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Capitolo I LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE: CARATTERI GENERALI ED EVOLUZIONE 1. Lo studio del diritto internazionale 1.1. Il diritto come scienza descrittiva Il diritto è una scienza descrittiva che aiuta a conoscere il feno- meno giuridico quale appare in rapporto con il suo substrato sociale nell’ambito di una determinata collettività. Comunità è ogni insieme di esseri umani, o di altre entità formate da esseri umani, che man- tengono fra loro rapporti organizzati e costanti 1 . In specifico, il diritto internazionale è quella branca della scienza giuridica avente ad oggetto la conoscenza del fenomeno giuridico che si manifesta nel quadro della comunità internazionale, ovvero l’in- sieme delle norme giuridiche applicabili ai rapporti tra le entità po- litiche che compongono la comunità internazionale. Inteso come ordinamento giuridico, disciplina scientifica e mate- ria d’insegnamento, esso è uno dei possibili sistemi di valutazione dei rapporti internazionali. La comunità internazionale e le relazioni che intercorrono tra i suoi componenti costituiscono oggetto di approfondimento da parte di varie discipline scientifiche, che utilizzano metodologie diverse: la storia, la politica, la sociologia, l’economia e il diritto. A ciascuno di questi approcci corrisponde una scienza particolare: la storia delle relazioni internazionali, le relazioni internazionali, l’e- conomia internazionale, il diritto internazionale. Ognuna di que- 1 T. PERASSI, Introduzione alle scienze giuridiche, Padova, 1967, pp. 9-10.

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Capitolo I

LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE: CARATTERI GENERALI ED EVOLUZIONE

1. Lo studio del diritto internazionale

1.1. Il diritto come scienza descrittiva

Il diritto è una scienza descrittiva che aiuta a conoscere il feno-meno giuridico quale appare in rapporto con il suo substrato sociale nell’ambito di una determinata collettività. Comunità è ogni insieme di esseri umani, o di altre entità formate da esseri umani, che man-tengono fra loro rapporti organizzati e costanti 1.

In specifico, il diritto internazionale è quella branca della scienza giuridica avente ad oggetto la conoscenza del fenomeno giuridico che si manifesta nel quadro della comunità internazionale, ovvero l’in-sieme delle norme giuridiche applicabili ai rapporti tra le entità po-litiche che compongono la comunità internazionale.

Inteso come ordinamento giuridico, disciplina scientifica e mate-ria d’insegnamento, esso è uno dei possibili sistemi di valutazione dei rapporti internazionali.

La comunità internazionale e le relazioni che intercorrono tra i suoi componenti costituiscono oggetto di approfondimento da parte di varie discipline scientifiche, che utilizzano metodologie diverse: la storia, la politica, la sociologia, l’economia e il diritto. A ciascuno di questi approcci corrisponde una scienza particolare: la storia delle relazioni internazionali, le relazioni internazionali, l’e-conomia internazionale, il diritto internazionale. Ognuna di que-

1 T. PERASSI, Introduzione alle scienze giuridiche, Padova, 1967, pp. 9-10.

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ste scienze fa riferimento a diversi sistemi di giudizio 2. Un aspetto da tenere presente nello studio del diritto internazio-

nale contemporaneo è che esso ha raggiunto un grado elevato di complessità, estendendo il suo oggetto alle materie più varie (mare, spazio, navigazione aerea, commercio internazionale, telecomunica-zioni internazionali, diritti umani, conflitti armati, solo per citarne al-cune) 3. Per questo, il corso affronta gli aspetti fondamentali del di-ritto internazionale, senza voler assumere una colorazione enciclo-pedica. È una scelta imposta dalla finalità dell’insegnamento, che è quella di dare agli studenti, oltre alla necessaria metodologia, le co-noscenze di base per affrontare studi di carattere più specialistico.

Dal punto di vista metodologico, lo studio del diritto internazio-nale va affrontato riconoscendo il ruolo fondamentale della prassi in-ternazionale, “maestra” indispensabile per distinguere l’essere dal do-ver essere. Anche la dottrina e la giurisprudenza sono, come affer-ma l’art. 38 par. 1 lett. d) dello Statuto della Corte internazionale di giustizia (CIG), mezzi complementari per la determinazione delle norme internazionali e rivestono quindi un ruolo importante.

Un elemento che si ricava dalla prassi internazionale, e del quale occorre tenere conto, riguarda l’uso che del diritto internazionale gli Stati fanno per valutare le azioni proprie e di altri soggetti. Ogni evento, crisi o conflitto internazionale presenta aspetti politici, stra-tegici, economici, sociali, etici e giuridici. Il riferimento al diritto in-ternazionale costituisce uno degli argomenti che gli Stati possono utilizzare per giustificare i loro comportamenti o per condannare quelli altrui. Le azioni degli Stati sono quindi qualificate anche at-traverso la valutazione delle norme del diritto internazionale, annet-tendo ad esse determinati effetti giuridici.

Gli strumenti offerti dal diritto internazionale sono utilizzati dal-la politica internazionale e dalla diplomazia degli Stati per gestire i loro rapporti conflittuali. Gli istituti giuridici consolidati del diritto internazionale, intesi come complesso specifico di norme (di varia fonte) che regolano i medesimi fatti e rapporti sociali, sono quindi usati dagli Stati in funzione dei loro interessi (es. il riconoscimento di Stati e di governi).

2 I. BROWNLIE, Problems of Specialisation, in International Law: Teaching and Practice, a cura di B. CHENG, London, 1982, pp. 109-113.

3 T.M. FRANCK, Fairness in International Law and Institutions, Oxford, 1997, pp. 4-5.

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Le ragioni che inducono i singoli Stati a utilizzare questo o quel-l’istituto giuridico del diritto internazionale sono di natura politica e si basano su valutazioni di opportunità, variabili nel tempo e nello spazio. Le manifestazioni di politica estera dei singoli Stati dipen-dono infatti da elementi diversi, alcuni stabili, altri occasionali. Nel decidere come reagire di fronte a determinate situazioni, se utilizza-re argomenti giuridici e, in caso affermativo, a quali norme fare rife-rimento, gli Stati sono determinati da valutazioni contingenti di op-portunità, e, attraverso l’uso del diritto internazionale, possono in-fluenzare l’andamento degli eventi in un senso a loro più favorevo-le. Meno frequenti, invece, sono le argomentazioni fondate su inte-ressi comuni alla comunità internazionale nel suo complesso.

2. I caratteri della comunità internazionale

2.1. Il modello classico di comunità internazionale

L’esistenza di una pluralità di Stati tra i quali intercorrono rapporti di solidarietà e di conflitto costituisce il punto di partenza dello stu-dio del diritto internazionale.

La prima questione da porsi riguarda i caratteri distintivi della co-munità che ne sta alla base. Il modello originario della comunità in-ternazionale è quello di una società paritaria composta di entità poli-tiche indipendenti, non subordinate ad alcuna autorità sovraordina-ta (reges superiorem non recognoscentes). Mentre le collettività statali sono dotate d’istituzioni centralizzate, alle quali sono affidate funzio-ni di governo nell’interesse comune, la comunità internazionale pre-senta caratteri diversi per struttura e composizione.

Se si osserva la struttura, la comunità internazionale è una società di coordinamento, perché i suoi membri si considerano eguali in di-ritto e non subordinati ad alcun potere superiore. Deroghe a questo principio sono stabilite solo nel contesto di sistemi di cooperazione creati dopo la seconda guerra mondiale, le organizzazioni internazio-nali. Così, nell’ONU, il principio della sovrana eguaglianza degli Stati trova un’eccezione nel caso dei Membri permanenti del Consiglio di sicurezza, che sono titolari del potere di veto.

La comunità internazionale non è tuttavia una comunità primitiva, anche se al suo interno l’organizzazione dei rapporti sociali segue un

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modello particolare, nel quale le funzioni dell’ordinamento giuridico (produzione, accertamento e attuazione del diritto) sono affidate agli stessi destinatari delle norme. È un sistema policentrico, in cui i sog-getti che creano le norme coincidono con i destinatari delle stesse 4.

Il secondo tratto caratteristico della comunità internazionale ri-guarda la sua composizione. Membri primari della comunità interna-zionale, che ne fanno parte per il solo fatto di esistere, sono gli Stati, ai quali si aggiungono altre entità assimilabili agli Stati, come i par-titi insurrezionali, la Santa Sede e le organizzazioni internazionali. L’essere umano è invece finora escluso dal novero degli enti di base della comunità internazionale.

3. Il problema storico del diritto internazionale

3.1. La pace di Westphalia del 1648

La nascita di una comunità internazionale strutturata secondo il modello paritario che abbiamo descritto è fatta risalire dalla dottrina alla pace di Westphalia, risultante dai Trattati di Osnabrück e Münster rispettivamente del 6 agosto e 24 ottobre 1648, a chiusura della guerra dei Trent’Anni (1618-1648). Il conflitto, originato da motivi religiosi tra nazioni cattoliche e protestanti per l’egemonia politica in Europa, condusse a un nuovo equilibrio tra le potenze, segnando la nascita di una comunità internazionale diversa rispetto al passato.

La pace di Westphalia consacrò la fine del sistema feudale, di tipo gerarchico e accentrato, che aveva imperato nel Medioevo, e la for-mazione di 335 Stati indipendenti, già membri del Sacro Romano Impero germanico, insieme alla nascita di alcune Città libere e di due Stati confederali, le Province Unite d’Olanda e la Confederazio-ne dei Cantoni elvetici.

Nel precedente sistema feudale a struttura piramidale, tutti gli elementi costitutivi erano orientati verso un vertice unitario. Ma l’u-nità era in realtà incarnata nella doppia autorità del Papa e dell’Im-

4 Nel senso che si tratti di un sistema a funzioni decentrate, cfr. A. MALINTOPPI, Su la “gestione delle funzioni” nell’ordinamento internazionale, in Rivista di diritto internaziona-le, 1975, pp. 749-753.

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peratore, tra loro in conflitto permanente, considerandosi entrambe fonte suprema del potere. Nel 1302, la Bolla Unam Sanctam di Boni-facio VIII, diretta a Filippo il Bello Re di Francia, aveva attribuito al Papato la duplice potestà spirituale e temporale, che tuttavia non era riuscita a prevalere nei fatti.

Per la verità, la tesi che la nascita della comunità internazionale rimonti alla pace di Westphalia non è l’unica. Fra le teorie avanzate in dottrina circa l’origine della comunità internazionale, c’è anche quella che la fa risalire all’alto Medioevo, tra il IX e l’XI secolo d.C., quando si sarebbe formata nell’Europa occidentale una comunità giu-ridica di popoli cristiani, la Res publica christiana, circoscritta ai soli Stati cristiani del mondo romano-germanico, con esclusione del mon-do bizantino e di quello islamico. Questa ricostruzione riposa evi-dentemente sulla convinzione che il diritto possa nascere solo in un ambiente formato da soggetti che condividono le stesse credenze re-ligiose e morali.

3.2. La comunità internazionale pluralista (IX sec. d.C.)

Più convincente è una terza tesi elaborata dall’internazionalista italiano Roberto Ago, secondo la quale l’origine della comunità inter-nazionale pluralista risalirebbe ad epoca romano-barbarica (IX seco-lo), quando iniziarono a convivere nello stesso bacino geografico, e a intessere reciproci rapporti, tre distinte potenze: l’Impero franco-lom-bardo di Carlo Magno, l’Impero bizantino e l’Impero islamico 5. Si tratta-va di una comunità estesa alla quasi totalità dell’Europa occidentale, a buona parte dell’Europa centrale e sud‐orientale, dell’Asia sud‐oc-cidentale e dell’intera Africa settentrionale.

