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L’ae ESPRESSIONE DELLA CREATIVITÀ DELL’INDIVIDUO E TERAPIA DEL DISAGIO PSICHICO AA.VV. a cura di Anna Maria Ferilli

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L’arteESPRESSIONE DELLA CREATIVITÀ DELL’INDIVIDUO E TERAPIA DEL DISAGIO PSICHICO

AA. VV. a cura di Anna Maria Ferilli

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ISBN 978-88-89984-23-9

© 2010 - CSV Centro di Servizio per il Volontariato della Provincia di Padovavia dei Colli, 4 - 35143 Padovatel. 049 8686849 - 049 8686817fax 049 8689273www.csvpadova.org - [email protected]

COLLANA ELEMENTIDirezione editoriale: Alessandro LionImpostazione grafica e impaginazione: Anna Donegà

Finito di stampare nel mese di luglio 2010 presso PrintHouse - Albignasego

Tutti i diritti sono riservati

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Indice

Prefazione p. 5

PARTE I1. La Creatività 1.1 Introduzione p. 9 1.2 Lo sviluppo del concetto di creatività nel tempo p. 10 1.3 Teorie psicologiche sulla creatività p. 12 1.4 Creatività e ambiente p. 20 1.5 La personalità creativa p. 23

2. L’Arte 2.1 Introduzione p. 35 2.2 Arte ed espressione del mondo interiore p. 36

2.3 L’arte come mezzo di espressione non verbale: breve analisi storica

p. 38

2.4 Arte-terapia come percorso riabilitativo p. 40

PARTE II3. Disagio e follia nelle diverse manifestazioni dell’arte: analisi di alcune opere 3.1 Introduzione p. 44 3.2 Pittura e follia p. 46 3.3 Funzione terapeutica della pittura p. 55 3.4 Poesia e follia p. 58 3.5 La follia e la poesia attraverso profili di alcuni poeti del 1900

p. 64

3.6 Un’analisi del disagio psicologico di alcuni autori della letteratura italiana del 1800

p. 75

3.7 Funzione terapeutica della poesia p. 84 3.8 Danza e follia p. 88 3.9 Funzione terapeutica della danza p. 92 3.10 Teatro e follia p. 96

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3.11 Il fool in Shakespeare tra marginalità e saggezza p. 105 3.11.1. La follia in epoca elisabettiana p. 105 3.11.2 Pazzia reale e pazzia simulata p. 106 3.11.3 Il fool nelle opere di Shakespeare p. 107 3.12 La follia attraverso le opere di Luigi Pirandello p. 119 3.13 Funzione terapeutica del teatro p. 123 3.14 Musica e follia p. 134 3.15 Schumann e la follia p. 141 3.16 La funzione terapeutica della musica p. 146

4. Un’esperienza di coinvolgimento di soggetti psichiatrici in attività artistiche

4.1 Introduzione p. 1534.2 Il Centro Sociale di Animazione e Formazione al

servizio del paziente psichiatrico p. 154

4.3 Un tentativo di sperimentazione terapeutico – riabilitativa del Centro Sociale di Animazione e Formazione – ULSS 16 di Padova

p. 156

4.4 Comoedia: un breve viaggio attraverso la vecchia e la nuova psichiatria. Perché uno spettacolo sulla Divina Commedia

p. 158

4.4.1 Note di regia sullo spettacolo p. 162 4.4.2 Osservazioni p. 174 4.5 Attività di laboratorio per la realizzazione dei vari costumi, oggetti di scena e scenografie

p. 175

Appendice - Diamo voce alle emozioni p. 180

Postfazione Interventi di: Presidente associazione A.I.T.Sa.M., Presidente CSV provinciale di Padova, Direttore generale Ulss 16 Padova, Direttore Servizi Sociali Ulss 16 Padova

p. 210

Elenco degli autori e di quanti hanno offerto il loro gradito contributo

p. 216

Ringraziamenti p. 218Bibliografia p. 220

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Espressione della creatività dell’individuo e terapia del disagio psichico

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PREFAZIONE

La creatività può esprimersi in modi e a livelli diversi, ma non sempre diventa vera “arte”. La sua efficacia, infatti, dipende da vari fattori: dal grado di intelligenza e dalla sensibilità dell’individuo, dalle sue capacità di introspezione e di estrinsecazione delle sensazioni e dei sentimenti, dai mezzi espressivi a lui più congeniali come la musica, la danza, la pittura, la scultura, la letteratura nelle sue varie forme (prosa, drammatizzazione, poesia).La creatività dell’uomo, in alcuni casi, è così elevata che può divenire genialità e quest’ultima, talvolta, può esprimere un sentire così intenso e profondo da sfociare anche nella follia.La follia, sintomo di disagio psicologico e sociale, porta generalmente al distacco dalla realtà, all’annullamento di sé, all’alienazione da desideri ed affetti e talvolta al suicidio.Nel genio, in virtù delle capacità rare e intuitive, che gli consentono di esprimersi in maniera unica, originale e versatile, la follia subisce un processo di sublimazione, che lo porta a produrre delle opere creative e, in tal modo, a trovare un supporto alla sofferenza e al disagio. Per il genio, quindi, l’arte e la creatività diventano quasi sem-pre il mezzo per superare il malessere psichico che le prove della vita, accentuate in modo estremo da una sensibilità e da una emotività particolarmente intensa, hanno generato in lui.Mentre l’uomo fragile, di fronte alle avversità, spesso, non ri-uscendo a reagire, si aliena dalla realtà, al contrario il “genio” riversa nell’arte le sue pene, le sue sofferenze, il suo disagio. Si può dire che l’artista muoia nelle sue opere, perché, tra-sfondendo in esse tutto il suo sentire, tutte le sue angosce, riesce a sublimare il dolore esorcizzandolo, per uscirne quasi purificato, fortificato e con questo in grado di affrontare me-glio gli aspetti più negativi della vita.

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L’arte diviene così veicolo, mediante il quale l’individuo può esprimere col suo linguaggio la propria logica, la propria espressività ed il proprio mondo interiore cercando di renderlo, in parte, comprensibile e condivisibile. Spingersi al di là del confine, oltre il quale senso e razionalità non hanno dimora, è quasi sempre esclusivo diletto del “fol-le”: è accostandosi a lui che si può iniziare a comprendere il suo stato di sofferenza. Sofferenza che intrappolata in un corpo incapace di esternare sentimenti ed emozioni in ma-niera convenzionale, combatte contro un mondo estraneo che sente ostile.Risulta importante per il terapeuta, perciò, limitare l’ostacolo dell’incomunicabilità tra paziente e mondo esterno, agendo sulla realtà circostante, sull’adattamento sociale, sul pregiudi-zio, sulla relazione interpersonale e intrapersonale, sul conte-sto e sull’incontro-scontro tra follia e normalità.L’obiettivo diviene, dunque, non tanto il recupero totale della persona, bensì, in modo più realistico, la possibilità di migliorarne la qualità della vita. Scopo ultimo è restituire dignità e valore ad ogni individuo all’interno di una società che tende ad emarginare il diverso piuttosto che valorizzarlo e comprenderlo. Da tali premesse è nata l’esperienza del Centro Sociale, di seguito presentata nel testo, che utilizza varie forme artistiche per consentire al soggetto psichiatrico di divenire parte attiva nel recupero della propria condizione di disagio. Attraverso il teatro, la danza, la musica e le arti figurative, il “folle” ha la possibilità di far emergere la sua voce ed affermarsi come attore e protagonista di un messaggio di cultura, integrazione e cambiamento.

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Capitolo 1

LA CREATIVITÀ

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1.1 Introduzione

Il termine creare racchiude in sé diversi significati che, a seconda delle diverse derivazioni etimologiche, comprende i concetti di creare, crescere, fare, produrre, compiere, fare dal nulla, educare, ammaestrare, allevare e istituire.1

Il termine creatività usato, intorno alla fine del XIX secolo, inizialmente in maniera quasi esclusiva nel linguaggio speciali-stico, col passare del tempo raggiunge diversi ambiti, quali la moda, l’artigianato, l’arte culinaria, la floricoltura, l’educazio-ne, la relazione di coppia. Lo si ritrova anche nella definizione di diverse professionalità.Oggi tale termine implica il concetto di originalità ed effica-cia.La creatività, infatti, consiste nella capacità di generare intui-zioni, che possono essere applicate in vari ambiti, dall’arte alla tecnologia, alla scienza etc.È proprio grazie alla creatività che l’uomo ha prodotto cultura e progresso, sviluppando nuove conoscenze e realizzando un graduale miglioramento della qualità della vita.Da un punto di vista generale il termine creatività fa riferi-mento alla capacità di creare, anche se risulta difficile chiarire univocamente il significato di tale vocabolo. La parola cre-atività, infatti, prestandosi ad interpretazioni plurime, viene usata per fini discordanti e in ambiti differenti. Proprio a tal riguardo P. Matussek2 fa notare come in occasione di un congresso scientifico vennero suggerite quasi 400 diverse accezioni del concetto di creatività. Tra i vari significati attribuiti a tale vocabolo, quelli che ricevettero

1 Cfr. Ottorino Pianiggiani, Vocabolario etimologico della lingua italiana,Fratelli Melita Editori, Trento, 1990.2 P. MATUSSEK, Kreativität als Chance, Piper, München-Zürich, 1974 (trad. it. Creatività come chance, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1976).

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un maggiore risalto furono: intuizione fuori dall’ordinario, originalità, disvelamento e scoperta.Una tra le definizioni più soddisfacenti, invece, risulta es-sere quella dell’illustre studioso francese Henri Poincaré (1854/1912) che, in qualità di matematico, fisico teorico e filosofo, nel suo libro “Scienze e Metodo”3 sostiene che l’invenzione creativa è data dalla combinazione di elementi preesistenti, ma disorganizzati, che vengono successivamente ricombinati in maniera ordinata in modo da generare nuove unità significative. Tuttavia solo alcune di esse daranno vita alla produzione creativa, ovvero le più feconde, originali e rare.Occorre precisare che la produzione creativa si realizza come intuizione improvvisa, frutto di un lungo lavoro a livello inconscio che, per non rimanere sterile e infruttuoso, deve necessariamente essere supportato da un’attività cosciente.Dal livello inconscio emergeranno infatti solo le creazioni utili e belle nel loro insieme, mentre le molteplici combinazioni, che risultano poco interessanti e quindi esteticamente poco significative, non emergeranno mai alla coscienza.

1.2 Lo sviluppo del concetto di creatività nel tempo

Il processo creativo, come scrive Chasseguet Smirgel (1971), pur avendo sempre suscitato forte ammirazione e curiosità, per secoli è stato addebitato alla follia o alla provvidenza divina, apparendo un enigma indecifrabile. Nel nome di una tradizione che affonda le proprie origini nel pensiero ari-stotelico, l’uomo non era ascrivibile all’ordine naturale delle

3 H. POINCARÉ, Scienza e metodo, ed. italiana a cura di C. Bartocci, Einaudi, Torino, 1908.

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cose. Seppure i processi corporei dell’individuo potevano ri-farsi alle leggi naturali, comunque la volontà e la ragione non vi erano assoggettate. Allora, l’unica creazione concepibile poteva essere soltanto quella divina, perché l’uomo poteva esclusivamente scoprire. L’idea che l’individuo potesse rive-larsi creativo sia nelle azioni che nel pensiero veniva reputata sacrilega.Nel Medioevo, in particolare, il processo creativo umano veniva inteso come mera esteriorizzazione di virtù proprie di entità spirituali, di cui l’uomo attraverso le sue attività si faceva portavoce ed interprete. Visione quest’ultima mutata radicalmente in epoca Rinascimentale, dove la creatività, sle-gatasi da ogni qualità divina e sovrannaturale e riconosciuta come peculiarità strettamente umana, diventa forza promo-trice di un periodo fiorente e altamente produttivo sotto il profilo artistico.Nell’Ottocento il concetto di creatività, considerata in una nuova accezione, è messa in relazione alla patologia mentale: genio e follia si compenetrano.L’estro rivoluzionario, l’esorbitanza del genio creativo, che sovverte il precostituito per generare dal nulla e che si discosta dalla norma per mutare la società, appare comune a quello del folle, del deviante, dello psicopatico.Soltanto con l’avvento del XX secolo si giunge all’odierna concezione secondo cui ogni persona è potenzialmente capace di realizzare autentici atti creativi.Al giorno d’oggi, come afferma Brambilla,4 infatti la creatività non viene più considerata un fenomeno sovrumano, raro o straordinario, bensì una prerogativa di tutti, un requisito proprio dell’umanità, che può essere coltivato, arricchito e potenziato.

4 Rif: D. BRAMBILLA, Introduzione alla creatività, http://www.nume.it/creatività

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Essa viene sempre più incentivata, sia attraverso la messa in atto di strategie didattiche e specifici corsi di formazione e/o perfezionamento, sia per mezzo di pubblicazioni scientifiche, tecniche e di settore, quali libri, periodici e riviste, atti a promuoverne la diffusione.

1.3 Teorie psicologiche sulla creatività

La ricerca psicologica che è stata condotta sulla creatività è ricca di angolature difformi. Prendendo in esame i processi psicologici di base che contraddistinguono e qualificano la creatività, C. Trombetta5 ritiene che ci si possa riferire sia al pensiero creativo, sia alla persona creativa.A. Beaudot6, analizzando le ricerche americane dedicate all’argomento, ne distingue tre diversi filoni: il primo, impo-stato sulla ricerca psicometrica e rappresentato da J. P. Guil-ford, si prefigge di determinare la creatività con misurazioni obiettive, proponendo reattivi mentali in grado di esplicitare le peculiarità e i tratti che contraddistinguono le personalità creative; il secondo filone, che fa capo a F. Barron,7 compren-de le ricerche volte a definire i tratti specifici delle perso-nalità riconosciute, a livello sociale, come creative. Questo secondo indirizzo, per A. Beaudot, conferendo rilievo alla personalità, assegna alla creatività una preminenza maggiore rispetto al filone di indagine psicometrico, tuttavia, seppur rivelando la presenza di tratti specifici e distintivi di creatività, non giunge ad una dimostrazione del fatto che un preciso

5 C. TROMBETTA, La Creatività, Bompiani, Milano, 1990.6 A. BEAUDOT, La créativité, recherches américaines, Bordas-Dunod, Paris, 1973 (trad. it. La creatività. Ricerche americane presentate da Alain Beaudot, Loescher Edizioni, Torino, 1977).7 F. BARRON, Creatività e Libertà nella Persona, Astrolabio, Roma, 1971.

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individuo, che ha tali tratti specifici, sarà in grado di produrre atti creativi. Infine l’ultimo filone preso in esame dallo studioso interessa tutte quelle ricerche che si occupano dell’incremento e dello sviluppo della creatività durante l’infanzia e l’adolescenza. E. P. Torrance8 è il ricercatore più significativo di questo indirizzo. All’interno della classificazione relativa alle teorie psicologiche sulla creatività si possono individuare e distinguere teorie psicologiche generali e teorie psicoanalitiche.Le teorie psicologiche generali, ascrivibili al campo della psicologia, si propongono di elicitare i meccanismi fondamentali di ogni processo creativo.S. Arieti9 fa notare che, al fine di comprenderlo in modo più specifico, molti studiosi hanno scisso il processo creativo in vari stadi, i quali sono stati poi analizzati uno per uno.Il fisiologo tedesco H. Von Helmholtz10 ed il matematico fran-cese H. Poincaré11 furono i primi ad applicare tale metodo-logia. Occupandosi entrambi della creatività propria dell’am-bito scientifico, si prefissero di scomporre ed esaminare il susseguirsi dei diversi livelli di intuizione e di pensiero che conducono l’ideatore alla realizzazione del prodotto crea-tivo.

8 E.P. TORRANCE, Guiding Creative Talent, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, N.J., 1962.9 S. ARIETI, Creativity. The magic synthesis, Basic Books, Inc., Publishers, New York, 1976 (trad. it. Creatività. La sintesi Magica, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1979).10 H.VON HELMHOLTZ, Vorträge und Reden, Vieweg und Sohn, Braunrweig, (5 ed.), 1896.11 H. POINCARÉ, Mathematical Creation, The Foundation of Science, The Sci-ence Press, Lancaster, 1913 (trad. it. La creazione matematica, Il valore della scienza, La Nuova Italia, Firenze, 1947).

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Helmholtz, distinse il susseguirsi di tre fasi che caratterizzava-no le sue attività lavorative: un’indagine protratta finché non era più possibile proseguirla, un intervallo di pausa e ripresa, l’accendersi di una repentina intuizione inattesa. H. Poincaré, riprendendo la segmentazione proposta da Helmholtz, vi ag-giunse una quarta fase, successiva a quella dell’illuminazione, consistente in un coscienzioso impegno a convalidarla.Nel 1926 G. Wallas12 riprese nei propri lavori le fasi già individuate da Poincaré, articolandole in cinque punti:

la • preparazione, che consiste in un momento introduttivo in cui il soggetto vaga con la mente, raccoglie i dati, cerca e ascolta suggerimenti;l’• incubazione, che consiste in una elaborazione incon-sapevole del materiale raccolto durante la fase prece-dente e la cui durata può oscillare da alcuni minuti ad alcuni mesi e persino ad alcuni anni; l’• illuminazione, la quale risulta essere l’attimo in cui la persona creativa intuisce la soluzione del problema. Essa è un vero e proprio insight;la • verifica, che conclude la sequenza di gradi o stadi proposta da Wallas. Secondo l’autore si tratta di una fase necessaria perché la soluzione possa superare la valutazione critica del pubblico.

L’autore a queste quattro fasi aggiunge una sub-fase, detta intimation (annuncio), che spesso si colloca prima dell’illu-minazione, e consiste nella percezione da parte dell’individuo di essere vicino alla soluzione. Proseguendo in questo excursus sulle teorie psicologiche generali inerenti la creatività, è necessario segnalare che, se da una parte vi sono autori che segmentano il processo creativo in differenti stadi e livelli, dall’altra vi sono studiosi che non concordano con tale ripartizione, preferendo spostare il

12 G. WALLAS, The Art of Thought, Harcourt, Brace, New York, 1926.

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fulcro della questione su altre tematiche.A quest’ultimo gruppo appartiene Vinacke,13 il quale, valu-tando alcune produzioni creative e riferendosi specialmente alla pittura, ritiene che dal primo abbozzo del disegno fino alla conclusione avvenga una successione continua di illumi-nazioni. Inoltre, per Vinacke, l’incubazione persiste con moda-lità difformi durante tutto lo svolgimento creativo e non può, quindi, compiersi solo ad un determinato livello del processo. Nell’attuazione del procedimento creativo, la ripartizione in diversi gradi può essere mantenuta esclusivamente a livello ipotetico, giacché vi è un incessante susseguirsi ed accaval-larsi dei differenti stadi che lo caratterizzano. Vinacke non ritiene fondamentale la mera classificazione di essi, poiché conferisce maggior rilevanza alla comprensione di quanto si realizza all’interno di ognuno: per lui, l’intento fondamentale degli studi sulla creatività, dovrebbe essere l’individuazione delle peculiarità che consentono la discriminazione del pro-cesso creativo da qualsiasi altra attività mentale impiegata nel “problem solving”. Rilevante si è dimostrato anche il contributo fornito da J.P. Guilford,14 che con i propri lavori ha offerto un decisivo impulso alla ricerca. Dopo aver presentato parecchie ipotesi sull’essenza delle capacità creative, l’autore si è proposto di identificare i tratti essenziali della creatività. Egli sostiene che il pensiero sia ripartibile in cognizione, memo-ria, valutazione e produzione. Soprattutto quest’ultima gioca un ruolo determinante nel processo creativo e può manifestarsi tanto nel pensiero convergente, quanto nel pensiero divergente. Il pensiero convergente si manifesta di fronte a problemi che richiedono una singola soluzione, usa la logica, la razionalità, la deduzione e utilizza regole prestabilite e in precedenza

13 W.E. VINACKE, The Psychology of Thinking, McGraw Hill, New York, 1952.14 J.P. GUILFORD, Creativity. The American Psychologist, 5,444-454, 1950.

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apprese (è caratteristico del pensiero matematico). Il pen-siero divergente, invece, è un tipo di pensiero creativo e non convenzionale che, superando la soluzione originaria, dà la possibilità di pervenire a più alternative: flessibilità, originalità e fluidità sono le sue peculiarità essenziali.Le caratteristiche salienti della creatività risiedono, secondo l’autore, proprio nel pensiero divergente.Anche Wertheimer15 approfondì lo studio della parte pro-duttiva del pensiero, rifacendosi però al principio gestaltico secondo cui il pensiero produttivo, alla stregua di qualsiasi al-tro meccanismo intellettivo, non può essere scisso in singoli elementi, in quanto verrebbe meno l’essenziale, ma dev’esse-re visto nella sua totalità.Wertheimer ritiene che lo svolgersi del processo creativo avvenga attraverso il transito da una situazione precaria e de-ficitaria ad una condizione nuova che, colmando delle lacune, dà origine ad una migliore visione globale.Oltre a ciò l’autore parla di un altro procedimento che con-traddistingue il processo creativo, successivo a quanto è sta-to appena descritto, che consiste nell’abilità dell’individuo creativo di cogliere la soluzione finale, a partire dalle sin-gole qualità, di per sé esigue e insufficienti. Tale meccanismo non si fonda sulla semplice individuazione della relazione tra gli elementi, ma si articola attraverso la ricerca della natura dell’interconnessione tra essi.In ambito psicodinamico molti autori hanno indagato sugli aspetti più intimi che spingono il soggetto alla messa in atto di un processo creativo. Alcuni di essi hanno interpretato la creatività in chiave “psicopatologica”, quale risultato di una sublimazione dei conflitti intrapsichici; altri, invece, hanno ri-conosciuto alla creatività una funzione stabilizzante nel per-corso evolutivo dell’individuo.

15 M. WERTHEIMER, Productive Thinking, Harper, New York, 1945.

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Tra i primi ritroviamo senza dubbio il padre della Psicoanalisi, Sigmund Freud, grazie all’apporto del quale, secondo Chasseguet-Smirgel,16 decadde quella visione ottocentesca, di stampo romantico, che intendeva la creatività come una dote esclusiva dell’artista. La creatività iniziò, quindi, ad essere considerata un potenziale insito in ogni persona, una qualità presente nell’intera umanità. Freud contribuì allo studio della creatività ribadendo il valore della motivazione inconscia e focalizzando la questione del processo creativo sul concetto fondamentale di sublimazione. Freud sosteneva, infatti, che la creatività è una reazione co-struttiva ad un desiderio sessuale rimosso nell’infanzia, che nel momento in cui riemerge alla coscienza, se incanalato verso mete positive, protegge l’individuo dalla patologia. È in-fatti grazie alla sublimazione che vengono messe in atto delle dinamiche, che danno origine a condotte creative e quindi socialmente accettate.Rimanendo nell’ambito della scuola freudiana, P. Greena-cre17 crede che l’Io del futuro artista possa disgiungersi e dissociarsi dagli oggetti reali, aprendosi così ad una relazione affettiva con il mondo esterno. Per Greenacre, il bambino che esibisce potenzialità e capacità artistiche sperimenta una dilatazione dell’esperienza, la quale risulta essere dovuta ad un’accresciuta e inusuale sensibilità nei riguardi della stimo-lazione sensoriale.

16 J. CHASSEGUET-SMIRGEL J, Creativity and perversion, Free Association Book, London, 1971 (trad.it. Creatività e perversione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1987).17 P. GREENACRE, The Childhood of the Artist – Libidinal Phase Development and Giftedness. Psychoanalytic Study of the Child 12: 47–72, 1957.

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Per quanto riguarda il punto di vista dei teorici delle Rela-zioni Oggettuali, Melanie Klein18 ha, senza dubbio, fornito un importante apporto all’analisi della creatività e dell’inibizione creativa.L’autrice sostiene che il bambino, sin dai primi mesi di vita, è sottoposto a pulsioni libidiche e fantasie distruttive, indiriz-zate verso l’“Oggetto d’Amore”.In una fase successiva dello sviluppo, in seguito a tali pulsioni distruttive, egli sperimenta un senso di colpa e di rimorso, che lo fa entrare nella fase che l’autrice definisce “depressi-va”. Per M. Klein, quindi, all’origine della creatività ci sareb-be la tendenza del bambino a riparare dentro e fuori di sé l’”Oggetto d’Amore”, che nella propria immaginazione viene vissuto come distrutto. L’angoscia, che scaturisce dall’ambi-valenza e dalla paura di essere stato egli stesso ad annientare l’oggetto amato, porta il bambino al senso di colpa. A questo punto, per allontanare l’angoscia depressiva, egli sente l’esi-genza di riparare ciò che ha distrutto.Se tale fase viene elaborata con successo l’Io del bambino ne uscirà fortificato e maturo ed egli inizierà a differenziare tra realtà esterna e fantasia. Se, al contrario, la fase depressiva non dovesse essere superata ne conseguirebbe un Io fragile ed il bambino, continuando a vivere nell’angoscia della per-dita dell’oggetto amato, avrebbe uno scarso rapporto con la realtà.La creatività dunque, secondo l’autrice, deriva dall’integrazio-ne tra pulsioni libidiche e distruttive e dalla capacità del bam-bino di introiettare l’oggetto amato con la fiducia di riuscire a ripararlo qualora sia stato distrutto.

18 M. KLEIN, The psycho-analysis of children (A. Strachey, Trans.). R. Money-Kirle (Ed.), The writings of Melanie Klein (Vol. 2). Free Press, New York, 1932.

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Le concezioni introdotte dalla Klein sono state riprese ed ampliate da H.Segal:19 anche per questa studiosa la capacità di creare è propria della fase depressiva e discende da una serena risoluzione di essa. In realtà, per Segal, ogni produzione creativa è concepibile come una ri-produzione di un oggetto che in un’epoca precedente era amato e totale e che, invece, successivamente si è trovato ad essere smarrito e danneggiato. La produzione creativa risulta, quindi, essere, per colui che la realizza, sia la modalità più appagante attraverso cui riuscire a mitigare il dolore derivante dalla posizione depressiva, sia l’occasione per ri-costruire i propri oggetti interni demoliti.Secondo la Segal, la buona riuscita dell’artista si ingenera, quindi, dalla propria capacità di identificare ed esprimere tan-to le proprie fantasie, quanto le proprie angosce depressive. Ancora l’autrice ritiene che il fruitore che contempla la rea-lizzazione artistica potrà ri-vivere inconsapevolmente l’espe-rienza provata dal creatore, spartendone con questi tanto la gloria quanto il futuro distacco che opererà da essa. Anche Jung,20 come Freud e gli autori postfreudiani, ha dato un contributo importante allo studio della creatività. Per il padre della psicologia analitica, lo sviluppo della creativi-tà avviene attraverso il Modo Psicologico e il Modo Visionario. Nel primo caso il soggetto crea facendosi guidare dalla par-te cosciente della mente e dai propri vissuti; nel secondo caso, invece, è guidato dall’Inconscio Collettivo, ossia da quel patrimonio ereditario ed innato di informazioni (archetipi) universalmente condivise che l’uomo possiede in quanto fa-cente parte di una collettività.

19 H. SEGAL, Un approccio psicoanalitico all’estetica, Scritti psicoanalitici, Astrolabio, Roma, 1951.20 C.G. JUNG, The Archetypes and the Collective Unconscious, Collected Works, Pantheon, New York, 1959.

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Tra gli autori, invece, che interpretano la creatività come una manifestazione di un sano sviluppo dell’individuo troviamo D.W. Winnicott.21

Egli sottolinea l’importanza che il gioco riveste nello sviluppo dell’individuo ed identifica in esso il momento in cui ciascuno riesce a dar sfogo alla creatività, ad esprimere con spontaneità e disinvoltura la propria personalità e al contempo scoprire parti sconosciute di sé.

1.4 Creatività e ambiente

Gli studi sinora condotti sulla creatività hanno dimostrato che in precise epoche storiche e in specifiche regioni geo-grafiche si trovano delle personalità creative, che talvolta rie-scono ad approdare alla genialità. Al di là delle possibili cause biologiche e intrapsichiche, si può sostenere che esistono caratteristiche esogene ed ambientali che hanno un ruolo di rilievo nella rivelazione del processo creativo. Ciò induce a pensare, quindi, che la creatività non costituisce un avveni-mento fortuito, ma che piuttosto è favorita ed incentivata da determinate cause estrinseche. Nel corso della storia dell’uomo, infatti, si è riscontrato come l’ambiente esterno abbia, a volte, ostacolato degli individui che possedevano le doti per poter diventare geni, rispetto a casi in cui determinate condizioni socio-culturali hanno inve-ce favorito lo sviluppo della creatività del soggetto. Pertanto, si può concludere che, se l’ambiente non offre determinate e adeguate opportunità e condizioni socioculturali tali da fa-cilitare la creatività, molti individui, anche se dotati e poten-zialmente candidabili a livello di genio, non svilupperanno mai tale capacità.

21 Winnicott D.W. Gioco e realtà, Armando Editore, Roma,1974.

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Prendendo in esame gli ambiti culturali, che hanno incentivato e favorito il disvelarsi della creatività, si può con particolare riguardo e interesse citare quello ebraico. Il fenomeno della creatività fra gli ebrei è da ricondurre all’ondata rivoluzionaria del 1848, che stimolò questa popolazione alla conquista della parità dei diritti umani ed avviò un processo di emancipazione, che favorì, in diversi settori, l’emergere di personalità creative.In ambito psichiatrico si afferma S. Freud; in quello della fisica A. Einstein, che, nel 1921, fu Premio Nobel; nel campo delle arti figurative spiccano i nomi di A. Modigliani e M. Chagall, in quello della filosofia e dell’economia K. Marx, in quello della musica A. Schönberg.Arieti definisce Creativogeniche tutte quelle culture che, più delle altre, hanno promosso ed incentivato la creatività. Al fine di incoraggiare un’atmosfera propositiva e benevola nei confronti della creatività, la società dovrebbe mostrare specifici attributi, esplicitati da Arieti22 attraverso Nove Fattori Socioculturali e Creativogenici:

possibilità d’uso delle risorse culturali;1. ricettività nei confronti degli input culturali;2. esaltazione non solo dell’essere ma soprattutto del 3. divenire;opportunità per tutti i cittadini, senza disparità e 4. differenziazioni di sorta, di accedere liberamente alle possibilità culturali;libertà;5. possibilità di conoscere input culturali dissimili e 6. discordanti;

22 S. ARIETI, Creativity. The magic synthesis, Basic Books, Inc., Publishers, New York, 1976 (trad. it. Creatività. La sintesi Magica, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1979) (op. cit.).

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comprensione, disponibilità e trasporto nei confronti 7. delle opinioni differenti;influenza, scambio e reciprocità tra persone che 8. hanno un certo rilievo, che, secondo Arieti, dovrebbe soprattutto avvenire per mezzo delle produzioni di ognuno;distribuzione di ricompense ed incentivi;9.

Per Arieti solo il primo di questi caratteristici fattori risulta avere un ruolo sostanziale nel definire la creatività, mentre gli altri hanno solo un’influenza facilitante. Continuando l’analisi, l’autore sottolinea che durante l’infan-zia e l’adolescenza è molto importante appoggiare e inco-raggiare la predisposizione alla creatività e suggerisce alcune condotte e disposizioni che dovrebbero essere adottate an-che dai sistemi educativi.La capacità di stare solo è la prima di tali condotte: chi riesce infatti a stare solo, non essendo continuamente bersagliato da usuali stimoli esterni, ha una maggiore possibilità di pre-stare attenzione al proprio mondo interno e di giungere così ad una migliore capacità introspettiva. È importante precisare che tale capacità, così intesa, non è sinonimo di solitudine o isolamento, ma consiste piuttosto in un’analisi interiore ed in una riflessione su se stessi. La seconda attitudine indicata dallo studioso come favorente la creatività è l’inattività, concepita come l’opportunità per accrescere le proprie qualità interiori. La terza caratteristica descritta è la fantasticheria che, pren-dendo le distanze dalle leggi del ragionamento e della logica, può condurre a prospettive di sviluppo inattese. Il quarto importante elemento facilitatore di creatività è co-stituito dal ricordo e dalla ripetizione interiore dei conflitti trau-matici passati: infatti se un conflitto risulta essere irrisolto o

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risolto in parte può tornare alla mente come episodio fami-liare e vissuto con distacco. In tal caso può essere incanalato per dare origine ad un prodotto creativo.Un ulteriore requisito per lo sviluppo della creatività è l’in-genuità, intesa come l’inclinazione a considerare, fino a pro-va contraria, l’esistenza di un fattore che, tanto dentro di noi quanto all’esterno, unisce con criterio i diversi eventi tra loro. Gli ultimi requisiti necessari a favorire la creatività sono la vivacità e la disciplina. Anche se tali attitudini risultano es-sere importanti per ogni tipo di produttività, esse si rivela-no essenziali per la creatività. Infatti solo la disciplina ed una rigorosa istruzione fanno sì che attitudini come il talento e l’immaginazione non vengano sminuite e vanificate.

1.5 La personalità creativa

Diversi studiosi nei propri lavori di ricerca hanno preso in considerazione la personalità dell’individuo capace di produrre atti creativi, mettendone in luce alcuni aspetti e cercando di illustrare le peculiarità connaturate nel carattere di questi individui. N. Hirsh23 va ad approfondire le similitudini e le differenze che intercorrono tra talento e genialità. Secondo l’autore quest’ultima è la classe più eminente della creatività, mentre il talento è una tipicità innata che, se sostenuta e sollecitata, fa approdare l’individuo alla creatività. Sarebbe possibile riconoscere il genio in base alla presenza di sei caratteristiche di personalità: timidezza, tristezza, sensibilità, autenticità, ricerca di solitudine, valorizzazione dell’amicizia. Con lo scopo di contraddistinguere i soggetti che sono palesemente portatori del massimo grado di creatività da

23 N.D.M. HIRSH, Genius And Creative Intelligence, Sci-Art Publishers, Cam-bridge, 1931.

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coloro i quali risultano essere meno dotati, Torrance24 ha stilato un elenco, proposto in ordine alfabetico, di 84 qualità proprie dei primi. Mentre alcune di tali qualità, come ad esempio avere idee indipendenti da quelle degli altri e sfidare le convenzioni, riguardano i tratti divergenti di personalità, altre fanno invece riferimento ad attitudini negative, come ad esempio l’essere pignolo e instabile. L’autore concorda con E.B. McNeil25 nel sostenere che l’in-dividuo creativo deve necessariamente dimostrare di posse-dere idee anticonvenzionali e non banali, in quanto creatività e conformismo non viaggiano sugli stessi binari. Nel proprio articolo del 1962, M. Henle26 abbozza ed illustra le specificità del pensiero creativo. Per la studiosa, la prima di esse è la re-cettività, consistente nell’accogliere i pensieri che giungono senza nutrire particolari speranze ed attuando un distacco dalle attrattive che in quel determinato periodo catturano la propria attenzione. Altra prerogativa del pensiero creativo concerne tra le altre cose, la capacità del soggetto di perce-pire i giusti quesiti ed essere in grado di trarre un’esperienza costruttiva dagli errori. Infine, C.W. Taylor27 annovera nel proprio lavoro tre diffe-renti unità che ci permettono di articolare e contrassegna-re la creatività: elementi intellettuali, elementi motivazionali, elementi legati alla personalità. Tra i primi, secondo lo stu-dioso, risaltano certamente fattori quali pensiero divergente e convergente, memoria, cognizione. Costituenti degli ele-

24 E.P. TORRANCE, Guiding Creative Talent, Prentice Hall, Englewood Cliffs (NJ), 1962.25 E.B. McNEIL, The Paradox of Education for the Gifted, Improving College and University Teaching, 8, 1960.26 M. HENLE, The Birth and Death of Ideas, Contemporary Approaches to Creative Thinking, Gruber H.E., Terrel G., Wertheimer M. (a cura di), Atherton Press, New York, 1962.27 C.W. TAYLOR, Creativity: Progress and Potential, McGraw-Hill, New York, 1964.

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menti motivazionali, invece, sono l’aspirazione, la passione nello scoprire, l’ingegnosità, la volontà di apporre ordine nel disordine, lo zelo e l’impegno nel lavoro. Infine, sono fatto-ri propri della personalità: l’emancipazione e l’autonomia, la disponibilità a comprendere l’indeterminato e l’enigmatico, l’avere interessi femminili. Esaminando il contributo dei suddetti studiosi, Arieti28 ritie-ne che rimanga ancora da decidere sia quanto le peculiarità delineate e proposte avvantaggino fondamentalmente la cre-atività, sia se esse costituiscano il rappresentante di specifi-che istanze psicologiche. Inoltre, riferendosi particolarmente a quelle caratteristiche attribuite da Torrance29 ai soggetti massimamente creativi, Arieti ritiene che tali attitudini, in re-altà, possano essere considerate delle qualità auspicabili per qualsiasi persona. Un altro rilevante contributo allo studio della personalità creativa proviene da Barron30 che, nei propri lavori, prende in considerazione l’originalità. Secondo Barron, l’originalità è una tipicità dei soggetti che palesano intuizioni mai viste pri-ma. Per Barron il concetto di originalità è decisamente simile a quello di creatività, in quanto originalità significa fornire risposte adattive eccezionali e non comuni. Dagli studi ef-fettuati da Barron scaturiscono diversi enunciati: gli individui originali, amando gli stimoli irregolari e caotici, preferiscono la complessità e la non linearità; nel proprio giudizio pre-scindono dall’opinione degli altri, mostrando quindi opinioni indipendenti; tendono maggiormente, rispetto alle altre per-sone, a dominare ed imporsi; gli individui originali non sono

28 S. ARIETI, Creativity. The magic synthesis, Basic Books, Inc., Publishers, New York, 1976 (trad. it. Creatività. La sintesi Magica, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1979) (op. cit.).29 E.P. TORRANCE, Guiding Creative Talent, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, N.J., 1962 (op. cit.).30 F. BARRON, Creatività e Libertà nella Persona, Astrolabio, Roma, 1971 (op. cit.).

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inclini alla repressione e all’inibizione. Riflettendo ancora sul lavoro di quegli autori che si sono occupati di indagare quali caratteristiche di personalità siano proprie del soggetto creativo, non è possibile non prendere in considerazione anche le concezioni generali psicoanaliti-che a riguardo. In tal senso, di spiccato interesse risultano essere gli scritti di Chasseguet-Smirgel (1971, 1985):31 se da una parte la nota psicoanalista ripropone il pensiero di Freud, della Klein e di tutti quei Postfreudiani che hanno trattato il tema della creatività, dall’altra presenta le proprie teorie sull’argomento. Essa distingue una creatività fondata sul desi-derio di riparare l’oggetto da un’attività creativa nella quale il fine è la riparazione del soggetto stesso. Il creatore viene delineato come un adulto malato che, durante la propria in-fanzia, ha ricevuto scarsi apporti narcisistici esterni. È per mezzo dell’attività creativa che egli giunge a colmare i propri deficit narcisistici in maniera autonoma.Nell’ambito delle considerazioni scientifiche sulla personalità dell’artista, la tematica che probabilmente desta più interesse è il rapporto che intercorre tra creatività e salute mentale. In letteratura, a proposito di tale frequente connubio, esiste una palpabile dicotomia: se da una parte troviamo quegli studiosi che intendono la creatività come imprescindibilmente legata all’intelligenza e alle facoltà cognitive, indicandone la salute mentale come presupposto fondamentale, dall’altra troviamo quegli autori che riconoscono come creatività e arte anche le produzioni scaturite da situazioni di sofferenza psichica. Occupandosi del legame esistente tra creatività ed intelligen-za, Rubini32 sostiene che una buona capacità intellettiva sia

31 J. CHASSEGUET-SMIRGEL, Creativity and perversion, Free Association Book, London, 1984 (trad.it. Creatività e perversione, Raffaello Cortina Editore, Mila-no, 1987) (op. cit.).32 V. RUBINI, La creatività. Interpretazioni psicologiche, basi sperimentali e aspetti educativi, Giunti, Firenze,1980.

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necessaria, ma non sufficiente, per un ottimale sviluppo della creatività. In linea con tale assunto si dichiara Argenton, che ribadisce33 la stretta connessione tra produzione creativa e capacità cognitive. Per lo studioso l’opera d’arte rivela, in chi la guarda, la personalità del proprio ideatore. Parlare del-la personalità dell’artista significa tirare in causa peculiarità strettamente connesse con le facoltà cognitive ed esecutive dello stesso, vuol dire parlare del suo stile personale. Tale stile personale, però, può disvelarsi soltanto nel caso in cui la mente del creatore sia lucida, poiché l’attività artistica neces-sita del coinvolgimento delle facoltà intellettive. Così Argen-ton scrive: “Il degente psichiatrico che dipinge o scrive po-esie o lo fa spontaneamente e per “diletto” e, quando la sua malattia non prende il sopravvento su di lui, fa delle opere da dilettante nelle quali spesso tratta i temi che lo assillano da malato, oppure lo fa indotto dagli psichiatri che lo curano e le sue opere manifestano allora tutte le stereotipie stilistiche riferibili alla sua malattia che molti studi hanno abbondante-mente e da tempo individuato e classificato” (1996). Riflettendo sulla creatività che nasce nel disagio psichico, Borgna34 ritiene che nell’esistenza schizofrenica si possono manifestare una creatività ed un’originalità tanto tangibili quanto inusuali, le quali erompono da produzioni particolar-mente comunicative. In queste composizioni sono i mondi dell’immaginario e dell’enigmatico a favorire il dialogo e la comunicazione. In un recentissimo lavoro l’autore sostiene che è possibile distinguere tra una creatività ordinaria, la qua-le usa i mezzi tradizionali della quotidianità, e una creatività straordinaria, che stravolge gli schemi abituali di pensare e di

33 A. ARGENTON, Arte e cognizione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 199634 E. BORGNA, Fenomenologia della creatività schizofrenica, Rivista sperimen-tale di freniatria e medicina legale delle alienazioni mentali, Vol.105, Numero: III,1981.

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immaginare (Borgna, 2007).35 La forma straordinaria di creati-vità è il mezzo di espressione privilegiato della follia, della logi-ca altra rispetto alla logica comune. Non essendo contaminata da influenze socioculturali e ideologiche, per Borgna (1981) la creatività schizofrenica è essenzialmente caratterizzata da una totale immediatezza ed originalità. Lo psichiatra nel proprio lavoro riprende il discorso impo-stato da A. Bader36 che, analizzando le produzioni creative schizofreniche, distingue tra schizofrenia come malattia e schizofrenicità come esperienza vissuta, tipica dell’esistenza di ciascuno di noi. Cercando di darne una definizione nitida e chiara, nel loro articolo Patarnello e Masnovo descrivono la schizofrenicità come quell’illuminazione che permette al clinico con espe-rienza pregressa di carpire la “maniera schizofrenica”, cioè l’espressività, la gestualità, il modo di porsi al mondo del sog-getto schizofrenico. L’autismo, per i due autori, è la chiave di volta che permette di comprendere il significato profondo della schizofrenicità “come organizzazione di un mondo ne-gato alla realtà”. “Il problema è quindi di poter determinare l’essere dell’esserci di uno schizofrenico o di un Dasein auti-stico.37 Questo essere dell’esserci dello schizofrenico è per noi la schizofrenicità”.38

35 E. BORGNA, Come in uno specchio oscuramente, Feltrinelli, Milano, 2007.36 A. BADER, Zungang zur Bildnerei der Schizophrenen vor und nach Prinzorn, Confin. Psychiatr. 15, 1972.37 Il termine DASEIN venne usato dal filosofo tedesco M.Heidegger, per indi-care l’ “Essere nel Tempo”, ovvero la consapevolezza di esser-ci. Tale concetto implica una visione del divenire dell’uomo, che crea e attribuisce significati all’ “essere-nel-mondo”. La psicologia esistenziale riprende questo concetto, dando estrema importanza al termine tempo, per cui il passato può essere sì ricon-dotto al presente, ma è soprattutto il presente a proiettarsi nel futuro: è l’idea dell’uomo che tende continuamente, col suo pensiero, verso il domani.38 L. PATARNELLO, G. MASNOVO, Arte e Schizofrenia. Il rapporto fra l’assur-do schizofrenico e l’arte intesa secondo l’estetica della fenomenologia esisten-zialista, Archivio di psicologia, neurologia e psichiatria, Anno:XXV, Fasc.:I, 1964.

