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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FIRENZE FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA DOTTORATO DI RICERCA IN DISCIPLINE PENALISTICHE DIRITTO E PROCEDURA PENALE IUS/16 XXII CICLO L’IMPUGNAZIONE DELLA PARTE CIVILE Coordinatore del dottorato: Tutore: Chiar.mo Prof. Francesco Carlo Palazzo Chiar.mo Prof. Paolo Tonini Candidato: Dott. Lorenzo Algeri

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FIRENZE FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA

DOTTORATO DI RICERCA IN DISCIPLINE PENALISTICHE DIRITTO E PROCEDURA PENALE

IUS/16

XXII CICLO

L’IMPUGNAZIONE DELLA PARTE CIVILE

Coordinatore del dottorato: Tutore: Chiar.mo Prof. Francesco Carlo Palazzo Chiar.mo Prof. Paolo Tonini

Candidato:

Dott. Lorenzo Algeri

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INDICE

CAPITOLO I

L’ impugnazione della parte civile: profili generali e sistematici

1. Considerazioni generali a. La costituzione di parte civile nel processo penale b. I rapporti tra azione civile da reato e azione penale

2. Le impugnazioni della parte civile nella disciplina originaria del codice

3. Le impugnazioni della parte civile nella disciplina attuale a. L’interesse ad impugnare b. I provvedimenti impugnabili c. La procura speciale ad impugnare

CAPITOLO II La riforma delle impugnazioni: dal codice 1988 alla c.d. Legge

Pecorella 1. La riforma dell’appello e il principio del doppio grado di giurisdizione 2. L’intervento della Corte costituzionale sull’appello del pubblico ministero 3. Ulteriori sviluppi in materia di appello dell’imputato contro la sentenza

di proscioglimento

CAPITOLO III

L’evoluzione del potere di appello della parte civile tra novella legislativa e giurisprudenza di legittimità

1. La riforma: l’iter dei lavori parlamentari. 2. Il potere di impugnazione della parte civile alla luce delle

interpretazioni della dottrina 3. L’orientamento della giurisprudenza di legittimità 4. L’intervento delle Sezioni unite della Corte di cassazione 5. Questioni di legittimità costituzionale 6. La conversione dell’impugnazione della parte civile 7. Giudice di pace e appello della parte civile

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CAPITOLO IV Impugnazione della parte civile e poteri decisionali del giudice di

appello

1. L’impugnazione delle sentenze di proscioglimento. 2. I poteri del giudice dell’impugnazione nel caso di gravame del solo

pubblico ministero a. Gli orientamenti giurisprudenziali e il primo intervento delle

Sezioni Unite b. Nuovi contrasti giurisprudenziali: le Sezioni Unite

compongono la questione nel 2002 3. I poteri del giudice dell’impugnazione in materia civile in caso di

prescrizione del reato

CAPITOLO V L’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere

1. Il previgente quadro delle impugnazioni della sentenza di non luogo

a procedere 2. Le novità introdotte dalla riforma del 2006 3. L’impugnazione agli effetti penali della persona offesa costituita

parte civile

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CAPITOLO I

L’IMPUGNAZIONE DELLA PARTE CIVILE: PROFILI

GENERALI E SISTEMATICI

1. Considerazioni generali.

a. La costituzione di parte civile nel processo penale

L’istituto della parte civile si sviluppò per la prima volta

nell’ordinamento francese del XVII secolo, allorché si consentì al

danneggiato dal reato di esercitare la propria azione diretta ad ottenere il

risarcimento del danno non soltanto nella sede naturale, cioè davanti al

giudice civile, ma anche, in alternativa, davanti al giudice penale

competente a conoscere del reato medesimo1.

In tal modo l’azione civile veniva ad innestarsi nel processo penale,

attribuendo al giudice un dovere decisorio ulteriore: l’obbligo di emettere

la sua pronuncia non solo in ordine all’azione esercitata dal pubblico

ministero ai fini dell’accertamento del reato, ma anche in relazione alla

pretesa civilistica del danneggiato, dal momento che entrambe le richieste

trovavano la propria causa e la propria giustificazione nel medesimo fatto.

Sotto l’influenza del Code d’instruction criminelle napoleonico,

promulgato nel 1808, l’istituto della parte civile fu recepito nei vari

ordinamenti processuali dell’Europa continentale e, in particolare, nel

codice di procedura penale del regno di Sardegna, entrato in vigore nel

1 G. DI CHIARA, voce Parte civile, in Dig. sc. pen., vol. IX, Torino, 1995, pag. 234.

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1848, che diventò, con lievi modifiche, nel 1865, il codice di procedura

penale del Regno d’Italia2.

A partire da tale momento storico, la parte civile ha avuto una propria

peculiare collocazione, quale parte eventuale del processo penale, anche nei

codici di procedura penale del ‘900. Sia il codice del 1913 sia quello del

1930, pur con le debite differenze, hanno, infatti, confermato e consolidato

la scelta di consentire l’esercizio dell’azione civile riparatoria nel processo

penale. Esaminando l’evoluzione del diritto positivo italiano in materia, va

segnalato che mentre l’art. 38 c.p. 1889 concedeva all’offeso il diritto a una

somma a titolo di riparazione <<per ogni delitto che offenda l’onore della

persona o della famiglia, ancorché non abbia cagionato un danno>> , l’art.

7 c.p.p. 1913 estendeva tale diritto ai <<delitti contro la persona e quelli

che offendono l’onore della persona o della famiglia, l’inviolabilità del

domicilio o dei segreti>>3. Nel codice di rito del 1930, il diritto al

risarcimento veniva definitivamente esteso in relazione ad ogni tipo di

reato. Infatti, l’art. 22 stabiliva che <<l’azione civile per le restituzioni e

per il risarcimento del danno può essere esercitata dalla persona alla quale

il reato ha recato danno ovvero da chi la rappresenta per legge o in

conseguenza di mandato generale o speciale e dal suo erede entro i limiti

della quota ereditaria>>. La norma rappresentava, peraltro, la proiezione

sul piano processuale del principio di natura sostanziale fissato dall’art. 185

c.p., tuttora in vigore, secondo cui ogni reato obbliga alle restituzioni e al

risarcimento del danno a norma delle leggi civili.

Nel sistema del codice del 1930 il fondamento dell’istituto dell’azione

civile nel processo penale veniva ravvisato dalla dottrina prevalente nel

2 A. PENNISI, voce Azione (Azione civile nel processo penale), in Enc. Giur. Treccani, IV, Roma, 1995, pag. 1. 3 A. PENNISI, voce Parte civile, in Enc dir., Milano, 1980, 991.

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principio dell’unità della giurisdizione, che si estrinsecava nella regola del

divieto di contraddizione dei giudicati4.

Nel corso dell’elaborazione del nuovo codice di procedura penale si

sviluppò un dibattito tra i fautori di un processo depurato dalla presenza

della parte civile e coloro che, al contrario, erano favorevoli al

mantenimento dell’istituto dell’azione civile nel processo penale5. Infatti,

occorre mettere in evidenza che le soluzioni, ipotizzabili in astratto, in

materia di rapporti tra azione penale e azione civile sono principalmente

due.

La prima opzione sistematica è quella della separazione del giudizio

civile da quello penale. E’ una caratteristica degli ordinamenti anglosassoni

e, più in generale, degli ordinamenti di tipo accusatorio. Un tale assetto

offre il vantaggio di attribuire al processo penale una maggiore snellezza,

dal momento che questo, depurato da ogni questione di natura patrimoniale

conseguente alla commissione del reato, può limitarsi ad accertare la

fondatezza della notizia criminis. Va osservato che la separazione tra le

giurisdizioni porta come conseguenza che il giudicato penale di assoluzione

o di condanna non esplica alcun effetto né preclusivo né vincolante nei

confronti dei processi civili o amministrativi.

La seconda soluzione è, invece, quella dell’unione dei due giudizi ed è

quella seguita da tutte le legislazioni che hanno subito l’influenza del

sistema misto del Code Napoleon. Negli ordinamenti caratterizzati dal

principio dell’unità della giurisdizione, il giudice penale è l’unico che può 4 BELLAVISTA, Azione civile nel processo penale, in NN. D. I., vol. II, Torino, 1964, pag. 55. 5 Significative sono le opinioni espresse nel corso del convegno sul tema “La riforma del processo penale”, tenutosi a Venezia dal 15 al 17 settembre 1961, i cui lavori sono stati raccolti nel volume Primi problemi della riforma del processo penale, Firenze, 1962. Si vedano, in particolare, le posizioni di F. Carnelutti (p. 18-19, 191) e R. Pannain (p. 52-53), fautori dell’eliminazione dell’istituto, e quelle di G. Foschini (p. 73 ss.), A. De Marsico (p. 272) e G. Vassalli (p. 190 ss.), favorevoli al mantenimento della parte civile nel processo penale italiano. Sullo specifico tema “Azione civile e processo penale” si è successivamente svolto a Lecce dal 1° al 4 maggio 1969 il IV Convegno “Enrico De Nicola”, i cui lavori sono stati raccolti nel volume Azione civile e processo penale, Milano, 1971.

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accertare l’esistenza o meno della responsabilità da reato. Di conseguenza,

il giudicato penale di condanna o di assoluzione ha un effetto vincolante sul

potere di accertamento spettante al giudice civile o amministrativo6.

Il legislatore ha aderito alla soluzione di mantenere l’istituto della parte

civile anche nel codice di procedura penale del 1988. Su tale scelta ha

inciso, in primo luogo, il peso della tradizione legislativa italiana, risalente

ai codici preunitari, e continentale7. In secondo luogo, sono state prese in

considerazione esigenze ispirate ad assicurare una maggiore tutela al

danneggiato dal reato8. E’ opportuno osservare che l’opzione legislativa del

mantenimento dell’istituto della parte civile è sicuramente condivisibile. La

scelta della totale separazione potrebbe, in ipotesi, essere accettabile se il

reato fosse espressione di un fatto occasionale compiuto da un soggetto non

pericoloso, come accade, ad esempio, nell’ingiuria, ma vanificherebbe i

diritti della vittima nelle ipotesi di reato commesso da soggetto pericoloso o

addirittura dalla criminalità organizzata.

Un’indicazione di favore verso un sistema che consenta al danneggiato

di esercitare l’azione risarcitoria in sede penale può trarsi, inoltre, dal

quadro internazionale, che risulta sempre più sensibile al riconoscimento

del ruolo e dei diritti delle vittime del reato.

E’opportuno riferirsi, in primo luogo, alla Decisione quadro del

Consiglio dell’Unione europea 15 marzo 2001 (2001/220/GAI)9, il cui art.

9, significativamente rubricato <<diritto al risarcimento nell’ambito del

procedimento penale>>, impegna ogni stato membro a garantire alla

6 P. TONINI, Manuale di procedura penale, X ed., Milano, 2009, 864-867. 7 A. GIARDA, Azione civile da reato, processo militare e processo minorile, in Corr. Giur., 1998, p. 841; A. GIARDA, La vittima del reato nel sistema del processo penale italiano: lineamenti, in Dalla parte della vittima, a cura di G. Gulotta-M. Vagaggini, Milano, 1981, p. 355, ove si osserva come la presenza nel processo penale di un soggetto portatore di una pretesa risarcitoria, lato sensu, civilistica si registra in tutti gli ordinamenti processuali continentali. 8 Relazione prog. prel. c.p.p., in G.U. 24 ottobre 1988 n. 250, Suppl. ord. n. 2, p. 34. 9 La decisione quadro è pubblicata in Dir. pen. proc., 2001, p. 652.

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vittima del reato una decisione relativa al risarcimento, entro un

ragionevole lasso di tempo, nel procedimento de quo. Peraltro, la stessa

disposizione fa salvi i casi <<in cui il diritto nazionale preveda altre

modalità di risarcimento>>, ma appare indubbia l’indicazione preferenziale

verso la soddisfazione della pretesa risarcitoria ad opera del giudice penale,

tenuto in debito conto anche il fatto che la costituzione di parte civile è un

istituto tradizionale del diritto continentale10.

Sulla questione in esame hanno posto la loro attenzione anche altri

organismi internazionali. Si possono, in proposito, richiamare la

Dichiarazione dei diritti fondamentali di giustizia per le vittime della

criminalità e dell’abuso di potere, approvata dall’Assemblea generale

dell’ONU il 29 novembre 1985, e la Raccomandazione del Comitato dei

ministri del consiglio d’Europa n. R(85) 11 sulla posizione della vittima nel

quadro del diritto e della procedura penale, le quali, premessa

l’affermazione del diritto delle vittime al risarcimento dei danni provocati

dal reato, invitano gli stati membri a creare le condizioni perché il

risarcimento sia disposto dallo stesso giudice penale, <<rimuovendo a tale

scopo le eventuali limitazioni di giurisdizione, le altre restrizioni e le

difficoltà di ordine tecnico>>, fino a valutare l’opportunità di configurare il

risarcimento stesso quale vera e propria sanzione, sostitutiva o aggiuntiva

rispetto alle sanzioni penali classiche11.

Il dibattito che vi è stato in passato sulla opportunità di conservare

l’istituto della parte civile nel processo penale ha, comunque, lasciato

tracce nelle soluzioni adottate dal legislatore del 1988, che ha apportato

determinate innovazioni rispetto al sistema previgente. Infatti, la normativa 10 M. G. AIMONETTO, La valorizzazione del ruolo della vittima in sede internazionale, in Giur. it., 2005, p. 1334. 11 G. CASAROLI, Un altro passo europeo in favore della vittima del reato: la Raccomandazione n. R(85) 11 sulla posizione della vittima nel quadro del diritto e della procedura penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, p. 629.

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del nuovo codice di procedura penale sull’azione civile riparatoria appare

animata da due differenti principi: da un lato la posizione della parte civile

è rafforzata e maggiormente garantita rispetto al passato, dall’altro lato il

sistema tende a far rifluire la pretesa risarcitoria fuori dal processo penale12.

Per quanto concerne il rafforzamento delle garanzie di partecipazione

della parte civile al processo penale, è opportuno notare che questa deve

essere assistita da un difensore che la rappresenta ex lege, come avviene nel

processo civile (art. 100, c. 1 c.p.p.); che ha diritto all’assistenza secondo la

norma sul patrocinio per i non abbienti (art. 98 c.p.p.); che nel dibattimento

può essere esaminata solo se lo richiede o vi consente, a meno che non

debba essere sentita come testimone (art. 208 c.p.p.); che è sempre

prescritta a pena di nullità l’osservanza delle disposizioni concernenti il suo

intervento, l’assistenza e la rappresentanza, nonché la citazione in giudizio

dell’offeso del reato nella sua qualità di parte civile potenziale (art. 178, c.

1, lett. c, c.p.p.); che è legittimata a proporre appello, sia pure ai soli effetti

della responsabilità civile, contro la sentenza con la quale l’imputato è stato

prosciolto (art. 576, c. 1, c.p.p.).

Al contrario, costituiscono applicazione della tendenza a far rifluire la

pretesa risarcitoria fuori dal processo penale, il nuovo assetto dei rapporti

tra azione civile e azione penale di cui all’art. 75 c.p.p., la nuova disciplina

degli artt. 651- 654 c.p.p., nonché, la preclusione della costituzione di parte

civile per tutta la durata delle indagini preliminari.

E’ necessario, a questo punto, chiarire se la ratio della disciplina in

esame possa essere ancora individuata, come durante la vigenza del codice

di rito del 1930, nel principio di unità della giurisdizione e nell’esigenza di

12 E. AMODIO, Premessa al titolo V, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, a cura di Amodio e Dominioni, vol. I, Milano, 1989, p. 434.

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evitare ogni possibile contraddittorietà di giudicati. Tale ratio non può più

essere considerata attuale per due ordini di fattori13.

Il primo di questi due fattori si riferisce alla osservazione secondo cui

incombe sul danneggiato dal reato, costituitosi parte civile, l’onere di

provare gli estremi del fatto, del danno, del rapporto di causalità tra l’uno e

l’altro nonché dell’elemento psicologico che ha accompagnato la condotta

del danneggiante. Tale onere probatorio è sicuramente simile a quello del

pubblico ministero, finalizzato ad ottenere l’accoglimento delle richieste

accusatorie. Ne consegue che l’intervento della parte civile nel processo

penale, ben lungi dal configurarsi come un’attività distante da quella del

rappresentante della pubblica accusa, finisce con l’allinearsi agli scopi e ai

fini perseguiti da quest’ultimo, rafforzandone la capacità di impatto sul

fronte probatorio.

Il secondo fattore critico nei confronti della concezione tradizionale

dell’azione civile nel processo penale consiste nel rilievo che, nella

maggior parte dei casi, il danneggiato coincide con l’offeso dal reato.

Questo implica che la pretesa risarcitoria diventa il veicolo attraverso il

quale la parte privata interloquisce in vista non soltanto del risarcimento del

danno subito, ma anche della punizione del colpevole.

Dalla evidente osservazione che colui il quale esercita l’azione civile

tende a supportare le richieste del pubblico ministero, discende che risulta

spostato il fulcro dell’istituto dal petitum, cioè dalla liquidazione del danno,

alla causa petendi, ossia all’accertamento dell’illecito, così che la ratio

della costituzione di parte civile, nel sistema attuale, risiede non più nel

principio di economia processuale o di unità della giurisdizione, ma

13 G. DI CHIARA, op. cit., p. 235.

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nell’interesse della parte lesa ad essere presente ed a cooperare

all’accertamento del reato14.

Occorre precisare le nozioni di persona offesa dal reato e di parte civile

al fine di coglierne la collocazione nella sistematica del codice e nella

dinamica del procedimento penale.

Il reato, ai sensi dell’art. 185 c.p., oltre ad offendere un determinato

bene giuridico, può cagionare un danno ingiusto di natura civilistica. In tal

caso, l’autore del reato è obbligato alle restituzioni e al risarcimento del

danno patrimoniale e non patrimoniale. L’illecito penale si manifesta,

infatti, come una categoria polivalente, idonea a dar luogo a due forme

distinte di responsabilità, l’una rilevante sul piano strettamente penalistico,

l’altra di natura aquiliana15. Ne consegue che il soggetto danneggiato dal

reato è colui che subisce un danno risarcibile dal punto di vista civilistico

ed è il titolare del diritto alla restituzione e al risarcimento. In quanto tale,

ha la facoltà di costituirsi parte civile nel processo penale16.

La persona offesa dal reato è il titolare dell’interesse giuridico protetto,

anche in modo non prevalente, dalla norma penale17. In effetti, intorno

all’interesse fondamentale protetto dalla norma incriminatrice, sussistono

interessi collaterali il cui riconoscimento contribuisce a rafforzare la tutela

del bene ritenuto dal legislatore come prevalente18. Ne deriva che la

qualifica di persona offesa spetterà non solo al titolare del “bene

14 G. DI CHIARA, op. cit., p. 235. 15 F. CORDERO, Codice di procedura penale commentato, Torino, 1992, 248. 16 P. TONINI, Manuale di procedura penale, X ed., Milano, 2009, 146; F. MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 2007, p. 223. 17 P. TONINI, Manuale di procedura penale, X ed., Milano, 2009, 143. 18 Sul significato di “bene prevalente” ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte speciale, I, Milano,1977, 16 ss.; PISAPIA, Introduzione alla parte speciale del diritto penale, Milano, 1948, 123.

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prevalente”, ma anche ai soggetti titolari di un “bene secondario”, ovvero

di un interesse collegato alla tutela del bene primario19.

Il codice attribuisce alla persona offesa la qualifica di “soggetto” del

procedimento, mentre assume la qualifica di “parte” soltanto se, nella veste

di danneggiato dal reato, la stessa persona offesa ha esercitato l’azione

risarcitoria costituendosi parte civile20.

Il legislatore del 1988 ha operato una netta distinzione tra i soggetti

portatori di pretese non penali e quelli titolari, invece, di vere e proprie

pretese penali, configurandoli in modo del tutto autonomo sia per quanto

concerne i tempi di intervento sia per quel che attiene ai loro poteri

processuali, al fine di evitare commistioni tra pretese civili e penali ed usi

impropri della costituzione di parte civile e così di ricondurre ogni istituto

al suo ambito naturale, delimitato dal tipo di pretesa che deve essere fatta

valere sul piano operativo.

Resta, peraltro, dubbia la realizzabilità pratica di tale intento. Infatti,

come si è osservato precedentemente, l’accoglimento della domanda

proposta dalla parte civile presuppone necessariamente la condanna penale

dell’imputato, in quanto in caso di assoluzione il giudice non può prendere

alcuna decisione sull’azione civile. Poiché la condanna al risarcimento e

alle restituzioni non può essere disgiunta dalla condanna penale, la parte

civile ha interesse anche all’affermazione della responsabilità penale

dell’imputato.

