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Armando Sapori, La mercatura medievale, Sansoni (Scuola Aperta), Firenze 1972
Liceo Montale San Dona’ di Piave
Dipartimento di Filosofia e Storia
Testo riprodotto con mezzi propri da P. Longo
2. La crisi del secolo XIV
[v. LETTURA 2]. L'Europa, che rinata nel secolo XII aveva proseguito l'ascesa nel XIII con
andamento si può dire tumultuoso, e aveva raggiunto l'apice nel primo Trecento, attorno alla metà
di quel secolo conobbe una crisi con la quale si fa coincidere la fine del periodo storico detto
Medioevo. «Il Medioevo – scrive Roberto Lopez – cominciato con una crisi, terminò con una crisi,
ancorché questa ultima di portata diversa, lunghezza e intensità, da quella iniziale. La prima, una
vera catastrofe da cui per risollevarsi occorsero secoli, la seconda un rallentamento dal quale la
ripresa non richiese un tempo così lungo». Continua l'A.: «Il Medioevo finirà meglio che non abbia
cominciato… non vi sarà, dopo il 1350, un’epoca barbarica come ve ne era stata negli anni prima…
gli uomini non si perdono d'animo, non c'è traccia, nel crepuscolo del Medioevo, di quella tetra
rassegnazione, di quel disfacimento del carattere che aveva contrassegnato l'alto Medioevo… La
crisi che accompagnò il tramonto temperò i caratteri invece di abbatterli».
1. Il regresso demografico
Della crisi si hanno cenni già prima della metà del Trecento in coincidenza del ritorno dei vecchi
flagelli: le carestie, di cui la più notevole era stata quella del 1315-1317 che dalle affolate città delle
Fiandre portò via press’a poco un quinto (c'è chi dice, E. Perroy, un decimo) degli abitanti; le guerre
sporadiche ma frequenti prima del conflitto tra Francia e Inghilterra protrattosi con pause più o
meno lunghe per un secolo, e le cui ripercussioni furono avvertite anche al di là delle zone delle
operazioni; le epidemie, con focolai non simultanei ma accesi un po’ da per tutto fino alla grande
peste del 1347 che dall'Italia dilagò fino al 1350 in tutto l'occidente.
Conseguenza di ciascuno e di tutti questi malanni combinati tra loro fu una contrazione demografica
dapprima lenta e poi rapidissima e drastica che si stabilizzò per quasi due secoli press’a poco
attorno al più basso livello raggiunto, fino a che la ripresa si sarebbe avuta negli ultimi decenni del
secolo XVI.
a) LE CARESTIE. Le carestie erano dovute in gran parte ai diboscamenti degli anni della ricerca
affannosa di terreni da coltivare per alimentare le popolazioni in crescita, che avevano portato a
mutamenti nelle condizioni atmosferiche, frane in collina, impaludamenti in pianura, ostruzione
delle foci dei fiumi, alluvioni.
b) LE GUERRE. Le guerre, che direttamente non influirono molto nella diminuzione della
popolazione con la mortalità dei combattenti – le campagne di allora non causavano vere stragi –,
facevano grandi vuoti nei raccolti, in parte distrutti e in parte ridotti per la non continuità del lavoro
nei campi, e portavano altre conseguenze di ordine fiscale e monetario che aumentavano a loro
volta la precarietà delle condizioni della vita. I conflitti, anche se non di grandi dimensioni,
richiedevano uno sforzo finanziario per il quale alle imposizioni ordinarie già pesanti se ne
aggiungevano di straordinarie, facendo ricorso in larga misura all'aumento delle gabelle che si
risolvevano in un aumento dei prezzi dei generi di maggior consumo, in specie alimentari, e dei dazi
sulle importazioni e le esportazioni che costituivano difficoltà ai commerci; mentre ai mercanti
stranieri si imponevano prestiti con l'alternativa della continuata protezione dei principi o della
Armando Sapori, La mercatura medievale, Sansoni (Scuola Aperta), Firenze 1972
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Testo riprodotto con mezzi propri da P. Longo
espulsione dai loro territori sui quali avevano radicato gli affari: prestiti che poi si restituivano con
forti dilazioni o non si restituivano affatto (come avvenne a quelli fatti dalle compagnie dei Bardi e
dei Peruzzi a Edoardo III per la preparazione della prima campagna della guerra dei Cent'anni) [v.
LETTURA 3].
