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VOGLIO VIVERE COSÌ di ANSOINO ANDREASSI VOGLIOVIVERE 20_1_10 20-01-2010 12:58 Pagina 1

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  • VOGLIO VIVERE COSÌ

    di ANSOINO ANDREASSI

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  • ANSOINO ANDREASSI è stato uno dei protagonisti della lotta alterrorismo, dalle prime avvisaglie degli anni di piombo alle piùrecenti minacce internazionali, al vertice prima degli apparatidella Polizia di Stato e poi dell’Intelligence.

    © 2009 Ansoino Andreassi© 2009 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri

    Questo libro è rilasciato con licenza Creative Commons-Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Ita-lia. Il testo integrale della licenza è disponibile all’indirizzo http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/.L’autore e l’editore inoltre riconoscono il principio della gratuità del prestito bibliotecario e sono contrari a norme odirettive che, monetizzando tale servizio, limitino l’accesso alla cultura. Dunque l’autore e l’editore rinunciano a ri-scuotere eventuali introiti derivanti dal prestito bibliotecario di quest’opera. Per maggiori informazioni, si consultiil sito «Non Pago di Leggere», campagna europea contro il prestito a pagamento in biblioteca .

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  • A mia moglie Valeria e ai nostri figli Guido e Camilla

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  • A parte gli eventi storici del Novecento e i fatti di cronaca che fanno da sfondo al racconto, i personaggi e le vicende in esso narrate sono frutto della miafantasia. Qualsiasi riferimento ad avvenimenti o persone reali è casuale.

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  • PREFAZIONE

    Questo bel romanzo di Ansoino Andreassi ha moltiprotagonisti, uomini e donne le cui storievariamente si intrecciano fra loro. Il principaleprotagonista è, però, il terrorismo degli anni ‘70/80,che origina, condiziona o accompagna le storienarrate.Il terrorismo di sinistra non è un fenomenoesclusivamente italiano. Alla fine degli anniSessanta, gruppi simili alle Brigate rosse (Br) ePrima linea (Pl) compaiono in altre democrazieindustriali: la Rote Armee Fraktion tedesca, l’Esercitorosso giapponese, i Weather Undergroundstatunitensi, la Nouvelle resistence populaire inFrancia. Tutti questi gruppi nascono come “costole”di movimenti collettivi e ne riprendono alcuneforme d’azione estremizzandole, per stabilire gliobiettivi da colpire. Ma il percorso imboccato con lascelta della lotta armata li porterà a un progressivoallontanamento da tali movimenti: con un gradualee definitivo abbandono della logica di interventopolitico, cui si sostituiscono forme anche estreme dimilitarizzazione del conflitto.Caratteristica esclusiva del nostro Paese, peraltro, èl’aver dovuto registrare un terrorismo di sinistrache ha raggiunto capacità offensive di entitàdecisamente maggiore rispetto a ogni altrasituazione e assai più persistenti nel tempo (le

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  • “prime” Br durano per circa 15 anni), per di piùcon tendenza alla riemersione ciclica, quasi che laviolenza terroristica sia un fiume carsico che noncessa mai di scorrere, neppure quando la storiasembra chiusa. Ben si comprende, allora, perché laletteratura sul terrorismo italiano di sinistra, dopoi primi anni di silenzio imbarazzato o negligente,vada sempre più arricchendosi, con saggi, inchiestegiornalistiche, interviste, biografie, documentari…opere nelle quali la riflessione etico-politica(quando c’è) si intreccia con la ricostruzione dellevicende delle principali organizzazioni clandestinee dei loro militanti.Gli ex terroristi (non si può non ricordarlo anchein questa sede) dimostrano uno scarso senso delpudore tutte le volte che tentano di giustificarequella stagione come un fatto generazionale o –peggio – come una fase in cui metodi e momentisbagliati compromisero giusti obiettivi. È vero: cisono sempre diversi punti di vista attraverso cuiraccontare ogni cosa, e talora ci sono anche piùverità. Ma ci sono verità prevalenti che non possonoin alcun modo essere taciute. E la storia delterrorismo ha una e una sola verità prevalente: ildolore causato. Il dolore dei “gambizzati” storpiati,che a trent’anni di distanza camminano a fatica osono costretti all’ennesima operazione chirurgica. Esoprattutto il dolore delle famiglie, che ancora oggi(e il tormento non avrà fine) pagano il terribileprezzo di lutti insensati. Questa ineliminabileverità prevalente impone – certo non il silenzio –ma sicuramente prudenza e onestà intellettuale.

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  • Il romanzo di Andreassi affronta i temi delterrorismo politico di sinistra secondo un’otticaparticolare. Delinea i percorsi di vita deiprotagonisti, sia quelli che sceglieranno dipraticare la violenza politica o saranno ad essacontigui, sia quelli che si troveranno ad operare susponde contrapposte.Speciale attenzione, intrecciata con considerazionicritiche che sanno dare ai problemi la giustadimensione, è riservata – nei dialoghi enell’inquadramento delle situazioni – allaprospettiva, presente in molti giovani di allora, diporsi con assoluta radicalità nella vita sociale:prospettiva che per alcuni finirà per essere unaforte componente della propensione alla lottaarmata.La stessa attenzione Andreassi dimostra neldelineare (con ampie e tuttavia sempre interessantipennellate) le interazioni politiche nelle città in cuiil fenomeno terroristico andrà poi maggiormentesviluppandosi, partendo dai fermenti (studenteschie operai) che puntavano a una società migliore, mache subivano anche la tentazione del radicalismo,spesso fondato sul richiamo a luoghi comuni chebanalizzano l’intelligenza con “evidenze dicomodo”, bloccando in realtà ogni filtro critico finoa privilegiare l’impazienza e le scorciatoiecriminali. “Fil rouge” dell’intera narrazione è unatenera quanto complicata storia d’amore,tratteggiata con grande sensibilità e dolcezza – fra idue principali soggetti del romanzo, con unamescolanza di considerazioni e vicende legate sia

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  • ad aspetti privati sia a impegni “professionali”diversissimi (sul piano delle scelte e delleconseguenze), che conferisce al romanzo un fascinodavvero suggestivo.Gli anni della guerra e della Resistenza democratica(contrastata dai fascisti repubblichini) costituisconoil primo scenario di fondo del romanzo, che poi siapre alla ricostruzione postbellica, con laprogressiva conquista di un benessere quotidianodiffuso ma ancora segnato in profondo da gravidisuguaglianze, con tensioni politiche fortissime chespesso esplodono in manifestazioni di piazzaduramente represse: mentre il fascismo riemerge“come un fiume carsico” e si annida subdolamente“dentro i gangli delle istituzioni, dentro la stessaDemocrazia cristiana, un qualcosa diprofondamente radicato nella borghesia efunzionale ad essa”. E sull’altro fronte “i comunisti,con il loro mastodontico apparato di partito,(finiscono per essere) risucchiati dai giochi dellapolitica e attratti dal miraggio del potere, pronti alcompromesso pur di raggiungere lo scopo”.Venate di nostalgia per le piccole, semplici cose, maricche di autenticità e freschezza, sono lerievocazioni di quel buon “tempo antico” che erafatto anche di “grattachecche” gustate comeprimizie da gourmet, di vino mescolato col brodoper insaporirlo, di giochi coi tappi delle bottigliettea rappresentare i campioni delle corse in bici, diberrettini con la visiera di plastica per ripararsidal sole e di tante osterie nelle quali ci si potevaritrovare fra amici.

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  • Di speciale interesse (è evidente che l’Autore lescrive in presa diretta con la sua esperienza sulcampo…) sono le pagine dedicate all’impegno delleforze dell’ordine sul versante dell’antiterrorismo. Visi rievoca innanzitutto la formazione dei priminuclei specializzati, che della specializzazione,appunto, e della centralizzazione dei dati (senzadispersioni controproducenti) sapranno fare lecarte decisive e vincenti in una guerra chequalcuno – dal mondo parallelo e cupo dellaclandestinità – aveva unilateralmente dichiarato:stabilendo quali nemici meritassero di essere colpitio annientati, e mettendo in pratica questo disegnoin maniera spietata per oltre un decennio, con uncrescendo di violenza che raggiunse livelli tali daindurre il Ministero dell’Interno a calcolare persinola cadenza oraria degli attentati! Una rievocazioneche si articola nella descrizione delle attività dicomposizione di un puzzle sempre intricato: dallaidentificazione dei terroristi alla localizzazione deiloro covi, con paziente e analitica ricerca deitasselli anche più minuti necessari allo scopo. Dauna traccia poco significante, via via – conpaziente sviluppo – a risultati di grande rilievo,attraverso pedinamenti, esame di reperti, contributidi polizia scientifica, confidenze, segnaliapparentemente confusi decifrati e quant’altrointelligenza e fantasia investigativa fossero capacidi inventarsi. Con rischi e pericoli gravissimisempre cupamente incombenti, tanto da indurre ipoliziotti dell’antiterrorismo a usare nomi dicopertura speculari ai nomi di battaglia con cui i

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  • terroristi coprivano la loro vera identità. Unarievocazione cui fanno da costante contrappunto leazioni delle Brigate rosse, nel libro spesso soloaccennate, ma con tratti sempre precisi efortemente incisivi che consentono di riandare conla memoria alle principali impresedell’organizzazione e alla sua progressivaescalation: danneggiamenti, sequestri di persona,rapine per autofinanziamento, gambizzazioni eomicidi; – arresti, fughe dal carcere e conflitti afuoco; – e insieme legami torbidi con servizi segreti,attività “logistiche” di falsificazione di targhe edocumenti, collegamenti internazionali per ilprocacciamento di armi, propaganda con idocumenti contrassegnati dalla famigerata stella acinque punte, capillarmente diffusi in una stagionespesso caratterizzata (quando non favorita) daslogan tipo “compagni che sbagliano” o “né con loStato né con le Br”.Andreassi non fa sconti, e delinea chiaramente lapossibilità che all’interno delle forze di polizia siapplichino diverse “filosofie”, con immediate erobuste conseguenze sul piano operativo, a partiredall’approccio con coloro che sono sospettati di essereterroristi o vengono arrestati in quanto tali. La sceltadell’autore (filtrata dalle riflessioni e daicomportamenti di Guido, poliziotto che ha nelromanzo un ruolo centrale) è univocamente nelsenso del rispetto – sempre e comunque dovuto – eper la persona e per le regole democratiche.Nello stesso tempo Andreassi sottolinea (ed è dispeciale rilievo che lo faccia proprio un poliziotto