In realtà, l’odierno diritto internazionale è il prodotto della tra-sformazione dell’assetto politico dell’Europa nel passaggio dal Me-dioevo all’età moderna.

Il cristianesimo aveva proclamato l’unità del genere umano, se-condo la formula di Tertulliano “Unam omnium rem publicam agnosci-mus, mundum”. Questa visione universalistica fu incrinata dalla ri-forma luterana che, rinnegando l’autorità spirituale del Papa, fece

5 R. AGO, Il pluralismo della Comunità internazionale alle sue origini, in Studi in onore di Balladore Pallieri, Milano, 1977, p. 3 ss.; ID., The First International Communities in the Mediterranean World, in The British Yearbook of International Law, 1982, p. 213 ss.

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crollare uno dei pilastri della struttura sociale del Medioevo. La ne-gazione dell’autorità spirituale del Papa comportava anche quella dell’autorità secolare del suo omologo, l’Imperatore.

La riforma protestante, dopo la pubblicazione delle 95 tesi di Mar-tin Lutero nel 1517, rafforzò la concezione nazionale della sovranità, nel momento in cui riconobbe a ciascun principe nell’ambito dell’Im-pero il diritto di determinare liberamente la religione del suo Stato (cuius regio eius religio).

La dottrina della sovranità fu elaborata, nel corso del XVI secolo, da Jean Bodin nei Six Livres de la République e contribuì a consolidare l’affermazione degli Stati basati sul principio di nazionalità. La for-mazione degli Stati nazionali proseguì nei secoli dell’assolutismo, XVII e XVIII, che accentuarono il carattere anorganico della comuni-tà internazionale, contrassegnata da guerre persistenti e, come corret-tivo, dal principio dell’equilibrio politico (iustum potentiae equilibrium, secondo il linguaggio del Trattato di Utrecht del 13 luglio 1713), che avrebbe dovuto assicurare la pace e fornì invece continui pretesti di guerra.

Con il consolidarsi delle monarchie assolute, si affermò anche la concezione patrimoniale dello Stato, oggetto di un diritto del monarca, analogo a quello di un privato sul suo patrimonio e, quindi, di com-pravendite, permute e donazioni; porzioni di territorio statale furo-no costituite in dote in occasione di nozze tra membri di famiglie reali o ereditate per successione.

Da ciò, la larga applicazione degli istituti del diritto romano al di-ritto internazionale, soprattutto nella materia dei modi di acquisto e perdita della sovranità territoriale. Si consolidarono anche, nei rap-porti tra gli Stati sovrani, le regole del diritto diplomatico, del diritto di guerra, specie marittima, e della neutralità.

4. Il carattere eurocentrico della comunità interna-zionale

4.1. L’eurocentrismo del diritto internazionale

La tesi che fa coincidere la nascita della comunità internazionale con la pace di Westphalia assegna all’Europa un ruolo centrale e si

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qualifica quindi come eurocentrica. Essa va quindi conciliata con il carattere universale del diritto internazionale contemporaneo.

Peraltro, la prospettiva definita di “universalismo egocentrico” non è solo europea, ma propria anche di altri sistemi regionali: il mondo islamico, con la sua dottrina del siyar (dal VII all’VIII secolo d.C.) 6 e, più in generale, quale espressione della sharia che si rivolge al singolo individuo, indirizzandone la condotta, e la cui ideologia di base è la divisione del mondo tra credenti e non credenti; infine, il sinocentri-smo nell’Asia orientale, incentrato sulla figura dell’Imperatore e quin-di tendenzialmente egemonico (dal III al IX secolo d.C.).

La scienza internazionalistica dei vari continenti afferma però che il diritto internazionale odierno è il prodotto di una pluralità di cul-ture, di una sintesi di tutte o quasi tutte le civiltà del mondo e non può quindi essere concepito solo sulla base del contributo che alla sua evoluzione ha dato l’Europa o un altro bacino di civiltà 7.

Come è stato rilevato: “the world where we live today is, historically speaking, a very particular and exceptional one. When today’s people refer to their world, they assume the world which covers the entire globe ... there ex-ists international law which all nations recognize as valid to them and ac-cept as a common body of globally valid norms regulating their relations” 8.

4.2. Il significato della pace di Westphalia

Gli elementi che occorre considerare rispetto a questa tematica sono due.

In primo luogo, la pace di Westphalia mantiene un significato par-ticolare nell’evoluzione della comunità internazionale perché ha se-gnato il passaggio dal pluralismo delle comunità internazionali pre-cedenti, fra loro distinte e corrispondenti a una molteplicità di baci-ni di civiltà, a un’unica comunità internazionale tendenzialmente univer-sale 9. In qualche misura, l’esperienza giuridica precedente, consegna-

6 J. REHMAN, Syar (Islam, International law), London, 2011. 7 Cfr. C.G. WEERAMANTRY, Universalizing International Law, Boston, 2004, p. 1 ss. 8 H. ONUMA, When Was the Law of International Society Born? An Inquiry of the History

of International Law from an Intercivilizational Perspective, in Journal of the History of Inter-national Law, 2000, p. 8.

9 Sul ruolo della pace di Westphalia nello sviluppo del diritto internazionale, S. BEAULAC, The Power of Language in the Making of International Law, Boston, 2004, p. 67 ss.

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ta nelle regole delle comunità internazionali dell’antichità, del dirit-to romano, del diritto imperiale della codificazione giustinianea, del diritto canonico, si coagula dopo Westphalia intorno al primo em-brione del diritto internazionale.

In secondo luogo, per quanto si voglia respingere la visione euro-centrica e occidentale della nascita della comunità internazionale e del suo diritto, nondimeno costituisce un fatto storico incontroverti-bile che, a partire dalla pace di Westphalia, la comunità internazio-nale euro-mediterranea e il diritto da essa espresso si sono progres-sivamente estesi agli altri continenti per ricomprendere, dopo un lun-go e travagliato processo storico, tutte le entità politiche indipendenti del mondo e divenire quindi una comunità e un diritto universali.

Questa complessa fase di espansione si è realizzata secondo for-mule non sempre rispettose dei popoli e delle civiltà con cui l’Euro-pa e l’Occidente sono venuti in contatto, ma anche con gli strumenti della conquista e dell’assoggettamento dei popoli.

In queste condizioni, è evidente che l’apporto delle civiltà non europee alla formazione e all’evoluzione del diritto internazionale è stato forzatamente limitato e che il diritto internazionale si è svilup-pato soprattutto in funzione degli interessi delle potenze europee e occidentali. Solo dopo la seconda guerra mondiale la situazione è profondamente mutata, grazie all’azione delle Nazioni Unite e al-l’affermazione di nuovi principi, come quello dell’autodeterminazione dei popoli, e si sono create nuove condizioni suscettibili di garantire un reale apporto delle diverse culture al diritto internazionale.

5. Il diritto internazionale dell’antichità

5.1. Il pluralismo delle comunità internazionali

Vediamo allora questi due aspetti, iniziando dalla fase preceden-te alla pace di Westphalia, nella quale il diritto internazionale si è consolidato come sintesi delle esperienze precedenti e dell’apporto di varie civiltà 10.

10 Cfr. R. AGO, Caratteri generali della Comunità internazionale e del suo diritto: introdu-zione al corso di diritto internazionale, Napoli, 2002 e A. MALINTOPPI, Comunità parziali e comunità internazionale universale, Roma, 1975.

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La formazione di collettività interstatuali caratterizzate dalla pre-senza al loro interno di un diritto assimilabile al diritto internazio-nale è un fenomeno che si è prodotto da millenni, ogni volta che en-tità politiche sovrane indipendenti hanno intrattenuto fra loro rap-porti stabili e organizzati.

Nel mondo antico, oltre alle regioni che gravitano intorno al ba-cino del Mediterraneo, si riconoscono altri due focolai organizzati di relazioni internazionali: l’Asia centro-meridionale e l’Estremo Oriente. All’origine più antica di tali fenomeni vi è stata quindi una pluralità di comunità internazionali nei rispettivi bacini di civiltà, tra loro separate e distinte 11.

5.2. La nascita dello Stato: l’archeologia e il diritto

L’archeologo francese Jean Daniel Forest ha formulato l’ipotesi che lo “Stato” sia stato inventato in Mesopotamia, tra il VII e il III mil-lennio a.C.

Secondo la sua ricostruzione, le comunità agricole insediate nel VII millennio sul territorio intorno agli affluenti settentrionali del fiume Eufrate, Khabur e Balikh, sarebbero progressivamente evolu-te in comunità integrate, che con il tempo avrebbero costituito prin-cipati indipendenti.

Da questi sarebbe poi derivata, con lo stabilizzarsi di una forma più evoluta di organizzazione, la città-Stato, il cui primo esempio è la città di Uruk, centro della Mesopotamia meridionale del IV mil-lennio. Nell’archivio di Ebla, città-Stato della Siria settentrionale del III millennio a.C., è stata trovata una tavoletta recante il testo di un trattato, che indicava l’estensione dei confini dello Stato dall’Eufrate al Mar Mediterraneo.

Ancora, gli scavi di Lagasca hanno portato alla luce documenti che provano come fin dalla metà del III millennio a.C. i principati sumeri intrattenessero rapporti di pace e di guerra e concludessero trattati; a El Amarna e Boghazkoi, regione nella quale si erano for-mate grandi monarchie, diverse per credenze religiose, organizza-

11 B. PARADISI, Storia del diritto internazionale nel Medioevo, I, Milano, 1940 e I fonda-menti storici della comunità giuridica internazionale, ripr. in Civitas Maxima, Studi di storia del diritto internazionale, I, Firenze, 1974, pp. 24-92.

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zione interna e origini etniche, sono stati trovati archivi diplomatici relativi ai secoli dal XV al XIII a.C.

Queste comunità hanno utilizzato i primi strumenti di diritto in-ternazionale. In una situazione caratterizzata dall’equilibrio politico, le potenze in campo intrecciavano alleanze, delimitavano frontiere, concedevano prestiti, creavano rapporti di vassallaggio, consolida-vano usi diretti a rendere più umana la guerra.

5.3. La comunità euro-mediterranea

Centri stabili di relazioni internazionali si ebbero poi tra il XIII e il VI secolo a.C. in Estremo Oriente, nel sub-continente indiano, e nelle regioni del bacino mediterraneo.

Furono le regioni della valle del Nilo, della Mesopotamia, dell’A-natolia e del corridoio siro-palestinese, a est del Mediterraneo, a di-venire il centro di gravità principale di una collettività internazionale importante.

In questo contesto, le entità che ne facevano parte utilizzarono strumenti giuridici che saranno poi tipici del diritto internazionale moderno. Rimonta al 1278 a.C. il celebre trattato fra Ittiti ed Egizia-ni, pervenutoci in forma scritta nel testo integrale, concluso alla fine di una guerra che assicurò all’Asia anteriore 50 anni di pace. Esso contiene clausole di pace, di non-aggressione, di alleanza difensiva e di estradizione non dissimili da quelle che figurano negli odierni trattati internazionali di alleanza.