Ma siccome tutto questo non bastava, ecco che si ricorreva a manovrare le monete – «numisma
cadit in commodum principis» riconosceva anche san Tommaso – che erano proprietà di colui che
le batteva. Quelle monete (quasi tutte quelle d'argento e qualcuna all'estero anche d'oro) venivano
alterate diminuendone il peso o la quantità del fine di fronte a quello della lega, «bolsone»; e per
quanto di minor pregio avevano per legge il medesimo potere liberatorio delle buone. Per esempio,
il grosso di Fiandra fra il 1330 e il 1380 perse l'80% del suo valore intrinseco, il tornese di Francia il
75%, e lo sterlino il 47%. La manovra è evidente, ma è altrettanto evidente che per avere efficacia
doveva ripetersi con frequenza. Per la verità, svalutazioni si erano avute anche per l'addietro, ma
limitatamente e soprattutto con un processo che si può dire normale nel quadro complesso
dell’economia che ne aveva avuto anche vantaggio; mentre ora procedevano a sbalzi, per volere dei
«signori della moneta» e quasi sempre in concomitanza con eventi politici. Per l'Italia sono
sintomatiche le vicende monetarie di Milano. Mantenuto costante il fiorino d'oro creato nel 1261 –
allora equivalente a una libbra d'argento – le specie argentee subirono una progressiva ma non
eccessiva svalutazione fino al 1405; con una riforma del 1406, ritenuta necessaria per la situazione
fallimentare delle finanze ducali, persero (si insiste in un solo anno) press 'a poco quanto avevano
perduto nel secolo e mezzo precedente. E poi punte particolarmente acute di indebolimento si
ebbero nel 1422 (ripresa della politica espansionistica dei Visconti da parte di Filippo Maria), nel
1456 (guerra di successione nel Ducato), nel 1481 (conquista del potere da parte di Lodovico il
Moro ).
Il disordine monetario fu un altro elemento della disorganizzazione delle aziende e contribuì ai
fallimenti, che avviati fino dai primissimi del Trecento culminarono nel 1348 con quelli colossali
delle compagnie fiorentine dei Bardi, dei Peruzzi e degli Acciaioli, dette dal Villani le colonne della
cristianità, tali e tanti erano i loro interessi legati non solo in Firenze e in Italia ma ovunque. Un
vero disastro, che di concentrazioni capitalistiche della loro forza non se ne ebbero più nella
Penisola: non quelle pur grandi delle imprese di Francesco di Marco Datini a cavallo fra il Trecento
e i primi del Quattrocento, non quelle ancora più famose dei Medici nel secolo XV. All'estero si
avevano società assai minori, e là per istituire un parallelo con i vecchi colossi trecenteschi dovremo
scendere al secolo dei Fugger; che per altro dominarono nel campo finanziario più che in quello
commerciale.
c) LE PESTILENZE. La denutrizione conseguente alle carestie e alle guerre era infine il
presupposto dell'insorgere delle epidemie fino a che l'ultima del 1347 trovò nelle diminuite forze
vitali delle popolazioni le condizioni più favorevoli per diffondersi come si diffuse e per causare i
danni che fece: che dobbiamo limitarci a dire ingenti in quanto la scarsità e la non omogeneità delle
fonti di informazione non consentono vere statistiche. Riporto comunque due soli dati, essi pure
approssimativi ma riconosciuti più attendibili. L'Inghilterra, che sulla base del Domesday Book, il
primo, grande catasto inglese, avrebbe avuto verso la fine del secolo XI un milione e centomila
abitanti, cresciuti alla soglia della peste nera a tre milioni e settecentomila, nel 1377 (risulta dal
Poll-tax) calò a due milioni e duecentomila. Firenze, che nel quadriennio 1336-1339 contava
centomila anime, dopo il flagello ne aveva perse la metà. A ogni modo, a parte queste cifre, un’idea
della profonda differenza della situazione demografica prima e dopo la metà del Trecento si ricava
dalle notizie che abbiamo sulle prime costruzioni delle mura cittadine (nuova città) e sul loro
ampliamento (necessario a contenere una maggiore popolazione ). Nel nord dell’Europa, per
esempio – qui gli studi sono più numerosi –, tra il 1100 e il 1250 si conoscono venti recinzioni ex
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novo e diciassette allargamenti; fra il 1250 e il 1400 solo due cinte nuove e trentuno allargamenti;
dal 1400 al 1550 nessuna nuova muratura e solo dieci espansioni.
Col regresso demografico si ebbe la diminuzione della durata media della vita: dai trentacinque ai
quaranta anni che sarebbero stati raggiunti prima della grande peste, si sarebbe tornati sui
venticinque degli «anni bui» (in Inghilterra pare da trentaquattro verso il 1300 a diciassette nel
periodo della peste per risalire a trentadue nel primo quarto del Quattrocento). Su questo mutamento
della struttura della società si va insistendo sempre più agli effetti della crisi e del suo
prolungamento oltre il secolo XIV. «Siccome – scrive il Lopez – solamente una minoranza
giungeva all'età matura, pochi adulti dovevano portare il carico di mantenere una quantità di
bambini e di adolescenti [alto era il numero dei celibi, scrive il Perroy], e la società si reggeva sull’
esperienza di pochi».
