uso la penna come un bisturi, di michel foucault - la repubblica 26.07.2013

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 N on sono molto affascinato dal lato sacro della scrit- tura. So che attualmente questo lato viene perce- pito dalla maggior parte delle perso ne che si dedi- cano alla letteratura o alla filosof ia. Ciò che l’Occi- dente ha imparato da Mallarmé in poi è che la scrittura ha una dimensione sacra, che essa è una sorta di attività in sé, non transitiva. La scrittura si è eretta a partire da se stessa, non tanto per dire, mostrare o insegnare qualcosa, ma per es- sere là. Oggi questa scrittura è in qualche modo il monu- mento dell’essere del linguaggio. Sul piano della mia espe- rienza vissuta, confesso che non è stato così che per me la scrittura si è presentata. Ho sempre avuto una diffidenza quasi morale nei confronti della scrittura. (...) Uno dei miei ricordi più costanti è quello delle mie diffi- coltà a scrivere bene. Scrivere bene nel senso in cui s’inten- de alle scuole elementari, cioè fare pagine di scrittura ben leggibile. Credo , anzi sono addirittura certo, di essere stato il più illeggibile della classe, della scuola. Questo è durato a lungo, fino ai primi anni della scuola secondaria. Alle medie mi facevano fare pagine speciali di scrit tura, tali erano le mie LASCIO CICATRICI PERCHÉ USO LA PENNA COME UN BISTURI MICHEL FOUCAULT Anticipazione / “Il bel rischio”, un inedito di Michel Foucault

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7/27/2019 Uso La Penna Come Un Bisturi, Di Michel Foucault - La Repubblica 26.07.2013

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 Non sono molto affascinato dal lato sacro della scrit-tura. So che attualmente questo lato viene perce-pito dalla maggior parte delle persone che si dedi-cano alla letteratura o alla filosofia. Ciò che l’Occi-

dente ha imparato da Mallarmé in poi è che la scrittura hauna dimensione sacra, che essa è una sorta di attività in sé,non transitiva. La scrittura si è eretta a partire da se stessa,

non tanto per dire, mostrare o insegnare qualcosa, ma per es-sere là. Oggi questa scrittura è in qualche modo il monu-mento dell’essere del linguaggio. Sul piano della mia espe-rienza vissuta, confesso che non è stato così che per me lascrittura si è presentata. Ho sempre avuto una diffidenzaquasi morale nei confronti della scrittura. (...)

Uno dei miei ricordi più costanti è quello delle mie diffi-

coltà a scrivere bene. Scrivere bene nel senso in cui s’inten-de alle scuole elementari, cioè fare pagine di scrittura benleggibile. Credo, anzi sono addirittura certo, di essere stato ilpiù illeggibile della classe, della scuola. Questo è durato alungo, fino ai primi anni della scuola secondaria. Alle mediemi facevano fare pagine speciali di scrittura, tali erano le miedifficoltà a tenere la penna come si deve e a tracciare, come

si deve, i segni della scrittura. Ecco quindi un rapporto con lascrittura un po’ complicato, un po’ sovraccarico. Ma c’è unaltro ricordo, molto più recente. È il fatto che, in fondo, nonho mai preso molto sul serio la scrittura, l’atto di scrivere. Lavoglia di scrivere mi è venuta solo verso i trent’anni. (...)

Mi domando se in questa svalutazione della scrittura nonsi esprimesse il sistema di valori della mia infanzia. Appar-

tengo a una famiglia di medici, una di quelle famiglie di me-dici di provincia che, nella vita un po’ addormentata di unapiccola città, rappresentano sicuramente un am-biente relativamente adattativo o, come si usa dire,progressista. Ciò non toglie che l’ambiente medico ingenerale, soprattutto in provincia, sia particolar-mente conservatore. Si dovrebbe fare una bella ri-

cerca sociologica sull’ambiente medico nella Fran-cia di provincia. Ci renderemmo conto che è stato nel XIX secolo che la medicina, o meglio il personaggiomedico, è diventato borghese. (...)

Ho vissuto in un ambiente in cui la razionalità go-de quasi di un prestigio magico, un ambiente i cui va-lori sono opposti a quelli della scrittura. Il medico, in-

fatti, non è colui che parla, bensì colui che ascolta. Ascolta la parola altrui, non per prenderla sul serio,non per capire che cosa voglia dire, ma per rintrac-ciare attraverso di essa i segni di una malattia seria,cioè di una malattia del corpo, una malattia organi-ca. Il medico ascolta, ma per attraversare la paroladell’altro e raggiungere la verità muta del suo corpo.

Il medico non parla, ma agisce, cioè palpa, intervie-ne. Il chirurgo scopre la lesione nel corpo addormen-tato, apre il corpo e lo ricuce, opera: tutto questo nelmutismo, nella riduzione assoluta delle parole. Le so-

le parole che pronuncia sono brevi parole di diagnosi e tera-pia. In questo senso la parola del medico è straordinaria-mente rara. È stata probabilmente questa svalutazione

profonda, funzionale, della parola nella vecchia pratica del-la medicina clinica che ha pesato a lungo su di me, facendosì che fino a una decina, dozzina d’anni fa, per me la parolafosse ancora e sempre parola vana. (...)

Nonostante tutto, quale che sia stata la mia conversione,ho sicuramente conservato della mia infanzia, e fin nella miascrittura, un certo numero di filiazioni che dovrebbe essere

possibile ritrovare. Quel che mi colpisce molto, per esempio,è che i miei lettori immaginano abbastanza spesso che ci siauna certa aggressività nella mia scrittura. Personalmentenon ho affatto questa impressione. Credo di non aver mai at-taccato realmente, esplicitamente, nessuno. Per me scrive-re è un’attività estremamente dolce, felpata. Quando scrivo,ho come la sensazione di un velluto. Per me l’idea di una scrit-

tura vellutata è come un tema familiare, al limite tra l’affetti-vo e il percettivo, che continua a ossessionare il mio proget-to di scrivere, a guidare la mia scrittura mentre sto scrivendo,che mi permette in ogni momento di scegliere le espressioniche voglio utilizzare. Per la mia scrittura il vellutato è una sor-ta d’impressione normativa. Rimango perciò molto stupitoquando vedo che gli altri riconoscono in me piuttosto la scrit-

tura secca e mordace. Pensandoci bene, credo che siano glialtri ad avere ragione. Immagino che nel mio pennino ci siauna vecchia eredità del bisturi. E in fin dei conti non è veroforse che sul bianco della carta traccio quegli stessi segni ag-gressivi che mio padre tracciava nel corpo degli altri quandooperava? Ho trasformato il bisturi in pennino.

Sono passato dall’efficacia della guarigione all’inefficacia

del libero discorso; ho sostituito alle cicatrici sul corpo i graf-fiti sulla carta; ho sostituito all’incancellabile della cicatriceil segno perfettamente cancellabile della scrittura. Forse do-vrei andare ancora oltre. Forse il foglio di carta è per me il cor-po degli altri.

Traduzione di Antonella Moscati Tratto da “Il bel rischio. Conversazione 

con Claude Bonnefoy” © 2011 Èditions de l’École des hautes études 

en sciences sociales © 2013 Edizioni Cronopio

LASCIO CICATRICIPERCHÉ USO LA PENNA

COME UN BISTURI

© RIPRODUZIONE RISERVATA 

MICHEL FOUCAULT

Anticipazione / “Il bel rischio”, un inedito di Michel Foucault

IL LIBROIl bel rischioConversazione

con ClaudeBonnefoy (Cronopiotraduzione

di A. Moscatipagg. 88euro 10)