L’intento del legislatore codicistico di tenere distinto il ruolo della

persona offesa da quello della parte civile si riflette sulla struttura del 19 Per individuare la persona offesa occorre fare riferimento alla norma penale sostanziale, accertare l’interesse che è oggetto della tutela e, quindi, procedere alla identificazione del soggetto o dei soggetti titolari di tale interesse. Infatti esistono numerose ipotesi di reati plurioffensivi, che cioè ledono o mettono in pericolo più beni giuridici contemporaneamente. La giurisprudenza ritiene plurioffensivi, tra gli altri, i delitti contro la fede pubblica, i delitti di calunnia, falsa perizia, concussione, omissione di atti d’ ufficio e abuso d’ufficio se finalizzato ad arrecare ad altri un danno ingiusto. 20 P. TONINI, Manuale di procedura penale, X ed., Milano, 2009, 144.

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procedimento penale, dalla quale traspare la volontà di far sì che la pretesa

risarcitoria venga fatta valere dinanzi al giudice civile. La sede naturale

dell’esercizio dei poteri dell’offeso è la fase delle indagini preliminari,

dalla quale è viceversa escluso il semplice danneggiato dal reato21. Al

riguardo la Relazione al progetto preliminare del c.p.p. chiarisce che la

scelta del codice di impedire la costituzione di parte civile nella fase delle

indagini preliminari risponde al <<preciso intento di non incoraggiare la

costituzione di parte civile>>22.

Occorre, alla luce della suddetta impostazione sistematica, chiedersi se

il danneggiato dal reato privo della qualifica di offeso possa costituirsi

parte civile.

Il problema, nella pratica, risulta decisamente ridimensionato dal fatto

che normalmente le due qualità coesistono in capo al medesimo soggetto.

Tuttavia, sul piano interpretativo si registrano posizioni diverse.

Secondo una prima tesi, la coincidenza, in capo al medesimo soggetto,

delle qualifiche di offeso e di danneggiato dal reato sarebbe imprescindibile

al fine dell’esercizio dell’azione civile nel processo penale: in altri termini,

il semplice danneggiato dal reato potrebbe agire a tutela del proprio diritto

davanti al giudice civile, ma gli sarebbe preclusa la strada del processo

penale, perché questa si giustificherebbe soltanto allorché ad agire per il

risarcimento dei danni fosse il titolare dell’interesse tutelato dalla norma

incriminatrice23.

21 La Relazione al progetto preliminare del c.p.p. giustifica l’esclusione sia della costituzione di parte civile sia della presenza del danneggiato nell’incidente probatorio con la necessità di non “soffocare” la fase delle indagini preliminari (pag. 35). La Corte costituzionale ha affermato che nella fase delle indagini preliminari la presenza della parte civile è stata esclusa per non complicare lo svolgimento delle attività necessarie ai fini di stabilire se sussistano o meno gli elementi per promuovere l’azione penale (Corte cost., ord. 2 maggio 1991 n. 192, in Giur cost., p. 1797). 22 Relazione prog. prel. c.p.p., cit., p. 35. 23 A. PENNISI, voce Parte civile, in Enc dir., Milano, 1980, 988.

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Un più recente indirizzo interpretativo ha, tuttavia, sostenuto che

l’azione civile nel processo penale può essere esercitata anche da chi non

rivesta la qualità di offeso dal reato, ovviamente a condizione che abbia

subito un danno conseguente alla condotta illecita24.

b. I rapporti tra azione civile da reato e azione penale

Il codice di procedura penale del 1930 si ispirava al criterio dell’unione,

eventuale e facoltativa, del giudizio civile riparatorio con quello penale,

con assoluta prevalenza del secondo sul primo. Il danneggiato poteva

esercitare l’azione civile nel processo penale mediante la costituzione di

parte civile, ovvero far valere le proprie pretese davanti al giudice civile. In

quest’ultimo caso, tuttavia, salva la facoltà di trasferire l’azione civile nel

processo penale ai sensi dell’art. 24 co. 1 c.p.p. 1930, il giudizio civile

restava sospeso, a norma dell’art. 24 co. 2 c.p.p. 1930, fino alla pronuncia

della sentenza penale irrevocabile. L’efficacia vincolante del giudicato

penale costituiva un corollario di tale disciplina: il danneggiato non poteva

sottrarsi agli effetti del giudicato penale di assoluzione. La rigidità del

sistema era stata peraltro temperata da interventi della Corte costituzionale

che avevano fatto salva l’ipotesi di soggetti rimasti estranei al giudizio

penale, perché non legittimati a costituirsi in esso parte civile, o,

comunque, di fatto non posti in grado di parteciparvi25.

Il sistema del codice 1988, tendenzialmente ispirato al principio della

separazione e dell’autonomia della giurisdizione civile e di quella penale,

ha adottato una soluzione di tipo misto nella quale l’alternativa tra unione e

separazione è rimessa alla scelta del danneggiato circa la sede in cui far 24 LOZZI, La costituzione di parte civile di un Consiglio dell’Ordine in un procedimento per omicidio, in Riv. it. dir. pen. proc., 1985, p. 839; P. TONINI, Manuale di procedura penale, X ed., Milano, 2009, 148. 25 Corte cost., sent. 26 giugno 1975 n. 165, in Giur. cost., 1975, p. 1439.

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valere le proprie pretese. Il danneggiato dal reato ha la possibilità di

avvalersi dei rimedi giurisdizionali che ritiene maggiormente idonei alla

tutela dei propri interessi: può rimanere estraneo al processo penale ed

esperire immediatamente l’azione civile riparatoria davanti al giudice

civile, dando vita ad un regime di separazione tra le giurisdizioni, ovvero

inserirsi, mediante la costituzione di parte civile, nel processo penale,

realizzando il tradizionale regime di cumulo delle azioni e ponendo al

giudice un ulteriore dovere decisorio.

Se il danneggiato opta per l’esercizio dell’azione civile di danno nella

sede propria, vige la regola dell’autonoma prosecuzione dei giudizi, sancita

dal secondo comma dell’art. 75 c.p.p., in virtù della quale il giudizio civile

di danno prosegue autonomamente anche in pendenza del processo penale

avente ad oggetto il medesimo fatto storico. L’esercizio dell’azione penale

per lo stesso fatto storico non comporta la sospensione del giudizio civile e

l’efficacia in esso dell’eventuale giudicato penale di assoluzione: azione

penale ed azione civile possono imboccare strade diverse e procedere

separatamente fino a pervenire a decisioni finali non omogenee.

La sospensione del processo civile costituisce l’eccezione, ancorata

all’attitudine del processo penale a mettere capo ad un giudicato idoneo a

spiegare i suoi effetti all’interno del processo civile, ed opera nei soli casi

previsti dall’art. 75 co. 3 c.p.p.26: esercizio dell’azione in sede civile dopo

la costituzione di parte civile nel processo penale, ovvero dopo la sentenza

penale di primo grado. In queste due ipotesi il processo civile rimane

sospeso fino alla pronuncia della sentenza penale irrevocabile di condanna

o di assoluzione.

26 In tal senso si veda Cass. civ., Sez. III, 28 gennaio 2000, n. 967, in Giust. civ., 2000, I, p. 1697; Cass. civ., Sez. I, 26 maggio 1999, n. 5083, in Giust. civ. Mass., 1999, p. 1164; Cass. civ., Sez. lav., 27 maggio 1998, n. 5258, 1998, p. 1147.

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Il terzo comma dell’art. 75 c.p.p. fa comunque salve le eccezioni

previste dalla legge. Quando l’esercizio dell’azione di danno davanti al

giudice civile dopo la costituzione di parte civile nel processo penale non è

il risultato della libera scelta del danneggiato, ma l’effetto conseguente ad

un suo esodo necessitato dal processo penale non opera la sospensione e

viene ripristinata la regola della autonomia ed indipendenza del giudizio

civile rispetto a quello penale. Ciò accade in alcune ipotesi: quando il

processo penale viene sospeso a causa di un’infermità mentale che non

consente all’imputato di parteciparvi coscientemente, ai sensi dell’art. 71

co. 6 c.p.p., nel caso di accertato impedimento fisico che non permette

all’imputato di comparire all’udienza, ove questi non consenta che il

dibattimento prosegua in sua assenza27, nell’ipotesi di esclusione della parte

civile, ai sensi dell’art. 88 co. 3 c.p.p., quando la parte civile non accetta il

giudizio abbreviato, art. 441 co. 3 c.p.p., quando il giudice pronuncia la

sentenza di applicazione della pena richiesta dalle parti, art. 444 co. 2 c.p.p.

ovvero dichiara estinto il reato per intervenuta oblazione, art. 141 co. 4 att.

c.p.p.

A tali ipotesi deve essere aggiunto il caso del giudizio civile promosso

dopo la sentenza penale di primo grado da parte del danneggiato che non

sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile28. In questo caso,

infatti, risulterebbe inutile sospendere il giudizio civile ed attendere la

sentenza penale irrevocabile, in quanto, ai sensi dell’art. 652 c.p.p., il

27 Ipotesi non prevista nel codice 1988 e introdotta con sentenza additiva della Corte costituzionale. Si veda Corte cost., sent. 22 ottobre 1996, n. 354, in Dir. pen. proc., 1997, p. 165, con note di G. Ubertis e C. Quaglierini. 28 C. CONSOLO, Ancora sulla sospensione per pregiudizialità penale, in Nuovi profili nei rapporti fra processo civile e processo penale, Atti convegno Trento, Milano, 1995, p. 80-81; A. GHIARA, sub art. 75, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, I, Torino, 1989, p. 370; G. ICHINO, sub art. 211, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, diretto da E. Amodio – O. Dominioni, Appendice.Norme di coordinamento e transitorie, a cura di G. Ubertis, Milano, 1990, p. 38, G. SPANGHER, Nuovi profili nei rapporti fra processo civile e processo penale, in Nuovi profili nei rapporti fra processo civile e processo penale, cit., p. 54.

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giudicato penale di assoluzione non può avere efficacia vincolante nei

confronti del danneggiato che non sia stato posto in condizione di

costituirsi parte civile.

L’esercizio dell’azione riparatoria nel processo penale può aversi anche

a seguito del trasferimento dell’azione stessa dalla sede civile a quella

penale. Quando abbia fatto valere le proprie pretese nella sede propria, il

danneggiato dal reato conserva la possibilità di costituirsi parte civile,

trasferendo così la sua azione nel processo penale, alla duplice condizione

che nel giudizio penale ad quem sia ancora consentita la costituzione di

parte civile per non essere decorso il termine finale e che nel giudizio civile

a quo non sia stata emessa una sentenza di merito, anche non passata in

giudicato. Il trasferimento è invece consentito se sia stata emessa una

sentenza di carattere processuale. La translatio iudicii comporta

l’automatica rinuncia agli atti del giudizio civile; in tale ipotesi spetta al

giudice penale provvedere anche in ordine alle spese del procedimento

civile estinto a seguito del trasferimento, in quanto il danneggiato ha diritto

di ripetere le spese sostenute in entrambe le sedi giudiziarie, tenuto conto

della spendita di attività processuali effettivamente poste in essere29. Il

trasferimento non comporta invece la rinuncia all’azione che prosegue

dinanzi al giudice penale ed è suscettibile di essere trasferita nuovamente in

sede civile30.

29 Cass., Sez. IV, 7 aprile 1994, in Cass. pen., 1996, p. 2344, m. 1339; Cass., Sez. IV, 20 febbraio 1997, ivi, 1998, p. 3070, m. 1660. 30 A. CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, Milano, 1993, p. 167.

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2. Le impugnazioni della parte civile nella disciplina originaria del

codice.

Come si è cercato di mettere in evidenza precedentemente, il codice di

procedura penale dimostra chiaramente il suo favore per l’esercizio

dell’azione di danno davanti al giudice civile, in modo da non appesantire

l’accertamento penale del fatto con l’innesto di ulteriori temi di decisione.

Peraltro, se il danneggiato dal reato si costituisce parte civile, diventa

titolare di una solida posizione soggettiva. In questa ottica, merita

richiamare l’art. 178 c.p.p., che, alla lettera c, stabilisce che l’osservanza

delle disposizioni concernenti l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza

della parte civile, è sempre prescritta a pena di nullità, rilevabile anche di

ufficio entro i limiti previsti dall’art. 180 c.p.p.

Tra le varie garanzie partecipative hanno un particolare rilievo il diritto

alla prova, al difensore, agli avvisi, all’applicazione di misure cautelari

strumentali all’attuazione della pretesa risarcitoria e il diritto di impugnare

le decisioni sfavorevoli.

La disciplina delle impugnazioni, dal punto di vista sistematico, è

racchiusa, come è noto, nel Libro IX del codice di rito, strutturato in

quattro titoli, dei quali gli ultimi tre dedicati ai singoli rimedi, appello,

ricorso per cassazione e revisione, e il primo alla disciplina generale.

Al fine di comprendere pienamente l’attuale disciplina delle

impugnazioni della parte civile, è necessario procedere ad una rapida

analisi dell’assetto della materia prima della riforma del 2006 ad opera

della legge n. 46 c.d. Legge Pecorella.

Dal punto di vista storico, l’evoluzione della disciplina dell’

impugnazione della parte civile nell’ordinamento italiano ha attraversato

varie fasi.

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Nel codice di procedura penale del 1865, così come nella legislazione

francese da cui derivava, il potere di impugnazione della parte civile era

ampio come quello dell’imputato31. Esistevano all’epoca due orientamenti.

Secondo una parte minoritaria della dottrina e della giurisprudenza, la parte

civile poteva appellare soltanto la sentenza di condanna32. Ad avviso,

invece, della dottrina e della giurisprudenza dominanti, sia in Francia che in

Italia, la parte civile poteva proporre appello sia contro le sentenze di

condanna sia contro quelle di proscioglimento per gli interessi civili33.

La situazione cominciò a cambiare sotto il codice del 1913, che

subordinò la proponibilità dell’appello della parte civile contro le

disposizioni della sentenza che concernevano i suoi interessi civili, alla

condanna dell’imputato34. La parte civile, infatti, poteva appellare, nel caso

31 D. SIRACUSANO, Azione civile e giudizi di impugnazione, in Atti del convegno su azione civile e processo penale, Milano, 1971, p. 47; A. PENNISI, voce Parte civile, in Enc dir., Milano, 1980, 1019. 32 SALUTO, Comm. al codice di procedura penale, IV, n. 1222; MASUCCI, Parte civile appellante, in Riv. pen., XX, 350; Cass. Palermo, 31 ottobre 1881, in Riv. pen., XV, 506; Cass. Roma, 27 marzo 1889, in Giurispr. Pen., IX, 469. 33 In Francia: LEGRAVEREND, Legis. Crim., II, 401; CARNOT, Instr. Crim., art. 202; MORIN, Rep., V° Action civile; HELIE, Instr. Crim., § 576; TREBUTIEN, Droit crim., II, 510; BOITARD, Lecons, 499; MANGIN, De l’action publique, n. 38; LE SELLYER, De l’exercise et de l’estinction des actions publique et privèe, t.I, n. 104; Cass. franc., 17 marzo 1810, Klein; 4 ottobre 1816, Coalpont; 10 novembre 1870, Villette. In Italia: F. BENEVOLO, La parte civile nel giudizio penale, Torino, 1883, 215; MIRAGLIA, Intorno alla competenza giurisdizionale sull’appello della parte civile nelle cause penali, in Gazz. dei Trib., XX, 77; NARICI, Sull’azione civile nascente da reato: Studio XII; Cass. Roma 10 gennaio 1877, in La Legge, XVII, 526; Cass., 30 marzo 1883, Paramucchi, in Foro it., VIII, 267; Cass., 29 maggio 1889, in Foro it., XIV, 368. 34 La giurisprudenza maggioritaria sotto il codice del 1865 era in senso opposto: <<Il magistrato penale perde la facoltà di statuire sull’azione civile di risarcimento solo nei casi in cui sia esclusa la sussistenza obiettiva del reato imputato>> App. Milano, 20 aprile 1893, Mon. Trib., 1893, 398; <<Per l’art. 571 c.p.p. l’imputato che sia stato assolto, o riguardo al quale sia stato dichiarato non essere luogo a procedere, può dallo stesso giudice penale, allorché il fatto dell’imputazione sia rimasto accertato, colla stessa sentenza essere condannato al risarcimento dei danni verso il querelato o la parte civile, sempre che il processo offra gli elementi necessari per determinare la quantità>> Cass., 19 maggio 1905, Legge, 1905, 1617; <<l’imputato dichiarato esente da pena può nondimeno essere tenuto al risarcimento dei danni verso l’offeso e alle spese del procedimento>>, Cass., Torino, 14 giugno 1883, Giur. pen. tor., 1883, 313; <<Chi fu chiamato a rispondere penalmente del reato, può essere ritenuto responsabile civilmente dalla sentenza che lo proscioglie dalla responsabilità penale>>, Cass., Roma , 10 maggio 1907, Giur. pen. tor., 1907, 388; <<Nonostante il verdetto negativo della colpevolezza dell’accusato, la Corte può aggiudicare i danni alla parte civile e subito liquidarli>> Cass., Torino, 11 novembre 1886, Giur. pen. tor., 1886, 557. La situazione cambiò con il codice del 1913:

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di condanna dell’imputato, contro i capi o le disposizioni che concernevano

gli interessi civili, e nel caso di proscioglimento, contro la condanna alle

spese e al risarcimento dei danni35.

Il codice di procedura penale del 1930 consolidò il principio in base al

quale la parte civile poteva proporre appello soltanto nei confronti di una

sentenza di condanna dell’imputato mentre, a parte i casi in cui la stessa

parte civile fosse stata condannata ai danni e alle spese, non le era

consentito di impugnare le sentenze di proscioglimento36.

L’inoppugnabilità delle sentenze di proscioglimento iniziò ad essere

messa in discussione quando, in seguito all’entrata in vigore della

Costituzione, in dottrina e in giurisprudenza si affermò la nuova concezione

della rilevanza costituzionale del diritto di azione e di difesa ex art. 24 Cost.

della parte civile in ogni stato e grado del procedimento37.

Infatti, lamentando la violazione di tale diritto, fu sollevata l’eccezione

di legittimità costituzionale dell’art. 195 c.p.p. nella parte in cui escludeva

il diritto di impugnare della parte civile avverso le sentenze di

proscioglimento38.

La Corte dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 195 c.p.p., ma

non per la violazione degli art. 3 e 24 Cost.39, poiché doveva considerarsi

rispettato il diritto di difesa della parte civile una volta che le si dava la

possibilità di partecipare con pieni poteri al primo grado del giudizio. L’art.

<<Il giudice che proscioglie l’imputato non può dichiararlo civilmente responsabile e condannarlo ai danni a favore della parte civile>>, Cass., 31 maggio 1929, Proc. Pen.It., 1929, 791. 35 A. JANNITTI DI GUYANGA, Codice di procedura penale commentato con la giurisprudenza, richiami legislativi e bibliografici, Firenze, 1921, p. 630. 36 D. SIRACUSANO, Azione civile e giudizi di impugnazione, cit., p. 48; A. PENNISI, voce Parte civile, cit., 1019. 37 A. PENNISI, voce Parte civile, cit., 1019. 38 Si veda Pret. Padova, ordinanza 23 marzo 1968, in Riv. dir. proc., 1969, 508, con nota di Grevi, Limiti al potere di impugnazione della parte civile e problemi di legittimità costituzionale. 39 Come aveva auspicato la dottrina: tra gli altri, si veda NUVOLONE, Ricorso della parte civile, in L’indice penale, 1973, p. 138; GIARDA, In tema di ricorso della parte civile, ivi, 1972, p. 117; TRANCHINA, Profili processuali e sostanziali della pronuncia di incostituzionalità relativi all’art. 115 c.p.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 1970, 925.

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195 si ritenne, invece, in contrasto con l’art. 111 Cost. nella parte in cui

poneva limiti al solo ricorso per cassazione della parte civile contro le

disposizioni della sentenza che concernevano i suoi interessi civili40.

Riconosciuta l’ammissibilità del ricorso per cassazione della parte

civile, la giurisprudenza di legittimità si trovò nell’impossibilità di decidere

per l’ostacolo rappresentato dall’art. 23 c.p.p., che escludeva la pronuncia

sull’azione civile fuori dei casi di condanna dell’imputato. Di conseguenza,

si prospettò la necessità di un nuovo intervento della Corte costituzionale

che dichiarò illegittimo l’art. 23 nella parte in cui escludeva che il giudice

penale potesse decidere sull’azione civile anche quando l’azione della parte

civile a tutela dei suoi interessi proseguiva in sede di cassazione e di un

eventuale successivo giudizio di rinvio41.

E’ soltanto con il nuovo codice di rito del 1988 che viene introdotto

nuovamente il principio del potere di appello della parte civile verso la

sentenza di proscioglimento42.