È opinione prevalente, pertanto, che il fattore demografico sarebbe stato alle origini al centro della
crisi. Continuo ad attingere dalle opere più recenti: il Perroy, «la diminuzione massiccia del numero
degli uomini è il fenomeno fondamentale che spiega la depressione economica protrattasi a lungo» ;
il Lopez (il suo ragionamento appare più serrato e particolarmente interessante perché si riferisce
alla influenza sul commercio), «la rivoluzione commerciale ha bisogno di uomini; messa in
movimento dalle prime modeste eccedenze demografiche del secolo X, ha poi trovato a questo
squilibrio i rimedi che a loro volta hanno reso possibili nuove eccedenze; finche durò questa
reazione a catena - commercializzazione, industrializzazione, innovazioni nell'attrezzatura materiale
e intellettuale, ricerca emessa in valore di nuovi sbocchi – il ritmo produttivo e il tenore di vita
hanno continuato a salire. Venute a mancare le eccedenze il progresso si inceppa».
Il Lopez però aggiunge – e vi pongo l'accento in modo particolare – il verificarsi di circostanze
politiche che, avendo chiuso al mondo cristiano le porte attraverso le quali gli uomini di affari erano
passati per estendere di continuo il loro lavoro, anche se la popolazione non avesse avuto la
decurtazione che ebbe non sarebbe stato possibile continuare o riprendere lo slancio dei secoli XII e
XIII: «l 'espansione oltre frontiera? Una dopo l'altra la Cina, l'Asia centrale, la Persia si chiudono ai
mercanti occidentali; la pax mongolica è finita. L 'impero bizantino agonizza e i Turchi, che
finiranno col raccogliere la sua eredità, fanno pagar caro il privilegio di vendere e di comprare sul
loro territorio. L'Egitto aumenta i prezzi, rialza le tariffe doganali, infligge agli stranieri mille
vessazioni; il paese stesso sta andando in rovina. Il gran libro delle conquiste della cristianità in
Europa, giunto nel Dugento ai suoi ultimi due capitoli, si interrompe bruscamente: Granada resta
musulmana, la Lituania resta pagana».
Armando Sapori, La mercatura medievale, Sansoni (Scuola Aperta), Firenze 1972
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2. La portata e la durata della crisi
a) LA TEORIA DELLA CATASTROFE. Fra i sostnitori di questa visione pessimistica si segnala
per la vivacità e l’effìcacia Roberto Lopez. Ecco la sua impostazione: «Alla flne del XV secolo il
bilancio di esercizio, che deve ovviamente consistere sia di voci attive sia di passive, mostra
globalmente una recessione, un progresso o una staticità a paragone del bilancio dei primi anni del
XIV secolo? In cifre assolute vogliamo sapere se la massa totale della produzione e dei commerci
sia cresciuta o diminuita di grandezza, e se la distribuzione della ricchezza tra gli individui e le
classi abbia subito mutamenti significativi. In cifre relative, anche se noi ammettessimo che l'ascesa
inconfutabile del XIII secolo fu ripresa dopo l'altrettanto inconfutabile arresto occorso nel XV,
vogliamo verificare se il tasso d’ascesa sia stato nel secolo XV così alto da uguagliare le vette
precedenti». Rispondere a questi interrogativi non è stato facile, perché ha incontrato le difficoltà
che gli storici conoscono (anche se talvolta ci passano sopra con disinvoltura) dovute alla scarsità,
parlando in assoluto, della documentazione, che talvolta manca del tutto, e al fatto che quella
documentazione, parlando in senso relativo, è diversa per quantità e per qualità e quindi non
consente, col rigore che sarebbe necessario, di stabilire confronti fra vari paesi, le cui vicende
economiche non procedettero né in parallelo né in sincronia. Entrando in gioco i diversi mezzi per
la elaborazione di quei dati, è facile prevedere che non si troverà mai un accordo sulla formazione
delle statistiche e sulla loro interpretazione, e che quindi le «vivaci discussioni» continueranno sine
fine, anche se ci si limiti a parlare globalmente di «tendenze». II Lopez ha affrontato i problemi
della popolazione, dei capitali, della produzione, dei commerci.