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  • nato e cresciuto, istituzionalmente parlando, per larepressione dei delitti…) che “bisogna prima di tuttocapire; sì capire anche le cause di questo tipo diterrorismo… Certo non tocca a noi (poliziotti)intervenire sulle cause, ma noi possiamo aprire gliocchi ai nostri politici. Ci vuole una strategiaantiterrorismo a trecentosessanta gradi. L’azionerepressiva può non bastare”. Parole sacrosante(quanto quelle che ci ricordano come “cercare dicapirne le cause non vuol dire giustificare unfenomeno”), ma che al tempo stesso pongonointerrogativi piuttosto sconfortanti sulla capacitàdella politica italiana di affrontare i problemi delcrimine organizzato (non solo terroristico ma anchemafioso) senza limitarsi alla solita, comoda delega aforze dell’ordine e magistratura. Andreassi sa benequanta importanza abbia avuto l’intuizione che ilterrorismo andava sconfitto non solo sul pianoinvestigativo-giudiziario ma anche (se nonsoprattutto) sul piano politico. Bisognava isolarlo,andando nei quartieri, nelle scuole, nei circoli, nellesedi di partito e del sindacato, nelle parrocchie enelle fabbriche per parlare con la gente, per renderela cittadinanza consapevole che il terrorismo erauna minaccia non solo per le possibili vittime, maper tutti, in quanto fattore di imbarbarimento dellavita civile e di progressiva involuzione in sensoreazionario del sistema. Bisognava fare chiarezza,spazzando via tutte quelle incertezze e ambiguità(anticamera di contiguità e connivenze) che eranostate – agli inizi – presenti soprattutto a sinistra. E losi fece con gli strumenti della democrazia (riunioni

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  • e confronto), dimostrando così la forza delleistituzioni e riuscendo a tagliare un bel po’ di erbasotto le gambe dei brigatisti, posto che la rivoluzionepresuppone – per avere qualche probabilità disuccesso – il venir meno di ogni fiducia nelleistituzioni. A Torino, Palazzo d’Inverno di tutti gliestremismi italiani, in quanto città della Fiat, cittàoperaia, città comunista per antonomasia, capaceperciò di esercitare una speciale “attrattiva” sui varigruppi terroristici autoproclamatisi “partiticomunisti combattenti”, a Torino il mezzo principalecon cui si conseguirono questi risultati furono leassemblee. Assemblee cui parteciparono anche, conruoli spesso centrali, magistrati e poliziotti e che iterroristi definivano “di guerra”, quando invece siispiravano proprio al quadro complessivo cheAndreassi ben definisce enunziando l’insufficienzadella sola azione repressiva.Tornando al discorso delle diverse “filosofie” esoprattutto prassi operative che possono riscontrarsianche all’interno dello stesso ufficio di polizia(diversità di cui il romanzo di Andreassi offrecospicui esempi), si può ancora dire che il tema silega strettamente a quello della democrazia comeantidoto contro la violenza terroristica. Qual era lateoria dei brigatisti? Era che lo Stato democraticonon esiste, è puramente e semplicemente unafinzione, un paravento, una maschera. Noi brigatisti– dicevano – un colpo dopo l’altro (cioè un omicidiodopo l’altro, una gambizzazione dopo l’altra, unsequestro dopo l’altro) faremo cadere questamaschera, disveleremo il volto autentico dello Stato,

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  • reazionario e fascista, di negazione dei diritti, diogni possibilità di progresso, in particolare dicrescita del proletariato, delle classi sociali piùbisognose. E quando questo vero volto dello Statosarà disvelato, ecco che le masse – avendo finalmentecapito, grazie a noi brigatisti, come stanno davverole cose – si ribelleranno e ribellandosi si riunirannoautomaticamente intorno all’avanguardiaorganizzata già esistente, che siamo noi delle Br,innescando la palingenesi rivoluzionaria… Èevidente che semplifico molto, è chiaro che brutalizzoconcetti che persino i brigatisti esponevano a volte inmaniera più sofisticata, ma è per intenderci, percapire che siamo riusciti a non cadere nella trappolatesa dai brigatisti. Perché la risposta al terrorismobrigatista dal punto di vista legislativo ha raschiato –lo ha detto più volte la Corte Costituzionale – il fondodel barile della corrispondenza ai principi e precetticostituzionali, ma non è mai andata oltre. Come hasaputo non andare oltre i confini stabiliti dalleregole la stragrande maggioranza delle forze dipolizia giudiziaria impiegate in funzione diantiterrorismo, così contribuendo a “spiazzare” emettere in crisi i terroristi che ben altriatteggiamenti si sarebbero aspettati.Per concludere, il bel libro di Andreassi hal’indiscutibile merito (fra gli altri) di farci conoscereun po’ più da vicino – sia pure nell’ottica di unromanzo - i cosiddetti “anni di piombo”, che megliosarebbe chiamare (come hanno deciso alcunidocumentaristi) “anni spietati”. Forse le Br nonfiniscono mai e riaffiorano ciclicamente anche

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  • perché di quegli anni non si discute abbastanza,soprattutto coi giovani. Col rischio che ci si condannia quella che Barbara Spinelli individua come unapatologia tipicamente italiana: una perdita dellamemoria che sconfina nell’amnesia; una profondasottovalutazione del pericolo che si corre quando siocculta il passato. Un passato che per quantoriguarda i brigatisti comporta anche graviresponsabilità di scelte criminali che hanno offerto ilterribile spettacolo (sul quale Andreassi nel suo librospesso si sofferma) di una macabra usurpazione dilegittime istanze di lotta antifascista. Questausurpazione ha prodotto danni gravissimi col mitodella “Resistenza tradita” di cui le Br pretendevanodi raccogliere il testimone. Se oggi l’antifascismoincontra tante difficoltà, se il revisionismo dilaga èanche perché (Sergio Luzzato lo ha dimostrato) c’èstata da parte dei terroristi un’appropriazioneindebita, un uso arbitrario della eredità partigiana,che ha azzoppato la tradizione antifascista,svalutandone e indebolendone i valori, resiimpresentabili dal ricorso alla violenza criminale inun sistema democratico, che per affrontare i suoiproblemi non ha certo bisogno che il terrorismo necrei altri.Della “trama” del libro e del suo epilogo ovviamentenon parlo. Perché quello di Andreassi per certiprofili è anche un giallo. E come tutti i gialliinteressanti pretende riservatezza.

    Gian Carlo Caselli

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  • A PIAZZA SAN GIOVANNI

    Piazza San Giovanni era stracolma di gente e il cielo diquell’azzurro profondo e magico del maggio romano: DeGregori e la Marini cantavano alla folla in estasi “Bellaciao”, nella versione originale e cioè come era prima chedivenisse il canto dei partigiani: un canto accorato dellemondine, più che di protesta, di rassegnazione alla faticadell’oggi e ai soprusi dei padroni nella speranza di un futu-ro migliore. Ma forse i partigiani avevano deciso di adottar-ne l’aria per dare testimonianza della riscossa, facendo diquel lamento il canto del popolo in armi. O meglio l’aveva-no scelto proprio perché era tutt’altro che un lamento, mauna denuncia feroce nella sua apparente mitezza, capacedi evidenziare la brutalità dell’abuso e di suscitare sensi dirivolta. Come Le mie prigioni di Silvio Pellico, pensò Gui-do perso davanti al televisore, ma si sentì subito a disagiocome se avesse detto una fesseria in pubblico. Poi s’accorse che gli stava venendo un nodo in gola comegli capitava ormai spesso e cercò anche questa volta dicamuffare davanti a Lucilla e ai ragazzi l’incipiente statodi commozione. “È un segno di vecchiaia!” pensò e glivenne in mente che qualche giorno prima, nella ricorren-za del 25 aprile, aveva visto una trasmissione televisivasulla ritirata di Russia, durante la quale alcuni vecchi re-duci della Julia si erano messi a piagnucolare sull’ondadei ricordi. E lui con loro.Eppure al tempo della ritirata di Russia, Guido era appe-na nato e non capiva proprio perché dovesse commuo-versi tanto a sentirne parlare, come se l’avesse vissutaanche lui.

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  • Allora quel nodo in gola non dipendeva né dall’età né dairicordi, anche perché ne soffriva da almeno una decinad’anni.Decise perciò di analizzare la situazione e quando il con-certo del Primo Maggio stava per concludersi ritenne diavere, almeno da quel punto di vista, le idee un po’ piùchiare: il “nodo” era causato dalla “Storia”. Sì, dalla sto-ria delle generazioni che avevano costruito il suo Paese,dalle loro sofferenze che aveva rivissuto attraverso i rac-conti dei genitori e dei vecchi. Era come se, rievocandoun evento di quella nostra storia, lui venisse travolto dauna cascata di passioni, coinvolto in lotte, tribolazioni,paure, entusiasmi, dalla vita nella sua pienezza, mortecompresa. E allora vedeva irrompere soldati atterriti dalfragore delle cannonate o ansimanti come bestie al ma-cello negli assalti alla baionetta e poi folle urlanti, le cari-che dei carabinieri a cavallo, i singhiozzi delle donne edei bambini, una moltitudine in lotta per appropriarsidella vita, per rivendicare il diritto di esistere e di inse-guire i sogni. O anche l’incedere silenzioso, non violento,ma nondimeno implacabile, di una folla di proletari, del“quarto Stato” insomma come nel quadro di Pellizza daVolpedo. Al punto che se tentava di parlare, quel nodo gliserrava la gola e le parole uscivano ridicolmente lamen-tose.In quella dimensione, storia collettiva e ricordi individua-li si fondevano e si completavano. La storia siamo noi,nessuno si senta escluso; siamo noi padri e figli…aveva cantato Francesco De Gregori. Esattamente così.E questo era il patrimonio che gli premeva lasciare ai fi-gli, integro e arricchito del suo vissuto. Bandiere rosse in piazza, bandiere con il volto di Che Gue-

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  • vara, “Bella ciao” cantata in coro. Ma quanto restava degliideali che originariamente quelle icone contenevano?Le giovani generazioni guardano al futuro. Questo Guidolo capiva benissimo, ma sul resto era confuso. Un futuromigliore – pensava – lo si può costruire solo in continui-tà con i valori del passato, senza fratture, riconoscendo-si nella storia.L’esigenza del tutto umana e inarrestabile di andareavanti, di superare una fase storica, rileggendola magaricon maggiore obiettività, non poteva indurre alla rimo-zione della storia. Quante cose erano successe in quelle poche decine dianni! E lui ne aveva vissute intensamente molte. Avevagustato gli anni della ricostruzione e della conquistadella sua piccola porzione di benessere quotidiano, siera scambiato con i genitori tacite occhiate di intimasoddisfazione, quasi di orgoglio, davanti alla prima tavo-la imbandita come “cristocomanda”, o seduti sui sedilidi seconda classe imbottiti e comodi come quelli di “pri-ma” del direttissimo Roma-Milano, con tanto di postoprenotato. Aveva potuto pian piano fare sue le cose, untempo destinate a rimanere inesorabilmente nelle vetri-ne. E l’infanzia e la giovinezza erano corse così felice-mente che avrebbe voluto riviverle esattamente co-m’erano state.Lucilla lo ascoltava pazientemente quando rievocavacerti ricordi. Ma Lucilla era più giovane di lui e Guidonon riusciva a coinvolgerla fino in fondo. Forse non erasolo questione di differenza di età: era lui stesso in findei conti a farsi condizionare dalla paura di risultare no-ioso, alla quale si aggiungeva spesso una sorta di pudo-re a scendere nel dettaglio dei sentimenti o a svelare

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  • aspetti meno pittoreschi o poetici delle ristrettezze diun tempo, cosicché il racconto risultava quasi sempremonco e discontinuo, talvolta fino al punto da sembra-re inverosimile o banale. I ragazzi poi lo guardavano in-creduli e divertiti, come se raccontasse storie strava-ganti.Eppure desiderava tanto trasmettere loro le esperienze diquegli anni, la parte migliore di sé, che era poi sprofonda-ta nelle sabbie fini e insidiose della sua vita di adulto.Sentiva addosso un disagio strano, un senso come di op-pressione. Si guardò intorno in cerca di Lucilla e dei ra-gazzi. Mai come adesso avvertì che essi lo avevano ripe-scato da una voragine nella quale era stato risucchiato daeventi immensamente lontani dai sogni e dai progetti diun tempo. Quel senso di oppressione sembrava ora dargli tregua. Ein attesa che Lucilla o i ragazzi ricomparissero nella stan-za, si abbandonò ai ricordi, perché ricordare è come rivi-vere.Ripensò a quella finestra che si apriva sul Lungotevere esentì forte e struggente il desiderio di affacciarcisi anco-ra come nelle belle mattine di primavera di un tempo,quando, prima di andare a scuola, lo sguardo cadeva sul-le masse vaporose verde chiaro dei platani che bordava-no i muraglioni riflettendosi sulle acque del fiume.Si adagiò nel ricordo di quei momenti e riuscì a tornarenella casa di un tempo inondata di luce, nella cucina po-vera eppure beata, dove la madre preparava la colazionetra i trilli delle rondini e le note di quella canzone che di-ce Voglio vivere così col sole in fronte, fischiettatesommariamente dal padre.