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Delineando in modo ancora più profondo i contenuti delle produzioni artistiche psicotiche, Borgna (1981) sostiene che la creatività schizofrenica non tenta di esprimere il mondo oggettuale esterno, al contrario cerca di palesare le proprie forme interne anoggettuali, provando a rivelare il significato nascosto dietro la mera apparenza delle cose. Pure Rennert, come rimarca Borgna,39 nei propri scritti si domanda se la creatività schizofrenica, nella propria fondamentale prero-gativa iconica, astratta e simbolica, non abbozzi una realtà imperscrutabile e misteriosa, che è assai diversa da quella che tutti noi sperimentiamo. In tal senso, per Rennert la cre-atività psicotica testimonierebbe l’esistenza di un’esperienza del mondo (una Welt) astrusa e ostica, la quale può essere afferrata unicamente dal vissuto schizofrenico.Nel proseguimento della propria trattazione, Borgna affer-ma che nelle produzioni iconiche degli individui schizofrenici è possibile distinguere alcune fondamentali ragioni d’essere della creatività, le quali sono state elicitate e presentate nei lavori di L. Navratil.40 Secondo questo psichiatra teutonico, le ragioni d’essere basilari della creatività sono la trasfigura-zione dell’aspetto della realtà, il formalismo, la simbolizzazio-ne. Attraverso l’opera di Navratil è possibile comprendere come queste essenziali funzioni della creatività si articolino nel campo del prodotto figurativo psicotico. Ancora Borgna definisce quali sono le caratteristiche del-la creatività schizofrenica: l’assolutizzazione della forma e la simbolizzazione. Proprio nella tendenza alla simbolizzazione si comprende “[…] la disperata allusiva controdifesa davanti alle realtà cosali e interumane che incombono sulla fragile esistenza psicotica. La simbolizzazione testimonia infine della

39 E. BORGNA, Fenomenologia della creatività schizofrenica, Rivista sperimen-tale di freniatria e medicina legale delle alienazioni mentali, Vol.:105, Numero: III,1981 (op. cit.).40 A. BADER, L. NAVRATIL, Zwischen Wahn und Wirklichkeit, Bucher, Luzern, 1976.

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fascinazione stremata e affascinata della figuralità schizofreni-ca dalla quale riemerge il mondo dell’immaginario e dell’enig-matico che è al confine estremo di qualsivoglia donazione di senso e che nondimeno ha in sé una radicale significazione dia-logale e comunicazionale”.41 In rapporto alle succitate peculiarità costituenti la produzione iconica schizofrenica, l’astrazione si disvela in tutta la sua importanza emblematica. Essa viene concepita alla base di una weltanschaung trasfi-gurata dal diniego e dall’alienazione verso l’oggettualità del mondo esterno. La creatività, concepita altresì da Borgna come possibilità insita in ogni essere umano, anche nell’esi-stenza schizofrenica può diventare creatività artistica. Infatti, secondo lo psichiatra italiano, è alquanto inaccettabi-le non riconoscere alla produzione creativa schizofrenica un intento ed un significato artistico semplicemente perché in tali atti creativi i canoni classici dell’immagine vengono stra-volti e deformati. A tal riguardo, Gaetano Roi42 sostiene che pure in alcune creazioni artistiche, riferibili a precise frange dell’arte moderna, è possibile riscontrare un atteggiamento deformato e di alienazione nei riguardi del mondo esterno e della realtà. Dello stesso punto di vista, Prinzhorn43 scrive: “Ci troviamo di fronte ad un fatto sorprendente: l’affinità tra il sentimento del mondo schizofrenico e quello che si manifesta nell’arte contemporanea può essere descritto con gli stessi termini [...] se si osservano attentamente le for-me d’ espressione del nostro tempo, si riscontra ovunque, nelle arti plastiche come nei vari generi letterari, una serie

41 E. BORGNA, Fenomenologia della creatività schizofrenica, Rivista sperimen-tale di freniatria e medicina legale delle alienazioni mentali, Vol.:105, Numero: III,1981 (op. cit.).42 G. ROI, Analisi fenomenologica dell’assurdo schizofrenico nei rapporti col surreale dell’arte, Archivio di psicologia, neurologia e psichiatria, Anno: XIV, Fasc:I-II, 1953.43 H. PRINZORN, Bildnerei der Geisteskranken, Berlin, 1922 (trad. it. L’arte dei folli. L’attività plastica dei malati mentali, Mimesis Edizioni, Milano 2004) (op. cit.).

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di tendenze, che troverebbero soddisfazione solo presso un vero schizofrenico [...]. Sentiamo ovunque un gusto istintivo per la particolarità che conosciamo bene negli schizofrenici [...]”. Nella pubblicazione di Borgna (1981) e in quella di Roi (1953) si precisa come l’irruzione apportata da alcune forme di arte moderna, ad esempio Espressionismo, Surrealismo, Cubismo, abbia condotto al sovvertimento dei canoni classi-ci di bellezza. La ri-considerazione di cui ha potuto beneficiare la creatività schizofrenica prende specularmente il via da questa sentita rivoluzione concettuale e intellettuale, tanto che le realizza-zioni artistiche dei pazienti manicomiali, oltre ad aver susci-tato l’interesse dei clinici, hanno anche catturato l’attenzione di diverse correnti artistiche del ‘900, soprattutto del Surrea-lismo. Come ricorda Arnheim,44 nel 1925 André Breton, sulla scia del profondo impatto che le opere della Collezione Prin-zhorn avevano avuto su di lui, scrisse la ben nota Lettera ai Primari dei Manicomi. In questo comunicato il rappresentante del Movimento Surrealista difendeva la legittimità della singo-lare concezione del mondo e della realtà che si ritrova nelle produzioni creative degli internati. Nel 1947, assieme a Jean Dubufet e altri, Breton istituì la Compagnie de l’Art Brut, la quale riunisce tutte quelle forme d’arte “non belle” (Orrù), inverosimili e naïf. Per Patarnello e Masnovo45 la somiglianza tra artista e schizofrenico, in realtà, implica un nesso tra arte e schizofrenicità, in quanto entrambe necessitano di una scis-sione, uno squarcio con il mondo della quotidianità, permet-tendo di approdare ad un significato inedito delle cose. Tale significato innovativo del mondo, che nell’arte viene conce-pito come bello, nella schizofrenicità viene chiamato assurdo.

44 R. ARNHEIM, Per la Salvezza dell’Arte, Feltrinelli, Milano, 1994 (op. cit.).45 L. PATARNELLO, G. MASNOVO, Arte e Schizofrenia. Il rapporto fra l’assurdo schizofrenico e l’arte intesa secondo l’estetica della fenomenologia esistenziali-sta, Archivio di psicologia, neurologia e psichiatria, Anno:XXV, Fasc.:I, 1964 (op. cit.).

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Nell’introduzione al libro di Pillot46, Ferlini (2000) scrive: “Di-sumanizzando, in nome di una scienza che prescinde dall’In-contro, la creatività del paziente, si disumanizza il paziente stesso e, alla fine, si arriva a perdere noi stessi la bellezza e la ricchezza dell’esperire umano”.

46 M. I. PILLOT., Psicologia e psicopatologia dell’espressione artistica, UTET, To-rino, 2000.

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Capitolo 2

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2.1 Introduzione

Dare una definizione univoca di arte appare assai difficile in quanto tale concetto cambia col mutare delle epoche e delle relative usanze e tradizioni.È intorno alla fine del 1200 che nella lingua italiana compare il concetto di arte, comprendendo con questo termine tut-te quelle attività dell’uomo basate sull’attitudine individuale, sulla conoscenza pratica ed acquisite attraverso lo studio e l’apprendimento di specifiche tecniche. Successivamente tale concetto evolve inglobando anche il giudizio estetico dell’os-servatore, quindi per opere d’arte si intesero tutte quelle produzioni culturalmente interessanti ed esteticamente gra-devoli assoggettate alla critica ed al piacere di chi ne fruisce.Oggi sono considerate creazioni artistiche, non solo quelle comunemente riconosciute tali, quali la pittura, la poesia, la musica, il teatro e la danza, ma anche il frutto di certi mestieri che necessitano di originalità e creatività oltre che di abilità tecnico-specialistiche. Per fare un esempio, basti pensare al mondo dell’alta moda, dove le creazioni raggiungono livelli talmente elevati da poter essere considerate vere e proprie opere d’arte, che simboleggiano ed interpretano i mutamenti socio-culturali di un’epoca. Di seguito si vogliono, però, prendere in esame, dal punto di vista psicologico, non solo quelle forme di espressione creativa universalmente riconosciute come opere d’arte, ma anche quelle che, pur risultando esteticamente meno piace-voli, assumono un forte significato in chi le produce e che, in alcuni casi di patologia, se incanalate in un giusto percorso te-rapeutico, possono rivelarsi un valido supporto riabilitativo.

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L’arte, a nostro avviso, non è solo opera di quell’individuo che, con il suo talento, la sua genialità e la sua capacità espressiva, allontanandosi e distinguendosi dalla massa, fa in modo che le sue creazioni diventino artisticamente e universalmente affascinanti, ma è da attribuire anche a coloro che si avvicinano ad essa per passione e diletto.Comunque, a prescindere dal valore estetico delle produzio-ni artistiche, univoco appare l’intento ispiratore dell’artefice: interpretare, narrare, rappresentare la realtà e, allo stesso tempo, rivelare emozioni, sentimenti e opinioni.

2.2 Arte ed espressione del mondo interioreL’idea di un connubio tra arte e psicopatologia riecheggia du-rante tutto l’arco della storia. È nel Romanticismo, però, che tale spiccata relazione suscita particolare attenzione: la figura dell’artista viene sempre più equiparata a quella del folle, in quanto entrambi dimostrano la medesima libertà da schemi precostituiti. Sin dai primi anni del Novecento, la produzione creativa di persone ricoverate in manicomio suscita crescen-te interesse nella migliore tradizione psichiatrica europea. L’esempio più noto di ciò è rappresentato dal lavoro dello psichiatra tedesco Prinzhorn che, nella sua opera “L’attività plastica dei malati di mente”,47 propone ed esamina le produ-zioni creative di un campione eterogeneo di degenti psichia-trici, dissimili tra loro tanto per etnia quanto per tipologia di sofferenza psichica presentata. L’autore incita ad abbandona-re l’idea stereotipata di arte psicopatologica, per giungere ad esaminare quelle produzioni artistiche scaturite dalla soffe-renza psichica in maniera del tutto libera da pregiudizi.

47 H. PRINZORN, Bildnerei der Geisteskranken, Berlin, 1922 (trad. it. L’arte dei folli. L’attività plastica dei malati mentali, Mimesis Edizioni, Milano 2004).

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Inoltre, partendo dall’osservazione di forme artistiche infan-tili e primigenie, l’autore individua un nesso tra la creatività di talune personalità eminenti dell’arte figurativa moderna e i tratti schizofrenici del loro carattere. L’autore sostiene che permettere al malato di liberare i propri impulsi creativi può essere un modo per alleviare la sua sofferenza psichica. Anche Arnheim, parlando della pubblicazione del 1922 di Prinzhorn, afferma: “Il suo libro quindi non era solo una mo-nografia specialistica, ma esplorava la natura della creatività umana, analizzata nei suoi aspetti di espressione, ornamenta-zione, simbolismo e gioco, fino a proporre paralleli tra l’arte degli psicotici e alcune tendenze della pittura e della scultura contemporanee”.48 Dopo l’affascinante lavoro di Prinzhorn, molti altri clinici ini-ziarono ad interessarsi alle produzioni creative scaturite dalla e nella sofferenza psichica, tentando di chiarirne i contenuti e delucidarne i meccanismi sottesi. Il significato attribuito a tali creazioni si colora di sfaccettature difformi ed eterogenee, infatti taluni interpretano la produzione artistica dei soggetti con disagio psichico come un sistema per contenere la de-strutturazione psichica provocata dalla malattia; al contrario altri ritengono che, attraverso la propria produzione artistica, gli individui portatori di disagio psichico riescono a svinco-lare energie, che altrimenti rimarrebbero celate nella quo-tidianità. Nella contemplazione delle realizzazioni artistiche prodotte da persone con disagio psichico, il fruitore vede riflesse parti di sé che, altrimenti, non riuscirebbero ad arri-vare alla coscienza. Bisogna precisare che l’opinione comune degli psichiatri con-temporanei è che dalla psicosi non scaturisca il genio artisti-co, ma può succedere che talvolta, si sprigionino delle forme di immaginazione, che, normalmente, rimarrebbero inibite dall’educazione, dal conformismo e dalle abitudini sociali.

48 R. ARNHEIM, Per la Salvezza dell’Arte, Feltrinelli, Milano, 1994.

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2.3 L’arte come mezzo di espressione non verbale: breve analisi storica

L’arte è una forma di linguaggio non verbale utilizzata dall’uo-mo, fin dalle sue origini, per esternare la propria emozionalità e comunicare pensieri, sensazioni e desideri, sfruttando dei canali comunicativi alternativi alla parola.È il mezzo attraverso cui l’individuo, sia esso osservatore che fruitore, riesce ad estrinsecare e significare il proprio mondo interiore, è il veicolo attraverso cui transitano emozioni di ogni tipo, quali gioia, appagamento, piacere, gratificazione, sof-ferenza, pene, angoscia e tormento. Essa contribuisce altresì a dare un senso ai contenuti interiori nel momento in cui l’espressione linguistica viene meno o risulta insufficiente.L’uomo, già in epoca preistorica, ha sentito la necessità di confrontarsi con gli altri, per capire meglio se stesso e anche per ottenere collaborazione, al fine di migliorare le proprie condizioni di vita. Sono nati così i primi linguaggi, a partire da quello gestuale, costituito da movimenti spontanei, soprattutto delle braccia e delle mani e da un rudimentale linguaggio sonoro caratte-rizzato da suoni inarticolati, che servivano a rendere più effi-cace la gestualità. Questi linguaggi base si sono via via evoluti e perfezionati, sfociando infine in una vera e propria lingua.L’esigenza di esprimere i propri stati d’animo e di comunicarli ai propri simili indusse l’uomo preistorico all’uso del linguaggio figurativo dando così vita a primordiali forme artistiche.Le prime espressioni di questo tipo risalgono al periodo del Paleolitico superiore e consistono in incisioni grezze rappre-sentanti animali. Successivamente, iniziano a comparire le pri-me incisioni rupestri nelle grotte, più curate delle precedenti e rappresentanti scene di vita quotidiana.Il fine delle creazioni artistiche, nell’età preistorica, non era

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la realizzazione di opere perfette dal punto di vista estetico, ma la rappresentazione di una specifica visione della vita e del mondo. Per l’uomo antico, infatti, le creazioni avevano una duplice valenza: una propiziatoria, attraverso la quale cercava di ingraziarsi le forze soprannaturali affinchè fossero a lui favorevoli e l’altra protettiva, attraverso la quale cercava di controllare i fenomeni della natura a lui ostili o sconosciuti.A seconda dei periodi storici il concetto di arte ha subito diverse trasformazioni, assumendo, spesso, anche una conno-tazione “terapeutica e curativa”.Nelle antiche popolazioni tribali era lo sciamano a guarire servendosi della danza o scolpendo delle statuette, alle quali venivano attibuite delle potenzialità magiche. Nell’antico Egit-to era usanza coinvolgere in attività artistiche, quali la danza e il canto, quei soggetti che presentavano problematiche psico-logiche. Anche le antiche popolazioni greche e romane ave-vano attribuito all’arte un potere liberatorio, che contribuiva ad alleviare le sofferenze e ristabilire un equilibrio psichico. Nel Medioevo, invece, la magia e la superstizione prendono il sopravvento sul potere curativo precedentemente ricono-sciuto all’arte. Nel Rinascimento vi fu poi una particolare attenzione verso la figura dell’artista, considerato un essere sensibile e creativo, dalla spiccata capacità riflessiva e meditativa, che attraverso le manifestazioni artistiche, poteva preservarsi dal rischio della follia. In seguito, nel periodo Romantico, viene ulteriormente enfatizzata la sensibilità dell’artista, il quale, proprio per la sua natura, è più incline alla melanconia, non considerata come patologia, bensì come via privilegiata per trovare soluzioni geniali ed originali agli interrogativi esistenziali. Verso la metà del 1800 in Inghilterra, nell’ambito della teoria morale, l’attività artistica viene adottata, a scopo riabilitativo,

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all’interno di alcuni ospedali psichiatrici, come primo tentativo di superamento delle misure coercitive a favore di tecniche più attente al rispetto del paziente ed alla valorizzazione della sua unicità.Questa intuizione, però, dura solo una decina di anni: è, infat-ti, solo dopo la metà del 1900 che le varie tecniche artistiche, vengono finalmente riconosciute e valorizzate in ambito te-rapeutico. Nasce così il termine arte-terapia.

2.4 Arte-terapia come percorso riabilitativo

Per arte-terapia s’intende quella metodologia che, per avvia-re un percorso riabilitativo, si avvale delle varie forme arti-stiche, quali pittura, danza, teatro, musica, poesia e di tutte quelle attività che includono abilità manuali quali ad esempio, manipolazione di materiali, produzione di oggettistica, deco-razione e realizzazione di prodotti artigianali. L’arte-terapia si configura come un processo, dove l’indivi-duo, partendo da un’iniziale incapacità di esprimere il proprio disagio, ha la possibilità, attraverso la realizzazione di prodotti artistici, di manifestarlo e rielaborarlo. La produzione artistica diventa lo strumento di comunicazio-ne simbolica tra i vari protagonisti della relazione: paziente, terapeuta e gruppo, laddove presente. Il terapeuta deve essere in grado di riconoscere e interpre-tare il messaggio del paziente, di cogliere il suo stato d’animo, di incoraggiare la libertà di espressione e lasciare ampio mar-gine alla produzione immaginativa.Il paziente, dal canto suo, può trovare modalità alternative al linguaggio verbale per esternare il proprio vissuto e, se supportato da un clima empatico e collaborativo, potrà per-venire ad un progressivo raggiungimento del benessere emo-tivo, relazionale e fisico. L’individuo, manipolando un oggetto,

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scegliendo un determinato colore, improvvisando una danza o componendo un brano, può riscoprirsi e riconoscersi, fino a giungere ad un senso del sé maggiormente integrato.L’arte-terapia, dunque, diventa strumento di compartecipa-zione attiva, dove anche il setting, grazie agli spazi rassicuranti e agli oggetti utilizzati e realizzati, concorre all’instaurazione di un’atmosfera di compliance, che facilita la comunicazione non verbale, la gestualità spontanea e nello stesso tempo sti-mola le capacità sensoriali dell’individuo.

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Capitolo 3

DISAGIO E FOLLIA NELLE DIVERSE MANIFESTAZIONI

DELL’ARTE: ANALISI DI ALCUNE OPERE

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3.1 Introduzione

In questa seconda parte si intende analizzare l’effetto tera-peutico riabilitativo che ogni singola arte sortisce sugli indivi-dui e come questi possano trarne dei benefici a livello psichi-co sia semplicemente avvicinandosi ad essa come fruitori sia esercitando qualche attività artistica. Si è, inoltre, affrontato il tema della follia, sia essa reale o simulata, esaminando e met-tendo in relazione la vita ed alcune opere di vari artisti, che per qualsiasi motivo hanno trattato il disagio psichico.Si è, così, evidenziato come alcuni di essi siano riusciti ad affrontare e sopportare la sofferenza, là dove presente, attra-verso la produzione di opere d’arte e quindi mediante l’este-riorizzazione e la sublimazione delle loro emozioni.Gli autori dei vari articoli si sono anche riproposti di guida-re il lettore nella comprensione e nell’interpretazione delle opere prese in esame, seguendo alcuni percorsi artistici. Ognuno di essi ha organizzato il proprio intervento in manie-ra personale, scegliendo autonomamente il periodo storico e gli autori da trattare ed utilizzando le tecniche linguistiche più congeniali alla propria formazione culturale ed alla pro-pria sensibilità. Pertanto l’analisi e la strutturazione dei vari interventi si dif-ferenzia proprio perché volutamente ricercata.Il filo conduttore resta, in ogni caso, il tema della “follia” e lo scopo della trattazione quello di evidenziare come l’arte sia un forte deterrente contro il malessere psichico, contribuen-do a contenere e ad alleviare la sofferenza e il disagio.

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3.2 Pittura e follia di Beatrice Autizzi

Il legame creatività-disagio psichico è stato studiato fin dai tempi più antichi. Nel famoso canone aristotelico (Problemata XXX), intendendo per malinconia una sorta di depressione, ci si chiede perché tutti gli uomini eccezionali, nell’attività filosofica e politica, artistica e letteraria, hanno un temperamento malinconico, alcuni al punto tale da essere perfino colpiti dagli stati patologici che ne derivano.49

Lo pseudo-Aristotele non ha dubbi nel rispondere che i me-lanconici sono persone straordinarie non per malattia ma per loro stessa natura. Il loro stato depressivo non è dunque una pato-logia ma, al contrario, è la loro grandezza a renderli melanco-nici. Una visione opposta a quella rinascimentale, secondo la quale è la melanconia che spinge gli uomini ad essere creativi perché un tale atteggiamento li induce ad essere meditativi, a riflettere, a porsi domande e a trovare risposte originali.Già nel Trecento Francesco Petrarca, nell’Epistola a Zoilo, sostiene coraggiosamente che non esiste alcun ingegno se non mescolato alla pazzia.50

In epoca più recente, durante il Romanticismo, genio e sre-golatezza convivono e fanno parte della creatività. Il genio, libero da ogni vincolo morale ed espressivo, si sente simile a Dio, nel momento della creazione, e l’artista, al quale tutto sembra essere concesso, comincia a porsi al di fuori della società, a non rispettarne le regole, a sentirsi incompreso dagli altri uomini.

49 C. Angelino, E. Salvaneschi, (a cura di), La melanconia dell’uomo di genio, Genova, 1986. 50 C. Angelino, E. Salvaneschi, Op. cit.

pittura

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Il disagio psichico può stimolare attività che spingono l’arti-sta ad esplorare aspetti della propria personalità che reste-rebbero altrimenti sconosciuti, come accade invece a molte persone considerate sane. Sono molti gli artisti moderni e contemporanei in cui la de-pressione, la tendenza all’autodistruzione e il malessere esi-stenziale si sono trasformati in spinta creativa, basti pensare a Francisco Goya (1746-1828), a Mark Rothko (1903-1930), Francis Bacon (1909-1992), Jackson Pollock (1912-1956), Jean Michel Basquiat (1960-1988).La creatività, a livello più o meno conscio, è spesso una stra-tegia per uscire dalla solitudine, per confrontarsi con sé e con gli altri, è un’asserzione simbolica a proposito della con-dizione umana vista attraverso il proprio sé ed uno strumen-to per trovare una via di comunicazione diversa da quella apparentemente disponibile di vivere nel mondo.La rappresentazione della follia in pittura può avvenire su due piani: pittori che ritraggono gli alienati o artisti che rappresentano il proprio mondo interiore con i suoi tratti più o meno marcati di pazzia.Indagatore emblematico è Hieronymus Bosch (1450ca-1516), che dipinge molti quadri dedicati alla follia. L’uomo del Me-dioevo e del Rinascimento, lontano dalla razionalità contem-poranea, avverte la propria fragilità, si sente debole di fronte alle tempeste delle passioni e degli istinti, minacciato da tutto ciò che gli appare come demoniaco e folle, di fronte ad una natura che non riesce a dominare.Bosch, pittore fiammingo e come tale abituato a rappresen-tare con fredda lucidità la realtà che lo circonda, ma anche a dipingere come reali eventi fantastici, rappresenta L’estrazione della pietra della pazzia in chiave fortemente ironica.In un paesaggio tranquillo e sereno, davanti ad una donna appoggiata ad un tavolino con un libro sulla testa e ad un fra-te con una piccola brocca, un medico, con un imbuto come

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copricapo, incide la scatola cranica del folle per togliere dal cervello la pietra della pazzia. A conferma che non si ha mai la certezza di dove possa albergare la follia, il medico appare immediatamente più pazzo di colui che egli vuole guarire.Nel Medioevo e nel Rinascimento la follia non è ancora avvertita come disordine sociale e come tale non è segregata. L’uso dell’internamento inizierà solo nel Seicento, con la nascita dei grandi Stati europei. La necessità di ordine, regole e morale conduce ad una dichiarata intolleranza verso coloro che appaiono diversi e, come scrive Michel Foucault (1926-1984), la follia è strappata a quella libertà immaginaria che la faceva ancora crescere nel cielo della Renaissance. Non molto tempo prima essa si dibatteva in piena luce: ed era il Re Lear, era il Don Chisciotte. Ma in meno di mezzo secolo si è trovata reclusa nella fortezza dell’internamento, legata alla ragione, alle regole della morale e alle loro monotone notti.51

Nell’epoca del Barocco non era più accettata l’antica pratica, talvolta in uso, di riunire i folli su un’imbarcazione e lasciarli andare lungo i fiumi della Renania e i canali fiamminghi, per-mettendo loro di godere della folle dimensione a cui appar-tenevano, come ci mostra il quadro di Hieronymus Bosch La nave dei folli.Nel dipinto uomini e donne, suore e frati, mangiano, bevono e cantano, convivendo gioiosamente con la propria diversità. La barca è stabile e nel contempo insicura, appare come un rifugio per i folli e ha il grande vantaggio di isolarli dal mondo civile, ma anche preannuncia il futuro internamento e isola-mento cui sarebbero stati sottoposti i pazzi.Anche Il giardino delle delizie si trasforma per Bosch in prete-sto per indagare le differenze, le morbosità e le distorsioni delle forme, dei corpi e delle menti umane in una dimensione assurdamente fantastica.

51 M. FOUCAULT, Storia della follia nell’età classica, BUR Biblioteca Univ. Riz-zoli, Milano, 1998.

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Attento osservatore della realtà, acuto indagatore della follia, Pieter Brueghel il Vecchio (1528ca-1569), in Greta la pazza (1562) raffigura una donna invasata che si muove in una di-mensione di totale, ironica, innocua follia ignorata da tutti. Un monito a quanti insistono nel vizio, in questo caso l’avidità, al punto da perdere la ragione. Ben diverso è l’atteggiamento con cui Theodore Gericault (1791-1824) ritrae a mezzobusto dieci folli, uomini e donne, rinchiusi in un manicomio. Ognuno di loro è rappresentato desolatamente con lo sguar-do vuoto a rincorrere il pensiero fisso che lo ha alienato dalla vita reale.Rappresenta invece la follia che ha travolto l’artista la pittura di Richard Dadd (1817-1886), illustratore e pittore inizialmente di genere e poi di soggetti storico-letterari. Durante un viaggio in Italia, Grecia e Asia Minore, nel 1842, egli dà i primi segni di uno squilibrio mentale che, un anno dopo, lo spingerà ad uccidere il padre e lo porterà all’interna-mento in manicomio. Nonostante la pazzia, egli continua per oltre quarant’anni a disegnare e a dipingere opere visionarie e fantastiche popolate da minuscole creature, gnomi e fol-letti, contro sfondi di fili d’erba, fiori e sassi apparentemente enormi.Drammatica si rivela, poi l’esistenza di Edvard Munch (1863-1944), pittore norvegese dalla personalità complessa e con-tradditoria. Sua madre muore di tubercolosi quando egli ha cinque anni, sua sorella muore della stessa malattia nove anni dopo, moriranno quindi il padre e il nonno. La vita dell’artista è costellata di malattie, di lutti e dolore al punto che egli scrive: Senza paura e malattia la mia vita sarebbe una barca senza remi, e ancora la malattia, la follia e la morte erano gli angeli neri che si affacciavano alla mia culla.52 Di qui una visione

52 G. CRICCO, F.P. DI TEODORO, Itinerario nell’arte. Dall’età dei Lumi ai giorni nostri, Zanichelli, Firenze, 1996.

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tragica dell’esistenza che la pittura svelerà costantemente e in maniera drammatica. Scrivendo le angosce che lo opprimono e soprattutto di-pingendole, Munch riesce ad esorcizzare le proprie paure, a stare dentro e fuori la propria follia, a differenza di Van Gogh che, pur cercando di farvi fronte, alla fine si arrende e cerca la morte.Nell’Urlo (1893) Munch raggiunge il massimo simbolismo, il suo messaggio umano si fa angosciante. È lui stesso a raccontare lo stato d’animo che lo spinge a dipingere il quadro. Camminavo lungo la strada con due amici - quando il sole tramontò - il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue - mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad un recinto - sul fiordo neroazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco – i miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura e sentivo un grande urlo infinito pervadere la natura.53

La scena, fortemente autobiografica, è intrisa di riferimenti simbolici. L’uomo in primo piano, simile ad una larva, defor-mato e quasi senza scheletro, con il volto già simile ad un teschio, esprime paura e solitudine. Gli amici, che sono dietro di lui, non avvertono la disperazione e continuano a cammi-nare incuranti del dramma, diventando simbolo della alea-torietà dei rapporti umani. Il ponte raffigura il passaggio da una sponda all’altra, ma anche l’instabilità, acuita dallo spazio circostante i cui colori violenti (rosso, blu, nero) accentuano la tensione. L’urlo disperato si propaga dall’uomo all’universo intero e si trasforma in disperazione visiva.Tragicamente inquietante è anche l’adolescente nuda, seduta sul letto, rappresentata in Pubertà (1894), simbolo di una verginità intatta. Il corpo acerbo e lo sguardo smarrito diventano drammatici per l’ombra scura, minacciosa, che, partendo dal corpo,

53 G. CRICCO, F.P. DI TEODORO, Op. cit.

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si proietta sul muro. Un presagio delle sofferenze a cui porteranno l’amore e la sessualità, ma anche un senso di morte che minaccia tutti, giovani e vecchi, al cui pensiero l’autore non riesce a sottrarsi. Anche una tranquilla passeggiata serale si trasforma per Munch in una processione di spettri dagli occhi sbarrati. Nella Sera nel Corso Karl Johann (1892) i borghesi, con gli abiti scuri e le tube, le donne, con i loro cappellini, ipocriti e trasformisti, vanno verso un’unica direzione, osservati dal potere, rappresentato dall’edificio del Parlamento con le finestre illuminate. Solo un personaggio va controcorrente. È il pittore, consapevole della propria identità diversa da quella della massa.L’artista che emblematicamente rappresenta il disagio socia-le, la follia e la solitudine è Vincent Van Gogh (1853-1890). Egli si serve della pittura per esprimere la propria complessa interiorità. L’artista, che fin da giovane si sente un uccello in gabbia fannullone diverso dagli uccelli, che cantano e volano liberi, avverte la propria impossibilità a infrangere le barrie-re che lo separano dalla vita degli altri uomini e, allo stesso tempo, si sente incapace di uscire dal groviglio di pensieri che lo ossessionano. Continui i sensi di colpa e gli istinti autopu-nitivi indotti dalla depressione destinati a portarlo al suicidio. Analizzando la sua vita, molto difficile, si rintracciano chiara-mente quegli elementi destinati a segnarne il destino fin da bambino. Vincent nasce un anno dopo la morte di un fratel-lino che portava il suo stesso nome e che era stato sepolto dietro la casa dove abitava. Egli ricorda che, ancora piccolo, si soffermava a leggere il proprio nome su quella tomba. Come non immaginare le paure, l’angoscia, il senso di claustrofobia al pensiero della sepoltura, che hanno accompagnato la sua infanzia? Di qui la tendenza dell’artista ad alternare sensazio-ni di morte a momenti di serenità, un senso di dolore ad atti-

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mi di distensione, frustrazioni ed euforia. Con la sua costante insicurezza emotiva erano inevitabili le delusioni e i fallimenti. Avrebbe voluto fare il predicatore come il padre, pastore protestante, ma il suo carattere era troppo incostante e i superiori lo dissuasero. Si innamorò della cugina Cornelia ma lei lo rifiutò e, in tale occasione, si bruciò la mano sinistra con la fiamma di una lampada per dimostrarle il suo amore. Sette anni dopo, nel pieno della sua attività pittorica, incompresa dai contemporanei, dopo un violento litigio con Paul Gauguin ad Arles, si tagliò il lobo dell’orecchio sinistro e lo portò, avvolto in un fazzoletto, ad una prostituta. L’episodio è documentato tragicamente da un Autoritratto, che lo ritrae con l’orecchio bendato. Nel 1889 Van Gogh è ricoverato nell’ospedale psichiatrico di Saint-Remy-de-Provence, dove in un anno dipinge un numero impressionante di tele e realizza centinaia di disegni. Si trasferisce ad Auvers-sur-Oise, dove il dottor Gachet, che ritrae con affetto nel Ritratto del dottor Gachet (1890), accetta di prendersi cura di lui. Dopo due mesi di allucinazioni, si spara un colpo di rivoltella e muore due giorni dopo. Era il 1890, aveva 37 anni. I rari momenti di serenità e la grandissima inquietudine di Van Gogh si palesano soprattutto attraverso i ritratti allo specchio. Convinto che sia difficile conoscere se stessi, ma non è neppure facile dipingersi,54 realizzò circa 35 autoritratti, con pennellate rapide, inquiete, dai colori intensi, che traducono con fedeltà i tormenti interiori, il carattere allucinato e vi-brante.Anche gli esseri inanimati, nei disegni e nei dipinti di Van Gogh, acquisiscono una valenza psicologica.

54 M. CESCON, T. GIANOTTI, Van Gogh V. Lettere a Theo sulla pittura, Firenze 1996.

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Gli Alberi (1882), nei suoi disegni, appaiono spettrali, simili ai pensieri contorti di chi si sente incompreso e abbandonato. I Cipressi (1889), dipinti nella casa di cura di Saint-Remy, sono pervasi da un fremito e vibrano come una fiamma scura.I Fiori di pesco sono tra le opere più serene di Van Gogh, anche se ritorna sempre il blu rivelatore di una costante de-pressione di sottofo. Se nel Seminatore la natura si fa rassicurante e quasi materna inglobando in sé l’uomo, che trova tranquillità e sicurezza nel lavoro quotidiano, in Caffè di notte (1888), dove egli ha cercato di far capire che il caffé è un posto dove ci si può rovinare, impazzire, commettere dei delitti,55 gli uomini sono comunque soli nella stanza desolata. Perfino le architetture, come gli uomini e le piante, vibrano e hanno un’anima. Le Case ad Auvers fremono e si muovono, animate da quegli uomini invisibili che le abitano; La Chiesa, con la sua anima, trasmette vitalità alla donna vista di spalle, che vi si dirige.Se il blu è ricorrente, il giallo è il colore che Van Gogh prefe-risce nel periodo di Arles. Ne I girasoli (1889), intensi e vitali, il giallo assume molteplici tonalità contro lo sfondo giallo. Dello stesso colore è La casa gialla (1888) ad Arles, dove il pittore avrebbe voluto accogliere una piccola comunità di artisti insieme a Gauguin, che qui soggiorna fino al grande litigio che li dividerà per sempre, e la Camera da letto (1888) dove gli oggetti sono realtà a se stanti e dove il colore deve fare tutto…suggerire l’idea del riposo o del sonno in genere.56 Gli oggetti personali diventano un prosieguo del suo essere, elementi concreti delle condizioni necessarie alla sua salute mentale e a quel minimo di sicurezza che gli permette di resistere alle tensioni interiori.

55 M. CESCON, T. GIANOTTI, Van Gogh V. Lettere a Theo sulla pittura, Firenze 1996.56 M. CESCON, T. GIANOTTI, Van Gogh V. Lettere a Theo sulla pittura, Firenze 1996.

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Opera emblematica di Vincent Van Gogh è l’ultimo quadro dipinto pochi giorni prima del suicidio, Campo di grano con corvi (1890). L’opera è una inconsapevole confessione da parte dell’artista dello stato in cui si trova. Inusuale è il formato (50x100 cm), che permette al campo visivo di allargarsi in primo piano e inoltrarsi seguendo le linee di tre sentieri divergenti, che scompaiono in mezzo al grano trascinando con sé l’attenzio-ne dell’osservatore. La prospettiva tradizionale è sostituita da una prospettiva coercitiva, spaesante, che rivela la paura dell’artista di entrare in contatto con il mondo esterno. Ad aumentare la sottile inquietudine che comunica l’immagine contribuisce il volo dei corvi, il loro movimento ad onda, la visione di un sole trasformato in un’oscura massa roteante nel cielo pastoso. Eppure tutto è bloccato in una visione piut-tosto semplice ed immediata. Il cielo blu, al massimo grado di saturazione, si allontana, il giallo del grano, colore caldo, si avvicina. I sentieri sono strisce rosse e verdi, i corvi neri sono presagio di morte. Il pittore, al limite dell’angoscia, cerca di semplificare colori e realtà per riuscire a dominarla, anche se la sua resta una pittura passionale e violenta. Eppure in una lettera al fratello Theo scrive: …queste tele ti diranno quello che non so dire a parole, quello che trovo sano e corroborante nella campagna.57 Evidentemente quando Van Gogh dipinge qualcosa di inquietante o emotivo, si sente rilassato e alla fine avverte una sensazione di calma e di salute: dipingere diventa una sorta di catarsi che gli dà sollievo. Non a caso, definen-do la sua arte, sostiene che è un’antenna parafulmine della sua malattia, anche se non si ritiene un malato mentale. Per quanto posso giudicare, propriamente parlando, non sono pazzo, scrive, Le tele che ho fatto durante gli intervalli sono contenute e non sono inferiori alle altre.58

57 M. CESCON, T. GIANOTTI, Op. cit.58 M. CESCON, T. GIANOTTI, Op. cit.

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Psichiatra tedesco, oltre che filosofo, Karl Jaspers (1883-1969), a proposito della schizofrenia di Van Gogh, nota che la consapevolezza della propria malattia e lo sforzo di auto-controllo costantemente esercitato dal pittore ressero fin-tanto che la disperazione non lo travolse al punto da farlo soccombere.La realtà, fino a pochi mesi prima della morte, è il prolunga-mento del suo essere e Van Gogh la tiene sotto controllo impossessandosene attraverso la pittura. Si calma, egli affer-ma, attraverso l’aspetto rassicurante delle cose e, al contrario, è terrorizzato di allontanarsi dal possibile.59 Le cose sono la con-creta immagine delle condizioni necessarie per mantenere una calma mentale.Il Campo di grano, con la sua orizzontalità, con i corvi in volo, con il cielo inquietante rivela invece un annientamento della personalità dell’artista e diventa un’immagine di insicurezza totale, esprimendo un desiderio compulsivo di essere inghiottito e di perdersi nel nulla.

3.3 Funzione terapeutica della pittura

La pittura è una delle varie attività artistiche che può essere utilizzata con finalità terapeutico-riabilitativa. L’atto del dipingere e del disegnare permette al soggetto di raffigurare le proprie emozioni, siano esse positive o negative, lasciando libero sfogo alla sua creatività.Attraverso l’utilizzo dei colori e delle immagini prendono, così, forma quegli stati d’animo, quelle sensazioni che diver-samente sarebbe difficile rivelare apertamente agli altri. Vie-ne, infatti, attivato un meccanismo inconscio, che servendosi delle immagini visive, già codificate nella mente dell’individuo, permette il riaffiorare dei ricordi più nascosti.

59 M. CESCON, T. GIANOTTI, Op. cit.

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È l’artista, che più di ogni altro, nel realizzare un’opera, utiliz-za questo meccanismo: é come un fluire di immagini mentali che egli, inconsapevolmente trasferisce sulla tela o sulla carta senza un’apparente logica o una reale cognizione di ciò che sta avvenendo nel suo intimo. Si abbandona così al vortice dell’eccitazione, lasciandosi guidare dalla frenesia delle emo-zioni. Le arti pittoriche si rivelano particolarmente efficaci nel caso di soggetti che manifestano difficoltà relazionali, comunica-tive e di espressione verbale; in particolar modo si sono ri-velate utili anche nei casi di psicosi, disabilità, emarginazione sociale, balbuzie, somatizzazione, malattie invalidanti, disturbi alimentari e gestione dello stress.Realizzare qualcosa diviene il mezzo per incrementare la fi-ducia in se stessi, rafforzare l’autostima e facilitare le relazio-ni interpersonali.I laboratori terapeutici di pittura non richiedono particolari abilità artistiche, in quanto il prodotto non deve rispondere a precisi parametri estetici, ma, al contrario, deve focalizzare l’attenzione sull’originalità, la spontaneità e l’autenticità delle creazioni.Di particolare interesse, dal punto di vista terapeutico, risul-ta la fase successiva alla realizzazione dei prodotti creativi, che consiste nell’elaborazione e nella condivisione dei vissuti emersi durante l’attività e nella non meno importante inter-pretazione dell’opera stessa.

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3.4 Poesia e follia di Elena Scaroni

Affrontare il problema del rapporto tra la follia e la poesia è per chiunque ami e studi la letteratura un’esperienza affasci-nante ed inquietante insieme.Sì, perché quasi tutti gli artisti, e i poeti in particolare, soffro-no oggi come nel passato, in forme differenti, di un disagio psicologico profondo causato proprio dalla loro “diversità”, alterità rispetto ai modelli “normali” di intelligenza, di com-portamento e di vita.Il genio, o comunque si possa definire la creatività artistica, è una presenza ingombrante e indiscreta nell’esistenza di una persona: si impone fin dall’infanzia, cresce, ha esigenze, ritmi, tempi inderogabili e solo suoi, chiede continuamente spazi, possibilità di esprimersi, alimento, soddisfazioni... È difficile persino immaginare come possa un bambino, un giovane, ma anche un adulto sopportare un fardello del genere: certa-mente deve arrendersi alla persuasione di non appartenere a se stesso e a null’altro se non alla propria vocazione.Per la società, e magari per la sua stessa famiglia, il genio può apparire come una sorta di devianza difficile da accettare, perché tende a creare tensioni e conflitti, sofferenze e in-comprensioni crudeli, che danno luogo a reazioni impreve-dibili: dall’isolamento alla fuga, dall’aggressività all’autolesioni-smo, dalla follia al suicidio.Il genio è incompreso, come si suol dire, perché è veramente incomprensibile per le persone comuni (e a volte anche per se stesso!): la poesia, come ogni forma di creatività, non è una libera scelta, ma un destino, una condanna forse, che si paga ad un prezzo altissimo, anche nei casi più fortunati di successo facile e duraturo.