L’art. 576 c.p.p. disciplina l’impugnazione della parte civile per i soli

interessi civili. Tale impugnazione può essere proposta contro i capi delle

sentenze di condanna che riguardano l’azione civile, ossia i capi che

neghino alla parte civile il risarcimento o accordino meno di quanto

richiesto ovvero compensino le spese, o quando risulti omessa ogni

decisione al riguardo43, ovvero contro le sentenze di proscioglimento ai soli

effetti della responsabilità civile, formula da intendersi nel senso che,

fermo restando in assenza di impugnazione del pubblico ministero il

proscioglimento dell’imputato, la sentenza favorevole all’impugnante

rimuove l’effetto extrapenale di cui all’art. 652 co. 1 c.p.p., consentendo

40 Corte cost., 22 gennaio 1970, n. 1, in Giur. cost., 1970, I. 41 Corte cost., 17 febbraio 1972, n. 29, in Giur. cost., 1972, p. 131. 42 A. CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, Milano, 2006, p. 885. 43 F. CORDERO, Procedura penale, VIII ed., Giuffrè, 2006, p. 1113.

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all’interessato la via di un giudizio civile44. Va osservato, peraltro, che la

giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto al medesimo giudice

dell’impugnazione il potere di condannare l’imputato alle restituzioni e al

risarcimento del danno45.

Quanto agli strumenti di impugnazione esperibili, l’art. 576 c.p.p.

rinviava, sino alla novellazione operata con la legge n. 46 del 2006, al

<<mezzo previsto per il pubblico ministero>> ossia l’appello. Questo dato

evidenziava, da un lato, un aspetto residuo dell’accessorietà del rapporto

processuale civile rispetto al rapporto processuale penale, essendo calibrata

la scelta del mezzo di impugnazione non già sugli interessi civili bensì sul

disvalore penale del fatto46, dall’altro lato, apriva alla parte civile la

possibilità di appello nei confronti della sentenza di proscioglimento

pronunciata in giudizio, innovando in questo modo rispetto al codice del

1930, che consentiva, a seguito delle sentenze costituzionali n. 1 del 1970 e

n. 29 del 1972, soltanto la possibilità del ricorso per cassazione47.

In un unico caso l’impugnazione poteva essere proposta anche agli

effetti penali: si tratta dell’ipotesi regolata dall’art. 577 c.p.p., ora abrogato

dalla legge 46/2006, che consentiva alla parte civile, purchè rivestisse la

qualifica di persona offesa, oltre che quella di danneggiato, di impugnare le

sentenze di condanna e di proscioglimento per i reati di ingiuria e di

diffamazione48.

44 F. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 1114; M. BARGIS, Impugnazioni, in G. Conso-V. Grevi, Compendio di procedura penale, III ed., Padova, 2006, p. 794; F. CAPRIOLI, Art. 576, in G. Conso-V. Grevi, Commentario breve al codice di procedura penale, Padova, 2005, p. 1988; C. VALENTINI, I profili generali della facoltà di impugnare, in A. Gaito (a cura di), Le impugnazioni penali, vol. I, Utet, 1998, p. 218. 45 Cass. pen., Sez. Un., 11 luglio 2006, n. 25083, in Dir. pen. proc., n. 2/2007, p. 223. 46 S. SALIDU, Art. 576, cit., p. 67. 47 Corte cost., 22 gennaio 1970 n. 1, in Giur. cost., p. 1; Corte cost., 17 febbraio 1972, n. 29, in Giur. cost., p. 131. 48 La possibilità di impugnare agli effetti penali è stata considerata non del tutto in armonia con il sistema delle impugnazioni, S. SALIDU, Art. 577, cit., p. 68; inoltre, risulta dai lavori preparatori del codice del 19988 che l’emendamento, piuttosto contrastato, introdotto al Senato fu giustificato dal relatore (sen. Gallo) con la considerazione che <<la natura dei reati di ingiuria e di diffamazione, idonei a colpire il

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Nonostante che la legittimità costituzionale dell’art. 577 c.p.p. fosse

stata messa in dubbio sotto diversi profili, la Corte costituzionale aveva

sempre escluso l’incostituzionalità della norma, considerandola come

un’ipotesi di accusa privata del tutto eccezionale nel nostro sistema49.

Fuori del caso suddetto la parte civile non può proporre impugnazione

ali effetti penali, ma può avvalersi della facoltà riconosciutale dall’art. 572

c.p.p. di richiedere motivatamente al pubblico ministero l’impugnazione,

sia delle sentenze emesse all’esito dell’udienza preliminare sia delle

sentenze emesse a seguito di giudizio50.

Scopo della norma in esame non è tanto quello di garantire una forma di

tutela all’interesse personale della parte civile, ma piuttosto quello di

valorizzare il contributo che tale soggetto può apportare alle valutazioni del

pubblico ministero sulla opportunità di proporre impugnazione avverso una

sentenza51. Ulteriori argomenti inerenti alla ratio dell’esistenza di tale

norma possono essere individuati nella preclusione per la parte civile di

un’impugnazione agli effetti penali e nei limiti posti al diritto di

impugnazione per i soli interessi civili52.

Il pubblico ministero, in seguito alla richiesta, può compiere due scelte.

Può rigettare la richiesta dandone conto nel decreto motivato notificato alla

patrimonio morale della persona offesa, richiedessero una più energica tutela>> (Relazione al progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale, in G.U., Serie generale, 24 ottobre 1988, n. 250, Suppl. ord., n. 2, p. 127). 49 Corte cost., 30 dicembre 1993, n. 474, annotata da E. GALLO, L’art. 577 c.p.p.: una norma anacronistica e una decisione discutibile, in Indice pen., 1994, p. 322. 50 A. CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, cit., p. 902. 51 S. SALIDU, Art. 572, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, vol. VI, Utet, 1991, p. 51. Discussa è, peraltro, la compatibilità, in un processo di stampo accusatorio, dell’intervento di soggetti estranei all’ordine giudiziario a fianco del p.m.: in senso critico v. E. AMODIO, Parte civile, responsabile civile e civilmente obbligato per la pena pecuniaria, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, diretto da E. Amodio-O. Dominioni, vol. I, Milano, 1989, p. 437, per il quale la presenza di tali soggetti finisce per alterare l’equilibrio tra accusa e difesa; favorevolmente, invece, cfr. C. MASSA, La tutela degli interessi privati nel progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale, in Giust. pen., 1979, I, c. 21, secondo il quale, anzi, occorrerebbe ampliare i poteri della parte civile in ordine all’impugnazione dei capi penali della sentenza. 52S. SALIDU, Art. 572, cit., p. 48 e s.

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parte richiedente, oppure può proporre un gravame diverso rispetto a quello

richiesto dall’interessato.

In quest’ultimo caso, non deve giustificare la sua scelta dal momento

che il decreto è richiesto soltanto nell’ipotesi in cui egli decida di non

proporre alcuna impugnazione.

In ogni caso, la parte civile non è legittimata a ricorrere in cassazione

avverso il decreto motivato del pubblico ministero con il quale decide di

non proporre impugnazione avverso la sentenza emessa dal giudice di

primo grado. Questa risulta l’unica soluzione giuridicamente corretta non

solo per il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, ma anche

perché il decreto emesso dal pubblico ministero ha natura meramente

amministrativa53.

Per la presentazione della richiesta non è prevista alcuna forma

particolare, né è necessario indicare il mezzo di impugnazione del quale si

chiede l’esercizio. Tuttavia, logicamente, sarebbe opportuno che la

richiesta avvenisse in forma scritta e che la motivazione, obbligatoria, fosse

coerente col mezzo di impugnazione che si vorrebbe che il pubblico

ministero esercitasse54.

Sulla richiesta motivata il pubblico ministero è obbligato a decidere, ma

poiché la legge non stabilisce il termine entro il quale emettere tale

provvedimento, si ritiene, possa valere quello ordinario, ex art. 121 c.p.p.,

non superiore a quindici giorni dalla richiesta. Durante tale periodo, il

termine per proporre impugnazione non si sospende, né l’interessato ha la

possibilità di sollecitare il pubblico ministero ad emettere, in tempi brevi,

una decisione.

53 Cass. pen., Sez. II, 7 maggio 2003, Awad, in Mass. Uff., 225082. 54 G. SPANGHER, Impugnazioni penali, in Digesto pen., VI, Torino, 1992, p. 223.

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Sulla base di tale istanza l’organo dell’accusa potrà decidere di proporre

impugnazione ovvero, in caso contrario, dovrà motivare in ordine alla

scelta di non proporre gravame. L’obbligo di motivazione si configura

anche quando l’impugnazione del pubblico ministero investa capi e punti

diversi da quelli dedotti nei motivi dall’istante55. Ma anche in assenza di

alcuna motivazione o di qualsiasi risposta, all’interessato non è concesso

alcun rimedio processuale, dato che, come si è detto, il decreto del pubblico

ministero è inoppugnabile56.

Se la decisione del pubblico ministero è in senso negativo apparirebbe,

nel caso, contraddittorio il fatto che successivamente questi proponga

appello incidentale. Tuttavia, anche in questa evenienza, in mancanza di un

espresso divieto, la facoltà di proporre impugnazione, seppure a seguito di

gravame esercitato dall’imputato in via principale, non gli può essere

preclusa57.

3. Le impugnazioni della parte civile nella disciplina attuale del codice.

a. L’interesse ad impugnare.

Il codice di procedura penale vigente è caratterizzato dal principio di

tassatività dei mezzi di impugnazione, con la conseguenza che i

provvedimenti non soggetti per legge ad alcun mezzo di impugnazione

sono inoppugnabili (art. 568 co. 1 c.p.p.). in attuazione dell’art. 111 co. 2

Cost., sono sempre soggetti a ricorso per cassazione i provvedimenti

relativi alla libertà personale e le sentenze diverse da quelle sulla

55 S. SALIDU, Art. 572, cit., p. 54. 56 C. VALENTINI, le impugnazioni delle parti eventuali, in Gaito, Le impugnazioni penali, I, 1998, Torino, p. 220. 57 G. SPANGHER, Impugnazioni penali, cit., p. 223.

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competenza che possono dar luogo a un conflitto di giurisdizione o di

competenza a norma dell’art. 28 (art. 568 co. 2).

Il terzo comma dell’art. 568 richiama il carattere personale

dell’impugnazione, stabilendo che il relativo diritto spetta a colui al quale

la legge espressamente lo conferisce, e se la legge non distingue tra le

diverse parti, il diritto in questione spetta a ciascuna di esse.

La legittimazione all’impugnazione è peraltro strettamente legata

all’interesse manifestato con l’atto di impugnazione dalla parte alla quale la

legge riconosce il diritto ad impugnare. La necessità che chi propone

impugnazione vi abbia interesse è, infatti, stabilita dal successivo quarto

comma della norma in esame.

In estrinsecazione del principio di economia processuale, l’attivazione

del rimedio è subordinata, a pena di inammissibilità, all’esistenza in capo al

soggetto di un concreto interesse, giuridicamente apprezzabile, ad

impugnare, inteso quale misura dell’utilità pratica del mezzo58.

L’utilità pratica del mezzo, ossia il vantaggio che la parte si ripromette

di ottenere dall’impugnazione, condiziona la devoluzione del giudizio a un

altro giudice e impone la verifica della sussistenza di tale requisito, ai fini

dell’ammissibilità del gravame medesimo, con un confronto tra la

decisione impugnata e quella che potrebbe essere emessa in caso di

accoglimento del mezzo proposto59.

Ai sensi dell’art. 576 c.p.p. la parte civile può proporre impugnazione

contro i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile e, ai

soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento

pronunciata nel giudizio.

58 G. SPANGHER, Impugnazioni, Voce, Enc. giur., 2002, p. 2. 59 P. TONINI, Manuale di procedura penale, X ed., p. 793.

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Ai soli effetti civili, la parte civile può altresì proporre impugnazione

contro la sentenza pronunciata a norma dell’art. 442 c.p.p. quando abbia

consentito all’abbreviazione del rito.

Tale impugnativa risulta, quindi, circoscritta al medesimo oggetto e

presenta gli stessi limiti dell’azione civile che la predetta parte privata è

abilitata ad esercitare nel processo penale e conseguentemente può investire

le sole disposizioni della sentenza che concernono i suoi interessi civili.

Fermo il principio che la valutazione dell’ammissibilità della

costituzione di parte civile, sia nel giudizio di primo grado sia nei gradi

ulteriori, non può prescindere dal criterio dell’interesse, deve ritenersi che

la parte civile ha interesse anche all’affermazione della responsabilità

penale dell’imputato, in quanto la decisione relativa si pone come

presupposto del riconoscimento o della negazione dei propri interessi

risarcitori.

Secondo il sistema processuale, infatti, sussiste l’interesse della parte

civile a impugnare le sentenze penali di proscioglimento in tutti i casi in cui

la sentenza penale irrevocabile ha autorità di cosa giudicata anche nel

giudizio civile o amministrativo relativo alla sua pretesa risarcitoria60.

Proprio perché anche la pretesa risarcitoria sarebbe pregiudicata dalla

decisione penale, deve riconoscersi alla parte civile un concreto interesse a

rimuovere la decisione penale e il suo effetto preclusivo. Inversamente, di

regola, nessun interesse processuale ha la parte civile a impugnare la

decisione penale quando questa manca di efficacia preclusiva e quindi

lascia libera la stessa parte civile di proseguire la sua pretesa risarcitoria

nelle sedi proprie.

In particolare, il danneggiato subisce direttamente gli effetti

dell’assoluzione dell’imputato, poiché, ai sensi dell’art. 652 c.p.p., la 60 P. TONINI, Manuale di procedura penale, X ed., p. 795.

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sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a

dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento che il fatto

non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato

compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà

legittima, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il

risarcimento del danno promosso dal danneggiato, sempre che questi si sia

costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile nel

processo penale61.

Come si evince dal dato testuale, l’art. 652 c.p.p., prevede che la

sentenza di proscioglimento produca effetti nel giudizio di danno quando

ricorrano le seguenti condizioni. Innanzitutto deve trattarsi di una sentenza

penale irrevocabile pronunciata in seguito a dibattimento. In secondo

luogo, il danneggiato si deve essere costituito o deve essere stato posto in

condizione di costituirsi parte civile e comunque non deve aver esercitato

l’azione in sede civile a norma dell’art. 75, comma 2, c.p.p.

La norma si riferisce alle sentenze di assoluzione pronunciate in seguito

a dibattimento. Resta, pertanto, esclusa l’efficacia extrapenale delle

sentenze di non luogo a procedere, art. 425 c.p.p., delle sentenze

pronunciate nel corso della fase predibattimentale, emesse ai sensi dell’art.

469 c.p.p. e delle sentenze di non doversi procedere, per mancanza di una

condizione di procedibilità o per estinzione del reato, emesse al termine del

dibattimento. Infatti, le sentenze di non luogo a procedere, non essendo

emesse a seguito di dibattimento, sono inidonee ad acquisire il carattere

dell’irrevocabilità. Le sentenze di proscioglimento anticipato sono

pronunciate soltanto per formule prive di valore preclusivo e cioè <<il reato

è estinto>> e <<l’azione penale non doveva essere iniziata o proseguita>>.

Infine, le sentenze di non doversi procedere, non hanno efficacia 61 P. TONINI, Manuale di procedura penale, X ed., p. 871.

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extrapenale in quanto prive, in tutto o in parte, di un accertamento sul

fatto62.

L’art. 652 dispone che la sentenza penale irrevocabile di assoluzione ha

efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni

o il risarcimento del danno promosso dal danneggiato <<quanto

all'accertamento che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha

commesso o che il fatto è stato compiuto nell'adempimento di un dovere o

nell'esercizio di una facoltà legittima>>. Ai sensi dell'art. 652, dunque, la

sentenza di assoluzione ha efficacia di giudicato nell'ambito del giudizio

civile di danni solo relativamente a questi accertamenti. La sentenza

dibattimentale di assoluzione può essere pronunciata anche per altre

ragioni, come per mancanza dell'elemento psicologico, doloso o colposo, o

per l'esistenza di una causa di giustificazione (reale o putativa) diversa da

quella di cui all'art. 51 c. p., o per l'esistenza di una causa di non punibilità

o per non imputabilità del soggetto. Però il legislatore, con una sua scelta

discrezionale, ha limitato l'efficacia del giudicato, nel giudizio civile o

amministrativo di danno, solo agli elementi relativi all'insussistenza del

fatto, alla non commissione dello stesso, ed alla non illiceità per l'esistenza

dell'esimente di cui all'art. 51 c.p.

Pertanto, quanto alla sentenza di assoluzione perché il fatto non

costituisce reato, dalla formulazione letterale dell'art. 652 c.p.p. emerge

chiaramente che l'efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo

di danno è riconosciuta soltanto quando essa contenga l'accertamento che il

fatto è stato compiuto nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una

facoltà legittima, formula in cui si fa rientrare, opportunamente, anche lo

62 A. SCELLA, sub art. 652, in Conso –Grevi, Commentario breve al codice di procedura penale, Padova, 2005, p. 2210; E. FUSCO, in P. Corso (a cura di), Commento al codice di procedura penale, Piacenza, 2005, p.2294.

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stato di necessità63, perché in tal caso difetta il carattere di illiceità del

comportamento e quindi il requisito della ingiustizia del danno. Negli altri

casi, quando l'assoluzione perché il fatto non costituisce reato è stata

pronunciata per mancanza dell'elemento soggettivo del reato, o per la

presenza di una causa di giustificazione diversa da quella di cui all'art. 51

c.p. o per un'altra ragione, la sentenza non ha efficacia di giudicato nel

giudizio di danno e spetta al giudice civile o amministrativo il dovere di

accertare autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti dedotti in

giudizio e di pervenire a soluzioni e qualificazioni non vincolate all'esito

del giudizio penale64.

b. I provvedimenti impugnabili.

La parte civile è legittimata ad impugnare, agli effetti civili, sia la

sentenza di condanna sia la sentenza di proscioglimento pronunciate tanto

nel giudizio ordinario che all’esito del giudizio abbreviato cui abbia

partecipato accettando l’abbreviazione del rito.

La giurisprudenza riconosce l'interesse della parte civile

all'impugnazione, sempre ai soli effetti civili, avverso la sentenza di

proscioglimento al fine di ottenere il mutamento della formula utilizzata.

Essa infatti ha interesse ad impugnare tutte le sentenze di proscioglimento

che possano compromettere il suo diritto ad ottenere il risarcimento del

danno, anche in considerazione dell'effetto preclusivo della sentenza

dibattimentale irrevocabile di assoluzione nel giudizio civile di danno. La 63 P. TONINI, Manuale di procedura penale, X ed., p. 872. 64 F. FALATO, Formule di proscioglimento ed interesse della parte civile all'impugnazione, in Giurisprudenza italiana, 2009, fasc. 11, pag. 2531.

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parte civile ha dunque di solito interesse ad impugnare una sentenza di

assoluzione con la formula perché il fatto non sussiste o perché l'imputato

non lo ha commesso, al fine di ottenere l'accertamento della responsabilità

dell'imputato ai fini civili o anche solo una formula di assoluzione che

abbia conseguenze pratiche più favorevoli per i suoi interessi civili65.

Più in generale, la parte civile ha normalmente interesse ad impugnare

una sentenza di assoluzione che rigetti l'azione civile esercitata nel

processo penale e precluda l'ulteriore esercizio dell'azione civile in sede

civile, sia al fine di ottenere una pronuncia di accertamento della

responsabilità sia anche al più limitato fine di ottenere una pronuncia che

non abbia effetto preclusivo nel giudizio civile.

Ciò però non significa che sia vera anche la proposizione contraria. Non

è perciò sufficiente il fatto che la sentenza di assoluzione non abbia effetto

preclusivo dell'azione civile dinanzi al giudice civile per escludere

automaticamente l'interesse della parte civile ad impugnarla per ottenere

una pronuncia diversa e l'affermazione della responsabilità dell'imputato.

Di conseguenza, non può negarsi l'interesse della parte civile ad

impugnare la decisione con la quale l'imputato sia stato prosciolto con la

formula “perché il fatto non costituisce reato” anche quando questa manca

di efficacia preclusiva. E ciò perché l'interesse ad impugnare assume un

contenuto di concretezza tutte le volte in cui dalla modifica del

provvedimento impugnato possa derivare l'eliminazione di un qualsiasi

effetto pregiudizievole per la parte che ne invoca il riesame, il che avviene

anche quando la parte civile miri ad assicurarsi conseguenze extrapenali a

65 Cass. sez. un. 29 maggio 2008, n. 40049, in Cassazione penale, 2009, fasc. 3, pagg. 897; G. DE ROBERTO, sub art. 576, in G. Lattanti-E. Lupo, Codice di procedura penale, Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, Milano, 2008, vol. VIII, p. 113; L. GIANZI, sub art. 576, in P. Corso (a cura di), Commento al codice di procedura penale, Piacenza, 2005, p. 2059; F. CAPRIOLI sub art. 576, in Conso –Grevi, Commentario breve al codice di procedura penale, Padova, 2005, p. 271.

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lei favorevoli, che possono comunque influire nel giudizio per il

risarcimento dei danni, ed in particolare a sostituire formule che possano

limitare il soddisfacimento, nella sede competente, della pretesa

riparatoria66.