Nel periodo compreso tra il X e il IX secolo a.C., il centro della comunità euro-mediterranea si spostò gradualmente verso occiden-te, con la colonizzazione della Magna Grecia. La civiltà ellenica tra il VI e il III secolo a.C. si caratterizzò per la coesistenza di una molte-plicità di città-Stato, che stipulavano trattati di amicizia, stabilimen-to, pace, arbitrato e assistenza giudiziaria. Esse rispettavano norme consuetudinarie relative agli inviati diplomatici, agli ostaggi, ai di-ritti di passaggio, al diritto d’asilo.

Roma s’inserì in questa collettività dalla metà del secolo IV a.C., utilizzando in una prima fase, nei rapporti con le popolazioni italia-ne, strumenti di carattere internazionalistico (trattati, ambasciate, o-staggi, foedera equa et iniqua), estesi anche a regolare, con la fine del III secolo a.C., i rapporti con altre entità indipendenti nel bacino me-

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diterraneo, come Cartagine, il Regno egiziano dei Tolomei, i Regni dell’Asia anteriore e le città greche.

Dalla fine del II secolo a.C., la politica romana si trasformò in po-litica di egemonia e di conquista, con conseguente assoggettamento delle esistenti entità indipendenti all’autorità romana, con l’eccezio-ne di pochi casi, come l’Egitto e i Regni di Siria e del Ponto. Tra il I secolo a.C. e il II secolo d.C., l’Impero romano estese i suoi confini dalla Scozia all’Arabia. Lo ius gentium – espressione che sarà utiliz-zata in seguito dalla dottrina del diritto internazionale quale diritto delle genti – era quella parte del diritto romano che disciplinava i rapporti tra cittadini romani e stranieri o tra stranieri inter se.

5.4. Il Sacro Romano Impero germanico

Il 476 d.C. segnò l’inizio del Medioevo, con la deposizione del-l’ultimo Imperatore romano d’Occidente, Romolo Augustolo, da parte di Odoacre, re dei Visigoti, che rimise le insegne del potere a Zenone, Imperatore d’Oriente, riconoscendolo come capo dell’Im-pero.

Non furono tanto gli Stati barbarici, in gran parte vassalli dell’Im-pero e quindi da esso formalmente dipendenti, a modificare l’equili-brio nel bacino del Mediterraneo, quanto l’affermarsi dell’Islam, tra il VII e l’VIII secolo d.C., su una vastissima parte delle coste medi-terranee. Si creò infatti un Impero arabo-persiano che, nel 711, arri-vò fino alla Spagna, per poi spostare nell’VIII secolo d.C. il suo inte-resse dominante verso l’Asia.

Con l’incoronazione di Carlo Magno a Imperatore nell’800 d.C. in San Pietro a Roma e la successiva pace dell’811 con Bisanzio, i due Imperi si riconobbero reciprocamente, mentre il Califfo di Ba-ghdad riconosceva in Carlo Magno il protettore dei Luoghi Santi in Gerusalemme. A tale equilibrio di poteri il giurista italiano Ro-berto Ago fa risalire, come si è detto, l’origine della comunità in-ternazionale.

Questa comunità euro-mediterranea subì profondi mutamenti nei secoli successivi. L’Impero islamico si sfaldò progressivamente, quello carolingio si trasformò in una federazione di Ducati.

I Re sassoni, durante la seconda metà del X secolo d.C., unirono le corone di Germania e d’Italia e denominarono l’insieme dei loro Stati Sacro Romano Impero, che nel 1512 diverrà Sacro Romano Impero

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della Nazione Germanica. L’unità gerarchica del mondo feudale me-dioevale lasciò in realtà alcune entità indipendenti al di fuori di es-sa, come Polonia, Ungheria, Russia, Inghilterra, Danimarca, Norve-gia e Svezia. Quindi tra queste entità indipendenti continuarono a svilupparsi rapporti di tipo internazionalistico.

6. L’espansione della comunità internazionale agli al-tri continenti

6.1. Il genocidio dei popoli indigeni

Il secondo elemento di riflessione riguarda l’espansione della co-munità internazionale euro-mediterranea, dopo la pace di Westpha-lia, agli altri continenti.

I modi dell’espansione dell’Europa agli altri continenti avevano del resto avuto occasione di manifestarsi già un secolo e mezzo pri-ma della pace di Westphalia, con la scoperta dell’America, avvenuta nel 1492, alla quale fece seguito la conquista spagnola dopo i primi viaggi di Cristoforo Colombo.

Nel 1493, i Re cattolici avevano sollecitato la sanzione pontificia dei loro diritti sulle terre scoperte e ancora da scoprire, anche al fine di dirimere la controversia con il Portogallo relativa alla sovranità sulle terre del nuovo mondo. Pertanto Alessandro VI, con la Bolla Inter Caetera, stabilì che il meridiano passante 100 leghe a ovest del-l’isola di Capo Verde costituisse il confine tra le terre appartenenti alla Spagna, a occidente del meridiano, e quelle assegnate al Porto-gallo, a oriente. La sovranità territoriale era subordinata all’opera di evangelizzazione e conversione delle nuove genti.

Sulle questioni morali sollevate dalla guerra di conquista e dal trattamento delle popolazioni indigene concentrarono il loro inte-resse i teologi spagnoli della Scuola di Salamanca, Francisco Sua-rez e Francisco de Vitoria, precursori degli studi di diritto interna-zionale.

Nel 1503, la Corona spagnola disciplinò il rapporto tra coloni e popola-zioni autoctone tramite l’istituto dell’encomienda (affidamento), che riparti-va gli indigeni in gruppi affidati a un encomendero spagnolo, cui era attri-buito diritto di vita e di morte per assicurare l’ordine e la giustizia.

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Le autorità locali e le esistenti formazioni politiche furono elimi-nate, mentre le popolazioni indigene sottoposte a trattamenti disu-mani, denunciati nel memoriale d’accusa di Fra’ Bartolomeo de Las Casas, la Brevissima relazione della distruzione delle Indie del 1552 12. Il vescovo dominicano, che aveva approfondite conoscenze giuridiche, asserì il fondamento, nel diritto naturale, del diritto di ogni popolo di disporre di se stesso e testimoniò lo scempio subito dalle popolazioni indigene, riferendo di un genocidio di quindici milioni di persone nel-l’America centrale e caribica.

6.2. Il debito storico del colonialismo

Il dibattito sul trattamento delle popolazioni indigene all’epoca della scoperta e delle colonie è ancora attuale. Si discute la questio-ne del debito storico dei paesi coloniali nei confronti delle popola-zioni vittime della schiavitù e della tratta degli schiavi.

Rivendicazioni in tal senso sono state formulate all’inizio degli anni Novanta dal Gruppo di personalità eminenti istituito dall’Orga-nizzazione per l’unità africana (oggi Unione africana) e fondate su ragioni morali, storiche e giuridiche: “it is international law which must now demand that the western nations pay us what they have owed us for six centuries” 13.

Nell’aprile 1993, la Dichiarazione finale della prima (ed ultima) Confe-renza panafricana sulle riparazioni di Abuja faceva riferimento al “debito morale” e alla restituzione di beni e altri tesori tradizionali indebitamente sottratti, chiedendo risarcimenti in forma di trasferimenti di capitali, can-cellazione del debito e maggiore rappresentatività all’Africa nel Consiglio di sicurezza dell’ONU. Nel 1999, l’African World Reparations and Repatria-tion Truth Commission, riunita ad Accra e composta di esperti di paesi afri-cani e caribici, del Regno Unito e degli Stati Uniti concludeva che si sti-mava a 777.000 trilioni di dollari il risarcimento dovuto ai popoli africani per le vittime della tratta degli schiavi e della schiavitù durante il periodo coloniale. Almeno 12 milioni di africani furono trasportati dall’Africa at-

12 B. DE LA CASAS, Brevissima relazione della distruzione delle Indie, Milano, 1996. 13 Nel 1992, il Tribunale permanente dei popoli aveva dedicato la sessione di Pa-

dova-Venezia a una rilettura delle vicende connesse alla conquista dell’America, a cinque secoli dalla sua scoperta, dal punto di vista del diritto internazionale. Vedi FON-

DAZIONE INTERNAZIONALE LELIO BASSO, La conquista dell’America e il diritto Internaziona-le, Padova, 1992.

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traverso l’Oceano atlantico verso le colonie del Nord America, Sud Ame-rica e Indie occidentali. Nello stesso periodo, 20 milioni di schiavi furono trasferiti in altre parti del mondo, in particolare in Medio Oriente e Nord Africa.

Certo, le argomentazioni giuridiche relative a queste rivendica-zioni sono difficili da elaborare. Anzitutto, è problematico applicare un sistema di norme contemporanee alla valutazione di fatti occorsi quando tali norme non esistevano. In effetti, la schiavitù e il com-mercio degli schiavi sono stati aboliti e proibiti solo all’inizio del XX secolo. Quindi, è difficile sostenere in diritto che gli atti di schiavitù commessi allora corrispondono a una violazione di norme fonda-mentali del diritto internazionale attuale.

6.3. La schiavitù e la tratta degli schiavi come crimini in-ternazionali

Nel diritto internazionale contemporaneo, tratta degli schiavi e schiavitù sono considerate, insieme al genocidio, gravi crimini inter-nazionali. Dalla prima condanna internazionale di tali pratiche al Congresso di Vienna del 1815, la loro proibizione è intervenuta con la Convenzione di Ginevra del 25 settembre 1926, il cui art. 1 defini-sce la schiavitù come “lo stato o la condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o alcuni di essi” 14.

La Convenzione supplementare sull’abolizione della schiavitù, del commercio di schiavi e delle istituzioni e pratiche analoghe alla schia-vitù del 7 settembre 1956, definisce lo schiavo come: “l’individuo che ha tale stato o condizione” e stabilisce obblighi a carico degli Stati con-traenti in tema di abolizione e repressione della schiavitù e della tratta degli schiavi, e di cooperazione per la prevenzione e la repressione del fenomeno.

Essa individua una serie di pratiche di riduzione allo stato “servile” che sono assimilate alla schiavitù: la servitù per debito; il servaggio; ogni isti-tuzione o pratica che comporti matrimonio o promessa di matrimonio de-

14 Approvata in Italia con R.D. 26 aprile 1928, n. 1723. Rientrano nella nozione di “tratta degli schiavi” atti come la cattura, acquisto o cessione di un individuo al fine di ridurlo in schiavitù o venderlo, e, in generale, ogni atto che costituisca commercio o trasporto di schiavi.

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ciso da terzi per conto della donna, senza che questa possa rifiutarsi, ovve-ro cessione di una donna a terzi a titolo oneroso da parte del marito o dei membri della famiglia; ogni istituzione o pratica che comporti da parte dei genitori o di un tutore la possibilità di affidare a un terzo, a titolo oneroso o gratuito, un minore di 18 anni per consentire lo sfruttamento della sua persona o delle sue capacità lavorative.

Ad integrare questo quadro normativo sono intervenuti altri ac-cordi universali e regionali: a livello europeo, la Convenzione del Consiglio d’Europa sull’azione contro la tratta di esseri umani, con-clusa a Varsavia il 16 maggio 2005, e la Direttiva dell’Unione euro-pea 2011/36/UE sulla prevenzione e la repressione della tratta degli esseri umani e la protezione delle vittime del 5 aprile 2011 15.