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Nell’età classica il genio, e l’ispirazione poetica in particolare, si riteneva una divina “manìa”, una follia dunque, un invasa-mento, che ne giustificava la preziosa eccezionalità e anche le bizzarrie di comportamento. Come le Sibille, come gli in-dovini e i profeti, i poeti “pativano” l’ispirazione che li rapiva e li trascinava con sé: erano la voce canora del dio, e il loro compito era quello di dare forma splendente e perfetta alla forza misteriosa che li possedeva.È difficile dire se il disagio psicologico (la follia, per usare il termine classico) sia una causa o una conseguenza del genio, o se il genio sia uno dei molti aspetti della follia, ma è certo che tante volte essi coincidono ed interagiscono non solo nella vita del poeta, dell’artista, ma anche nella sua attività creativa e nelle sue opere.Bisogna sottolineare, tuttavia, che il disagio, persino la follia conclamata, che ha portato tanti poeti a lunghe e difficili terapie, al manicomio, o, in certi casi, al suicidio, è rilevabile più nella loro biografia che nelle loro opere e che i biografi ufficiali evitano di darne notizie, sia per una forma di riguardo nei confronti dell’autore sia per un’effettiva ignoranza in materia. Non si parla dell’alcolismo di Pascoli o della tossicodipen-denza del vecchio D’Annunzio, non si dà nome alle nevrosi e alle fobie di Manzoni e Leopardi, ai tormenti di Campana e Pavese, di Saba e Penna, della Rosselli o della Merini.E dal canto suo il poeta, quando scrive (se è in grado di scri-vere, perché talvolta la gravità del suo male lo costringe al silenzio, come accadde a Campana o alla Merini) sa sempre rielaborare i dati della sua esperienza, sa riconoscere nelle proprie sofferenze quanto lo accomuna al travaglio muto e chiuso di tutti gli altri uomini per diventarne l’emblema.Nella storia della poesia italiana - come in tutte le altre tra-dizioni poetiche occidentali - è possibile riconoscere nel rap-

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porto tra la follia e la poesia un discrimine netto, che divide un passato, legato essenzialmente al Classicismo, dall’età con-temporanea, ispirata al Decadentismo, al Positivismo, e alle correnti che da essi derivano, discrimine che si pone intorno alla metà dell’800.Prima di quest’epoca le varie forme di disagio psicologico erano poco riconosciute e comunque tollerate nell’ambiente in cui il poeta viveva come espressioni dell’eccezionalità del genio, della sua eccentricità e sregolatezza, tuttalpiù affidate alla cura di familiari, amici o servitori devoti, del medico o del sacerdote. Per i casi più gravi c’era l’isolamento, la prigione o l’ospedale dei pazzi (questo fu il caso, ad esempio, di Tasso, recluso per sette lunghi anni nel convento-ospedale di S. Anna a Ferrara).Ma poiché il Classicismo riteneva che la poesia fosse il più alto prodotto dell’intelletto umano, fondata sulla cultura, sugli insegnamenti accademici, sulla tecnica e sull’imitazione degli antichi, e che dovesse proporsi come fine un universale “utile” attraverso il supremo “diletto”, prodotto dalla bel-lezza, dall’armonia, dall’equilibrio perfetto di forma e conte-nuto dell’opera, è evidente che anche il disagio psicologico per diventare poesia doveva in ogni caso trovare il modo di disciplinarsi all’interno delle norme dettate da questa con-cezione.Per essere definita “arte” qualsiasi opera doveva rispondere ai canoni della Poetica classica, che non tollerava libertà o infrazioni: rispetto dei generi letterari e delle regole proprie di ciascuno, forme chiuse, misure e metri ben precisi, uso di un linguaggio convenzionale, di figure retoriche di illustre tradizione, ecc. In pieno ‘700 persino Alfieri definiva Shake-speare un “barbaro di genio”, non un poeta, perché non aveva rispettato le regole della Poetica di Aristotele.Il poeta poteva cantare la follia, come Ariosto, rappresentarla

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come una dolorosa esperienza personale, come Tasso, poteva sorriderne, come Pulci e Tassoni, o esaltarla come la più alta forma di eroismo e nobiltà, come Cervantes, ma non poteva liberarla, permetterle di esprimersi secondo le sue esigenze. La follia poteva ispirare la poesia, ma in nessun caso dettarne le leggi o mutarne le finalità.È dalla seconda metà dell’800 che il rapporto antico tra la follia e la poesia cambia radicalmente.Fin dal 1848, con la pubblicazione dei racconti di Poe, poi con Baudelaire, i grandi poeti “maledetti” francesi e gli Scapiglia-ti italiani, la letteratura del Decadentismo concentra la sua attenzione su quella parte oscura, primigenia e inesplorata della psiche umana (quella che Freud definirà “inconscio”) in cui si annidano le pulsioni e gli istinti primordiali, i sogni e le ossessioni, Eros e Thànatos, il genio, forse, e la follia, e qui, in questa zona da sempre censurata e repressa, riconoscono la matrice autentica dell’individualità dell’uomo, il luogo privile-giato di contatto e di comunicazione con la natura e con gli altri esseri viventi.Tutto è uno e uno è tutto, proclamano i nuovi poeti, e nell’uno e nel tutto la vita e l’arte, l’inconscio e la poesia coincidono.Allora la poesia non è più da considerare prodotto altissi-mo dell’intelletto, degli studi e delle tecniche, destinata ad una contemplazione razionale ed estetica insieme: la poe-sia ha origine nell’abisso, nell’ignoto, e lì deve risprofondare per portarlo alla luce; deve quindi percorrere vie inesplorate, inventare nuovi mezzi espressivi per dare voce a realtà ine-sprimibili.È un’autentica rivoluzione: la scoperta dell’inconscio e del suo misterioso legame con la creatività artistica trasforma vorticosamente (e necessariamente!) tutto della poesia: i contenuti, le forme, il linguaggio, le finalità, il pubblico, la critica...

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Il Classicismo è finito, relegato al passato.Intanto il Positivismo inizia a studiare e a definire secondo criteri scientifici, tra le altre malattie, anche quelle mentali, e nel mondo dell’arte e della poesia si diffonde una nuova consapevolezza sulla natura dei disturbi psichici, consapevo-lezza che andrà via via crescendo e approfondendosi con il progredire delle conoscenze in materia. Molti dei nostri au-tori si sottoporranno a vari tipi di terapie e studieranno le opere di illustri psicologi e psicanalisti per trovare rimedio ai propri mali, come Pirandello, Svevo, Saba, Caproni, Penna, Cardarelli...Ma naturalmente è la psicanalisi di Freud a cambiare il mondo, perché non rivoluziona soltanto il modo di definire e curare il disagio psicologico, ma l’intera concezione dell’uomo, dei suoi rapporti con la realtà, con la società e con se stesso.Sulla base di queste scoperte, che mettono a fuoco e organiz-zano in una dottrina scientifica le intuizioni della letteratura precedente, la psicanalisi contribuisce a rafforzare il rapporto tra l’inconscio e la poesia (e quindi anche tra la follia e la poe-sia), mettendo a disposizione di una nuova poetica le proprie conquiste e i propri mezzi di indagine e di interpretazione.Simboli, analogie fulminanti, caduta dei nessi logici, frantuma-zione del discorso, del periodo, della frase, parole in libertà, parole pure sillabate sul bianco della pagina, ritmi inconsue-ti, flusso di coscienza, plurilinguismo, onomatopee, sonorità primitive, musica...il lettore è chiamato non a capire, ma ad emozionarsi, a immedesimarsi con il poeta e con la poesia, il critico deve imparare ad interpretare, talora a decifrare la poesia della modernità.E nel ’900 la considerazione del disagio psicologico in tutte le sue forme, dalle più alle meno gravi (dalle devianze sessuali alla tossicodipendenza, dalla depressione alla violenza, dalle nevrosi alla follia), cambia ancora: anche da illustri psichiatri, e

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non solo dai poeti, esso viene ritenuto come la manifestazione tragica e rivelatrice di una malattia che affligge in realtà tutti gli uomini, la società intera del nostro tempo, svuotata di valori ideali, snaturata da un progresso affannoso e incontrollato, massificatrice, totalitaria, brutale e spietata.La malattia nervosa colpisce i poeti, come gli uomini di genio in generale, con maggiore violenza ed evidenza, proprio perché sono i più sensibili e i più ricettivi: diventa paradossalmente una sorta di privilegio, un carisma, quel “terzo occhio” che consente a loro, e solo a loro, di intravedere il mistero celato sotto le parvenze della realtà.Il poeta ammalato e folle è, quindi, il testimone e il martire di un universale male di vivere anarchico e minaccioso, che solo le parole dolorose e stupefacenti della poesia sanno portare alla luce per renderlo in qualche modo meno terrificante.Così oggi la follia non soltanto viene liberata ed espressa per assumere questa importante funzione di testimonianza e denuncia, ma diventa addirittura una guida della poesia, diventa una poetica: è lei che impone alla poesia i suoi ritmi vorticosi, le sue visioni, le sue allucinazioni e le fughe dalla realtà, il suo linguaggio straniante, rivelatore, profetico.A maggior ragione la critica contemporanea e anche i lettori devono dotarsi di tutti i mezzi che la sensibilità, la cultura, la psicanalisi mettono a disposizione per riconoscere alla poesia della follia il suo straordinario valore, la folgorante bellezza e le terribili verità.

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3.5 La follia e la poesia attraverso i profili di alcuni poeti del 1900di Elena Scaroni

U. Saba – V. Cardarelli – S. Penna – C. Pavese – A. Pozzi – D. Campana – A. Rosselli – A. Merini Per fornire qualche esempio dei complessi rapporti che si creano tra il disagio psicologico e l’attività poetica, tra la follia e la poesia, ho scelto, presentandone una brevissima biogra-fia, alcuni grandi autori della letteratura italiana contempo-ranea, sia perché soltanto nell’ultimo secolo la psichiatria ha raggiunto un tale livello di conoscenze scientifiche da con-sentire diagnosi precise sia perché gli autori stessi che hanno sofferto di disturbi nervosi sono stati in grado, in molti casi, di riconoscerli e di curarli, sottoponendosi alla psicanalisi, a ricoveri in case di cura o ad altre terapie. L’interesse cre-scente per la psicologia e per la psicanalisi, la diffusione, an-che al di fuori della cerchia degli studiosi e dei terapeuti, del pensiero e delle opere di Freud, Young, Fromm, Bettelheim, per citare i più noti, la divulgazione capillare di informazioni in materia, anche attraverso i media, consentono oggi a tutti ai critici, ai docenti, ma anche ai semplici lettori una diversa e più profonda capacità di riconoscere, capire e interpreta-re senza pregiudizi le opere poetiche ispirate dal disagio o dalla follia, persino nelle espressioni più difficili e lontane dal sentire comune, e di scoprire così capolavori che un tempo sarebbero stati irrimediabilmente ignorati o condannati, co-munque perduti.I profili biografici degli autori presentati a titolo di esempio raccolgono soltanto alcuni sommari dati della vita e delle vi-cende personali di ciascuno, i tratti più evidenti del carattere

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e, per quanto è stato possibile, dei disturbi nervosi di cui sof-frivano, aggiungendo qualche nota per sottolineare attraver-so quali mezzi espressivi ciascuno sia riuscito a dare voce e forma di altissima poesia alla propria drammatica esperienza.

UMBERTO SABA (1883-1957)Triestino di nascita e di cuore, Umberto Saba trascorse nella sua città un’esistenza appartata, apparentemente serena e tranquilla, ma in realtà tormentata dalla nevrosi e da insanabili conflitti interiori.All’origine del suo disagio, che cercò di controllare e di cura-re anche con la psicanalisi, egli stesso riconobbe alcune cau-se particolarmente evidenti, tra cui sopratutto il disaccordo tra il padre e la madre, troppo diversi tra loro per caratte-re, ma anche per razza e religione (ebrea lei e cristiano lui), che portò ad una dolorosa separazione prima che Umberto nascesse, e ad un risentimento implacabile della donna nei confronti del marito.60 Cresciuto così da una madre severa e amareggiata, privo di una figura paterna di riferimento al pun-to che rifiutò il cognome originario Poli e scelse lo pseudo-nimo Saba, egli ebbe un carattere introverso, difficili rapporti con gli altri, un curriculum di studi irregolare, che lo portò a sperimentare lavori diversi, finché approdò finalmente a quella libreria antiquaria, che divenne la sua attività e il suo rifugio per tutta la vita: ma lo afflisse sempre la percezione di essere un “diverso” rispetto a tutti gli altri, un isolato, un estraniato, pur nutrendo il desiderio dolce e vano d’immettere la mia dentro la calda vita di tutti, d’essere come tutti gli uomini di tutti i giorni...61

60 cfr. Mio padre è stato per me l ‘ assassino...da Autobiografia, ed. Mondadori, Milano, 2001, p.257.61 da Il Borgo,da Cuor Morituro, ibidem, p.324.

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Ebbe con la moglie Lina, che gli diede la figlia Linuccia, un rap-porto molto intenso, talvolta burrascoso, a causa anche della sua sessualità inquieta e di un’omosessualità latente, che egli tuttavia riuscì a chiarire e a rivelare in alcune poesie del Can-zoniere e nel racconto Ernesto.62 Afflitto fin da ragazzo dalla “nevrosi”, Saba si sottopose per vari periodi dal 1921 in poi alla terapia psicanalitica, ma fu soggetto a gravi crisi depressi-ve che lo costringevano all’isolamento e anche al ricovero in casa di cura,63 dove morì a Gorizia, poco dopo la scomparsa della sua Lina, nel 1957.La psicanalisi fornì a Saba gli strumenti per analizzare il proprio disagio psicologico, per illuminare, prima di tutto a se stesso, i propri turbamenti e le proprie ossessioni, ma furono le strutture limpide e rigorose della poesia classica, che ispira il suo Canzoniere, la scelta dei metri regolari, delle forme chiuse, di un linguaggio volutamente semplice e aperto di che gli permisero di liberare in forme di altissima poesia il suo complesso mondo interiore.

SANDRO PENNA (1906-1976)Nato a Perugia, ma vissuto quasi sempre a Roma, Sandro Pen-na compì studi irregolari e faticosi, al termine dei quali riuscì a diplomarsi in ragioneria. Fece una vita randagia, avventuro-sa e, nel complesso, miserevole, occupato in piccoli impieghi diversi, presto perduti, e alla fine in un modesto commercio delle cose più disparate, dividendo con la madre un appar-tamentino in una casa popolare a Trastevere. Ossessionato dall’eros omosessuale, rivolto in particolare ai “fanciulli”, Penna pagò con la condanna sociale, con la solitudine e la

62 cfr. Ed amai nuovamente: e fu di Lina...da Autobiografia, ibedem, pag.266; Vec-chio e giovane, da Epigrafe, ibidem, p.560.63 cfr. In riva al mare, da L’amorosa spina, ibidem, p.220.

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paura continua per le minacce e le violenze, di cui talvolta fu vittima, le sue passioni e i capricci dell’eros ragazzino.64 Sin da bambino egli sofferse di alcune malattie di origine psicoso-matica, che cercò inutilmente di curare, e che gli causavano, tra l’altro, febbri inspiegabili, cefalee e svenimenti.Penna fu a lungo ignorato dalla critica, nonostante l’apprez-zamento di grandi poeti come Saba, Montale e Pasolini, sia perché era del tutto estraneo ai circoli culturali della capitale sia perché il tema dominante della sua poesia era quell’amo-re omosessuale che, all’epoca, suscitava la disapprovazione generale e l’accusa di immoralità, ma oggi egli è diventato per i giovani scrittori (e non solo!) una sorta di mito, un modello di poesia per la perfezione e la grazia impareggiabile delle sue liriche, ispirate ai modelli classici di essenzialità, musicalità e limpidezza.Le sue ossessioni, le sue esperienze spesso crude e difficili anche per il lettore più maturo, la sua sensualità accesa, pagana e sfrontata, ma sempre sospesa sullo sfondo amaro e terribile della frustrazione, dell’ abbandono e dell’angoscia, si esprimono in poesie paragonabili solo a quelle dei lirici greci, agli epigrammi alessandrini o agli aiku giapponesi.65

VINCENZO CARDARELLI (1887-1959)Nato a Tarquinia, ma romano di adozione, figlio illegittimo di Antonio Romagnoli, che gestiva il buffet della stazione, e di Giovanna Caldarelli (Cardarelli è uno pseudonimo), egli sofferse nella sua infanzia infelice e solitaria per l’abbandono della madre, che lo lasciò affidato al padre, e di una meno-

64 cfr. Trovato ho il mio angioletto..., p. 50; Mi avevano lasciato solo...ibidem, p. 4; M’ hanno battuto. A te solo, fanciullo,...”, p. 76, da Poesie, ed. Garzanti, Milano, 2004. 65 cfr. Interno, ibidem, p.45; Nuotatore, ibidem p.13; La vita...è ricordarsi di un risveglio..., ibidem, p.3.

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mazione al braccio sinistro. Fece studi irregolari, ma riuscì comunque impegnandosi da autodidatta ad inserirsi, poco prima dei vent’anni, nel mondo giornalistico e letterario di Roma. Qui Cardarelli visse per gran parte della sua vita tra grandi amicizie e acri inimicizie con gli intellettuali del tempo, come gli scrittori della Ronda e della Voce, tra relazioni amo-rose importanti, come quella con Sibilla Aleramo, e rapporti occasionali, scrittore stimato e conosciuto, ma sempre senza una casa, senza punti di riferimento: viveva in albergo, tra-scorreva lunghe ore nelle sale dei caffè, con il solito cappotto addosso, a conversare e a discutere con chi volesse fermarsi con lui.Scrittore raffinato in prosa e in versi, afflitto dall’insonnia, dalla depressione e da mille inquietudini, Cardarelli espresse anche nei versi l’angoscia quotidiana della solitudine, dello scorrere inesorabile del tempo, della morte annidata nella vacuità della vita.66

La sua raccolta Poesie trova nel più squisito classicismo, in un linguaggio elevato e rigoroso e nelle forme nobili della tradizione poetica italiana le strutture ideali per dare voce ed espressione universale ai tormenti di una psicologia modernissima.

CESARE PAVESE (1908-1950)Nato a S. Stefano Belbo nelle Langhe, da famiglia piccolo bor-ghese, rimase orfano di padre a sei anni. Dopo un eccellente curriculum di studi a Torino, dove visse per quasi tutta la vita, Pavese frequentò gli intellettuali più prestigiosi dell’ambiente torinese e fu a sua volta un intellettuale a tutto tondo: ro-manziere, poeta, ottimo traduttore della letteratura inglese

66 cfr. Insonnia, p.110; Alba, p.111; Alla deriva, p.165, da Poesie, ed. Mondadori, Verona, 1969.

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e americana, critico, collaboratore di importanti riviste lette-rarie e della casa editrice Einaudi. Antifascista e poi iscritto al PCI, nel ‘35 subì l’arresto e un anno di confino, ma non partecipò attivamente alla lotta partigiana, scelta, questa, che in seguito gli fu rimproverata dai compagni di partito e che egli avvertì come una colpa.Ma, nonostante i suoi grandi impegni letterari, intellettuali e politici ed i successi che ottenne, la sua vita fu sempre infelice e tormentata: Pavese avvertiva come una pena dolo-rosa la contraddizione insanabile tra l’esistenza individuale e la storia, tra la politica e la letteratura, tra un passato mitico e innocente ed un presente convulso e terribile, in cui non riusciva a collocarsi o a riconoscersi. La superficialità dei rap-porti umani, l’inconsistenza delle relazioni amorose, la sua incapacità di partecipare con convinzione alla realtà che lo circondava aggravarono il suo stato di angoscia, di delusione, di disperata amarezza. Dopo un grave scontro con il parti-to e dopo l’ennesima delusione amorosa, egli mise in atto una decisione che accarezzava fin dall’adolescenza: prese una stanza all’albergo Roma di Torino e si suicidò con una dose eccessiva di sonnifero il 26 agosto 1950.67 Le raccolte poetiche di Pavese, come Lavorare stanca e Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, si distendono in uno stile ampio e narrativo, molto diverso da quello proposto dalla poesia contemporanea, con un linguaggio piano, spesso discorsivo, in ritmi lenti e profondi, con ripetizioni insistite delle parole tematiche, e affrontano tutti i temi cari al suo cuore e alla sua sensibilità: i miti della terra e delle colline, dell’infanzia e della donna, del viaggio e del paese natio, dell’amore e del nulla, della solitudine e della morte. Soprattutto della morte.

67 cfr. Lo steddazzu, p.104; Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, p.136, da Le Poesie, ed.Einaudi tascabili, Torino, 1998.

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ANTONIA POZZI (1912-1938)Di ottima famiglia milanese, figlia unica del noto avvocato Roberto Pozzi e della contessa Lina Cavagna Sangiuliani, di-scendente di Tommaso Grossi, potè godere dei privilegi della sua condizione sociale, vivendo in un ambiente culturalmente elevato e acquisendo un’ottima formazione, viaggiando, leg-gendo moltissimo e laureandosi in Estetica all’università di Milano, dove fu apprezzata e stimata dai suoi professori come da tutti i compagni di facoltà. La vita familiare della Pozzi fu tuttavia difficile, con una madre sempre occupata in mille im-pegni mondani ed un padre rigido e severo, che aveva in men-te un ideale di figlia da cui Antonia era ben lontana. Dimostrò fin da ragazzina un’intelligenza acuta, profonda e riflessiva, una straordinaria sensibilità ed una eccezionale vocazione poeti-ca. Ebbe una sola grande amica ed un solo grande amore per Antonio Maria Cervi, il suo insegnante di latino e greco al liceo, un rapporto che fu duramente disapprovato, ostacolato e alla fine interrotto dai genitori, che desideravano per lei un matrimonio molto diverso.La fine del suo sogno, il desiderio negato di avere un figlio dall’uomo che amava, una sorta di disperazione lucida e irri-mediabile nei confronti della vita e del futuro, che già aveva espresso nelle poesie, la indussero al suicidio: in una gelida mattina invernale del 1938 uscì dalla scuola dove insegnava, giunse ad un prato della periferia milanese coperto di neve e lì si lasciò andare alla morte, dopo aver preso una dose letale di barbiturici.68 Le sue liriche, pubblicate postume nella rac-colta Parole, sono tra le più belle e originali del nostro ‘900: in uno stile impeccabilmente alto e rigoroso, modellato sugli esempi della grande poesia italiana ed europea, ma insieme con un’incredibile freschezza e spontaneità, proprie solo di

68 cfr. Maternità, p. 326; Saresti stato. p. 324; Voto, p. 329; I fiori, p. 96, da Parole, ed. Garzanti, Milano, 2004.

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un’autrice giovanissima, la Pozzi dà voce indimenticabile al mondo complesso, lucente e doloroso dei suoi sentimenti, della sua passione e della sua disperazione.

DINO CAMPANA (1885-1932)Campana è l’ultimo dei grandi poeti “maledetti”dell’800.Nato a Marradi, figlio di un maestro elementare, sofferse fin dai 15 anni di “nevrastenia”, con crisi che esplodevano in gesti di violenza, fughe e vagabondaggi, e lo costrinsero a frequenti ricoveri al manicomio. Dopo il liceo, si iscrisse alla facoltà di Chimica all’università di Bologna, ma l’aggravarsi del suo male gli impedì di condurre a termine gli studi e di laurearsi. Viaggiò, vivendo di espedienti e facendo i lavori più umili, in Svizzera, Francia, Belgio, Ucraina, Argentina, Uru-guay, ma studiando, comunque, e scrivendo poesie. Campana entrò in contatto con gli scrittori della Ronda e di Lacerba, e proprio a Papini e Soffici affidò l’unica copia manoscritta del libro di poesie che intendeva pubblicare. Il manoscritto fu smarrito e Campana dovette ricostruirlo a memoria, ma questo fatto lo gettò in uno stato di turbamento e di crisi gravissima. Pubblicò infine il suo libro di versi e prose liriche nel ‘14, con il titolo di Canti orfici, e cominciò a venderlo per le strade e nei caffè.Nel 1916 ebbe una tumultuosa e drammatica relazione d’amore con Sibilla Aleramo: dopo la fine della storia, nel 1918 fu internato definitivamente nel manicomio di Castel Pulci, dove morì nel 1932. Nella stretta della follia cessò per sempre di scrivere.69 Ispirandosi alla cultura e al pensie-ro “maledetto” dell’800, da Poe a Rimbaud, da Baudelaire a Nietsche, Campana tende nella sua poesia a liberare diret-

69 cfr. La giornata di un nevrastenico, pp. 171-175; La petite promenade du poète pp. 113, da Canti Orfici, ed. BUR POESIA, Rizzoli, Milano, 2002.

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tamente l’inconscio, una sorta di volontà distruttiva e anar-chica, a scoprire, con lampi e folgorazio improvvise, il fondo oscuro e minaccioso di una realtà “notturna”.Nelle pagine visionarie dei Canti orfici (ma più ancora nelle poesie disperse!), dense di immagini accese e violente, pae-saggi allucinati, popolati da figure spettrali, simboli e analogie fulminanti, ritmi ossessivi, ottenuti con replicazioni continue in un contesto di raffinati riferimenti culturali, la follia non solo trova il modo di esprimersi e di rappresentarsi libera-mente, ma diventa essa stessa guida e maestra della poesia, diventa una poetica.

AMELIA ROSSELLI (1930-1996)Nata a Parigi da Carlo Rosselli, esule antifascista assassinato nel ‘37 insieme con il fratello Nello per mandato del regime, e da madre inglese, Amelia visse a lungo come un’apolide in Francia, Inghilterra e Stati Uniti, facendo studi irregolari di orientamento filosofico, letterario e soprattutto musicale. Giunse in Italia solo nel dopoguerra e si stabilì a Roma, dove visse prevalentemente, nonostante lunghi soggiorni all’estero.La Rosselli si dedicò alla musica come compositrice ed ese-cutrice, alla traduzione, alla saggistica, collaborò con varie ri-viste, scrisse prose e poesie in inglese e francese, e poi anche in italiano: di madre lingua inglese e francese, l’aveva imparato solo a 18 anni. Fin da giovane fu afflitta da gravi disturbi psi-chici, riferibili anche agli eventi tragici che avevano segnato la sua infanzia e alla difficile condizione in cui si era trovata a vi-vere, disturbi che si aggravarono poi con la morte nel 1953, a soli 30 anni, dell’uomo che amava, lo scrittore e poeta Rocco Scutellaro. A questo suo lungo male, che la costrinse a svariati

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ricoveri e a dolorose terapie, come l’elettroshock, si aggiunse poi il morbo di Parkinson, che la tormentò sino alla fine. Si tolse la vita nella sua casa di Roma l’11 febbraio del 1996. 70 Nelle sue liriche, che furono scoperte ed apprezzate da Pasolini, ed ebbero in seguito importanti riconoscimenti da parte della critica (Variazioni belliche e Serie ospedaliera sono i titoli delle raccolte più significative), la Rosselli intendeva sostanzialmente sprigionare attraverso le parole le prepotenti pulsioni psichiche che la agitavano, seguendo il dettato delle forze del “disordine”, portando spietatamente alla luce il fondo oscuro dell’inconscio.Ispirata agli esempi della poesia anglosassone, ed in parti-colare di Ezra Pound, la sua poesia è fatta di versi lunghi o lunghissimi, assolutamente liberi, in cui solo il ritmo ha ca-denze regolari, mentre il dettato si frantuma, si compone e scompone in continue spezzature del periodo, inversioni les-sicali, associazioni analogiche inconsuete, sbalzi repentini da un tema, da un tono, da un punto di vista ad un altro.Il linguaggio è “abnorme”, come lo defisce Ferroni, intessu-to di parole straniere, di termini gergali, di lapsus lessicali, grammaticali e sintattici, di echi fonici, di riferimenti letterari liberamente rielaborati, in una sorta di scontro continuo con la realtà, con gli altri e con il proprio Io.La follia ormai si espone in tutta la sua prepotenza, infrange tutti i limiti, domina senza regole la poesia, con esiti di lanci-nante verità, novità e bellezza.

ALDA MERINI (1931-2009)Nata a Milano da una tranquilla famiglia piccolo borghese, la Merini dimostrò fin da giovanissima una straordinaria

70 cfr. Settanta pezzenti e una camicia...p. 346; La pazzia fioriva, p. 237, da Le Poesie, ed. Garzanti Milano, 2007.

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vocazione alla poesia: risalgono ai suoi 15 anni le prime poesie che le vennero pubblicate con grande consenso della critica.Disturbi psichici violenti la portarono già nel ’65 all’interna-mento in manicomio e all’isolamento fino al ‘72, e poi succes-sivamente ad altri ricoveri, che le impedirono fino agli anni ‘80 di riprendere la sua attività di poetessa e di scrittrice.La carriera letteraria della Merini non fu dunque regolare, come la sua vita, ma fu protetta da amici illustri, che la ap-prezzarono sempre e la sostennero negli anni difficili, come Maria Corti, Giorgio Manganelli, Giacinto Spagnoletti, Gio-vanni Raboni.Alda Merini era una donna ricca di grandi sentimenti, di gran-di tensioni morali e intellettuali, ingenua e istintiva, dotata di una calda sensualità, di un prepotente amore per la vita e di un talento espressivo “clamorosamente naturale”, come ha detto Raboni, che si tradusse in innumerevoli raccolte di liriche tra le più belle e significative del nostro tempo.71 Morì a Milano nel 2009. Nella sua poesia la follia si esprime in un fluire insieme tumultuoso e limpido, senza mai intaccare il rapporto con il lettore, richiamandone, anzi, il cuore e la mente, con un linguaggio contemporaneamente familiare e visionario, affettivo e simbolico, con testi vorticosi, sostenuti però da una struttura sintattica e ritmica energica e coeren-te.Per la Merini la follia sembra essere non solo una poetica, ma una fonte di perenne e rinnovata ispirazione, come se la riportasse ogni volta alle origini, a continue rinascite.

71 cfr. Manicomio è parola assai più grande, p.71; Il manicomio è una grande cassa di risonanza, p. 71; Al cancello si aggrumano le vittime, p. 73; Vicino al Giordano. p. 77; Il dottore agguerrito nella notte, p. 78; Il testamento, p. 14; Alda Merini, p. 147, da Fiore di Poesia, ed. Einaudi, Torino, 1998.

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3.6 Un’analisi del disagio psicologico di alcuni autori della letteratura italiana del 1800 di Anna Messito Foscolo – Leopardi – Pascoli

Sono tanti gli esempi di geni che hanno sublimato il loro disa-gio nell’ambito delle varie espressioni dell’arte: dalla musica alla danza, dalle arti figurative alla letteratura, al teatro, alla poesia.In quest’ultimo campo in particolare si annoverano autori illustri che hanno dato origine ad opere di eccezionale cre-atività, a capolavori imperituri, che rendono testimonianza di come la sublimazione dei drammi personali, attraverso l’arte, possa tenere a bada il disagio psichico mitigandolo ed impedendone la degenerazione in soluzioni estreme, quali il suicidio o quanto meno la pazzia.Emblematiche si rivelano in questo senso le esperienze di Foscolo, Leopardi e Pascoli, poeti in cui il sentimento del dolore, l’umore malinconico, la concezione della vita intesa come sofferenza, l’esaltazione della morte vista come dispen-satrice di quiete e di riposo, grazie all’azione terapeutica della poesia, lungi dallo sfociare nella pazzia o in gesti irreparabili, assumono una configurazione umanamente più accettabi-le e meno tragica. Il dolore individuale, l’infelicità, il disagio esistenziale, esaminati, scandagliati, analizzati nelle loro varie cause e manifestazioni da questi tre grandi della letteratura, acquistano una dimensione nuova e più universale, grazie ai contorni connotativi e simbolici che la poesia consente.

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In Ugo Foscolo l’origine della sofferenza è attribuibile a va-rie cause: la morte del padre e l’allontanamento da Zacinto, la sua patria natia, l’esilio dall’Italia, la sua amata patria di ado-zione dalla quale è costretto a fuggire a causa delle sue idee liberali, il suicidio del fratello Giovanni. Tutti questi elementi negativi influirono marcatamente sulla sensibilità del poeta facendolo precipitare nel pessimismo. E probabilmente anche lui, come il fratello, avrebbe posto fine alla sua vita, se, grazie al suo genio creativo, non avesse dato sfogo ai suoi tormenti mediante la poesia.I disagi dell’esilio Un dì s’io non andrò sempre fuggendo di gente in gente (In morte del fratello Giovanni), la nostalgia struggente per i luoghi che amava Né più mai toccherò le sacre sponde /ove il mio corpo fanciulletto giacque (A Zacinto), la lontananza dalle persone care La madre or sol, suo dì tardo traendo / parla di me col tuo cenere muto (In morte del fratello Giovanni), il dolore per la morte del fratello mi vedrai seduto su la tua pietra, o fratel mio, gemendo il fior de’ tuoi gentili anni caduto (In morte del fratello Giovanni), il presentimento, poi avveratosi che non sarebbe più tornato nella sua terra, tra la sua gente ma io deluse a voi le palme tendo / e……..da lunge i miei tetti saluto (In morte del fratello Giovanni); A noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura (A Zacinto), sono mirabilmente espressi nei sonetti dai quali emerge inequivocabilmente l’esaltazione della morte come unica apportatrice di serenità e di pace.La lontananza dai luoghi e dagli affetti più cari porta il poeta a ripiegarsi su se stesso ed a guardare alla vita come ad un fardello difficile da sopportare: Sento gli avversi numi e le secrete / cure che al viver tuo furon tempesta / e prego anch’io nel tuo porto quiete. / Questo di tanta speme ora mi resta! ( In morte del fratello Giovanni).Il pensiero della morte si insinua sempre di più nella mente del poeta, che vede in essa l’estremo rifugio, come risulta

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anche dal sonetto Alla sera: Forse perché della fatal quiete / tu sei l’imago a me sì cara vieni / o sera!......Vagar mi fai coi miei pensier sull’orme / che vanno al nulla eterno.Si potrebbe, quindi, affermare che, attraverso il percorso ar-tistico, il Foscolo riesce a sfogare il suo dolore ed a rendere più tollerabili ed accettabili le sue pene, sublimando le sue angosce e salvandosi, così, da atti irrazionali. Non si può, a questo proposito, fare a meno di menzionare la figura di Ja-copo Ortis del romanzo Le ultime lettere di Jacopo Ortis, in cui Foscolo trasferisce molti tratti della sua personalità, oggetti-vando le sue delusioni ed il suo travaglio interiore. Quando Jacopo pone fine ai suoi giorni, è lo stesso Foscolo che ideal-mente si suicida con lui, temperando così la sua irrequietezza e la tensione distruttiva.Per quanto riguarda Giacomo Leopardi molti critici in passato hanno sostenuto che il suo pessimismo derivasse soprattutto dalla mancanza di affetto in ambito familiare. Oggi, però, la maggior parte degli studiosi si è discostata da tale affermazione, sostenendo che il pessimismo del poeta derivava, oltre che dall’ambiente familiare, soprattutto dalla sua indole fortemente meditativa e dalla sua profonda sensibilità, che urtavano con la mentalità retrograda e con l’incomprensione che trovava nel natio borgo selvaggio, intra una gente / gotica e vil……che (l’) odia e fugge (Le ricordanze).L’insofferenza per la grettezza morale e per la ristrettezza di vedute del chiuso mondo che lo circondava, il desiderio di conquistare orizzonti più vasti e consoni alle sue aspirazio-ni, l’anelito verso qualcosa di diverso e di assoluto, gli fanno avvertire un acuto senso di infelicità e lo spingono a rinchiu-dersi in se stesso, a tuffarsi in quello studio matto e dispera-tissimo (Zibaldone), che finirà col logorare drammaticamente la sua salute e farà peggiorare la sua situazione psicologica. Gli studi leggiadri…/ e le sudate carte (A Silvia) sono il rifugio,

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il mezzo per superare i suoi mali, così come rifugio sono per lui la solitudine ed il contatto con la natura, che gli ispirano versi stupendi, versi con cui riesce a sublimare il suo dolore. Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / e questa siepe, che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude, dice il poeta, e immagina interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete e il naufragar (gli) è dolce in questo mare (L’infinito), perché in quell’immensità riesce ad annegare la sua sofferenza e le sue delusioni. Alla luna, che egli rimira pien d’angoscia dice: Nebuloso e tremulo dal pianto / che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci / il tuo volto apparia, ché travagliosa / era mia vita: ed è, né cangia stile, / o mia diletta luna (Alla luna).Il poeta, sopraffatto dal dolore fisico e psicologico, dalla delusione per gli ideali svaniti nel nulla, per il sentimento d’amore non corrisposto o stroncato dal Fato, si ripiega su se stesso e in solitudine, come il passero solitario da lui immortalato, si sfoga confidando le sue pene alla luna.È la prima fase del suo pessimismo, quella del “dolore personale”, la fase in cui egli guarda solo a se stesso, crede che il dolore e gli eventi che lo generano riguardino solo lui, bersaglio particolare di un destino avverso.Ne La sera del dì di festa si legge: l’antica natura onnipossente,… mi fece all’affanno. A te la speme / nego, mi disse, anche la speme; e d’altro / non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. È il periodo in cui egli pensa che i suoi mali derivino principalmente dall’incomprensione che, come si è detto, egli incontra nel natio borgo selvaggio e si illude che, allontanandosi da quell’ambiente ostile, tutto possa cambiare. Ma, quando finalmente può allontanarsi da Recanati, per recarsi a Roma, una nuova delusione lo attende perché, guardandosi intorno, si rende conto della meschinità delle relazioni umane e giunge al convincimento che il dolore non riguarda solo lui, non è un fatto personale, ma riguarda tutti gli uomini, anzi tutti gli

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esseri viventi: in qual forma, in quale / stato che sia, dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dì natale (Canto notturno di un pastore errante dell’Asia).È la seconda fase del pessimismo leopardiano, quella indicata dai critici come “pessimismo universale” perché riguarda tut-ti gli esseri animati, non soltanto l’uomo.Col passare degli anni il pessimismo leopardiano diventa ancora più cupo e profondo e giunge ad una terza fase, quella conosciuta come “pessimismo cosmico”, fase in cui il poeta afferma che il dolore non solo domina e condiziona la vita degli esseri viventi, ma investe tutta la natura, l’intero cosmo. La Natura madre di parto, perché l’uman seme dipende da lei, ma di voler matrigna, perché poi non si cura di esso, ma gli si rivolta contro, è rappresentata dal Vesuvio che, coi torrenti suoi… dall’ignea bocca fulminando, dove fur liete ville… giardini e palagi… città famose… può con moti poco men lievi ancor subitante, quando l’uomo meno se lo aspetta, annichilire il tutto. E alla crudel possanza… del sotterraneo foco soccomberà anche la ginestra, simbolo delle creature non animate, che piegherà sotto il fascio mortal… il capo innocente (La ginestra): la sorte della natura è identica a quella dell’uomo, con la sola differenza che l’uomo l’affronta con forsennato orgoglio dicendo: a goder son fatto, mentre la natura, simboleggiata dalla ginestra, più saggia, (e) tanto / meno inferma dell’uom, l’accetta non renitente, senza la presunzione che le sue stirpi siano state dal fato o da (lei stessa) fatte immortali.Il pessimismo del poeta, il suo dolore interiore, anche le sue sofferenze fisiche sono in continuo crescendo fino al limite della sofferenza umana.Versi come O Natura, o natura / perché non rendi poi / quel che prometti allor? perché di tanto / inganni i figli tuoi?… Questo è quel mondo? questi i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,… questa la sorte delle umane genti? (A Silvia) / O natura cortese, son questi

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i doni tuoi, / questi i diletti sono che tu porgi ai mortali. Uscir di pena / è diletto fra noi. (La quiete dopo la tempesta) sia che vengano dettati dalla rabbia della ribellione, sia che sgorghino dall’umana tristezza frutto della sofferenza esistenziale, espri-mono chiaramente il grande travaglio dell’animo del poeta che, vedendo crollare le sue speranze, i suoi ideali, le sue illusioni, O speranze, speranze; ameni inganni / della mia prima età… fantasmi… son la gloria e l’onor; diletti e beni / mero desio; non ha la vita un frutto (Le ricordanze) tocca il fondo della de-solazione e non vede altra prospettiva che la morte: …se di vecchiezza la detestata soglia / evitar non impetro… (Il passero solitario); … quante volte / questa mia vita nuda / volentier con la morte avrei cangiato…; E già nel primo giovanil tumulto / di contenti, d’angosce e di desio, / morte chiamai più volte, e lunga-mente / mi sedetti colà sulla fontana / pensoso di cessar dentro quell’acqua / la speme e il mio dolor… e spesso a me stesso… cantai funereo canto (Le ricordanze). E il funereo canto o, per dirla più esplicitamente, il suicidio ideale del poeta, si consu-ma nella lirica A se stesso, nella quale ogni parola, ogni verso sottolineano il travaglio dell’animo suo. Or poserai per sempre, / stanco mio cor: sono parole che evoca-no, esplicitamente, l’immagine della morte. Perì l’inganno estre-mo / ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento, / in noi di cari inganni, / non che la speme, il desiderio è spento: i sogni, la speranza della fanciullezza sono caduti, si sono rivelati vani, non sono stati altro che illusioni. Posa per sempre. Assai / palpitasti. Non val cosa nessuna / i moti tuoi, né di sospiri è degna la terra. Amaro e noia / la vita, altro mai nulla / e fango è il mondo: non val la pena vivere, perché la vita è solo dolore e noia e nel mondo c’è solo fango e bruttura. T’acqueta omai. Dispera / l’ultima volta. Al gener nostro il fato / non donò che il morire. Omai disprezza / te, la natura, il brutto / poter che, ascoso, a comun danno impera, / e l’infinita vanità del tutto: dopo l’ultimo atto di disperazio-

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ne, con la morte, il cuore raggiungerà finalmente la quiete, perché il destino dell’uomo è quello di morire. La morte è l’unica meta perché la stessa natura disprezza l’umanità, an-che se ne è madre, e subdolamente domina a danno di tutti e di tutto.Come si è detto, il poeta non si toglie la vita fisicamente, ma, come il Foscolo muore nella figura dell’Ortis, così il Leopardi materializza il suo suicidio in questo canto funebre, che costituisce anche la catarsi del suo dolore.Nei suoi scritti e, in particolare, nella produzione poetica, in-fatti, egli realizza la trasfigurazione del dolore acquistando la forza di andare avanti, come afferma nello Zibaldone: Il tempo del comporre, il miglior tempo ch’io abbia passato in mia vita… passare le giornate… e parermi le ore cortissime e meravigliarmi io stesso di tanta facilità di passarle. Particolarmente significa-tiva a questo proposito è la lirica La ginestra, in cui la pianta, travolta e distrutta dalla lava del formidabil monte / sterminator Vesevo, trova in se stessa la forza di riemergere e rifiorire nel deserto dei campi cosparsi / di ceneri infeconde, e ricoperti / dall’impietrata lava, anche se sa che presto alla crudel possanza ….del sotterraneo foco soccomberà nuovamente; così il poeta, pur nella consapevolezza che la sua sofferenza continuerà, dolorosamente / alla fioca lucerna poetando (Le ricordanze), tro-va la forza di superare le avversità trasfondendole e trasfigu-randole nell’arte, grazie al suo genio creativo.La causa dell’alienazione psichica di Giovanni Pascoli si ri-trova nelle terribili e dolorosissime vicissitudini familiari, che segnarono profondamente la vita del poeta. Aveva appena dodici anni, quando il 10 agosto 1867, suo padre, uomo vir-tuoso ed onesto, fu assassinato con un colpo di fucile, spara-to da ignoti, mentre tornava a casa col suo calessino da una fiera. Fu questo uno dei primi lutti che colpirono la numerosa famiglia del poeta, che era il quarto di dieci figli, lutti che si

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susseguirono a breve distanza l’uno dall’altro con la morte di una sorella, poi della madre, poi di altri fratelli e sorelle, perdite che scossero profondamente la sua vita e che furono al tempo stesso fonte di ispirazione di altissima poesia, grazie alla quale egli poté sublimare il suo profondo dolore. Questi episodi tragici, infatti, sono stati quelli che hanno dato origine a componimenti lirici stupendi, nei quali il poeta rievoca, anzi rivive, il suo dramma quasi per farsene una ragione.Nella poesia Il X Agosto parla della morte del padre attraver-so una bellissima e commovente similitudine: Ritornava una rondine al tetto / l’ uccisero… aveva nel becco un insetto: / la cena dei suoi rondinini… Anche un uomo (il padre) tornava al suo nido / l’uccisero, disse: perdono… portava due bambole in dono…. Ad accentuare il tormento per quella morte contribuisce poi il fatto che essa rimane senza spiegazione e soprattutto senza colpevoli. Le domande che nella poesia la madre del poeta ri-volge all’animale, esprimono l’angoscia del poeta tormentato da quel dramma, da quel dubbio che non sarà mai risolto. Il vuoto incolmabile lasciato dal padre, l’affetto per la madre, il legame con la famiglia, il calore di quel “nido”, che si svuota a vista d’occhio, acquisiscono il senso di desolazione e di solitudine nel cuore del poeta che giunge ad instaurare, a volte, un colloquio ideale con chi non c’è più e di cui sente sempre più viva la mancanza.La sorte, intanto, si accanisce ancora contro di lui, perché alla perdita dei familiari si aggiunge quella della donna amata, rievocata nella lirica La tessitrice. Egli la rivede con la fantasia seduta accanto a lui su la panchetta del telaio mentre lo fissa timida e buona… piange, piange e gli dice: Mio dolce amore, … non lo sai tu? / Io non son viva che nel tuo cuore e sotto il cipresso, / accanto al fine ti dormirò..A tante avversità si unisce anche la preoccupazione per le ristrettezze economiche, che colpiscono la famiglia, o meglio

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i superstiti di essa, essendone venuti a mancare i capisaldi. Pa-scoli deve abbandonare la casa paterna dove ha vissuto giorni felici: da quel nido, dalla sua Romagna solatia tutti (migrarono) un giorno nero lasciando gli altri in cimitero (Romagna), perché, per far fronte alle necessità quotidiane, quella casa dovette essere venduta.Alla miseria e all’allontanamento forzato dalla sua casa natia, si aggiunge la prigione a cui è condannato per aver partecipato ad una dimostrazione politica e a questo punto la sua forza interiore vacilla ed emerge il desiderio di porre fine ai suoi giorni, di lasciare definitivamente quest’atomo opaco del male (X agosto).I temi della morte e del cimitero sono ricorrenti nel Pascoli. Nella poesia L’aquilone al compagno morto dice: felice te che al vento / non vedesti cader che gli aquiloni! e poi: Oh! te felice che chiudesti gli occhi / persuaso stringendoti sul cuore / il più caro dei più cari balocchi. E ancora: Oh! Dolcemente, so ben io, si muore / la sua stringendo fanciullezza al petto… per finire poi: O morto giovinetto, / anch’io presto verrò sotto le zolle, / là dove dormi placido e soletto….In Alba festiva sono significativi gli ultimi versi: Ma voce più profonda / sotto l’ amor rimbomba, / par che al desio risponda: / la voce della tomba. E in Nebbia la supplica amara: Nascondi le cose lontane / che vogliono ch’ami e che vada! / che un giorno ho da fare tra stanco / don don di campane…Nei momenti più tragici della sua esistenza, quando si sente sopraffatto dall’angoscia e dalla solitudine, è la voce dei morti, principalmente quella della madre, che risuona nella sua mente a infondergli coraggio e ad allontanarlo da pensieri cupi, forieri di tragedia: Una notte dalle lunghe ore / (nel carcere!),…che all’improvviso dissi… che agli uomini, la mia vita / volevo lasciarla lì…risentii la voce smarrita / che disse in un soffio…Zvanì…./ Piuttosto dì un requie per noi! / Non possiamo

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nel camposanto più prendere sonno un minuto…/ Oh! La vita mia che ti diedi / …lasciarla vuoi qui? / qui figlio mio? dove non vedi / chi uccise tuo padre…Zvanì?...Ti lessi negli occhi, ch’erano / pieni di pianto, che sono / pieni di terra, la preghiera / di vivere e d’essere buono! (La voce).Il poeta è un essere privilegiato in quanto, attraverso il sim-bolismo dell’arte e del processo creativo, riesce a fronteg-giare la sofferenza, a mitigare il proprio dolore, fortificando il proprio Io: è questo il messaggio che Pascoli ha voluto tramandare ai posteri componendo la lirica La poesia, in cui scrive: Io sono la lampada ch’arde / soave! /…. Lontano risplende l’ardore / mio casto all’errante che trita / notturno, piangendo nel cuore, la pallida via della vita: / s’arresta; ma vede il mio raggio, / che gli arde nell’anima blando: / riprende l’oscuro viaggio / can-tando.È stupenda l’immagine dell’uomo che percorre il cammino della vita nel dolore e che si ferma stanco e deluso per porvi fine, ma la luce della poesia, del genio creativo, la lampada che gli arde nel cuore, gli dà la forza di riprendere la strada, per quanto dura e difficile, sostenuto dalla speranza.