Non mi soffermerò sul primo sul quale, come si è visto, c'è un accordo almeno sulle linee generali –
ripeto, dopo un sicuro e notevole calo alla metà del Trecento (il Lopez lo ritiene globalmente del
40%) la ripresa si ebbe nel tardo Cinquecento – e, nella impossibilità di conoscere i redditi pro
capite, diremo soltanto che si accentuò il fenomeno della miseria, o meglio si fece più evidente per
il contrasto con la formazione di alcune fortune di classi, in quanto una vera abbondanza non si era
avuta neppure quando l'avanzare dell'insieme dell'economia era un fatto non posto in discussione. A
questo proposito l'A. riporta questi versi popolani della fine del Trecento: «II ricco ha i forzieri
colmi, il povero ha vuoti / stomaco e pancia. È troppo! / …Il popolo afferra ogni sorta di armi,
temerario / ogni fila spinta innanzi dalla fila che dietro preme, / con furia assalgono le case dei
ricchi: / Vogliamo mangiare con loro prima di morire / o moriremo sul ciglio di una strada. /
Viviamo con grandezza e poi moriremo anche noi». Non è una statistica, e c'è una esagerazione nel
parlare della ricchezza; ma fa prova, di certo, che il numero dei poveri cresceva (il che riconoscono
anche i sostenitori della tesi della continuità, ma portandosi nel secolo XVI). Né, aggiunge l’A., si
pensi, come vuole C. Cipolla per l'Italia, che l'eventuale declino delle manifatture e dei commerci
sia stato compensato dai maggiori proventi dell'agricoltura: il Cipolla ha esteso arbitrariamente a
tutta la Penisola ciò che ha trovato in una breve zona attorno a Pavia, per la quale inoltre non
sarebbe stato legittimo parlare di progresso agricolo mancando i dati per i secoli precedenti.
Quanto ai capitali, che si desumono in buona parte dalla produzione e dai traffici, il Lopez mette in
guardia da due pericoli: quello della documentazione, la quale fattasi più nutrita via via col volgere
del tempo, può indurre a credere per questo solo fatto che precedentemente, allorquando è più
scarsa, le cose andassero peggio; quello del non tener conto della svalutazione della moneta, per cui
non è lecito accostare semplici valori numerici di anni distanti tra loro. Ed eccoci a ciò che più
direttamente riguarda il nostro studio, al commercio internazionale. Il Lopez, dopo aver studiato il
movimento in due porti inglesi, a Dieppe, a Marsilia e a Genova, conclude che «il volume pro
capite del commercio internazionale subì una sostanziale contrazione (del 70%) durante i primi
settanta anni del Quattrocento. Inoltre sembra evidente che il declino coinvolse tutta l'Europa
occidentale, perché è estremamente improbabile che quattro regioni economiche importantissime,
due del nord e due del sud, abbiano potuto attraversare una depressione così profonda senza
coinvolgere gli altri porti del mondo».
Armando Sapori, La mercatura medievale, Sansoni (Scuola Aperta), Firenze 1972
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b) LA TEORIA DELLA CONTINUITÀ. Le conclusioni del Lopez sono state attaccate soprattutto
perché avrebbe centrato troppo l'attenzione sulla manifattura dei panni di lana, fondamentale nel
passato e di grande importanza anche in seguito. Particolarmente, per esempio, ha posto l'accento su
«la catastrofica riduzione della produzione fiorentina, all'incirca 50.000 pezze fra il 1338 e il 1378,
che è sufficiente quasi ad annullare l'espansione di quella inglese (che nel 1392 fu di 43.000 pezze).
E quando poi – continua – questo si aggiunse alla riduzione vista or ora a Marsilia e a Ypres
nell’esportazione inglese di lana grezza, cumulativamente la contrazione supera di gran lunga
l’aumento inglese; mentre cifre relative a un periodo posteriore invalidano la tesi secondo la quale
Firenze avrebbe avuto una successiva ripresa. Alla fine del secolo XVI venivano prodotte soltanto
14.000 pezze, e nel 1627 questa cifra era scesa 8000». Ma la contrazione della industria tessile
laniera, anche se fosse avvenuta nella misura indicata, non sarebbe bastata da sola a parlare di
depressione economica dell’Europa dalla seconda metà del Trecento fin quasi alla fine del
Quattrocento.
Qui hanno buon gioco i sostenitori della teoria della continuità i quali ammettono soltanto una breve
crisi a cui ben presto si sarebbe sostituita la ripresa a riguadagnare le posizioni perdute, e poi a
spingersi oltre. Perché, domanda Carlo Cipolla, il Lopez ha ignorato – rimanendo nel campo tessile
– il farsi avanti della lavorazione della seta a cui si era atteso fino dal Dugento e che ebbe un
incremento senza soste fino a raggiungere i fastigi del secolo XVI? E perché non ha tenuto conto
dei tessuti di cotone e di lino sempre più richiesti dalla classe media di cui migliorava il tenore di
vita? (dicendo più addietro delle merci del commercio internazionale si è visto infatti che la
produzione dei fustagni, prima italiana, passò le Alpi e fu intensa particolarmente nella Germania
meridionale). E non è forse vero, qui parla con maggiore ampiezza di particolari Gino Luzzatto, che
via via crescono o si potenziano nuove industrie, quelle di lusso come le vetrerie e l'oreficeria,
caratteristiche in Italia, quelle minerarie, in molte contrade dell'Europa, e quelle della fabbricazione
delle armi e così via?