6.4. Le nuove forme di schiavitù

L’attualità di tale crimine deriva dalla perdurante diffusione di pratiche assimilabili alla schiavitù in alcune parti del mondo e, so-prattutto, dall’emergere di nuove forme di schiavitù, legate all’assenza di adeguate misure di prevenzione e contrasto soprattutto nei paesi occidentali. La tratta degli esseri umani è talmente diffusa, che le Na-zioni Unite hanno ritenuto opportuno un nuovo strumento giuridi-co per rafforzare il quadro normativo esistente. Si tratta del Protocol-lo diretto a prevenire, reprimere e punire la tratta delle persone, in particolare le donne e i bambini, addizionale alla Convenzione sulla lotta al crimine organizzato transnazionale, adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 15 novembre 2000 (Protocollo di Pa-lermo).

Esso contiene una definizione assai ampia di “tratta delle persone”, comprendendovi il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’alloggio o l’accoglienza di persone, con la minaccia dell’uso o con l’uso della forza o di altre forme di costrizione, rapimento, frode e così via. L’applicazione del Protocollo è limitata ai fenomeni di tratta nei quali sia implicata un’orga-nizzazione criminale 16.

15 V. il D.Lgs. 4 marzo 2014, n. 24 sulla prevenzione e repressione della tratta di es-seri umani e protezione delle vittime.

16 UN, Treaty Series, vol. 2237, p. 319 ss. Cfr. La lotta alla tratta di esseri umani fra di-

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Infine, va ricordato che, ai sensi dell’art. 7 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale del 1998, la riduzione in schiavitù è compresa tra i crimini contro l’umanità e si concreta nell’esercizio su una persona dei poteri inerenti al diritto di proprietà, anche nel cor-so del traffico di persone, in particolare di donne e bambini ai fini di sfruttamento sessuale.

6.5. Le rivendicazioni dei paesi del Caricom

Questa normativa si è tuttavia sviluppata in tempi recenti e non potrebbe coprire adeguatamente il debito storico delle potenze schia-viste, anche se la Dichiarazione finale della Conferenza internazio-nale delle Nazioni Unite contro il razzismo e l’intolleranza, tenutasi a Durban nel 2001, afferma: “We acknowledge that slavery and the slave trade ... are a crime against humanity, and should always have been so, especially the transatlantic slave trade, and are among the major sources and manifestations of racism, racial discrimination, xenophobia and related intolerance”.

La questione è stata ripresa tra il 2004 e il 2011 da alcuni Stati ca-ribici (Antigua e Barbuda, Giamaica e Guyana), che hanno avanzato rivendicazioni dirette a ottenere risarcimenti dai paesi europei coin-volti nel traffico di schiavi, e, nel luglio 2013, dai paesi membri della Comunità del Caribe (Caricom), organizzazione regionale con finali-tà economiche, il cui Trattato istitutivo è stato concluso a Chagua-ramas il 4 luglio 1973 e modificato nel 2000.

Questi Stati hanno concordato la creazione di una commissione nazionale in ciascun paese e di una commissione regionale, compo-sta dai presidenti dei singoli gruppi nazionali, per approfondire la questione di una richiesta di riparazioni alle antiche potenze colo-niali, Spagna, Portogallo, Regno Unito e Paesi Bassi, considerati re-sponsabili per il genocidio delle popolazioni autoctone, la tratta de-gli schiavi e la riduzione in schiavitù delle popolazioni del Caribe tra il 1450 e il 1850.

mensione internazionale e ordinamento interno, a cura di S. FORLATI, Napoli, 2013 e S. SCARPA, Trafficking in Human Beings: Modern Slavery, Oxford, 2011.

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7. Il contributo dei paesi americani al diritto interna-zionale

7.1. Il regionalismo americano

Ma torniamo all’espansione della comunità euro-mediterranea agli altri continenti, che si realizzò, nei secoli successivi, attraverso i canali dell’emigrazione e del colonialismo.

Le colonie americane si resero indipendenti in un breve periodo, con la nascita degli Stati Uniti d’America (1783) e dei Paesi dell’A-merica centrale e latina, dove la penetrazione coloniale aveva avuto a protagonisti quasi esclusivi Spagna e Portogallo (Brasile) 17. Questi recisero in maggioranza i legami coloniali con l’Europa tra il 1811 e il 1821 ed entrarono a far parte della comunità internazionale alla luce del panamericanismo.

Cardine di questa evoluzione fu la dottrina Monroe, proclamata dal Presidente americano di fronte al Congresso il 2 dicembre 1823. Secondo la dottrina Monroe, gli Stati Uniti non avrebbero tollerato interventi degli Stati europei diretti a colonizzare il continente ame-ricano. Poco prima, al Congresso di Vienna, era stato affermato in Europa, con la Santa Alleanza, il principio dell’intervento, anche ar-mato, delle potenze della Pentarchia a difesa del legittimismo mo-narchico contro ogni tentativo di sovvertire l’ordine costituito 18.

Al regionalismo americano si deve anche la creazione, nella se-conda metà del XIX secolo, della prima organizzazione internazionale a carattere regionale, l’Unione internazionale delle Repubbliche america-ne, istituita con la Conferenza di Washington del 1889-90 per favori-re gli scambi commerciali nel Continente. L’Unione ha in seguito ampliato la propria competenza alla cooperazione in materia scien-tifica e culturale e alla soluzione pacifica delle controversie.

Nel 1948 è stata creata l’Organizzazione degli Stati americani (OSA), che ha sostituito l’Unione panamericana dopo l’entrata in vi-gore della Carta di Bogotà, più volte emendata attraverso successivi

17 Cfr. M.W. JANIS, American Versions of the International Law of Christendom: Kent, Wheaton and the Grotian Tradition, Religion and International Law, a cura di M.W. JANIS e C. EVANS, Boston, 2004, p. 211 ss.

18 M. BOURQUIN, La Sainte-Alliance, un essai d’Organisation européenne, in Recueil des Cours de l’Académie de droit international de la Haye, 1953-II, pp. 382-457.

18

protocolli 19. Attualmente gli Stati membri dell’OSA sono 35, e le fi-nalità dell’Organizzazione spaziano dalla sicurezza collettiva alla tutela dei diritti umani.

7.2. Il diritto regionale americano

In questo contesto si fece anche strada l’idea di un diritto interna-zionale regionale, caratterizzato da alcuni istituti sconosciuti al diritto internazionale di origine europea e applicabili solo nelle relazioni tra paesi latino-americani. Tra le norme di diritto regionale ameri-cano rientravano il diritto di asilo diplomatico e il principio uti posside-tis iuris, cioè il riconoscimento delle delimitazioni territoriali effet-tuate o tollerate dalla Corona spagnola all’epoca delle colonie come frontiere internazionali dei nuovi Stati 20.

La possibilità di consuetudini a carattere regionale non è esclusa, come vedremo, dalla dottrina e dalla prassi internazionale e non v’è dubbio che alcune norme, come quelle sul diritto d’asilo diplomati-co, abbiano mantenuto tale natura nel tempo, come dimostra il caso di Julian Assange (v. infra).

Il fenomeno del regionalismo giuridico americano sembra tutta-via limitato, se si pensa che l’altro principio tipico, l’uti possidetis iu-ris, ha acquisito in seguito natura di norma generale del diritto in-ternazionale. Già nella sentenza del 22 dicembre 1986 relativa alla Controversia di frontiera (Burkina Faso/Mali), la Corte internazionale di giustizia ha riconosciuto che si tratta di un principio generale, lo-gicamente legato al fenomeno dell’accessione all’indipendenza, o-vunque si manifesti 21. Esso ha lo scopo di evitare che l’indipenden-za di nuovi Stati costituisca occasione per l’insorgere di conflitti le-gati alla contestazione delle frontiere. Il principio è stato ripetuto in molteplici altre decisioni della CIG, come quella relativa alla Contro-versia territoriale e marittima nel Mare caribico (Nicaragua c. Hondu-ras) dell’8 ottobre 2007 22.

19 Protocolli di Buenos Aires 1967; Cartagena de Las Indias 1985; Washington 1992 e Managua 1993.

20 Cfr. G. NESI, L’uti possidetis iuris nel diritto internazionale, Padova, 1996, p. 273 ss. 21 ICJ, Reports 1986, p. 553. 22 ICJ, Reports 1992, p. 351.

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Inoltre, anche gli Stati membri dell’allora Organizzazione per l’U-nità africana (OUA), oggi Unione africana (UA), adottarono al Verti-ce del Cairo nel 1964 la Dichiarazione sulle controversie relative alle frontiere con la quale s’impegnavano a rispettare il principio del man-tenimento delle frontiere esistenti al momento dell’accessione all’in-dipendenza 23.

Diversa la situazione in Europa, dove alcuni casi di dissoluzione di Stati federali, quali l’URSS e la Cecoslovacchia, non hanno com-portato la rimessa in questione delle precedenti frontiere interne. Più complessa la vicenda dell’ex Jugoslavia, caratterizzata dall’insorgere di numerosi conflitti inter-etnici e dalla difficoltà, quindi, di far accet-tare ai nuovi Stati sorti dallo smembramento le precedenti delimita-zioni amministrative della Repubblica federativa socialista di Jugo-slavia.

8. L’evoluzione della comunità internazionale in Africa e Asia

8.1. Il diritto internazionale del periodo coloniale

L’espansione della comunità internazionale all’Africa è stata carat-terizzata, se si esclude l’area mediterranea, dalla suddivisione in sfere d’influenza e da un colonialismo breve nel tempo, ma intenso nella penetrazione e nello sfruttamento delle risorse umane e naturali.

Nell’Africa sub-sahariana, agli insediamenti costieri lungo le rot-te di navigazione e alle esplorazioni geografiche fecero seguito l’in-sediamento di Compagnie coloniali prima, e occupazioni da parte di Stati europei di territori africani considerati res nullius da acquisire per titoli di sovranità come la scoperta e l’occupazione.

L’Atto finale di Berlino o Atto Generale del Congo del 26 febbraio 1885, firmato da 13 Stati europei, tra i quali Inghilterra, Francia, Por-togallo, Belgio, Germania e Italia, suddivideva tutta l’Africa nera in sfere d’influenza, che le potenze interessate potevano occupare, e im-

23 L.J.M. SEYMOUR, Sovereignty, Territory and Authority: Boundary Maintenance in Con-temporary Africa, in Critical African Studies, 2013, p. 4 ss.

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pegnava gli Stati firmatari a garantire un’autorità effettiva sui terri-tori occupati.

Emblematico il caso dello Stato indipendente del Congo, fondato come proprietà personale del re del Belgio Leopoldo II, che ne aveva finanziato l’occupazione da parte di una fondazione privata. Nel 1889, Leopoldo le-gava per testamento allo Stato belga la proprietà del Congo e, nel 1908, il Parlamento adottava la legge che approvava il “trattato di cessione” tra il Belgio e lo Stato indipendente del Congo, con il quale il primo accettava di annettere il secondo in qualità di colonia del Congo belga. L’uso di questi espedienti giuridici mascherò in realtà l’acquisto di terre ricche di risorse naturali da sfruttare. Quanto al trattamento delle popolazioni indigene, v’è chi ha parlato di un olocausto 24. Mark Twain, autore di Tom Sawyer, scris-se nel 1905 un libello ironico dal titolo King Leopold’s Soliloquy: A Defense of His Congo Rule, nel quale il monarca difende la sua missione civilizzatrice.

