, o non e uno scherzo del tutto. Secondo le teoriche di questo pensiero, la costituzione, un patto al quale le donne non avrebbe-ro partecipato in quanto tali e quindi a loro estranea, dovrebbe essere

rivista per farsi carico non del «superamento degli ostacoli che si frap- 11 pongono alia piena uguaglianza tra i cittadini» (come affermato nel suo articolo 3), ma, al contrario, della affermazione e valorizzazione della «differenza di genere». Di qui, probabilmente, risultati a cascata, nella vita politica economica e sociale. Rifiuto, tuttavia, di farmi schiacciare su questa «differenza». Con Hannah Arendt io penso ancora che «non rUomo ma gli uomini popolano il mondo» (e quindi non la Donna, ma le donne singole concrete diverse, ognuna singolo individuo). Resto fedele alia costituzione italiana, che secondo le femministe avreb-be il torto di essere «neutrale». Ma e proprio questa «neutralita» che mi protegge e garantisce, e nell'ambito di questa «neutralita» che possono venir tutelate tutte le differenze. Difendo le differenze, dentro un quadro giuridico il piii possibile neutrale. Se il pensiero femminista riuscisse a conseguire il suo obiettivo, avrem-mo un mondo spaccato in due, lungo una linea discriminante che rischia di ricondurre la donna alia fisiologia, al corpo, alia maternita, al potere riproduttivo. Questo mondo spaccato in due non mi place. Lo trovo tra I'altro in assoluta, totale contraddizione con una realta del tutto diversa, con una societa, per lo meno nel mondo occidentale, nella quale sono caduti progressivamente separazioni e divieti e in cui uomini e donne si vanno sempre piu mischiando per lavorare e vivere insieme. (Altro e il caso di alcuni paesi del Terzo mondo, a dominanza islamica.) Qui non c'e bisogno di dati: da almeno trent'anni(risale al 1963 la norma che consentiva I'accesso delle donne in magistratura)non esistono pi i , in Italia, professioni o mestieri o luoghi dai quali le donne siano escluse o assenti. Questo non significa naturalmente che i problemi legati alia condizione della donna siano risolti. Tutt'altro. Ma sta ad indicare una tendenza, di progressiva integrazione di mondi e capacita, che rifiuta I'ipotesi della separazione. Non capisco, ad esempio, I'entusiasmo con il quale e stata salutata, dair Unita, la costituzione a Milano, qualche mese fa, della prima sezione femminile del Pci. Tanto orgogliosamente femminile da non accettare il giorno della sua inaugurazione nemmeno la presenza di un giornalista (peraltro, era un giornalista dell' Unita). Per colmo di ironia, quella sezio­ne e stata intitolata a Teresa Noce, che fu un/una dirigente importante del Pci, ma che fu sempre contraria persino alia formazione delle cellule femminili nell'immediato dopoguerra. Ma mentre le cellule femminili erano state concepite come uno strumento per consentire alle donne di partecipare al dibattito politico partendo dalle loro specifiche esigenze e abitudini di vita e vincendo difficolta e arretratezze sociali tipiche dell'e-poca, la decisione di oggi viene presentata come un successo, una vitto-ria, una soluzione organizzativa stabile che riconosce ed esalta la diffe-renza di genere. (Questa formula organizzativa verra introdotta anche

12 nel nuovo partito della sinistra? E se si, sara obbligatorio aderire alle sezioni femminili?) Dalle sezioni separate al diritto separato. Un gruppo di giuriste milanesi e bolognesi, che rigorosamente si richiama al «pensiero della differen-za», va avanzando da tempo I'esigenza di un «diritto sessuato», di cui non mi e chiara la possibilita, ne la forma ne i contenuti. Uno dei principi-cardine di tale nuovo diritto dovrebbe essere I'iscrizione giuridica del cosiddetto «diritto alia inviolabilita del corpo femminile» (quasi quello maschile non fosse altrettanto degno di protezione). Nel caso dello stu-pro, ad esempio, mentre il diritto maschile sarebbe ispirato ad una nor-mativa «repressiva del reato a tutela dell'ordinate svolgersi del rapporto tra i cittadini», il diritto femminile dovrebbe preoccuparsi di garantire I'inviolabilita del corpo delle donne «attraverso la valorizzazione della genealogia femminile, la responsabilita della donna-madre verso il pro-prio sesso, quindi verso il sessp della donna stuprata, la sottrazione della solidarieta al figlio stupratore come espressione di autorita materna esercitata in nome del proprio sesso».