In realtà tutto questo intensificarsi appare chiarissimo soprattutto nel corso del secolo XVI; ma non
è detto che nel secolo XV non sia valso a compensate la eventuale contrazione nel settore dei tessuti
di lana, e, nel quadro generale dell'economia europea, non abbia consentito un certo superamento.
Infine, anche per ciò che riguarda la produzione di quei tessuti (per questo ho parlato di contrazione
eventuale), perché fermarsi ai pochi grandi centri urbani, i colossi che avevano perso sicuramente il
predominio sino ad allora goduto? Se si ragiona in termini globali, come qui appunto si fa, anche in
questo settore non è detto che si sia avuta una diminuzione di quantità. È noto infatti, e si tratta di
un fenomeno generale in tutta Europa, che quelle manifatture presero a spostarsi dalle città nei loro
contadi e nei loro distretti dove si crearono più aziende di varie dimensioni, nelle quali si lavorava a
costi più bassi; e intanto si affermava la figura del mercante imprenditore. Si sarà trattato sì di
prodotti meno fini, ma avevano maggior possibilità di assorbimento. E i mercanti puntavano
appunto sulla quantità delle operazioni da cui traevano profitti superiori, nell'insieme, a quelli già
ricavati trattando prevalentemente merci di gran pregio: che peraltro non abbandonavano perché
ancora richieste dai vecchi clienti a cui si aggiungevano dei nuovi per il crescere del lusso presso le
classi medie. Naturalmente con questo frazionamento delle imprese tessili il problema del
reperimento delle fonti con dati quantitativi si fa più grosso, e – lo dissi e lo ripeto – la polemica fra
i due «partiti» troverà continuo alimento per protrarsi.
c) LA SITUAZIONE IN ITALIA. Se dal 1100 fino alla prima metà del 1300 l'Italia distanziò il
resto dell'Europa, dal momento della crisi rientra nel quadro generale dell'Europa.
Nel Quattrocento e nel Cinquecento, fatto di rilievo fu l'adattamento del mercante italiano a
situazioni diverse da quelle del passato, prima favorevoli e ora sfavorevoli, senza che l'economia
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nel suo insieme risentisse danni, ma covando i germi dell'intima debolezza mascherata dallo
splendore delle arti e dal brillante tenore di vita di alcune classi sociali, fino a che le grandi città
della Penisola raggiunsero i prestigiosi fastigi del pieno Rinascimento: ultimo guizzo di una fiamma
che, alimentata sempre più artificiosamente, era destinata a spengersi nel primo trentennio del
Seicento.
La prima circostanza sfavorevole era l'affermazione in alcune zone dell'Europa – segnatamente la
Francia e l'Inghilterra nelle quali i nostri mercanti tanto avevano attinto delle loro fortune e di quelle
dei loro Comuni – del potere monarchico che della forza politica si serviva come strumento per
quella economica, a sua volta puntello dell'altra. Soltanto, infatti, con la formazione dei capitali
nell'ambito della nazione i sovrani si sarebbero svincolati dal dover ricorrere ai capitali stranieri; e
quindi ecco la sollecitazione e l'appoggio alle industrie, premessa allo sviluppo dei commerci, che
era la lontana impostazione della politica economica detta del mercantilismo culminata negli anni di
Colbert. In Francia Luigi XI (1461-1483) attiva le miniere e acclimata il baco da seta preparando la
vittoria di Lione sulla seteria italiana. In Inghilterra già nel secolo XIV Edoardo III sollecita la
produzione dei panni, chiamando come maestri gli esperti tessitori fiamminghi e facendo il primo
tentativo di vietare l'esportazione della lana grezza e la importazione della lavorata; al principio del
XV i «mercanti avventurieri», riconosciuti in associazione dalla Corona, monopolizzano la
esportazione dei tessuti nazionali; Enrico V (1413-1422) imposta, con il creare una flotta militare a
sostegno di quella commerciale, la politica del dominio dei mari
Che cosa erano, di fronte agli stati nazionali, i piccoli Comuni italiani? L'Italia, la quale nel secolo
XII era stata all'avanguardia del processo verso il regime delle città in sostituzione di quello del
feudalesimo, nei confronti della tendenza del secolo XIV alla formazione degli stati unitari era
rimasta a mezza strada, pervenendo alle signorie, tutt'al più regionali e in lotta fra loro, e deboli
perché in esse alla fierezza del cittadino comunale si sostituiva l'indifferenza del suddito del
principe. Comunque ai mercanti della Penisola non si chiusero i vecchi centri di mercato né i nuovi
che via via si vennero creando, e li troveremo ad Anversa numerosi come erano stati a Bruges,
accettati per la loro superiorità tecnica negli affari e per la loro capacità di iniziativa. Ad Anversa,
attorno alla metà del Cinquecento, Genovesi, Fiorentini e Lucchesi riuniti in colonie superavano
numericamente gli Spagnoli e rimanevano al di sotto soltanto dei mercanti inglesi. Nel sesto
decennio del Cinquecento in quel grande centro commerciale e finanziario si trattavano a detta del
Guicciardini stoffe per sedici milioni di scudi d'oro, dei quali cinque milioni erano il valore dei
panni inglesi e tre milioni di quelli italiani. Però i mercanti italiani non erano più nelle condizioni di
dominatori, ché il monopolio sfuggiva a loro di mano, e dovevano affrontare una sempre più dura
concorrenza da parte degli operatori economici stranieri.