8.2. Il regime delle capitolazioni e i trattati ineguali

In Asia, a fenomeni di stampo coloniale (l’India divenne colonia inglese nel 1782), si unì il fattore dell’esistenza di compagini statali consolidate di millenaria tradizione, come Impero ottomano, Cina, Giappone, Persia, Siam e principati indiani.

Anche tali entità furono peraltro considerate estranee al novero delle “nazioni civili” e costrette ad accettare regimi giuridici specia-li, tra i quali il regime delle capitolazioni, i trattati ineguali e le con-cessioni territoriali.

Il regime delle capitolazioni, disciplinato da trattati internazionali tra le singole potenze europee e occidentali e gli Stati asiatici, attri-buiva agli stranieri residenti in quei paesi uno statuto giuridico spe-ciale rispetto alla generalità degli altri soggetti, comportante la sog-gezione alla sola giurisdizione dei propri consoli, le libertà di culto cristiano e di commercio. Il regime fu progressivamente abolito do-po la prima guerra mondiale.

Alla Cina furono imposti i trattati ineguali – così denominati per-ché diretti a porre obblighi a una sola parte contraente, la Cina, in contrasto con il carattere sinallagmatico dei trattati – e le concessioni

24 R. BUREN, Journal de route du prince Albert en 1909 au Congo, Bruxelles, 2009 e A. HOCHSCHILD, Les fantômes du Roi Léopold. Un holocauste oublié, la terreur coloniale dans l’État du Congo, Paris, 1998.

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territoriali, che comportarono l’acquisto da parte delle potenze occi-dentali di basi navali e altre stazioni territoriali lungo le coste cinesi in regime d’inviolabilità. Con la Convenzione di Pechino del 7 giu-gno 1902, l’Italia acquisì in concessione perpetua, dietro versamento di un canone nominale, un’estensione di territorio sulla riva sinistra del fiume Pei-ho (Tiensin), sulla quale avrebbe esercitato piena giu-risdizione 25.

Similmente, agli Stati africani del Mediterraneo furono imposti trattati di protettorato che, pur facendo salva la loro formale indipen-denza, li sottoponevano a un penetrante controllo delle relazioni in-ternazionali, e talvolta degli affari interni, da parte delle potenze protettrici (v. infra).

Va riconosciuto quindi che durante il dominio coloniale Africa e Asia non hanno potuto avere un ruolo rilevante nell’evoluzione del diritto internazionale dell’epoca. Del resto, è il periodo in cui, come si è detto, l’eurocentrismo escludeva dalla famiglia delle nazioni tut-te le “nazioni non civili”, vale a dire “non europee” 26. Questo spiega perché buona parte della dottrina conferma che il diritto internazio-nale si è consolidato in linea con l’European Business Civilitazion e che, anzi, il colonialismo ha influito sul consolidamento di concetti basilari del diritto internazionale moderno, come la sovranità terri-toriale 27.

9. Le dottrine del diritto internazionale

9.1. Il giusnaturalismo groziano

Il carattere eurocentrico del diritto internazionale trova conferma anche con riferimento allo sviluppo delle relative dottrine. Nella prima metà del XVII secolo maturano le prime trattazioni sistemati-

25 S. MARCHISIO, Le basi militari nel diritto internazionale, Milano, 1984, pp. 41-42. 26 Cfr. M. KOSKENNIEMI, The Gentle Civilizer of Nations. The Rise and Fall of Interna-

tional Law 1870‐1960, Cambridge, 2002, p. 116 ss., specie p. 132 ss. 27 O. LISSITZYN, International Law in a Divided World, in International Conciliation, 1963,

p. 58. A. ANGHIE, Finding the Peripheries: Sovereignty and Colonialism in Nineteenth‐Century International Law, in Harvard International Law Journal, 1999, p. 1 ss.

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che delle regole applicabili ai rapporti fra gli Stati, alle quali viene riconosciuta una base indipendente dai valori religiosi e morali cui si era fino ad allora fatto riferimento.

Nel XVI secolo, la linea di confine tra morale, religione e diritto era ancora tenue. I teologi spagnoli Francisco De Vitoria e Francisco Suarez, della Scuola di Salamanca, sono gli esponenti del pensiero cat-tolico di fronte alle mutate condizioni politiche dell’Europa e ai rapporti con le popolazioni indigene del nuovo mondo.

Il distacco del diritto dalla morale inizia a consolidarsi con gli scrit-tori italiani Pietrino Belli, con il suo De re militari et de bello (1563), e, soprattutto, Alberico Gentili, giurista e intellettuale umanista, auto-re del De iure belli libri tres (1598). Originario di San Ginesio nelle Marche, protestante e quindi perseguitato, fu esule nell’Inghilterra di Elisabetta I, professore di diritto civile all’Università di Oxford e avvocato presso la Corte dell’Ammiragliato di Londra. Al suo pen-siero si deve il distacco del diritto internazionale dalle premesse teo-logiche cui era stato ancorato e la compenetrazione del diritto inter-nazionale con il diritto di natura, tratto caratteristico delle scuole che vennero dopo.

Nel secolo XVII emerge la figura di Ugo Grozio, giurista olandese che, con la sua opera De iure belli ac pacis libri tres (1625), ebbe gran-dissima fortuna sia tra i contemporanei che successivamente.

Grozio si propose di descrivere le norme della convivenza inter-nazionale corrispondenti al rapporto di coordinazione che si era so-stituito alla struttura gerarchica medioevale e di dare a esse una ba-se indipendente dalla religione. Per Grozio, seguace della tradizione aristotelica, l’uomo tende per natura alla socialità e ogni comunità u-mana esprime, per regolare la convivenza, un sistema di diritto com-posto di due elementi: il diritto naturale, prodotto dalla retta ragione, regola assoluta della condotta umana; e il diritto volontario, posto sulla base della regola di diritto naturale stare pactis. Il diritto volontario è, nella società civile, lo ius civile; nella società internazionale, lo ius gentium, entrambi a base consensuale. Il valore obbligatorio dello ius gentium deriva per Grozio dalla sua conformità al diritto di natura.

Continuatori dell’opera di Grozio furono Pufendorf e Christian Wolff con il suo Jus Gentium Methodo Scientifica Pertractatum; lo sviz-zero Emerich De Vattel, giurista della prima metà del XVIII secolo famoso per l’opera del 1758 Droit des gens ou Principes de la loi natu-relle appliqués à la conduite et aux affaires des nations et des souverains e

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Georg Friedrich von Martens, noto per l’attenzione alla pratica del diritto internazionale, con il Recueil des traités, del 1761, seguito da successive raccolte, e le Causes célèbres du droit des gens del 1827.

Questi autori assegnano ancora al diritto naturale un ruolo, sia pure limitato, di fonte dei principi fondamentali del diritto interna-zionale, accanto al quale però si consolida l’importanza del diritto internazionale scritto e della consuetudine, configurata come accor-do tacito.

9.2. Il positivismo giuridico e il diritto internazionale

Il vero mutamento nella dottrina del diritto internazionale si avrà, peraltro, con l’abbandono del diritto naturale e la graduale afferma-zione del positivismo giuridico.

Anche le dottrine del positivismo giuridico sono di origine euro-pea. Se già i trattatisti del XVIII secolo avevano ridotto la sfera del diritto naturale ai soli principi generali dell’ordinamento internazio-nale, nel XIX secolo il concetto del diritto di natura cede il passo alla nuova concezione del positivismo giuridico, il cui caposaldo è “la di-stanza netta fra il diritto posto da una volontà normatrice, che obbliga pel solo fatto che è posto da tale volontà (diritto positivo), e quel complesso di principi o esigenze ideali, che la coscienza sociale afferma desumendoli dal-la natura umana e dalla costituzione delle cose in relazione ai fini della convivenza (giustizia, o se vuolsi, diritto naturale)” 28.

Secondo il positivismo, la scienza giuridica non può cercare il di-ritto nella mera razionalità, ma solo nel diritto posto dalla volontà di un’autorità. Se per Grozio il diritto della volontà trovava il suo fon-damento nel diritto naturale, dove trovare, escluso il diritto naturale, il fondamento del diritto positivo? Per gli autori inglesi è il common consent, per i positivisti più rigorosi è la volontà dello Stato. La scuola inglese dell’analytical jurisprudence (metà XIX secolo), di cui è espo-nente Austin, porta le sue premesse alle estreme conseguenze e con-clude che il diritto internazionale non è diritto, perché non promana dalla volontà vincolante di un’autorità gerarchicamente superiore.

La dottrina giuridica tedesca della fine del XIX secolo deriva in-vece il suo statalismo dalla filosofia idealistica hegeliana: se lo Stato

28 D. ANZILOTTI, Corso di diritto internazionale, 1, Padova, 1955, p. 16.

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è al di sopra e al di fuori del diritto, non può esistere un diritto in-ternazionale cui lo Stato sia subordinato. Per la teoria del diritto in-ternazionale come parte del diritto statale, il diritto internazionale è diritto pubblico esterno, un prolungamento del diritto statale che si occupa dei rapporti con l’estero. Ciò porta alla negazione del diritto internazionale come sistema unitario e autonomo di giudizi giuridi-ci. Egualmente, la teoria dell’auto-limitazione dello Stato (Jellinek) nega anch’essa il diritto internazionale: la capacità degli Stati di auto-ob-bligarsi non può che essere fondata sulle norme dei singoli ordina-menti interni.

Poiché queste conclusioni appaiono eccessive, la dottrina positi-vistica indirizza le proprie indagini alla ricerca di qualche espediente che valga a spiegare la giuridicità dei trattati, in cui esaurisce il dirit-to internazionale.

Secondo la teoria della volontà collettiva degli Stati (Triepel), le nor-me del diritto internazionale sono da riportare alla volontà comune risultante dalla fusione della volontà di più Stati. In Italia questa teo-ria, introdotta da Dionisio Anzilotti, giudice e presidente della Corte permanente di giustizia internazionale (CPGI), impera per molti anni, ma è poi ripudiata dallo stesso Anzilotti. Infatti, a ogni accordo corri-sponderebbe una volontà comune, con il conseguente frazionamento del diritto internazionale in molteplici diritti internazionali.

In realtà, il vero punto è costituito dall’erronea premessa di con-siderare solo la volontà dello Stato come ragione valida dell’obbli-gatorietà delle norme positive.

9.3. La dottrina pura del diritto e la teoria dommatica

In reazione al positivismo vengono elaborate la dottrina pura del diritto di Hans Kelsen e della sua scuola, e, in Italia, la teoria domma-tica delle fonti di Tomaso Perassi.

La dottrina pura del diritto o positivismo critico intende liberare la conoscenza del diritto da tutti gli elementi extra-giuridici, specie di ordine ideologico e afferma che il diritto è soltanto quello positi-vo, cioè posto in essere da determinati fatti di produzione giuridica.

Inoltre, perché una norma sia valida e obbligatoria occorre che chi ha emesso il comando sia stato autorizzato da una norma sulla produzione giuridica di rango più elevato. Il procedimento di validità equivale a un procedimento a ritroso: la validità di ogni norma vie-

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ne a essere fondata su una norma precedente (normativismo). Il pro-cedimento all’indietro non può continuare all’infinito (dalla senten-za alla legge, dalla legge alla costituzione), in quanto si arriva ad un certo punto alla norma base, la quale è valida non perché sia stata creata in un determinato modo, ma perché si deve presupporre che sia valida: è il fondamento ipotetico della validità di tutto l’ordina-mento giuridico.