3.7 Funzione terapeutica della poesia

La poesia rappresenta una delle forme artistiche che meglio consente all’individuo di narrare la propria esperienza di vita, di esternare tutti quei sentimenti indefiniti e inespressi, che nella scrittura possono manifestarsi in maniera istintiva e sincera.Data la sua potenzialità liberatoria, nota sin dai tempi più antichi, si configura oggi come specifica tecnica d’aiuto, particolarmente utile nel far fronte alla sofferenza psichica.Esistono diverse tecniche di intervento mediante la poesia,

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quali, ad esempio, la psicopoetry e la poesia-terapia. Tali tecni-che consistono in interventi guidati, attraverso i quali l’indi-viduo è indotto, per mezzo della scrittura e della lettura di brani poetici, ad elaborare la propria emozionalità in modo da pervenire ad uno stato di benessere.Il soggetto, dunque, non è lasciato completamente libero, ma ciò non vuol dire che non sia, comunque, riservato ampio spazio alla sua creatività.Prima di intraprendere un iter di terapia mediante poesia è bene effettuare un’adeguata indagine sul caso, sulle caratte-ristiche che presenta, sulla situazione emotiva e motivazio-nale, così da giungere a stabilire gli obiettivi che si intendono perseguire. Il clinico, per far ciò, può avvalersi del colloquio, di tecniche di rilassamento, di test di valutazione, di griglie di auto-osservazione ed abbinare alla poesia anche altre forme artistiche, quali la danza, il canto, la musica, la cromoterapia e quant’altro possa stimolare e facilitare la produzione poetica e la comunicazione.Vari sono gli ambiti in cui l’applicazione della poesia trova un proficuo impiego terapeutico; senz’altro essa si rivela un prezioso strumento di aiuto in soggetti con difficoltà ad esprimere le proprie emozioni, come ad esempio nel caso degli alessitimici, individui che tendono a spostare le emozioni sul proprio corpo, sviluppando varie forme di sofferenza somatica. La poesia, in tali casi, diventa una via alternativa alla somatizzazione e può indirizzare il soggetto verso una corretta espressione della propria emozionalità e quindi verso uno stato di benessere non solo psichico, ma anche fisico.Essa inoltre può essere utilizzata con soggetti in età evolutiva, per aiutarli a combattere le paure; particolarmente efficace risulta nei casi di depressione, di disturbi d’ansia e di fobie.Attraverso la poesia l’individuo, quindi, può pervenire ad una

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più profonda conoscenza del proprio mondo interiore e portare alla luce quegli stati d’animo, che altrimenti restereb-bero inespressi in quanto, spesso, legati ad avvenimenti non elaborati.Essa può fungere da stimolo alla riflessione, permettendo al soggetto di orientarsi verso nuove modalità di concepire gli eventi, distogliendolo da false credenze o tendenze negative e indirizzandolo verso pensieri positivi.

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3.8 Danza e follia di Emanuela Bianchini

Guardando indietro nel tempo, si può affermare che la danza ha origine quando nasce l’uomo. Nel corso degli anni essa ha assunto svariate forme che hanno risentito dei cambiamenti socio-economici, culturali ed etico-politici, adattandosi ai vari usi, costumi e mode.Spesso danza e follia si sono intrecciate, mostrando stretti legami.A volte il linguaggio della danza ha dato luogo ad interpreta-zioni coreografiche sublimi della follia, come ad esempio nel balletto Giselle (1841), che narra dell’amore di Giselle, una contadina con la passione del ballo, e Loys, giovane miste-rioso, che in realtà è il nobile Albrecht, già promesso sposo alla nobildonna Bathilde. Quando, in occasione di una battuta di caccia a cui prende parte anche quest’ultima, Giselle sco-pre il tradimento, in preda alla disperazione e folle di dolore, muore fra le braccia del suo amato. Entra così a far parte del mondo delle Willi, che la leggenda narra essere delle vergini fanciulle, tradite dai loro uomini e morte per amore prima del matrimonio. Queste, libere di vagare nella foresta solo di notte, per vendicare l’offesa ricevuta, attiravano gli uomini di passaggio, coinvolgendoli in una spossante danza, che li con-duceva alla morte. Nella notte Loys, disperato, si reca nella foresta per pregare sulla tomba della ragazza e qui incontra le Willi, che lo coinvolgono nelle loro danze. Giselle implora la loro regina Myrtha di lasciarlo andare, ma, di fronte al suo diniego, decide di proteggerlo danzando con lui fino al sor-gere del nuovo giorno, momento in cui il potere delle Willi svanisce. Loys si salva, ma rimane con la disperazione di avere perduto per sempre la sua giovane amata.

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Il balletto si incentra su sentimenti strazianti, sulla sofferenza, sulla follia e sull’amore che, alla fine, giunge a prendere il so-pravvento su qualsiasi altro sentimento.In altri casi, è stata la follia a guidare alcuni danzatori in per-formance eccelse ed originali: ne è un esempio Vaslav Nijin-sky (1889-1950), una figura problematica dal punto di vista psicologico e allo stesso tempo interessante per le capacità interpretative; un ballerino al quale, dopo anni di successi, venne diagnosticata una forma di schizofrenia.La sua attività artistica durò circa 10 anni, durante i quali rag-giunse l’apice del successo. La sua danza, densa di sensualità, talvolta scandalizzò e allo stesso tempo affascinò il pubblico del tempo.Venne definito un uomo dall’intuito geniale, spesso incon-sapevole delle sue doti innovative e della portata delle sue creazioni, capace di toccare i sentimenti del prossimo e raffi-gurarne con abilità artistica le giuste emozioni.Un artista, che più di ogni altro, riuscì a trasmettere sensa-zioni e ad emozionare, indipendentemente dal suo stato di salute psichica.Il tema della follia è trasversale a buona parte della sua pro-duzione artistica ed influenza tutta la sua vita: dapprima in forma di timore di divenire pazzo, come era precedentemen-te accaduto al fratello; poi, quasi come un presagio, quando nel suo Diario afferma di simulare la pazzia e, infine, con l’ac-certata diagnosi di schizofrenia e il conseguente ricovero in una clinica svizzera.In molte delle sue opere si parla di sentimenti forti, di pas-sioni, di desideri impossibili da realizzare, di emozioni tor-mentate.La lotta angosciosa tra l’amore omosessuale per Diaghilev, il suo impresario teatrale, e l’attrazione per le donne, che cul-minerà nel matrimonio con Romola e che causerà la rottura con l’amico, influirà notevolmente sulla sua labile psiche.

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Nijinsky, tormentato e fragile nella vita, mito e leggenda sulla scena, scivola, inesorabilmente, dalla gloria del palcoscenico nella follia, che gli precluderà qualsiasi carriera artistica.Talvolta la danza ha, anche, contribuito ad alleviare i sintomi della sofferenza, permettendo all’individuo di superare varie forme di malessere psichico: ne è un esempio la danzatrice svizzera Trudy Schoop (1904-1999), la quale fin da giovanis-sima ricorre alla danza per fronteggiare ed esteriorizzare lo stato di ansia e le paure angoscianti da cui era afflitta.Altre volte la danza, in particolare quella popolare, si è con-figurata come rituale magico-protettivo, volto ad esorcizza-re disturbi cognitivo-comportamentali e attenuare tensioni psico-sociali: ne è un esempio la Pizzica o Tarantella pugliese.A tal proposito, di notevole interesse appare il Tarantismo, fenomeno molto diffuso in tutto il sud della penisola, che coinvolgeva prevalentemente la realtà contadina del Salento. Questa danza pur avendo radici pagane, assume col tempo una connotazione storico-religiosa, sopravvivendo fino ad oggi sotto forma di tradizione popolare e folkloristica. La leggenda narra che nel periodo estivo le mietitrici che venivano morse dalla tarantola, un piccolo ragno velenoso, manifestavano crisi isteriche, turbe emotivo-comportamentali e convulsioni epilettiche. Il trattamento per curare questo tipo di problematica consisteva nel danzare la tarantella, una sorta di ballo purificatore, che, se praticato fino allo stremo, si credeva liberasse la tarantata dal ragno.Il rito aveva inizio nel momento in cui la ragazza, accusando i primi sintomi, richiedeva la presenza dei suonatori.Veniva così formato un cerchio con dei fazzoletti di diversi colori, posti al suolo, attorno al quale si sistemava il pubblico. Al suo interno aveva inizio una danza sfrenata tra la donna ed un ballerino, che lei stessa sceglieva tra gli spettatori.Il ballo, assumeva la connotazione di un corteggiamento, fatto

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di gesti e sguardi sensuali, nel corso del quale i due danzava-no a distanza ravvicinata, senza mai sfiorarsi. Lei sfuggiva alle lusinghe di lui allontanandosi e cambiando più volte il compa-gno, in base alle sue preferenze.Durante il ballo la donna sventolava un fazzoletto, che alla fine donava al cavaliere da lei prescelto.Secondo la tradizione popolare la danza assolveva la duplice funzione di strumento diagnostico e curativo: la fase di dia-gnosi era data dal colore di fazzoletto scelto dalla ragazza e forniva delle indicazioni circa l’esemplare di ragno di cui era stata vittima. La terapia era costituita dalla musica frenetica ottenuta con tamburelli, fisarmoniche, altri strumenti e dalla danza spossante e delirante.Il ballo, che poteva durare anche dei giorni, aveva lo scopo di stremare fisicamente la giovane e far sì che la sofferenza e la fatica di questa si trasferissero anche al ragno, tanto da indurlo ad abbandonare il suo corpo.La danza si concludeva quando la tarantata calpestava l’insetto giungendo, così, alla guarigione.A questo punto la credenza voleva che fosse stato San Paolo a compiere la grazia, per cui la donna veniva accompagna-ta nella cappella dedicata al Santo, nella città di Galatina, in provincia di Lecce, per bere l’acqua benedetta del pozzo lì situato.Concludendo, si può affermare che, grazie al potere della danza, il confine tra “normalità” e “follia” si annulla, lasciando spazio unicamente ad un gioco di emozioni, che esaltano lo spirito non solo del ballerino, ma anche dello spettatore, che coinvolto in un turbine di sensazioni, riesce ad interiorizzare empaticamente i vissuti più nascosti dell’altro.

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3.9 Funzione terapeutica della danza

La danza è sempre stata presente nella vita dell’uomo, fin dal-le sue origini: l’uomo primitivo, colpito e spaventato dai tanti meravigliosi e anche terribili fenomeni della natura, ai quali non sapeva dare una spiegazione o che non riusciva a domi-nare, sentì il bisogno di riconoscere l’esistenza di qualcosa o di Qualcuno al di sopra di lui. È probabilmente in questo contesto, con la scoperta del sacro, che nasce la danza come rito propiziatorio, sia per frenare le ire delle divinità sia per ringraziarle per le cose da cui traeva vantaggio.L’uomo, probabilmente, ritenne che la danza fosse il modo di esprimersi più adatto alla circostanza, poiché essa, essendo armonia, richiamava l’idea di perfezione, accostandolo, così, al soprannaturale. Una testimonianza di raffigurazioni della pratica della danza, in tempi remoti, si può ammirare nelle Grotte di Addaura, presso Palermo. L’usanza, poi, di onorare la divinità contemporaneamente con danze, musica, canto e poesia è data dalla Bibbia: l’esempio più efficace è il Re Davide, che esprimeva la sua venerazione, il suo amore, il suo timore, la sua preghiera verso Dio, fonden-do le varie forme dell’arte. Egli, infatti, accompagnava l’Arca Santa, che custodiva le Tavole della legge consegnate da Dio a Mosè, danzando e cantando al suono della cetra, e pregava e colloquiava con il suo Signore mediante i Salmi, che lui stesso componeva e che sono autentici esempi di alta poesia e te-stimonianza di creatività e sensibilità non comuni. La danza è sempre stata espressione della libertà di tutto il genere umano, una manifestazione catartica di bellezza e purezza che spesso ha esaltato lo stretto legame tra corpo anima e natura.

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Danzare diviene, per l’individuo, l’occasione originale e spon-tanea per esprimere il proprio modo di essere, di esistere; trasmettere le proprie emozioni, sensazioni e stati d’animo; favorire, l’accrescimento dell’autostima; migliorare le capa-cità relazionali; ridurre il sentimento di solitudine; attenuare le tensioni psico-fisiche e sociali a vantaggio di un benessere generalizzato. Il danzatore Rudolf Von Laban, fu tra i primi a riconoscere il valore curativo della danza e, ispirandosi ai balli tribali, giunse a sostenere che, attraverso i movimenti liberi e l’acquisizione di un maggior controllo del corpo e della mente, l’individuo poteva ottenere un migliore equilibrio psico-fisico e relazio-nale.È nel ‘900 che si inizia a parlare di danzaterapia quando le ballerine M. Chance e T. Schoop, avendo separatamente spe-rimentato, grazie al loro intuito, i benefici prodotti dalla dan-za libera, maturarono, entrambe, l’idea di intraprendere un percorso con ex combattenti, che avevano sviluppato delle patologie psichiatriche. Successivamente la Schoop avviò an-che un suo percorso formativo, nell’ambito socio-sanitario, rivolto a varie figure professionali.La tecnica utilizzata da queste due danzatrici non muove da alcun approccio psicologico, ma fonda le sue radici sulle co-noscenze artistiche e sulle potenzialità espressive del corpo.Tra le varie forme di danzaterapia, si può menzionare anche quella analitica di Mary Starks Whitehouse, che rifacendosi alle teorie junghiane, utilizza il movimento spontaneo per in-durre il paziente ad esternare i contenuti inconsci.Altro metodo che ha trovato notevole riscontro è quello di Maria Fux, ballerina argentina, che sperimenta personal-mente, a seguito ad una grave depressione, i benefici che il ballo induce a livello psichico. Questa tecnica differisce dalla precedente, in quanto non adotta strategie psicoterapiche,

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ma stimola la creatività del soggetto risvegliandone il piacere di scoprire una gestualità nuova e appagante. Una danza che, basandosi sull’improvvisazione, sfrutta le sue proprietà catar-tiche senza, però, avere la pretesa di configurarsi come una disciplina scientifica con finalità e regole precostituite.Fondamentale risulta essere per il metodo Fux la predisposi-zione di un setting accogliente in cui il soggetto possa speri-mentare e sviluppare la consapevolezza delle proprie capaci-tà e potenzialità. Componenti indispensabili, oltre alla musica, diventano i materiali colorati, le forme e gli strumenti di ordi-nario utilizzo, che, usati in maniera creativa, concorrono alla definizione di una coreografia comunicativa.Esistono, inoltre, altre forme di danzaterapia tenute da psico-terapeuti e supportate da anamnesi, colloqui e diagnosi.Intorno agli anni ’70, grazie all’esperienza, del coreografo e ballerino Alito Alessi, nasce la Danceability, tecnica che uti-lizza gli espedienti dell’improvvisazione e dello scambio di contatti corporei per favorire una maggiore consapevolezza di sé e facilitare la comunicazione emotiva tra i partecipanti. Aspetto innovativo del trattamento è l’eterogeneità del grup-po, che deve necessariamente essere formato sia da persone con disabilità fisica e/o psichica che da soggetti normodotati.

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3.10 Teatro e follia

Nella storia del teatro troviamo spesso la trattazione del te-ma della follia, sia essa reale, simulata o presunta. A volte è rappresentata come sofferenza e dolore, altre volte invece è trattata in chiave umoristica.Già nell’antica Grecia la rappresentazione della follia è bifronte: secondo Platone la follia è un dono divino che conferisce al folle l’accesso ad un sapere esoterico. Ne sono un esempio le feste in onore di Dioniso in cui la crescita esponenziale di eccessi72 viene attribuita all’ispirazione divina. D’altra parte, nel teatro classico, e soprattutto in Sofocle e Euripide, la follia scaturisce da eventi altamente tragici e sfo-cia spesso in gesti estremi e persino nel suicidio. I personaggi sono immersi in una condizione inquinata e malata73 in cui la divinità è assente o lontana; questo mette gli uomini in una condizione senza via d’uscita. Edipo diventa folle e si acceca, quando scopre di aver ammazzato il padre e di avere sposato la madre, come gli aveva predetto l’oracolo. Aiace si uccide in preda alla follia, dopo aver perduto le armi di Achille. Me-dea uccide i figli dopo il tradimento di suo marito Giasone. Oreste impazzisce dopo aver ucciso la madre Clitemnestra. La rappresentazione biunivoca della follia in epoca classica è la cifra stilistica che influenza tutte le interpretazioni suc-cessive. Nel Medioevo molte immagini della follia vengono accostate al mondo di satana: i visi grotteschi ossessivamente presenti nell’iconografia delle grandi cattedrali ricordano al credente che il peccato abbrutisce l’uomo e rende l’anima prigioniera

72 Le menadi, danzatrici prese dall’ebbrezza sacra, durante questi riti, cadono in uno stato di trance e si abbandonano a gesti estremi. 73 Peste, omicidio, incesto, lotte fratricide, trame di vendetta, parricidio o matri-cidio sono i setting tipici della tragedia greca.

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della bestia. 74

Allo stesso tempo, la follia diventa la rappresentazione di un mondo alla rovescia su cui, una volta all’anno, si può anche sorridere e scherzare. In Francia, a partire dal XII secolo, si diffondono delle manife-stazioni popolari chiamate feste dei folli, organizzate da giova-ni ecclesiastici e celebrate nel mese di dicembre. La popola-zione prende parte ai riti, danzando per strada e nelle chiese; vengono celebrate delle cerimonie bizzarre, vere e proprie parodie durante le quali si verifica un’inversione tra realtà e follia: uno stolto viene proclamato re e un asino è vestito da vescovo; gli ecclesiastici si coprono il volto con maschere e invece di benedire i partecipanti, li maledicono. Queste feste vengono bandite nel XV secolo, in quanto con-siderate blasfeme dalla chiesa. Le feste dei folli aprono la strada alla figura del giullare che nel Rinascimento diventa la più efficace personificazione del-la follia. Il giullare, fingendosi pazzo, è libero di dire qualsiasi cosa, prendere in giro non solo i poveri, ma anche i ricchi, scher-zare liberamente sulle miserie umane senza provocare le ire altrui. Egli è colui “che tutto può”, è il pazzo che diverte con la musica, la mimica, i giochi e talvolta anche con la sua nudità, è colui che con la parola narra, dà vita, facendo spettacolo.In Inghilterra, nel periodo elisabettiano, emerge la figura del “court-fool”, ovvero colui che, in quanto portatore di turbe psichiche o di handicap fisici, viene preso a corte per diver-tire i signori.In seguito egli viene sostituito dal “fool artificiale”, vale a dire un personaggio che simula degli handicap e che, attraverso una finta ingenuità, può liberamente esprimere giudizi e deri-dere e scherzare sugli usi e costumi del tempo.

74 Cfr. MICHEL FOUCAULT, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, 1976.

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La follia in epoca rinascimentale dà inoltre voce alle inquie-titudini dell’epoca; come afferma Foucault, essa “affascina l’uomo con il suo disordine, il suo furore, la sua ricchezza di mo-struose impossibilità”.75

La pazzia diventa metafora di un mondo divenuto improv-visamente incerto, molteplice e contraddittorio in segui-to alla profonda crisi delle certezze filosofiche, morali e scientifiche del medioevo. La conquista delle Americhe fa conoscere all’Occidente nuovi mondi popolati da uomini con valori e tradizioni molto lontani da quelli finora rite-nuti universali,76 Machiavelli separa per sempre l’attività politica dalla morale e innovatori come Erasmo da Rot-terdam, Giordano Bruno, Lutero e Calvino introducono il concetto che la stessa parola di Dio sia interpretabile.77 Le teorie eliocentriche di Copernico mettono in crisi il sistema Tolemaico e contribuiscono a diffondere un sen-so di insicurezza ed incertezza.78

Non è casuale che in tutto il Rinascimento e successiv-mente nel corso del Seicento, la produzione pittorica e

75 MICHEL FOUCAULT, Ibidem.76 Cfr. G.K. HUNTER, Dramatic Identities and Cultural Tradition. Studies in Shakespeare and his Contemporaries, Liverpool University Press, Liverpool, 1978; A. LOOMBA, Gender, Race, Renaissance Drama, Manchester Univesity Prss, Manchester, 1989.77 Vedi H.J. GRIMM, The Reformation Era. 1500-1650, Collier Macmillan Pub-lishers, London, 1973; R.H. POPKIN, The History of Scepticism from Erasmus to Spinoza, Cambridge University Press, Cambridge, 1979. Cfr. anche H.R. ENNO VAN GELDER, The Two Reformations in the 16th Cen-tury. A Study of the Religious Aspects and Consequences of Renaissance and Humanism, Martinus Nijhoff, the Hague, 1964.78 Efficacemente Pirandello, nel Il fu Mattia Pascal descrive l’ansia che il nuovo sistema copernicano ha creato: Siamo o non siamo su un’invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino, come se ci provasse gusto a girar così … Copernico … ha rovinato l’umanità, irrimediabilmente. Ormai tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a considerarci men che niente nell’Universo … Storie di vermucci ormai, le nostre.

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letteraria ripercorra quasi ossessivamente il tema della follia, alternativamente vista come ispirazione e come de-generazione: Erasmo pubblica l’Elogio alla follia, Brandt nel Narrenschif racconta la peregrinazione di “alienati” in un battello ubriaco, mito ripreso da Bosch nella pittura della nave dei folli. Sono in preda ad un furore panico e diabolico i personag-gi dell’orda di Hellequin, la masnada di morti che, sin dai primi secoli dopo il mille, terrorizza i villaggi e che viene massicciamente riprodotta in numerose danze macabre. Sintomaticamente il nome del capo di questa furiosa con-grega, Hellequin, fornisce la radice per il nome di Arlec-chino, la maschera della Commedia dell’Arte che più di ogni altra ha radici ctonie e diaboliche e che con i suoi lazzi, nonsense e pasticci amplia e sviluppa la tradizione del giullare durante tutto il cinque e seicento. La Commedia dell’Arte influenza la produzione teatrale suc-cessiva, da Shakespeare a Moliére e Goldoni: in tutti questi autori la follia più pericolosa è quella che si nasconde dentro coloro che sono ritenuti sani; è la follia degli avari, degli scioc-chi per amore, dei malati immaginari, dei vecchi che vengono facilmente gabbati perché si illudono di essere ancora giovani e virili. In un grande autore drammatico come Shakespeare, inoltre, la follia viene rappresentata non solo nelle commedie ma an-che nelle tragedie, come male senza una cura, simbolo della condizione assurda dell’uomo che si trova perennemente ad affrontare un destino più grande di quello che è capace di sopportare.79

In epoca illuminista la follia è identificata come depravazione, devianza morale che deve essere isolata, corretta e curata.

79 Si vedano in questo senso i paragrafi successivi.

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L’uomo di sragione diventa un individuo reale e non più una rappresentazione simbolica; come afferma Foucault, la sragio-ne prende la dimensione di un fatto umano: ad essere ritenuti folli sono coloro che deviano da ciò che a livello morale vie-ne ritenuto come norma. Sono uomini riconosciuti ed iso-lati dalla società, come il dissoluto, l’omosessuale, il suicida, il libertino.80 Questa posizione apre la strada alle teorie di Pinel e a tutti i trattamenti coercitivi fatti sugli internati da questo periodo in poi nel nome di una rieducazione morale dei pazzi. È di questo periodo una singolare esperienza teatrale che si può considerare come uno dei primi esempi di psicoterapia. Il Marchese de Sade, accusato di libertinaggio sia per la sua condotta nella vita che per i suoi scritti licenziosi, viene più volte rinchiuso in un manicomio. Qui, spronato dal direttore dell’istituto Coulmier, decide di mettere in scena spettacoli in cui gli internati sono gli attori della rappresentazione. Peter Weiss nel Marat-Sade81 fa una descrizione di fantasia di questa esperienza. Di natura completamente opposta è la connotazione umo-ristica che, verso la fine dell’ottocento, Edoardo Scarpetta fa della follia. Nell’opera “O miedeco dei pazzi”, l’artista ironizza intorno a questo tema, narrando la storia di Ciccillo che, fingendo di essere uno studente di medicina, si fa mantenere dallo zio, Felice Sciosciammocca. Il problema sorge quando lo zio, in-sieme alla sua famiglia, lo va a trovare a Napoli, dove egli vive. A questo punto Ciccillo usa l’espediente di far credere che la pensione dove egli alloggia sia un manicomio e che gli ospiti

80 Cfr. M. FOUCAULT, Ibidem.81 Il titolo completo dell’opera teatrale del 1964 è: La persecuzione e l’assassi-nio di Jean Paul Marat, rappresentata dai filodrammatici di Charenton, sotto la guida del marche de Sade. Marat-Sade.

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e i proprietari, chiaramente ignari di tutto ciò, siano dei pazzi. La commedia è incentrata su un divertente equivoco, per cui ognuno credendo che sia l’altro ad essere pazzo dà avvio ad una serie di scene comiche, in cui l’attore, non essendo vincolato ad una storia molto articolata, trova ampio margine d’improvvisazione. È però nel Novecento che il tema della follia torna insisten-temente nelle opere teatrali con una nuova connotazione: spesso gli autori che ne parlano, fanno esperienza della pazzia anche nella vita privata e non solo più esclusivamente attra-verso le proprie opere. Come ricorda Foucault,82 a partire da Artaud, Van Gogh, Niet-zsche, il numero di scrittori, musicisti, pittori ed artisti spro-fondati nella follia si moltiplica e questo fatto segna profon-damente la produzione artistica del secolo breve. Ad esempio, tutta l’opera di Pirandello risente dell’esperienza autobiografica dell’artista, la cui moglie viene ricoverata in un ospedale psichiatrico.La follia per Pirandello diventa un ingrediente essenziale nella vita dell’uomo, divenuto ormai incapace di definire il proprio Io in relazione ai rapporti con gli altri. Confusi e spiazzati dal flusso cangiante ed assurdo della vita, i personaggi pirandelliani si rifugiano nella pazzia, sia essa reale o simulata. Nella follia acquistano una nuova lucidità, perché riescono ad accettare le contraddizioni e frustrazioni della vita attraverso un riso amaro e disincantato. Si può citare a tal proposito l’Enrico IV, in cui il protagonista rinsavisce dopo dodici anni di follia in seguito ad una caduta da cavallo. Una volta guarito, si rende conto che in quei lunghi anni tutto era andato perduto: l’amore, l’amicizia, la sua giovinezza. Per questo motivo decide di ripiombare, consapevolmente, nella pazzia, per prendersi gioco delle follie

82 M. FOUCAULT, Ibidem.

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dei sani, come la vita si è presa gioco di lui. Una scelta simile viene attuata dagli Scalognati nei Giganti, una colorata e bizzarra comunità di “folli” rifiutati dalla società che, sotto la guida del mago Crotone, decidono di vivere di magie e sogni. Un’altra esperienza teatrale significativa nel corso del secolo scorso è quella fatta da Antonin Artaud, drammaturgo france-se ricoverato più volte in centri di cura per malattie mentali. Artaud, nel suo manifesto Il teatro e il suo doppio, propugna un tipo di rappresentazione dove il corpo dell’attore è conside-rato segno testimoniale di ciò che nella realtà è indicibile:fare la metafisica del linguaggio articolato significa indurlo ad esprimere ciò che di solito non esprime; significa servirsene in modo nuovo, eccezionale e inusitato, significa restituirgli le sue possibilità di scuotimento fisico, significa frazionarlo e distribuir-lo attivamente nello spazio, significa prendere le intonazioni in modo assolutamente concreto, restituendo loro il potere originario di sconvolgere e di manifestare effettivamente qualcosa…83 Il teatro della crudeltà che Artaud propugna è un teatro sen-za mediazioni che utilizza il grottesco, l’orrendo e il dolore per arrivare al cuore della verità e della purezza morale.84

In Van Gogh, il suicidato dalla società, Artaud ci ricorda che la vita presente si mantiene nella sua vecchia atmosfera di stupro, anarchia, disordine, delirio, sregolatezza, pazzia cronica, inerzia borghese, anomalia psichica (perché non l’uomo, ma il mondo è diventato un anormale), di voluta disonestà ed esimia tartuferia,

83 ANTONIN ARTAUD, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino, 1968.84 “Il teatro della crudeltà è stato ideato per restaurare il teatro di una conce-zione passionale e convulsiva della realtà ed è in questo senso di rigore violento e di estrema condensazione di elementi scenici che la crudeltà su cui questo si basa deve essere compresa. Questa crudeltà, che sarà sanguinaria quando necessario, ma non in maniera sistematica, può essere così identificata con un tipo di severa purezza morale che non teme di pagare alla vita il prezzo che le deve” in A. ARTAUD, Il Teatro della Crudeltà, in: Theory of the Modern Stage a cura di Eric Bentley.

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di lurido disprezzo per tutto ciò che mostra di avere razza, di rivendicazione di un ordine fondato interamente sul compiersi di una primitiva ingiustizia, di crimine organizzato.85

Per descrivere tale condizione, Artaud ritiene che l’attore non possa risparmiarsi sulla scena, che debba utilizzare tutte le sue risorse, fisiche e psichiche, per rappresentare la vita così com’è. Ma la pericolosa prossimità tra teatro e vita costa all’artista l’equilibrio mentale.Sempre nel Novecento un intero gruppo di drammaturghi fonda un nuovo genere teatrale, il Teatro dell’Assurdo; i padri dell’Esistenzialismo, Sartre e Camus86, diventano la loro prin-cipale fonte di ispirazione.Le opere del Teatro dell’Assurdo riproducono un mondo ir-ragionevole, privato di coerenza e senso: è un mondo dove non semplicemente il singolo individuo, ma l’umanità intera è attraversata dalla sragione. È il mondo tipico del Novecento, stravolto da due sanguinose guerre mondiali e dagli orrori dei campi di concentramento, profondamente cambiato dalle nuove scoperte scientifiche (come la teoria della relatività di Einstein), scosso dalle destabilizzanti teorie filosofiche di Nietzsche e Schopenhauer. In questo contesto, il teatro dell’Assurdo opera una profon-da trasformazione, anche formale, nella scrittura drammatur-gica: autori come Samuel Beckett, Eugène Ionesco e Harold Pinter abbandonano la tradizionale struttura drammaturgica fatta di eventi, concatenazione e scioglimento a favore di una successione incoerente di eventi, legati fra loro da una traccia labile ed effimera.

85 Antonin Artaud, Van Gogh, il suicidato della società, a cura di Paule Thévenin, traduzione di Jean-Paul Manganaro con la collaborazione di C. Dumoulié ed E. Marchi, Adelphi.86 Nel saggio Il Mito di Sisifo Camus descrive un mondo insensato, privo di Dio, in cui l’uomo è costantemente frustato nella sua ricerca della felicità dal dolore, la morte, la mancanza di coerenza.

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Anche il linguaggio viene scardinato e corrotto; i dialoghi di-ventano senza senso, ripetitivi e serrati, la struttura logica del linguaggio viene sostituita dal nonsense. Questa operazione provoca anche effetti comici, come quel-li provocati dall’assurda attesa di Estragone e Vladimiro in Aspettando Godot: i due protagonisti, mentre aspettano un terzo personaggio, che non arriverà mai, alternano gli insulti, le liti, le discussioni filosofiche e i goffi tentativi di suicidio a numeri di clownerie. L’alternanza tra la desolante contemplazione dell’assurdità della vita e il riso ricorda molto da vicino la figura del fool, il pazzo di professione, delle opere shakesperiane: la tradizione del giullare, dal Rinascimento, arriva fino al Novecento e di-venta ancora una volta la metafora della follia della vita. È per questo motivo che, per trattare in modo più appro-fondito il tema della follia nelle opere teatrali, si è scelto di parlare, nei paragrafi seguenti, della figura del fool nelle opere shakesperiane. Riteniamo, infatti, che questa figura, più di ogni altra, anticipi le inquietitudini e contraddizioni della nostra epoca e che il teatro contemporaneo possa e debba riconoscere in Shake-speare il più visionario e lucido anticipatore della rappresen-tazione della follia ai giorni nostri.

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3.11 Il fool in Shakespeare tra marginalità e saggezza di Manuela Frontoni

3.11.1. La follia in epoca elisabettiana

Secondo il pensiero rinascimentale, i sensi forniscono infor-mazioni sbagliate all’anima e, così facendo, intaccano la capa-cità dell’intelletto di distinguere tra il vero e il falso.87 Questo fa sì che la follia diventi in quest’epoca la metafora preferita del dominio delle passioni sull’essere umano88 e su più larga scala il simbolo e lo specchio di un mondo tutto a rovescio.La follia è la metafora stessa del paradosso: da una parte la pazzia viene considerata un dono divino;89 dall’altra la follia è la metafora di un mondo che sta andando a pezzi.In Francia, una volta all’anno viene eletto il re dei folli (rex stultorum), come satira e monito di ciò che accade nel mon-do reale. In Inghilterra c’è una figura simile, il Lord of Misrule, che pian piano viene identificato con il giullare professionale, il fool;

87 V. GENTILI, La recita della follia. Funzioni dell’insania nel teatro dell’età di Shakespeare, Einaudi, Torino, 1978. Il libro è un aggiornamento di uno studio sulla pazzia (Le figure della pazzia nel teatro elisabettiano, Ed. Milella, Lecce, 1969). Secondo gli Elisabettiani, l’anima si divideva in tre parti: razionale (capace di distinguere tra il vero e il falso), sensitiva e vegetativa. I cinque organi di senso corrispondevano a tre sensi interni: il senso comune (che dipendeva diretta-mente dagli organi di senso), l’immaginazione (capace di figurarsi un oggetto anche in assenza di esso) e la memoria. 88 Come asserisce T. Bright nel suo, A Treatise of Melancholy ( Iohn VVindetn, Londra 1586): Contayning the causes thereof, and reasons of the straunge ef-fects it worketh in our minds and bodies: with the phisicke cure, and spirituall-consolation for such as haue thereto adioyned afflicted con science. … 89 Cfr. Platone, Erasmo già citati nel precedente paragrafo e S. Francesco d’As-sisi, che si autodefinisce il “giullare di Dio”.

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il fool utilizza la sua follia per criticare, anche aspramente, i signori per i quali lavora. È un costante alterego della stupidità e delle follie degli uomini ritenuti saggi.

3.11.2 Pazzia reale e pazzia simulata

La pazzia rende molto labile il confine tra realtà e finzione. Quando la pazzia viene rappresentata su un palcoscenico, il gioco di specchi si moltiplica perché il teatro stesso è un ossimoro: è un mondo fittizio che crea una propria rappre-sentazione ed interpretazione del mondo reale. Quando la pazzia è simulata, il confine tra realtà e finzione va completa-mente in pezzi e la follia diventa metafora dello straordinario potere della mente di creare mondi immaginari. Tale operazione è essa stessa, d’altra parte, sovvertitrice del mondo reale. Un esempio è costituito dal The Taming of the Shrew, dove una compagnia di attori rappresenta una commedia di fronte ad uno stagnino ubriaco, che si crede un lord lunatico e che ravvisa negli attori personaggi del suo sogno da ubriaco.Tutta l’opera si basa sulla fragilità del nominare le cose per dimostrare che più si tenta di esplorare a fondo la realtà più essa diventa sfuggevole e non è possibile carpire l’intrinseca essenza delle cose dai nomi.90

90 Cfr. La Bisbetica domata, IV.v. 1-22, dove Petruccio fa dire a Caterina che il sole è la luna e viceversa: “Petruccio: … come è splendente e serena la luna!Caterina: la luna? Ma è il sole. Non è mica chiaro di luna questo.Petruccio: e io dico che è la luna che splende così.…Caterina: poiché siam giunti fin qui, avanti, vi prego, e sia luna o sole o ciò che più vi piace che sia. E se vi piace chiamarlo un moccolo, d’ora innanzi fo voto che tale sarà per me.”

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Petruccio insegna alla bisbetica Caterina che nomi come bi-sbetica o pazzo sono soltanto etichette senza importanza, così come un vestito povero e rattoppato non può rappre-sentare l’essenza di un individuo.91 Secondo gli Elisabettiani, un uomo che gioca con un gatto può essere visto come un gatto che gioca con un uomo.92

La capacità di Petruccio di ribaltare il senso comune lo rende un escluso, un pazzo che non può essere accettato in socie-tà. La sua capacità di giocare con le parole lo avvicina al fool e la sua finta pazzia rispecchia la pazzia simulata per professione dal fool.

3.11.3 Il fool nelle opere di Shakespeare

Il fool, il matto di professione, costituisce uno specchio per gli spettatori93 perché rispecchia le follie della vita quotidia-na.94

Dato che l’uomo è portato dalla sua stessa natura a fissare il flusso cangiante della vita, il pazzo diventa lo specchio che

91“Mia Càtera, vieni via: … Le nostre vesti son povere, ma … È lo spirito che fa ricco il corpo, e come il sole dardeggia attraverso le più nere nubi, l’onore spunta sotto le vesti più meschine. È forse la ghiandaia più preziosa dell’allodola perché ha penne più belle … mia Càtera, né sei tu men bella per questo tuo povero arnese e queste tue umili vesti..” Ibidem, IV.iii.170-77.92 Cfr. Bacon’s Novum Organum: “… gli idoli imposti dalle parole sull’intelletto sono di due tipi. Ci sono nomi di cose che non esistono … oppure ci sono nomi di cose che esistono, ma sono confusi e definiti in maniera scorretta”, in G. BLAKEMORE EVANS, Op. Cit., p.321.93 M. PAGNINI, Shakespeare e il paradigma della specularità. Lettura di due campioni: King Lear e A Midsummer-Night’s Dream, Pacini ed. Pisa, 1976.94 Secondo la tradizione rinascimentale, i trattati didattici debbono servire come specchi per vedere la propria follia Cf. A Mirror for Magistrates, The Mir-ror of justices, The Mirror of the Church, Looking Glass for all proud, ambitious, covetous and corrupt Lawyers, Speculum Stultorum.