Un'altra circostanza sfavorevole era l'avanzare dei Turchi, che minacciavano ognor più soprattutto
Venezia e via via le toglievano i punti di appoggio nel Mediterraneo e nel Mar Nero dove colpivano
anche Genova. Ma Venezia reagiva, e a tratti si riapriva la via – si ricordi la battaglia di Lepanto del
1571 risoltasi con lannientamento della flotta turca – mentre la rivale Firenze si accostava nei
momenti più difficili agli infedeli con i quaIi concludeva anche trattati di commercio. D'altronde,
Venezia si era assicurata dalla fine del Trecento la vita con la «politica della Terraferma» dove
impostava e dava sviluppo alle industrie tessili, e intanto volgeva a suo profitto l'avanzata
economica della bassa Germania – ascesa di Augusta, Monaco, Norimberga, Ratisbona, Ulma.
Ricostruito nel Cinquecento, dopo un incendio che lo aveva distrutto, il «Fondaco dei Tedeschi»,
attraverso ai valichi alpini affluivano al grande emporio della laguna soprattutto panni e metalli che
da là le navi veneziane portavano in più direzioni, a volte fino alla Siria e oltre. È vero che il nobile
mercante di San Marco costruiva palazzi in città e ville nella terraferma ma non dimenticava la sua
vocazione originaria, e non appena poteva tornava marinaro e navigava con le navi mercantili
affiancate dalle galee. A ogni modo allo storico di Venezia Gino Luzzatto risulta che per tutto il
Quattrocento «le somme investite per migliorare la proprietà fondiaria furono piuttosto modeste e
non poterono esercitare una azione decisiva sulla struttura economica veneziana».
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Fra le nuove circostanze si hanno infine le scoperte geografiche, le cui conseguenze dannose – lo
spostamento dell'asse dei traffici verso l'Atlantico – si sarebbero avute però molto più tardi. Per
tutto il Cinquecento si riconosce un equilibrio di forze fra il mare interno e l'oceano, rotto
addirittura negli ultimi decenni a favore del Mediterraneo per l'intensificarsi di difficoltà già
esistenti e per il sorgerne di nuove alla circolazione atlantica (battaglie navali anglo-spagnole,
piraterie, naufragi). Da quando l'afflusso dei metalli preziosi e delle monete spagnole – che nella
prima metà del secolo si era indirizzato verso Anversa da dove era redistribuito nella Germania e
nell'Europa settentrionale, e che attorno al 1568-1569 si era spostato verso la Francia – fu dirottato
circa il 1578 nel sud del Continente, l'economia dei paesi del Mediterraneo occidentale, e più di
tutto quella dell'Italia, ebbe un incremento, mentre in parallelo si verificò una recessione nei paesi
atlantici: incremento che come si è detto or ora durò fino al terzo decennio del Seicento. Da allora,
scrive Fernand Braudel, si forma un netto divario fra i ricchi paesi mediterranei che presero a vivere
della eredità del passato, attingendo alle fortune ammassate nel corso dei secoli, e i paesi atlantici,
che, impegnati a moltiplicare quei capitali con tutti i mezzi, tecnici, materiali e spirituali, si
prepararono al prossimo grande avvenire. E Gino Luzzatto scrive che alla fine del secolo XVII
«l'economia italiana avrà quasi completamente perduto ogni forza di attrazione e ogni contatto con
l'estero».