In definitiva, l’ordinamento giuridico è il sistema di norme la cui validità può essere ricondotta alla norma base: il fondamento è ri-posto in un’ipotesi giuridica, in una norma la cui validità è presup-posta.

Per il diritto internazionale, la norma base viene identificata nella norma pacta sunt servanda, o, secondo l’evoluzione successiva, più pro-priamente, nella norma consuetudo est servanda. Norma base del dirit-to internazionale è quindi la norma indicante la consuetudine come primo e fondamentale fatto di produzione giuridica dell’ordinamen-to internazionale 29.

La teoria dommatica delle fonti è anch’essa normativista ed as-sume come verità indimostrabile la norma base, che non è una crea-zione del pensiero giuridico, come per Kelsen. È invece un dato mu-tuato da altre scienze, come la sociologia giuridica e la storia, dalla quale si desume che l’accordo delle volontà degli Stati è il procedi-mento di creazione del diritto proprio del sistema delle relazioni in-ternazionali: è la norma pacta sunt servanda, per cui tutto il diritto è diritto della volontà.

10. L’evoluzione del diritto internazionale tra le due guerre mondiali

10.1. La Società delle Nazioni

Questi sviluppi delle dottrine del diritto internazionale, dal posi-tivismo al normativismo, si realizzano in Europa nel periodo tra le due guerre mondiali, quando i Trattati di pace del 1919 crearono la Società delle Nazioni e l’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO).

29 G. MORELLI, Nozioni di diritto internazionale7, Padova, 1967, p. 25 ss.

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L’esperienza della Società delle Nazioni nacque dalla volontà di moralizzare i rapporti internazionali che animava gli Stati all’indo-mani del primo conflitto mondiale e dall’esigenza di garantire la continuità dello status quo territoriale raggiunto nei negoziati di Pa-rigi. Il Patto della Società delle Nazioni, approvato il 28 aprile 1919, costituì la prima parte dei Trattati di pace conclusi dalla Conferenza di Parigi ed entrò in vigore il 10 gennaio 1920 con il primo di questi, il Trattato di pace di Versailles con la Germania.

La nascita della Società delle Nazioni rappresentò uno sviluppo innovativo, ma non rivoluzionario delle esperienze di cooperazione già esistenti.

La struttura della Società ripercorreva il modello basato su tre organi principali: l’Assemblea, composta da tutti gli Stati membri (in origine 42, divenuti 57 nel momento di massima espansione), il Consiglio e il Segreta-riato. In particolare, il Consiglio era composto dai rappresentanti delle po-tenze alleate (Francia, Giappone, Italia, Regno Unito, Stati Uniti) con status di Membri permanenti e dai rappresentanti di altri quattro Stati membri non permanenti, designati dall’Assemblea; era possibile, tuttavia, aumen-tare il numero dei Membri permanenti e non permanenti. Poiché gli Stati Uniti, a seguito del rifiuto del Senato di ratificare il Patto, non entrarono a far parte della Società, nel Consiglio sedettero solo quattro dei cinque Mem-bri permanenti previsti. Quanto ai Membri non permanenti, il loro numero fu aumentato tre volte: nel 1922 fu portato a 6; nel 1926 a 9; nel 1936 a 11. Questo elemento costituì un fattore di debolezza della Società delle Nazio-ni, per il crescente disinteresse delle grandi potenze in un Consiglio com-posto in prevalenza di piccoli Stati.

Il Patto prevedeva inoltre, all’art. 14, la creazione della Corte per-manente di giustizia internazionale. Secondo lo Statuto, la Corte era com-posta di 11, poi 15 membri eletti dall’Assemblea, garantendo che le persone scelte rappresentassero nell’insieme le grandi forme di civi-lizzazione e i principali sistemi giuridici del mondo. L’Europa con-tinuò peraltro a essere il continente maggiormente rappresentato e l’Africa non ebbe alcun giudice. Nella prima elezione del 1921, fu-rono eletti 7 europei, 3 americani, 1 asiatico; nel 1930, 9 europei, 4 americani, di cui tre latino-americani, e 2 asiatici 30.

30 Statut et règlement de la Cour permanente de justice internationale: éléments d’interpré-tation, Berlin, 1934, pp. 39-42.

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10.2. Il nodo della messa al bando della guerra

Scopo principale della Società era il mantenimento della pace, in-teso come rispetto dell’ordine internazionale politico e territoriale sancito dai Trattati di pace. Il Covenant sanciva l’impegno degli Sta-ti partecipanti a mantenere l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di tutti i Membri della Società contro ogni aggressione e-sterna.

Il Patto della Società delle Nazioni non conteneva tuttavia una messa al bando definitiva e totale della guerra. Gli Stati membri s’impegnavano a escludere il ricorso alla violenza bellica come uni-co mezzo per affermare le proprie rivendicazioni e, in caso di contro-versie che potessero condurre a violazioni del Patto, a non ricorrere alle armi prima di aver esperito mezzi di soluzione arbitrale o giudi-ziale, o di aver sottoposto la controversia al Consiglio. In caso di vio-lazione di tali obblighi da parte di uno Stato membro, il Patto preve-deva sanzioni economiche, come l’interruzione delle relazioni econo-miche e commerciali, ed eventualmente sanzioni militari, per la cui esecuzione era attribuito al Consiglio un potere di raccomandazione.

Era inoltre delineato per la prima volta il concetto di responsabili-tà individuale per violazioni del diritto internazionale, sia pure in ter-mini vaghi.

L’art. 227 del Trattato di Versailles con la Germania stabiliva che l’ex Kaiser Guglielmo II sarebbe stato giudicato da un tribunale spe-ciale per “l’offesa suprema contro la morale internazionale e la santità dei trattati”. Il processo non fu mai celebrato, poiché i Paesi Bassi, neu-trali durante il conflitto, non erano vincolati dai trattati di pace e ri-fiutarono di estradare l’ex Imperatore tedesco al quale avevano con-cesso asilo politico.

Inoltre, è di quegli anni la proposta relativa all’istituzione di una Corte internazionale di giustizia penale, discussa senza esito dal Comi-tato di giuristi incaricato di predisporre lo Statuto della CPGI 31.

10.3. La nozione di aggressione

Negli anni tra le due guerre mondiali si sviluppò, dall’art. 10 del

31 http://www.prassi.cnr.it/prassi/content.html?id=2214.

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Patto, la riflessione sulla problematica nozione di aggressione (v. in-fra).

Ne discusse l’Assemblea della Società a proposito del progetto di trattato di mutua assistenza, inteso a rafforzare le disposizioni statu-tarie sulla sicurezza collettiva, che confluì nel Protocollo di Ginevra del 2 ottobre 1924 sulla soluzione pacifica delle controversie interna-zionali. Se il Protocollo registrò uno scarso numero di ratifiche, il Trattato generale sulla rinuncia alla guerra come strumento di poli-tica internazionale, di poco successivo (Patto Briand-Kellogg del 27 a-gosto 1928), non entrò mai in vigore.

I numerosi conflitti verificatisi tra le due guerre mondiali (1918-39) dimostrarono la debolezza del sistema instaurato dalla Società.

Nel 1923 si verificò la controversia fra l’Italia e la Grecia relativa all’eccidio della missione Tellini, cui seguì l’occupazione italiana di Corfù; nel 1933, ebbe luogo l’occupazione giapponese della Manciu-ria e, nel 1935-36, l’Etiopia, Stato sovrano membro della Società, fu invaso dall’Italia, nei cui confronti la Società adottò sanzioni econo-miche; nel 1939, infine, avvennero l’occupazione tedesca della Polo-nia e la guerra tra l’URSS e la Finlandia.

11. Il diritto internazionale contemporaneo

11.1. La Carta delle Nazioni Unite

Nel corso del secondo conflitto mondiale furono gettate le basi del-l’attuale sistema internazionale, attraverso numerose iniziative delle potenze alleate dirette a evitare il ripetersi della guerra promuoven-do un’organizzazione generale per il mantenimento della pace e del-la sicurezza internazionali.

Tra il 1942 e il 1945 maturava la creazione dell’Organizzazione del-le Nazioni Unite (ONU), la cui Carta istitutiva veniva adottata il 26 giugno 1945 dalla Conferenza di San Francisco. L’8 agosto successi-vo era firmato l’Accordo sul Tribunale internazionale di Norimber-ga, per giudicare i nazisti responsabili della guerra e dei crimini com-messi nel corso di essa (crimini di guerra, crimini contro l’umanità e cri-mini contro la pace).

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Il fenomeno dell’organizzazione internazionale diventa uno dei tratti salienti del diritto internazionale contemporaneo. Lo Statuto delle Nazioni Unite entrava in vigore il 24 ottobre 1945 tra 29 Stati; il 27 dicembre dello stesso anno tutti gli altri Stati che avevano parte-cipato alla Conferenza di San Francisco e firmato la Carta avevano depositato le loro ratifiche. L’ONU iniziava così a funzionare con 51 Membri originari.

Uno dei primi atti dell’Assemblea generale fu l’approvazione, il 10 dicembre 1948, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, composta da trenta articoli, che enunciano fondamentali esigenze del-l’intera umanità e costituiscono il primo tassello della disciplina in-ternazionale dei diritti umani 32.

Proprio con l’affermarsi dei diritti umani, la dottrina internazio-nalistica supera il dogmatismo del positivismo giuridico e riconosce che la qualificazione di giuridicità può essere attribuita a certe nor-me in virtù di caratteri obiettivamente propri alle stesse e al loro ope-rare come norme di diritto.

Per alcuni autori, questo è il caso delle norme costituzionali del di-ritto internazionale, che vanno distinte dal diritto consuetudinario. Roberto Ago elabora la teoria delle norme spontanee, secondo la qua-le la dottrina giuridica deve liberarsi definitivamente dai residui del positivismo e riconoscere la giuridicità delle norme frutto di germi-nazione spontanea 33. Questo diritto si forma come conseguenza di cause diverse che non hanno nulla a che vedere con un processo for-male di produzione. Ago invita quindi a valersi dell’espressione di-ritto positivo come sinonimo di diritto vigente nella comunità interna-zionale.

E, come vedremo, il diritto vigente nella comunità internazionale contemporanea comprende non solo le norme dei trattati, ma anche le norme generali di diritto consuetudinario, il cui processo forma-tivo riflette molto da vicino la prospettiva delle norme spontanee.

32 Approvata con la risoluzione 217 (III), con 48 voti favorevoli, nessun contrario e 8 astensioni (Arabia Saudita, Bielorussia, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Polonia, Sud Africa, Ucraina e URSS).

33 Cfr. R. AGO, Scienza giuridica e diritto internazionale, Milano, 1950.

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12. L’universalizzazione della comunità internazionale

12.1. La decolonizzazione degli anni Sessanta

Con la Carta delle Nazioni Unite è iniziata una nuova fase di evo-luzione della comunità internazionale e del suo diritto, nella quale si realizzano, da un lato, la piena universalizzazione della comunità internazionale, e dall’altro lato, un processo di revisione dei contenu-ti del diritto internazionale, in cui l’apporto delle diverse culture e ci-viltà diventa determinante.

Vari fattori contribuiscono all’affermazione di nuovi valori fon-damentali, come l’autodeterminazione dei popoli, la proibizione del-la minaccia e dell’uso della forza, la tutela dei diritti e della dignità della persona umana e la definitiva condanna di pratiche come il co-lonialismo e lo sfruttamento delle risorse altrui.