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  • STILE NOVECENTO

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    Nell’Emilia più profonda, in quella parte della Bassa chesi estende uniforme al di sotto dell’argine destro del Po,in una serata di marzo Bicio, detto Folletto, ha lo sguardofisso su quei piccoli banchi di legno con i calamai di coc-cio delle scuole elementari del suo paese. Gli sembra ieridi aver finito la quinta e di aver lasciato la scuola con rim-pianto, perché studiare gli piaceva. Ma anche se era statopromosso in sesta con buoni voti, papà Zuanin sopranno-minato “Linguria” aveva detto alla maestra, con gli occhibassi e girando il cappello tra le mani, che loro non pote-vano permettersi il lusso di farlo proseguire. Così era fini-to anche lui a lavorare nei campi con gli altri fratelli.Gli sembra ieri e va verso quei banchi con lo stesso pas-so titubante del primo giorno di scuola.I militi delle Brigate Nere sono lì a parlottare davanti al-la porta e lanciano ogni tanto un’occhiata minacciosaverso di lui e gli altri compagni catturati durante la nottee pestati a sangue. Avevano tentato un’azione a sorpresa,concordata con i capi del Comitato di Liberazione Nazio-nale del capoluogo: disarmare il presidio della GuardiaNazionale Repubblicana del paese. Era andata male perloro cinque, ma gli altri erano riusciti a mettersi in salvo. Ma nessuno di loro ha parlato e se lo dicono orgogliosa-mente con gli occhi. Nessuno di loro ha tradito. Si fa co-raggio e s’infila nel piccolo banco: è così mingherlino cheriesce ancora ad entrarci nonostante i suoi vent’anni suo-nati.

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  • C’è una penna nella scanalatura del ripiano e Folletto laprende come una reliquia. Si accorge di piangere soloquando le lacrime gli impediscono di mettere a fuoco ilpennino per controllare se è pulito, come faceva sempreuna volta prima di iniziare a scrivere il dettato con la suacalligrafia ordinata sui quaderni che sembravano anchedopo mesi come usciti dalla tabaccheria-emporio delCanzioel, dove l’odore greve dei sigari toscani si mischia-va a quello della carta stipata.– Vuoi fare testamento? – chiede sghignazzando uno deimiliti, un ragazzo come lui con i tratti del volto stravoltida una maschera di ferocia che gli serve forse solo a na-scondere anche lui la gran voglia di gridare disperata-mente basta e ricominciare a vivere.Segue un conciliabolo tra i repubblichini, uno dei quali siallontana per ricomparire poco dopo insieme a un tiposegaligno e spiritato, di età indefinibile; sulla giubba del-la sua uniforme stazzonata spicca una croce vermiglia. Èil cappellano della brigata, con in mano alcuni foglietti dicarta a quadretti.– Se volete potete scrivere qualcosa alle vostre famiglie. Eanche confessarvi… – dice in tono forzosamente burbero.Si interrogano con gli sguardi smarriti e dopo qualcheminuto di esitazione prendono anche loro posto sui ban-chi in ordine sparso: Giovannino detto Dardo, fornaio;Sergio detto Boris, muratore; Luigin detto Civetta, con-tadino; James detto Volpe, meccanico, il più malconcio ditutti.– Una bella classe di asini! – sghignazza qualcuno fuori.Ma nessuno dei suoi commilitoni ride.E sembrano davvero degli alunni impacciati con i loro te-stoni chini sul foglietto e con la penna tra le dita legate.

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  • – Carissimi genitori, perdonatemi per questo dispiacere...– Cara Brunilde, la tua fotografia la porto con me dentrola fossa…– Miei cari tutti e paesani…Ognuno scrive il suo ultimo messaggio, così come gli vie-ne e come può.Folletto, con la più bella calligrafia che gli sia mai riusci-ta, scrive:Carissimi genitori, fratelli e sorelle, fatevi coraggioperché io sono sereno, anche se penso al dolore cheproverete per questa brutta notizia. Fate avere l’altrobigliettino alla Elisa, che volevo sposare a settembrese Dio avesse voluto. Vi volevamo dire proprio inquesti giorni che lei è in stato interessante. Vi bacioe abbraccio tutti e verrò da voi in sogno. Muoio da co-munista cristiano. State vicini alla Elisa e a mio fi-glio che nascerà. Vostro affezionatissimo Bicio.L’altro messaggio gli costa molto di più. Deve nascon-dersi più volte il viso tra le mani e così si sporca tutto diinchiostro peggio che da bambino: Elisa mia, chi im-maginava che sarebbe andata così quando abbiamoincominciato. Io ti vorrò bene anche da di là e soche tu mi risponderai. Il destino non ha voluto cheio vedessi nascere nostro figlio. Chiamalo Libero sesarà maschio e Libera se femmina. Parlagli di meappena capisce e speriamo che voi possiate viverein un mondo migliore. Elisa perdonami. Ti abbrac-cio forte forte e per sempre. Tuo Bicio. A rileggerle, quelle poche parole gli sembrano terribil-mente misere, rispetto alle mille cose che gli traboccanodal cuore. Ma a Elisa le parole non servono. Torna con lamente ai loro momenti felici, ai primi sguardi in piazza la

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  • domenica, al loro primo ballo durante la festa di san Ve-nerio. Gli pare di avvertire ancora il profumo dei suoi ca-pelli e il tepore del corpo morbido. Come è bella l’Elisa, lasua morosa! Si perde nel suo sguardo profondo di allora. Forse prima ha fatto solo un brutto sogno e si assopiscesperando che lei lo baci.È confuso quando lo ridestano.Vengono condotti tutti fuori e in fila s’incamminano ver-so il vicino cimitero, scortati da un plotone di repubbli-chini. Sta albeggiando e sotto il nebbione si avverte laprimavera. Arrivano attutiti i rumori del quotidiano risve-glio: gli zoccoli di un cavallo e le ruote del carro che avan-za sull’acciottolato, qualche colpo di tosse, un camionrantolante, il cinguettio dei passeri, un gallo.Mentre gli fanno scavare la fossa, la campana batte le sei eFolletto guarda verso la chiesa e cerca di scorgerne il cam-panile dietro la nebbia, ma la nebbia è troppo fitta. Anzi di-venta sempre più fitta fino a convincerlo che è solo unbrutto sogno. Quando la scarica del plotone di esecuzionefa crollare a terra il suo corpo, Folletto è già volato via so-pra la nebbia, sottratto per sempre alle miserie degli uomi-ni. Mai si è sentito così bene. Tutto gli è improvvisamentechiaro e così semplice da lasciarlo stupefatto.

    II

    È una splendida mattina di settembre e Guido è statosvegliato dal sole che rimbalza sui frontoni del “Palazzac-cio” e irrompe dalle finestre senza tende della nuova ca-sa, tanto più bella di quella di Terra di Lavoro, buia escrostata.

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  • Quando esce con la Annetta per andare a Tor di Nona, c’èagitazione intorno al tribunale.– Ma che c’è oggi al Palazzaccio? – chiede la Annetta alportiere.– C’è il processo per le Fosse Ardeatine. Oggi sentono ilquestore Caruso. È stato lui, dicono, a dare ai tedeschi inomi di quelli da mandare al macello.– O quelli o altri… i tedeschi l’avevano detto che avreb-bero ammazzato dieci italiani per ogni tedesco morto, senon si fossero presentati i responsabili dell’attentato divia Rasella – fa un avvocatuccio con una borsa malanda-ta sottobraccio.– Boni pure quelli… A Roma ci sono ancora gli Alleati, compresi gli scozzesicon il gonnellino. Guido è felice di scendere, aggrappatoalla borsa a rete della mamma, le scalette che dal Lungo-tevere portano a Tor di Nona, perché il mercatino lo af-fascina con i suoi strani personaggi e la sua clandestini-tà: soldati americani, anche negri, tante donne come fal-chi a scrutare le bancarelle della borsa nera nel tentativodi aggiungere qualcosa al misero boccone della tesseraannonaria, le grida dei venditori, le merci. Per lo più sibaratta: pasta in cambio di caffè o di surrogato marcaMoretto; farina, zucchero contro olio d’oliva; sigarettecontro uova fresche e così via. Ci sono anche dei ban-chetti con mucchi di tabacco da cicche raccolte per lastrada. Non si butta niente. I soldati americani vengono avendere le loro razioni in cambio di AM lire da spenderenei casini di via degli Avignonesi e di via Capo le Case.La Annetta, fatta scaltra come una faina dalla necessità,mercanteggia con una vecchia contadina dall’aspetto avi-do un pacco di cannolicchi che Peppe riceve con una cer-

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  • ta continuità dall’Opera Nazionale per i Combattenti, peravere in cambio patate e verdure fresche. Sono da pocoa Roma e si sono sistemati in una casa procurata loro dal-lo stesso ente al piano sopraelevato di un palazzo umber-tino del quartiere Prati. Vengono dalla Terra di Lavoro, dove Peppe era stato as-sunto un paio di anni prima, come meccanico, dall’OperaNazionale, grazie alla raccomandazione di un gerarca fa-scista. Avevano raggiunto Roma poco dopo la liberazionedella città, attraverso un viaggio lungo e avventuroso suun camioncino con le poche carabattole. Peppe aveva fatto appena in tempo, quando i tedeschiresistevano ancora a Montecassino, a sfuggire all’arruola-mento coatto. Era stato per ore in fila insieme ad altri po-veri disgraziati davanti al comando tedesco, con la An-netta incinta attaccata disperatamente a lui ad aspettareche venisse il suo turno.In quelle ore si sentono come persi in un labirinto osses-sivo, nel quale ogni percorso esplorato porta o verso cu-nicoli senza uscita o in direzioni assurde, che li separanoper farli ritrovare soli e senza difese nel momento piùbello ma anche più esposto della loro storia. La fila staper esaurirsi. È rimasto di guardia solo un soldato dellaWehrmacht, che li guarda con insistenza. Peppino si sen-te ancora di più confuso e incapace di valutare se il suodestino sia ormai inesorabilmente segnato o se ci sianoancora vie di scampo, chissà, magari non subito, ma di lìa qualche tempo. Ce l’avrebbe fatta la Annetta a tirareavanti, con un bambino da crescere? Ma sì, ce l’avrebbefatta almeno per un po’, anche perché sarebbe venuta adarle una mano la sorella Nilde. Il lavoro non le era maimancato, anche se si trattava ormai solo di rattoppare