Attraverso quali adattamenti alle nuove situazioni i mercanti italiani continuarono a dare grandezza
all'economia della Penisola? Si è or ora accennato, considerando globalmente l'economia europea,
alla compensazione della diminuita produzione dei panni di lana con la produzione dei ben più cari
tessuti di seta. Senza dubbio l'industria serica ebbe una notevole importanza in Italia. Ma è proprio
vera la catastrofica contrazione nel settore della lana, che si sarebbe verificata soprattutto a Firenze,
la regina indiscussa di quella manifattura fin quasi alla metà del Trecento? E da quando e in che
misura si sarebbe avuta la compensazione con la seteria? Quanto ai pannilani, le botteghe che a
Firenze nel 1427 erano 180 nel 1480 erano salite a 270 superando il numero delle 200 degli anni più
felici fra il 1336 e il 1339; né è da credere che le grandi aziende dedite all'alta qualità si
frantumassero in tante piccole create per un'opera più dozzinale. In un libro di commercio del
veneziano Giacomo Badoer (1436-1440) si ha il ricordo di partite di stoffe fiorentine vendute a
Costantinopoli; e ricostruendo il movimento di affari nella fiera di Salerno del 1478 ho trovato che
tra le pezze di più provenienze, genovesi, catalane, toscane, inglesi, si avevano non poche
«scarlatte» e «paonazze di grana», le più care, offerte sul mercato dai mercanti fiorentini. Il che fa
prova che l'Arte della lana era viva e vitale e teneva fede alla bontà del prodotto. Quanto all' Arte
della seta, soltanto fra gli ultimi del Trecento e i primi del Quattrocento, si trova separata da quella
di «Por Santa Maria», che era prevalentemente mercantile; e ad essa soltanto dopo il primo
decennio del secolo XV presero a iscriversi le famiglie mercantesche più facoltose e più impegnate
nella vita politica, come era avvenuto per la immatricolazione nell'Arte di Calimala al tempo della
sua massima fioritura. Non sembra, però, che ci sia stato un vero spostamento di capitali dall'una
all'altra industria. Spogliando i«registri delle accomandite» – impostati nel 1408 da quando questa
forma di società fu riconosciuta dalla legge che per l'innanzi aveva ammesso soltanto la forma della
«compagnia» – da più di un migliaio di contratti (da principio furono pochissimi) fra il 1445 e il
1552 ho trovato che le somme investite nelle due industrie sono press’a poco le stesse, e semmai un
poco inferiori quelle destinate all'Arte della seta.
A ogni modo, quale che fosse in Italia la situazione delle manifatture tessili, il commercio già
fondamentale delle stoffe non diminuì e anzi il mercante italiano ne accrebbe il volume negoziando,
fino alle coste orientali del Mediterraneo, una maggior quantità della produzione tessile straniera.
Al che non portò danno neppure il fatto che le marine italiane non avevano più il monopolio della
navigazione nel Mare Nostrum, sempre più solcato da navi battenti altre bandiere: biscagline,
francesi, portoghesi, e a tratti inglesi, che predominarono alla fine del Cinquecento insieme con
quelle hanseatiche e olandesi, recanti soprattutto grano al seguito di una lunga carestia cerealicola
che colpì i paesi del Mediterraneo.
Armando Sapori, La mercatura medievale, Sansoni (Scuola Aperta), Firenze 1972
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Dipartimento di Filosofia e Storia
Testo riprodotto con mezzi propri da P. Longo
C'è per ultimo da dire che se i mercanti italiani si trovarono ad affrontare la concorrenza degli
stranieri nel campo dell'industria e del commercio, per ciò che riguarda la grande banca e l'alta
finanza mantennero il primato. Ci si riferisce ai grandi prestiti fatti a Carlo V in occasione delle
guerre di predominio fra Francia e Spagna, e alla istituzione delle «fiere genovesi» di Besançon e
poi di Piacenza, nelle quali, escluso lo scambio delle merci, unica attività erano gli affari esercitati
nella forma della stanza di compensazione e della contrattazione e fissazione del corso dei cambi.
Mercanti tutti italiani, genovesi, fiorentini, milanesi e veneziani vi liquidavano i pagamenti
derivanti da negozi stipulati in tutta Europa per somme che nel 1580 raggiunsero i trentasette
milioni di scudi d'oro e poco dopo salirono a quarantotto. Vi si introdusse inoltre l'uso di una
moneta di conto, lo «scudo di marchi», valutato alla pari, col solo disaggio dell’1%, delle cinque
monete auree più pregiate del tempo (Spagna, Napoli, Genova, Venezia, Firenze), al quale si
riducevano tutte le valute in cui erano stipulate le cambiali in fiera. Per la funzione cambiaria, scrive
il Luzzatto, le fiere di Piacenza ebbero l'importanza di quelle che in seguito avrebbero avuto le
borse di Parigi, di Londra e di New York. Combinando poi le due ricordate funzioni, i banchieri
genovesi fecero di quelle fiere un grande istituto internazionale di credito, a cui attingevano per i
finanziamenti a Filippo II acquistando tratte sulle piazze dove dovevano essere effettuati i
pagamenti per conto del governo spagnolo, non pagandole in contanti ma con cambiali che
rappresentavano i loro crediti presenti e futuri.