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permette di vedere che ciò che può essere vero un giorno, diventa falso il giorno seguente.95 In questo modo, folle è colui che ritiene che il proprio mondo e la propria realtà siano immutabili, fidandosi, erroneamente, della propria percezione della realtà.96

Il fool smaschera e fa crollare questa certezza. Mette in crisi l’uomo saggio attraverso giochi di parole, egli dimostra di conoscere la natura “intrinseca” delle cose, ma anche di essere abile nel corrompere il linguaggio.La visione relativa del fool permette all’uomo di acquisire una maggiore comprensione del mondo che lo circonda. Ma questa consapevolezza è estremamente pericolosa perché può portare alla follia, quella vera: quando ci si rende conto che non esiste un sé univoco, si aprono le porte alla follia.Foucault descrive il fool come un’analogia alienata:97 egli congiunge gli opposti perché non conosce le differenze. Indossa una maschera, ma proprio perché mascherato, ha la licenza di smascherare gli altri. Quindi, il fool è un ossimoro per eccellenza.Questo ruolo viene però mantenuto dal fool ad un’unica condizione: restare ai margini, essere un outsider; esiste solo perché indossa una uniforme (vestito di toppe) e può essere

95 Cfr. Luigi Pirandello, Enrico IV: “… Trovarsi davanti ad un pazzo sapete che significa? trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni! - … guai, guai se non vi tenete più forte a ciò che vi par vero oggi, a ciò che vi parrà vero domani, anche se sia l’opposto di ciò che vi pareva vero jeri!” (II). 96 Ancora una volta è Pirandello che efficacemente descrive la follia come spec-chio nell’Enrico IV: ‘… questo che è per me la caricatura, evidente e volontaria, di quell’altra mascherata, continua, d’ogni minuto, di cui siamo i pagliacci invo-lontari … quando senza saperlo ci mascheriamo di ciò che ci par d’essere - … Sono guarito, signori: perché so perfettamente di fare il pazzo, qua; e lo faccio, quieto! - Il guaio è per voi che la vivete agiatamente, senza saperla e senza ve-derla, la vostra pazzia” (III). 97 V.GENTILI, Op. Cit., p.53.

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soggetto ad umiliazioni e punizioni.98

La posizione stessa dei teatri commenta la funzione schizo-frenica del fool. Da una parte essi sono costruiti in periferia, fuori dalle mura cittadine (e quindi al di fuori della corte e del potere finanziario), ma, allo stesso tempo, ricoprono una posizione centrale nella vita culturale della città, perché sono gli unici mezzi attraverso cui essa viene fortemente messa in discussione. Molti sono i tipi di fool rappresentati nell’opera shakespeariana; spesso il fool funge da specchio alla follia altrui, come ad esempio, in As You Like It, dove il nome stesso di uno dei due fool, Touchstone, simboleggia il suo ruolo di pietra di paragone.99

Touchtone è il fool che col suo sarcasmo commenta tutte le azioni della commedia.100 Gli fa da contrappunto Jacques, il fool melanconico, che invidia l’abilità di Touchstone di

98 Cfr. King Lear, I.iv.179-182: “… esse mi voglion far frustare perché dico la verità, tu vuoi farmi frustare perché mento e qualche volta sono frustato perché sto zitto. Io vorrei essere qualunque cosa, piuttosto che un matto”.99 As You Like It , I.ii.52-53.100 Touchstone ironizza su uno dei temi cardini della commedia, l’amore, rac-contando un episodio sconcio della sua vita “Mi ricordo, quand’ero innamorato, che ruppi la mia spada contro un sasso, …; e ricordo benissimo quel bacio che detti al mestolo suo in cucina e quello alle mammelle della vacca ch’erano state munte allora allora da quelle sue manucce screpolate. E ricordo d’aver fatto la corte in vece sua, a una pianta di pisello; dalla quale poi tolsi due baccelli … Eh, siam preda di strani ghiribizzi noi che siamo fedeli nell’amare. Ma poiché tutto che è nella natura è mortale, così anche è mortale in natura ogni follia d’amore” (As You Like It, II.iv.43-53)È sempre Touchstone che ricorda agli spettatori la durezza e l’ostilità della na-tura selvaggia proprio nel momento in cui sembra elogiarla, secondo la moda bucolica dell’epoca:In verità, pastore, ti dirò: considerata in sé la trovo bella; ma se penso che è vita da pastori, io la valuto zero, come vita. Come vita tranquilla e solitaria, mi sta-rebbe anche bene; ma in quanto vita di segregazione, la reputo una ben misera vita. Come vita dei campi, mi diletta; ma come vita fuori della corte, se devo dir la verità, m’annoia; come vita frugale e moderata, s’adatterebbe bene al mio carattere; ma che in essa non sia grascia di cibo non si concilia molto col mio stomaco” (As You Like It, III.ii.13-21).

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castigare i saggi e potenti: Vestito di quel variegato arnese, mi gusterei la vera libertà, quella senza confini come il vento, per mandare zaffate a chi mi piaccia: perché è così che fanno tutti i matti; e coloro che più saran feriti dagli strali della mia matteria dovranno tanto più prenderla a ridere.101

Jacques e Touchstone sono gli opposti di una stessa medaglia: uno veste di scuro, l’altro indossa abiti sgargianti; l’uno riflette sulla caducità della vita, l’altro se la ride.102

Anche in Twelfth Night il fool Feste è circondato da figure di “pazzi” veri o presunti che fungono da contrappunto: Feste si ritrova a dover fare da specchio all’esagerata reazione di Olivia, una nobildonna che afferma di voler rinunciare a tutti i piaceri della vita a causa della morte del fratello.103

101 “Ho incontrato nella foresta un matto, un bel matto, un matto variegato! … era sdraiato al sole, ed imprecava contro la Fortuna in buoni termini, in parole acconce …. “Buongiorno, matto” - dico. E lui: “Signore, non mi chiamate matto finché il cielo non m’abbia fatto aver la mia fortuna”. E lì per lì, tira fuor dalla tasca un orologio e … dice, con ragguardevole saggezza: “Ora sono le dieci; ecco così noi possiamo osservare come procede questo nostro mondo: eran le nove appena poco fa, e saranno le undici fra un’ora; e così d’ora in ora noi mortali veniamo maturando, maturando, e d’ora in ora poi ci corrompiamo, infradiciamo; e la storia s’allunga.” A sentire quel matto variopinto sentenziare così sul nostro tempo, i miei polmoni … han cominciato a far “chicchiricchì” al pensiero che i matti son capaci di siffatte profonde riflessioni; … La variopinta divisa del matto è veramente l’unica divisa che gli uomini dovrebbero indossare!” (As You Like It, II.vii.12-61). 102 Jacques ci ricorda che il mondo è come un palcoscenico dove l’uomo assu-me sette ruoli diversi nel suo cammino dall’infanzia alla vecchiezza. La fine è solo una seconda infanzia e puro oblio, senza denti, senza occhi, senza gusto, senza niente (As You Like It, II.vii.165-66). 103 “Buffone: Buona madonna, datemi licenza di dimostrare che siete un

imbecille.Olivia: Ci riuscirete?Buffone: Destramente, buona madonna. … perché ti affliggi?Olivia: Buon pazzo, per la morte di mio fratello.Buffone: Penso che la sua anima sia all’inferno, madonna.Olivia : So che la sua anima è in cielo, buffone.Buffone: Siete ben sciocca allora, madonna, se vi affliggete perché l’anima di vostro fratello è in cielo. Conducete via l’imbecille, signori.” (Twelfth Night, I.v.30-51).

Come i becchini di Amleto, quando c’è un funerale, i clowns se la ridono.

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Feste rimprovera al vanesio e vanitoso Malvolio il suo folle comportamento che lo porta, per amore, ad agghindarsi con nastri e gingilli esagerati e ridicoli. Come Touchstone, Feste è un castigatore delle follie dei sani ed è, come tutti i suoi colleghi pazzi di professione, molto abile a giocare con il linguaggio,104 tanto da definirsi un cor-ruttore di parole.105

Feste racchiude in sé anche le caratteristiche del melanconi-co Jacques: le sue canzoni parlano della morte: Prendi me, prendi me, o Fato, e nel mesto cipresso io sia confitto,… Non un fior, non un fior squisito si sparga sopra la mia nera fossa: non addio, non addio d’amico dove saran gittate le mie ossa…106

La sua saggezza profonda risiede nell’aver accettato il destino dell’uomo: aver capito che la morte è una parte imprescindi-bile della vita; di essa si può parlare con toni lievi e scherzosi, come una amica che si incontrerà alla fine del percorso.107 Shakespeare non rinuncia alla figura del fool neanche nelle opere storiche: in Henry IV e Henry V il ruolo del fool è ri-coperto da Falstaff, un corruttore di parole che parla libera-mente di politica e religione.108

104 “Una frase è solamente un guanto di capretto per un bello spirito: come si fa presto a mettere il rovescio dal dritto … le parole sono delle vere canaglie da quando certe cospirazioni le hanno disonorate. …le parole sono diventate così false che mi ripugna usarle per ragionare.” (Twelfth Night , III.i.11-25). Il discorso è molto simile alla descrizione della giustizia fatta da Amleto (Hamlet, II.ii.192) e da Lear (King Lear, IV.vi.151-52)105 Twelfth Night, III.i.37106 Twelfth Night , II.iv.51-66107 “Quand’ero un piccolo piccolo fanciullo ehi, oh! il vento e la pioggia: /ogni birichinata era un trastullo, che la pioggia cade ogni dì. /Ma quando diventai un uomo fatto, ehi, oh! il vento e la pioggia: / a un birbo, a un ladro l’uscio in faccia sbattono, ché la pioggia cade ogni dì. / … Il mondo è cominciato da un bel trat-to, ehi, oh! il vento e la pioggia: / ma poco importa, è al fine anche quest’atto e vedrem di piacervi ciascun dì”. (Twelfth Night V.i.388-407). Cfr. King Lear, III.ii.74-77 “Chi di senno ha solo una cruna, Oilí oilà col vento e la pioggia, DÈ far buon viso alla sua fortuna, Anche se cada pioggia ogni dì”108 La sua parodia dei puritani è un amaro commento alla tormentata coscienza del re.

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Pur non essendo un matto di professione, Falstaff ricopre molte mansioni normalmente associate al fool: accompagna il protagonista nella sua formazione (e trasformazione) dalla giovinezza all’età adulta, si permette di prendere in giro la pomposità del re109 e di commentare la rapacità dei baroni, paragonandoli a dei semplici ladroni. Sovverte tutti i valori del suo tempo fino al punto di innalzare l’ambiente dei ladro-ni in cui vive a modello di cavalleria.110 La sua gioiosa e a tratti lasciva accettazione della vita fornisce al futuro Enrico V strumenti per una visione più tollerante e comprensiva delle umane debolezze.111

Qui, la tragedia si risolve in riso: il mondo delle lotte sotter-ranee tra potenti si scioglie tra birra e grandi abbuffate, per-ché la vita è troppo breve per essere presa troppo sul serio.È in due delle sue opere maggiori, King Lear e Hamlet, che Shakespeare raggiunge sublimi vertici nella rappresentazione della follia e del fool. Nel King Lear il drammaturgo inglese illustra le molteplici facce della follia di coloro che sono considerati sani; in questa opera l’unico a restare lucido è il pazzo per professione.112 È il fool, ad esempio, che meglio del re conosce l’ipocrisia della corte e che mette in guardia il vecchio Lear dall’aver fiducia nelle promesse di due delle sue figlie.113

109 Come quando si burla dei rimproveri che Enrico IV muove al giovane prin-cipe Hal (Henry IV, II.iv).110 I ladri si definiscono pupilli della luna e guardiani della dea Diana (Henry IV , I.ii.25-26).111 Come avviene in Amleto, il giovane principe si deve confrontare con diversi modelli: il re, suo padre, austero buon governante che però ha usurpato il tro-no; Falstaff, un ladro e una canaglia che ben conosce il mondo e le sue regole; il giovane ambizioso Hotspur, dalla natura ribelle. Il re e Falstaff sono simili ed opposti allo stesso tempo. Sono quasi coetanei e il loro passato non è privo di macchie; nello stesso tempo uno, Falstaff, è il signore della ribellione, mentre il re garantisce con il suo ruolo il rispetto delle regole.112 “Mai tanto pei matti andò mal che quest’anno/ Ché i saggi divenner scioc-chi,/ E un uso miglior pel cervello non sanno/ Che fare gli scimmiotti.” King Lear, I.iv.164-66.113 “Colui che serve per lo scotto / E “pro forma” ti fa resta, / Se vien la pio gia

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Tutto il dramma si basa sul paradosso: metà dell’opera è rappresentata nel mondo della corte, l’altra metà nel mondo al di fuori della corte. L’impatto con un ambiente naturale ostile sottopone i personaggi ad una cura Paracelsiana.114

Lear è costretto a liberarsi progressivamente di pregiudizi e attitudini passate per iniziare a vedere la vita in una nuova prospettiva. Il suo viaggio verso una nuova consapevolezza passa attraverso l’abbandono dei suoi abiti regali, ovvero la perdita del proprio stato sociale115 e, di conseguenza, della propria identità.116

Questo provoca la progressiva semplificazione del linguaggio:117 il linguaggio aulico e pomposo del re diventa

fa fagotto, /E ti pianta nella tempesta. / Io resto; il matto non la fa bassa. /Lascia il savio uscir dai piè/ Briccon che fugge, da matto passa, /Ma il matto un briccon non è.” King Lear, II.iv.75-83.114 R. GRUDGIN, Mighty Opposites. Shakespeare and Renaissance Contrariety, University of California Press, London, 1979, p.26. La cura paracelsiana si basava sul principio secondo cui il rimedio doveva agire nel corpo come un fuoco. 115 Lear perde sia il suo status di re che di padre; la perdita dello status coincide con la perdita dell’identità: “C’è qualcuno che mi riconosca, qui? Questi non è Lear: cammina, forse, così Lear? parla così? dove sono i suoi occhi? o la sua intelligenza si indebolisce o la sua ragione è in letargo. Ah! sono desto? non è vero! Chi è che mi sa dire chi sono?” (King Lear, I.iv.223-27). 116 In Vestire gli ignudi Pirandello descrive l’identità come un abito che si può indossare e svestire a piacimento.: “È che ciascuno, ciascuno vuol fare una bella figura. - Più si è … più si è … (vuol

dire “laidi”, ma ne prova schifo e insieme ancora tanta pietà, che quasi non le viene di dirlo) - e più ci vogliamo far belli, ecco. (E sorride). Dio mio sì, coprirci con un abitino decente, ecco. - … e allora volli farmela per la morte, almeno, una vestina decente. Ecco, vedete perché mentii? Per questo, vi giuro! - Non avevo potuto averne mai una per la vita, da poter figurare in qualche modo, che non mi fosse stata strappata da tanti cani … da tanti cani che mi sono saltati sempre addosso, per ogni via, che non mi fosse imbrattata da tutte le miserie più basse e più vili - me ne volli fare una - bella - per la morte - … Ebbene, no! no! Non ho potuto avere neanche questa! Lacerata addosso, strappata anche questa! No! Morire nuda! Scoperta, avvilita, e spregiata! … nuda. … Andate, andatelo a dire a tutti … che questa morta … non s’è potuta vestire”. (atto III). 117 “Nulla” è la parola chiave che ricorre nell’intera opera: i personaggi riman-gono con un nulla in mano alla fine dell’opera; il nulla è il sottotesto del linguag-gio del fool (il nonsense è un attributo professionale). Alla fine i personaggi non hanno nulla da dire. La loro identità si riduce ad un nulla assordante (cf. II.iii.21,

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sempre più semplice, essenziale, molto simile al nonsense di-retto del fool.Il viaggio di Lear è un lento inesorabile viaggio verso la pazzia e la sua storia simboleggia il passaggio dalla sanità folle (i per-sonaggi sono mentalmente sani, ma sono al contempo folli perché non riescono a capire la realtà) alla follia saggia. In questo viaggio paradossale il re è accompagnato dal fool, che ricorda che la vera pazzia appartiene agli uomini che si ritengono saggi senza esserlo. Il fool diventa lo specchio dove il re si riflette e vede la propria follia.118

Il viaggio dalla falsa saggezza alla follia saggia è contrappuntato dal percorso dalla vista miope alla cecità che permette di vedere meglio la verità dell’alter ego di Lear, Gloucester; solo quando Lear perde tutto e Gloucester diventa cieco, si rendono conto della fragilità del potere e di tutte le umane costruzioni. Lear e Gloucester comprendono allora che la vita può essere percepita da una prospettiva diversa, quella del fool. Questa consapevolezza, però, arriva solo quando l’essere umano è distrutto. È una cura talmente forte che rovina il malato da curare: Gloucester si sente un mero giocattolo per gli dei,119 Lear diventa uno scherzo del destino.120 Sia Lear che Gloucester si sentono pupazzi su un

dove l’identità di Edgar è annullata). Nulla è ciò a cui è destinato il mondo intero, paragonato ad un mero O vuoto. 118 Cfr. King Lear, I.iv. 93-185 dove il fool fa indossare a Lear il suo cappello a sonagli: Fool: Sai, amico, la differenza che c’è fra un matto aspro e un matto dolce? …Quei che pose in capo a te / Di dar via le terre tue, / Venga a mettersi accanto a me, / O fa’ tu le veci sue: / Chi sia dolce e chi amaro / DÈ due matti si vedrà / L’un qui in veste di giullaro, / E quell’altro, eccolo là.Lear: Mi dài del matto, ragazzo?Fool: Tutti gli altri tuoi titoli li hai dati via: con quello ci sei nato.Cfr. anche I.v. dove il fool dice che Lear potrebbe essere un buon matto di professione.119 King Lear, IV.i.36-37: “Noi siamo per gli dèi quel che le mosche sono per i monelli: essi ci uccidono per loro divertimento”. 120 King Lear , IV.vi.189.

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palcoscenico popolato da pazzi.121

Nel saggio Arte e coscienza oggi, Pirandello vede in Lear una metafora dell’uomo, che si sente padrone dell’universo, ma viene continuamente umiliato e deprivato di ciò che tenta di conquistare, per cui il mondo è solo una realtà senza senso.122

In Hamlet, Shakespeare scandaglia il tema della follia attra-verso il personaggio principale; tre sono le forme di pazzia della tragedia shakesperiana: la pazzia simulata, la pazzia reale e la pazzia di professione.La prima volta che appare in scena, Amleto afferma che fin-gerà di essere pazzo123 per scoprire l’assassino di suo padre: la pazzia è una maschera per smascherare qualcun altro. La cosa assurda è che a fare le spese della sua finta follia non è Claudio, l’usurpatore, ma Ofelia, la donna che lui sostiene di amare, e sua madre. Gli accessi di follia di Amleto a volte sono così eccessivi da far pensare che, dopo tutto, l’assassinio del padre, abbia veramente intaccato la sua sanità mentale, nono-stante Amleto rassicuri il pubblico della propria integrità.

121 King Lear , IV.vi.180-81: “appena nati, noi piangiamo per esser venuti in questo grande teatro di pazzi”.122 “… questo re dell’universo … Ahi, povero re! non vi vedete saltar dinanzi Re Lear armato d’una scopa in tutta la sua tragica comicità? Di che farnetica egli”, (Luigi Pirandello in M. LO VECCHIO-MUSTI, (a cura di), Saggi, poesie, scrit-ti varii, Mondadori, Milano 1965, p.870). In L’Umorismo Pirandello ricorda che: “L’umorista non riconosce eroi … il mondo, lui, se non propriamente nudo lo vede, per così dire in camicia: in camicia il re, che vi fa così bella impressione a vederlo composto nella maestà d’un trono con lo scettro e la corona e il manto di porpora e d’ermellino; e non componete con troppa pompa nelle camere ar-denti su catafalchi i morti, perché egli è capace di non rispettare neppure questa composizione, tutto questo apparato; è capace, per esempio, di sorprendere in mezzo alla compunzione degli astanti, in quel morto lì, freddo e duro, ma decorato e in marsina, un qualche borboglio lugubre nel ventre, e d’esclamare (poiché certe cose si dicono meglio in latino):-Digestio post mortem.”. 123 Hamlet, I.v.180.

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Inoltre, Amleto assume molti dei ruoli tradizionalmente attri-buiti al fool;124 Touchstone e Jacques di As you like it diventano un unico fool nel personaggio di Amleto, il fool intellettuale.Del fool Amleto ha l’abilità di piegare il linguaggio ai suoi voleri; egli diventa specchio del defunto giullare Yorik che per anni ha esercitato alla corte del padre.125 L’uso che lui fa del linguaggio è una progressiva riduzione verso l’assurdo,126 una tecnica tipica del fool. Non casualmente, Pirandello considera Amleto come l’apice dell’umorista, colui che è costretto ad affrontare la tragedia della vita con un sorriso amaro sulla bocca. Il sarcasmo è l’unica arma veramente affilata del Principe incapace di vendicare il padre con veri pugnali. Amleto apre le porte alla tragedia moderna perché è consa-pevole dello squarcio nel cielo di carta e non può far altro che affrontare il crollo delle certezze con un amaro riso. Proprio per questo Pirandello considera Amleto l’antesignano della tragedia moderna: Se nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? … Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi di vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta

124 V. GENTILI, Op. Cit. 125 L’attitudine di Amleto nei confronti della morte è simile a quella del fool.126 Cfr. il gioco di parole sulla morte di Polonio: Re: Ebbene, Amleto, dov’è Polonio?Amleto: A cena.Re: A cena? dove?Amleto: Non dov’egli mangia, ma dov’è mangiato; una certa assemblea di vermi politici stan proprio addosso a lui. Il verme è l’unico imperatore quanto al vitto; noi ingrassiamo tutte l’altre creature per ingrassarci, c’ingrassiamo noi stessi per i vermi; un re grasso e un mendicante magro, non sono che un servizio variato, due piatti, ma per una sola tavola; questa è la fine. (Hamlet, IV.iii.26-29).

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di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza … tra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, … in un buco nel cielo di carta.127

Questa condizione è ciò che Camus descrive come il mito di Sisifo, il divorzio definitivo tra l’uomo e l’ambiente in cui vive, una condizione assurda.128

Per colui che guarda con cinismo il mondo che lo circonda, il mondo non è altro che un palcoscenico dove si muovono pupazzi. Amleto non è capace di portare a termine la sua vendetta perché non crede più alla mascherata che ha rap-presentato per se stesso e di fronte agli altri.Ciò che rimane è il riso, un riso amaro;129 nasce non solo

127 Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal. 128 Cfr. A. PAOLUCCI, ‘The Expressionistic Redemption of the “Absurd”: Shake-spearÈs Hamlet and Pirandello’s EnricoIV’ in Hamlet Studies, New Dehli, II, 1980, n°2, pp. 35-41. Vedi anche A. PAOLUCCI, ‘Pirandello and the Waiting Stage of the Absurd (With Some Observations on a New “Critical Language”)’, in Modern Drama, 23, 1980, pp.102-11. Paolucci osserva: “Le opere teatrali … contengono molte delle caratteristiche associate al teatro dell’assurdo: il modo di trattare il tempo che permette di mettere assieme mo-menti correlati psicologicamente … la scissione dei personaggi che sono mossi da azioni ed intenzioni contraddittorie … l’erosione di tutto ciò che è esterno attraverso la dialettica” (p.106)...129 Cfr. Pirandello: “… l’uomo quando soffre, si fa una particolare idea del bene e del male, e cioè del bene che gli altri dovrebbero fargli e a cui egli pretende, come se dalle proprie sofferenze gli derivasse un diritto al compenso; e del male che egli può fare a gli altri, come se parimenti dalle proprie sofferenze vi fosse abilitato … A noi uomini … è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna. E questo sentimento della vita … (è) appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; … un lanternino che proietta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno amplio di luce, di là dal quale è l’ombra nera … i nostri lanternini … son di tanti colori … l’illusione, gran mercantessa, gran mer-cantessa di vetri colorati … Non sono poi rare nella storia certe fiere ventate che spengono d’un tratto tutti quei lanternoni … Gran buio e gran confusione … E se tutto questo bujo, quest’enorme mistero … non fosse in fondo che un inganno come un altro … questo maledetto lumicino piagnucoloso ci fa vedere soltanto quel poco a cui esso arriva … ce lo colora a modo suo e ci fa vedere certe cose, che noi … forse in un’altra forma di esistenza non avremo più una

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il dramma moderno ma la farsa.130 Il riso sottolinea quanto siano ridicole tutte le congetture umane, persino le tragedie, e nello stesso tempo fa diventare serio un avvenimento ri-dicolo:… anche una tragedia, quando si sia superato col riso il tragico attraverso il tragico stesso, scoprendo tutto il ridicolo del serio, e perciò anche il serio del ridicolo, può diventare una farsa. Una farsa che includa nella medesima rappresentazione della tragedia la parodia e la caricatura di essa, ma non come elementi sopramessi, bensì come proiezione d’ombra del suo stesso corpo, goffe ombre d’ogni gesto tragico.131

bocca per poterne fare le matte risate. Risate … di tutte le vane, stupide affli-zioni che esso ci ha procurate, di tutte le ombre, di tutti i fantasmi ambiziosi e strani”.130 Cfr A. PAOLUCCI, ‘Comedy and Paradox in Pirandello’s Plays (An Hegelian Perspective)’, in H. BLOOM (ed.), Luigi Pirandello, Chelsea House Publishers, New York and Philadelphia, 1989, pp.47-66. 131 Luigi Pirandello, L’ironia’ da L’Idea Nazionale, 27 febbraio 1920, in MANLIO LO VECCHIO-MUSTI, Op. Cit., p.1026-29.

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3.12 La follia attraverso le opere di Luigi Pirandello di Domenico Cinque

(Amalia) …Uh…è pazza dunque!132 (Sirelli) …La signora Flora è pazza. Povera signora! …Pazza...Oh Dio, ma non pare affatto! (Ponza) …non pare, ma è pazza. E la sua pazzia consiste ap-punto nel credere che io non voglia farle vedere la sua figliola. ...Quale figliuola, in nome di Dio, se è morta da quattro anni la sua figliuola?133... (Agazzi) …Ah, ma bisogna che lei ci spieghi , signora (Flora), e chiaramente , come stanno le cose! Possibile che suo genero sia venuto qua a inventarci tutta una storia?...ma come? Non è vero niente che la sua figliola è morta? …(Signora Flora) ...Oh no! Dio liberi!(Agazzi) ...Ma allora il pazzo è lui!...ma sì, perdio, dev’essere lui!134 (Laudisi davanti allo specchio guardando la propria immagine) …Oh, eccoti qua! Eh caro! – Chi è il pazzo di noi due? …Eh, lo so: io dico tu - e tu dici: io! - Tu! tu! - E già, io... - Và là, che così a tu per tu, ci conosciamo bene noi due! - Il guajo è che come ti vedo io, non ti vedono gli altri! E allora, caro mio, che diventi tu? Dico per me che, qua di fronte a te, mi vedo e mi tocco - tu, per come ti vedono gli altri - che diventi? - Un fantasma, caro, un fantasma! - Eppure, vedi questi pazzi? Senza badare al fantasma che portano con sè, in se stessi, vanno correndo, pieni di curiosità, dietro il fantasma altrui! E credono che sia una cosa diversa...135

132 Così è (se vi pare), tratto dalla raccolta Maschere nude di Luigi Pirandello, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1958, volume primo, p.1052. 133 Ibidem pp. 1050 – 1051.134 Ibidem p. 1056.135 Ibidem pp.1065- 1066.

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È d’obbligo un aneddoto: al termine della prima rappresen-tazione (18 giugno 1917 al teatro Olimpia di Milano), al gior-nalista che gli aveva chiesto chi fosse veramente il pazzo, se la signora Flora od il genero Ponza, Pirandello rispose di non saperlo neppure lui! COSI’ È (se vi pare). È di fronte allo specchio che si avvia un processo di scompo-sizione della propria personalità e l’uomo si accorge, forse, di essere un altro anche per sé stesso e altri per i rispettivi tanti altri, che inesorabilmente lo relegano nella più squallida solitudine della tragedia umana.L’uomo, così, è prigioniero di schemi nei quali, da sé o per opera della società, si rinchiude. Così, murato in questa sua solitudine, l’uomo non ha altro scampo che il delitto o il suicidio (la distruzione di sé o del suo antagonista), a meno che non riesca ad aprire la valvola della pazzia e dire a tutti in faccia la verità come Ciampa, ne Il berretto a sonagli, suggerisce alla signora Beatrice. Non dà forse segni evidenti di pazzia, o presunti tali, al punto da essere internato in un manicomio, Belluca, quando decide di rompere quella maschera, dietro la quale viveva per anni?È appunto nella novella Il treno ha fischiato che traspare in modo evidente come le convenzioni sociali assegnino a cia-scuno la “forma”, la maschera, costringendolo a recitare un ruolo che non gli è proprio, fino a soffocarne del tutto la vera identità; per ritrovarla ed appropriarsene Belluca dovrà in-scenare tutta la sua dirompente forza che, volente o nolente, sfocia nella ragione degli altri, in un’autentica manifestazione di pazzia. Belluca non è pazzo, è diventato libero. Finalmente è quello che non era mai riuscito ad essere, libero, non più personaggio, non più quello che altri volevano che fosse, ma ciò che egli è veramente, vivo, vivo per sé, non importa esse-re pazzo per gli altri. I ragionamenti capziosi di Pirandello sono pensati, concepiti

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ed espressi dai suoi personaggi: eccentrici, svagati, strambi, imbecilli o pazzi; si trovano spesso calati in vicende assurde, addirittura surreali, disgregati nella loro personalità, chiusi entro una forma e costretti a rappresentare una parte che loro stessi con le loro fissazioni ed abitudini si sono assunti. Vitangelo Mostarda, protagonista nel romanzo Uno, Nessuno e Centomila, compie una serie di azioni impreviste e contrad-dittorie, presentandosi sotto aspetti di volta in volta diversi e contrastanti, con il risultato che tutti finiscono per rite-nerlo pazzo (soluzione semplice e liberatoria per chi non riconosce o non vuol accettare la ragione dell’altro), così con questa nomea finirà i suoi giorni ricoverato nell’ospizio da lui stesso fondato. Il romanzo Uno, Nessuno e Centomila è l’esal-tazione della condizione umana, che vede l’individuo vittima delle sopraffazioni, contro le quali deve continuare a com-battere, certo comunque, che la sua è un’affannosa ricerca di ciò che vorrebbe essere, ma che non sarà mai. Quali sono i parametri per giudicare la pazzia di una persona? ..È forse pazzo colui che è scomodo alle convenzioni civili entro le quali ciascun “pupo” vuole il suo rispetto? È ben chiaro, nell’Enrico IV, la sottile linea segreta ed indistrut-tibile che imprigiona l’individuo tra la saggezza e la pazzia. Il falso imperatore ha continuato consapevolmente la sua fin-zione di pazzo, dopo dodici anni di autentica follia, perché ha riconosciuto l’impossibilità di ritornare nella “normalità” di uomo sano di mente, dopo un così lungo intervallo, durante il quale la vita degli altri è scorsa nella finzione di un contesto, che prima altri hanno voluto creargli e che dopo lui, ha volu-to e dovuto sostenere, mantenendo vivo un personaggio nel quale adesso non si riconosce più. Il dramma prende corpo e gioca sulla pazzia dei saggi e sulla saggezza dei pazzi. Enrico IV vive così, “fissato” nell’atroce immobilità di quel personaggio, di cui per gioco aveva assunto la maschera. In realtà il paz-

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zo non è più tale; ma, pur avendo riacquistato la ragione, ha preferito fingere di esserlo ancora; in fondo fingersi folle po-trebbe rappresentare una liberazione. La finzione che muta in modo dirompente in realtà, a volte, se non sempre, ha bisogno di un supporto indispensabile che solo la pazzia può dare. Ed il folle, non più tale, si diverte e gioca con i “pupi”; da vittima diventa “puparo”. … Pupi siamo, caro signor Fifì! Lo spirito divino entra in noi e si fa pupo. Dovrebbe bastare, santo Dio, esser nati pupi così per volontà divina. Nossignori! Ognuno poi si fa pupo per conto suo: quel pupo che può essere o che si crede d’essere...136

Fare il pazzo! Potessi farlo io, come piacerebbe a me! Sferrare, signora, qua per davvero tutta la corda pazza, cacciarmi fino agli orecchi il berretto a sonagli della pazzia e scendere in piazza e sputare in faccia alla gente la verità.137

Poter distruggere il proprio “pupo”, strapparsi la maschera ed essere libero, …o forse - Nessuno. Ad onor del vero il destino non riserbò una vita familiare tranquilla al nostro scrittore siciliano, a causa della malattia mentale della sua amata Antonietta Portulano, sposata a Gir-genti il 27 gennaio 1894; la malattia mentale che la portò ad una gelosia aberrante del marito, è stato il tragico epilogo del dissesto familiare dei Pirandello. Il nostro commediogra-fo, così scrisse ad un suo amico: ho la moglie da molti anni paz-za, e la sua pazzia sono io, io che ho vissuto sempre per la mia famiglia, per lei, esiliato da tutto per non dare a lei alcun pretesto per adombrarsi, ma non è giovato a nulla purtroppo.138

È chiaro quindi che Pirandello aveva un gran rispetto ed in-finita commiserazione per la pazzia patologicamente intesa;

136 Ciampane, Il berretto a sonagli, tratto dalla raccolta Maschere nude di Luigi Pirandello, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1958, volume secondo, p..373137 Ibidem p. 404. 138 tratto dal supplemento al numero del 28 / 5 /1986 del quotidiano Il Cor-riere della Sera , p. 21.

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i suoi personaggi, i suoi “pupi”, riflettono e filosofano sulla vita, sulla loro condizione di essere o a volte di apparire, sulla facile e futile finzione o sulla nuda realtà. 3.13 Funzione terapeutica del teatro

In questa sessione s’intendono descrivere brevemente alcune esperienze significative che, nel corso del novecento, hanno visto l’utilizzo del teatro in contesti di disagio sociale, con una particolare attenzione alle situazioni di disagio psichico. Sono esperienze che si possono collocare o nell’ambito delle arti-terapie vere e proprie o nel teatro educativo e sociale; in entrambi i casi, nonostante gli obiettivi siano diversi, l’intervento teatrale utilizza sia tecniche propriamente teatrali sia tecniche terapeutiche nate dallo studio della psicologia, sociologia e della psicoterapia. È importante sottolineare che, al di là delle differenze, tutte queste esperienze sono scaturite dalla rivoluzione teatrale avvenuta nel corso del novecento che ha permesso il nascere e il diffondersi di forme teatrali nuove, nonché l’incontro e la contaminazione con altri ambiti. Per questo motivo, prima di fare una piccola panoramica delle esperienze teatrali nei contesti del disagio, riteniamo necessario descrivere brevemente i cambiamenti che hanno attraversato la cultura teatrale del secolo scorso. Il primo cambiamento epocale avviene quando l’individuo, con tutta la propria specificità, viene nuovamente posto al centro dell’azione teatrale. Ciò che conta per i padri fondatori del teatro di ricerca139 non è il risultato in sé, ma è il processo, il percorso esperenziale che un attore compie nella creazione di materiali creativi. L’idea ottocentesca di

139 Come ad esempio Jerzy Grotowski, Eugenio Barba, Antonin Artaud.

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compagnia viene sostituita dalla cultura del teatro di gruppo e del teatro-laboratorio, una sorta di luogo-incubatrice per la ricerca e la sperimentazione dove ogni individuo apporta un contributo originale che deriva dalla sua unicità. Il teatro di ricerca si pone come obiettivo la ricerca della verità, intesa come bisogno antropologico di conoscenza e bellezza. La verità intrinseca rompe i cliché, gli stereotipi, le imposizioni esterne e la massificazione a favore della più profonda essenza dell’uomo. Afferma Jerzy Grotowskj: ci occupiamo di arte per abbattere le nostre frontiere, riempire il nostro vuoto, realizzare noi stessi…. il teatro con la sua corporea percettività mi è parso sempre un luogo capace di sfidare se stesso ed il pubblico violando le immagini, i sentimenti stereotipati e comunemente accettati.140

Questa nuova necessità fa sì che gli spettacoli e i teatranti della nuova generazione abbandonino i teatri stabili per an-dare ad incontrare gli spettatori141 ovunque, all’interno delle specifiche realtà quotidiane: l’incontro con l’altro, sia esso un collega attore in scena o uno spettatore, diventa fondamen-tale; iniziano numerosi esperimenti in cui i professionisti del teatro portano la propria arte nei contesti più disparati, negli ospedali psichiatrici, negli istituti di pena, nelle case di cura per anziani, nei centri di aggregazione giovanile, nelle comu-nità di recupero da dipendenze, ovunque ci sia qualcuno con cui interagire, persino in strada. Grotowski, negli anni settanta, abbandona il percorso di produzione degli spettacoli per dedicarsi al parateatro,142 una

140 J. GROTOWSKJ, Per un teatro povero, Bulzoni Editore, Roma, 1970.141 Significativa in questo senso è la scelta da parte di molti registi del teatro di ricerca del termine “spettatore” (inteso come individuo) al posto di “pubbli-co” (inteso come massa indifferenziata).142 Cfr. J. GROTOWSKI, Dalla compagnia teatrale a L’arte come veicolo, in T. RICHARDS, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, Ubulibri, Milano 1993. In questo articolo Grotowski guarda in retrospettiva all’esperienza parateatrale e ne indica limiti e potenzialità.

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pratica teatrale che vede il coinvolgimento di non professionisti e che utilizza le tecniche del training (allenamento del corpo e della voce) e dell’improvvisazione per l’esplorazione del sé profondo di ciascuno. Eugenio Barba, sempre negli stessi anni, inaugura la pratica del “baratto”,143 ovvero un momento di incontro/festa tra un gruppo teatrale e un determinato territorio secondo la logi-ca dello scambio144 e della conoscenza reciproca.Giuliano Scabia è tra gli artisti convocati a Trieste da Franco Basaglia per dar vita ad un laboratorio in cui artisti profes-sionisti collaborano assieme ai pazienti chiusi in istituto alla creazione di Marco Cavallo,145 un enorme cavallo blu che nel 1973 sfonda le mura del manicomio ed esce, accompagnato da un coloratissimo corteo, per le vie di Trieste. Queste prime esperienze aprono la strada a nuove contami-nazioni ed incontri: molti gruppi provenienti dal terzo teatro146 e dal teatro dei gruppi scelgono di rivoluzionare il proprio approccio al teatro e di lavorare esclusivamente in contesti di disagio o marginalità sociale. In alcuni casi lo fanno con uno scopo semplicemente educa-tivo. Le esperienze assomigliano, e spesso vengono confuse, con quelle più tipicamente legate all’uso del teatro come te-rapia vera e propria.

143 Cfr. E. BARBA, Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta, Ubulibri, Milano, 1996.144 Si veda il video “Il libro delle danze” prodotto dall’Odin Teatret e i docu-menti RAI che testimoniano l’arrivo di Eugenio Barba e dei suoi attori dell’Odin Teatret presso il manicomio di Pisa subito dopo l’approvazione della legge Ba-saglia.145 Cfr. N. PITRELLI, L’uomo che restituì la parola ai matti. Franco basaglia, la comunicazione e la fine dei manicomi, Editori Riuniti, Roma, 2004.146 Terzo teatro è una definizione data da Eugenio Barba per definire tutte quelle forme teatrali che si sono formate dagli anni settanta in poi e che non si riconoscevano nel teatro di prosa tradizionale. Come lui stesso scrive “il terzo teatro … è l’insieme di tutti quei teatri che sono, ognuno, per se stesso, costruttori di senso, ognuno dei quali, cioè, definisce in modo autonomo il proprio personale senso dell’azione di far teatro … definisce il senso e l’eredità incarnandoli in attività precise, in una ben distinta identità professionale” (E. BARBA; Op. Cit. 1996).

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In altri casi, invece, l’esigenza educativa/terapeutica si affianca a quella estetica e il momento dello spettacolo non rimane un’esperienza circoscritta, bensì diviene l’ambito privilegiato per sollecitare una riflessione su temi spesso difficili e com-plessi. Questo avviene grazie alla compresenza, sulla scena, di professionisti dello spettacolo e persone con disagi, sia-no essi disabili (numerosissime sono le esperienze in questo senso), detenuti (il progetto più conosciuto è quello portato avanti da Armando Punzo con la Compagnia della Fortezza) o soggetti psichiatrici (Claudio Misculin collabora con Basa-glia e fonda a Trieste l’Accademia della Follia; l’attore/regista Pippo del Bono in numerosi spettacoli si affianca a Bobò, un sordomuto che dopo aver vissuto per quasi tutta la sua vita in un istituto psichiatrico, ora gira il mondo come attore). Gli artisti che lavorano in questo modo portano sulla sce-na un frammento di vita vera e, facendo questo, mettono lo spettatore di fronte ad una realtà molto complessa. Come efficacemente afferma Pontremoli: la messa in scena di ciò che è socialmente sottratto, occultato è lo scandalo di questo teatro … il suo atto politico più significativo, tanto più rivoluzionario quanto più… ciò che ci viene mostrato modifica la nostra percezione della realtà.147

Allo stesso tempo queste forme di spettacoli permettono ai soggetti che vivono in condizioni di marginalità e disagio di acquisire uno status diverso, spesso opposto, rispetto a quello conferito loro dalla società esterna. È un modo per re-stituire loro quella dignità e centralità di cui spesso sono stati privati. Inoltre sulla scena questi “attori” hanno l’opportunità di narrare, soprattutto attraverso il corpo, il proprio percor-so esperienziale e di attivare una socialità negata nella realtà: il teatro diventa un contesto privilegiato di relazione in cui

147 A. PONTREMOLI, Teoria e tecniche del teatro educativo e sociale, UTET Università, Novara, 2007.

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la persona che vive una situazione di marginalità torna a co-municare ed interagire, non solo con gli attori professionisti compresenti sulla scena ma anche e soprattutto con il pub-blico, che in quel momento rappresenta la società esterna. Una strada diversa viene percorsa da chi utilizza il teatro come forma di terapia vera e propria. In questo caso il teatro è un mezzo, utilizzato da un’équipe composita, dove il terapeuta ha conoscenze teatrali e solo in alcuni casi è affiancato dai professionisti del teatro. Lo scopo principale è la cura del soggetto che vive nel disa-gio e quindi, più che lo spettacolo, ciò che è importante è il percorso “laboratoriale”. L’uso del teatro per scopi terapeutici ha radici antiche.Già Aristotele, nella “Poetica”, parla di come la rappresenta-zione scenica del dramma possa avere una funzione catarti-ca per l’individuo che, rivivendo situazioni tormentate, può giungere ad elaborare le proprie angosce. Come afferma Pontremoli,148 la situazione tragica mette l’eroe di fronte ad un bivio: o abbandonarsi all’inevitabile o non riconoscerlo e porvisi contro con un’azione trasgressiva nei confronti del limite, oggettivato nella legge, nel tabù, nella tradizione…La trasgressione comporta una responsabilità … l’eroe sbaglia … tuttavia il suo errore non impedisce dialetticamente la fecondità del gesto … L’esito è la morte tragica sacrificale dell’eroe … L’eroe è un capro espiatorio, una vittima sacrificale rituale … Nello spazio protetto del rito il gruppo sperimenta la morte in maniera indolore: con un meccanismo di identificazione la vittima viene delegata a compiere per il gruppo l’itinerario d’incontro col divino e aiuta la comunità a superare il vissuto di crisi.Il teatro diviene terapeutico nel momento in cui permet-te all’individuo, sia esso attore sia esso spettatore, di dare forma ai propri vissuti all’interno di uno spazio simbolico in cui potersi relazionare ed emozionare, tanto da riuscire,

148 A. PONTREMOLI, Op. Cit.

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poi, a trasferire nella vita reale l’esperienza vissuta nel set-ting terapeutico. Il setting che funge da contenitore protetto, permette all’individuo di sentirsi e provare emozioni inibite e di sperimentare quel vissuto di onnipotenza, caratteristico dell’infanzia.Winnicott ha ipotizzato un parallelismo tra teatro e gioco nel bambino; il teatro rappresenta uno spazio transizionale, in grado di consentire il passaggio dal desiderio alla realtà; contemporaneamente anche gli oggetti scenici, le maschere, gli abiti, fungono da oggetti transizionali che permettono al soggetto di assumere svariati ruoli ed eventualmente sceglie-re quello più adatto a sé.149

La tecnica che apre storicamente la strada all’utilizzo del te-atro per scopi terapeutici è lo psicodramma, forma di me-tateatro fondata da Jacob Levi Moreno agli albori del Nove-cento. In contrasto con la pratica freudiana che isola il paziente dal medico, Moreno basa la sua tecnica sull’incontro tra individui e quindi sul gruppo. Durante gli anni Venti Moreno fonda il Teatro della Sponta-neità dove vengono messi in scena episodi di vita vissuta che successivamente vengono discussi insieme agli spettatori; egli crede infatti che tutta la realtà possa essere rappresentata e che attraverso la drammatizzazione sia possibile mettere in scena parti del sé ritenute inconfessabili. In questo modo il soggetto può vivere un’esperienza catartica e quindi tera-peutica. Lo psicodramma si prefigge quindi di far recuperare all’in-dividuo la propria spontaneità attraverso la tecnica della reviviscenza, ovvero la drammatizzazione di episodi reali o immaginari legati al vissuto del soggetto stesso.