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  • abiti vecchi o di rivoltarli. Poi sarebbe ritornato lui… Masì, Dio provvede. Non è la fine poi! Ma ad Annetta pareproprio la fine ed è come di pietra, con gli occhi fissi nelvuoto, aggrappata al suo Peppe, stretto nella giacchettalisa. Il soldato tedesco seguita a fissarli insistentemente. Aguardarlo bene non ha un aspetto cattivo. Sono soli ora,davanti al comando. Non ci sono occhi indiscreti e i fattiaccadono al di fuori di loro, come al cinema. Il militare hauno scatto: tira fuori chissà da dove un fagottello, lo fic-ca a forza sotto il braccio della Annetta sibilandoSchnell, schnell! e li allontana a spintoni, scomparendopoi dentro il portoncino del comando. Era accaduto il mi-racolo!Annetta e Peppe si allontanano barcollanti come se aves-sero preso una gran botta, poi si riscuotono e attaccanoa correre verso casa tenendosi per mano. Si fermano an-simanti nel portone guardandosi ancora increduli negliocchi. Si stringono e scoppiano in un pianto liberatorio.Annetta scarta il fagottello del tedesco: ci sono un paio discarpe ortopediche. Ne aveva proprio bisogno. Quando finalmente arrivano gli Alleati, la musica cambiain tutti i sensi, anche in quello letterale. Alle meste e ca-denzate note di “Lily Marlene” subentrano quelle menoromantiche dei boogie-woogie, che schiudono peròsquarci di allegria, di benessere e di vitalità mai speri-mentati.Le ragazze si danno da fare con quei ragazzoni simpatici.Annetta finisce di rattoppare abiti consunti e incominciaa confezionare per loro audaci vestitini in seta. In casaarriva l’abbondanza. Le “signorine” non pagano in valuta,ma in generi alimentari destinati alle truppe: uova in pol-

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  • vere, latte condensato, farina di piselli, marmellata, cioc-colata e altre cose mai viste. Ci sono anche le Camel perPeppino, che fino ad allora si era potuto concedere cin-que “Africa” al giorno. Peppe e Annetta si erano conosciuti a Littoria grazie allabonifica dell’Agro Pontino, provenienti da direzioni di-verse: lei a seguito della famiglia del fratello Anselmo,che aveva deciso di lasciare il paese in Emilia per trova-re maggiore fortuna in quella realtà in forte espansione,come migliaia di altri emiliani, romagnoli e veneti; lui re-duce da vari tentativi di sopravvivere con i mestieri piùdiversi, con un camion Fiat sbilenco e pochi stracci, de-sideroso di mettere meglio a frutto quell’unica risorsanell’avventuroso sviluppo dell’Agro Pontino.Non si presentava certo come un principe azzurro Pep-pe, ma così trasandato, spettinato e con la barba lunga siinseriva bene nell’ambiente multiforme e pionieristicodella bonifica. Aveva un suo fascino. Annetta aveva capi-to subito che era suo compito rimetterlo in ordine e unavolta ripulito Peppe non era affatto da buttare e lei ave-va un gran bisogno di crearsi una famiglia e di avere unasua casa, perché era rimasta terribilmente sola, nono-stante l’affetto dei molti fratelli e sorelle, da quando i ge-nitori erano morti a pochi anni di distanza l’una dall’altro:la mamma falciata come migliaia di altri italiani in quelperiodo dall’epidemia di febbre spagnola, quando lei eraancora una bambinetta. Era toccato allora alla Nilde, lapiù grande delle sorelle, accudire le altre, perché la non-na non ce la faceva da sola. E gli anni dell’infanzia eranopassati per loro nel rimpianto struggente delle carezzedella mamma. Il papà, ancora più taciturno da quandoera rimasto vedovo, se ne era andato qualche anno dopo

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  • in silenzio, stroncato da chissà quale malattia, senza chenulla, all’infuori della sua tristezza, facesse presagirne lafine, come spesso accadeva in quei tempi.Avevano fatto appena in tempo a fabbricare una bella ca-sa alla periferia del paese, con le loro mani, pietra su pie-tra, rubando, il padre e i nove figli, le ore al riposo e allefeste comandate. Ma la domenica il papà tornava a casacon una sporta piena di carne e di ogni ben di Dio per ri-compensarli della fatica. E dopo pranzo si sedeva all’om-bra del pioppo a leggere l’“Avanti” e a fumarsi il mezzotoscano.Annetta, come del resto le sorelle Zoraide, Gianna, Vilmae Nilde, era proprio una bella ragazza e in diversi al pae-se le avevano messo gli occhi addosso. Lavorava alla sar-toria dell’Artioli al quale il papà l’aveva affidata insiemealla Zoraide quando erano ancora poco più che bambine,perché imparassero un mestiere adatto alle donne. In ve-rità la sartoria Artioli confezionava solo abiti da uomo,ma l’apprendistato e i rudimenti del mestiere erano glistessi: ago e filo, mesi e mesi di imbastiture e sopraggit-ti, poi la macchina da cucire. Diversa era ovviamente nel-le sartorie da donna la scuola di taglio. L’Annetta e la Zo-raide erano sveglie e intraprendenti. Avrebbero potutofare ben altro se la morale corrente e le possibilità offer-te dal paese fossero state diverse. In breve tempo diven-nero le più brave fra le giovani lavoranti. La Annetta poi,abile a rubare il mestiere e a cogliere al volo le mode,portò una ventata di vita nella stimata ma ammuffita sar-toria dell’Artioli, che incominciò a sfornare non solo i tra-dizionali abiti della domenica o da cerimonia, ma anchequalcosa di più allegro e adatto ai giovani.L’Annetta rivelò per esempio una mano particolarmente

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  • felice nel confezionare calzoni alla zuava del tipo indos-sato da Rodolfo Valentino nel film “I quattro cavalieri del-l’Apocalisse”, molto richiesti dai giovani bellimbusti dellazona; e loro, quando venivano per le prove e si chiudeva-no con un Artioli ringalluzzito nel camerino con lo spec-chio, ripetevano a voce più alta del necessario che i cal-zoni dovevano essere pronti entro sabato perché c’erauna festa nel salone della villa comunale dove si sarebbeballato il tango. E così dicendo, nell’uscire dal camerinodi prova, lanciavano sguardi ammiccanti alla Annetta ealla Zoraide.Quando dunque l’Annetta aveva lasciato il paese al segui-to di Anselmo per andare a Littoria, non ne aveva risen-tito soltanto la sartoria Artioli, ma anche il cuore di più diqualche danzatore di tango. Le altre sorelle erano rimaste ancora al paese, Zoraide eNilde fermamente decise a restarvi, perché i loro morosiavevano lì le loro attività; Gianna e Vilma pronte invece atrasferirsi con i mariti a Littoria non appena Anselmoavesse individuato per loro una qualche possibilità di la-voro.Peppe era tanto diverso dai giovani del paese e non por-tava calzoni alla zuava né sapeva ballare il tango, ma An-netta se ne innamorò lo stesso. Si sposarono con tuttal’incoscienza e l’approssimazione di due giovani poveri-cristi che il destino ha fatto incontrare, che stanno beneinsieme e vogliono costruirsi una vita senza spaventarsidi dover partire da zero.Peppe aveva capito subito che era troppo rischioso con-tare solo sul suo sciaraballe per mantenere una famigliaed era riuscito a farsi assumere dall’Opera Nazionale peri Combattenti, che aveva condotto in quegli anni “la bat-

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  • taglia contro la mortifera palude” – così aveva detto il du-ce inaugurando Pomezia – ma che curava analoghe inizia-tive rurali sul Volturno. Fu così che Peppino e la Annettaarrivarono ancora sposi novelli nella Terra di Lavoro.

    Intorno al Palazzaccio la folla va aumentando.La Annetta sta ancora trattando con la contadina, quan-do si sente provenire da ponte Umberto un vociare mi-naccioso che sale di intensità, punteggiato da insulti, daparole terribili, da tonfi, da rumori indistintamente sini-stri come se la folla inferocita si stesse abbandonando auna violenza sconcia. Tutti corrono verso la vicina spalletta del Tevere e ancheAnnetta tenendo forte Guido per mano. Dalla folla si le-va un urlo lungo come di appagamento bestiale e Guido,affacciandosi al muraglione, fa appena in tempo a scorge-re un corpo che compare e scompare dalle acque del Te-vere in un alone rossastro. Quattro o cinque uomini loraggiungono con una barca e uno di essi si alza in piedi esi affanna a infierire con un remo su quei poveri resti, in-citato dalle grida della gente.– Hanno fatto bene! – esulta qualcuno lì intorno. – Era proprio un gran figlio di…– Ma chi era? Che ha fatto?– Era Carretta, il direttore di Regina Coeli. Ha dato unamano ai boia delle Ardeatine… Non era affatto così, ma nessuno avrebbe potuto convin-cere la folla in quel momento!Guido aveva già visto i morti nei bombardamenti e dalontano gli erano sembrati dei fantocci, ma non gli era ca-pitato fino ad allora di vedere degli esseri umani accanir-si su un loro simile ed eccitarsi reciprocamente come un

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  • branco di lupi all’odore del sangue, fino a farlo a pezzi. Sistrinse con quanta forza aveva alle gambe di Annetta eaffondò la testa nelle sue carni.