La parte civile ha dunque interesse ad impugnare la sentenza di

assoluzione “perché il fatto non costituisce reato”, che non abbia effetto

preclusivo, al fine di ottenere l'affermazione di responsabilità per il fatto

illecito perché chi intraprende il giudizio civile dopo avere già ottenuto in

sede penale il riconoscimento della responsabilità per fatto illecito della sua

controparte si giova di tale accertamento e si trova in una posizione

migliore di chi deve cominciare dall'inizio.

Il codice di rito ammette, in base all'art. 576, che, per effetto

dell'impugnazione della sola parte civile, si possa rinnovare l'accertamento

dei fatti posto a base della decisione assolutoria, e ciò al fine di valutare

l'esistenza di una responsabilità per illecito e così giungere ad una diversa

pronunzia che rimuova quella pregiudizievole per gli interessi civili.

Resta invece esclusa la possibilità di una revisione dell'accertamento

penale in assenza dell'impugnazione del pubblico ministero, in ragione

dell'autonomia dei giudizi sui due profili di responsabilità, civile e penale.

L'impugnazione proposta dalla parte civile ai soli effetti civili non può

incidere sulla decisione del giudice del grado precedente in merito alla

responsabilità penale, ma il giudice penale dell'impugnazione, dovendo

decidere su una domanda civile che necessariamente dipende da un

accertamento sul fatto di reato e dunque sulla responsabilità dell'autore

dell'illecito extracontrattuale, può, seppure in via incidentale, statuire in

66 F. FALATO, Formule di proscioglimento ed interesse della parte civile all'impugnazione, in Giurisprudenza italiana, 2009, fasc. 11, pag. 2531 (Nota a Cass. sez. un. 29 maggio 2008, n. 40049); G. SANTALUCIA, L'errore nell'uso della formula assolutoria: quale spazio per l'impugnazione della parte civile? in Cassazione penale, 2009, fasc. 3, pagg. 897 (Nota a Cass. sez. un. 29 maggio 2008, n. 40049).

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modo difforme sul fatto oggetto dell'imputazione, ritenendolo ascrivibile al

soggetto prosciolto67.

In ogni caso, la proposizione dell’impugnazione della parte civile contro

i capi della sentenza di proscioglimento deve fare riferimento, specifico e

diretto, a pena di inammissibilità del gravame, agli effetti di carattere civile

che si intendono conseguire. Ne deriva che una richiesta della parte civile

impugnante al giudice del gravame, riguardante esclusivamente

l’affermazione della responsabilità penale dell’imputato, prosciolto nel

precedente grado di giudizio, rende inammissibile l’impugnazione, in

quanto richiede al giudice adito di deliberare soltanto in merito a un effetto

penale, che esula dai limiti delle facoltà riconosciute dalla legge68.

Relativamente alle sentenze di condanna, la parte civile è legittimata ad

impugnarle nei casi di omessa pronuncia sull’azione civile, di rigetto, totale

o parziale, della domanda civile nei confronti dell’imputato o del

responsabile civile, di omessa o insufficiente liquidazione del danno, di

diniego della provvisionale in presenza di condanna generica al

risarcimento dei danni o di sua incongruità, di mancata concessione

dell’esecuzione provvisoria della condanna al risarcimento o alle

restituzioni, di omessa o insufficiente liquidazione delle spese del giudizio,

di ritenuta compensazione totale o parziale delle spese stesse. Di

conseguenza, se l’imputato è stato condannato, la parte civile può proporre

impugnazione solo per i capi della sentenza che negano il risarcimento o

che riconoscono un risarcimento inferiore rispetto a quello richiesto o nel

caso di compensazione delle spese.

Per quanto riguarda l’impugnazione prevista per la parte civile avverso

le sentenze di proscioglimento emesse all’esito del rito abbreviato, cui la

67 Cass. pen., Sez. Un., 11 luglio 2006, n. 25083, in Dir. pen. proc., n. 2/2007, p. 223. 68 Cass. pen., Sez. I, 4 marzo 1999, n. 7241, Pirani, in Cass. pen., 2000, p. 2019.

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medesima parte civile abbia prestato accettazione, il mezzo di

impugnazione non è il ricorso per cassazione ma l’appello, nei casi in cui

tale mezzo è proponibile dal pubblico ministero69.

c. La procura speciale ad impugnare.

Una questione che appare opportuno evidenziare è quella concernente la

legittimazione del difensore della parte civile costituita a proporre appello

avverso la sentenza di primo grado, e, più specificamente, l’individuazione

delle forme attraverso le quali si manifesta l’effettiva attribuzione di tale

potere al difensore medesimo. Occorre anzitutto premettere come il

difensore di parte civile, a differenza del difensore dell’imputato, non sia

titolare di un autonomo potere di impugnazione della sentenza: l’art. 571,

co. terzo c.p.p. prevede infatti che <<può inoltre proporre impugnazione il

difensore dell’imputato al momento del deposito del provvedimento ovvero

il difensore, nominato a tal fine>>. A fronte di ciò, l’art. 576 c.p.p.,

trattando del potere di impugnazione della parte civile, parla

esclusivamente di quest’ultima, e non del suo difensore. In concreto ciò sta

a significare che il difensore di parte civile, per proporre appello in nome e

per conto dei propri assistiti, dovrà a ciò essere espressamente legittimato

da un atto che gliene conferisca il relativo potere.

Di conseguenza, la parte civile può proporre impugnazione per mezzo

del suo difensore soltanto se questi sia munito di procura speciale , per il

grado di giudizio da instaurare. Tale procura può essere anche quella

69 G. DE ROBERTO, sub art. 576, in G. Lattanti-E. Lupo, Codice di procedura penale, Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, Milano, 2008, vol. VIII, p. 119. L’autore osserva come il principio enunciato sia tuttora operante, nonostante la riforma delle impugnazioni del 2006, a seguito della sentenza costituzionale n. 26 del 2007, che ha restituito il potere di appello al p.m., nonché della sentenza delle sezioni unite della cassazione n. 27614 del 2007, che ha restituito il potere di appello alla parte civile.

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conferita originariamente, a norma dell’art. 100 c.p.p., purchè sia

espressamente estesa ai gradi ulteriori70.

Si impone, peraltro, un breve chiarimento: la parte civile sta in giudizio

col necessario patrocinio di un difensore <<munito di procura speciale

conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata dal difensore o da

altra persona abilitata>> (art. 100 co. Primo c.p.p.). Inoltre <<La procura

speciale si presume conferita soltanto per un determinato grado del

processo, quando nell’atto non è espressa una volontà diversa>> (art. 100,

co. terzo c.p.p.). Tale procura deve intendersi come procura ad litem,

ovvero come conferimento del mandato defensionale al difensore, il quale

sarà perciò legittimato a stare in giudizio in nome e per conto della parte

civile, potendo quindi <<compiere e ricevere, nell’interesse della parte

rappresentata, tutti gli atti del procedimento che dalla legge non sono alla

stessa espressamente riservati. In ogni caso non può compiere atti che

importino disposizione del diritto in contesa se non ne ha ricevuto

espressamente il potere>> (art. 100, co. quarto c.p.p.).

Il compimento di atti di disposizione del diritto in contesa, quali ad

esempio la rinuncia all’azione, richiede pertanto uno specifico

conferimento del relativo potere in capo al difensore di parte civile,

ovverosia una procura ad causam, individuata dall’art. 122 c.p.p. Tra

l’altro, questa norma specifica che <<la procura deve, a pena di

inammissibilità, essere rilasciata per atto pubblico o scrittura privata

autenticata>> aggiungendo che <<la sottoscrizione può essere autenticata 70 E’ significativo ricordare, sul punto, come la Corte costituzionale (Corte cost., ord. 8 giugno 2001, n. 188, in Giur. cost., 2001, 3) nel dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., degli artt. 100, 122, 577 c.p.p. e dell’art. 37 disp. Att., nella parte in cui consentono al difensore della parte civile di proporre impugnazione anche se non munito di procura speciale rilasciata dopo l’emanazione del provvedimento da impugnare, ha osservato che le norme denunciate, oltre a non determinare alcuna lesione del diritto di difesa, non generano disparità di trattamento fra imputato contumace e parte civile, essendo ad entrambe assicurato il diritto di nominare un procuratore speciale al quale possono conferire, in epoca antecedente all’adozione del provvedimento appellabile, ampia delega alla rappresentanza in giudizio.

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dal difensore medesimo>>71. Tale distinta procura è perciò un atto

totalmente diverso da quello di cui all’art. 100 c.p.p.: questo infatti

concerne il conferimento del mandato defensionale, il primo invece

conferisce il potere di compiere in nome e per conto del rappresentato uno

specifico atto a lui normalmente riservato. La distinzione, netta nella teoria,

è però nella pratica poco agevole, stante l’identità di forme (per ambedue è

prevista la forma della scrittura privata autenticata, con sottoscrizione

autenticabile dal medesimo difensore ivi nominato) e la possibilità, ex art.

37 disp. att. c.p.p., di rilasciare la procura ex art. 122 c.p.p. anche

preventivamente: è perciò usuale la prassi di conferire indistintamente nel

medesimo atto sia la procura ex art. 100 c.p.p., nominando in questo modo

il proprio difensore di parte civile, sia la procura ex art. 122 c.p.p.,

conferendo così al suddetto difensore il potere di compiere specifici atti,

quale, tipicamente, la costituzione di parte civile ex art. 76 c.p.p.

La procura speciale, se non risulta espressa una diversa volontà, deve

presumersi conferita soltanto per un grado del processo72. Riguardo alla

necessità per la parte civile di conferire al difensore un esplicito mandato

ad impugnare si è sviluppato un dibattito all’interno della giurisprudenza di

legittimità73.

71 In virtù delle modifiche apportate dall’art. 13 l. 16 dicembre 1999 n. 479, la procura speciale conferita con scrittura privata può essere autenticata anche dal difensore (art. 100) e, per la parte civile, si è precisato che la procura non apposta a margine o in calce alla dichiarazione di parte civile deve essere depositata in cancelleria o presentata in udienza unitamente alla dichiarazione di parte civile (art. 78 co. 3). Si tratta di una precisazione quanto mau opportuna perché l’atto di procura non è più necessariamente separato dall’atto di costituzione, potendo figurarvi a margine o in calce all’atto. 72 CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, Milano, 1993, p. 204; CRSTIANI, sub artt. 100-101, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da Chiavario, I, Torino, 1989, 464-465; FRIGO, sub art. 100, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, diretto da Amodio e Dominioni, I, Milano, 1989, 641-642. 73 G. DE ROBERTO, sub art. 576, in G. Lattanti-E. Lupo, Codice di procedura penale, Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, Milano, 2008, vol. VIII, p. 120; F. BRUNO, sub art. 100, in P. Corso (a cura di), Commento al codice di procedura penale, Piacenza, 2005, p.367; T. PROCACCIANTI, sub art. 100, in Conso –Grevi, Commentario breve al codice di procedura penale, Padova, 2005, p. 271.

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Secondo una prima linea interpretativa, la giurisprudenza ha ritenuto

sufficienti, per estendere il mandato anche ai gradi successivi, anche

espressioni generiche, senza la necessità di un espresso riferimento al

potere di impugnazione. Le argomentazioni di questo filone

giurisprudenziale sono state le seguenti. Nell’ipotesi di esercizio

dell’azione civile in sede penale occorre distinguere la legittimatio ad

causam, che si identifica normalmente con la titolarità del diritto

sostanziale in capo alla persona alla quale il reato ha cagionato un danno e

che è il presupposto per la costituzione di parte civile, dalla legittimatio ad

processum o capacità processuale, per la quale il titolare del diritto che non

abbia la capacità di agire deve essere rappresentato, assistito o autorizzato

nelle forme prescritte per le azioni civili. Diversa è la nozione di

“rappresentanza processuale”, in virtù della quale la parte civile non può

difendersi da sola, ma deve stare in giudizio con il ministero di un

difensore munito di procura speciale. Riguardo a quest’ultima nozione,

nonostante l’art. 100 co. 3 disponga che la procura speciale si presume

conferita soltanto per un determinato grado del processo quando nell’atto

non è espressa un diversa volontà, per ritenere estesa la procura conferita in

primo grado anche in grado di appello è sufficiente che il difensore sia

designato con locuzioni quali “per la presente procedura”, “per la presente

causa” e simili, in considerazione del fatto che il processo si articola in più

fasi74.

In altre decisioni, invece, la Suprema Corte ha seguito

un’interpretazione più rigorosa, per cui ha ritenuto indispensabile, ai fini

delle impugnazioni, l’esistenza di uno specifico ed espresso mandato

74 Cass. pen., Sez. VI, 8 marzo 1994, Spallanzani, in Cass. pen., 1995, p. 3398; Cass. pen., 8 febbraio 2001, Bizzarri ed altri, in Cass. pen., 2003, p. 547; Cass. pen., 16 novembre 1998, Priebke, in F. it., 1999, II, p. 273.

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difensivo, in modo da rilevare la consapevolezza del trasferimento del

potere di impugnazione75.

Le Sezioni unite della corte di cassazione hanno composto il contrasto

giurisprudenziale statuendo che è legittimato a proporre appello il difensore

della parte civile munito di procura speciale anche se non contente espresso

riferimento al potere di interporre il detto gravame, posto che la

presunzione di efficacia della procura per un solo grado del processo,

stabilita dall’art. 100 co. 3 c.p.p., può essere vinta dalla manifestazione di

volontà della parte, desumibile dalla interpretazione del mandato, di

attribuire anche un siffatto potere76. La Suprema Corte ha chiarito come

non sia necessario un espresso e palese richiamo al potere di impugnare,

ovverosia l’utilizzo nella procura di formule c.d. “sacramentali”, perché vi

possa essere valida attribuzione potestativa. Tuttavia è necessario che la

relativa volontà della parte sia stata anche solo implicitamente manifestata

nell’atto, dovendosi pertanto avere riguardo al tenore dello stesso ed al suo

complessivo significato77.

75 Cass. pen., 25 settembre 2002, Cooperativa il Poggio s.r.l., in A. n. proc. pen., 2003, p. 46; Cass. pen., Sez. V, 27 agosto 2001, Bovini, in Cass. pen., 2002, p. 2143; Cass. pen., Sez. III, 15 luglio 1997, Abdel Fattah, in Giust. pen., 1999, III, p. 55 Cass. pen., 4 dicembre 1997, Ladisi, in R. pen., 1998, p. 628; Cass. pen., 8 febbraio 1996, Di Benedetto, in A. n. proc. pen., 1996, p. 814. 76 Cass. pen., Sez. Un., 27 ottobre 2004 (dep. 18 novembre 2004), n. 44712, Mozzarella, in Cass. Pen., 2005, p. 383, con nota di M. VESSICHELLI; id., in Giust. pen., III, 2005, p. 609, con nota di M. GRIFFO; id., in Giur. it., 2005, p. 2152, con nota di A. GUALAZZI; in argomento si veda anche F. NUZZO, In tema di procura speciale per l’impugnazione del difensore di parte civile, nota a Cass. pen., Sez. I, 5 dicembre 2007, n. 45526, in Cass. pen., 2009, p. 221. 77 Il tenore letterale della procura di cui al procedimento Manzella, oggetto di intervento delle Sezioni Unite, era il seguente: “Sig. avv. … vi nominiamo e costituiamo quale Ns difensore, nonché procuratore speciale ai fini della costituzione di parte civile nel procedimento penale n. …, a carico di …, conferendovi ogni più ampia facoltà di legge ed approvando sin d’ora il vostro operato”. Le Sezioni Unite hanno quindi ritenuto che il suddetto mandato contenesse inconfutabilmente sia la procura alle liti (“vi nominiamo e costituiamo quale Ns difensore”) sia il conferimento di un personale potere processuale, ex art. 76 e 122 c.p.p. (“nonché procuratore speciale ai fini della costituzione di parte civile”). Senonchè, l’impiego delle movenze terminologiche “nel procedimento penale n. …”, “con ogni più ampia facoltà di legge”, “approvando sin da ora il vostro operato”, afferisce esclusivamente, com’è altrettanto evidente, al mandato per la costituzione di parte civile. Non è infatti, ricollegabile in alcun modo al conferimento della procura alle liti, che risulta invece rilasciata puramente e semplicemente, senza alcuna ulteriore manifestazione di volontà. Continuano poi le stesse S.U., riguardo alla clausola di approvazione preventiva dell’operato del difensore, affermando che: “Tale manifestazione di volontà, risolventesi in una mera clausola di stile, attiene, come detto, soltanto alla costituzione di parte civile”. La conclusione

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Conclusivamente, può allora confermarsi la regola secondo la quale al

difensore di parte civile non sia riconosciuto autonomo potere di

impugnazione, essendo necessario, a tal fine, che egli sia munito di

apposita procura (ex art. 122 c.p.p.). Il contenuto della procura non deve

necessariamente contenere formule espresse ed esplicite di conferimento

del potere in parola, essendo sufficiente, e pure indispensabile, che la

relativa volontà di conferirlo sia desumibile con certezza dal complessivo

tenore dell’atto. Ed in particolare, l’uso di espressioni estremamente

generiche e che rasentino la natura meramente di stile non può considerarsi

sufficiente ai fini della legittimazione del difensore, dovendosi richiedere

un’indicazione più puntuale e precisa dell'oggetto e dei fatti in relazione ai

quali la procura è conferita e non potendo a tal fine bastare l'indicazione del

numero del procedimento e lo stilistico conferimento di “ogni facoltà di

legge”78.

cui la Suprema Corte, nella sua più autorevole composizione, giunge, è pertanto inevitabile: l’impossibilità di interpretare l’atto nel senso di comprendere anche il potere del difensore di proporre appello. Ciò d'altronde appare in linea con quanto prevede lo stesso art. 122 c.p.p., dove è previsto che la procura rilasciata per il compimento di uno specifico atto, normalmente riservato alla parte, debba contenere, oltre alle indicazioni richieste specificamente dalla legge, la determinazione dell'oggetto per cui è conferita e dei fatti ai quali si riferisce. Tale formulazione impone un minimum di determinatezza quanto all'oggetto ed al contenuto della procura ad hoc, che non può chiaramente soddisfarsi con espressioni troppo ampie e generiche, le quali, per voler dire e contenere tutto, finiscono invece per non dire nulla. 78 M. VESSICHELLI, Quale procura per l’impugnazione del difensore della parte civile?, in Cass. Pen., 2005, p. 383,

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CAPITOLO II LA RIFORMA DELLE IMPUGNAZIONI: DAL CODICE 1988 ALLA

C.D. LEGGE PECORELLA

1. La riforma dell’appello e il principio del doppio grado di

giurisdizione.

La ragione principale dell’intervento della legge di riforma n. 46 del

2006, cosiddetta “legge Pecorella”, risiedeva nella volontà di porre rimedio

ad un deficit di giustizia insito nel sistema delle impugnazioni79. Infatti, il

testo originario del codice del 1988 non garantiva una tutela adeguata

all’imputato prosciolto in primo grado, se il pubblico ministero proponeva

appello.

Nel caso in cui l’imputato fosse stato condannato in primo grado, aveva

di fronte a sé due ulteriori gradi di giudizio e, comunque, la possibilità di

far valere in sede di appello qualsiasi vizio da cui fosse stata affetta la

sentenza80.

Al contrario, l’imputato, riconosciuto innocente e, quindi, prosciolto, in

un dibattimento svoltosi nel contraddittorio orale, incontrava molte

difficoltà nell’esercitare i propri diritti di difesa nel giudizio di appello

promosso dal pubblico ministero. L’imputato non aveva il diritto di

ottenere la rinnovazione dell’istruzione per contrastrare i motivi di appello

presentati dalla pubblica accusa, né il diritto di far convocare l’accusatore

per dimostrare che quest’ultimo non fosse attendibile e credibile. La

decisione di appello era, ed è rimasta, una pronuncia basata su atti scritti, 79 Per una sintesi dell’iter parlamentare della “legge Pecorella” cfr. E. VALENTINI, I lavori parlamentari, in AA. VV., Impugnazioni e regole di giudizio nella legge di riforma del 2006. Dai problemi di fondo ai primi responsi costituzionali, a cura di M. Bargis e F. Caprioli, Torino, 2007, 3ss. 80 P. FERRUA, Riforma disorganica: era meglio rinviare ma non avremo il terzo grado di giudizio, in Dir. Giust., n. 9, 2006, 78.

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senza il contraddittorio nella formazione della prova. Una eventuale

condanna in secondo grado non poteva essere oggetto di una impugnazione

nel merito, bensì soltanto di un ricorso per cassazione per motivi di

legittimità81.

La suddetta problematica non si poneva nel codice di rito previgente di

stampo prevalentemente inquisitorio. Nel codice del 1930 il processo era

“racchiuso” in un fascicolo che conteneva tutti gli atti, da quello che, per

primo, aveva dato impulso al procedimento fino all’ultimo, e rappresentava

una base cognitiva che si trasmetteva da un giudice all’altro. Su quella

base, assai più che sugli atti del dibattimento, si fondava la decisione del

giudice di primo grado e poi quella del giudice di appello, che quindi ben

poteva, riconsiderando gli atti scritti, emettere una decisione opposta a

quella del primo giudice82.