149 Cfr. C. VALMORI BUSSI, Artiterapie, 2-3, 2003.

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Cinque sono gli elementi che costituiscono una seduta di psicodramma: la scena (che può essere il luogo di apparte-nenza dei partecipanti o un luogo creato ad hoc), il soggetto (che rappresenta se stesso e non un altro da sé), il direttore (un terapeuta che ha il compito di facilitare e guidare la ses-sione di lavoro), gli “Io Ausiliari” (che coadiuvano l’azione del direttore, fungono da attori secondari e analizzano dall’inter-no le dinamiche), l’uditorio (il pubblico che osserva l’azione dall’esterno, ma che partecipa a ciò che succede sulla scena in quanto ciò che viene rappresentato riguarda il gruppo nel-la sua interezza). Un concetto fondamentale dello psicodramma è quello di ruolo; prima di iniziare una sessione di lavoro, avviene il ri-scaldamento al ruolo durante il quale, solitamente tramite un’intervista, vengono raccolte tutte le informazioni neces-sarie per mettere in scena le problematiche del protagoni-sta. Tra le tecniche utilizzate dal direttore nel condurre una sessione ci sono l’inversione di ruolo (dove i ruoli vengono scambiati per permettere ai partecipanti non solo di metter-si nei panni altrui, ma anche di leggere la propria esperienza con occhi altrui) o il doppio (dove un Io ausiliario funge da alter ego del protagonista). Ogni singola seduta si suddivide in tre momenti: il worming up (riscaldamento fisico e vocale che deve liberare la spon-taneità dei partecipanti), il riscaldamento al ruolo e infine la partecipazione dell’uditorio (in cui il “pubblico” esprime i propri sentimenti ed emozioni in base a ciò che ha visto rappresentato sulla scena).Lo psicodramma è il precursore della teatroterapia, una me-todologia terapeutica espressiva usata in un’ampia varietà di ambiti, quali quelli terapeutico-riabilitativi, socio-educativi, penitenziari, aziendali.I riferimenti culturali della teatroterapia sono molteplici e

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affondano le radici nel teatro di ricerca da una parte e prin-cipalmente nella psicoanalisi junghiana e nell’analisi transazio-nale dall’altra.150 Uno dei fondamentali obiettivi che la teatroterapia si prefig-ge è la continua ricerca di armonia tra mente, corpo e voce, sia nella relazione con se stessi che con gli altri.151

La teatroterapia, infatti, riconosce l’unicità della persona: ognuno è chiamato a mettere in scena il proprio vissuto con l’ausilio di alcune tecniche dell’arte dell’attore, quali l’improv-visazione152 e la formalizzazione dell’azione tramite la ricerca del livello pre-espressivo153 (l’insieme di principi che ritorna-no nelle arti performative in tutte le epoche e in tutte le lati-tudini e che quindi costituiscono una sorta di “Io profondo” comune a tutti gli uomini).In questo contesto, lo spettacolo è contemplato come un momento di transizione, ovvero una “scena che non ha biso-gno di essere replicata più volte”.154

Il lavoro è guidato dal teatroterapeuta che raccoglie in sé le caratteristiche dell’attore, regista e terapeuta.Un’altra tecnica secondo la quale il teatro viene utilizzato come terapia è la drammaterapia, fondata da Robert Landy.155

150 È importante ricordare che la teatro-terapia non ha un unico fondatore e quindi diverse sono le modalità con cui viene esplicata. Qui si fa principalmente riferimento alla teatroterapia di Walter Orioli.151 Cfr. il manifesto della teatro-terapia sul sito della Federazione Italiana di Teatroterapia fondata da Walter Orioli.152 Dove per ricostruire una determinata situazione si attinge al proprio vis-suto e alla propria memoria. In questo modo è possibile “ricostruire” un deter-minato stato d’animo e quindi un determinato modo di agire corporalmente nello spazio. Cfr. La descrizione del lavoro di Grotowski sulle “azioni fisiche” in T. RICHARDS, Op. Cit.153 Eugenio Barba è colui che ha teorizzato la presenza di un livello pre-espres-sivo. Cfr. E. BARBA, La canoa di carta. Trattato di Antropologia teatrale, Il Mulino, Bologna, 1993.154 Ibidem.155 Questa tecnica condivide con la teatroterapia gli stessi fondamenti teorici, e spesso le due tecniche possono essere confuse. Si veda in questo senso, l’arti-colo di D. TEDESCHI, Drammaterapia e teatroterapia a confronto..

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Il principio fondante è l’assunzione di ruoli da parte dell’at-tuante; secondo Landy, infatti, ogni individuo, è chiamato dalla società ad assumere ruoli diversi in contesti diversi. Scopo della drammaterapia è aiutare ciascuno a non irrigidirsi in un unico ruolo e a riequilibrare il grado di distanza o di vicinan-za rispetto al mondo relazionale in cui esso vive ed agisce. Utilizzando il linguaggio corporeo, questa tecnica si avvale del teatro per dare un senso ai meccanismi drammatici presenti nei disturbi psichici:156 ad esempio, dato che il teatro è relazione, esso aiuta il paziente psicotico a riallacciare i rapporti con gli altri e spezzare il suo atteggiamento “di ruolo” di esclusio-ne dell’altro; il teatro contrappone al rifiuto della realtà del paziente psichiatrico, una rielaborazione creativa, simbolica e fertile di questa. Dato che la drammatizzazione ha precisi confini spazio-temporali (ha un inizio e una fine, un luogo preciso di attuazione), essa si contrappone alla confusione tra oggettività e vissuto personale del paziente psichiatrico.La drammaterapia si suddivide in tre fasi:fondazione (finalizzata alla creazione di un contesto ludico ed empatico in cui l’individuo possa scegliere un ruolo in relazione allo spazio e agli altri); creazione (atta all’individuazione e alla drammatizzazione dei temi, che devono rispecchiare le problematiche individuali e gruppali);condivisione (finalizzata alla condivisione e alla discussione critica e costruttiva dell’esperienza vissuta dal gruppo ed in particolare delle dinamiche conflittuali emerse durante la drammatizzazione).Una posizione molto atipica viene occupata dal Teatro degli Affetti di Giulio Nava, attore e regista di teatro di ricerca ma anche psicologo. Il suo metodo prevede una contaminazione e compresenza di competenze dove il suo fare teatro non

156 A. PONTREMOLI, Op. Cit.

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può prescindere dal suo altro mestiere di psicologo. Questa breve descrizione delle esperienze di teatro in con-testi di disagio porta ad una riflessione conclusiva: molte sono le forme che la relazione tra teatro e terapia ha fatto scaturire. Ognuna ha la sua specificità e nasce da bisogni e teorizzazioni diversi. Comunque, qualunque sia la strada che si decide di intraprendere, è importante ricordare che il per-corso acquista valore non solo in base alle teorie che lo so-stengono, ma principalmente se si tiene conto delle proprie conoscenze di base e soprattutto delle persone con cui si viene a contatto e del contesto in cui esse vivono.

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musica

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3.14 Musica e follia di Giuseppe Viaro

Nella storia della musica, la follia assume aspetti molteplici: può essere una conseguenza dell’eccitamento provocato dalla musica stessa, oppure una forma musicale o, ancora, una patologia di cui alcuni musicisti sono affetti e le cui conseguenze possono essere rintracciate nelle loro opere.Questi tre aspetti sono analizzati brevemente qui di seguito.La follia come invasamento provocato dalla musica ha radici antichissime ed è presente in tutte le tradizioni musicali sia occidentali che orientali. In Occidente si rifà ai riti dionisiaci dell’antichità classica in cui le menadi, attraverso la musica e la danza, raggiungono uno stato di trance e di esaltazione divina, che da una parte è sinonimo di perdita del controllo (e quindi follia), ma dall’altra è sintomo della vicinanza con il dio e quindi di una speciale relazione con esso. Dioniso simboleggiato dal toro,157 anima-le dall’indole furente – viene associato con le potenze della natura che travalicano il mondo analitico e logico-discorsivo della vita quotidiana. In questo modo, il dio della follia dona a chi ne viene posseduto la capacità di predire il futuro,158 in quanto l’estasi conduce al raggiungimento di una dimensione oltre lo spazio e il tempo, in cui la distinzione fra passato, presente e futuro viene annullata. Dioniso è anche, in alcu-ne fonti, associato ad Ade, il dio dell’oltretomba; ad esempio, Eraclito li identifica come “il medesimo Dio”.

157 Cfr. un estratto degli Inni Omerici, (a cura di) Cassola F., Mondatori, Milano 1988: “Siimi propizio, o tu che appari in forma di toro, e infondi nelle donne la follia!!”.158 cfr. Euripide, Le Baccanti (298-301).

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Similmente in Oriente l’associazione tra follia e musica viene incarnata da Shiva: il dio danzatore cosmico della tradizione indù è una divinità che raccoglie in sé principi contrastanti quali la creazione, conservazione e distruzione. I suoi adepti possono raggiungere uno stato di purificazione attraverso il movimento e la perdita di controllo del proprio corpo.159

Simili effetti vengono provocati da una danza del Sud Ame-rica usata per invocare fertilità; in essa il rapporto fra corpo (dimensione naturale) e spirito (dimensione divina) viene tenuto alto attraverso il movimento ostinato e spasmodico della danza che favorisce il raggiungimento di una dimensione oltre il reale.160 Tale danza viene importata in Europa attra-verso il Portogallo e nel 1577 viene trascritta da Francisco de Salinas nel De musica libri septem.161 La musica, di ritmo ternario, è simile ad una Sarabanda, danza dal movimento rapido e temerario che spesso assume connotati licenziosi fino al punto di essere bandita dal clero.162

La chiesa, infatti, giudica “diabolico” tutto ciò che emotiva-mente scuote l’anima perché, secondo la concezione medie-vale della musica, esistono organi interiori che travalicano gli organi di senso e che permettono la conoscenza divina in maniera oggettiva, senza un coinvolgimento emotivo.163

159 “Shiva danza il terribile tandram, battendo i piedi, roteando il corpo, agi-tando le braccia egli scaglia per aria le montagne, l’oceano straripa, le stelle vengono fustigate e sparpagliate dai capelli intrecciati di Shiva. Per salvare il mon-do Shiva nel suo crudele potere danza all’annientamento del mondo, vivendo sfrenatamente e spargendo cenere dal proprio corpo affinché possa rinnovarsi” (Tantra) – Dancing with Siva, Himalayan Academy, USA, India, 2003 Himalayan Academy.160 Cfr. Paolo Barizza, “Follia” on Music!, 18 novembre, 2008, Rigo Musicale della Società dei Concerti della Spezia Onlus. 161 Francisci Salinae, De musica libri septem, 1577; Elisa Cagnani, Bologna e la sonata barocca nella musica strumentale del Seicento; Di Anglés Higini, Scripta musicologica – De Musica Instrumentali usque ad sæculum XVII.162 Cfr. Riccardo Nielsen, Le Forme Musicali, 1961.163 Cfr. Ernesto Sergio Mainoldi, Ars Musica. La concezione della musica nel medioevo, Rugginenti Editore, Milano, 2001.

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Sintomaticamente, molte espressioni musicali nate all’interno della liturgia, come un’estensione del rito, vengono successi-vamente bandite dal suolo sacro e classificate come “musica profana”.164 Singolare è, in questo periodo, la nascita di un linguaggio a forte valenza musicale, il gramelot, una lingua in-ventata che viene utilizzata da attori e musici per rappresen-tare verità scomode al potere, ma il cui significato trasparisce dagli atteggiamenti e dal linguaggio usato dal corpo.Dal Seicento in poi, in Italia, aspetti isterico convulsivi ricor-rono in alcune danze popolari, come quelle legate al feno-meno del tarantismo, dove il morso della tarantola, sta ad indicare la condizione di forte disagio psichico del tarantato, (generalmente legata a situazioni di tipo economico, sociale o sessuale).165 Tale disagio trova la sua espressione nella mu-

164 Un esempio tipico è il celeberrimo “Ludus Danielis”.165 “Dal seicento in poi si trovano interpretazioni mediche del tarantismo, una malattia da ricondursi ad una sindrome tossica provocata dal morso di aracnide. […] Quest’evento sembra che derivasse dagli antichi riti dionisiaci o da quelli magici pagani di possessione, molto diffusi in Puglia. […] Negli anni 1959-61 attraverso l’indagine etnografica di De Martino e della sua équipe (l’etnomusi-cologo Diego Carpitella, lo psichiatra Giovanni Jervis, il fotografo Franco Pinna), si comprese la natura del tarantismo secondo una chiave interpretativa di tipo antropologico, cogliendo nella cura terapeutica della musica e dei colori uno schema, tramandato nei secoli, di soluzione delle crisi che non avevano niente a che fare con l’avvelenamento reale del ragno. […] Il primo morso ipotetico avveniva in genere tra gli inizi della pubertà e la fine dell’età evolutiva, una epoca complessa e difficile per lo sviluppo psicologico dell’individuo e si ripresentava ad ogni stagione estiva, dimostrando il carattere simbolico del tarantismo. […] Il simbolismo della stagione estiva, invece derivava dall’importanza che la società contadina attribuiva all’epoca del raccolto, un momento di alta tensione sociale in cui si ‘colmavano i granai e le celle vinarie, si pagavano i debiti e gli animi misuravano la forza ed i limiti della fatica umana’. Per analogia ciò significava anche avere la possibilità di pagare quei debiti esistenziali accumulati nel fondo dell’anima. […] Come De Martino scrive: ‘Il simbolo della taranta presta figura all’informe, ritmo e melodia al silenzio minaccioso, colore all’incolore, in un’assi-dua ricerca di passioni articolate e distinte lì dove si alternano l’agitazione senza orizzonte e la depressione che isola e chiude: offre una prospettiva per imma-ginare, ascoltare, guardare, ciò per cui si è senza immaginazione, sordi, ciechi e che tuttavia chiede perentoriamente di essere immaginato, ascoltato, visto.” Cfr. Patrizia Lungonelli , Il tarantismo e la pizzica salentina, Il Cantastorie.

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sica e danza della pizzica salentina, eseguita con tamburello, chitarra, violino e fisarmonica.166

È nelle corti europee del ‘600, che la follia subisce una radi-cale trasformazione e diventa un tema strumentale e suc-cessivamente una forma musicale. Lontano dalle sfrenatezze di contadini e pastori, la corte trasforma i ritmi scatenati in un tema caratterizzato da una melodia lenta e posata, quasi priva di sviluppo. Analizzando il tema della follia, anche con l’ausilio grafico della Fig. 1,

Figura 1: La ‘follia’, tema di origine portoghese

si può notare che esso ha un’articolazione elementare e si presenta quasi come uno spunto a cui manca un maturo bi-lanciamento espressivo, basato sulla ripetizione ostinata di un unico elemento. Su questo tema semplice, l’esecutore barocco solitamente improvvisa e aggiunge abbellimenti167 e

166 Cfr. paragrafo 3.7 (Danza e follia) (ndr). 167 “L’abbellimento melodico ha una lunga storia risalente al Medioevo. Gli abbellimenti probabilmente furono sempre improvvisati; e sebbene in qualche tempo successivo fossero parzialmente o interamente trascritti, o indicati con particolari segni, tuttavia essi mantennero sempre una certa aria di spontaneità. Per noi la parola “abbellimento” è legata a significati fuorvianti che fanno pen-sare a qualcosa di non essenziale, superfluo, una mera aggiunta facoltativa alla melodia. Ciò non era l’intenzione barocca. Gli abbellimenti non erano soltanto decorativi: avevano una precisa funzione espressiva, quali mezzi di comunicazio-ne degli affetti. Inoltre, alcuni degli ornamenti più comuni – soprattutto il trillo e l’appoggiatura – aggiungevano incidentalmente un pizzico di dissonanza, che non esiste nella partitura scritta della musica.In genere, due erano i modi per abbellire una determinata parte melodica: 1) brevi formule melodiche [che agivano sulle singole note o su gruppi ristretti di note]; 2) abbellimenti più estesi, […] per mezzo dei quali le note di una melodia erano frantumate in una moltitudine di note più brevi, dando vita in tal modo a una parafrasi libera ed elaborata della parte scritta. […]. Le fioriture per i movi-menti lenti delle sonate a solo di Corelli ci sono pervenute grazie a una edizione del XVIII secolo, uno dei pochi esempi di composizione italiana in cui siano state trascritti tali abbellimenti di solito improvvisati. […] La cadenza [era un altro

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variazioni. In questo tipo di forma, ciò che muta non è la so-stanza del tema, che deve apparire riconoscibile, ma sono gli elementi secondari, quelli che non alterano la riconoscibilità dell’idea. Il compositore, in questo modo, ha l’opportunità di sottolineare in maniera colta, gli aspetti ossessivi e talvol-ta maniacali della follia attraverso il procedere pedissequo e ostinato dell’elementarità del tema, contornato da artifici musicali spesso estremamente tecnici. La variazione permette l’avvicendamento di brani che alter-nano sbalzi di umore piuttosto repentini e apparentemente imprevedibili. Il tema della follia permette agli autori di sbiz-zarrirsi in sperimentazioni tecniche e virtuosismi. In questo senso sono significative le variazioni sopra la follia di Girola-mo Frescobaldi nel Primo libro di toccate d’intavolatura di cim-balo et organo o le magistrali de La Follia, Sonata Op.5 n.12 per Violino, di Arcangelo Corelli (1700), o quelle della Sonata op.1 n.12 di Antonio Vivaldi (1705). Successivamente, in epo-ca classica, la forma viene gradualmente abbandonata, anche se sono da ricordare le 26 Variazioni per orchestra, di Antonio

tipo di abbellimento che anticipa le] lunghe cadenze [in coda ai] concerti dei periodi classici e romantici.Durante il Barocco, gli esecutori erano dunque liberi di aggiungere un proprio contributo alla partitura del compositore; ed erano altrettanto liberi di tagliarla o modificarla in vari modi. Nelle opere le arie si potevano omettere o sostituire con altre arie, praticamente a capriccio dei cantanti. Frescobaldi consentì agli organisti di smembrare le sue toccate o di terminarle dove preferivano. I com-positori di variazioni, suites e sonate davano per scontato che gli esecutori po-tessero omettere i movimenti ad libitum. […] Le sonate erano scritte per vio-lino e basso continuo con possibilità di aggiungere un violino o due “a piacere”. Moltissime suites di danze e sonate da camera italiane del XVII secolo, tra cui quelle di Corelli, indicano tra l’altro con il termine “basso” quanto viene suonato da un violone o da uno strumento a tastiera – o comunque uno strumento che può suonare sia i bassi che le armonie […]. Le “sonate da chiesa”, d’altra parte, specificano sempre sia la parte del violone che quella dell’organo; in Corelli e in altri compositori, il basso a corde viene riservato saltuariamente per accentuare un’entrata o per dare una versione abbellita più veloce di quella del basso della tastiera, o ancora una linea melodica parzialmente autonoma. […] Cfr. Donald Jay Grout, Storia della Musica in occidente, 1987.

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Salieri. In epoca romantica e post romantica rimangono degli splendidi isolati esempi come la Rapsodia Spagnola, di Franz Liszt e le variazioni sul tema corelliano, di Sergej Rachmaninov, dove il tecnicismo martellante e morboso porta ad una spro-positata dilatazione sia virtuosistica che temporale rispetto alla natura del tema. Alterando ulteriormente la forma nei suoi elementi di espressione e di durata, si genera una sor-ta di vortice da cui è difficile uscire. Ciò che è interessante notare è che autori di diverse epoche riprendono e variano il tema della follia senza però mai lasciare spazio ad altri ele-menti dialogici, a nuove altre idee. Questo provoca l’accen-tuarsi di una forte dimensione introspettiva che lavora verso una esclusione alla relazione, un distacco dalla realtà esterna. Cosa vuol dire, infatti, variare un tema di un’unica idea e che ha già espletato in se stesso le sue variazioni? Significa svi-luppare un pensiero tautologico che in se trova relazione e compimento. Significa creare un percorso fantastico nel quale ogni immagine della realtà è la ripetizione di se stessa, signi-fica condurre il proprio estro verso l’esaltazione di se stessi, significa trovare il proprio equilibrio in una logica estrema ed aberrante, significa creare un mondo parallelo che gradata-mente soppianta quello reale. Il tema della follia fonda il suo compimento nella brevità e porta verso un annullamento del linguaggio; è come un organismo che trova la sua massima espressione nel nascere e poi, lentamente, inesorabilmente, implode su se stesso. Gli autori che si sono cimentati su que-sto tema, hanno, attraverso rigorosi tecnicismi, esasperato situazioni di manchevolezza, talvolta evidenziando le carenze e generando situazioni malinconiche e vuote, o creando pas-saggi rapidi e inconsistenti, oppure usando virtuosismi ec-cessivi, che sviscerano l’aspetto maniacale e ossessivo. È da notare che una caratteristica precipua del tema della follia è il senso della lamentazione provocato da una cellula germi-

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nale del discorso melico che imita l’atteggiamento fisico del pianto.

La musica diventa un pianto senza voce, perché si ingenera da una incapacità di articolarsi, in un silenzio che si consuma brevemente e insistentemente, nella contrizione di un intimo dolore, che nell’inespresso trova il suo compimento.Questa breve trattazione della follia in musica non sarebbe completa se non si ricordassero gli artisti valenti e produttivi il cui percorso artistico è stato deviato o addirittura fermato dal manifestarsi lento e progressivo, talvolta improvviso, di patologie alienanti e incurabili in grado di intaccare lo stato di salute mentale, portando a scompensi fisici e psichici più o meno forti e in alcuni casi anche alla morte. Come il caso di Gaetano Donizetti (1797-1848) che muore rinchiuso nel manicomio di Ivry in seguito alla pazzia provo-cata dalla sifilide. Le frequenti perdite di memoria e un accentuato stato di squilibrio e scontrosità contrari al suo comportamento abi-tuale portano i medici a diagnosticare una grave paralisi ce-rebrale, legata alla fase terminale della sifilide e collegata ad una malattia mentale già manifestatasi in precedenza. Felix Mendelssohn Bartholdy (1809-1847) ha invece un crol-lo psico-fisico legato allo stress lavorativo e al dolore per la prematura scomparsa della sorella Fanny.Ci sono cronache che ricordano dei disturbi alla personalità di cui soffre un altro celebre compositore, Gustav Mahler

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in seguito al tradimento della moglie; Freud classifica la sua malattia come una nevrosi ossessiva e stigmatizza il lapsus di Mahler di scambiare il nome della moglie con quello della propria madre come il complesso della Vergine Maria. Grazie ad un film,168 celebre è il caso di David Helfgott, mu-sicista di talento che subisce eccessivamente la pressione paterna fino a crollare durante l’esecuzione di un brano di Rachmaninov. Anche i comportamenti eccentrici di Mozart e Wagner fanno spesso pensare ad una vena di follia e se si scorrono le cro-nache molti altri sono i casi di sospetta pazzia. In questo articolo, però, si è scelto di approfondire la vicen-da umana e professionale di Robert Schumann, morto in un istituto di cura.

3.15 Schumann e la folliadi Giuseppe Viaro

Robert Schumann nasce in Sassonia nel 1810. Quinto figlio di un mediocre scrittore e di una pianista dilettante, si trova a vivere in un ambiente famigliare intellettualmente molto vivace, ma inquieto e segnato dalla pazzia.Fin dall’adolescenza la sua vita è scossa da pulsioni contrad-dittorie che diventano la cifra della sua tormentata esistenza in cui un attivismo frenetico si alterna a fasi di profonda de-pressione improduttiva.Nel 1825 la sua vita è segnata da un evento tragico; la sorella Emilie, affetta da una «demenza tranquilla» e in uno stato au-tistico, annega suicida: è il primo di una serie di lutti famigliari che scuotono profondamente il musicista.

168 Shine, di Scott Hicks, 1996.

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Già in questo periodo, nel suo diario si intravedono i pre-supposti dello sviluppo di una patologia, forse legata ad un attaccamento morboso alla madre e all’ossessiva ansia di compiacerla:...io penso spesso a te, mia buona madre, e a tutte le sagge massime che m’insegnasti perchè mi siano di guida in questa tempestosa vita... Tenera madre, io t’ho spesso offesa, spesso non ho apprezzato giustamente le tue migliori intenzioni: perdona al giovane ardente e impetuoso tutto ciò ch’egli intende ora riparare con delle belle e nobili azioni e una condotta esemplare.… Tu resta per me, te ne supplico, una madre indulgente, un giudice clemente se il giovinetto deviasse dal dritto cammino, una consigliera prudente s’egli eccedesse nell’impetuosità e si sperdesse nel labirinto della vita.169

Crescendo, la situazione peggiora. Schumann, dibattuto fra gli studi universitari di legge impostagli dalla madre e la musica, non riesce ad adattarsi all’università.Soffre di solitudine in mezzo alla folla, assenza di tranquillità, senso di soffocazione:Senza sapere perché fuggo gli esseri umani. Esco poco tanto sono disgustato dalla meschineria e dalla grettezza delle idee di questo mondo egoista. Cos’è questo mondo abitato dagli uomini? Un immenso cimitero di sogni vani, un sonno di morte con sogni sanguinanti, un giardino piantato con cipressi e salici piangenti, un caleidoscopio muto con figure in lacrime. O Dio! così esso è in verità!170

È di quegli anni una specie di auto ritratto letterario:Talento per molte cose, nessuno per altre. Temperamento: malin-conico. Senso artistico: attitudine a provare sentimenti molto più che a osservare; anche nei suoi giudizi è più soggettivo che ogget-tivo. L’emozione gli è più propria che non lo sforzo; per capire le cose preferisce abbandonarsi al suo istinto anziché riflettere. La

169 R. Schumann, Alla madre, 28 aprile 1828 in Robert Schumann: Vita e opere. Documenti e lettere, Tellusfolio, Supplemento telematico quotidiano di Tellus.170 R. Schumann in Robert Schumann: Vita e opere. Documenti e lettere, Tellu-sfolio, Supplemento telematico quotidiano di Tellus.

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sua intelligenza è più astratta che pratica. La sua immaginazione è robusta, rivolta all’interno, ma cerca spesso la sua ispirazione al di fuori. Quest’uomo che possiede sagacia, senso artistico, molta memoria e scarsa ironia, quest’uomo che sente più di quanto ragioni, è votato all’arte, non alla speculazione [...].171

Del temperamento malinconico sono testimonianza i Lieder in cui la scrittura muta all’improvviso, travolgendo tranquilla-mente l’equilibrio testuale originario.Intorno al 1829 Schumann conosce Friedrich Wiek, il più fa-moso insegnante di pianoforte della città; in seguito a questo abbandona l’università, lavora incessantemente per perfezio-narsi come musicista e tronca i rapporti con gli amici.Si sposta in molti centri per studio e nei pressi di Francoforte scrive alla madre:Ti dirò per incidenza che la mia casa confina da una parte col manicomio e dall’altra con la chiesa cattolica, di modo che sono veramente in dubbio se dovrò diventar pazzo o cattolico!172

La frenesia artistica lo porta ai primi preoccupanti eccessi: deciso a sottomettere il pianoforte alla sua volontà, è convinto di poter trasformare lo strumento in un oggetto obbediente e scrosciante sotto le sue dita. Per raggiungere l’obiettivo immobilizza l’indice della mano destra, nella certezza che, qualora riesca ad eseguire con quattro dita soltanto i pezzi di bravura contenuti nei Concerti di Hummel, possa raggiungere risultati stupefacenti. Schumann si accanisce a fare esercizi in grande segreto, fino al momento in cui il dito, immobilizzato a forza, minaccia di cadere in paralisi. Schumann deve smettere di suonare e sottoporsi a cure mediche. Nel 1833 viene scosso dalla prima grave crisi di nevrastenia; nel mese di settembre, in seguito alla morte del fratello Julius e della cognata Rosalie, cade in una profonda apatia:

171 R. Schumann, in Robert Schumann: Vita e opere. Documenti e lettere, Tellu-sfolio, Supplemento telematico quotidiano di Tellus.172 R. Schumann, Alla madre, 24 maggio 1829, in in Robert Schumann: Vita e opere. Documenti e lettere, Tellusfolio, Supplemento telematico quotidiano di Tellus.

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[...] ebbi improvvisamente il pensiero più atroce che un uomo possa concepire, il più terribile con il quale il cielo lo possa punire, il pensiero di perdere la ragione. Esso si impadronì di me con tale violenza che nessuna consolazione, nessuna preghiera, nessuna burla fu efficace a distruggerlo. Questa angoscia mi seguì ovunque. Il respiro mi mancò a questo pensiero. Allora, in preda ad una eccitazione spaventosa, corsi in cerca di un medico, confessandogli che spesso smarrisco lo spirito, che non sapevo più come potesse finire questa angoscia, che non ero più capace di opporre nulla ad essa, che, in tale stato di suprema eccitazione, ero sul punto di attentare alla ma vita.173

Nel 1834 Schuman si innamora di Clara Wieck. La relazione, fortemente osteggiata dal padre di lei, sfocia nel matrimonio. L’iniziale dissidio con il padre dell’amata, però, apre perico-lose identificazioni con gli alter-ego letterari. Nel corso della sua attività come critico musicale, infatti, Schumann crea per-sonaggi fittizi: l’ardente, impetuoso Florestano, il remissivo pacato Eusebio o il pedante dotto Maestro Raro. Gli episodi della sua vita e soprattutto i dissapori con il futuro suocero vengono filtrati attraverso l’identificazione con questi perso-naggi contrastanti tra loro.Lo sdoppiamento della personalità provoca reazioni fisiche: certe volte viene colto improvvisamente da un freddo intensissimo, le sue membra vengono scosse da un fremito.Parlando con un medico Schumann riconduce la causa di questi fenomeni ad un eccessivo lavoro sul Faust di Goethe. Il medico consiglia di interrompere il lavoro e di fare una va-canza. Ma la situazione non migliora. Durante la notte, viene scosso da visioni di morte: vede città con enormi bastioni pieni di iscrizioni minacciose, esplora pianure dove crescono cespugli di ossa.

173 R. Schumann, Lettera 1833, in in Robert Schumann: Vita e opere. Documenti e lettere, Tellusfolio, Supplemento telematico quotidiano di Tellus.

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Le visioni notturne lo avvicinano allo spiritismo. Scrive:Quale forza meravigliosa. Ho chiesto al tavolo qual è il ritmo delle prime due battute della sinfonia in do minore. Esso esitò più lungamente del solito prima di rispondere, poi finì per darmi il ritmo. Quando io gli dissi:“Ma il movimento è più veloce, caro tavolo” esso subito si affrettò a battermi il reale movimento. Io lo pregai anche di volermi indicare il numero al quale pensavo. Noi siamo come avvolti da miracoli.174

Inesorabilmente le condizioni di salute si aggravano: insonnia, improvvise angosce, momenti di depressione si alternano sempre più frequentemente a momenti di grande lucidità e entusiasmo. Cominciano forti disturbi all’orecchio che lui interpreta come ispirazione musicale; ricorda la moglie Clara che Schumann è convinto di udire una musica così splendida e con strumenti di un suono così meraviglioso come di simili non si intendono sulla terra.175

Viene sottoposto a stretta sorveglianza da parte della moglie e dei figli. La sera del 24 febbraio 1854 Schumann riesce ad eludere i controlli, esce di casa senza cappotto e cappello e si dirige verso il Reno. Giunto ad un ponte, si getta nel fiume. Viene salvato da due marinai. In seguito a questo chiede di essere rinchiuso in una casa di cura per malati di mente ad Endenich (presso Bonn). Di lì a pochi anni la sua vita termi-na.L’opera artistica di Schumann ripercorre efficacemente la sua vita tormentata; spesso la sua musica, specialmente quella dei Lieder, è caratterizzata da frasi brevi e contrapposte che alternano malinconia a frenesia. L’alternanza fa scaturire opere di estrema bellezza e potenza compositiva che, come per magia, riflettono il genio dell’artista e lo proiettano oltre la sua malattia. Al contrario, le sue ultime opere sono caratterizzate da procedimenti sincopati, ritmi ossessivi, ripetizioni che generano disagio.

174 R. Schumann in C. Valabrega, Schumann, Guanda Editore, 1934. 175 Clara Schumann in Ibidem.

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3.16 La funzione terapeutica della musicaLa musica, strumento di elevazione spirituale, da sempre è voce della fantasia dell’uomo, della sua anima e di ciò che in essa prende corpo.Col suo potere incantatorio, l’arte del produrre suoni, tim-bri, ritmi, diventa mezzo di libera espressione attraverso il quale ciascun individuo può ritornare alla propria essenza, scontrarsi e riconciliarsi con l’autenticità del proprio Io e dargli voce. Suonando, improvvisando, ascoltando melodie, cantando, cia-scun individuo può ritrovarsi a percorrere un viaggio intro-spettivo, ritornare a momenti passati, rivivere sensazioni di-menticate, provarne di nuove, modificare emozioni negative, attenuarle, migliorare il proprio stato d’animo. La produzione musicale diventa possibilità, per tutta la va-sta gamma dei sentimenti umani, di venire alla luce e porsi come sentire condiviso; essa sintonizza lo stato emotivo dei membri del gruppo, genera un sentimento d’appartenenza, favorisce l’azione comunitaria. La musica, potendo dovunque evocare emozioni, costituisce per l’uomo una via per pervenire all’armonia complessiva, allo sviluppo della salute fisica, all’equilibrio psichico ed infine ad una migliore capacità espressiva.La psicologa K. Heiner, relativamente alla capacità dei suoni di determinare emozioni, rilevò che sono proprio la tonalità e l’andamento ritmico ad evocare specifiche reazioni emotive. Dalla loro associazione, difatti, si traggono emozioni comuni a tutti gli uomini: una melodia in minore eseguita lentamen-te desta malinconia, tristezza; quando, invece, ad un modo minore si accompagna un andamento rapido, l’emotività che ne deriva è tormento, dramma, sgomento; stati emotivi qua-li entusiasmo, gioia, sono invece facilmente raggiungibili da

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un modo maggiore e un procedere incalzante; in ultimo una musica in maggiore scandita da un andamento lento ben si appresta ad elicitare armonia interiore e serenità.È indubbio come la musica, agendo sull’emotività umana, ab-bia particolare influenza sul rilassamento. Essa, infatti, affian-cata da adeguati training di respirazione, modera il ritmo bio-logico e porta ad una migliore percezione corporea, ad una maggiore consapevolezza e fiducia nelle proprie capacità e ad un miglioramento dello stato di benessere psico-fisico. La musica diventa, altresì, utile strumento per la cura dell’in-sonnia, della depressione e dell’ansia. Vari sono gli esempi che mettono in luce i benefici del suo utilizzo; si ricordi come il celebre compositore F. Chopin, già in tenera età, venisse spesso invitato a corte del Granduca della Russia, Costanti-no, per porre rimedio con la sua musica agli attacchi di follia di quest’ultimo, che solo in tal modo poteva ritornare alle sue abituali occupazioni. Relativamente al potere benefico della musica strumentale non si può non menzionare il ruolo svolto dalle composizioni di Mozart nel favorire la capacità espressiva e la percezione spaziale, ruolo che oggi permette di poter parlare del cosid-detto “Effetto Mozart”.Quest’ultimo si costituisce come tecnica psicologica di co-municazione, particolarmente adatta alla comprensione e risoluzione delle problematiche fisiche e mentali.Lo studioso francese A. Tomatis, a tal proposito, sostenne che la musica di Mozart favorisce il consolidamento dei proces-si creativi, nonché il miglioramento delle capacità cognitive; essa, esercitando un elevato effetto curativo sulla complessi-tà umana, si rivela dunque efficace strumento terapeutico.Volendo soffermarci sullo specifico valore riabilitativo della musica, particolare importanza riveste oggi la musicoterapia.Questa tecnica, trova ampia ed efficace applicazione in tutti

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quegli ambiti, preventivo, terapeutico, riabilitativo, volti al mi-glioramento della qualità della vita.Essa utilizza specificatamente il canale non verbale, come strumento idoneo all’attivazione e allo sviluppo delle poten-zialità del soggetto, rinforza la dimensione introspettiva e svi-luppa il processo di socializzazione. Molteplici sono le definizioni di musicoterapia, interessanti appaiono quelle di Benenzon.Da un punto di vista terapeutico, la musicoterapia è una disciplina paramedica che utilizza il suono, la musica e il movimento per provocare effetti regressivi e aprire canali di comunicazione, con l’obiettivo di attivare, per loro tramite, il processo di socializzazio-ne.Sotto il profilo dinamico la musicoterapia è una tecnica psicotera-pica che utilizza il suono, la musica, il movimento e gli strumenti corporei, sonori e musicali per sviluppare, elaborare e analizzare un vincolo o una relazione tra musicoterapeuta e paziente (o gruppo di pazienti) con l’obiettivo di migliorarne la qualità di vita, di riabilitarlo/i e recuperarlo/i per l’inserimento sociale.176

Il suono, la musica e ciò che ne deriva intensificano le sensa-zioni, elicitano nuove emozioni ed incrementano quelle pre-esistenti. In virtù della loro funzione espressivo-comunicativa, tipica del linguaggio alternativo, favoriscono la creatività, fa-cilitano una presa di contatto con se stessi e con le parti meno note di sé, portando il soggetto verso un cambiamento individuale, relazionale e sociale. La musica diventa elemento catalizzatore del lavoro terapeu-tico basato principalmente sullo sviluppo della relazione sia intraindividuale che interpersonale e, in particolare, su quella d’aiuto, di cui il terapeuta si fa portavoce.Il cammino musicoterapico, che si realizza mediante una rela-

176 R.O BENENZON, Manuale di musicoterapica, Borla Editore, Roma, 1984, pp. 8-21.

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zione empatica tra paziente e terapeuta, consiste nella crea-zione di un qualsiasi prodotto sonoro, da entrambi condiviso, che permette di approdare ad una ristrutturazione dell’Io del paziente. La musica, in quanto linguaggio non verbale, non può, quindi, che essere principio portante di ogni relazione, strumento di trasmissione universale capace di accostarsi immediatamente alla dimensione mentale e corporea umana, a prescindere dal livello intellettivo e dalla condizione in cui il soggetto versa.Per le proprie peculiarità la musicoterapia si configura come scienza, che, con l’apporto di altre discipline, che studiano l’individuo da diverse prospettive, si rivolge a quest’ultimo nella sua totalità biologica, psicologica e sociale. Essa, inoltre, avendo sempre come base il legame tra suono e persona, impiega proprie modalità d’intervento per elaborare metodi terapeutici, che possono agire sul disagio e favorire la salute psico-fisica.La musicoterapia in ambito psicoterapeutico è in grado di portare alla luce i vissuti soggettivi ed emotivi dell’individuo supportandolo nel fronteggiare situazioni ansiogene, ango-scianti, fobiche e di perdita dell’autostima.Nei casi di psicosi essa, in quanto mezzo comunicativo non verbale capace di far breccia in quel mondo senza distinzione tra sé e l’altro, in quella realtà tacita difficile da ascoltare ed interpretare, porta al graduale passaggio dalla condizione di isolamento all’apertura interpersonale.In ambito riabilitativo, la musicoterapia si rivela particolar-mente adatta per la cura di disturbi neurologici in quanto favorisce il mantenimento e il potenziamento di alcune capa-cità residue dei pazienti.A seconda degli ambiti di intervento e della patologia da trattare, la terapia si articolerà in incontri settimanali, che potranno essere sia individuali che di gruppo.

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Stabilire un’atmosfera accogliente resta comunque premessa indispensabile di ogni momento terapeutico. In quest’ottica non tutti gli spazi sono adatti all’esercizio della musicotera-pia.Essa necessita, infatti, di locali riservati, circoscritti e isolati acusticamente, in modo da assicurare al paziente un conte-sto protettivo, sicuro e appartato. É preferibile prediligere ambienti di medie dimensioni, che consentano di individuare facilmente dei punti di riferimento, componenti imprescindi-bili per la creazione del clima di fiducia necessario alla riuscita della terapia.Un ambiente troppo grande, infatti, seppur più idoneo per le attività di gruppo, rischia di disperdere le sonorità, impeden-done la comprensione e la ricezione, mentre uno eccessiva-mente piccolo, al contrario, inibisce il movimento ed è inade-guato, dal punto di vista acustico, per le notevoli frequenze sonore che si raggiungono.All’interno del setting è essenziale la scelta degli strumenti, che possono essere sia convenzionali che non e che devono variare sotto il profilo melodico, timbrico e armonico.Utili per la loro familiarità possono essere gli strumenti esi-stenti in natura, i dispositivi realizzati dal terapeuta o dal pa-ziente e alcuni oggetti comuni facilmente reperibili, quali ad esempio arnesi da cucina.Di fondamentale importanza, in tale ambito, risulta, altresì, l’utilizzo del corpo in quanto potenziale strumento di mani-festazioni acustiche e vibrazionali.