    III

    I due ragazzini sono al chioschetto di legno verde addob-bato di limoni e di noci di cocco, all’ombra dei platani delLungotevere a gustarsi una grattachecca in quella tardamattinata di metà luglio manco a dirlo soffocante. Guidol’aveva voluta alla menta, Marco all’amarena. La vecchiacicciona in camice bianco li aveva sì e no degnati di unosguardo al momento dell’ordinazione:– Due grattachecche da dieci.Poi aveva grattato quasi con fastidio il ghiaccio dalla co-lonna, servendosi di una specie di pialletta e il ghiacciotritato era finito nei bicchieri un po’ per forza di gravità,un po’ con l’aiuto dell’indice non proprio immacolato del-la vecchia, che aveva sapientemente rovistato il serbato-io dell’attrezzo. Gli sciroppi adesso: il verde smeraldodella menta, il rosso cupo dell’amarena. L’operazione erastata seguita con circospezione dai due ragazzini, perchéla vecchia non godeva di buona fama, al contrario del ma-rito, il sor Giulio, che era molto più generoso nella mesci-ta. Ma questa volta non aveva lesinato poi tanto e avevacompletato l’opera ficcando i cucchiaini dentro le gratta-checche, con lo stesso fastidio di prima accompagnatoperò da un sospiro liberatorio da fatica superata. – Ammazza! – fa Guido strabuzzando gli occhi per l’effet-to paralizzante del primo boccone di ghiaccio.– Tienilo un po’ in bocca come faccio io – consiglia Mar-

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  • co mentre pesta col cucchiaino nel bicchiere – quandohai succhiato tutto il gusto, poi lo inghiotti.La “circolare nera” in versione estiva, e cioè senza portee con i finestrini aperti, passa pigra, sferragliante e la-mentosa sui binari proveniente dal ponte Umberto, diret-ta verso l’isola Tiberina carica all’inverosimile, con ungrappolo di passeggeri aggrappati alla meglio sul predel-lino posteriore.– Che facciamo dopo? – chiede Guido. – Perché non andiamo dai preti a vedere se c’è qualcu-no?– Andiamo invece a Castel Sant’Angelo, alle acque putri-de – propone Marco.– Però lì ci stanno quelli di Borgo…Pausa. Quelli di Borgo sono ossi duri e non vogliono in-trusi alle acque putride. I due si concentrano nella pre-parazione della goduria finale: l’ultima sorsata dei resti ingran parte liquefatti della grattachecca.Er Zella è, come sempre, intento a ficcare pezzetti di car-ta e porcheriole varie negli interstizi dei muri di Tor di No-na e brontola a bassa voce. Capelli e barba lunghi e spor-chi, avvolto in un cappottone militare fermato alla vita conuna corda e lungo fino ai piedi scalzi e sudici. Non ha maifatto del male a nessuno e non reagisce nemmeno aglisberleffi. Dicono che fosse un artista che faceva mosaiciper le lapidi del Verano, diventato pazzo dopo la morte del-la moglie e dei figli sotto i bombardamenti a San Lorenzo.– A Zellaaa…! I due amici si fermano a guardare giù dal ponte Umber-to. Sul galleggiante der Tulli c’è gente in costume aprendere il sole. Altri fanno il bagno nel fiume.– Perché oggi pomeriggio non andiamo al pidocchietto?

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  • – fa Marco alludendo a una sala cinematografica a bassoprezzo sulla via Cola di Rienzo.– Non mi va. Fanno ancora Tarzan. L’ho visto dieci voltee m’ha stufato.Camminano in silenzio nelle loro camiciole di taglia so-vrabbondante con le Superga di gomma che quasi affon-dano nell’asfalto liquefatto dal caldo africano, abbagliatidal sole riflesso dalla facciata di travertino del Palazzac-cio.Mentre i due ragazzini camminano senza meta sul Lun-gotevere, l’ordinario movimento di mezzi e persone subi-sce come una repentina accelerazione: corre qualcosanell’aria di indefinito e di grave. Non si sa ancora che co-sa stia accadendo, ma nelle facce della gente, neglisguardi che si incrociano per interrogarsi, c’è sgomentoe apprensione. C’è la paura di tornare indietro, di ripiom-bare nel caos, di perdere quella meravigliosa condizionedi pace e di operosità da poco faticosamente riconquista-ta.– Hanno sparato a Togliatti! – grida qualcuno e subito in-torno a lui si assiepa gente per chiedere dove, quando, seè morto, chi è stato. La piccola folla aumenta, aggrega in-torno a sé altri passanti, altri gruppi si formano rapida-mente nei pressi e si attraggono; come branchi di stornivagano da un punto all’altro, si frammentano, si ricom-pongono fino a formare una grande nuvola scura, minac-ciosa.– Gli hanno sparato a Montecitorio. Tutti a piazza Colon-na! Stavolta non ci ferma nessuno – grida un uomo sullaquarantina. Nella sua magrezza che fa risaltare gli occhispiritati, nell’abituccio misero e consunto si leggono leprivazioni di quei giorni, ma nello sguardo e nei modi ri-

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  • soluti c’è la smania di uscirne, di afferrare al volo l’occa-sione giusta per saldare i conti ancora in sospeso. Lo se-guono altri come lui: un gruppo ristretto affiatato e de-terminato. Lo si capisce al volo.Guido fa in tempo a scorgere che uno di loro nascondesotto la giacca una pistola infilata nella cinghia dei pan-taloni e dà un’occhiata ammiccante a Marco. Assiepati di fronte al caffè Ruschena ci sono distinte si-gnore e professionisti del quartiere, per lo più abitato daavvocati, data la vicinanza del Palazzaccio. Osservanocon artificioso distacco, ma tra di loro si scambianosguardi di disapprovazione, disgusto e soprattutto pauraper quella fiumana di popolino che avanza urlando. Qual-cuno intona “Bandiera rossa” ed è l’innesco di un coropossente e rabbioso. I volti dei buoni borghesi del caffèRuschena diventano lividi. Che cosa vogliono questi pez-zenti? Le hanno buscate alle politiche e si devono solorassegnare. Ma Scelba non scherza e vedrai come gli fa-rà abbassare le penne… Le signore sbiancano e sussur-rano “gesù mio” pensando, per un bisogno istintivo diprotezione, a un Gesù più prossimo, a un crocifisso incarne e ossa: si staglia nella loro mente atterrita la figuraieratica, signorilissima di papa Pacelli con le braccia spa-lancate e gli occhi rivolti al cielo in segno di infinita pie-tà, come nella fotografia apparsa sui giornali quando an-dò a visitare il quartiere di San Lorenzo dopo i bombar-damenti. C’è chi dice che la veste candida del Santo Pa-dre si sporcò perfino di sangue. E il re, i Savoia…È pro-prio una repubblica. Chissà dove andremo a finire!– Quel Togliatti poi, non se l’è cercata? Se fosse per luiquesta povera Italia sarebbe già finita nelle grinfie di Baf-fone. E allora addio piano Marshall e aiuti americani. I co-

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  • munisti, i partigiani sono belve, cercano solo l’occasioneper ricominciare con gli ammazzamenti e le vendette,per distruggere, per arraffare, per fare i loro comodi, persbeffeggiare perfino la nostra fede. Gentaglia che non hanulla da perdere.Il giornale radio dà qualche notizia in più: è ferito grave-mente, lo opera Valdoni.– Pensa tu! Addirittura Valdoni per quel maiale. Quandogli hanno sparato, vicino a lui c’era la sua amica, quellaNilde Iotti, la partigiana… peccato che non hanno becca-to anche lei. L’attentatore si è fatto arrestare.I negozi abbassano le saracinesche, i tram si fermano, siferma tutto. Sciopero generale! Tira una brutta aria.Piazza Colonna è invasa e la folla preme minacciosa suPalazzo Chigi. Entrano in azione gli “scelbini”, tentano icaroselli con le jeep regalate dagli americani, ma non c’èspazio sufficiente per manovrare. Sparano! L’ondata del-la folla si ritrae come nella risacca. Si incominciano a sca-vare i sampietrini per fare le barricate sotto la galleriaColonna.Anche Guido e Marco si danno da fare e aiutano a porta-re selci sotto la galleria insieme ad altri ragazzini. – Bravo maschio! – fa a Guido uno dei dimostranti con lafaccia da duro e la cicca tra le labbra. – Ma adesso anda-tevene. Non se ne parla nemmeno. Mica hanno paura. Guido faanche lui la faccia da duro mentre incita Marco. Un nugo-lo di celerini con elmetto e divisa grigio-verde compare al-l’improvviso non si sa da dove e si avventa sui dimostran-ti a colpi di manganello. Segue un corpo a corpo furibon-do. Manici di piccone contro manganelli. Nonostante gli

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  • elmetti qualche poliziotto ha la faccia insanguinata per lemazzate, qualcun altro cade e su di lui infierisce la folla.Sopraggiunge in soccorso uno squadrone di carabinieri indivisa cachi, inquadrati e compatti nonostante la confu-sione, implacabili come una mandria di bufali. A romper-si sono questa volta le teste dei manifestanti, sotto i calcidei moschetti che si abbattono con durezza contadina.Volano pietre. Si sentono ancora altri spari. Non è più ariaper i ragazzini. Guido e Marco se la battono infilandosi trale gambe dei manifestanti e nonostante la ressa riesconoa raggiungere la vicina piazza San Silvestro, dove c’è me-no gente e la situazione sembra più tranquilla. Chiusi imagazzini de La Rinascente e quelli prospicienti dellaStanda, chiuso il caffè Aragno, chiuso tutto. Vicino casa incontrano alcuni amici del quartiere con ri-spettive mamme e sorelle accaldate e cariche di sporte,secchielli e palette. Hanno fatto appena in tempo a tor-nare da Ostia con il trenino prima che venissero interrot-te le corse per lo sciopero generale. Poi però se l’eranodovuta fare a piedi fin dalla Piramide. Per fortuna che aponte Testaccio avevano trovato una bancarella col coco-mero fresco. – Daje ch’è rosso! Raccontano le loro peripezie, come avevano saputo del-l’attentato nello stabilimento balneare Belsito sentendo ilgiornale radio dell’una, come tutti in spiaggia si eranoprecipitati verso la stazione del trenino per non rimane-re bloccati, per ritornare il più presto possibile a casapreoccupati per i mariti, i padri, i parenti, gli amici.– Noi stavamo a piazza Colonna. C’è stato un bel casino!– fa Guido con l’espressione di chi può dire c’ero anch’io,ma non la può raccontare tutta. Il portiere dello stabile,

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  • con la giacca della divisa grigia sbottonata e il berretto inmano per asciugare il sudore, racconta col suo sgraziatoaccento marchigiano, di aver saputo da un amico che fal’infermiere al San Giacomo che Togliatti non è morto,anzi ha parlato dopo l’operazione di Valdoni e ha racco-mandato la calma. Ha detto proprio state calmi, non fatesciocchezze. Possibile? Stanno tutti a sentire a boccaaperta e vorrebbero saperne di più, ma il portiere ammu-tolisce e si ricompone frettolosamente. Si avvicina al por-tone a passi decisi per rincasare il generale Leccisi, pen-sionato, impeccabile nel suo abito chiaro, con tanto dipaglietta e bastone da passeggio. Il portiere saluta in mo-do ossequioso, accennando a un inchino piuttosto goffo.Il generale risponde con misurata sufficienza, poi si fer-ma di colpo, scruta con aria severa quel campionario digentucola, rimane per qualche secondo in silenzio con gliocchi vitrei fissi nel vuoto. Si nota chiaramente tutto iltravaglio del pensiero in formazione. Infine sillaba quasiin tono minaccioso: – Il momento è grave. Bisogna tenere la testa sulle spalle– e s’inoltra impettito nel portone, seguito dagli sguardiperplessi della combriccola. Appena è scomparso all’oriz-zonte, alcuni ridacchiano e ad altri viene la tentazione difare una pernacchia. Il portiere, per rimarcare che lui la sa lunga e non è pro-prio l’ultimo degli ignoranti, se ne esce con: – Faceva bene Nerone, che li ammazzava tutti a cinquan-t’anni! – E non soddisfatto prosegue: – Potevamo maivincere la guerra co ‘sti campioni. Altro che calma. Nonli ferma più nessuno questi. Manco Togliatti.In effetti, la tensione cresce in tutto il Paese. La radionei suoi scarni comunicati parla di gravi incidenti, an-