Dato che, invece, il legislatore del 1988 ha optato per un sistema

prevalentemente accusatorio, era ritenuto inaccettabile, da un parte

autorevole della dottrina, che una assoluzione, pronunciata nel dibattimento

di primo grado nel contraddittorio tra le parti davanti ad un giudice terzo e

imparziale potesse essere ribaltata da una condanna emessa in un giudizio

privo di garanzie83. Le stesse Sezioni Unite della cassazione, nel 2003,

poste di fronte a un caso in cui l’imputato era stato assolto in primo grado e

condannato in appello hanno prospettato l’opportunità di <<un intervento

81 G. FRIGO, Ignorati i profili di illegittimità ereditati dalla vecchia disciplina, in Guida dir., 2006, 13, 95; G. SPANGHER, Ma la legge è necessaria: ecco perché servono più garanzie ai diritti di difesa, in Dir. Giust., n. 5, 2006, 92; P. TONINI, La legittimità costituzionale del divieto di appellare il proscioglimento. Una pronuncia discutibile che genera ulteriori problemi, in L. Filippi (a cura di), Il nuovo regime delle impugnazioni tra Corte costituzionale e Sezioni Unite, 350. 82 E. FASSONE, L’appello: un’ambiguità da sciogliere, in Questione giustizia, 1991, 623. 83 F. COPPI, No all’appello del pm dopo la sentenza di assoluzione, in Il giusto processo, 2003, 5, 27; T. PADOVANI, Doppio grado di giurisdizione: appello dell’imputato, appello del PM, principio del contraddittorio, in Cass. pen., 2003, 4023; F. STELLA, Sul divieto per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di assoluzione, in Cass. pen., 2004, 756; G. SPANGHER, Sistema delle impugnazioni penali e durata ragionevole del processo, in Corriere giur., 2002, 1262; ID., Riformare il sistema delle impugnazioni?, in AA. VV., La ragionevole durata del processo. Garanzie ed efficienza della giustizia penale, a cura di R. E. Kostoris, Torino, 2005, 111 e seg.

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mirato del legislatore sul terreno della riperimetrazione delle opzioni

decisorie consentite al giudice di appello, che sia chiamato a pronunciarsi

sull’appello del pubblico ministero avverso la sentenza assolutoria di primo

grado>>84.

Per rimediare ai problemi prospettati, sono state avanzate diverse

soluzioni, sulle quali gli studiosi si sono divisi.

In base ad una prima impostazione, il pubblico ministero avrebbe avuto

un potere di appello soltanto rescindente. In secondo grado il giudice

avrebbe potuto, in alternativa, confermare la sentenza di assoluzione

oppure annullare e rinviare in primo grado, sede nella quale si sarebbe

dovuto rinnovare il giudizio.

Secondo un’altra soluzione, il giudizio di appello successivo ad una

sentenza di proscioglimento avrebbe dovuto tutelare il contraddittorio in

modo simile a quanto avviene in primo grado. Entrambe le soluzioni

avrebbero comportato un allungamento rilevante dei tempi del processo e

per questo non sono state adottate dal legislatore85.

In tale contesto la legge n. 46 del 2006 aveva operato una scelta che

potesse garantire la ragionevole durata del processo. Peraltro, tale risultato

è stato raggiunto attraverso un’iter parlamentare piuttosto complesso e non

privo di contrasti.

Pare opportuno soffermarsi brevemente sul messaggio che il presidente

della Repubblica aveva rivolto al Parlamento il 20 gennaio 200686, nel

rinviare, ai sensi dell’art. 74 Cost., il testo approvato dalla Camera dei

deputati il 21 settembre 2005 e dal Senato della Repubblica il 12 gennaio 84 Cass. pen., Sez. Un., 30-10-03, n. 20, Andreotti, Cass. pen., 2004, 811. Recependo alcune indicazioni dottrinali le Sezioni Unite avevano prospettato, in particolare, la possibilità di strutturare <<l’appello, ove non si concluda con la conferma dell’alternativa assolutoria, come giudizio di natura esclusivamente rescindente, cui debba seguire un rinnovato giudizio di primo grado sul merito della responsabilità dell’imputato, modulato su binari tracciati dalla sentenza di annullamento>>. 85 P. TONINI, La legittimità costituzionale del divieto di appellare il proscioglimento, cit., 350. 86 Pubblicato in Guida dir., 2006, 5, 120.

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200687. Tre sono stati i rilievi che il Capo dello Stato aveva formulato

rispetto ad un provvedimento legislativo il quale prevedeva l’esclusione

incondizionata dell’appello avverso le sentenze di proscioglimento. In

primo piano, era stata mossa la censura secondo la quale la <<soppressione

dell’appello delle sentenze di proscioglimento (…) fa sì che la stessa

posizione delle parti nel processo venga ad assumere una condizione di

disparità che supera quella compatibile con la diversità delle funzioni

svolte dalle parti stesse nel processo>>88. In secondo luogo, si era rimarcata

l’incongruenza insita nell’impedire la proposizione dell’appello al p.m.

<<totalmente soccombente>>, le cui richieste sono state disattese dalla

sentenza di proscioglimento, mentre il gravame rimane esperibile

dall’organo d’accusa <<quando la sua soccombenza sia solo parziale,

avendo ottenuto una condanna diversa da quella richiesta>>. Infine,

l’attenzione era ricaduta sugli artt. 597 comma 2 lett. b e 36 d. lgs. 28

agosto 2000 n. 274, il cui testo, se non modificato, avrebbe continuato a

riferirsi, in modo equivoco, all’appello nei confronti delle sentenze di

proscioglimento.

Si ritiene che l’obiezione più significativa del Capo dello Stato sia stata

la prima, incentrata sulla rottura dell’equilibrio tra i poteri delle parti89. Il

testo definitivo della legge n. 47 del 2006 aveva recepito in parte i rilievi

presidenziali.

Infatti, la legge di riforma aveva stabilito come regola generale la non

appellabilità delle sentenze di proscioglimento, sia da parte del pubblico

ministero sia da parte dell’imputato, salvo un caso eccezionale

espressamente previsto dall’art. 593, comma 2: l’appello poteva essere

87 Il correlativo disegno di legge è pubblicato in Riv. it. dir. pen. proc., 2005, 1295. 88 Guida dir., 2006, 5, 121. 89 F. PERONI, sub art. 593, in Codice di procedura penale commentato, a cura di A. Giarda e G. Spangher, Milano, 2010, vol. II, 7170.

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proposto soltanto in presenza di una nuova prova decisiva emersa dopo la

chiusura del giudizio di primo grado.

In questo modo, la legge aveva praticamente sottratto al pubblico

ministero la facoltà di appellare il proscioglimento. Restavano al pubblico

ministero e all’imputato il potere di proporre il ricorso per cassazione per

motivi più ampi.

Un’analisi corretta ed esaustiva delle modifiche introdotte dalla legge

Pecorella in tema di appello non può prescindere da alcune sommarie

considerazioni riguardo al cosiddetto “principio del doppio grado di

giurisdizione”.

Tale principio non è di origine normativa, ma di creazione dottrinale e si

concretizza nella possibilità di ottenere, sul merito di una determinata

vicenda contenziosa, una seconda pronuncia, da parte di un giudice diverso,

destinata a prevalere sulla prima90.

Ad avviso della dottrina dominante e della stessa giurisprudenza

costituzionale, costante sul punto anche sotto il codice del 1930, il principio

del doppio grado di giurisdizione è privo di una esplicita e pacifica

copertura a livello costituzionale91. Tuttavia, alcuni studiosi ritengono che

il diritto di difesa assicurato <<quale diritto inviolabile in ogni stato e grado

90 G. SERGES, Il principio del doppio grado di giurisdizione nel sistema costituzionale italiano, Milano, 1993; G. SPANGHER, voce Doppio grado di giurisdizione (principio di), in enc. giur. Treccani, vol. XII, 2001, 1; ID., Il doppio grado di giurisdizione, in AA. VV., Presunzione di non colpevolezza e disciplina delle impugnazioni, Milano, 2000, 105; T. PADOVANI, Il doppio grado di giurisdizione, appello dell’imputato, appello del pubblico ministero, principio del contraddittorio, in Cass. pen., 2003, 4023; si vedano, più recentemente, DE CARO, Filosofia della riforma e doppio grado di giurisdizione di merito, in AA. VV., La nuova disciplina delle impugnazioni dopo la legge Pecorella, a cura di A. Gaito, Utet, 2006, 18; FIORIO, profili sopranazionali e costituzionali della facoltà d’impugnare, ivi, 106; G. GARUTI-G.DEAN, I nuovi ambiti soggettivi della facoltà di impugnare, ivi, 131; G. CIANI, Il doppio grado di giudizio: ambito e limiti, in Cass. pen., 2007, n.3, 1388; P. GUALTIERI, Il secondo grado di giudizio ambito e limiti, in Cass. pen., n. 4, 1813. 91 Si vedano in dottrina, tra i tanti, G. SPANGHER, voce Appello, II) diritto processuale penale, in Enc giur., II, 1991, 2; ID., Appello nel diritto processuale penale, in Dig. disc. pen., I, 1987, 197; nonché, nella giurisprudenza costituzionale, Corte cost., 22 giugno 1963, n. 110, in Giur. cost., 1963, 870; Corte cost., 15 aprile 1981, n. 62, in Giur. it., 1981, I, 1377; Corte cost., 30 luglio 1997, n. 288, in Arch. n. proc. pen., 1997, 557; Corte cost., 4 luglio 2002, n. 316, in Giur. cost., 2002, 2454.

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del procedimento>> (art. 24 comma 2 Cost.), delinei, quanto meno, una

cornice entro la quale iscrivere l’esistenza di una interposizione processuale

per gradi e stati intermedi92.

Il principio in esame, trova, invece, riscontro in due disposizioni di

natura sovranazionale. In via preliminare, occorre ricordare che tra le fonti

del diritto processuale penale, il diritto internazionale ha sempre assunto

una particolare rilevanza dato che l’art. 2 della legge delega n. 81 del 1987

ha vincolato il Governo ad adeguarsi alle <<norme delle convenzioni

internazionale ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al

processo penale>>93. Inoltre, le norme internazionali pattizie, grazie ad una

recente interpretazione dell’art. 117 Cost. ad opera della Corte

costituzionale, assumono, nell’ordinamento giuridico italiano, la natura di

“norme interposte” con un rango inferiore alla Costituzione e superiore alla

legge ordinaria94.

La prima disposizione cui fare riferimento è l’art. 2 comma 1 del VII

Protocollo alla Convenzione europea dei diritti umani, il quale, sotto la

92 V. GREVI, Presunzione di non colpevolezza, garanzie dell’imputato ed efficienza del processo nel sistema costituzionale, in Alla ricerca di un processo penale <<giusto>>. Itinerari e prospettive, Milano, 2000, 118; T. PADOVANI, Doppio grado di giurisdizione: appello dell’imputato, appello del PM, principio del contraddittorio, in Cass. pen., 2003, 4023. Si consideri, peraltro, che, proprio in relazione all’art. 24 comma 2 Cost., il giudice delle leggi ha avuto modo di precisare che dalla garanzia dell’inviolabilità del diritto di difesa non discende affatto, nell’ottica della Carta fondamentale, l’indefettibilità della previsione di un secondo grado di merito nel processo penale. Si veda, in proposito, Corte cost. n. 316 del 2002, in Giur. cost., 2002, 2454. 93 P. TONINI, Manuale di procedura penale, Milano, 2010, 52 ss. 94 Corte cost. 348 del 2007, in Giur. cost., 2007 3509; Corte cost. 349 del 2007, in Giur. cost., 2007 3555. Il dovere di rispettare i <<vincoli derivanti dagli obblighi internazionali>>, espresso dall’art. 117 comma 1 Cost., comporta varie conseguenze. In primo luogo, il giudice italiano deve interpretare la legge nazionale in modo conforme alla norma internazionale nel lmite massimo consentito dal testo della legge nazionale. In secondo luogo, se la legge nazionale contrasta con la norma internazionale, il giudice italiano non può disapplicare la legge interna, bensì deve investire della questione la Corte cost., invocando come parametro l’art. 117 comma 1 Cost. A questo punto, la Consulta deve valutare la compatibilità della legge nazionale con il trattato (norma interposta) e, successivamente, deve verificare la compatibilità del Trattato stesso con la Costituzione. In un simile quadro, una posizione particolare è assunta dalla Convenzione europea dei diritti umani, che prevede la istituzione di un organo giurisdizionale, la Corte europea, al quale è affidata la funzione di interpretare le norme della Convezione stessa. Tra gli obblighi internazionali assunti dall’Italia con la ratifica della Convenzione vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione.

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rubrica <<Diritto ad un doppio grado di giurisdizione in materia penale>>,

riconosce ad ogni persona dichiarata colpevole o condannata il diritto ad un

secondo grado di giudizio95. Peraltro, pur prevedendosi il diritto al riesame,

si aggiunge che <<tale diritto potrà essere oggetto di eccezioni… nei casi in

cui la persona interessata sia stata giudicata in prima istanza da un tribunale

della giurisdizione più elevata o sia stata dichiarata colpevole o condannata

a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento>>.

L’altra disposizione che interessa la materia è l’art. 14 comma 5 del

Patto internazionale dei diritti civili e politici, il quale espressamente

prevede che: <<ogni individuo condannato per un reato ha diritto a che

l’accertamento della sua colpevolezza e la condanna siano riesaminati da

un tribunale di seconda istanza in conformità della legge>>.

Per una corretta interpretazione della norma è opportuno considerare

quanto segue. Il Patto internazionale non esige la rinnovazione dell’intero

giudizio e neppure una devoluzione strutturata come l’appello, dove il

giudice ha piena cognizione sui punti della decisione a cui si riferiscono i

motivi. Ne consegue che il riesame potrebbe anche ridursi ad un’azione di

impugnativa nella quale si decide direttamente sui motivi, come nel ricorso

per cassazione. Appare, tuttavia, essenziale che sia consentito denunciare

qualsiasi errore, in fatto come in diritto, a base della condanna per la prima

volta pronunciata. In altri termini, deve essere garantito a chiunque la

95 Fatto oggetto di ratifica con legge 9 aprile 1990, n. 98 ed entrato in vigore, in Italia, il 1 febbraio 1992. Per un’analisi dell’art. 2, si veda M.R. MARCHETTI, Commento all’art. 2 del Protocollo n.7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in Legisl. pen., 1991, 231 ss.; G. SPANGHER, Art. 2, in S. Bartle- B. Conforti-G. Rimondi (a cura di), Commentario della convenzione europea per la tutela dei dirtti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2001, 943 ss. Al dettato di questa previsione faceva espresso riferimento la Proposta di legge C. 4604, di iniziativa del deputato on. G. Pecorella, presentata il 13 gennaio 2004, in Atti camera, XIV leg., Disegni di legge e relazioni, stampato n. 4604.

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possibilità di contestare, almeno una volta e sotto ogni profilo rilevante, la

sentenza che lo abbia dichiarato colpevole96.

Nel codice del 1988, mancava per l’imputato, prosciolto in primo grado

e condannato in appello, la possibilità di un secondo giudizio di merito,

avendo a disposizione, in questo evenienza, soltanto il ricorso per

cassazione per motivi di legittimità. La riforma del 2006 era intervenuta,

dunque, per correggere tale disfunzione nel sistema delle impugnazioni

scegliendo la soluzione di sopprimere la possibilità per il pubblico

ministero di appellare le pronunce di proscioglimento, salvo un caso

eccezionale previsto dall’art. 593 comma 2, c.p.p..

2. L’intervento della Corte costituzionale sull’appello del pubblico

ministero.

La regola per cui il pubblico ministero non poteva appellare il

proscioglimento dell’imputato salvo il caso, di rarissima verificazione

concreta, della sopravvenienza o scoperta di nuove prove decisive, ha avuto

una vita breve.

Il teso dell’art. 593 comma 2, come novellato dalla legge n. 46 del 2006,

ha, infatti, sollecitato da subito una serie di dubbi di conformità al dettato

costituzionale97.

Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai giudici di merito

non sono rimaste senza effetto: la Corte costituzionale, con la sentenza n.

26 del 2007 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 593 comma

96 P. FERRUA, Riforma disorganica: era meglio rinviare ma non avremo il terzo grado di giudizio, in Dir. Giust., n. 9, 2006, 78. 97 Si vedano, tra le corti di merito che hanno sollevato la questione di costituzionalità: C. App. Napoli III, 30 marzo 2006, in Giur. mer., 2006, 2204; C. App. Brescia II, 10 marzo 2006, in Guida dir., 13, 87; C. App. Bologna II, 23 marzo 2006, in Dir. gius., 15, 68; C. Ass. App. Venezia II, 20 marzo 2006, in Giur. mer., 2006, 2199.

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2 c.p.p., come modificato dall’art. 1 della l. n. 46 del 2006, nella parte in

cui escludeva che il pubblico ministero potesse appellare contro le sentenze

di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603

comma 2, in caso di nuova prova decisiva98.

Innanzitutto, il parametro impiegato per statuire l’illegittimità della

disciplina che vietava al pubblico ministero di appellare il proscioglimento

è l’art.111 comma 2 Cost.

La regola secondo cui l’accertamento giudiziario si svolge in

<<contraddittorio tra le parti in condizioni di parità dinanzi ad un giudice

terzo e imparziale>> è stata assunta come espressione generale del

principio di eguaglianza tra i contendenti necessari.

In premessa, la Corte costituzionale ha richiamato e confermato il

proprio consolidato indirizzo secondo cui, nel processo penale, il principio

di parità tra accusa e difesa non comporta necessariamente l’identità tra i

poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell’imputato: una

disparità di trattamento può risultare giustificata purchè non esorbiti dai

limiti di ragionevolezza99. Proprio sul concetto di ragionevolezza la Corte

si è intrattenuta, precisando che il relativo giudizio andrà condotto sulla

base del rapporto comparativo tra la ratio che ispira la norma generatrice 98 Corte cost., 24 gennaio 2007, in Guida dir., 2007, 8, 75 con note di SCALFATI, Restituito il potere di impugnazione senza un riequilibrio complessivo, 78; E. MARZADURI, Sistema da riscrivere dopo ampie riflessioni, ivi, 84; G. FRIGO, Una parità che consolida disuguaglianze, ivi, 87; in Dir. pen. proc. 2007, 605, con note di P. FERRUA, La sentenza costituzionale sull’inappellabilità del proscioglimento e il diritto al <<riesame>> dell’imputato, 611; DE CARO, L’illegittimità costituzionale del divieto di appello del pubblico ministero tra parità delle parti e diritto al controllo di merito della decisione, ivi, 618; GAMBINI, Ancora un abuso del parametro della ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, ivi, 630. 99 P. FERRUA, La sentenza costituzionale sull’inappellabilità del proscioglimento e il diritto al <<riesame>> dell’imputato, in Dir. pen. proc. 2007, 611. l’autore,, condividendo la premessa, aggiunge che, nella specie, non era difficile trovare una “ragionevole giustificazion” alla scelta dell’inappellabilità contenuta nell’art. 1 l. n. 46 del 2006: non essendo la posizione dell’imputato davanti alla condanna omogenea a quella del p.m. davanti all’assoluzione, ben si poteva spiegare una diversa tutela e, quindi, una disparità di rimedi per l’errore nell’una e nell’altra decisione. Si veda anche A. PRESUTTI, L’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento tra regola e eccezione, in AA. VV., Impugnazioni e regole di giudizio nella legge di riforma del 2006. Dai problemi di fondo ai primi responsi costituzionali, a cura di M. Bargis e F. Caprioli, Torino, 2007, 51, che parla di situazioni di per sé disomogenee, che scontano una disuguaglianza intrinseca e perciò non censurabile.

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della disparità e l’ampiezza dello “scalino” da essa creato tra le posizioni

delle parti100.

Il principio di parità è stato inteso come insuscettibile di interpretazioni

riduttive, volte a negare alla parità delle parti il ruolo di connotato

essenziale dell’intero processo. Per la Corte, l’art. 111 comma 2 Cost.

esprime un assioma che pervade l’intero accertamento giudiziario, incluse

le iniziative dirette a ottenere il riesame della causa.

Per quanto riguarda il tema delle impugnazioni, la Corte ha ribadito che

parità delle parti non significa necessaria omologazione di poteri e facoltà.

Inoltre, richiamando i propri precedenti, ha riaffermato che la garanzia del

doppio grado di giurisdizione non fruisce, di per sé, di riconoscimento

costituzionale e che il potere di impugnazione nel merito della sentenza di

primo grado da parte del pubblico ministero presenta margini di

“cedevolezza” più ampi, a fronte di esigenze contrapposte, rispetto a quelli

che connotano il simmetrico potere dell’imputato.