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4 capitolo

UN’ESPERIENZA DI COINVOLGIMENTO DI SOGGETTI

PSICHIATRICI IN ATTIVITÀ ARTISTICHE

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4.1 Introduzione

La legge Basaglia 180/1978, decretando la chiusura dei mani-comi, si caratterizza come un punto di svolta nell’ambito del-la storia della psichiatria in Italia. La graduale chiusura degli ospedali psichiatrici, sostituiti da apposite strutture residen-ziali o semiresidenziali coordinate dai Dipartimenti di Salu-te mentale, testimonia il rifiuto di una concezione arcaica e disumanizzante del folle visto come pericolo pubblico da cui difendersi con l’emarginazione, l’isolamento e la coercizione.I fermenti antitradizionalisti, verificatisi già nel corso degli anni Sessanta hanno dato vita ad una ideologia innovativa che privilegia il rispetto della dignità della persona umana indipendentemente dal suo stato di salute mentale e che so-stiene la necessità di una metodologia di intervento mirante all’integrazione del disadattato nella società, alla valorizzazio-ne delle sue risorse personali ed all’estrinsecazione delle sue potenzialità recondite.In tale contesto, tanto la cinquecentesca “nave dei folli” con il suo triste carico di emarginati, quanto gli ospedali psichiatrici, ricordo di una esecrabile mentalità discriminatoria e razzi-sta, diventano testimonianze dell’egoismo e della grettezza dell’uomo che a priori rifiuta il diverso, relegandolo ai mar-gini della società e reprimendo, anche con la forza, ogni sua libera espressione di vitalità.La rassegnata accettazione, caratteristica della vecchia psi-chiatria che tollerava la patologia mentale come un male ir-rimediabile, bisognoso solo di drastiche misure coercitive e repressive, è stata oggi soppiantata da un atteggiamento di cosciente disponibilità, privo di pregiudizi e di preclusioni e focalizzato sulla dimensione umana del paziente, su suoi vis-suti e sulla sua storia, un atteggiamento di apertura che tende

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al recupero ed alla riabilitazione del soggetto portatore di disagio psichico e che fa ricorso ad attività che sollecitino la sua partecipazione attiva, stimolandone ed esaltandone la creatività.Diverse esperienze nel settore dimostrano come questa me-todologia favorisca la socializzazione del malato, in quanto il clima di serenità, di distensione e di accoglienza di cui il paziente si vede circondato lo aiuta ad acquisire fiducia in se stesso e nelle proprie capacità e lo gratifica consentendogli di esprimere in piena libertà il proprio Io.

4.2 Il centro sociale di animazione e formazione al servizio del paziente psichiatrico

Il Centro Sociale di Animazione e Formazione del Diparti-mento Socio Sanitario dei Colli – U.L.S.S. 16 di Padova è da anni impegnato in un lavoro di tipo riabilitativo e risocializ-zante indirizzato ad ospiti psichiatrici, che dopo la chiusu-ra dei manicomi sono rimasti all’interno dell’istituzione, in quanto carenti di un valido supporto familiare o per la gravità e cronicità della loro patologia.All’interno del Centro Sociale questi soggetti vengono coin-volti in attività indirizzate alla riabilitazione-psico-sociale, dove col termine “riabilitazione” si intende una serie di in-terventi multidisciplinari, strutturati in stretta collaborazione con i reparti di appartenenza dei pazienti. Gli interventi più strettamente sanitari ed assistenziali sono gestiti in reparto, mentre quelli socio-educativi, ludico-ricreativi e culturali si concretizzano prevalentemente presso il Centro. L’intento è quello di mantenere il più possibile integre le capacità residue

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del soggetto disabile e contribuire altresì ad aumentare la sua autostima, consolidare le relazioni intra ed extrapersonali e facilitare gli scambi con il mondo esterno.Consapevoli che per realizzare una valida ed adeguata in-tegrazione con l’ambiente circostante occorreva favorire il confronto anche con persone esterne al centro e che non ricoprissero alcun ruolo sanitario, abbiamo coinvolto un di-screto numero di volontari del territorio, che partecipano attivamente a tutte le attività del Centro. Un notevole con-tributo ci è offerto anche dalla facoltà di psicologia, che in-via periodicamente dei tirocinanti, i quali oltre a favorire uno scambio intergenerazionale, si rivelano essere, una ventata di novità ed entusiasmo, non solo per i pazienti, ma anche per gli operatori, che si sentono stimolati nella continua ricerca di attività sempre più originali e coinvolgenti.L’eterogeneità del gruppo contribuisce così a strutturare una relazione empatica fra tutti i componenti, che mira alla socia-lizzazione e alla stimolazione delle relazioni, le quali aiutano il soggetto malato nella ricerca di una serenità interiore e di un piacere di non sentirsi un “diverso” da accudire, ma un membro attivo, che nella sua unicità, riesce a dare il proprio contributo, non solo nelle attività pratiche, ma anche a livello emozionale. Il lavoro riabilitativo con questi pazienti si basa sulla convin-zione che nulla è impossibile e che mai bisogna darsi per vinti dinanzi a qualsiasi difficoltà che questi possono presentare; piuttosto bisogna sempre continuare a sperimentare nuove via di uscita, fino a giungere alla soluzione più adeguata al caso. È evidente che ciò non può prescindere da un’attenta e puntuale osservazione del paziente, che deve indirizzare l’operatore verso quelle che sono le sue risorse, attitudini, preferenze e potenzialità, senza forzarlo in alcun modo verso una presunta “normalità”.

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Il Centro, inoltre, punta a predisporre un ambiente protettivo e accogliente entro il quale il paziente possa sentirsi libero di sperimentare il proprio modo di essere, senza il timore di sentirsi giudicato.Per i collaboratori, stare a contatto con i pazienti gravi si rivela un’esperienza umana e lavorativa molto preziosa, non solo perché hanno modo di addentrarsi nel mondo ignoto, coinvolgente e affascinante della psichiatria, ma anche perché acquistano consapevolezza dei limiti del potere terapeutico, riuscendo di conseguenza a riconoscere nel paziente quei piccoli miglioramenti, a conferma della validità dell’interven-to terapeutico effettuato.

4.3 Un tentativo di sperimentazione terapeutico-riabilitativa del Centro Sociale di animazione e formazione ULSS 16 - Padova

Si vuole, di seguito, riportare un’iniziativa particolarmente originale, dimostratasi coinvolgente ed efficace ai fini della riabilitazione di soggetti psichiatrici. Attraverso la realizzazio-ne di attività attinenti a vari settori artistici, quali la musica, la danza, la poesia, le arti manuali, la recitazione, si è giunti alla messa in scena di uno spettacolo teatrale. La positivi-tà dell’esperienza è testimoniata dal modo in cui gli assistiti hanno collaborato alla realizzazione del progetto, integran-dosi nell’équipe operativa senza difficoltà ed acquisendo una sempre più ammirevole padronanza di sé, delle proprie ca-pacità espressive e della propria gestualità. Il coinvolgimento nelle diverse attività tra loro connesse, mentre ha messo in luce la capacità di socializzazione dei pazienti, ne ha esaltato

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le doti personali, consentendo loro quegli effetti gratificanti che aiutano ogni individuo, sano o malato, a vivere bene con se stesso e con gli altri.Quando abbiamo deciso di organizzare un gruppo teatrale formato da elementi eterogenei (pazienti, operatori del Cen-tro, volontari, tirocinanti), non avevamo la velleità di pensare a noi come a degli attori e non volevamo neanche progettare questa attività in chiave psicoterapica. Ci sembrava piuttosto interessante metterci in gioco, mescolare i ruoli, azzerare la patologia, scoprire parti di noi che altrimenti, chi per ruolo istituzionale, chi per la propria patologia, chi per i propri vis-suti, avrebbe con difficoltà fatto emergere nella routine di tutti i giorni.Al fine di evitare un eccessivo coinvolgimento da parte del gruppo non si è voluto agire troppo sull’immedesimazione, ma privilegiare l’aspetto ironico. Si è così giocato sulla con-dizione umana ed in particolare su quella psichiatrica, sulla non differenziazione dei ruoli, abolendo le barriere tra nor-malità ed anormalità, tra paziente ed operatore, fra follia e saggezza.In tal modo ci è stato possibile mettere ogni paziente nelle condizioni di agire sulla scena, di manifestare ed esprimere parti del proprio vissuto in maniera autentica, spontanea ed originale.La rappresentazione teatrale è divenuta il mezzo attraverso cui la sofferenza psichica poteva essere allontanata ed esor-cizzata attraverso la finzione. Una parte della propria esi-stenza si trasformava così in spettacolo, che in quanto tale, perché condiviso e interpretato dall’intero gruppo, poteva, temporaneamente, essere sperimentato dal paziente-attore come estraneo al proprio mondo. Tutto ciò ha permesso loro di ironizzare sulla propria condizione di vita e di dare una nuova chiave di lettura ai propri vissuti.

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Bisogna precisare che ciò che accomunava tutti i membri del gruppo era la totale assenza di precedenti esperienze di reci-tazione, per cui, essendo sia il team terapeutico che il pazien-te, completamente sprovvisti di specifiche tecniche teatrali, hanno potuto mettersi in gioco a parità di ruolo e costituirsi come reciproca risorsa. Si è in tal modo giunti ad annullare le barriere gerarchiche, che tradizionalmente collocano il folle in una dimensione subordinata rispetto a colui che è ritenuto “sano”.Il lavoro teatrale ha avuto inizio circa quattro anni fa. La prima rappresentazione dal titolo “Mentre il silenzio” è stata messa in scena una sola volta ed esclusivamente dinanzi ad un pubblico di operatori del sociale e del sanitario. L’iniziativa suscitò molto interesse e curiosità tra gli spettatori, arrivati anche da fuori città. Questo inaspettato successo destò in noi la voglia di continuare in questa avventura, principalmente perché percepivamo che i pazienti psichiatrici avevano un particolare interesse per questo tipo di attività e ne traevano beneficio a livello psicologico. Si è così giunti alla realizzazione dello spettacolo “Comœdia”, col quale si è voluta rappresentare la nuova e la vecchia psichiatria attraverso le tre cantiche della Divina Commedia.

4.4 Comœdia: Un breve viaggio attraverso la vecchia e nuova psichiatria. Perché uno spettacolo sulla Divina Commedia di Manuela Frontoni

Quando si è iniziato a pensare allo spettacolo si è ritenuto opportuno cercare un tema che fosse strettamente collegato al contesto e al vissuto dei partecipanti.

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Era l’autunno del 2007 e di lì a poco sarebbe ricorso il tren-tennale dell’entrata in vigore della legge 180, la legge che ha rivoluzionato l’assistenza al malato psichiatrico in Italia. L’intuizione per il nuovo spettacolo è nata lì: era necessa-rio ripercorrere la storia della vecchia psichiatria per capire quanto e come la legge Basaglia avesse costituito una “rivo-luzione copernicana”. Per parlare degli orrori del passato era, però, necessario tro-vare un testo potente e poetico, fucina di metafore ed asso-ciazioni. L’Inferno di Dante sembrava perfetto.Inizialmente si è trattato di una semplice intuizione “felice”; solo a quasi due anni di distanza ci si è resi conto che il testo dantesco continua ad alimentare e far crescere lo spettacolo e, con esso, la consapevolezza e la conoscenza del passato. Fin dall’inizio del percorso è stata subito chiara la forte ana-logia tra il sistema manicomiale e la complessa divisione in gironi e pene a cui i dannati danteschi sono sottoposti. Dante classifica e suddivide i dannati in base al giudizio mo-rale sulla loro vita terrena; la vecchia psichiatria isolava e di-sponeva del malato a partire dalla convinzione che la malattia mentale avesse alla base una devianza nel comportamento morale della persona. Pinel riteneva che la follia era una malattia dell’atteggiamento morale e che, di conseguenza, la follia nell’uomo diventasse immorale. Questa ipotesi giustificava il sistema di contenimento, isola-mento e coercizione a cui il malato veniva sottoposto. Il manicomio era un luogo ipogeo isolato dal resto del mon-do, in cui il trattamento morale doveva consistere nell’arte di soggiogare e per così dire domare l’alienato ponendolo nella stret-ta dipendenza di un uomo che, attraverso le sue qualità fisiche e morali e l’applicazione continua dei principi della pura filantropia, [fosse] in grado di esercitare su di lui un impero irresistibile e di cambiare la catena delle sue idee.177

177 M. COLUCCI e P. DI VITTORIO, Franco Basaglia, Bruno Mondatori, Milano, 2001, pp. 135-36.

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La figura del medico come un individuo che privava il malato delle capacità decisionali e che esercitava su di lui un totale “impero” ricorda le descrizioni dantesche dei custodi infer-nali, da Cerbero a Minos a Caronte. Cerbero è un mostro che squarta e scuoia i dannati, Caronte li percuote con il remo, Minos assegna a ciascun dannato il girone di apparte-nenza con un battito di coda. Tutti i custodi infernali hanno un impero assoluto sui dannati.178

Musil, in visita ad un asilo nel 1913, descriveva così l’espe-rienza: si ha piuttosto l’impressione di un carcere. Poi l’altro cortile. Si entra con prudenza, l’infermiere picchia col pugno sul portone e a questo segno devono mettersi tutti in fila lungo la galleria o sedersi sulle panche. Sergio mi raccomanda ancora espressamente di passare davanti ai malati ad almeno due passi di distanza. Così facciamo tutti. Appena uno lascia il suo posto, gli infermieri lo afferrano.179

L’analogia tra prigione e manicomio viene utilizzata dallo stesso Basaglia: Quando entrai per la prima volta in una prigione, ero studente in medicina. Lottavo contro il fascismo e fui incarcerato. Mi ricordo della situazione allucinante che mi trovai a vivere. Era l’ora in cui venivano portati fuori i buglioli dalle varie celle. Vi era un odore terribile, un odore di morte. Mi ricordo di aver avuto la sensazione di essere in una sala di anatomia dove si dissezionano i cadaveri. Quattro o cinque anni dopo la laurea, divenni direttore di un manicomio e, quando entrai là per la prima volta, sentii quella medesima sensazione.180

178 Così accoglie i dannati Caronte.“Guai a voi, anime prave!Non isperate mai veder lo cielo:i’ vegno per menarvi a l’altra rivane le tenebre atterne, in caldo e ‘n gelo”. (Inferno, III, 84-87).179 Robert Musil, Diari. 1899-1941, Einaudi Editore, Torino, 1980.180 Franco Basaglia, Conferenze Brasiliane,Raffello Cortina Editore, Milano, 1979.

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Nel manicomio, le prospettive di qualità della vita per il ma-lato si annullavano e i malati erano destinati ad una perpetua condizione di alienazione e disperazione: Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell’in-dividualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell’internamento. L’assenza di ogni progetto, la perdita del futuro, l’essere costantemente in balia degli altri senza la minima spinta personale, l’aver scandita e organizzata la propria giornata su tempi dettati solo da esigenze organizzative che – proprio in quanto tali – non possono tenere conto del sin-golo individuo e delle particolari circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionalizzante su cui si articola la vita dell’asilo.181

Le parole di Basaglia trovano eco nella descrizione dantesca della disperazione dei dannati, privati non solo della dignità, ma anche e soprattutto della speranza, consci che i loro tor-menti non avranno mai fine. …182

Anche i metodi di cura a cui i malati erano sottoposti assomi-gliano a punizioni infernali: i malati potevano essere costretti dentro camicie di forza, legati con maniche di cuoio, curati con ghiaccio sul capo, bagni tiepidi prolungati, docce fredde, purganti, cauterio alla nuca con potassa caustica. Similmente i dannati danteschi sono immersi in paludi ghiac-ciate, sottoposti ad una pioggia infernale, costretti a correre nudi tormentati dai diavoli…183

181 Franco Basaglia, La distruzione dell’ospedale psichiatrico, Raffello Cortina Editore, Milano, 1964.182 “Quando giungon davanti a la ruina,quivi le strida, il compianto, il lamento;bestemmian, quivi la virtù divina.…quel fiato li spiriti maliDi qua, di là, di giù, di su li mena;nulla speranza li conforta mai,non che di posa, ma di minor pena”. (Inferno, V, 34-45)183 “Grandine rossa, acqua tinta e nevePer l’aere tenebroso si riversa;

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4.4.1 Note di regia sullo spettacolo

La potente efficacia del linguaggio dantesco e le tragiche te-stimonianze raccolte durante la costruzione dello spettacolo, ci hanno subito portato ad interrogarci sulla struttura base dello stesso e in particolare sulla relazione tra spettatori e “attori”. Alcuni “attori” dello spettacolo hanno vissuto sulla propria pelle i trattamenti coercitivi della vecchia psichiatria: quello che per gli spettatori è solo un racconto del passato, per alcuni degli “attori” costituisce esperienza di vita vissuta, ci-catrici dell’anima e del corpo. Come si poteva far fronte a questo fatto incontrovertibile senza banalizzarlo? È una do-manda che ci ha accompagnato durante tutte le fasi di co-struzione dello spettacolo. Da subito si è capito che lo spettacolo doveva diventare un percorso “esperenziale” per gli spettatori: come per Dante, anche qui gli spettatori dovevano itinerare attraverso i gironi infernali, a volte assumendo il ruolo di testimoni, a volte quello di “vittime” sottoposte ad azioni di contenimento e coercizione così come accadeva ai malati psichiatrici. La netta separazione tra attori e spettatori doveva essere continuamente messa in discussione. Per questo motivo si è utilizzato un contrasto tra il costume degli attori e gli oggetti di scena che essi usano. Il costume è costituito da alcune tuniche a righe ricavate dalla stoffa di vecchi materassi e ricorda le divise che i malati erano costretti ad indossare in passato.

pute la terra che questo riceve.Cerbero, fiera crudele e diversa,con tre gole caninamente latrasovra la gente che quivi è sommersa.Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,e ‘l ventre largo, e unghiate le mani;graffia li spirti ed iscoia ed isquatraUrlar li fa la pioggia come cani” (Inferno VI, 10-19).

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In mano hanno però un bastone, potenzialmente un’arma di difesa ed offesa. Il costume li rende vittime, l’oggetto di scena li trasforma in potenziali carnefici e fornisce loro un potere incondizionato nei confronti degli spettatori, così come illimitato ed incontestabile era il potere che i medici avevano sui malati e che i diavoli hanno sui dannati danteschi. Il paradosso visivo si esplicita nella prima azione scenica dello spettacolo che espressamente cita una scena del Marat Sade di Peter Brook.184 Gli attori premono minacciosamente alle sbarre di una grande cancellata, come i pazzi rappresentati da Brook, ma, a differenza di quelli, essi hanno il potere di aprire il cancello ed invadere lo spazio degli spettatori, brandendo un bastone. Vedendo un massiccio gruppo di persone che si avvicinano

184 Peter Brook, Marat Sade, (The Persecution and Assassination of Jean-Paul Marat as Performed by the Inmates of the Asylum of Charenton under the Di-rection of the Marquis de Sade), 1966, Gran Bretagna.Inferno, I, 1-7.

Una scena dell’”Inferno” tratta dalla rappresentazione “Comœdia”.

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loro, gli spettatori indietreggiano, qualcuno è visibilmente preoccupato, alcuni provano paura. La paura è alla base di tutti i sistemi creati nei secoli per isolare e contenere chiunque “deviasse” da ciò che veniva considerato norma. La paura ha inspirato le teorie di Pinel e Lombroso, è la madre della vecchia psichiatria. Per questo motivo è la prima esperienza che gli spettatori provano. Il testo che viene recitato costituisce l’incipit della Commedia dantesca: nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai in una selva oscuraChe la diritta via era smarrita…185

Chi ha smarrito la via? Il malato o lo spettatore? Ad accompagnare attori e spettatori tra i gironi danteschi vi è un fool, il pazzo di professione, l’ossimoro vivente.186

Il suo mestiere è quello di fingersi pazzo presso le corti dei potenti, per divertirli, ma soprattutto per ricordare a tutti le follie dei sani. Riecheggiano le parole di Basaglia:

185 Inferno, I, 11-7.186 Per una più dettagliata descrizione del fool, si veda il capitolo su “Teatro e follia”.

Il giullare - Scena tratta dalla rappresentazione “Comœdia”.

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regole, divieti, tabù, proibizioni, repressioni, divisioni di classe, di razza, di colore, di sesso, di ruolo; sopraffazioni, soprusi, umiliazioni, violenza organizzata e permanente: questo è ciò che costituisce il mondo della norma. Nessuna regola a difesa dell’esistenza dell’uomo, ma ogni regola fatta per il suo dominio e la sua manipolazione.187

È il primo a portare una maschera, ma, proprio per questo, ha il potere di smascherare tutti gli altri, come Pirandello ci ricorda: … Trovarsi davanti ad un pazzo sapete che significa? trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni! - Eh! Che volete? Costruiscono senza logica, beati loro, i pazzi! O con una logica che vola come una piuma! Volubili! Volubili! Oggi così e domani chi sa come! … Voi dite: “questo no può essere!” - e per loro può essere tutto. - Ma voi dite che non è vero. E perché? - Perché non par vero a te, a te, a te, (indica tre di loro) … Io so che da bambino appariva vera la luna nel pozzo. E quante cose mi parevano vere! E credevo a tutte quelle cose che mi dicevano gli altri, ed ero beato! Perché guai, guai se non vi tenete più forte a ciò che vi par vero oggi, a ciò che vi parrà vero domani, anche se sia l’opposto di ciò che vi pareva vero jeri! Guai se vi affondaste come me a considerare questa cosa orribile, che fa veramente impazzire: che siete accanto ad un altro, e gli guardate gli occhi … potete figurarvi come un mendico davanti ad una porta in cui non potrà mai entrare: chi vi entra, se non sarete mai voi, col vostro mondo dentro, come lo vedete e lo toccate; ma uno ignoto a voi, come quell’altro nel suo mondo impenetrabile vi vede e vi tocca …188

Proprio perché pazzo, il fool ha una illimitata libertà di parola, può dire ciò che dagli altri viene taciuto, per

187 Franca Ongaro Basaglia, Salute/malattia, Einaudi, Torino 1982. 188 Luigi Pirandello, Enrico IV, atto II.

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convenzione, etichetta, tornaconto: … qualche voce può alzarsi a gridare l’angoscia, il furore, la rab-bia, la scissione, la frattura, o a piangere la propria impotenza. È allora che le si darà la parola, per imbavagliarla con la definizione di malattia: una malattia che sarà curata perché non dica da dove proviene.189

Il potere del fool è enorme e destabilizzante. Lo spettacolo prosegue con la presentazione delle tre belve dantesche opportunamente rielaborate. La lonza o lince190 che, secondo le interpretazioni più accre-ditate, simboleggerebbe la lussuria, l’incontinenza e, di conseguenza, lo scatenarsi delle passioni, è stata rappre-sentata come una nave dei folli, utilizzando l’iconografia classica della rappresentazione della pazzia.

189 Franco Basaglia, Follia/Delirio in Scritti, Einaudi, Torino 1982.190 “ed ecco quasi al cominciar de l’erta, una lonza leggiera e presta moltomi impediva tanto il mio cammino” (Inferno, I, 31-35).

Nave dei folli - realizzata presso il Centro Sociale.

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Sebastian Brandt scrive nel 1494 un’opera satirica, intitolata “La nave dei folli”, in cui cataloga i vizi della società del tempo: è uno spietato ritratto degli uomini e delle loro follie. Un’ambigua domanda ritorna: chi sono i veri pazzi? Il simbolo classico della follia, rappresentato dalla nave, co-stituisce, come il fool, un ossimoro. Da una parte è una co-struzione che separa i folli dal resto del mondo, ma nella nave non sono rappresentati coloro che la società del tempo considerava malati o pericolosi, bensì uomini di mondo, po-tenti, uomini che apparentemente aderivano al concetto di normalità. A ricordare l’ambigua simbologia della nave dei folli c’è il dipinto di Bosch, in cui il fool ha un posto di onore tra i passeggeri della nave. Il leone, che nel sistema dantesco sim-boleggia la matta bestialità,191 è un mostro altissimo, rinchiuso dentro una camicia di forza e con il corpo coperto di catene e chiavi.

191 “Questi parea che contra me venisseCon la test’alta e con rabbiosa fameSi che parea che l’aere ne tremesse” (Inferno, I, 46-48).

Leone - realizzata presso il Centro Sociale.

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Simboleggia tutte le coercizioni e costrizioni a cui i malati venivano sottoposti, come un agghiacciante resoconto di un medico ci ricorda: Gli rispondo che se avessi avuto l’onore di essere un medico dell’asilo e quest’uomo fosse stato nel mio servizio, avrei tenuto molto che il regime alimentare fosse essenzialmente riparativo e avrei prescritto parecchie tazze di caffè e acqua al giorno; inoltre come mezzi terapeutici specifici avrei tentato il tartaro stibiato a dosi graduali; in caso di insuccesso mi sarei orientato ai preparati di stricnina. Non essendo fortunato avrei prescritto un trattamen-to idroterapico in tutte le sue fasi e in tutto il suo rigore; infine non mi sarei ritenuto sconfitto nemmeno se l’impiego infruttuoso dell’elettricità m’avesse fatto perdere ad una ad una ogni speran-za. Ho una gran fede, gli dissi, nella terapeutica, applicata con di-scernimento alle malattie mentali, e avrei lottato fino alla fine.192

La descrizione che Dante fa dell’ultimo mostro, il più ter-ribile, la lupa, ha indotto i critici a pensare che simboleggi l’avarizia o cupidigia.193

Per noi è diventata il simbolo della morte, morte prima so-ciale e successivamente fisica, il mostro che definitivamente fa perdere “la speranza dell’altezza.194

192 Legrande de Saulle, Cas de névrose extraordinaire observé à l’asile de Rome. Ann.Méd.Psychol., 1860, in Andrea Gaddini, Giuseppe Riefolo, Tommaso Poliseno, Il manicomio di Roma attraverso le osservazioni dei visitatori”. 193 “… lupa che di tutte le brameSembrava carca ne la sua magrezzae molte genti fé gi viver framequesta mi porse tanto di gravezzacon la paura ch’uscia di sua vistach’io perdei la speranza de l’altezza” (Inferno, I, 49-54).194 Ibidem.

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Dopo la presentazione delle tre belve, gli spettatori sono in-vitati a passare sotto un insieme di archi costruiti dall’unione dei bastoni che gli attori tengono in mano.

Lupa - realizzata presso il Centro Sociale.

Ingresso nell’Inferno - scena tratta dalla rappresentazione “Comœdia”.

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È l’ingresso nell’inferno, attraverso la porta che sancisce la perdita di ogni speranza.195 Subito dopo, infatti, gli spettatori vengono circondati e rinchiusi dentro un cerchio. Sono finiti nella spirale di Minos, il mostro che decide la col-locazione dei dannati nei vari gironi infernali,196 proprio come il medico decideva i reparti dove collocare i pazienti.La musica che è stata scelta per questa scena è tratta da Lu-dos Danieli, la musica medioevale utilizzata per rappresentare l’entrata del profeta Daniele nella fossa dei leoni. I malati dei vecchi istituti psichiatrici non avevano scelta: dovevano subire, senza possibilità di parola, le decisioni dei medici; così accade agli spettatori in questa scena, che non possono uscire dal cerchio, la loro mobilità è limitata, non conoscono cosa accadrà dopo e quindi sono in balia degli attori. È il fool che scioglie questa situazione e, attraverso le parole di Cecco Angioleri,197 grida la disperazione di tutti i ribelli della storia, di coloro che sono ai margini della norma stabi-lita dalla società. Il fool, quindi, accompagna gli spettatori a visitare i vari gi-roni. Ogni situazione è rappresentata da un tableau vivant: gli at-

195 Per me si va ne la città dolenteper me si va ne l’etterno doloreper me si va tra la perduta gente (Inferno, III, 1-3).196 … stavvi Minos orribilmente e ringhia: esamina le colpe ne l’intrata giudica e manda secondo ch’avvinghiaDico che quando l’anima mal nataLi vien dinanzi, tutta si confessaE quel conoscitor de le peccataVede qual loco d’inferno è da essaCingesi con la coda tante volte Quantunque gradi vuol che giù sia messa (Inferno, V, 4-12).197 S’i’ fosse fuoco, arderei ‘l mondo; s’i’ fosse vento, lo tempestarei;s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;s’i’ fosse Dío, mandereil’ en profondo; s’i’ fosse papa, allor serei giocondo, ché tutti cristiani imbrigarei;s’i’ fosse ‘mperator, ben lo farei:a tutti tagliarei lo capo a tondo Cecco Angiolieri, “Si fosse foco”, in Rime.

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tori sono immobili e riproducono nella statica alcune foto tratte dal libro Morire di classe.198

È stato scelto il tableau vivant perché si voleva dare l’idea dell’impossibilità di cambiamento che costituiva la regola all’interno dei manicomi: una volta che il paziente varcava la soglia, restava per sempre imprigionato dentro una definizio-ne, fino a diventare egli stesso una definizione, una malattia e non più una persona. Sono stati scelti quattro canti che corrispondono a quattro definizioni di malattia. Il primo canto è quello dei golosi; per noi è il canto che descrive i disturbi alimentari.

198 Franco Basaglia; Franca Ongaro, Morire di classe, La condizione manico-miale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin (libro fotografico), Torino, Einaudi, 1969.

Fiamma - scena tratta dalla rappresentazione “Comœdia”.

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In Dante i dannati sono immersi in una fanghiglia fetida, sotto pioggia, grandine e neve.199 La puzza descritta da Dante ricorda le parole di Basaglia, che così descrive l’odore del primo istituto psichiatrico da lui diretto: Quattro o cinque anni dopo la laurea, divenni direttore di un manicomio e, quando entrai là per la prima volta, sentii quella medesima sensazione. Non vi era l’odore di merda, ma vi era un odore simbolico di merda.200 Nel cerchio IV, i dannati vengono dilaniati da Cerbero, la cui crudeltà di accanimento su di essi ricorda molti dei crudeli trattamenti della vecchia psichiatria.201 Il secondo canto scelto è quello dei violenti contro se stessi: sintomaticamente qui i dannati sono tramutati in alberi, una metafora del progressivo abbrutimento che i pazienti subiva-no nei manicomi; l’invocazione di Pier delle Vigne potrebbe essere la richiesta di un paziente: Perché tu mi scerpiNon hai tu spirto di pietate alcuno?… Uomini fummo e or siam fatti in sterpiBen dovrebb’esser la tua man più piaSe state fossimo anime di serpi202

L’ardore di andare oltre i limiti203 che anima Ulisse nel Canto XXVI è diventato metafora degli eccessi.

199 “Grandine grossaAcqua tinta e nevePute la terra che questo riceve” (Inferno, VI, 10-12)200 Franco Basaglia, Conferenze Brasiliane,Raffello Cortina Editore, Milano, 1979.201 “Cerbero con tre gole caninamente latra…li occhi vermigli, la barba unta e atrae ‘l ventre largo, e unghiate le manigraffia li spirti ed iscoia ed isquatra” (Inferno, VII, 10-18).202 Inferno, XIII, 35-39. 203 “… ardore che io ebbi a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore” (Inferno XXXVI, 97-98).

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Anche qui il contrasto tra ciò che è considerato normale o socialmente accettabile e ciò che è considerato fuori dalla norma è ambiguo: il canto XXVI è un inno alla capacità dell’uomo di immaginarsi un oltre: la follia di Ulisse è l’anima del progresso di una civiltà. Chi è allora il vero pazzo? Colui che preferisce la tranquillità dei limiti conosciuti o colui che osa?L’ossessione di Ugolino verso il proprio acerrimo nemico è diventata metafora dell’ossessione come malattia mentale. Anche in questo canto ricorre la metafora del congelamen-to: Dante colloca i dannati dentro un lago vitreo: essi sono fisicamente bloccati nel ghiaccio e costretti a rinserrare nel cuore l’angoscia per la pena, non potendo, per il freddo, sfo-garla in lacrime. Dopo aver visitato i vari gironi, gli spettatori sono condotti a “riveder le stelle”.È il momento in cui gli attori si spogliano, cantando, delle tuniche a righe e dei bastoni per rivelare costumi sfarzosi, di foggia medioevale.

Balletto medievale - scena tratta dalla rappresentazione “Comœdia”.

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Lo spunto nasce da un passo dell’Apocalisse, in cui le anime degli eletti, prima di entrare nel paradiso, si liberano delle vecchie vesti per indossare nuovi abiti.204 Il cambio di abito segna il passaggio dalla vecchia alla nuova psichiatria.Da questo momento in poi le parole cedono il posto alla danza e alla musica.Con la danza termina il percorso esperenziale.La danza e non le parole: perché il percorso da compiere è ancora lungo e il sogno di Basaglia non è ancora realizzato appieno. La danza è un auspicio, non ancora realtà. Solo quando il cambiamento sarà completo si potrà rappre-sentare la nuova psichiatria anche con le parole.

4.4.2 Osservazioni

Quando lo spettacolo finisce, alcuni spettatori si avvicinano e commentano ciò che hanno vissuto. Raccontano che la scena più efficace è quella di Minos, quando si sono sentiti impotenti ed intrappolati e quindi hanno vissuto sulla propria pelle cosa significhi non poter scegliere. Ci tengono a dire che quello che li ha colpiti maggiormente è il fatto che pazienti, operatori, volontari sono insieme nello spettacolo, uguali, senza differenze o barriere. Comœdia è solo uno spettacolo e, come ogni spettacolo, è destinata all’oblio. Ma, se riesce a produrre dei cambiamenti negli spettatori, forse il percorso fatto non è effimero.

204 “Beati quelli che lavano le loro vesti per aver diritto all’albero della vita e per entrare per le porte della città!” (Apocalisse 22:14).

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4.5 Attività di laboratorio per la realizzazione dei vari costumi, oggetti di scena e scenografia

Durante la fase di laboratorio, dove sono state eseguite le scenografie, che sarebbero servite poi a rappresentare le va-rie fasi della commedia dantesca, abbiamo voluto coinvolge-re i nostri pazienti psichiatrici, in modo tale che potessero esprimere al meglio le loro capacità residue, le emozioni e la propria individualità con la massima disinvoltura. Abbiamo cercato di farli sentire il più possibile protagonisti creando un contesto di “normalità”, in cui potessero relazio-narsi con diverse figure professionali e non.Un’attenzione particolare è stata posta nella scelta dei ma-teriali usati, molti dei quali erano materiali poveri o di recu-pero, ad esempio bastoni di legno, cartoni, carta di giornali, stoffe riciclate, tendaggi.È da mettere in rilievo che tutti gli oggetti ed i costumi presenti sulla scena sono stati realizzati nei laboratori ludico-ricreativi del Centro Sociale. Gli ospiti sono stati coinvolti sia nel reperimento dei materiali che nella realizzazione manuale dell’intera scenografia. Durante l’articolazione di questa singolare e preziosa espe-rienza è stato possibile osservare ed esaminare elementi di considerevole significatività: tutti i pazienti hanno lavorato con entusiasmo e passione, limitando le interruzioni per le usuali richieste di caffè e di sigarette, consapevoli dell’utilità del loro contributo operativo ai fini della realizzazione del-lo spettacolo e, nel contempo, orgogliosi della loro veste di protagonisti attivi. Gli oggetti di scena sono considerati dai pazienti come delle loro creature da conservare con gelosia e cura. Alcuni di loro, ogni volta che termina lo spettacolo, si

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assicurano che tutto sia riposto con attenzione, in quanto si sentono responsabili di un bene comune realizzato con forte impegno e fatica.In molti di loro si è evidenziata una certa autonomia nel-la scelta dei colori e nella manipolazione dei materiali, un progressivo miglioramento delle abilità manuali, un adeguato sviluppo delle capacità relazionali e comunicative, un’affer-mazione dell’autostima e un accrescimento della capacità di estrinsecare le proprie emozioni.

Di seguito vengono riportate le foto di alcuni oggetti di scena e costumi realizzati presso il Centro Sociale.

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APPENDICE

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Diamo voce alle emozioni

Si riportano, di seguito, varie testimonianze di partecipanti all’attività teatrale organizzata dal Centro Sociale e di alcuni spettatori.Alcuni interventi dei pazienti sono stati scritti da un opera-tore, dietro dettatura del soggetto, rispettando le sue abilità espressive, linguistiche e comunicative.

Testimonianza n. 1Bepi ha partecipato sia alla rappresentazione teatrale che ai laboratori ludico ricreativi per la realizzazione degli oggetti di scena.Sono ancora alle prime armi, ho cominciato con Giulietta e Romeo e sono finito nelle sgrinfie della dott.ssa ……, che si è trovata altri attori…… E così ho abbandonato il teatro.Ho conosciuto la Roberta (è la tirocinante di psicologia che lo sta aiutando a scrivere), che mi ha aiutato ad andare avanti e riprendere la recita,……vent’anni fa (il paziente sostiene, erroneamente, di aver conosciuto tutto il gruppo venti anni prima).Ho conosciuto Suor Chiara (è una suora, educatrice profes-sionale, di una casa di riposo che collabora con il Centro Sociale) e anche la Federica (tirocinante di psicologia), con cui ho ballato insieme il ballo medievale.Ho ballato anche alle feste……La Commedia di Dante Alighieri: Inferno, Purgatorio e ParadisoE la Roberta mi ha dato coraggio……Ho conosciuto anche la Silvia (tirocinante di psicologia che B. sosteneva fosse la sua fidanzata) e l’ho perdonata….dopo lunghi litigi le ho chiesto scusa perché poi si è sposata con un altro e,…… si va a far

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benedire…… dal prete!!!Mi sono innamorato della Silvia e l’ho perdonata dopo lunghi litigi che mi ha dato coraggio alla fine le ho chiesto scusa.Nell’ Inferno c’era una nave con un leone e poi mi sono ricordato del Paradiso di cui la Silvia mi ha dato coraggio anche lei.Abbiamo bisticciato un pochino e c’era anche la mamma e la sorella, che erano venute a vederci e,…… siamo andati belli e beati a recitare insieme………infine, però, la Silvia mi ha perdonato perche sapeva che non era colpa mia.E ho anche ballato il ballo medievale con la Federica.La dott.ssa Anna Maria mi ha fatto fare carriera!B. L.

Testimonianza n. 2Siamo stati al Duca degli Abruzzi, mi piace girare e recitare. Mi piacerebbe molto girare il mondo.Finalmente ho imparato a ballare, a cantare,…… Quando Beppe e la Manuela (il musicista e la regista) spiegano cosa significa recitare che è veramente una finta la nostra, mi diverto.Anche spiegare con la dott.ssa……cosa facevano, tanti secoli fa gli antichi Africani (nella rappresentazione è previsto un canto africano), che pregavano il Dio Bengala, che è il Dio della pesca,……lo invocano con un canto per fare una pesca abbondante e grande di pesci.Devo sempre chiedere la copia della rappresentazione perché mi dimentico tutto e,……mi diverto.Piango dalla disperazione perché quando ballo sbaglio tutti i passi, allora mi correggono con la Federica, che mi dice di guardare i passi della dott.ssa ……che mi trovo già preparato e chiedo alla mia insegnante di ballo come sono andato e lei mi dice che faccio progressi, ed è la verità!!!

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Specialmente con le mie due sorelline, Maura e Valentina (tirocinanti di psicologia), adottive naturalmente, che mi vogliono tanto bene………..E la mia amata a Camposampiero (è una località in provincia di Padova dove è stata messa in scena, per la prima volta, la rappresentazione), che si chiama Silvia, che l’ho perdonata, e Alessandro (tirocinante di psicologia) che non ci sono più (perché hanno finito il tirocinio).Siamo stati alla stazione (di Padova, dove il gruppo si è esibito in un balletto medievale) e in più, siamo stati l’anno scorso, e penso alle baruffe che abbiamo fatto io e Silvia (in realtà non hanno mai baruffato), che l’ho anche perdonata.E l’Emanuela, la mia insegnante di ballo, che mi ha insegnato a ballare.Mi piaceva fare il ballo rinascimentale (questo ballo non compare nella rappresentazione teatrale, ma solo nelle sfilate con abiti rinascimentali, che, come quelli medievali, vengono realizzati nei laboratori ludico ricreativi del Centro), sentivo gioia quando lo facevo.Desidererei chiedere sempre di più come vado e se sono bravo a ballare,….perchè voglio diventare un ballerino, perché mi piace tanto.Siamo nel 2009 e più andiamo avanti e più imparo e mi piace imparare e imparare sempre di più con la Federica.Per il mio compleanno passato, dell’anno scorso, mi hanno regalato, tutti insieme i miei compagni di teatro, la cassetta di Holly e Bengy e…….mi ha reso felice, tanto felice!E mi sono divertito a guardarla e quando la guardavo ridevo tanto.Holly è l’attaccante della New-Team e Bengy il portiere.Sempre della squadra della New-Team: Holly era l’attaccante della nazionale e Bengy il portiere della nazionale.B. L.

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Testimonianza n. 3Penso che il teatro mi stia aiutando molto perché mi aiuta a buttare fuori ansia, e a stare in compagnia. Imparo a recitare bene, così diventerò un grande attore. Mi piace fare delle uscite, recitare davanti a tanta gente e alla fine della rappresentazione teatrale mi piace spiegare al pubblico quello che hanno visto.Poi spiego chi è Dante Alighieri e cos’è la Divina Commedia. Dante Alighieri è un grande scrittore, scultore, architetto.Quando facciamo le prove balliamo, ridiamo, cantiamo e io riesco a imparare a memoria anche i versi difficili. Io ho una parte importante e sono molto felice di questo, perché così tutti vedono che anch’io sono bravo e mi rispettano.La parte che mi piace di più dello spettacolo è il balletto perché ci sentiamo uniti. Mi piace la parte delle casette dove recito pure io e quando passa la nave perché mi ricorda il mare che io non vedo da tanto tempo.Anche la Giadaluna, una mia amica, viene a vedermi alle prove ed io di sicuro m’impegno. Voglio vedere tutti gli spettatori contenti. Al centro sociale e al teatro sto bene perché è pieno di gente che mi vuole bene e chi viene a vedermi.Sono diventato così bravo che a volte mi trovo a suggerire agli operatori il testo e ad insegnargli i passi.Mi piacciono molto anche i vestiti, perché per farli stiamo tutti assieme, insomma io quando faccio teatro mi sento bene perché siamo tutti uguali e ci aiutiamo a vicenda.B. L.

Le prime tre testimonianze sono dello stesso paziente e sono state elaborate a distanza di diversi mesi l’una dall’altra. Gli scritti evidenziano una graduale evoluzione.

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Testimonianza n. 4Adriano ha partecipato sia alla realizzazione della scenografia che allo spettacolo stesso. Tra gli oggetti realizzati quelli che gli sono piaciuti di più dice siano i bastoni. Ricorda in modo particolare la fase della pulitura dei rami con un raschietto. A tal proposito afferma: …non è stata faticosa, ma mi sporcavo le mani e questo mi dava fastidio……., li abbiamo poi dipinti……mi è piaciuto molto…., anche i colori ….belli, belli………neri e rossi……rosso, il fuoco ………nero, la notte……………ho sempre caldo di notte!Anche lavorare l’argilla mi piaceva: era morbida e liscia……, però mi sporcava le mani.Dello spettacolo dice: “all’inizio usciamo con le tuniche a righe,……battiamo a terra i bastoni,………urliamo,…….mi piace, non mi dà fastidio il baccano, ci sono abituato………mi diverto!!! Anche la barca, il leone e la morte quando passano (sulla scena) rido molto……..Il più bello è il leone……..ha un vestito lungo, tutto bianco.Mi piace quando facciamo il cerchio perché siamo tutti insieme, cantiamo e balliamo con i nostri vestiti belli (si riferisce alla scena del Paradiso, in cui i dannati si sono ormai spogliati delle tuniche e rimangono con i costumi medievali).Quando ci battono le mani penso che siamo stati bene e bravi.Quando finisce (lo spettacolo) non sono stanco e non vedo l’ora di rifarlo per stare ancora insieme.A.B.