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  • che con morti, a Napoli, Taranto, Livorno, Genova.L’Italia è paralizzata, spezzata, con i treni fermi e i tele-foni in gran parte interrotti. Durante la notte Guido ri-pensa agli scontri di piazza Colonna. I genitori l’hannosgridato e domani di uscire proprio non se ne parla. So-no preoccupati soprattutto per i parenti della mammache vivono nell’Emilia rossa, nel paesino della Bassa,dove la guerra tra partigiani e repubblichini è stata par-ticolarmente cruenta e ha lasciato strascichi di odio.Loro sono stati sempre molto prudenti, hanno pensatosolo a lavorare e a tirare avanti, ma la Carla, la figlia delSarnagòn, aveva conosciuto quel mascalzone, il Russin,che l’aveva tirata tra i partigiani a fare brutte cose. Ungiorno quella disgraziata si era presentata di notte a ca-sa della Nilde con il suo amico, i mitra sotto al tabarro euna valigia piena di soldi e di cose d’oro, rubati chissàdove. La Nilde non la voleva tenere, tremava dalla pau-ra, poverina, ma quella brutta faccia del Russin l’avevaguardata fissa bisbigliandole in tono minaccioso di nonfare storie e di tenere la bocca chiusa, ché loro sarebbe-ro tornati a riprendersi la valigia entro un paio di gior-ni. Erano tornati eccome, e se l’erano portata via. Me-glio non sapere! E non era stata la svergognata dellaCarla a rapare a zero la figlia del farmacista e a trasci-narla per tutto il paese con le armi puntate, lei e i suoicompagni con i fazzoletti rossi al collo, perché andavacon un fascista di Reggio?La mattina dopo, mentre Guido sta facendo ancora cola-zione, Peppino ascolta preoccupato il giornale radio.Scelba accusa i comunisti di voler scatenare una insurre-zione. Ogni tentativo di manifestazione sarebbe però sta-to represso con la forza. A Genova i manifestanti hanno

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  • disarmato la polizia e si sono impossessati anche di alcu-ni autoblindo. C’è veramente aria di rivoluzione.Ma chi è questo Pallante che ha sparato a Togliatti? Chi loha mandato? Dicono che è un esaltato, uno studente uni-versitario siciliano iscritto al Partito liberale, che ha agitodi testa sua, perché, secondo lui, era stato il Migliore – co-sì Togliatti veniva chiamato dai compagni di partito – adare ordine ai partigiani di massacrare tanta gente.“Ma non venissero a raccontare storie” dicono altri: Ughet-to il benzinaio è stato visto parlottare con altri comunisti,e uno di loro, quello che sta alle Botteghe Oscure, è sicu-ro che si tratta di un vero e proprio complotto dei servizisegreti americani in combutta colla mafia per mettere fuo-ri giuoco i comunisti, privandoli della guida del Migliore.Avevano fatto male i conti però! Togliatti questa volta de-ve finirla di frenare. Tutti in piazza, e con le armi! È arriva-to il momento di svoltare veramente. Se no che l’abbiamofatta a fare la Resistenza e la guerra partigiana? Per met-tere l’Italia in mano a De Gasperi e al Vaticano?Guido è riuscito a convincere i genitori a lasciarlo anda-re almeno “dai preti” insieme a Marco e ad altri ragazzinidel quartiere. La chiesa è così vicina che dalle finestre dicasa Annetta può vederli giocare nel cortile dell’oratorio,mentre lei fa la sfoglia con le uova delle galline che hamesso in terrazza.Sono una decina impegnati in una tappa del Giro di Fran-cia, quella di oggi Cannes-Briançon. La pista, disegnatacol gesso sul pavimento del cortile, è lunga e tortuosaperché è una tappa di montagna. Ci sono le Alpi. Ognu-no fa tre tiri per volta, tre “schicchere” con le dita al tap-petto metallico delle bottiglie di birra, cercando di man-tenerlo entro il tracciato della pista. Non è facile, specie

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  • nei punti in cui la pista si riduce a una semplice linea ser-pentiforme che rappresenta i tratti più duri delle monta-gne sulle quali i corridori si devono inerpicare. Guido il suo tappetto, come la maggior parte degli altriragazzini, lo ha levigato e zavorrato con un po’ di stuccoda vetraio per farlo scivolare meglio.Tutti, meno Marco, vorrebbero fare Bartali, anche se èmolto indietro in classifica: settimo a 21 minuti dallamaglia gialla Louison Bobet. Del resto è l’unico campio-ne in gara per l’Italia, visto che Coppi non se l’è sentitadi partecipare al Tour. Marco non ci tiene perché il pa-dre, che è tipografo dell’“Unità”, fa il tifo per Coppi.Bartali è sì un campione, però è un “baciapile”. Allora aMarco tocca fare l’odiato Bobet. Guido è Bartali, il vec-chietto che ha già vinto il Tour dieci anni prima e chis-sà che non ritiri fuori la grinta di una volta. Ma è un so-gno. Non ce la può fare con quel distacco. La gara par-te e Guido ce la mette tutta. Marco difende la sua ma-glia gialla, studia attentamente il tracciato della pista, sisdraia per terra per indirizzare meglio i suoi tiri. È pal-lido e gracile, visetto distinto, da signorino. I capelli sot-tili e ondulati, con il ciuffo che si appiccica alla fronteper il sudore e gli occhi infiammati. Anche se fa caldo,tossisce spesso.– Ma che sei tubercolotico? – sbotta il Cacalocchi. Marcoavvampa e per un attimo rimane in silenzio con unasmorfia strana nel visetto, tra la stizza e il pianto. Poi siriscuote e replica con un – Ma vaffa…–. Tocca a lui es’impegna ancora di più. Si va verso la serpentina dellemontagne e la schicchera di Marco è un po’ troppo forte.È fuori per un pelo. – Daje Bartali!

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  • incitano i compagni e Guido col primo tiro riesce a por-tarsi al bordo esterno di un’ampia curva e col secondo atagliare bene il percorso senza uscire di pista. Col terzo èin testa tra le grida di gioia degli altri corridori. Anche sulvolto di Marco aleggia un sorriso.Intanto i disordini seguitano a divampare in diverse città.I morti tra forze dell’ordine e dimostranti sono saliti auna quindicina o forse anche di più, dicono i ben infor-mati. A Torino la Fiat è in mano agli operai e a Milano sistanno tutti concentrando in piazza Duomo.Ma non sono solo i ragazzini a pensare al Giro di Francia.C’è chi – e sono molti – nonostante la tensione che gravasul Paese e il rischio di ripiombare nelle violenze, tienel’orecchio teso alla radio per sapere che cosa stia succe-dendo al giro. Ci sono cime impegnative oggi, speciel’Izoard. Il toscanaccio è forte in salita. È coriaceo, se nefrega del freddo e della strada bianca tutta buche e brec-cia. Chissà che non riesca a guadagnare una manciata diminuti. Poi domani c’è un’altra tappa dura, c’è la scalatadel Galibier e anche lì…Molti stanno con le orecchie tese, nonostante tutto. Per-dio, si avrà pure diritto a un minimo di svago, a seguirelo sport preferito, questo ciclismo che è rinato; a discu-terne con gli amici al bar, a fare il tifo. Si avrà il diritto ditornare a sorridere, di campare insomma! Invece si ri-schia di tornare indietro. E pensare che due anni fa, conla guerra appena finita, avevamo avuto la forza di rifare ilGiro d’Italia. E la gente era tornata ad abbracciarsi, a sor-ridere, a dimenticare l’odio e gli orrori. Che gioiosa folliaquel giro! C’erano macerie dappertutto, i ponti distruttidai bombardamenti, le strade piene di buche, molte nonancora asfaltate. Non fa niente! Si corre lo stesso, riden-

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  • do proprio come pazzi, per tornare a vivere, per abbuf-farsi di vita, dopo che è stata tanto negata.Bartali arranca su per i tornanti dell’Izoard. Forza Barta-li! Bobet è cotto. Bartali guadagna terreno, lo lascia in-dietro, uno a uno lascia indietro tutti gli altri. Bartali èprimo sulla cima dell’Izoard! Si grida vicino alla radio ser-rando i pugni, si piange di gioia come non accadeva datroppo tempo. Bartali si getta a capofitto nella discesa.La sua faccia è incrostata di fango e sfigurata dalla faticae dal freddo, ma ha staccato tutti. Un urlo: ha forato. Im-precazioni, bestemmie, morsi alle mani. Ma fa presto acambiare la ruota. Quanto ha guadagnato finora? Ha re-cuperato quasi tutto il distacco. Incredibile!La notizia incomincia ad attraversare la folla, a Milano, aTorino, a Genova, a Roma, a Napoli, ovunque. Entra neipalazzi del potere. Il traguardo non è lontano, Bartali èsempre primo. Bartali vince, Bartali ha vinto! Ha vinto!È un’esplosione di gioia: nelle piazze sulle quali incombe-va una livida atmosfera, i manifestanti e i poliziotti si ab-bracciano e gridano insieme “Viva Bartali, viva l’Italia”.Ovunque si esulta: nelle strade, nei cortili delle case po-polari, a Montecitorio. Anche Togliatti sorride.Guido alza le braccia in segno di trionfo. Il pericolo è pas-sato. Domani potrà di nuovo uscire.

    IV

    Il desiderio di non tralasciare nulla per garantire a Guidotutte quelle opportunità che loro non avevano avuto, in-dusse Annetta e Peppe a seguire, come meglio potevano,l’esempio dei “signori” – come dicevano loro – e a spin-

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  • gerlo a frequentare i preti e cioè l’oratorio della vicinaparrocchia, dove andavano anche i rampolli delle famigliepiù abbienti del quartiere. Non che fossero convinti cheall’oratorio Guido sarebbe stato in tutto e per tutto equi-parato ai coetanei più fortunati, ma pensavano che co-munque avrebbe tratto benefici da certe frequentazioni.Ma anche all’oratorio Guido si ritrovò aggregato ai proprisimili e cioè a figli di portieri, domestici, pizzaioli e picco-li artigiani, che venivano convogliati in massa versol’Azione Cattolica e confinati in uno stanzone seminter-rato del complesso parrocchiale, dove la risorsa più am-bita e contesa era il tavolo da ping-pong.I figli dei “signori” avevano invece a disposizione, comeappartenenti alla Congregazione, locali ben più acco-glienti e godevano della precedenza nell’uso del lungocortile interno dove si disputavano partite di “palletta”,qualcosa di simile all’odierno calcetto.Una volta, i preti organizzarono una festa di Carnevale,ma quando Guido si presentò all’ingresso del teatrinodell’oratorio mascherato da Alì Babà, con il costume chegli aveva cucito la mamma, un capetto dei “Congreguer-ci” – così chiamati per disprezzo dagli “aspiranti” del-l’Azione Cattolica – non lo fece entrare perché – così dis-se – la festa era riservata a loro.Guido era scortato da tre dei più svegli dei suoi coetanei:Giancarlo, Marco e il “Cacalocchi”, i quali avevano moltoammirato il costume dell’amico e con una serie di “Am-mazza!” ne avevano esaltato la forte somiglianza a quellodi Alì Babà ragazzo nel film in technicolor Alì Babà e iquaranta ladroni. – Tu entri lo stesso, non ti preoccupare – lo rassicuròGiancarlo e se lo trascinarono per una serie di passaggi