Le fiere di Piacenza presero a declinare nel primo decennio del Seicento per la decadenza della
fortuna spagnola a cui erano legate, per l'importanza mondiale ormai assunta da Amsterdam, e per
la gelosia del primato genovese da parte dei mercanti toscani, milanesi, veneziani. Del resto
l'azzardo della banca privata, che aveva ripreso le rischiose operazioni delle vecchie compagnie
fiorentine, fece sì che si impostassero i banchi pubblici di stato. Scrive l’Ehrenberg, il grande
conoscitore delle finanze e della borsa nel Cinquecento, che l'eccezionale importanza raggiunta e
conservata dalle fiere genovesi per circa sessanta anni fu «l'ultima fioritura della tecnica
commerciale dei paesi latini del Mediterraneo, e nello stesso tempo il modello di una
concentrazione della circolazione del danaro o del credito in misura tale che, dopo di allora, non
poté mai essere raggiunta in alcun altro luogo, perché fortunatamente non si rinnovarono più
condizioni simili a quelle per cui alla decadenza del movimento commerciale potesse
accompagnarsi una così grande fioritura della speculazione sui cambi e del monopolio del credito
internazionale».
Per concludere sull'Italia vorrei ripetere quanto altre volte ho avuto occasione di scrivere, che i
secoli XII e XIII attuarono una rivoluzione la cui spinta continuò nel secolo XIV fino a quando le
catastrofi dei grandi fallimenti, della pestilenza e dell'inizio del conflitto anglo-francese costrinsero
a marcare il passo, e per un momento anche a retrocedere; il XV, lasciando impregiudicato se
l'Italia si limitò a riguadagnare le posizioni perdute o si spinse oltre, fu di assestamento; nel corso
del XVI ecco di nuovo un'ascesa, rapida e intensa dalla seconda metà fino ai primi del Seicento
quando le rotte oceaniche ebbero il sopravvento decisivo su quelle del Mediterraneo, degradato a
una posizione del tutto secondaria. Facendo un parallelo con le età dell'uomo, dissi dapprima di
gioventù irrompente che non conosce ostacoli; poi di maturità che riflette sul mutamento dei tempi
rendendosi conto che non consentono la precedente felice (e all'ultimo infelice) generosità, pur
senza passare alla rinunzia; poi l'inizio della fatale vecchiaia ancor più carica di esperienze e quindi
più sagace nel cogliere la possibilità delle speculazioni finanziarie, e che condusse una vita sempre
più splendida attingendo ai colmi forzieri fino all'esaurimento. È questo splendore, mancante di
sostegno, che spiega il crollo, ora definitivo, del secolo che seguirà: crollo dilazionato – lo ripeto e
vorrei aggiungere per forza di inerzia – fino al primo trentennio del Seicento.
Armando Sapori, La mercatura medievale, Sansoni (Scuola Aperta), Firenze 1972
Liceo Montale San Dona’ di Piave
Dipartimento di Filosofia e Storia
Testo riprodotto con mezzi propri da P. Longo
3. L’essenza della crisi
Se parlando di crisi si tenga presente soltanto la quantità, espressa dal fattore demografico e dalla
mole della produzione e dei commerci, non avrei nulla da aggiungere dopo avere esposto i due
punti di vista degli storici, diciamo così degli ottimisti e dei pessimisti. Ma ritengo che le sole cifre
non bastino a cogliere il senso del fenomeno, nel che sono d'accordo con il Lopez che fa un rapido
accenno alla qualità: «siamo dell'opinione che la semplice quantità non sia una prova sufficiente del
polso economico di un'epoca, e vorremmo anche esaminare alcuni elementi qualitativi come lo
spirito commerciale, l'animo degli uomini di affari, o anzi la cosiddetta atmosfera propria dell'intera
società di quella epoca». Siccome il Lopez, dopo aver posto con grande sensibilità il problema, non
lo ha sviluppato, penso di svolgerlo con una certa ampiezza nei prossimi capitoli dedicati al
mercante. Il quale, nel momento in cui avvertiva la stanchezzaper lo sforzo di oltre due secoli, fu
irretito nello spirito della società, diverso da quello che lo aveva sorretto nella sua opera di pioniere.