Per i giudici di Palazzo della Consulta, infatti, il potere di impugnazione

della parte pubblica trova copertura costituzionale unicamente entro i limiti

di operatività del principio di parità delle parti, non potendo essere

configurato come proiezione del principio di obbligatorietà dell’esercizio

dell’azione penale, di cui all’art. 112 Cost.

Al contrario, il potere di impugnazione dell’imputato viene a correlarsi

anche al fondamentale valore espresso dal diritto di difesa (art. 24 comma 2

Cost.). Ciò non toglie, tuttavia che le eventuali menomazioni del potere di

impugnazione della pubblica accusa, nel confronto con lo speculare potere

dell’imputato, debbano comunque rappresentare, ai fini del rispetto del

100 A. SCALFATI, Restituito il potere di impugnazione senza un riequilibrio complessivo, in Guida dir., 2007, 8, 78, chiarisce che un trattamento differenziato è considerato ragionevole purchè risulti ispirato a un’adeguata ragion d’essere che giustifichi la diversità in vista di ulteriori beni, meritevoli di apprezzamento.

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principio di parità, soluzioni normative sorrette da una ragionevole

giustificazione, in termini di adeguatezza e proporzionalità. La Corte ha

affermato, di conseguenza, che l’art. 593 comma 2 racchiude una

dissimetria radicale.

Secondo la Corte, non è un valido argomento affermare che

l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento si presta, in astratto, a

sacrificare anche l’interesse dell’imputato, allorché il proscioglimento

presupponga un accertamento di responsabilità o implichi effetti

sfavorevoli. Tale conseguenza della riforma non incide sulla configurabilità

della rilevata sperequazione, per cui una sola delle parti, e non l’altra, è

ammessa a chiedere la revisione nel merito della pronuncia a sé

completamente sfavorevole.

Altrettanto evidente, per i giudici costituzionali, era il fatto che

l’eliminazione del potere di appello del pubblico ministero non poteva

ritenersi compensato dall’ampliamento dei motivi di ricorso per cassazione.

Infatti, tale ampliamento era sancito a favore di entrambe le parti, e perciò

inidoneo a riequilibrare le posizioni dell’accusato e del pubblico ministero.

Inoltre, il rimedio del ricorso per cassazione non consentiva un riesame di

merito, a differenza dell’appello.

L’inappellabilità ad opera del pubblico ministero, tra l’altro, si rivelava

generalizzata e unilaterale, ad avviso della Corte. Generalizzata, perché non

riferita a talune categorie di reati, ma estesa indistintamente a tutti i

processi; unilaterale, perché, secondo la Corte, non trovava alcuna specifica

“contropartita” in particolari modalità do svolgimento del processo,

essendo stata sancita in rapporto al rito ordinario.

Inoltre, la Corte osservava che, mentre il pubblico ministero “totalmente

soccombente” in primo grado restava privo del potere di proporre appello,

detto potere veniva invece conservato dall’organo dell’accusa nel caso di

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soccombenza solo parziale, sia in senso “qualitativo”, cioè in caso di

sentenza di condanna con mutamento del titolo di reato o con esclusione di

circostanze aggravanti, sia in senso “quantitativo”, cioè in caso di sentenza

di condanna a pena ritenuta non congrua.

Da questo ricco apparato motivazionale discendeva la conclusione dei

giudici di Palazzo della Consulta secondo la quale la menomazione ai

poteri della parte pubblica, nel confronto con quelli speculari dell’imputato,

eccedeva il limite di tollerabilità costituzionale, in quanto non era sorretta

da una ratio adeguata, in rapporto al carattere radicale, generale e

unilaterale della menomazione stessa.

La Corte è intervenuta con una sentenza manipolativa di accoglimento

parziale, da cui è scaturita la legittimazione generalizzata del pubblico

ministero a proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento, anche

se relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con

pena alternativa, e di condanna101.

Al contrario, la decisione della Corte non intaccava il limite che

riguardava l’imputato prosciolto: quest’ultimo, fino all’intervento della

sentenza costituzionale n. 85 del 2008 resterà vincolato alla deduzione del

“novum probatorio” per poter appellare la sentenza di proscioglimento.

Si è colto un autentico paradosso nel fatto che, proprio in ossequio al

principio di parità delle parti, che era il cuore della sentenza 26 del 2007,

risultasse dubbia la legittimità del limite superstite, relativo all’appello

dell’imputato contro le sentenze di proscioglimento102. In particolare, in si è

censurata la decisione in esame affermando che la medesima aveva

101 A. BARGI, A. GAITO, Il ritorno della Consulta alla cultura processuale inquisitoria (a proposito della funzione del p.m. nelle impugnazioni penali), in Giur. cost., 2007, 240. 102 A. BARGI, A. GAITO, Il ritorno della Consulta alla cultura processuale inquisitoria, cit., 240; DE CARO, L’illegittimità costituzionale del divieto di appello del pubblico ministero tra parità delle parti e diritto al controllo di merito della decisione, in Dir. pen. proc. 2007, 622; A. SCALFATI, Restituito il potere di impugnazione senza un riequilibrio complessivo, cit., 80.

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generato un sistema meno garantista di quello operante nel codice

abrogato103.

In definitiva, la maggioranza degli studiosi ha ritenuto che il giudice

delle leggi abbia ottenuto l’effetto di provocare una disparità più grave di

quella che aveva inteso eliminare104.

3. Ulteriori sviluppi in materia di appello dell’imputato contro la

sentenza di proscioglimento.

Decorso poco più di un anno dall’intervento operato dalla sentenza 26

del 2007, i giudici di Palazzo della Consulta hanno accolto una seconda

questione di legittimità costituzionale, adottando, in questa occasione, la

visuale prospettica dell’imputato.

In effetti, in seguito ad una prima pronuncia di illegittimità, erano caduti

i limiti imposti al potere di appello per quanto riguarda il pubblico

ministero mentre permanevano i limiti all’appello dell’imputato. Ne

103 P. TONINI, La legittimità costituzionale del divieto di appellare il proscioglimento. Una pronuncia discutibile che genera ulteriori problemi, cit., 349. 104 A. BARGI, A. GAITO, Il ritorno della Consulta alla cultura processuale inquisitoria, cit., 244; CHINNICI, Giudizio penale di seconda istanza e giusto processo, Torino, 2009, 233; DE CARO, L’illegittimità costituzionale del divieto di appello del pubblico ministero tra parità delle parti e diritto al controllo di merito della decisione, cit., 618; P. FERRUA, La sentenza costituzionale sull’inappellabilità del proscioglimento e il diritto al <<riesame>> dell’imputato, 611; L. FILIPPI, La Corte costituzionale disegna un processo accusatorio “all’italiana”, in L. Filippi (a cura di), Il nuovo regime delle impugnazioni tra Corte costituzionale e Sezioni Unite, Padova, 2007, 53; G. FRIGO, Una parità che consolida disuguaglianze, in Guida dir., 2007, 8, 87; GAMBINI, Ancora un abuso del parametro della ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, in Dir. pen. proc. 2007, 631; E. MARZADURI, Sistema da riscrivere dopo ampie riflessioni, in Guida dir., 2007, 8, 84; A. PRESUTTI, L’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento tra regola e eccezione, in AA. VV., Impugnazioni e regole di giudizio nella legge di riforma del 2006. Dai problemi di fondo ai primi responsi costituzionali, cit., 107; A. SCALFATI, Restituito il potere di impugnazione senza un riequilibrio complessivo, cit., 78; P. TONINI, La legittimità costituzionale del divieto di appellare il proscioglimento. Una pronuncia discutibile che genera ulteriori problemi, cit., 349.

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risultava un diritto di difesa irragionevolmente compromesso a fronte delle

potenzialità attribuite all’accusa. Si è reso, pertanto, doveroso un ulteriore

intervento della Consulta orientato a ristabilire un determinato equilibrio

nel sistema.

Con la pronuncia n. 85 del 2008 la Corte costituzionale ha restituito

all’imputato il potere di appello contro le sentenze di proscioglimento

utilizzando, peraltro, argomentazioni che impongono la risoluzione di

determinati snodi interpretativi105.

Per delineare gli attuali confini entro i quali l’imputato può proporre

appello avverso le sentenze di proscioglimento è necessario procedere ad

una disamina degli interventi del legislatore e della Corte costituzionale in

relazione all’art. 593 comma 2 c.p.p.

Come è noto, il secondo comma dell’art. 593 stabiliva, prima della

riforma del 2006, l’inappellabilità per la difesa delle sentenze di

proscioglimento perché “il fatto non sussiste” o “per non aver commesso il

fatto”. In realtà, la norma era considerata in dottrina come sovrabbondante,

dato che l’inappellabilità prevista era considerata conseguenza della

mancanza di interesse ad impugnare da parte dell’imputato per essere stato

assolto con formula piena106.

Peraltro, ad avviso di una giurisprudenza minoritaria, poteva ritenersi

sussistente l’interesse dell’imputato ad impugnare se la formula assolutoria

“il fatto non sussiste” o “l’imputato non lo ha commesso” fosse stata

pronunciata motivando in base all’art. 530 comma 2 per mancanza,

105 Con la sentenza 31 marzo-4aprile 2008 n. 85 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui, sostituendo l’art. 593, escludeva che l’imputato potesse appellare contro le sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603 comma 2, in caso di nuova prova decisiva. 106 G. TRANCHINA-G. DI CHIARA, Appello, dir. proc. pen., Enc. d., 1999, Agg., III, 202; M.G. AIMONETTO sub art. 593 c.p.p., in G. CONSO-V. GREVI, Commentario breve al codice di procedura penale, Padova, 2005.

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insufficienza o contraddittorietà della prova, sempre che fosse stato in

astratto ipotizzabile una situazione di svantaggio in capo all’impugnante107.

Comunque, risultava di avviso contrario la giurisprudenza maggioritaria,

corroborata nel 2003 da un intervento delle sezioni unite. In quella

occasione, la cassazione ha infatti ribadito la carenza dell’interesse ad

impugnare dell’imputato assolto con formula ampiamente liberatoria,

anche per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova, salvo che

nell’eccezionale ipotesi in cui l’accertamento di un fatto materiale oggetto

del giudizio penale conclusosi con sentenza dibattimentale fosse

suscettibile, una volta divenuta irrevocabile quest’ultima, di pregiudicarlo,

a norma dell’art. 654, in giudizi civili o amministrativi diversi da quelli di

danno e disciplinari regolati dagli articoli 652 e 653108.

In sintesi, prima del 2006, salvo il limite espressamente indicato per le

sentenze che affermavano la sua piena innocenza, l’imputato era titolare del

diritto di appellare qualunque altra decisione di proscioglimento che

lasciasse residuare effetti a lui sfavorevoli, come, ad esempio, nel caso di

sentenza di non doversi procedere per prescrizione, o nel caso in cui

l’imputato fosse dichiarato non punibile perché non imputabile.

Il legislatore, con la legge n. 46 del 2006, è intervenuto in modo radicale

sui mezzi di impugnazione nel processo penale, modificando

profondamente la materia. In particolare, la legge n. 46 del 2006 ha

stabilito in generale l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento,

salvo il caso, eccezionale, in cui fosse sopravvenuta o fosse stata scoperta

una nuova prova decisiva dopo il giudizio di primo grado.

La legge c.d. Pecorella è intervenuta sulla precedente normativa sia in

senso ampliativo sia in senso restrittivo.

107 Cass. pen., 2-7-1997, Zimbella, Dir. pen. proc., 98, 1397. 108 Cass. pen., Sez. Un., 30-10-03, n. 20, Andreotti, Cass. pen., 2004, 811.

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L’ampliamento è dato dal fatto che il nuovo comma 2 dell’art. 593 si

riferisce alle “sentenze di proscioglimento” senza operare alcuna

distinzione in merito alle species di pronunce contemplate dagli artt. 529,

530 e 531. Quindi le sentenze di assoluzione con la c.d. formula piena,

perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso, non

risultano destinatarie di un regime specifico quale era quello contenuto

nella normativa precedente.

Ne consegue che, in base alla normativa riformata, l’appello

dell’imputato prosciolto, con sentenza motivata ai sensi dell’art. 530

comma 2, per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova, può

risultare ammissibile dato che, in assenza di divieti espressi, non può

escludersi in astratto un interesse dell’imputato medesimo alla definizione

del processo penale con un accertamento univoco dell’infondatezza

dell’addebito formulato a suo carico, anche nella prospettiva dei vincoli

extrapenali del giudicato penale previsti dagli artt. 652 e segg109.

Peraltro, come abbiamo anticipato, la legge c.d. Pecorella è intervenuta

soprattutto in senso restrittivo, poiché l’appello contro le sentenze di

proscioglimento, di qualunque specie, era sottoposto alla condizione della

sopravvenienza o della scoperta di nuove prove decisive. Quest’ultima si

pone come una vera e propria condizione di ammissibilità, pertinente al

giudizio di appello contro una sentenza di proscioglimento, che si

aggiungeva alle ordinarie condizioni di ammissibilità disciplinate dagli

articoli 568 e segg. e completate dall’art. 591c.p.p.110

Nel testo originario della riforma del 2006, tale condizione era posta sia

per l’imputato che per il pubblico ministero.

109 E. MARZADURI, Così nell’assetto degli istituti il legislatore ricerca nuovi equilibri, in Guida dir., 2006, n. 10, 51; G. SPANGHER, Legge Pecorella, l’appello si sdoppia. Tra l’eccezione e il fisiologico, in Dir. Giust., 2006, n. 9, 68. 110 G. SPANGHER, Legge Pecorella, l’appello si sdoppia, cit.

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Come è noto, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 26 del 2007 ha

fatto cadere il divieto di appello per il pubblico ministero, che è stato

rimesso nella sua potestà impugnatoria in ordine alle sentenze di

proscioglimento dell’imputato111.

La regola generale, introdotta nella riforma del 2006, che stabiliva la

non appellabilità delle sentenze di proscioglimento, risultava, ad avviso

della Corte, in contrasto con il principio di parità delle parti. L’asimmetria

che si veniva a creare era ritenuta generalizzata e radicale e, pertanto, si

poneva al di fuori di ogni ragionevolezza. Il pubblico ministero non poteva

in nessun caso impugnare la pronuncia che disattendesse in modo integrale

la pretesa punitiva, cioè la sentenza di proscioglimento. Al contrario,

l’imputato poteva appellare la sentenza di condanna, anche quando si

trattava di illeciti bagatellari, salvo, ovviamente, l’eccezione relativa alle

sentenze di condanna alla sola pena dell’ammenda (art. 593 comma 3

c.p.p.).

Di conseguenza, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 26, ha

dichiarato illegittimo il divieto, posto per il pubblico ministero, di

presentare appello contro il proscioglimento dell’imputato.

L’illegittimità costituzionale ha colpito l’art. 593 comma 2, nella parte

in cui esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze

di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603,

comma 2, se la nuova prova è decisiva.

In sostanza la Corte costituzionale, con tale intervento, ha eliminato la

condizione della sopravvenienza di una nuova prova decisiva, restituendo

al pubblico ministero la facoltà di appellare le pronunce di proscioglimento.

Per quanto riguarda l’altro versante, la declaratoria di parziale

illegittimità ha lasciato inalterato il divieto, posto per l’imputato, di 111 Corte cost., 6 febbraio 2007, n. 26, in Guida dir., 2007, n. 8, 69.

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presentare appello contro le sentenze di proscioglimento, salvo che

nell’ipotesi, del tutto marginale, di cui all’art. 593 comma 2, relativa a una

nuova prova sopravvenuta o scoperta dopo il giudizio di primo grado e

comunque entro i termini per impugnare.

L’assetto appena descritto è apparso palesemente asimmetrico a

svantaggio dell’imputato112.

Va osservato, a questo punto, che la Corte avrebbe potuto riequilibrare

la posizione dell’imputato, restituendogli il potere di appello, già nel

contesto della sentenza n. 26 del 2007. Infatti la Consulta, molto

opportunamente, avrebbe potuto dichiarare d’ufficio, in applicazione

dell’art. 27 della l. n. 87 del 1953, l’illegittimità dell’art. 593 c.p.p., nella

parte in cui precludeva all’imputato di appellare il proscioglimento.

La Corte costituzionale, con la sentenza 320 del 2007, ha

successivamente esteso il potere di appello del pubblico ministero anche

verso le sentenze di proscioglimento emesse in seguito a giudizio

abbreviato. Infatti il giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità

costituzionale dell’art. 443, comma 1 c.p.p., nella parte in cui stabiliva

l’inappellabilità per il pubblico ministero delle sentenze di proscioglimento

relative al giudizio abbreviato113.

E’ venuto al pettine, infine, il nodo relativo alla posizione dell’imputato.

Infatti, con la sentenza n. 85 del 2008, la Corte costituzionale ha preso atto

dell’asimmetria che riguardava quest’ultimo. Secondo il giudizio della

Corte, la menomazione più grave del diritto di difesa è costituita

dall’assimilazione sotto un’unica disciplina di tipi di proscioglimento tra

loro assai diversi.

112 P. TONINI, La illegittimità costituzionale del divieto di appellare il proscioglimento. Una pronuncia discutibile che genera nuovi problemi, cit., 349; G. SPANGHER, Legge Pecorella, l’appello si sdoppia, cit., 70. 113 Corte cost., 20 luglio 2007, n. 320, in Guida dir., 2007, n. 31, 45.

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Come è noto, in forza della direttiva espressa nell’art. 2 n. 11 della legge

delega, l’attuale ordinamento processuale penale articola il proscioglimento

in una pluralità di formule da richiamare nel dispositivo della sentenza. Tali

formule non sono tutte ugualmente favorevoli per l’imputato.

Va innanzitutto operata la distinzione fondamentale tra sentenze di non

doversi procedere (artt. 529 e 531) e sentenze di assoluzione (art. 530). Le

prime sono meno vantaggiose per l’imputato in quanto non contengono un

accertamento del fatto ma riguardano aspetti processuali, con la

conseguenza che la questione nel merito resta aperta. Al contrario,

l’imputato ha tutto l’interesse ad ottenere un’assoluzione nel merito poiché

tale sentenza ha un effetto ampiamente liberatorio di fronte all’opinione

pubblica114.

Per quanto riguarda le sentenze di assoluzione va detto, peraltro, che

alcune di queste possono comportare per l’imputato un esito parzialmente

pregiudizievole sotto vari aspetti. In proposito, risulta emblematica

l’ipotesi in cui il giudice assolva con la formula perché “il reato è stato

commesso da una persona non imputabile o non punibile per altra ragione”

allorché, stabilita la commissione del fatto penalmente rilevante da parte

dell’imputato, difetti la punibilità in concreto. Ciò può verificarsi quando

l’accusato non sia imputabile; quando ricorra una causa di non punibilità in

senso stretto (ad es. 649 co. 3 c.p.); ovvero manchi una causa obiettiva di

punibilità; quando, infine, il soggetto sia penalmente immune (ad es. 68 co.

1 Cost.).

Questa formula è certamente la più sfavorevole fra quelle di assoluzione

poiché presuppone la commissione da parte dell’imputato di un reato.

Inoltre, una volta dichiarata la non imputabilità, l’imputato, se ritenuto

socialmente pericoloso, può comunque essere sottoposto ad una misura di 114 P. TONINI, Manuale di procedura penale, 11 ed., Milano, 2010, 698.

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sicurezza. La stessa situazione si verifica nel caso di commissione dei c.d.

quasi reati (reato impossibile e istigazione non accolta a commettere un

delitto)115.

Già da questo breve excursus emerge con tutta evidenza come

determinate ipotesi di proscioglimento siano idonee a ledere gli interessi

morali o giuridici dell’imputato prosciolto. A questo proposito sono

definite paradigmatiche dalla Corte le fattispecie oggetto dei giudizi a

quibus: dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione, conseguente

al riconoscimento di circostanze attenuanti; proscioglimento per cause di

non punibilità legate a condotte o accadimenti post factum; proscioglimento

per concessione del perdono giudiziale.

In effetti, nel primo caso, si era pervenuti alla declaratoria di

prescrizione in esito ad una valutazione di merito, che presuppone il

riconoscimento della colpevolezza dell’imputato.

Nel secondo caso, l’imputato era stato prosciolto per l’applicazione

della causa di non punibilità di cui all’art. 387 comma 2, che presuppone

l’accertamento che il preposto alla custodia abbia cagionato colposamente

l’evasione di un detenuto.

Nel terzo caso, si era giunti a un proscioglimento per la concessione del

perdono giudiziale. Tale pronuncia è altamente lesiva degli interessi

dell’imputato. Infatti, è pacifico che la concessione del perdono giudiziale

presuppone l’accertamento del fatto e della responsabilità del minore116.

Occorre ricordare, tra l’altro, che, nella vigenza del codice Rocco, la

Corte costituzionale aveva dichiarato illegittimi gli articoli 512 e 513

115 P. TONINI, Manuale, cit., 700. 116 F. MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 2007, 812.

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(corrispondenti all’attuale 593 c.p.p.) nella parte in cui contenevano

analoghe limitazioni per l’appello delle sentenze di proscioglimento117.