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  • segreti, con scavalcamenti impegnativi di cancellate dife-se da spuntoni, fino ad arrivare con il costume miracolo-samente incolume proprio dietro al palco dove erano giàallineate, per la premiazione, altre mascherine: fate, da-mine del Settecento, Pecos Bill, Zorro, Corsari Neri etc.In un attimo anche Guido è tra i concorrenti. C’è qualcheistante di evidente irritazione e di silenzio imbarazzatosia da parte del prete che fa da presentatore sia da partedel pubblico di ragazzini perbene e rispettivi familiari.Poi il prete-presentatore si riprende e saluta con finta af-fabilità l’intruso: – Che sorpresa! Abbiamo anche Aladino,che è piovuto certamente qui col suo tappeto volante.Ah, ah!C’è un brusio tra il pubblico, seguito dagli applausi e dal-le grida dei tre amici di Guido.– Ma quale Aladino… è Alì Babà, Alì Babà, Alì Babà – tut-ti quanti in coro.Ma Alì Babà non vince, manco a dirlo, alcun premio. Bel-lo il costume: turbante, blusa e le ampie braghe alla tur-ca di un bel tessuto celeste lucido, meglio ancora il cor-petto in velluto nero con ornamento di lustrini. Le scar-pe però proprio non vanno, perché non sono ricamate econ le punte all’insù come quelle di Alì Babà e anche lasciaboletta che ha appesa al fianco non ricorda nemme-no lontanamente una scimitarra e anzi appare del tuttoridicola. Peccato! Giancarlo si ferma di botto mentre camminano per la stra-da mogi mogi, con la coda tra le gambe. Smucina con lemani infilate nelle tasche dei calzoni corti, contempla esta-siato un grande manifesto di Silvana Mangano anche lei incalzoni corti e con le calze scure che lasciano scoperte lecosce proprio nel punto più interessante. – Ammazza

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  • quant’è bona! – esclama con tutti i sentimenti. Gli altri ap-provano e sghignazzano. Riprendono a fare caciara.

    Il benessere incomincia a fare capolino anche a casa diGuido.Hanno fatto fatica a portarla su per i cinque piani e la An-netta ha trepidato per paura che la rovinassero. Ma ora èlì a riempire la stanza, elegante e signorile: buffet e con-trobuffet entrambi con specchio rettangolare di diversalunghezza. Al centro il tavolo grande, anch’esso rettango-lare, con sei sedie imbottite belle pesanti. È completa-mente nera lucidata a specchio. Certo non è di legnomassiccio, ma, come si dice, tamburato. Ma adesso mas-sicce non vanno nemmeno più. Annetta e Peppe control-lano che non ci siano graffi. Lei passa delicatamente unamano su un angolo del tavolo osservando in controlucequella che le sembra una imperfezione. No, è soltantol’unto delle mani dei facchini.Stanno montando il lampadario di cristallo, a sei bracciche ricadono in giù, intercalati da foglie di acanto.Quando l’elettricista ha finito di avvitare l’ultima lampa-dina da venticinque candele, è Peppe che gira la chia-vetta dell’interruttore: uno spettacolo, una cascata diluce che si riflette sullo specchio nero del ripiano del ta-volo.Si guardano soddisfatti.– Sarai contenta adesso! – fa Peppe alla Annetta che datanto tempo lo tampinava e lei fa una smorfia trionfalesottolineata da un gesto delle mani come per dire “Locredo bene. Guarda che roba…!”. Tante privazioni, tanteeconomie, tanta strada fatta a piedi perfino per rispar-miare il biglietto del tram – fino a piazza Vittorio magari

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  • per risparmiare sulla spesa – tante ore passate a cucire ivestiti per le servette venete, ma ne è valsa la pena.– Ma che stile è? – se ne esce il portiere sopraggiunto acuriosare.– È stile Novecento – interviene, tra l’altezzoso e lo stiz-zito, Guido che l’aveva più volte sentito dire dai genitoriquando la sera si sognava tutti insieme aspettando la ca-mera da pranzo.Littoria è stata ormai ribattezzata Latina e Gianna vi si ètrasferita anche lei con il marito, che però non ha avutocon l’officina da meccanico auto-moto la fortuna speratae ha dovuto adattarsi a fare l’operaio in una fabbrica divasche da bagno per sfamare la famiglia in forte crescita.La Gianna non se ne sta con le mani in mano e sembraaver trovato il filone giusto per arrotondare il magro bi-lancio familiare: il plissettato, visto che sono di moda legonne con le pieghe a fisarmonica. Tutte le famiglie delvicinato ricorrono alla Gianna che sa plissettare bene e abuon prezzo, e anche diversi coloni dei poderi sparsi nel-le campagne, ai quali la Gianna fa le consegne a domici-lio in bicicletta, ritornando poi a casa con polli e verdure. Come riesca a fare il plissettato senza i costosi macchina-ri a vapore usati dagli altri nessuno se lo chiede, visto chei suoi lavori soddisfano la clientela.Il metodo è e deve restare segreto. Nessuno, all’infuori dilei e della figlia maggiore, può entrare nello sgabuzzinoche funge da laboratorio. Il perché è presto detto: non vitroverebbe altro che sagome di cartone, pezzi di marmoe un ferro da stiro. E la tecnica è altrettanto elementare:basta stirare bene il tessuto, inserirlo tra due stampi dicartone a plissé e lasciarlo un paio di giorni pressato trai pezzi di marmo perché prenda bene la piega.

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  • Alla Gianna l’aveva insegnato per solidarietà fra donnesul fronte del bisogno un’amica che aveva diversi figli dasfamare e lo stipendio del marito, anche lui operaio infonderia, che non bastava a mettere insieme il pranzocon la cena. Finché dura…

    V

    Ci tornavano spesso al paese perché Annetta aveva sem-pre una gran voglia di rivedere i parenti e soprattutto dichiacchierare con Zoraide e Nilde. Era però anche l’occa-sione per comprare a prezzi convenienti qualche capo divestiario, maglieria e l’immancabile pezzo di parmigiano.Anche Peppe ci si trovava bene, nonostante ironizzassespesso sul dialetto emiliano, sul pane di quelle parti chenon aveva la mollica e non si poteva quindi intingere nelsugo, e sul fatto che l’olio d’oliva non venisse assoluta-mente preso in considerazione nemmeno per condirel’insalata.Guido non vedeva l’ora di tornarci ogni volta, sia d’estatesia d’inverno.– Modena, stazione di Modena. Per Carpi, Suzzara, Man-tova si cambia.L’avviso diffuso con l’altoparlante in marcato accento lo-cale gli metteva addosso un grande buonumore e, se eraestate, smanie di corse in bicicletta, di canne e di reti dapesca, di pesci gatto neri con la pancia gialla, di carpe do-rate, di rane, di bambine bionde e dalle buone manierepaesane nei loro vestitini della festa, che si ritrovavanonell’ombroso giardino della Villa comunale.

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  • D’inverno, e cioè durante le vacanze di Natale, le pro-spettive erano ovviamente diverse ma egualmente attra-enti: il fascino della nebbia, qualche volta la neve, i vec-chi col tabarro, le grandi tavolate con i parenti nelle cu-cine grondanti di sapidi vapori. Si ripetevano di anno inanno i riti della tradizione contadina: tortelli di zucca o dispinaci affogati nel burro per rispettare il magro la seradella vigilia, e per il pranzo di Natale cappelletti in brododi manzo e cappone, poi zampone e altri bolliti con salsaverde e mostarda. Lo zio Dante seguitava, secondo una vecchia usanza cheaccordava questo privilegio solo agli uomini, a bev’r invin, cioè ad aggiungere un po’ di lambrusco al brodo deicappelletti.Nonostante le insistenze di Dante e la sua alterata delu-sione di fronte al rifiuto, Peppe e Guido non avevanoavuto mai il coraggio di provare quella variazione per glieffetti cromatici pessimi che la mistura provocava nelpiatto.

    In genere, bisognava aspettare un bel po’ alla stazione diModena per il treno locale, ma l’attesa non era noiosa: siincontrava spesso qualche lontano parente o conoscentedel paese e sempre, d’estate e d’inverno, Egisto, anchelui un mezzo parente, rotondetto, sorridente e affabile,con il quale la Annetta si fermava sempre a spettegolare,perché Egisto era come il gazzettino. Guido non si chie-deva come mai quell’ometto non più giovane, che in pae-se faceva il sarto, si trovasse sempre a passeggiare in sta-zione con aria comicamente cospirativa. Gli stava simpa-tico e tale restò per lui anche quando, divenuto più gran-dino, capì che Egisto stava sempre lì non perché fosse un

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  • amante dei treni, ma perché era un “culattone”. Lo eraperò in maniera così garbata da non destare scandalo eda risultare alla fine simpatico a tutti per il suo modo difare partecipe e affettuoso, quasi a voler farsi perdonarequella sua diversità.Il treno locale o, come lo chiamava da piccolino, il trenocol fumo s’identificava per Guido, come per molti bambi-ni della sua età, con l’avventura del viaggio, ben al di làdei confini del reale. Sopraggiungeva maestoso, luciferi-no e sferragliante tra sbuffi di vapore e di fumo nero allastazione facendo tremare il marciapiede, fino ad acquie-tarsi sui binari dopo un lungo cigolio lamentoso accom-pagnato da qualcosa di simile a un profondo sospiro libe-ratorio, come di chi conclude una fatica immane. Ma du-rante la sosta, scandita dal saliscendi dei viaggiatori edallo sbattere delle porte, nel suo petto portentoso se-guitava a ribollire con un brontolio cupo, una potenzaignea pronta di nuovo, al trillo del capostazione, a spri-gionarsi sulle leve delle grandi ruote di acciaio e a farleruotare con quella iniziale maestosa lentezza che è pro-pria dei giganti.Queste suggestioni raggiungevano il culmine nell’atmo-sfera invernale allorché la mole possente della locomoti-va sgorgava dalla nebbia in una miscellanea di fumi, scin-tille e rumori, suscitando visioni fiabesche.D’estate Guido assaporava il silenzio e la languida solitu-dine del paese, specie quando nei pomeriggi soffocantiscorreva in bicicletta lo stretto sentiero di sabbia di fiu-me ai bordi del corso Matteotti. “Cicli ARTAR”, l’insegna a vernice nera, che spiccava an-che se un po’ sbiadita sul muro di una delle case più vec-chie del paese gli evocava ingranaggi perfetti, ruote e