Confesso, di fronte a queste affermazioni, il mio totale sconcerto, la incapacita di capire di cosa veramente si tratti. Ad altri, dunque, piu capaci di me, il compito di capire condividere o contestare. La ipotesi di due logiche costitutive del soggetto maschile e di quello femminile induce anche alia critica delle classi miste nella nostra scuola. La battaglia per la coeducazione ha ormai quasi un secolo. Qui la propo-sta delle «femministe» e piii chiara. Ma e con disagio che una generazio-ne come la nostra, che ha ottenuto la abolizione delle classi femminili/ maschili e la cancellazione dei lavori pratici femminili/maschili (alle bambine I'ago per il punto a croce, ai maschietti chiodi e martello), si sente riproporre oggi una separazione delle classi in nome di una «didat-tica sessuata». II punto di partenza per una scelta cosi singolare che fa tabula rasa del lungo percorso uguaglianza-emancipazione e, natural-mente, I'assunzione della differenza sessuale come asse educativo. Nella classe mista, sostengono le promotrici di questa nuovissima pedagogia, si verifica una omologazione tra maschi e femmine, si trasmettono una cultura ed una lingua solo apparentemente neutri, in realta contrasse-gnati dal dominio del maschio. Nel contatto con i compagni di classe e con questa cultura (che va, immagino, dal teorema di Pitagora al Sabato del Villaggio), le bambine e le ragazze rischierebbero di perdere la loro identita femminile, nella sua irriducibile ontologica originalita, tutta da valorizzare attraverso un rapporto e una gerarchia rigorosamente fem­minili. (E chiaro infatti che a queste classi femminili avrebbero accesso solo insegnanti donne. Ahinoi, non sono passati molti anni da quando illustri pedagoghi ci dicevano essere stato un successo aver introdotto insegnanti uomini nelle scuole materne... Sic transit, con quel che segue.) Per nostra fortuna le sostenitrici della «pedagogia della differenza» sono un gruppo ancora minoritario, e tale mi auguro rimanga per molto tempo

ancora. Mi chiedo tra 1'altro come reagirebbero a questa proposta le 13 centinaia di migliaia di ragazze che frequentano le nostre scuole (dalle materne ai licei agli istituti professionali) in una allegra promiscuita con i loro coetanei, una promiscuita che si esprime anche nel linguaggio, nell'abbigliamento, nei divertimenti e nello sport esercitato in comune. Ma il «pensiero della differenza» non e alia ricerca di un consenso di massa. Non si pone il problema, lo ignora. Esso produce materiali estre-mamente raffinati sul piano filosofico, ma che mi appaiono straordina-riamente lontani dalle esperienze e dal vissuto quotidiano delle donne, da una analisi delle loro condizioni materiali. £ possibile che in questa divaricazione risieda una delle cause della lontananza delle donne dalla politica. (Gli uomini hanno prodotto I'infame politichese ma le femmini-ste hanno prodotto un linguaggio ancora piu astruso e incomprensibile.) lo tento di leggere, sia pure con grande fatica, quanto quel pensiero produce e alia fine, stremata, rinuncio e rifiuto. Se quel pensiero non parla a me, a chi parla? Per chi vengono prodotti questi testi raffinati e sapienti, quel seminari indicibili, quelle dotte ricerche? Le femministe parlano come una setta esoterica, legata da rituali e parole d'ordine solo a loro noti, cui altri o altre non hanno accesso. Sono diffidente, per istinto ed esperienza, nei confronti di qualsivoglia setta. Confesso che questa, composta di sole donne, in qualchejnomento mi fa persino paura. L'au-toreferenzialita chiude questo pensiero in se stesso, riduce la sua capaci-ta di comunicazione nei confronti del mondo delle donne, lo irrigidisce in teoria e ideologia separata. Sento in questo il pericolo dello spreco, inteso come dissipazione di energie e di intelligenze, ma sospetto anche, in questo, il vantaggio di una valorizzazione di genere. Su questo pensiero si consumano senza dubbio intelligenze e sensibilita, ma si costruiscono anche solidarieta e carriere financo a livello universitario, o vere e proprie lobby, col gioco della inclusione e della esclusione. Si e costruito su questo pensiero un nuovo ceto politico e scientifico dotato di prestigio ed autorevolezza, che produce ideologia anziche una concreta analisi della condizione femminile nel nostro paese. E possibile che proprio in questo eccesso di teoria, in questo farsi ideo­logia, sia da ricercare la causa del fallimento pratico dell'azione delle donne parlamentari in questa legislatura, nonostante il notevole impe-gno personale di tante deputate. Sta di fatto che una legislatura che era stata salutata, per il grande numero di elette, come un successo del pensiero e della pratica femminista, si awia alia conclusione senza avere ottenuto nemmeno I'approvazione di quella legge sulla violenza sessuale che pure era stata uno degli impegni essenziali nel corso della campagna elettorale. La modestia dei risultati ottenuti in sede parlamentare puo spiegarsi anche come conseguenza di un modo di concepire le istituzioni che, secondo il pensiero della differenza, sarebbero del tutto estranee al