Sulla base delle suddette argomentazioni, ad avviso della Corte

costituzionale, l’art. 593 comma 2, accomunando sotto lo stesso regime

giuridico situazioni tra loro marcatamente eterogenee, nega all’imputato,

salvo il caso limite della nuova prova decisiva sopravvenuta, un secondo

grado di merito nei confronti di quelle sentenze di proscioglimento che in

realtà pregiudicano i suoi interessi giuridici o morali, affermando

sostanzialmente la sua responsabilità o attribuendo comunque il fatto al

prosciolto, come ad esempio nel caso del perdono giudiziale. A ciò va

aggiunto l’effetto negativo che il sostanziale accertamento di responsabilità

dell’imputato può comportare nei giudizi civili, amministrativi o

disciplinari inerenti al medesimo fatto.

Inoltre, osserva la Corte, i diritti di difesa dell’imputato appaiono

compromessi anche alla luce del potere di appello in capo al pubblico

ministero e alla parte civile. Infatti, il pubblico ministero può, in seguito

alla sentenza della Corte cost. n. 26 del 2007, appellare non solo le

sentenze di condanna, ma anche tutte le sentenze di proscioglimento,

comprese quelle relative a reati bagatellari per contravvenzioni punite con

117 Si vedano a questo proposito: Corte cost., n. 70 del 1975 e n. 73 del 1978 (che avevano dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 512, n 2 e dell’art. 513, n. 2, c.p.p., nella parte in cui escludevano il diritto dell’imputato di appellare le sentenze di proscioglimento per amnistia pronunciate a seguito del giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti); Corte cost. n. 72 del 1979 (che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 512, n 2 e dell’art. 513, n. 2, c.p.p., nella parte in cui escludevano il diritto dell’imputato di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento per intervenuta prescrizione del reato pronunciate a seguito della concessione di circostanze attenuanti); Corte cost., n. 200 del 1986 (che avevano dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 512, n 2 e dell’art. 513, n. 2, c.p.p., nella parte in cui riconoscevano all’imputato il diritto di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento “perché si tratta di persona non punibile perché il fatto non costituisce reato” limitatamente alle ipotesi nelle quali fosse stata applicata o potesse, con provvedimento successivo, essere applicata una misura di sicurezza); Corte cost. n. 140 del 1989 (che avevano dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 512, n 2 e dell’art. 513, n. 2, c.p.p., nella parte in cui riconoscevano all’imputato il diritto di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento “perché si tratta di persona non imputabile perché il fatto non costituisce reato” limitatamente alle ipotesi nelle quali fosse stata applicata o potesse, con provvedimento successivo, essere applicata una misura di sicurezza).

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la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa. Mentre la parte civile,

alla luce di un orientamento giurisprudenziale confermato dalle sezioni

unite della cassazione, anche dopo l’intervento sull’art. 576 c.p.p. ad opera

della legge n. 46 del 2006, può proporre appello, agli effetti della

responsabilità civile, contro le sentenze di proscioglimento pronunciate nel

giudizio di primo grado118.

Un assetto di questo tipo risulta lesivo del principio di parità delle parti

(art 111 comma 2 Cost.), riguardo alle maggiori prerogative della parte

pubblica rispetto a quelle dell’imputato, in quanto non fondato su alcuna

giustificazione razionale.

Risultano inoltre lesi i principi di eguaglianza e ragionevolezza art. 3

Cost.), in quanto sono equiparati nello stesso regime di inappellabilità esiti

processuali molto diversi tra loro.

Infine, risulta leso il diritto di difesa, perché proprio in esso trova

fondamento la facoltà di appellare dell’imputato. Infatti, secondo la Corte,

l’assetto in questione, <<si pone in contrasto con il diritto di difesa (art. 24

Cost.), al quale la facoltà di appello dell’imputato risulta collegata come

strumento di esercizio>>.

Per i motivi già delineati, la Corte costituzionale conclude con la

necessità di eliminare la condizione di cui al comma 2 dell’art. 593 anche

per quanto riguarda l’imputato.

E’ opportuno a questo punto chiedersi contro quali tipologie di sentenze

di proscioglimento l’imputato può, allo stato attuale, proporre appello. In

mancanza di riferimenti testuali, si può ritenere, in via interpretativa, che

l’imputato possa appellare quelle sentenze che, pur essendo di

proscioglimento, sono idonee a compromettere in qualche misura i suoi

interessi giuridici o morali. Ne consegue che non dovrebbero ritenersi 118 Cass. pen., Sez. un., 29 marzo 2007 (dep. 12 luglio 2007), n. 27614, in Cass. pen., 2007, 4451.

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appellabili le pronunce emesse perché il fatto non sussiste o non è stato

commesso dall’imputato.

Infatti, nei confronti delle suddette pronunce, che sono ampiamente

liberatorie, non sussiste alcun interesse ad impugnare da parte

dell’imputato. Del resto, sembra essere questa l’interpretazione data non

soltanto dalla dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità, ma anche dalla

Corte costituzionale, che nella sentenza in esame fa riferimento

esplicitamente alle sentenze di proscioglimento che possano risultare

potenzialmente pregiudizievoli per l’imputato.

Dal regime di appellabilità rimangono escluse, per disposto della

sentenza costituzionale n. 85 del 2008, le sentenze di proscioglimento

relative a contravvenzioni punite solo con l’ammenda o con pena

alternativa. Al fine di comprendere pienamente questa conclusione, può

essere utile ripercorrere brevemente l’evoluzione normativa delle regole

relative all’appellabilità di questa tipologia di sentenze.

E’ opportuno a tal proposito analizzare la disciplina vigente prima e

dopo l’intervento della legge 20 febbraio 2006 n. 46 nonché la disciplina

che risulta a seguito dell’intervento della Corte costituzionale n. 85 del

2008.

Il testo originario dell’art. 593 comma 3 stabiliva che non potevano

essere appellate le sentenze di condanna alla sola pena dell’ammenda e le

sentenze di proscioglimento relative a contravvenzioni punibili con la sola

pena dell’ammenda o con pena alternativa.

Nella riforma operata dalla legge c.d. Pecorella si è posta una

distinzione. Le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola

pena dell’ammenda sono restate inappellabili ai sensi dell’art. 593 comma

3. Al contrario, le sentenze di proscioglimento per contravvenzioni punite

con la sola ammenda o con pena alternativa non sono state più menzionate

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nel comma 3 dell’art. 593 e quindi sono ricadute sotto la disciplina del

comma 2 del medesimo articolo. Di conseguenza, possono essere appellate

sulla base di una nuova prova decisiva119.

La sentenza della Corte costituzionale n. 85 del 2008, come abbiamo già

illustrato, ha rimosso la condizione di appellabilità delle sentenze di

proscioglimento da parte dell’imputato, legata alle nuove prove decisive.

Nello stesso tempo è rimasto inalterato il terzo comma dell’art. 593.

Posto ciò, il ragionamento della Corte si sviluppa nei seguenti passaggi.

Le sentenze di condanna relative a contravvenzioni per le quali è stata

applicata la sola pena dell’ammenda rimangono tuttora inappellabili in base

all’art. 593 comma 3. Alla Corte è apparso irrazionale che l’imputato

avesse la facoltà di appellare la sentenza che l’abbia prosciolto da una

contravvenzione punibile con la sola ammenda mentre gli è impedito di

appellare la sentenza che lo abbia condannato alla stessa pena

dell’ammenda.

Inoltre, prosegue la Corte, la soluzione alternativa, consistente nel

rimuovere la previsione del terzo comma del 593, dichiarandolo

incostituzionale, pur prospettabile in astratto, se da un lato consentirebbe

all’imputato di appellare anche contro le sentenze di condanna alla sola

pena dell’ammenda, dall’altro sarebbe una scelta troppo “creativa”. Infatti,

eliminando ogni limite oggettivo all’appello dell’imputato si finirebbe per

andare contro lo scopo perseguito dal legislatore del 2006, il quale, se

avesse voluto rendere appellabili le sentenze relative alle contravvenzioni

di minore gravità, non avrebbe mantenuto il limite di cui al comma 3

dell’art. 593.

In definitiva, ad avviso della Corte, la declaratoria di incostituzionalità

va limitata alle sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle 119 A. SCALFATI, Salvo eccezioni appellabile la sola condanna, in Guida dir., 2006, n. 10, 54.

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contravvenzioni punite solo con l’ammenda o con pena alternativa.

Volendo esprimere la regola in altri termini, possiamo affermare che

l’imputato può proporre appello contro le sentenze di proscioglimento per

tutti i delitti e per tutte le contravvenzioni punibili con l’arresto, solo o

unito ad ammenda (es. possesso ingiustificato di grimaldelli, art. 707 c.p.;

fabbricazione di materie esplodenti, art. 678 c.p.).

La Corte costituzionale ha dichiarato anche l’illegittimità dell’art. 10,

comma 2, della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui prevede che sia

dichiarato inammissibile l’appello proposto dall’imputato prima

dell’entrata in vigore della medesima legge, a norma dell’art. 593 c.p.p.,

contro una sentenza di proscioglimento, relativa a reato diverso dalle

contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa. In tal

modo, la decisione della Corte ha inciso anche sulla normativa transitoria.

In proposito occorre distinguere tra sentenze passate in giudicato e

procedimenti ancora pendenti davanti alla corte di cassazione. Nel primo

caso la vicenda processuale non può essere riaperta. Al contrario, per

quanto riguarda i ricorsi ancora pendenti, secondo un recente orientamento

giurisprudenziale, la cassazione dovrà trasmettere gli atti al giudice di

secondo grado. Infatti particolare per l’espletamento one ha operato una

distinzione a seconda che il ricorso dell’imputato contro la sentenza di

proscioglimento sia stato proposto indirettamente, in seguito ad

un’ordinanza di inammissibilità dell’appello ex art. 10 comma 2, l. n.

46/06, ipotesi nella quale deve essere pronunciato l’annullamento senza

rinvio dell’ordinanza di inammissibilità, con restituzione degli atti al

giudice di appello, ovvero direttamente dopo l’entrata in vigore della nuova

disciplina: in questo secondo caso, il ricorso deve essere trattato come

ricorso immediato e, in presenza di motivi ex art. 606 lett. d) ed e) c.p.p.,

deve essere convertito in appello (art. 569 comma 3), mentre, in caso di

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annullamento con rinvio per altri motivi, deve disporsi la trasmissione degli

atti al giudice competente per l’appello ai sensi dell’art. 569 comma 4120.

120 Cass. pen., sez. I, n. 19782, ud. 29 aprile 2008 – dep. del 16 maggio 2008, Presidente S. Chieffi, Relatore G. Canzio, in www.cortedicassazone.it.

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CAPITOLO III L’EVOLUZIONE DEL POTERE DI APPELLO DELLA PARTE CIVILE

TRA NOVELLA LEGISLATIVA E GIURISPRUDENZA DI

LEGITTIMITA’

1. La riforma: l’iter dei lavori parlamentari.

Come è noto, in seguito all’entrata in vigore della legge n. 46 del 2006,

c.d. Legge Pecorella, ci si è interrogati su quali potessero essere le ricadute

della riforma sulla facoltà di impugnazione della parte civile, a causa della

modifica apportata all’art. 576 c.p.p121.

Una compiuta analisi del sistema richiede necessariamente una

preventiva disamina dei lavori preparatori che, certamente diretti ad

eliminare il potere del pubblico ministero di appellare le sentenze di

proscioglimento, hanno coinvolto, forse anche oltre l’obiettivo che si era

proposto il legislatore, le regole dell’impugnazione della parte civile122.

Occorre innanzitutto osservare che l’originaria versione del disegno di

legge recante <<Modifiche al codice di procedura penale in materia di

inappellabilità delle sentenze di proscioglimento>> non conteneva alcuna

121 Per un commento delle singole disposizioni in cui si articola la legge n. 46 del 2006 si vedano: AA. VV., Processo penale: diventa la regola l’inappellabilità dei proscioglimenti, in Guida dir., n. 10, 2006, 41 ss.; AA. VV., Commento alla legge 20 febbraio 2006 n. 46, in Leg. pen., 2007, 9 ss., A. GAITO (a cura di) La nuova disciplina delle impugnazioni dopo la “legge Pecorella”, Torino, 2006; A. SCALFATI (a cura di) Novità su impugnazioni e regole di giudizio, Milano, 2006; M. BARGIS – F. CAPRIOLI, Impugnazioni e regole di giudizio nella legge di riforma del 2006, Torino, 2007. 122 E. VALENTINI, I lavori parlamentari, in M. BARGIS – F. CAPRIOLI, Impugnazioni e regole di giudizio, cit., ove si ricostruisce l’intero iter parlamentare della legge n. 46 del 2006, che viene definito <<al tempo stesso tortuoso e serrato>>. Le principali tappe che hanno condotto all’approvazione della legge 20 febbraio 2006 n. 46 rubricata <<Modifiche al codice di procedura penale, in tema di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento>> sono le seguenti. Il progetto è stato presentato alla Camera dei deputati dall’On. Pecorella il 13 gennaio 2004 (atto n. 4604) ed è stato approvato il 21 settembre 2005. Successivamente, è stato approvato dal Senato della Repubblica il 12 gennaio 2006 (atto n. 3600). Il testo è stato rinviato alle Camere dal Presidente della Repubblica per una nuova deliberazione a norma dell’art. 74 Cost., con messaggio motivato del 20 gennaio 2006. La successiva approvazione ad opera dei due rami del Parlamento è avvenuta il 1 febbraio alla Camera e il 14 febbraio 2006 al Senato. La legge è stata promulgata il 20 febbraio, pubblicata in Gazzetta Ufficiale, 22 febbraio 2006, n. 44, ed è entrata in vigore il 9 marzo 2006.

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specifica disposizione direttamente incidente sul potere di impugnare

spettante alla parte civile.

Infatti, l’originario disegno di legge incideva in modo radicale sul testo

dell’art. 593 c.p.p., prevedendo che il pubblico ministero e l’imputato

potessero appellare soltanto le sentenze di condanna, salvo quelle

applicative della sola pena dell’ammenda, escludendo ogni tipo di gravame

avverso le sentenze di proscioglimento, senza alcuna eccezione123.

Al contrario, l’art. 576 c.p.p. rimaneva inalterato124. Di conseguenza, il

ruolo della parte civile, che poteva proporre impugnazione soltanto “con il

mezzo previsto per il pubblico ministero”, appariva ridimensionato alla

stessa stregua di quello attribuito alla pubblica accusa, restando alla

medesima soltanto il potere di appellare la sentenza di condanna e la

generica facoltà di presentare ricorso per cassazione.

Al fine di limitare il potenziale pregiudizio derivante dal

proscioglimento dell’imputato in relazione all’esito del successivo giudizio

di responsabilità civile, il precedente disegno di legge, intervenendo

sull’art. 652 c.p.p., stabiliva che la sentenza di assoluzione sarebbe rimasta

priva di effetti extrapenali nel caso in cui la parte civile non avesse

presentato le proprie conclusioni al termine del dibattimento125.

123 L’art. 1 del disegno di legge approvato dal Senato il 12 gennaio 2006 (atto 3600) stabiliva: <<L’art. 593 del codice di procedura penale è sostituito dal seguente: “Art. 593 (casi di appello) – 1. Salvo quanto previsto dagli artt. 443 comma 3, 448 comma 2, 579 e 680, il pubblico ministero e l’imputato possono appellare contro le sentenze di condanna. 2. Sono inappellabili le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda”>>. 124 L’art. 576 nella sua originaria formulazione stabiliva: <<la parte civile può proporre impugnazione, con il mezzo previsto per il pubblico ministero, contro i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile e, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio. Con lo stesso mezzo e negli stessi casi può proporre impugnazione contro la sentenza pronunciata a norma dell’art. 442 quando ha consentito alla abbreviazione del rito>>. 125 Il progetto di riforma dell’art. 652 c.p.p. originariamente predisposto dalla Commissione giustizia della Camera stabiliva: <<La sentenza penale di assoluzione non ha effetto nei giudizi civili e amministrativi, salvo che la parte civile si sia costituita nel processo penale ed abbia presentato le conclusioni>> (proposta di legge n. 4604-A). Successivamente, viene introdotto il riferimento alla irrevocabilità della sentenza e la specificazione degli effetti del provvedimento assolutorio nel caso in cui la parte civile si sia effettivamente costituita ed abbia presentato le conclusioni nel processo penale: <<La sentenza penale di assoluzione, anche se irrevocabile, non ha effetto nei giudizi civili e amministrativi, salvo che la parte

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Peraltro, il suddetto disegno di legge veniva rinviato alle Camere dal

Presidente della Repubblica con messaggio motivato del 20 gennaio 2006,

per una nuova deliberazione, ai sensi dell’art. 74 Cost. In particolare, il

Presidente della Repubblica, tra i profili critici evidenziati, aveva rilevato,

con riferimento al principio di parità delle parti nel processo ( art. 111

comma 2 Cost.), la compressione delle facoltà spettanti alla vittima del

reato costituitasi parte civile126.

Il monito del Presidente spinse il legislatore ad apportare determinate

modifiche all’originale formulazione del progetto di riforma del sistema

delle impugnazioni penali.

Nell’intento di rimediare ai rilevati punti critici, fu soppressa la

modifica relativa all’art. 652 c.p.p. e, soprattutto, fu eliminato dalla

disposizione dell’art. 576 c.p.p. l’inciso “con il mezzo previsto per il

pubblico ministero”127.

civile si sia costituita nel processo penale ed abbia presentato le conclusioni. In questo caso la sentenza ha effetto quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima>> (proposta di legge n. 4604-B Camera e 3600 Senato). Si veda, in proposito, il commento critico di P. FERRUA, Inappellabilità: squilibri e disfunzioni. No del Colle per salvare la Cassazione, in Dir. giust., 2006, 5, 90, secondo cui <<la rettifica sugli effetti della sentenza assolutoria>> non sarebbe stata sufficiente a tutelare gli interessi del danneggiato, privato del potere di appello, dovendosi, semmai, riconoscere alla parte civile il diritto di <<trasferire la propria azione davanti al giudice civile, senza subire la sospensione del processo in quella sede>> come previsto dall’art. 75 comma 3 c.p.p. 126 Nel testo del messaggio presidenziale, pubblicato in Foro it., 2006, v, 84, si afferma quanto segue: <<(…) Soppressione (dell’appello delle sentenze di proscioglimento) che, a causa della disorganicità della riforma, fa sì che la stessa posizione delle parti nel processo venga ad assumere una condizione di disparità che supera quella compatibile con la diversità delle funzioni svolte dalle parti stesse nel processo. Le asimmetrie tra accusa e difesa costituzionalmente compatibili non devono mai travalicare i limiti fissati dal secondo comma dell’art. 111 della Costituzione, a norma del quale: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, davanti a un giudice terzo e imparziale”. Infine, non lo si dimentichi, è parte del processo anche la vittima del reato costituitasi parte civile, che vede compromessa dalla legge approvata la possibilità di far valere la sua pretesa risarcitoria all’interno del processo penale>>. Si vedano, in proposito, le riflessioni di E. MARZADURI, Legge Pecorella: <<luci e ombre>> di un forte messaggio presidenziale, in Guida dir., 2006, 5, 11 ss. 127 E. RANDAZZO, Un testo in armonia con il giusto processo che ristabiliva i principi di civiltà giuridica, in Guida dir., 2006, n. 5, 14, ove si sostiene che la modifica dell’art. 576 c.p.p. avrebbe consentito di sganciare l’impugnazione della parte civile da quella del pubblico ministero e si sarebbe garantito, ai soli fini civili, quel doppio grado di giudizio a cui il danneggiato avrebbe diritto se esercitasse l’azione in sede propria. Si veda, in senso molto critico in merito alle conseguenze sistematiche derivanti dalla modifica in esame G. FRIGO, E’irrealistico ipotizzare risorse equivalenti a quelle delle figure processuali “necessarie”, in Guida dir., 2006, 19, 90.

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La modifica dell’art. 576 c.p.p. era stata determinata dalla palese

intenzione di salvare il potere della parte civile di appellare, agli effetti

civili, le sentenze di proscioglimento, sganciandolo dalla facoltà di

impugnazione spettante al pubblico ministero128.

Tale soluzione fu approvata dalla Camera, in assenza di ulteriori

proposte di emendamento. Nel corso del dibattito svoltosi al Senato,

invece, determinati emendamenti manifestavano un giudizio di non

assoluta idoneità della soluzione accolta in ordine al perseguimento dello

scopo di estendere il potere di impugnazione della parte civile oltre i limiti

tracciati dalla legge per il pubblico ministero.

In tale direzione, si era prospettata la necessità di fare espressa

menzione del mezzo di gravame dell’appello nel testo dell’art. 576 c.p.p.,

in modo da svincolare la disposizione normativa da un tenore letterale

troppo generico che avrebbe potuto esporla ad interpretazioni

configgenti129.