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  • manubri da corsa. Allora, vincendo il rammarico di tro-varsi a cavallo della modesta bicicletta della zia, si imma-ginava su una Bianchi celeste come quella di Coppi, conil cambio a levetta, i tubolari leggerissimi e i raggi scintil-lanti e si pavoneggiava con il berrettino con la visiera dicelluloide colorata, mentre pedalava lungo il corso constudiata lentezza per sottolineare la perfetta padronanzadel mezzo, ormai al centro del paese. Bordeggiava il barimmerso nel silenzio grave della penombra rotto dallostridore delle poltroncine di ferro trascinate sul pavi-mento; i portoni dei palazzi più vecchi lasciavano intrave-dere cortili e orti con tralci di vite e galline ruspanti; lapiazza deserta nel primo pomeriggio estivo, inondata diun sole velato dalla cappa di umidità che emanava dallezolle dei campi, dai canali e dal vicino Po. Nessuno sottoi portici infuocati.Anche il portone del palazzetto dove abitavano le zie diGuido si apriva sul corso ed era tanto ampio da far pas-sare un carro sulle larghe strisce parallele in pietra cheintramezzavano l’acciottolato. Tutto gli piaceva lì dentroforse perché avvertiva nelle luci e nelle ombre, negli odo-ri di muffa e nei suoni di quelle mura vissute serenità,protezione, premure, intimità; le scale per i due piani su-periori, fatte di mattoncini di cotto, come quelli dei pavi-menti di casa, irregolari e consunti per l’uso, tirati a luci-do con la cera, che ne impreziosiva l’essenza profonda-mente casalinga. Al di là dell’ampio atrio, il cortile e ilporticato con la pompa del pozzo, la lunga leva da azio-nare a forza di braccia, il sapore ferroso dell’acqua chesgorgava a fiotti da una bocca grande e rude anch’essa diferro. Poi un localino appartato che fungeva una volta daritirata per tutti gli inquilini del caseggiato. A seguire,

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  • l’orto che beneficiava degli esiti delle sedute nel confi-nante localino, tali in senso improprio perché la struttu-ra degli arredi imponeva posizioni alla turca. E poi lacampagna, con i campi coltivati a granturco, i lunghi fila-ri di pioppi, le viti a festone, i gelsi, gli alberi da frutto.Il tratto della campagna confinante con l’orto ospitava uncasolare di quelli col porticato per la rimessa dei carri,che, costruito a suo tempo a conveniente distanza dalpaese, vi si trovava ora a ridosso.La famiglia piuttosto numerosa che lo abitava, sopranno-minata dei Toursàn, sembrava costituire una comunità asé stante rispetto alla gente del confinante caseggiato,che comprendeva oltre ai parenti di Guido, altre due fa-miglie di piccoli commercianti del paese, quella dellassciura Diomira con negozio di merceria e quella delssciur Orlando, personaggio autorevole, che, tra i diver-si commerci, si dedicava anche alla vendita ambulante ditessuti. Con la buona stagione lo si vedeva infatti, di tan-to in tanto, partire la mattina presto in bicicletta, con unavaligia enorme in inverosimile equilibrio sul portapacchiposteriore e l’altra più piccola ancorata – chissà come –poco sotto il manubrio, in impeccabile abito marronescuro completo di panciotto, papillon, cappello intonato.La sera ricompariva in paese altrettanto impeccabile, do-po aver percorso chissà quanti chilometri sotto il sole esu strade polverose per piazzare i suoi articoli tra laclientela dei casali e nelle frazioni della campagna. Era gente chiusa i Toursàn, che amava tenere con i vici-ni i rapporti strettamente indispensabili pur essendo unadelle famiglie più antiche del paese. Nessuno poteva direniente sul loro conto: grandi lavoratori, persone oneste,corrette, specialmente i vecchi. – I figli, però, comunisti

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  • sfegatati –, dicevano i parenti di Guido alzando le soprac-ciglia e atteggiando la bocca in una certa smorfia chesembrava rievocare tragedie passate che era meglio di-menticare.C’erano anche dei ragazzini nel casolare, che avevanocon i confinanti coetanei rapporti estemporanei, comequando, nei pomeriggi estivi, si ritrovavano lungo la retedivisoria a scambiarsi qualche giornalino o a parlare delfilm di cow-boy che avevano proiettato al cinema al-l’aperto.Guido si univa volentieri alla combriccola, ma aveva do-vuto faticare un po’ per farsi accettare specialmente dairagazzini del casolare. Anzi all’inizio il loro atteggiamen-to era stato addirittura ostile come se Guido, per il solofatto di vivere nella capitale, fosse uno spaccone inten-zionato a far valere la propria superiorità e a mortificarli.Non tralasciavano allora di deriderlo quando si mostravaall’oscuro dei piccoli segreti della campagna o impaccia-to nell’arrampicarsi su un albero, magari a piedi nudi co-me facevano loro, o ad acchiappare le lucertole e le ra-nocchie.Quando si accorsero che era invece Guido a sentirsi inposizione di inferiorità, si dettero pian piano a coinvol-gerlo nei loro giochi e, nello stesso tempo, a sollecitarloa raccontare della vita di città. Alla fine Guido diventòper loro un amico importante e la sua provenienza roma-na motivo di orgoglio.In un tardo pomeriggio di fine agosto, i piccoli Toursànsono intenti ad arrostire su un improvvisato fuocherellole pannocchie di granoturco ancora fresco, mentre Gui-do e gli altri osservano interessati. Ce n’è per tutti. Que-sta volta però c’è una novità: nel gruppetto compare una

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  • ragazzina che Guido non aveva mai visto prima, biondacon le treccine, slanciata e soda, la carnagione tempratadall’aria aperta e di un bel colorito sano. È accoccolatavicino alle pannocchie, seduta su una grossa pietra cheha avuto cura di spolverare prima con la mano, e osservacon attenzione la cottura con i suoi profondi occhi azzur-ro scuro quasi bleu, appoggiando il mento sulle ginocchiae abbracciandosi le gambe avviluppate nella gonnellinacon pudore sapiente.Guido si sente rimescolare tutto, come mai gli è capitatofinora. Si sente attratto da quella figurina vivace e allostesso tempo pensosa. La inattesa comparsa ne accentuail fascino misterioso e Guido vuole capire, parlarle, farsiinquadrare da quegli occhi profondi e persi.– Rina, lo sai che devi andare. Non far aspettare la mam-ma – le grida in tono cantilenante la vecchia Toursana,seduta sotto il porticato a fare la treccia con le fettuccedi paglia.Rina schizza via e Guido la insegue con lo sguardo men-tre inforca la bici e si allontana per la strada bianca delcasale lasciando nuvolette di polvere.Della famiglia dell’Annetta al paese erano rimasti il fra-tello Dante, sua moglie Tecla e le sorelle Zoraide e Nilde,entrambe ancora zitelle per diversi destini. La Zoraide,più giovane, aspettava che la motonave Africa, con cuiFernando, il suo moroso, era partito da Trieste alla voltadi Mombasa, glielo riportasse a casa. Ma pare che a trat-tenere Fernando a Mombasa fosse, più che la fortuna ne-gli affari, il famigerato “mal d’Africa” contro il quale Fer-nando diceva di lottare disperatamente con la certezza divincere presto.La Nilde invece era fidanzata da quasi vent’anni con

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  • Achille, che aveva una segheria nel vicino paese del man-tovano e che incontrava tutte le domeniche e nei giornidi mercato. Ai ripetuti e corali – Che cosa aspettate asposarvi? – rispondevano entrambi con il sorriso di chi lasa lunga ma non la può raccontare, lasciando a intende-re che quello che non era accaduto in tanti anni potevaaccadere in quattro e quattr’otto quando nessuno più selo aspettava.Il capo famiglia era di fatto la Zoraide, divenuta una sar-ta affermata nel paese. La Nilde e la Tecla erano al suoservizio, mentre Dante, il più anziano, amava rivestirsi diautorità soprattutto per esigere puntualità a pranzo e peraffermare alla sera il proprio diritto, cascasse il mondo,di andare a giocare a carte nel “bottegone”, la grande eaffumicata osteria dove – nonostante l’ammonimentoL’uomo civile non bestemmia e non sputa in terrastampato su un cartello in lamierino – i molti avventoricontinuavano da sempre imperterriti a fare entrambe lecose. Nondimeno, per il suo carattere bonario Dante ve-niva trattato con affetto e rispetto, ma le tre donne sape-vano che non gli si poteva chiedere di più che seguitarea fare con tutta calma il capomastro.Completava la famiglia il gatto della Zoraide, Mouk, il so-riano fumo di Londra dal gran testone, esploratore silen-zioso dei tetti circostanti nella buona stagione e ronfatoreinstancabile sulla poltrona della Zoraide nei mesi freddi.La sartoria Zoraide era in un salone piuttosto ampio alpiano sottostante l’abitazione e, oltre alla Zoraide e allaNilde, vi lavoravano un paio di ragazzette che nei periodidi punta potevano raddoppiare.La sartoria era anche un luogo d’incontro per molte si-gnore del paese, di chiacchiere, di pettegolezzi, di aggior-

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  • namento reciproco sulle ultime novità, un po’ quello cheera per gli uomini il salone del barbiere.Guido avrebbe voluto curiosarvi più di quanto gli fosseconsentito, perché si sentiva attratto da quella atmosfe-ra di intimità femminile, fatta di momenti di abbandono,di seni scoperti e di gambe accavallate in libertà, deglisguardi furtivi e maliziosi che gli lanciavano le lavoranti,fra pezze di stoffa, macchine per cucire, spolette, filati,manichini, forbicioni e ferri da stiro.La sera, come sempre d’estate, la piazza è un salotto po-polatissimo dove la gente torna a ritrovarsi dopo cena,pulita delle fatiche del giorno, nelle sue migliori sembian-ze, ognuno a proprio agio: giovani e vecchi, donne e uo-mini, zanzare e pipistrelli. Saluti, incontri, chiacchiere,sguardi ammiccanti, sussurri, scoppi di risa, grida dibambini che si rincorrono, il trillo delle biciclette che cer-cano di aprirsi un varco tra la gente, fidanzati dolcemen-te avvinti, vecchietti convenuti lì a commentare tra i rim-pianti quel fluire di vitalità e a gustarselo, cullati dal bru-sio di fondo. Una maggiore concentrazione è a ridossodel bar Centrale, che raccoglie la clientela più distinta,seduta con un certo sussiego ai tavolini sotto i portici;nell’altro lato della piazza, il più popolare e rumoroso bardello Sport.È la riconquista della vita dopo gli anni dell’odio e delledivisioni, il recupero di una tradizione profondamenteumana e felicemente paesana, dove il privato si trasfon-de nel pubblico per ricreare una sorta di familiarità col-lettiva, nonostante ferite ancora aperte. Sulle mura antiche della Rocca, alle lapidi che ricordanoi caduti della prima e della seconda guerra mondiale sisono aggiunte quelle dei caduti della Resistenza. Spicca-

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    VOGLIO VIVERE COSÌ

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  • no i nomi di Giovannino, Sergio, Luigin, James e di Biciodetto Folletto, preceduti dalla scritta a lettere di bronzograndi e in rilievo: CADUTI DELLA LIBERTÀ. Guido vaga apparentemente senza meta tra la gente, se-guito dai figli del ssciur Orlando: la Franchina, bella ru-biconda, alla prese con una fetta di anguria e Cesar