14 genere femminile. Se il parlamento e una macchina estranea alia diffe-renza (e viceversa) allora non e importante quello che si puo ottenere nella singola legislatura, ne la singola legge (sia essa quella suUa violenza sessuale o quella sui tempi), ma il fatto invece che quella legge rappre-senti in modo evidente un inciampo, un ingorabro che porti alia luce e renda clamorosa la differenza di genere. In questa concezione il risultato dell'azione politica e parlamentare e secondario, mentre e essenziale il manifestarsi dell'antagonismo, dell'alterita in una sede (il parlamento) falsamente «neutrale». Per dirla in termini piii banali e il prevalere della propaganda suUa battaglia politica, il «tutto o niente», il rifiuto della mediazione e della contrattazione. Anche qui sento un'eco di posizioni che furono proprie, agli esordi, del movimento operaio, poi superate, fortunatamente, con il tempo e la elaborazione di una posizione politica piii matura. II «pensiero della differenza» non e certo pero un pensiero immature. Tutt'altro. Esso si awale di strumenti filosofici assai sofisticati. La sua estrema finezza rende in realta difficile la contestazione e la polemica, il che rappresenta in qualche modo un suo vantaggio. La sua stessa oscuri-ta lo protegge e gli conferisce autorevolezza. Ma quando questo pensiero elabora posizioni e proposte politiche, allora certamente e possibile e necessario discuterne con maggiore tranquilli-ta. Si va qui dalla politica delle «quote» alia critica femminista della rappresentanza, fino alia proposta, solo apparentemente bizzarra, di seggi e coUegi e liste separate per le donne. Di questo si dovra tornare a parlare. La politica delle «quote», nei partiti come nelle istituzioni, e le iniziative per le «pari opportunita», possono essere valutate infatti alia stregua di uno strumento di rottura (magari a tempo), per garantire un incremento della rappresentanza femminile ed evitare discriminazioni a danno delle donne (in questo senso la politica delle «quote» e le iniziative per le «pari opportunita» possono inserirsi anche all'interno di una concezione «emancipazionista» del movimento). Ma il «pensiero della differenza» porta a sostegno della politica delle «quote» argomenti di-versi, soprattutto quando insiste sul fatto che le donne e solo le donne possano rappresentare le donne. Non mi sembra accettabile ne da conse-guire I'obiettivo della connaturalita tra rappresentante e rappresentato. (Lasciamo stare il fatto che questa posizione contraddice vistosamente la nostra costituzione, obiezione che — come dicevo prima — non ha nessun peso per le femministe, che ritengono la stessa costituzione loro estranea). La proposta, recentemente avanzata da un membro della segreteria del Pci, di organizzare seggi, coUegi e liste separate per sesso, e apparsa quasi come una «bizzarria». Ma tale non e, e il fatto che ad avanzarla sia stato un dirigente politico di rilievo del Pci e non una donna, prova soltanto I'egemonia che il «pensiero della differenza» si e conquistato all'interno del Pci. Ed e proprio questo che desta in noi qualche preoc-

cupazione, se dobbiamo immaginare o pensare che questo «pensiero» e 15 le sue norme prescrittive vengano travasate direttamente nel nuovo par-tito di cui il Pci propone la formazione. E pur vero che il dibattito suUa «Cosa» ha diviso le dirigenti e le militanti del Pci, il che dimostra, se non altro, che la identita di genere non esaurisce certo le differenze possibili. Ma e anche vero che, airinterno dei singoli gruppi che si rifanno alle mozioni congressuali, le donne garantiscono tuttavia, pur nella diversita delle scelte politiche immedia­te, il mantenimento del «pensiero della differenza» in modo quasi do-gmatico. A chi, come me, si rifa ad una del tutto diversa concezione del problema uomo/donna e della battaglia politica, non resta quindi che augurarsi che, nella nuova formazione politica, nella «Cosa», non divenga articolo di fede il «pensiero della differenza». Non vorrei trovarmi, in virtu di questo pensiero, relegata, nel nuovo partito a cui credo, in una sorta di gineceo, che preveda o imponga luoghi separati di dibattito, di studio, e magari di vote.