Nello Statuto dell’ONU, il principio di autodeterminazione dei popoli è posto a fondamento delle relazioni amichevoli tra le nazioni. Negli anni Sessanta, quindi, in forma pacifica o attraverso guerre di libe-razione nazionale, i popoli già soggetti a regime coloniale emergono alla piena indipendenza, provocando un incremento quantitativo dei membri della comunità internazionale 34.

Gli Stati “nuovi”, sorti dalla decolonizzazione degli anni Sessan-ta, pur non proponendo modifiche alla struttura orizzontale della comunità internazionale, basata sulla sovranità degli Stati, avanza-rono l’esigenza di un profondo ricambio dei contenuti del diritto in-ternazionale.

L’adeguamento del contenuto delle norme internazionali ai pro-fondi mutamenti intervenuti nella comunità internazionale fu rea-lizzato attraverso due strumenti giuridici: a) la codificazione e lo svi-luppo progressivo del diritto internazionale non scritto, secondo l’art. 13 par. 1, della Carta delle Nazioni Unite; b) l’adozione di dichiara-zioni di principi da parte dell’Assemblea generale, non vincolanti per se, ma veicoli per una successiva modifica consuetudinaria delle re-gole vigenti.

34 M. SAHOVIC, Influence des États nouveaux sur la conception du droit international, in Annuaire français de droit international, 1966, pp. 30-49.

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12.2. Multiculturalità e diritto internazionale

In questo contesto, il diritto internazionale si è progressivamente aperto all’apporto di una pluralità di culture e civiltà 35. Viene accol-ta l’esigenza di conciliare la vocazione universalista del diritto in-ternazionale contemporaneo con il rispetto, la tutela e la valorizza-zione delle diverse culture 36.

Per alcuni, il tentativo di far coesistere civiltà portatrici di valori diversi avrebbe determinato una crisi del diritto internazionale, la sua frammentazione e l’incertezza del suo contenuto. Essenziale sa-rebbe l’aspetto legato alle difficoltà delle culture dell’Asia e dell’A-frica a comprendere il significato delle nozioni e dei concetti alla ba-se del diritto internazionale di matrice occidentale.

In tale prospettiva non potrebbe esistere un diritto internazionale universale, come confermerebbe il parziale insuccesso della seconda fase della codificazione, dalla metà degli anni Ottanta 37. Sarebbe an-che confermata l’incapacità delle “altre” nazioni di trarre dalla loro storia un diverso diritto internazionale, di elaborare principi giuri-dici indipendenti suscettibili di sostituire i modelli del diritto interna-zionale esistente. Inoltre, non sarebbero tanto le differenze di civiltà, culture e religione a mettere a rischio l’ordine internazionale univer-sale, ma soprattutto le disparità di sviluppo e i confitti fra gli interessi economici degli Stati.

Qualche tentativo di dimostrare il carattere positivo della multi-culturalità è però stato fatto.

Tale discorso vale soprattutto per i nuovi settori del diritto interna-zionale, che possono meglio svilupparsi tenendo presenti le soluzioni presenti nella saggezza di tutte le civiltà, come ha rilevato il giudice Weeramantry nell’opinione individuale alla sentenza resa nel 1997 dalla Corte internazionale di giustizia nell’affare Gabčicovo-Nagymaros, in relazione al diritto ambientale e dello sviluppo sostenibile 38. Egli af-

35 R.J. DUPUY, The Future of International Law in a Multicultural World, Boston-Lon-don, 1984, p. 85.

36 Y. BEN ACHOUR, La civilisation islamique et le droit international, in Revue générale de droit international public, 2006, p. 19 ss.

37 R. AGO, Nouvelles réflexions sur la codification du droit international, in Revue géné-rale de droit international public, 1988, p. 539 ss.

38 ICJ, Reports 1997, p. 96; v. anche C.G. WEERAMANTRY, Equality and Freedom: Some Third World Perspectives, Colombo, 1976.

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ferma che nelle tradizioni culturali delle varie civiltà è possibile tro-vare principi cui attingere per sviluppare e definire il diritto inter-nazionale; che in esse sono presenti valori comuni, e che mediante la considerazione e la sintesi delle soluzioni da essi adottate si può, al-meno in alcuni campi, sviluppare una disciplina internazionale ve-ramente universale.

In tal senso, un ruolo importante sono chiamati a svolgere i prin-cìpi generali del diritto, intesi come principi generali comuni alle varie civiltà giuridiche. L’interesse preminente di questa impostazione è che essa porta a valorizzare nel modo più significativo le radici nor-mative universalmente condivise che accomunano le varie prospetti-ve culturali, senza abolire le peculiarità delle varie civiltà. Il con-fronto tra le culture sembra infatti essere l’unico metodo per garan-tire l’esistenza del diritto internazionale come sistema giuridico uni-versale.

13. Le dottrine mondialiste del diritto internazionale

13.1. Il diritto globale dell’umanità

Un’altra categoria di universalismo è quella che evoca il diritto glo-bale dell’umanità come superamento del diritto internazionale, in vi-sta del pieno coinvolgimento delle varie civiltà 39. Le dottrine che pro-pugnano il modello universale del diritto globale, inteso come “com-mon law of humankind”, e del collegato governo mondiale, entrambi espressione di una società mondiale interindividuale integrata, riaf-fiorano di continuo nella storia del pensiero giuridico 40.

Il modello tradizionale lascia insoddisfatti perché esclude l’essere umano dal novero dei membri di base della comunità internaziona-le, in un contesto nel quale l’umanità e i diritti umani sono divenuti i valori fondanti del diritto internazionale. Senza contare l’approccio formalistico che esclude dal novero dei membri della comunità inter-

39 R. FALK, Law in an Emerging Global Village: A Post Westphalian Perspective, New York, 1998.

40 R.Y. JENNINGS, Universal International Law in a Multicultural World, in International Law and the Grotian Heritage, London, 1967, p. 187 ss.

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nazionale entità potenti come i grandi gruppi economico-finanziari (le imprese multinazionali).

Un ulteriore elemento è identificato nel progressivo affermarsi della giustizia penale internazionale, che riguarda gli individui col-pevoli di gravi crimini internazionali. Inoltre, si contesta al modello tradizionale di essere troppo ancorato al concetto di sovranità, in un mondo nel quale sono molte le limitazioni della sovranità esterna degli Stati e molto avanzata è l’interdipendenza tra le nazioni. S’in-travede quindi un processo dinamico in cui la sovranità è progressi-vamente sostituita da un nuovo fondamento normativo nel diritto in-ternazionale: i diritti umani, che costituirebbero il nuovo paradigma alla cui stregua valutare la sovranità intesa come responsabilità 41.

Si osserva inoltre che l’evoluzione più recente dimostrerebbe una certa attenuazione della differenza tra il modello internazionale e quello interno, in conseguenza dell’affermarsi di valori comuni e in-teressi solidali 42.

Si tratta di considerazioni sicuramente pertinenti, che fanno rife-rimento a reali mutamenti in atto nella comunità internazionale. È vero peraltro che gli sviluppi più recenti del diritto internazionale contribuiscono a porre l’umanità al centro dell’interesse collettivo.

Tuttavia, sono ancora troppe le manifestazioni della prassi che ci inducono a guardare con prudenza alla sostituzione del modello tra-dizionale con nuovi modelli. La comunità internazionale non corri-sponde ancora alla società umana universale, che abbia come membri primari la totalità degli individui che vivono sul pianeta Terra. La co-struzione di una società interindividuale universale e integrata po-trà dirsi realizzata solo quando si costituirà una federazione politica mondiale, superando l’attuale divisione del mondo in quasi duecento formazioni politiche indipendenti 43.

In quanto regime comune e universale, il diritto internazionale

41 C. TOMUSCHAT, International Law: Ensuring the Survival of Mankind on the Eve of a New Century, General Course on Public International Law, in Recueil des cours, 1999, 11, pp. 161-162. Argomentazioni riprese da A. PETERS, Humanity as the A and of Sovereign-ty, in European Journal of International Law, 2009, pp. 513-544.

42 E. CANNIZZARO, Corso di diritto internazionale, Torino, 2012, p. 7. 43 A. MALINTOPPI, Organizzazione e diritto internazionale, in Archivio giuridico Filippo

Serafini, 1968, pp. 314-34; G. ARANGIO-RUIZ, The «Federal Analogy» and UN Charter In-terpretation: A Crucial Issue, in European Journal of International Law, 1997, pp. 1-28.

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continua peraltro a essere costituito da soluzioni normative condivi-se, cristallizzate nel sistema delle fonti riconosciute. Ciò esclude l’uni-lateralismo, che talvolta induce le potenze dominanti a considerare sé stesse e il proprio sistema di valori come centro della comunità internazionale. Il rischio che l’universalità del diritto internazionale venga meno è dato proprio dalle modalità unilaterali di risposta alle varie sfide che si presentano.

Consideriamo peraltro gli aspetti più positivi dell’evoluzione nel-la comunità internazionale, che ha favorito il progressivo coagularsi d’interessi e valori comuni alla collettività degli Stati.

Dopo la decolonizzazione, un ulteriore adeguamento si è avuto nel corso degli anni Novanta, quando il processo di mondializzazio-ne ha accentuato l’interdipendenza tra le collettività statali ed ha e-videnziato l’inadeguatezza degli elementi strutturali della comunità internazionale. Anzitutto, l’ONU ha favorito la presa di coscienza dei problemi globali comuni all’umanità attraverso la convocazione di conferenze mondiali che hanno confermato il fattore umano quale elemento fondamentale delle relazioni internazionali 44.

Ambiente e sviluppo sostenibile (Rio de Janeiro, 1992; Johannesburg, 2002; Rio de Janeiro, 2012; New York, 2015), diritti umani (Vienna, 1993), popolazione mondiale (Cairo, 1994), condizione della donna (Pechino, 1995), sviluppo sociale (Copenaghen, 1995), insediamenti umani (Istanbul, 1996), razzismo, discriminazione razziale e xenofobia (Durban, 2001; Ginevra, 2009), finanziamento dello sviluppo (Monterrey, 2002; Doha, 2008; Addis Abeba, 2015), popoli indigeni (New York, 2014), rifugiati e migranti (New York, 2016).

14. I valori condivisi della comunità internazionale

In secondo luogo, le Nazioni Unite hanno posto al centro della lo-ro azione la legalità internazionale, intesa come rispetto dei valori es-senziali per la comunità internazionale. Di fronte alle massicce vio-lazioni dei diritti fondamentali e agli efferati crimini contro l’uma-nità commessi nel corso di conflitti locali e guerre civili, l’ONU ha

44 A.A. CANÇADO TRINDADE, International Law for Humankind. Towards a New Jus Gen-tium, Leiden-Boston, 2010, p. 595 ss.

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istituito due tribunali penali internazionali, per l’ex Jugoslavia e il Ruanda, e ha favorito l’istituzione della Corte penale internazionale, il cui Statuto, adottato a Roma nel 1998, è entrato in vigore nel 2002. Negli anni successivi sono stati istituiti vari tribunali penali misti, per garantire che violazioni gravi e ripetute dei diritti fondamentali non restino impunite.