Testimonianza n. 5Giustina ha partecipato ai laboratori ludico - ricreativi per la realizzazione di alcuni oggetti di scena.Dice: ….belli i colori che abbiamo usato,…….c’era tanto

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rosso,……a me piace tanto il rosso perché mi ricorda la bandiera e il dolore ……….ho perso tre fratelli ………uno è morto in guerra……….aveva 29 anni.……ho verniciato i legni con un liquido bianco che, come per magia, quando si asciugava diventava trasparente.Parlando dello spettacolo dice:…… c’erano diverse persone, parlavano, cantavano, si muovevano in modo strano.........belle da vedersi!!!....... il colore rosso spiccava e la vernice rifletteva (la luce)………tutto questo mi piaceva tanto!!!Sono contenta di avere fatto anch’ io la mia parte per la recita e vengo volentieri qui (al Centro Sociale) a fare ancora lavori.G. P.

Testimonianza n. 6Era dicembre 17 (giorno in cui è stata rappresentata la commedia all’interno della Chiesa del Dipartimento Socio Sanitario dei Colli – U.L.S.S. 16 di Padova), faceva freddo, lo spettacolo era in un luogo chiuso e riscaldato……… Quando gli attori sono usciti con le tuniche a righe, battevano a terra i bastoni e urlavano………. ma io non mi sono spaventata, sai?.......... mi ha fatto piacere vedervi perché sapevo chi eravate!!!Lo spettacolo mi è piaciuto molto perché è stato un atto di solidarietà verso di me e chi, come me, che non siamo in grado di fare niente.Ho visto recitare Roberto e Adriano……. sono stati bravissimi!!!……. mai avrei pensato che fossero boni a farlo (capaci di farlo), credevo che anche lori (loro) non fossero capaci di fare niente come mi (me)…….. e invece………Anche a me piacerebbe farlo ma di sicuro non ghe riussiria (non ci riuscirei) perché ho le scarpe ortopediche.L.B.

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Testimonianza n. 7Vittorina ha partecipato ai laboratori ludico – ricreativi, per la realizzazione di alcuni oggetti di scena ed alla rappresen-tazione.Dice: …………mi piaceva assai muoverli e muovere le mie mani sui rami perché erano sensibili alle mie carezze,………. a me dava la sensazione che a loro piacesse essere toccati dalle mie mani,……….. io ero bruttina ma a loro piacevo comunque perché erano buoni con me, non mi pungevano mai, mi coccolavano……….. non mi sgridavano, stavano in silenzio. Il loro colore non lo distinguevo molto, ci vedo poco, ma so che hanno i colori della natura: marroncino verdeggiante.I bastoni ubbidiscono alle nostre carezzine,……… pare che abbiano l’anima anche loro……… mi piacciono tanto perché si lasciano comandare da noi,………. loro capiscono tutto.Con il bastone in mano mi sento protetta,………. non sono cattivi con me.Parlando della rappresentazione dice: mi piace molto alzare il bastone su comando del capo (all’interno della rappresentazione c’è un giullare, che guida il gruppo),…….. quando i bastoni battono per terra e usciamo urlando io sto santissimamente bene……………. in quel momento io sono senza sesso, però vorrei averlo anch’io,……….. amerei sensibilmente i miei fratelli perché loro mi amano con il sesso.Mi ricordo anche del canto: sono delle belle paroline…….. il capo canta con poesia. Mi ricordo che in quei momenti sono felice per tanta energia fatta per il bene,………….. mi fa tanta grazia!!!Mi piace vedervi ballare con quei bei vestiti,……….. mi piacerebbe ballare con voi (all’interno della rappresentazione il ballo medievale viene eseguito solo da un gruppo di partecipanti, mentre gli altri improvvisano una coreografia libera), ma io sono bruttina,…………… bruttissima,………. ma sono sicura

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che mi perdonereste e mi vorreste bene comunque.Quando il pubblico applaude io mi commuovo e,…….. sarei dolcissima con loro e li amerei veramente………. vorrei guardare il cielo con loro…….. li adorerei!!!Penso che loro (il pubblico) siano stati contenti di averci visto.V. S.

Testimonianza n. 8Mi chiamo Marco, sono un volontario del Centro Sociale, anch’ io recito nella commedia assieme ad altri volontari, tirocinanti e pazienti.Tutti i costumi che indossiamo nelle nostre manifestazioni sono medievali, li abbiamo confezionati noi, presso il Centro Sociale durante i laboratori con i pazienti e, così pure tutta la scenografia.Quello che mi ha colpito, e continua a colpirmi, è la disponibilità dei pazienti a partecipare a tutte le attività: collaborano volentieri con tutti noi. Noi diamo molto affetto a loro e loro ce lo ricambiano, dimostrando tutta la loro voglia di vivere.Queste persone non hanno molti contatti con il mondo esterno e quando li portiamo fuori sono euforici e ci ringraziano tanto per quello che facciamo per loro.Una cosa che mi colpisce veramente molto è la seguente: al termine dei nostri spettacoli ci fermiamo tutti assieme a mangiare e i nostri amici pazienti ci fanno veramente capire che per loro lo stare lì con noi significa “felicità”.Io come volontario, ma di più come amico, li ringrazio tutti per avermi fatto capire che la vita è fatta anche di queste cose e che si può amare senza nessun interesse.M.D.B.

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Testimonianza n. 9 Sono Gianna e sono entrata a contatto con il Centro Sociale di Animazione e Formazione giungendovi come tirocinante, e rima-nendovi per un periodo di più di un anno.L’esperienza vissuta all’interno del Centro è stata, per me, molto significativa, in quanto mi ha dato la possibilità di osservare con i miei occhi qualcosa che avevo solo studiato da un punto di vista teorico; mi riferisco alla patologia psichiatrica grave e ad alcuni strumenti terapeutici utili agli operatori per aiutare a vivere meglio chi ne soffre.Gli strumenti che vengono prevalentemente utilizzati dagli opera-tori del Centro Sociale sono i laboratori artistici e ludico-ricreativi progettati e realizzati per gli ospiti delle RSA, a scopo riabilitativo e risocializzante.Tra i momenti che, di questa esperienza, ricordo con più gioia, vi è certamente la partecipazione agli spettacoli teatrali; in parti-colare la prima volta che vi ho preso parte è stata veramente emozionante: vedere gli ospiti psichiatrici impegnati ed eccitati di fronte a un pubblico abbastanza numeroso, leggere la felicità e l’orgoglio nei loro occhi, vederli così sicuri di loro stessi e percepirci tutti allo stesso livello, tutti ugualmente bravi, è stata una sensa-zione inimmaginabile, impareggiabile!Sempre durante le rappresentazioni teatrali, o anche semplice-mente quando ci incontriamo per le prove, siamo tutti euforici. Addirittura R. (autistico), che non parla e solitamente tende ad esibire un’espressione del viso molto seria, durante il ballo sorride ed emette versi di allegria.Quando osservo gli ospiti felici e commossi, mi sento orgogliosa del lavoro che facciamo, soddisfatta di aver contribuito al raggiungimento di uno degli obiettivi principali che il Centro Sociale si propone: il miglioramento della qualità della loro vita.La partecipazione alle varie attività del Centro, il relazionarmi con i pazienti, mi ha offerto la possibilità di aprire gli occhi su

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una realtà che prima mi appariva tanto dissimile dal mio mondo, oltre che poco comprensibile, mentre adesso sembra tanto vicina e accessibile. Grazie a questa esperienza ho maturato una nuova fiducia nelle potenzialità terapeutiche dell’arte, nella possibilità che queste offrono nel migliorare la vita dei pazienti e alleviarne il dolore. Sento, inoltre, di esser cambiata anch’io, di aver ricevuto qualcosa dalla relazione con gli ospiti, qualcosa che mi ha arricchita interiormente e resa più consapevole delle diverse modalità di vivere e vedere il mondo.G. S.

Testimonianza n. 10“Breve viaggio nelle tre cantiche della Divina Commedia”; metafora di porte aperte alla speranza, “a riveder le stelle”, dopo anni di sofferta alienazione manicomiale, nel grido di “lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”.Lo spettacolo è dinamico, coinvolgente per chi lo inscena e per chi ne è spettatore. Voci, movimenti e canti si susseguono tra le anime ora dannate ora, finalmente, libere di accedere “all’albero della vita”. Gli attori provengono da mondi diversi, ognuno parte-cipa portandosi dietro un pezzo del suo bagaglio, mentre di fatto viene completamente avvolto da vesti diverse, non abitudinarie, in cui vive l’evoluzione e la liberazione da un passato di disperata chiusura.Lo spettacolo, messaggio di volute possibilità, rende tutti uguali, persone in movimento alla ricerca di una rinascita individuale e collettiva.R.P.

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Testimonianza n. 11Il tirocinio che svolsi presso il Centro Sociale di Animazione e Formazione, mi permise di entrare in contatto per la prima volta col mondo della psichiatria.Fu per me un’esperienza intensa, profondamente arricchente so-prattutto dal punto di vista umano, caratterizzata, inizialmente, da emozioni negative quali impotenza e smarrimento. L’ impoten-za di fronte alla sofferenza di queste persone e lo smarrimento derivante dalla difficoltà nell’entrare in relazione con il loro mon-do, che mi sembrava inaccessibile.Col tempo scoprii, con sorpresa e gioia, che la relazione era possibile, ovviamente sempre rispettando i tempi di “apertura” e di “chiusura” degli ospiti del Centro.Ritengo sia importante relazionarsi con modalità non invasive, ma nello stesso tempo neppure troppo distanti. Si tratta di trovare la giusta distanza, ben rappresentata dal dilemma del porcospino di A. Schopenauer: troppo vicini si pungono, troppo distanti hanno freddo.All’interno del centro vengono svolte diverse attività di carattere artistico e ludico: dalla pittura al disegno; dal teatro alla musica.Queste attività creative, oltre a produrre benessere negli ospiti del centro, rappresentano una modalità efficace per entrare meglio in relazione con loro.Infatti, mentre gli ospiti svolgono le diverse attività, operatori e tirocinanti, rimanendo accanto a loro, li ascoltano, li aiutano qualora ci fosse bisogno e ci parlano. Lo scopo dei laboratori artistici non è la realizzazione di prodotti esteticamente belli, o armonici, ciò che importa non è l’opera creata ma la relazione che si costruisce durante queste attività ludico-creative.Spesso le opere realizzate rispecchiano gli stati d’animo degli ospiti e costituiscono un’occasione per distrarsi, anche se per un breve arco di tempo, dalla sofferenza psichica.Ricordo con quanta trepidazione ed emozione gli ospiti attendono

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le prove di teatro, in special modo il giorno nel quale dovranno partecipare loro stessi alla rappresentazione teatrale preparata, di fronte a un pubblico. Questa è per loro un’occasione non solo di vedere volti nuovi o conoscere persone, ma anche un modo per impegnarsi in un’attività piacevole che li renda i protagonisti principali. Durante il mio tirocinio ho avuto modo di cogliere quanta sensibilità e nello stesso tempo sofferenza si celano nell’anima di queste persone, ma soprattutto ho compreso quanto la relazione sia ancora importante per loro, anche quando si limita ad un silenzio che ascolta in modo empatico o ad un gesto delicato che veicola calore e affetto. V.G.

Testimonianza n. 12Sono arrivata come tirocinante al Centro senza avere in mente quale potesse essere la realtà degli ospiti, pur avendo studiato le varie patologie psichiatriche all’università. A quelle nozioni mi aggrappavo quando sono entrata al Centro, ma ben presto il cercare di avere conferme da teorie e categorizzazioni è risultato impraticabile. Il contatto con A., B., R., tutti loro insomma, fin dall’inizio è sta-to per me destabilizzante. Cercavo punti fermi per capire come muovermi, quali prassi fossero necessarie, quali miei comporta-menti erano richiesti a seconda della persona che avevo davanti. Vagavo nell’incertezza e mi sembrava che anni di studio non mi avessero fornito nulla, nessun bagaglio per entrare in contatto con loro. Avrei voluto un manuale con diagnosi e trattamento per ognuno, minuziosamente specifico. Invece mi trovavo sempre più con il passare dei giorni in difficoltà con me stessa e con loro. Tale mio atteggiamento insicuro era avvertito da loro e forse in parti-colare da B. che in qualche modo avvertiva la mia sensazione di

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incompetenza e di conseguenza da lì sembrava trarre una forza per poter reclamare nei miei confronti molto più che con altre tirocinanti. La stanza era un mondo che mi risucchiava e in cui vedevo amplificate le mie difficoltà e questo mi spaventava. Stare con gli ospiti mi ha mostrato in modo evidente lati di me che non credevo di avere e soprattutto mi ha permesso di cogliere sensa-zioni in me che prima cercavo solo di controllare.Ho cercato di conoscere il mio timore di sbagliare imparando dai loro rimandi, dai loro atteggiamenti verso di me. Le attività di teatro, pittura, disegno, di pasta con il sale sono state occasioni di crescita prima di tutto personale. Non erano loro a essere in difficoltà, ma io nel mio desiderio di riuscire e riuscire bene. Mi sentivo incompetente nel fare, nell’essere vicino a loro, nell’essere strumento terapeutico. Lì ho scoperto la possibilità però di vivere con loro, vivere non come persona perfetta di fronte a dei malati, ma di essere insieme a loro nelle difficoltà.Ho imparato allora a vedere il sorriso di A. quando chiede l’en-nesimo caffè o si rifiuta di continuare a disegnare. Il sorriso di B. quando deve cantare o quello di Vittorina quando culla la bambola che ha appena finito di confezionare. Il sorriso di B. nel farti il baciamano e nel ricevere gli applausi del pubblico al termine della rappresentazione che gli ospiti portano in scena.Ho imparato anche i momenti di silenzio di A., le urla di B., i mo-menti di rabbia e pianto di ognuno. Il loro mondo si è svelato poco a poco, diventando un po’ parte del mio.I laboratori più o meno strutturati sono stati allora opportunità per valicare il muro che si crea tra il “sano” e il “malato”, chi sa e chi deve subire. Mediante le attività, compiute insieme, si è potuto camminare parallelamente e sono servite per trovare uno spazio “transazionale”, luogo non mio e non dell’ospite, ma creato dalla nostra interazione del momento. Infatti si crea con loro la relazione nel singolo momento che magari subito dopo sarà dimenticato, ma permetterà in entrambi una

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possibilità di incontro. Incontro difficile perché fuori dalle categorie del senso comune di tempo, spazio, regole del vivere quotidiano e per questo spesso faticoso da vivere, se si ricerca la possibilità solo di una razionalità stretta nei termini della normalità, se si cerca di mentalizzare anche i sentimenti che questo incontro suscita. È infatti su essi che si può solo lavorare e creare le opportunità, la disponibilità per l’incontro, che altrimenti rimane uno scontro tra visioni discordanti del mondo, tra regole che non possono convivere, tra mondi che si negano l’un l’altro. Lavorare insieme con pennarelli o danzare insieme permette di sentire, di essere entrambi partecipi di un mondo che in quel singolo momento si crea e in cui si è in gioco entrambi. Si tratta di non temere di perdere la propria “sanità”, ma di saper vivere nell’incertezza di un gioco che non ha regole prestabilite, in un incontro in cui non sai quali sono i tempi prestabiliti. Non è un gioco solitario in cui l’ospite è passivo, ma anzi spetta a noi usare noi stessi e il nostro sentire per lasciarci accompagnare da loro e accompagnarli. Ho amato molto l’uso della musica e del gioco motorio (con la palla) perché forse mi ha dato l’opportunità di essere lì con loro senza prevaricare e rischiare di imporre. A volte nel disegno sentivo di ricondurre facilmente a dei “compiti” la loro libertà, a meno di non lasciare che continuassero a tracciare lo stesso groviglio di linee o macchie su decine di fogli. Tentavo di proporre qualcosa di nuovo, ma sentivo che usavo dei modi che non permettevano che ci fosse uno scambio bidirezionale e che non riuscivo a condividere il loro mondo di figure e rappresentazioni. Come poter rispettare la loro non comunicazione senza essere impositiva, come creare un foglio di colori che fosse frutto non di regole mie o loro ma che derivasse da un incontro anche implicito di un sentire condiviso? Come non vedere negli ospiti solo la “patologia” e non sentire che nulla cambia, che non ci si muove di un passo, senza d’altra parte però ricadere nella falsa aspettativa di poter scardinare i loro automatismi, la loro struttura del mondo? Come non essere assuefatti ai comportamenti rituali di ognuno, alle richieste

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ossessive per poter ancora vedere le eccezioni, i gesti inaspettati? So che può sembrare banale, ma questo è cominciato a essere un pensiero molto ricorrente un giorno che stavamo disegnando. Ero vicina a R. che stava usando dei colori, mentre io ne mettevo via altri, chiuso nel suo autismo, in un dondolamento incessante e interrotto solo da un annuire vigoroso per avere da bere, disegnava, uscendo come al solito dal foglio. Pochi giorni prima avevamo usato la telecamera e anche R. aveva fatto l’operatore. Pur guardando nell’obiettivo però non aveva ripreso nulla e neanche si era rivolto a noi alle nostre richieste di chiamata. Le immagini quindi erano solo un susseguirsi di pavimento e muro. Avevo pensato che non sapevo che possibilità avevo di entrare in contatto con R., quali messaggi potesse recepire. In quel momento alcuni colori mi cadono dal contenitore sul tavolo e rotolano verso terra. Ne prendo alcuni, ma uno velocemente vicino a R. sta scivolando giù. Sto per dire “Attento” e cercando io di afferrarlo, quando con velocità R. si gira, l’afferra e lo mette al suo posto per poi continuare a dondolarsi e disegnare. Ho avvertito in quel momento di aver dato per scontato che R. non potesse avere un comportamento che non era un semplice riflesso, avendo constatato altre volte che il suo comportamento sembrava essere stato impassibile agli stimoli esterni. Ho capito che era stato semplice pensare di aver conosciuto gli ospiti solo grazie alle loro stereotipie o alle problematiche che portavano anche nel gestirli. Non avevo valutato quale mondo impenetrabile avessi di fronte, quali sentimenti io non avrei mai saputo. Questo mi ha dato la possibilità di imparare poi a guardare con occhi nuovi. Vedere come R. era più nervoso quando qualcuno nella stanza non era calmo, come spesso il livello di ansia aumentasse e si ripercuotesse sui loro comportamenti (a es. chiedere incessantemente qualcosa). Come A. sorridesse meno certi giorni o B. avesse pensieri più tristi quando non c’erano novità per lui. Ho imparato a leggere l’accudimento di A. verso R. non come un semplice rituale, ma a

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sentirlo dentro, a sentire come mi scaldasse e mi facesse avvertire una familiarità di casa. Allora quel loro mondo così impenetrabile potevo solo viverlo con le mie sensazioni. Certi giorni in cui ero più preoccupata o triste i loro gesti mi rivelavano la scelta estrema di chi arriva a chiudersi a un mondo che ferisce, come estrema saggezza nella “pazzia”. Allora la musica, le danze, il gioco con la palla sono stati strumenti di condivisione di sensazioni. Il sorriso per una bella musica, i passi incerti e sempre uguali del ballo nascondevano però una gioia diversa, la possibilità di vivere insieme un’esperienza in cui io mi sentissi di vivere non come spettatore verso di loro ma di sentire anch’io e comunicare a loro le mie sensazioni. È stata per me una sorpresa aver la richiesta da A. di prendere la palla per giocare. Piccoli momenti che squarciano i nostri due mondi e diventano opportunità di vivere insieme.F.N.

Testimonianza n. 13La prima parola che mi viene in mente pensando allo spettacolo è festa.Sì, festa: un’ unica grande ondata di energia che non può lasciare indifferenti in cui tutti siamo protagonisti. Lo spettacolo prende forma durante lo spettacolo stesso, la struttura prestabilita si modifica, evolve e si trasforma naturalmente durante il susseguirsi delle scene senza perdere il significato originale: ogni movimento spontaneo, ogni sorriso, battuta arricchisce emotivamente la scena, più delle parole. Solo lasciandosi coinvolgere si può avere una visione totale, è una chiave d’accesso per consentire di avvicinare il paziente psichiatrico o il disagio in generale poiché ognuno porta se stesso nello spettacolo, senza compromessi. Per questo ogni particolare è una sfumatura ricca di valore che definisce una linea guida interpretativa che fa vivere effettivamente quella festa.

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È un’occasione in cui la realtà viene ricostruita per accogliere il mondo di tutti, ed è il paziente a guidarti alla scoperta delle emozioni più forti: Roberto ti fa ballare, Adriano ride mentre guarda gli spettatori. Sono le emozioni condivise a rendere unico lo spettacolo, sono ciò che muove ognuno di noi sulla scena. Insieme.C. G.

Testimonianza n 14Io sono Stefania, partecipo volentieri allo spettacolo teatrale ed anche alle varie attività del Centro assieme ad alcuni pazienti psichiatrici, studenti di psicologia, volontari, operatori. Con questi si è creato anche un bel legame di amicizia, ed è sempre piacevole incontrarli, non solo durante le prove, ma anche in altre occasioni quali cene o gite.Stare insieme mi ha dato una grande emozione, mi fa sentire felice perché nel gruppo mi sento a mio agio e mi diverto. Anche per questo ho voluto contribuire a questo libro con i disegni che sono all’inizio dei paragrafi sulle varie arti. Tutte queste attività artistiche mi aiutano a superare anche tanti momenti di tristezza. S.B.

Testimonianza n. 15Mi chiamo Armando e, assieme a mia moglie Adriana, frequento come volontario il Centro Sociale. La Dott.ssa…ci ha inseriti nel suo gruppo, partecipiamo a tutte le attività che vengono organiz-zate. Ultimamente facciamo parte anche dello spettacolo teatra-le. Diamo volentieri la nostra disponibilità, perché notiamo con piacere, che gli utenti sono contenti ed orgogliosi di partecipare alle manifestazioni che si organizzano sul territorio.La cosa che ci colpisce maggiormente è l’attenzione e la cura

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con cui i pazienti vengono seguiti da tutti e come le attività svolte portino dei benefici non solo a loro ma a tutti quanti noi.A.C. e A.V.

Testimonianza n. 16Ho vissuto un’ esperienza straordinaria ed appagante dal punto di vista umano, un senso di soddisfazione interiore del tutto inaspettata.Tra i vari reparti del Complesso Socio-Sanitario dei Colli nei quali passavo nello svolgimento delle mie mansioni di manutentore fa-legname mi è capitato di familiarizzare con chi ci lavora, con chi vi è ricoverato. Mi sono affezionato a molti pazienti e pian piano mi sono ritrovato come il falegname di un paesello, gli abitanti del paesello sono spesso stati cortesi ed affettuosi anche quando non potevo rispondere positivamente alle richieste del mio lavoro per vari impedimenti.Così un giorno passo anche al Centro Sociale che fino a quando non è passato alla gestione della Dott.ssa Anna Maria mi incuteva tristezza anche per l’ambiente cupo e trasandato, somigliante all’anticamera dell’obitorio.Poi la svolta, Anna Maria come un vulcano ha saputo accendere la creatività sopita di chiunque le sia passato accanto, me com-preso.Sono un tipo curioso e fin da subito ho notato il modo di trattare gli ospiti dell’ex manicomio con la stessa umanità con cui trattava le altre persone “normali”, rispettando la personalità di ognuno. Così mi sono trovato a partecipare, secondo la mia disponibilità, sempre più attivamente alle varie attività del Centro Sociale, ai balletti medievali, alle feste con gli ospiti delle R.S.A. e nella pre-parazione degli allestimenti teatrali.Ho condiviso questi momenti per circa cinque anni, in cui ho la-vorato ai Colli e poi restando in contatto, come volontario, tutte le volte che potevo. Il “fare” con il gruppo del Centro Sociale è stato un vero lavoro introspettivo, che mi ha permesso di costruire

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dentro di me qualcosa che non vedo, ma che durerà per sempre. Mi auguro di tornare ad essere presente anche in futuro e riassa-porare la serenità che questo impegno mi ha dato.L. G.

Testimonianza n. 17Il mio primo incontro con i pazienti psichiatrici mi ha lasciato un forte senso di sofferenza, percepita attraverso il loro sguardo perso, distante. Non riuscivo a comunicare con loro, il senso di impotenza guidava il mio allontanarmi da loro. Solo quando ho avuto modo di viverli non come pazienti, ma come persone con cui fermarmi a bere un caffé ho capito i loro gesti: non hanno filtri, né protezione, ti danno tutto incondizionatamente, bisogna saperli guardare, sentire. È un livello più profondo di contatto a cui io non sono abituata. Sono più le sensazioni che le parole a creare il rapporto con loro, e sono proprio le sensazioni forti a emergere durante la commedia: non ho seguito la storia, la mia attenzione è stata catturata da piccoli particolari, un sorriso, un ballo, un abbraccio: gli sguardi persi lasciano spazio a sguardi coinvolti, partecipi. E.G.

Testimonianza n. 18Sono uno dei tanti che hanno visto lo spettacolo e prima di allora non mi ero mai fermato a pensare alla sofferenza legata alla malattia mentale. Per me sono persone che vivono nel loro mondo. Ecco il mio limite. Il loro mondo e il mio? La commedia è stato il mio ponte di collegamento. Il linguaggio comune per provare a leggere i loro sguardi, le loro espressioni e sentirli in un certo senso più vicini. Non so se tutto questo sia il frutto di un coinvolgimento dettato dalla situazione o realmente i paziente possano trarne beneficio, so che per me è stata l’occasione per avere un vero contatto con loro, che mi ha permesso di uscire da tutti quegli stereotipi che mi hanno accompagnato: lo stare insieme è anche

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una loro scelta, non solo nostra, la sensazione è stata quella di far parte di un gruppo unico in un movimento dettato dalle emozioni. Alla fine sorridiamo tutti.F.R.

Testimonianza n. 19Le forme artistiche sono delle espressioni potenti ed efficaci dell’animo umano, favoriscono ponti di unione, espressione, comu-nicazione tra mondi e dimensioni diverse. Un’esperienza significa-tiva è nata dalla collaborazione tra il Centro Diurno Integrato per Anziani non autosufficienti di Piazza Castello e il Centro Sociale dei Colli Ulss 16, dove frammenti di vita, attività, feste, vengono programmate e condivise con lo scopo di mantenere un contatto visibile anche nelle diversità, fungendo da stimolo per quelle che sono le attività cognitive residue, sensoriali, espressive, fisiche e dell’anima.Da anni ormai vi sono degli appuntamenti fissi legati all’espressione artistica e formativa da parte del Centro Sociale dei Colli. Anche di recente ci hanno allietato con una rappresentazione in costume, splendidi abiti medioevali realizzati interamente nei loro laboratori interni, così anche le scenografie e le coreografie, un grande lavoro di preparazione alle spalle da parte di pazienti psichiatrici, educatori, psicologi, operatori, tirocinanti, un’intera équipe a lavoro per la realizzazione di un grande evento! Lo spettacolo, la sfilata in abiti d’epoca, le musiche adeguate, creano un’atmosfera coinvolgente, e toccano molto da vicino gli anziani del Centro Diurno. Questo incontro è stato vissuto dai nostri ospiti anziani come un dono, un arricchimento, non solo un momento di festa. Noi specialisti, ci rendiamo conto giorno dopo giorno dell’ utilità che può avere il pensare a dei momenti di scambio, condivisione, collaborazione, al di là di quello che possono essere le normali attività di stimolazione cognitiva o laboratori manuali, uno scambio

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scandito da momenti di socializzazione, costumi, musiche, cibi, odori, sapori, colori, che “quasi cancellano” per un istante la condizione reale sia fisica che mentale, e accompagnano gli ospiti, i familiari, e le persone che osservano a fare un viaggio in una dimensione senza tempo. Questa dimensione di condivisione e collaborazione tra enti diversi, diviene uno strumento terapeutico psicologicamente e socialmente potente, perché sfiora e riattiva dimensioni assopite e le porta a raggiungere obiettivi nuovi, favorendo la stabilizzazione dell’umore, ed il riattivarsi di associazioni capaci di riorganizzare sia negli anziani che assistono, sia nei malati psichici un nuovo modo per vivere il presente, un presente vivo e stimolante. Ringraziamo per la cordialità ricevuta e auspichiamo di procedere uniti ancora per tanti anni.Giusy Di GioiaAssistente sociale, presidente dell’associazione “Anziani a casa propria”, Padova

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Testimonianza n 21

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Testimonianza n 22

Rappresentazione grafica di una scena della “Comœdia” da parte di un paziente

Testimonianza n 23

B.D.

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Testimonianza n. 24

Lettera di una partecipante al corso di formazione “Arte e creatività: quando la follia diventa genio”, organizzato dal Centro Sociale, dove è stato presentato il lavoro teatrale svolto.

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Immagini di alcune scene della rappresentazione “Comœdia”

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Di seguito vengono riportate alcune riflessioni dei rappresen-tanti dell’ULSS 16 e del mondo dell’associazionismo padovano, che hanno letto in anteprima il volume.

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È stato un piacere per me leggere queste pagine che parlano della forte relazione tra Creatività e Salute Mentale. Tante vol-te mi è capitato di dialogare su quello che si potrebbe realiz-zare per rispondere ai diversificati e spesso complessi bisogni delle persone che soffrono di disturbi psichici.Trent’anni fa la chiusura dei manicomi ha, finalmente, riportato all’interno delle famiglie queste persone, rendendo più umana la psichiatria ed al contempo permettendo ad ognuno di noi di scoprire nuovi mondi e modi per interagire con loro. L’approccio alla sofferenza mentale della psichiatria moderna si compone oggi di azioni combinate e multidisciplinari volte alla ricerca di soluzioni integrate e mirate ad un reale reinseri-mento sociale di questi soggetti. Strutturare dei laboratori creativi dove ogni individuo diviene protagonista del processo in atto, dove la diversità si annulla, dove ognuno concorre al benessere dell’altro e dove il desi-derio di sensibilizzare il territorio diviene il fine ultimo condi-viso dall’intero gruppo, porta, come vedremo di seguito, da un lato, a stimolare il reciproco ascolto, il confronto, lo scambio dei saperi e delle esperienze e dall’altro aiuta ogni membro a diventare complice e soggetto attivo della sua guarigione; per-mette, inoltre, di instaurare rapporti significativi, di ascoltare il cuore dell’altro e di entrare in sintonia ed empatia.Risulta particolarmente interessante l’approccio adottato per il coinvolgimento del territorio, che vede gli stessi pazienti soggetti attivi nel processo di sensibilizzazione: infatti, è solo chiamando in causa l’intero sistema che si può pervenire ad un reale “cambiamento” e quindi superare ogni limite e resistenza

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nei confronti della disabilità psichica, abbattere pregiudizi e contribuire a creare una comunità più solidale. Questo volume è il risultato di un lavoro di squadra, che valorizza il contributo di ognuno e lo rende reciproca risorsa e valore aggiunto per tutti. Pagine, che parlano di “follia”, “creatività” ed “arte” in una chia-ve di lettura originale e coinvolgente, dove le tre dimensioni spesso coesistono e si intersecano tra di loro per divenire importante elemento di cura. Un grazie soprattutto alle tante splendide persone che vivono giornalmente l’esperienza del Centro Sociale di Animazione e Formazione dell’Ulss 16 di Padova, dove da tempo si realizzano attività di sostegno vol-te alla riabilitazione e alla ri-socializzazione di persone con disturbi psichici. Un ringraziamento anche a tutti gli operatori, in particolare alla Dott.ssa Anna Maria Ferilli, che con il loro quotidiano impegno umano e professionale hanno permesso, giocando con la “mente” e il “cuore”, di dare vita ad una realtà solidale e fiduciosa nel futuro.L’A.I.T.Sa.M., associazione che fin dal 1985 opera a livello na-zionale a stretto contatto con quanti direttamente o indi-rettamente si trovano ad affrontare il problema del disagio psichico, accoglie di buon grado, insieme ai malati, familiari e volontari, ogni iniziativa concreta di “presa in carico” e so-stiene con forza quei progetti di prevenzione, cura e riabilita-zione della malattia e di sostegno ed orientamento e soprat-tutto crede nell’importanza di creare “reti”, perchè “insieme è meglio”.

Dott.ssa Donatella De MoriPresidente A.I.T.Sa.M.

(Associazione Italiana Tutela Salute Mentale) Sez. Padova

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Il Centro Servizio Volontariato provinciale di Padova è lie-to di aver sostenuto la presente pubblicazione, frutto di una importante collaborazione tra l’associazione A.I.T.Sa.M. e il Centro Sociale di Animazione e Formazione dell’Ulss 16 di Padova.Con la pubblicazione di questo lavoro si è voluto portare a conoscenza del pubblico un valido esempio di buona pratica locale che mostra il valore aggiunto che può nascere dall’in-tegrazione tra il rigore scientifico, la creatività e la passione dell’opera quotidiana nell’approccio al delicato mondo della salute mentale.

Giorgio OrtolaniPresidente CSV - Centro Servizio

Volontariato provinciale di Padova

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La presente opera, frutto dell’appassionato e professio-nale impegno di un’équipe, accorta e sensibile ai problemi dell’animo umano, che ha saputo coniugare eccellentemen-te la teoria alla pratica, trae la sua origine dal desiderio di rendere testimonianza del fatto che, anche coloro che sono etichettati come “diversi” possono rivelare capacità e qualità recondite che se adeguatamente stimolate e valorizzate, non soltanto favoriscono il recupero mentale, ma spesso danno anche vita ad opere di non trascurabile valore in tutti i campi della cultura.Non sempre, infatti, il genio si manifesta seguendo i cano-ni della normalità: sovente, invece, l’estro creativo percorre itinerari impensabili, difformi da ogni logico sentire e molto

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vicino a ciò che comunemente chiamiamo “follia”. Il fine di questo lavoro è di dimostrare che lo “spirito fol-le” non va emarginato, ma va compreso e valorizzato nella consapevolezza che il disagio psichico rappresenta spesso il mezzo attraverso cui possono essere estrinsecate qualità sopite e talvolta straordinarie.Il senso estetico non è solo caratteristico degli individui rite-nuti normali, ma è presente in larga misura anche in soggetti psichiatrici.Il passato ci insegna che tanti capolavori sono scaturiti da menti instabili con situazioni psichiche difficili: la sofferen-za, la depressione, il male di vivere ci hanno regalato opere di fama imperitura nel campo della letteratura, della musica, della danza, ecc..D’altra parte, danza, musica, pittura, poesia e teatro posso-no dare un forte contributo alla riabilitazione mentale, fa-cilitando il reinserimento nella società di disadattati, che si trasformano così in individui attivi, motivati e gratificati in un’ambiente in cui non esistono discriminazioni né mentalità classistiche.Sotto questo profilo, veramente encomiabile, si presenta l’iniziativa di attività teatrale realizzata dal gruppo del Centro Sociale del Complesso Socio Sanitario dei colli dell’ULSS 16 di Padova e riportata nella seconda metà dell’opera.I risultati di tale esperienza dimostrano, senza ombra di dubbio, che strategie appropriate, scelte seguendo prin-cipi teorici convalidati, possono risultare veramente posi-tive sia ai fini dell’integrazione sociale del paziente, che si sente direttamente coinvolto in un’attività gratificante, che dell’arricchimento culturale ed umano dell’operatore, che riconosce l’efficacia e la produttività dei suoi interventi.

Dott. Fortunato RaoDirettore Generale

U.L.S.S. 16 - Padova

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Un plauso particolare merita l’operato del gruppo di lavoro del Centro Sociale dell’ULSS 16 di Padova, che, facendo pro-pri i nuovi metodi di approccio al paziente psichiatrico, ha apportato un rilevante contributo alla soluzione di problemi originati dal disagio psichico e dal disadattamento.Non sem-pre la stretta osservanza dei sistemi suggeriti dalla scienza, anche se innovativi e funzionali, basta per conseguire risultati positivi quando il campo d’azione è quello della psiche: al rigore scientifico si deve affiancare la disponibilità d’animo dell’operatore, che deve saper mettere in gioco tutte le sue risorse fisiche, mentali, ma soprattutto umane.Il tatto, il procedere gradualmente per piccoli obiettivi, il por-si dalla parte del paziente per cogliere ogni minima reazione significativa ed illuminante, il lavoro certosino di raccolta e di elaborazione dei dati, l’intuito per saper intervenire al pun-to giusto ed al momento giusto, l’atteggiamento di apertura verso gli altri, che porta a comprendere ed a giustificare più che a reprimere, la gioia infine, del lavorare insieme per la realizzazione di un progetto utile: sono questi i presupposti, i requisiti che devono emergere in un gruppo di lavoro impe-gnato nel campo psichiatrico.Le teorie sono essenziali, ma ancora più essenziale è il sen-timento, è l’avere dentro di sé quel pascoliano “fanciullino”, che porta a commuoversi per le piccole cose, a guardare la realtà con occhi pieni di stupore e di incanto.Tutto questo si può dire del metodo operativo adottato dall’équipe del Centro Sociale che, abbattendo ogni barriera che separa il normale dal “diverso”, ha saputo stabilire un rapporto di parità con gli ospiti del Centro, organizzando e realizzando insieme con loro un tipo di sperimentazione teatrale dai risultati ampiamente gratificanti.

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Nella seconda parte dell’opera, il lettore ha trovato l’esposi-zione puntuale e dettagliata dell’origine e della realizzazione di tale attività e, se ha avuto la pazienza di arrivare fino in fondo, attraverso le testimonianze dei partecipanti (opera-tori, ospiti, volontari, tirocinanti e pubblico) si è reso conto dell’entusiasmo, della generosità e della passione che hanno animato tutta l’azione di un intervento; né avrà mancato di rilevare quanto quell’entusiasmo e quella passione abbiano coinvolto gli ospiti, suscitando in loro l’interesse ed il pia-cere di partecipare attivamente ed inducendoli a prendere coscienza della propria dignità di persone che vivono non ai margini, ma al centro di una società che sa apprezzare i loro sforzi ed il loro impegno.

Dott. Francesco CostantinDirettore dei Servizi Sociali

U.L.S.S. 16 – Padova

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ELENCO DEGLI AUTORI E DI QUANTI HANNO OFFERTO IL LORO GRADITO CONTRIBUTO

Curatrice dell’operaAnna Maria Ferilli, psicologa psicoterapeuta, responsabile del Centro Sociale di Animazione e Formazione del Dipartimento Socio- Sanitario dei Colli – ULSS16 di Padova

Esperti nelle varie discipline artisticheBeatrice Autizi, docente di storia dell’arte e critica d’arte Emanuela Bianchini, maestra di danza. Ha collaborato con il Centro Sociale per la realizzazione dello spettacolo “Comœdia”Domenico Cinque, docente di lettere e registaMarcella Ferilli, docente di lettereManuela Frontoni, regista. Ha collaborato con il Centro Sociale per la realizzazione dello spettacolo “Comœdia”Anna Messito, docente di lettereMaria Grazia Panico, docente di lettereElena Scaroni, docente di lettereGiuseppe Viario, musicista e compositore. Ha collaborato con il Centro Sociale per la realizzazione dello spettacolo “Comœdia”.

Tirocinanti della facoltà di psicologiaValentina Gozzi, Francesca Nardi, Roberta Palleschi, Francesca Poloni, Gianna Scrofani, Federica Zerbato. In particolar modo si sono distinti partecipando attivamente ai lavori:Maria Anna Baro, Fabio Cinque, Chiara Gallina, Alessandro Mar-vardi, Chiara Muscarà.

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Collaboratori del Centro Sociale di Animazione e FormazioneDennis Basso, Stefania Bergamasco, Genoveffa Norbiato. PazientiAda, Adriano, Anna, Bepi, Bruna, Franco, Gabriella, Gianna, Giusti-na, Lilli, Lucia, Luigina, Maria, Moreno, Nadia, Roberto, Vittorina.

Volontari del Centro Sociale di Animazione e For-mazioneArmando Calore, Marco De Battisti, Riccardo Dubrini, Lorenzo Ga-rofalin, Roberta Ortolan, Andrea Poma, Mirella Ruggero, Adriana Vittadello.

TestimoniAnna Maria Baldan, Elibetta Gritti, Federico Rampazzo, il Dirigen-te Scolastico prof. Giulio Pavanini e la prof.ssa M.T. De Pellegrini dell’Istituto Tecnico Statale per attività sociali ”Pietro Scalcerle” di Padova, il Presidente dell’ Associazione. “Anziani a casa propria” Dott.ssa Giuseppa Lucia Di Gioia.

Si coglie l’occasione per ringraziare tutti coloro i quali pur non essendo stati citati, hanno reso possibile, con la loro partecipazione, la realizzazione dello spettacolo teatrale e quanti si adoperano, ogni giorno, affinchè il Centro Sociale possa offrire una dignitosa ed accogliente ospitalità a chi soffre.Un grazie immenso in particolare a tutti i pazienti, che con la loro naturalezza e spontaneità sono riusciti, an-cora una volta, a regalarci una grande lezione di vita.

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RINGRAZIAMENTI

Questo testo è il frutto del lavoro di professionisti, volonta-ri, tirocinanti della facoltà di psicologia, pazienti e operatori del Centro Sociale dei Colli che, impegnando competenze e capacità individuali, hanno affrontato la complessità del tema trattato non solo dal punto di vista strettamente scientifico, applicativo ed artistico, ma anche da quello umano e relazio-nale, rendendo l’opera piacevolmente accessibile e compren-sibile ad un pubblico, il più vasto possibile.Si è cercato, infatti, di esprimere in maniera semplice ed ac-cattivante concetti di per sé complessi, in modo da rivolgersi a quella fascia di lettori che intendono avvicinarsi, anche sol-tanto per diletto, a tale tematica. Per tale ragione, si vogliono ringraziare gli esperti che hanno curato alcune parti del terzo capitolo, i volontari, i pazienti, i collaboratori del Centro e i tirocinanti, che hanno reso pos-sibile l’attuazione del progetto. Si esprime viva gratitudine an-che verso alcuni spettatori/testimoni, che hanno assistito alla rappresentazione della Comœdia, per le loro testimonianze esposte in appendice. Affettuosa riconoscenza viene rivolta a Stefania che ha realizzato i disegni che, nel terzo capitolo, introducono i paragrafi relativi alle varie forme artistiche ed a Riccardo che ha effettuato il servizio fotografico. Ancora, un sentito grazie va a coloro a cui è stato chiesto di leggere il testo prima della pubblicazione e di evidenziare eventuali concetti difficili, al fine di migliorarne la comprensione.Un particolare riconoscimento va, inoltre, al Centro Servi-zi Volontariato della provincia di Padova e all’associazione A.I.T.Sa.M per aver reso possibile la pubblicazione del vo-lume.

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Infine un sincero ringraziamento alla direzione dell’ULSS16 di Padova per aver creduto fin dall’inizio nel progetto e poi sostenuto fattivamente l’iniziativa.La presente pubblicazione, aliena da qualsiasi intento di lucro (motivo per cui non si impone un costo di copertina), si pro-pone come testo essenzialmente divulgativo e didascalico, vincolando la sua ragion d’essere al solo obiettivo di informa-re, sensibilizzare e condurre il lettore ad una nuova visione del malato psichiatrico, liberando quest’ultimo dalle vecchie etichette e stereotipie che lo qualificavano come soggetto passivo e rivalutandolo nella nuova dimensione di individuo dotato di reali potenzialità comunicative e relazionali, che, se adeguatamente stimolato, grazie all’utilizzo di idonee tecni-che riabilitative, è in grado di raggiungere risultati ed obiettivi inimmaginabili.

Dott.ssa Anna Maria Ferilli

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