Inoltre, il Consiglio di sicurezza ha esercitato con frequenza i po-teri coercitivi ad esso attribuiti dal cap. VII della Carta. Alcune deci-sioni hanno costituito una reazione alle minacce alla pace e atti di aggressione verificatisi dopo la caduta del muro di Berlino, compre-so il terrorismo internazionale, dopo l’attacco alle torri gemelle del-l’11 settembre 2001. Nel novembre 1990, gli Stati membri che coope-ravano con il Kuwait sono stati autorizzati a usare tutti i mezzi ne-cessari per restaurare la legalità violata dall’Iraq. Dalla metà degli anni Novanta, il mandato di alcune operazioni di peace-keeping del-l’ONU è stato esteso fino a comprendere l’uso della forza, con fon-damento specifico nel cap. VII della Carta.

In alcuni casi le attività di peace-keeping si sono affiancate a inter-venti militari autorizzati dal Consiglio di sicurezza o decisi in via unilaterale da gruppi di Stati operanti nel quadro di organizzazioni internazionali, come la NATO (Kosovo, Afghanistan). Altri interventi militari sono stati autorizzati a scopi umanitari o per la protezione delle popolazioni civili nei confronti dei propri governi, in applica-zione del principio della responsabilità di proteggere (Costa d’Avorio e Libia, 2011).

Le ricorrenti crisi economico-finanziarie hanno messo in luce l’i-nadeguatezza della governance globale.

In tale contesto hanno assunto particolare rilievo i vertici mon-diali di Capi di Stato e di governo: il G-7 e il G-8, riunioni dei paesi industrializzati (Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Regno Uni-to, Italia, Canada, e, dal 1998, Russia 45); il G-14, che rappresenta ol-tre la metà della popolazione mondiale e più del 70% del PIL mondia-le ed è costituito dagli Stati del G-8 più altri sei paesi emergenti (il G-5, Brasile, Cina, India, Messico, Sud Africa, più l’Egitto) e il G-20, creato nel 1999, dopo una successione di crisi finanziarie, per favorire l’internazionalità economica e la concertazione tenendo conto delle

45 Dal 2014, la partecipazione della Russia al G8 è sospesa in seguito all’annessione della Crimea.

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economie in sviluppo. Particolarmente rilevanti, poi, sono i nuovi raggruppamenti delle emergenti economie mondiali, come quello del BRICS, composto da Brasile, Cina, India, Russia e Sud Africa.

Alle soglie del XXI secolo, l’ONU ha convocato il Vertice del Mil-lennio, che ha avviato una riflessione generale sulle sfide e oppor-tunità agli inizi del 2000. I valori condivisi della comunità interna-zionale che riflettono lo spirito della Carta delle Nazioni Unite sono stati identificati nella “libertà, equità e solidarietà, tolleranza, non-vio-lenza, rispetto per la natura e responsabilità condivisa”.

L’Assemblea generale, riunitasi a livello di Capi di Stato e di go-verno, ha adottato la risoluzione 55/2 che contiene la Dichiarazione sugli obiettivi di sviluppo del Millennio (MDGs): sradicare la povertà estrema e la fame; garantire l’istruzione primaria a livello universa-le; promuovere l’uguaglianza di genere e l’emancipazione delle donne; ridurre la mortalità infantile; migliorare la salute materna; debellare l’HIV/AIDS, la malaria e altre malattie; garantire la soste-nibilità ambientale; e, infine, costruire un partenariato mondiale per lo sviluppo.

Per valutare i risultati conseguiti, due ulteriori vertici sono stati convocati nel 2005 e nel 2010: la Dichiarazione del Vertice mondiale del 2005, contenuta nella risoluzione 60/1 dell’Assemblea generale (World Summit Outcome) e il secondo summit del 2010 hanno defini-to il piano d’azione del sistema delle Nazioni Unite per mantenere fede, nonostante la crisi economico-finanziaria, agli impegni assunti, con il rafforzamento del partenariato tra comunità internazionale e società civile 46.

In seguito alla Conferenza sullo sviluppo sostenibile del 2012 (Rio+20), l’Assemblea generale ha definito una serie di obiettivi spe-cifici, ulteriori e complementari rispetto agli MDGs, riflettenti i tre pilastri dello sviluppo sostenibile: tutela dell’ambiente, sviluppo economico e tutela dei diritti umani. I nuovi Sustainable Development Goals (SDGs) sono stati proclamati in occasione del Vertice delle Na-zioni Unite sullo sviluppo sostenibile, il 25 settembre 2015, e inglo-bati nell’Agenda 2030 47.

46 Cfr. UN, The Millennium Development Goals Report, New York, 2015. 47 Cfr. S. MARCHISIO, Il diritto internazionale dell’ambiente, in Diritto ambientale. Profili

internazionali, europei e comparati3, a cura di G. CORDINI, P. FOIS, S. MARCHISIO, Torino, 2017, pp. 37-39.

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L’adozione dell’Agenda 2030 e degli SDGs confermano il ruolo centrale dello sviluppo sostenibile nel sistema delle Nazioni Unite e il crescente impegno della comunità internazionale per traguardi ambiziosi a livello globale.

15. Il principio di sovranità nel diritto internazionale contemporaneo

Nel contesto di quest’evoluzione, il diritto internazionale resta ancorato a due concetti chiave: la sovranità esterna e l’indipendenza de-gli Stati, che stanno alla base della struttura paritaria della comunità internazionale, secondo la classica affermazione della CPGI nella sen-tenza del 7 settembre 1927 sul caso Lotus: “The family of nations con-sists of a collection of different sovereign and independent States” 48. Si trat-ta di concetti equivalenti, non più assoluti come in passato, ma ridi-segnati da talune compressioni in funzione della tutela d’interessi e va-lori comuni e dall’esigenza di reagire alle violazioni più flagranti del diritto.

L’indipendenza e la sovranità esterna sono dati fattuali, attributi di-stintivi dello Stato che denotano l’assenza di subordinazione ad altri e il potere di esercitare in un ambito definito le funzioni appartenenti alla giurisdizione sovrana dello Stato senza interferenze esterne. La so-vranità esterna comporta lo ius excludendi alios, secondo la classica definizione dell’arbitro Max Huber nella decisione del 4 aprile 1928 nella controversia tra Paesi Bassi e Stati Uniti relativa alla sovranità sull’Isola di Palmas (o Mianguas): “Sovereignty in the relations between States signifies independence. Independence in regard to a portion of the globe is the right to exercise therein, to the exclusion of any other State, the functions of a State” 49.

La sovranità esterna è il presupposto per l’esercizio della sovrani-tà interna, che consiste nel potere di esercitare le funzioni fonda-mentali dello Stato in un dato ambito spaziale e con riferimento a

48 PCIJ, Collection of Judgements, Series A, n. 10, 1927, p. 35. Cfr. J. CRAWFORD, Sove-reignty as a Legal Value, in The Cambridge Companion to International Law, a cura di J. CRAWFORD, M. KOSKENNIEMI, S. RANGANATHAN, Cambridge, 2012, p. 117 ss.

49 Reports of International Arbitral Awards, 1928, II, p. 839.

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una data comunità d’individui. La giurisdizione dello Stato può es-sere personale se la si guarda dal punto di vista dei soggetti nei con-fronti dei quali i poteri sovrani sono esercitati. Gli Stati hanno l’ob-bligo di riconoscere a tutti gli individui che si trovano sotto la loro giurisdizione, senza distinzioni di cittadinanza, i diritti umani fon-damentali. La Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 im-pone il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, come fonda-mento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo. L’art. 1 della Convenzione europea relativa alla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 (CEDU) stabilisce che: “Le Alte Parti contraenti riconoscono a ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà enunciati nel Titolo primo della pre-sente Convenzione”.

La giurisdizione è territoriale, se si assume come riferimento l’am-bito spaziale entro cui i poteri dello Stato sono esercitati. Quando si parla di sovranità territoriale ci si riferisce a un diritto soggettivo del-lo Stato sul proprio territorio e sulle risorse naturali in esso contenu-te, anch’esse oggetto di un diritto di sovranità permanente tutelato dal diritto internazionale.

Allo Stato è normalmente precluso l’esercizio della sua giurisdi-zione sul territorio di altri Stati (giurisdizione extra-territoriale) 50, sal-va l’esistenza di una norma internazionale, consuetudinaria o patti-zia, che lo autorizzi in tal senso. È il classico dictum della CPGI nel caso Lotus: “A State cannot exercise its power in any form in the territory of another State; jurisdiction cannot be exercised by a State outside its ter-ritory except by virtue of a permissive rule derived from international cus-tom or from a convention” 51.

Il diritto internazionale non preclude che uno Stato eserciti la sua giurisdizione al di fuori del proprio ambito territoriale, nei limiti in cui ciò non sia vietato dal diritto internazionale. Così, gli Stati sono liberi di esercitare i loro poteri sulle aree “al di fuori delle giurisdi-zioni nazionali”, come ad esempio l’alto mare e lo spazio extra-at-mosferico, considerate dal diritto internazionale res communes omnium, non suscettibili di divenire oggetto di diritti individuali di sovranità.

50 Cfr. C. RYNGAERT, Jurisdiction in International Law, Oxford, 2008. 51 PCIJ, Collection of Judgements, Series A, n. 10, p. 19.

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Per evitare che l’esercizio della giurisdizione di due o più Stati in aree al di fuori delle giurisdizioni nazionali dia luogo a conflitti e sovrapposizioni, il diritto internazionale provvede a coordinare le sfere delle diverse giurisdizioni tramite determinati criteri di colle-gamento.

Nel caso del Vapore Lotus (Francia e Turchia), la CPGI era stata richiesta di risolvere la controversia relativa alla collisione tra due vapori, interve-nuta il 2 agosto 1926 in alto mare, che aveva causato la perdita della nave turca Boz-Kourt e la morte di otto tra passeggeri e marinai turchi. Al mo-mento dell’attracco del vapore francese Lotus a Istanbul, i comandanti dei due vapori erano stati sottoposti a procedimento penale e il comandante francese, riconosciuto responsabile del disastro, era stato condannato a una pena detentiva. La Turchia sosteneva che la competenza le spettasse di di-ritto, essendo la collisione avvenuta sul battello turco, quindi, in ragione delle sue conseguenze, in “territorio turco”. La Francia contestava alla Tur-chia di avere esercitato la competenza giudiziaria in violazione dei principi del diritto internazionale, che la attribuivano ai tribunali francesi (art. 15 della Convenzione bilaterale di Losanna del 24 luglio 1923 sullo stabili-mento e la competenza giudiziaria). Il 7 settembre 1927, la CPGI decideva che la Turchia non aveva violato il diritto internazionale, poiché nessun principio di diritto internazionale si opponeva all’esercizio della sua com-petenza giudiziaria per un fatto accaduto in alto mare.

Gli Stati sono anche titolari di obblighi internazionali che riguar-dano le attività svolte nell’ambito della loro giurisdizione o sotto il loro controllo e che possono avere conseguenze dannose in aree e-sterne alle loro giurisdizioni.

Il Principio 2 della Dichiarazione di Rio de Janeiro su ambiente e sviluppo del 1992, che codifica una delle norme fondamentali del diritto internazionale ambientale, stabilisce che: “Gli Stati hanno, in conformità al diritto internazionale e alla Carta delle Nazioni Unite, il diritto sovrano di sfruttare le proprie risorse secondo le loro politiche am-bientali e di sviluppo, ed hanno il dovere di assicurare che le attività sot-toposte alla loro giurisdizione o al loro controllo non causino danni al-l’ambiente di altri stati o di zone situate oltre i limiti della giurisdizione nazionale” 52.

52 Rio 1992: Vertice per la Terra, a cura di G. GARAGUSO e S. MARCHISIO, Milano, 1992.

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