Peraltro, la mancanza di un dibattito specifico sul tema in questione, ha

consentito che il testo approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati

fosse ratificato in tempi rapidi anche dall’altro ramo del Parlamento130.

128 Nell’intervento del Relatore del provvedimento, On. Isabella Bertolini, si è affermato che la Commissione giustizia, nel modificare l’originario articolato normativo, ha ritenuto di dover tutelare <<maggiormente la parte civile, modificando la disposizione di cui all’art. 576 del codice di procedura penale (…) stabilendo che tale impugnazione limitata ai soli effetti civili possa essere effettuata in via diretta e non più con il mezzo previsto per il pubblico ministero>>. Si veda, sul punto, il resoconto stenografico dell’Assemblea della Camera dei deputati, Seduta n. 739 del 30 gennaio 2006, 7. 129 In tal senso l’emendamento presentato dal Sen. G. Zancan, che mirava a sostituire il testo del disegno di legge in modo da introdurre un nuovo primo comma dell’art. 576 c.p.p. dal seguente tenore: <<1. La parte civile può proporre appello contro i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile e, ai soli effetti della responsabilità civile contro la sentenza di proscioglimento pronunziata nel giudizio, anche abbreviato, qualora abbia acconsentito alla abbreviazione del rito>>. Sul punto si veda il Resoconto sommario dell’Assemblea, Seduta n. 556 del 7 febbraio 2006. 130 E. M. MANCUSO, La modifica delle norme in materia di impugnazione della parte civile, in A. SCALFATI (a cura di) Novità su impugnazioni e regole di giudizio, cit., 150.

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2. Il potere di impugnazione della parte civile alla luce delle

interpretazioni della dottrina.

Come è noto, in seguito all’intervento di riforma ad opera della legge n.

46 del 2006, è stato eliminato nel primo comma dell’art. 576 c.p.p. l’inciso

<<con il mezzo del pubblico ministero>>, ed è stata, inoltre, sostituita la

frase <<con lo stesso mezzo e negli stessi casi>> con l’espressione <<la

parte civile può altresì>>. Di conseguenza, l’art. 576 c.p.p., così riformato,

da un lato prevede che la parte civile può proporre “impugnazione”, da un

altro lato non stabilisce gli strumenti attraverso i quali la medesima può

reagire verso la sentenza emessa in sede penale.

Infatti, l’inciso che è stato eliminato aveva la specifica funzione di

individuare, attraverso il richiamo delle norme relative al pubblico

ministero, i mezzi di impugnazione di cui disponeva il danneggiato che

aveva scelto di esercitare l’azione civile all’interno del processo penale131.

La riforma in esame ha suscitato numerosi interrogativi sul piano

esegetico. In particolare, è stata posta la questione in merito alla possibilità

per la parte civile di proporre appello, dal momento che non vi è alcuna

norma che conferisca espressamente tale facoltà al danneggiato da reato132.

Nel sistema delle impugnazioni penali vige il principio di tassatività, di

cui all’art. 568 c.p.p. Tale principio impone che la legge stabilisca i casi nei

quali i provvedimenti del giudice sono soggetti a impugnazione e determini

il mezzo con cui possono essere impugnati (art. 568 comma 1 c.p.p.).

Inoltre, il diritto di impugnazione spetta soltanto a colui al quale la legge

espressamente lo conferisce (art. 568 comma 3 c.p.p.). 131 G. FRIGO, Un intervento coerente con il sistema, in Guida dir., n. 10, 2006, 103, il quale, in riferimento all’originaria formulazione dell’art. 576 c.p.p. sottolinea che <<la norma, così concepita, era stata introdotta nel codice del 1988 proprio per accordare il diritto d’appello anche contro le sentenze di proscioglimento alla parte civile (cui fino ad allora spettava il solo ricorso per cassazione, peraltro senza particolari inconvenienti, ai fini di rimuovere gli effetti pregiudizievoli di un proscioglimento sugli interessi civili)>>. 132 M. GIALUZ, Codice di procedura penale commentato, sub art. 576, 2010, 7065.

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In base ad una lettura rigorosa del principio di tassatività, la dottrina

maggioritaria ha ritenuto che il sistema delle impugnazioni, in assenza di

una espressa previsione che legittimi la proposizione dell’appello, consenta

soltanto di esperire il ricorso per cassazione, previsto in via generale nei

confronti di tutte le sentenze, in forza dell’art. 568 comma 2 c.p.p. Di

conseguenza, secondo questa impostazione, alla parte civile sarebbe

precluso l’appello sia verso la sentenza di condanna sia verso la sentenza di

proscioglimento133.

133 M. G. AIMONETTO, Disfunzioni ed incongruenze in tema di impugnazione della parte civile, in M. Bargis e F. Caprioli (a cura di), Impugnazioni e regole di giudizio nella legge di riforma del 2006, Torino, 2007, 167; A. A. ARRU, Il nuovo regime delle impugnazioni della parte civile, in L. Filippi (a cura di), Il nuovo regime delle impugnazioni tra Corte costituzionale e Sezioni Unite, 163; F. CAPRIOLI, I nuovi limiti all’appellabilità delle sentenze di proscioglimento tra diritti dell’individuo e “parità delle armi”, in Giur. it., 2007, 257; F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 2006, 1113; G. DEAN, Il nuovo regime delle impugnazioni della parte civile e la nuova fisionomia dei motivi di ricorso per cassazione, in Dir. pen. proc., 2006, 814; F. R. DINACCI, La disciplina transitoria, in A. Scalfati (a cura di), Novità su impugnazioni e regole di giudizio, 225; G. FRIGO, E’ irrealistico ipotizzare risorse equivalenti a quelle delle figure processuali “necessarie”, in Guida dir., 2006, 19, 90; GALANTINI, Prime note sulle impugnazioni della parte civile secondo la legge di riforma, in Arch. n. proc. pen., 2006, 455; G. GARUTI-G. DEAN, I nuovi ambiti soggettivi della facoltà di impugnare, in A. Gaito (a cura di), La nuova disciplina delle impugnazioni, 2006, 131; M. GEMELLI, Parte civile ed inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, in Giust. pen., 2006, 658; A. GIARDA, Rimodellato il sistema delle impugnazioni penali tra presunzione di innocenza e durata ragionevole del processo, in A. Scalfati (a cura di), Novità su impugnazioni e regole di giudizio, 13; R. E. KOSTORIS, Le modifiche al codice di procedura penale in tema di appello e di ricorso per cassazione introdotte dalla c.d. “Legge Pecorella”, in Riv. dir. proc., 2006, 633; LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 2007, 664; E. M. MANCUSO, La modifica delle norme in materia di impugnazione della parte civile, in A. Scalfati (a cura di), Novità su impugnazioni e regole di giudizio, 151; M. MONTAGNA, L’applicazione delle nuove regole nei procedimenti in corso, in A. Gaito (a cura di), La nuova disciplina delle impugnazioni, 2006, 227; D. NEGRI, Norma transitoria senza gradualità, in Guida dir., 10, 98; SCELLA, Il vaglio d’inammissibilità dei ricorsi per cassazione, Torino, 2006, 87; G. SPANGHER, La parte civile nella legge Pecorella. Potrà ricorrere, ma non appellare, in Dir. giust., 2006, 16, 40, il quale afferma che <<è stato eliminato dal comma 1 dell’art. 576 c.p.p. il riferimento “con il mezzo previsto per il pubblico ministero” che figurava nella formulazione originaria della norma. Questo elemento elimina ogni rapporto tra la legittimazione ad impugnare della parte civile e quella del pubblico ministero ma – stante il principio di tassatività dei mezzi di gravame – non consente di espandere la legittimazione ad impugnare della parte civile. In altri termini la compressione del potere di appellare del p.m. ex art. 593 c.p.p. novellato non vale ad espandere oltre questi limiti la legittimazione della parte civile. Per essere ancora più espliciti, la parte civile potrà solo ricorrere e non potrà appellare la sentenza di primo grado, neppure nei più ristretti ambiti del novellato art. 593 c.p.p.; P. TONINI, L’inappellabilità lascia alla parte civile solo la Suprema corte, in Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2006, 27; G. VARRASO, Il tramonto incompleto del potere di impugnazione agli effetti penali della persona offesa per i reati di ingiuria e diffamazione, in A. Scalfati (a cura di), Novità su impugnazioni e regole di giudizio, 167; ZAMPI, La parte civile e la riforma del sistema delle impugnazioni, in Arch. n. proc. pen., 2006, 606.

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Tale conclusione è stata ritenuta coerente con il sistema nel suo

complesso134. Inoltre, è stato osservato che come sarebbe stato difficile

giustificare la scelta di conferire alla parte civile poteri impugnatori

maggiori rispetto a quelli riconosciuti alle parti necessarie e, in particolare,

a quelli del pubblico ministero135. Infine, la scelta di non attribuire il potere

di appello alla parte civile appariva in linea con le direttive ispiratrici della

riforma e, anzi, necessaria al fine di evitare insanabili incongruenze di

sistema. E’ stato sostenuto, infatti, che il riconoscimento alla parte civile

del potere di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento

avrebbe condotto alla conversione in appello del ricorso del pubblico

ministero e, quindi, al sostanziale aggiramento dei limiti all’appellabilità

delle sentenze di proscioglimento da parte della pubblica accusa136.

Una parte minoritaria della dottrina si è orientata in senso contrario,

riconoscendo alla parte civile il potere di proporre appello senza alcun

limite. Tale interpretazione è stata dettata dalla necessità di adottare una

soluzione che fosse compatibile con i principi costituzionali. E’ stata

ritenuta irragionevole la scelta di stabilire, per la parte civile,

l’inappellabilità delle sentenze di condanna o di proscioglimento senza

modificare i rapporti tra processo penale e processo civile137. Infatti, una

volta ammessa per il danneggiato la possibilità di costituirsi parte civile, la

134 A. GIARDA, Rimodellato il sistema delle impugnazioni penali, cit., 14; G. DEAN, Il nuovo regime delle impugnazioni della parte civile, cit., 815; G. FRIGO, Un intervento coerente con il sistema, in Guida dir., 10, 104. 135 G. FRIGO, E’ irrealistico ipotizzare risorse equivalenti a quelle delle figure processuali “necessarie”, cit., 93. 136 G. SPANGHER, La parte civile nella legge Pecorella, cit., 40; E. M. MANCUSO, La modifica delle norme in materia di impugnazione della parte civile, cit., 154. 137 M. BARGIS, Impugnazioni, in G. Conso-V. Grevi, Compendio di procedura penale, 2006, 793; P. FERRUA, Inappellabilità: squilibri e disfunzioni. No del Colle per salvare la Cassazione, in Dir. giust., 2006, 5, 90, secondo cui sarebbe stato opportuno <<riconoscere alla parte civile il diritto di trasferire la propria azione davanti al giudice civile, senza subire la sospensione del processo in quella sede come previsto dall’art. 75 comma 3 c.p.p.>>; L. RAVAGNAN, Nuova legge sull’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento e sul nuovo giudizio di cassazione, in Riv. pen., 2006, 499; A. SCALFATI, Parte civile: dubbi sul potere di gravame, in Guida dir., 2006, 10, 59.

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facoltà di appellare il proscioglimento rientra tra le garanzie minime a

tutela della pretesa civilistica per i danni da reato, soprattutto in relazione

agli effetti pregiudizievoli derivanti dall’efficacia del giudicato penale nel

giudizio civile, ai sensi dell’art. 652 c.p.p.138

E’ stata individuata una disparità di trattamento tra la parte civile,

privata in assoluto del potere di appellare, e il responsabile civile, che

continuava a essere legittimato ad appellare la sentenza di condanna.

Altrettanto contraria al principio di parità tra le parti appariva la diversità di

disciplina riservata alla parte civile rispetto al pubblico ministero, che

conservava il potere di appellare le sentenze di condanna e, in ipotesi

residuali, quelle di proscioglimento139.

In particolare, è stato affermato che il testo dell’art. 576 c.p.p., non

stabilendo il “mezzo”, autorizza il potere di impugnazione in generale, non

limitandolo al solo ricorso per cassazione. In questo modo, la parte civile

sarebbe stata legittimata ad esperire ogni impugnazione ordinaria prevista

dalla legge, compreso l’appello, salvo i casi nei quali la facoltà di appellare

è espressamente esclusa, come nel caso del ricorso previsto dall’art. 428,

come riformulato dalla legge 46 del 2006140. A sostegno di tale tesi, sono

stati posti due ulteriori argomenti. In primo luogo, è rimasta invariata la

previsione, di cui all’art. 600 comma 1 c.p.p., che permette l’appello della

parte civile contro il punto della sentenza di primo grado che attiene alla

provvisoria esecuzione delle condanne in materia risarcitoria. E’ stato

affermato che la legge non avrebbe potuto negare alla parte civile l’appello

contro le sentenze in ordine ai capi civili e consentirlo con esclusivo

138 A. SCALFATI, Parte civile: dubbi sul potere di gravame, cit., 60. 139 M. BARGIS, Impugnazioni, in G. Conso-V. Grevi, Compendio di procedura penale, 2006, 793. 140 A. SCALFATI, Parte civile: dubbi sul potere di gravame, cit., 60; L. RAVAGNAN, Nuova legge sull’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, cit., 498.

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riferimento all’esecuzione provvisoria negata141. In secondo luogo, un

ulteriore argomento a sostegno del perdurare del potere di appello della

parte civile si sarebbe potuto trarre dall’analisi della disciplina transitoria

prevista dall’art. 10 della legge 46 del 2006, la quale, nello stabilire le sorti

degli appelli interposti prima della riforma, omette qualsiasi riferimento

alla parte civile. Tale omissione è stata ritenuta sintomatica della

conservazione del potere di appello in capo alla parte civile142.

3. L’orientamento della giurisprudenza di legittimità.

Il contrasto interpretativo che aveva diviso la dottrina era insorto anche

nell’ambito della giurisprudenza di merito143. 141 Si veda, in proposito, G. FRIGO, E’ irrealistico ipotizzare risorse equivalenti a quelle delle figure processuali “necessarie”, cit., 90-93, che ha replicato affermando che <<l’avere previsto che la domanda di provvisoria esecuzione possa fare oggetto di appello, individua semplicemente un caso (l’unico, ormai) in cui questo mezzo è attribuito alla parte civile, alla quale è, invece, preclusa la possibilità di appellare per altri profili la stessa sentenza di condanna>>. 142 Anche tale affermazione è stata messa in discussione da G. FRIGO, Un trattamento particolare che deriva dal regime transitorio, in Guida dir., 2006, 23, 93 che ha osservato che <<il fatto che il legislatore - incappato nell'errore di avere creduto nel mantenimento a regime dell'appello della parte civile - abbia omesso, poi, di accomunarla al pubblico ministero e all'imputato nelle previsioni dei commi 2 e 3 dell'articolo 10 della legge n. 46, non giova affatto a far ritenere che, quantomeno in via transitoria, gli appelli pregressi siano sottratti all'inammissibilità. Significa, invece, che quelle previsioni risultano manifestamente incostituzionali per quanto non prevedono che anche alla parte civile sia riconosciuta, di seguito all'inammissibilità che va dichiarata, la facoltà di proporre ricorso per cassazione entro quarantacinque giorni dalla relativa declaratoria>>. 143 Si vedano, in particolare, due ordinanze interlocutorie emesse dalle Corti di appello di Milano e di Brescia, le quali, nel delibare in ordine ad eccezioni di illegittimità costituzionale sollevate avverso il riformato art. 593 c.p.p., con riguardo specifico al potere di appello del pubblico ministero, non hanno mancato di pronunciarsi incidenter tantum anche in relazione alle ricadute della riforma in tema di facoltà di impugnazione della parte civile. La corte di appello di Brescia, nel dichiarare non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale relativa al contrasto dell’art. 593 c.p.p. come modificato dall’art. 1 l. 46 del 2006, con gli artt. 3, 24, 111 e 112 Cost., ha avuto modo di evidenziare come <<l’art. 6 l. 46 del 2006, modificando l’art. 576 c.p.p. con l’escludere il riferimento operativo della facoltà di impugnare della parte civile al mezzo di gravame previsto per il pubblico ministero, continui arendere possibile l’appello di essa parte civile avverso la sentenza di proscioglimento di I grado, sia pure ai soli effetti della responsabilità civile>> (Corte di appello di Brescia, II sez. pen., ordinanza 10-14 marzo 2006, n. 655/2005 R.G., in Guida dir., 2006, n. 13, 87). Di tutt’altro avviso la Corte di appello di Milano che, nel rigettare le questioni di legittimità costituzionale formulate in ordine ai riformati artt. 593 e 576 c.p.p., ha precisato come la parte civile <<abbia ora, al pari dell’accusa pubblica, solo il potere di ricorrere per cassazione sia che la decisione di prime cure abbia contenuto di proscioglimento sia che di condanna: tanto è dato dedurre, alla luce del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, da un canto dall’abrogazione delle parole “con il mezzo previsto per il pubblico ministero” e dall’altro dalla presenza nella Costituzione dell’art. 111 settimo comma, a termine del quale “contro le

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Per quanto riguarda, invece, la giurisprudenza di legittimità occorre

precisare che non si è mai sviluppato un contrasto effettivo sul tema

dell’appello della parte civile144.

Il primo intervento di legittimità sul tema dell’impugnazione della parte

civile risale al 2006, a distanza di pochi mesi dall’entrata in vigore della

legge c.d. Pecorella145.

In questa occasione, la cassazione ha affermato che il potere di appello

della parte civile contro la sentenza di proscioglimento di primo grado è

rimasto immutato, nonostante la riforma delle impugnazioni.

Gli elementi interpretativi utilizzati dalla Corte per giungere a tale

interpretazione sono i seguenti. Innanzitutto, viene analizzato il percorso di

formazione della riforma. Nel testo del disegno di legge approvato in prima

battuta dal parlamento, l’esclusione per il pubblico ministero del potere di

promuovere appello avverso le sentenze di proscioglimento si riverberava

anche sulla posizione della parte civile per effetto della disposizione

contenuta nell’art. 576 comma 1 c.p.p. Il sottratto potere di appello veniva

però bilanciato dalla modifica apportata all’art. 652 comma 1 c.p.p., che

nella nuova formulazione consentiva alla parte civile di evitare l’efficacia sentenze…pronunciate dagli organi giurisdizionali ordinari…è sempre ammesso ricorso per cassazione per violazione di legge>> (Corte di appello di Milano, II sez. pen., ordinanza 9 marzo 2006, n. 3655/05 R.G., in Guida dir., 2006, n. 13, 91). 144 Prima dell’intervento delle Sezioni unite nel 2007 vi erano state soltanto tre pronunce delle sezioni semplici della cassazione che avevano affermato la perdurante legittimazione della parte civile a proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento (cfr. Cass., III, 11 maggio 2006, n. 22924; Cass., V, 10 giugno 2006, n. 29935; Cass., I, 6 dicembre 2006, n., 1435). 145 Cass., III, 11 maggio 2006 (dep. 4 luglio 2006), n. 22924, in Arch. n. proc. pen., 2, 2007, 199 ss. La vicenda processuale oggetto di esame da parte della Suprema Corte è la seguente. Il Tribunale di Brindisi, con sentenza del 9 aprile 2003, assolve con la formula “perché il fatto non sussiste” due persone imputate, in concorso tra loro, di violenza sessuale continuata (capo a) e di tentativo di estorsione (capo b). Inerte il pubblico ministero, promuove appello, relativamente alle statuizioni civili, la sola parte civile e la Corte di appello di Lecce, con sentenza del 12 gennaio 2005, in riforma di quella di primo grado, riconosce i due imputati responsabili, agli effetti civili, dei fatti loro contestati e, dopo aver rubricato quello di cui al capo b) come tentata violenza sessuale, li condanna al risarcimento dei danni in favore della parte civile. La difesa propone ricorso per cassazione, lamentando determinate doglianze, tra cui, in particolare, <<la sopravvenuta inammissibilità dell’appello a suo tempo proposto dalla parte civile ai soli effetti civili avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, ai sensi delle modifiche apportate al codice di rito dalla legge 20 febbraio 2006 n. 46, dichiarate applicabili ai processi in corso dall’art. 10 della medesima legge>>.

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extrapenale al giudicato assolutorio qualora, preconizzando un epilogo per

se stessa infausto, avesse omesso di presentare le conclusioni.

In seguito ai rilievi formulati dal Presidente della Repubblica nel

messaggio con cui aveva rinviato alle camere il disegno di legge per una

nuova deliberazione, il quadro della riforma fu rivisto. Di conseguenza,

l’intervento fu diretto sull’art. 576, espungendo il collegamento del potere

di impugnazione della parte civile con quello del pubblico ministero in

relazione ai mezzi di gravame. Veniva poi soppressa la proposta di

modifica dell’art. 652 c.p.p.

Ad avviso della cassazione, dall’iter dei lavori parlamentari risulta

chiaro l’intento del legislatore di conservare il potere di impugnazione della

parte civile in tutte le sue possibili espressioni, emancipandolo dalla

dipendenza da quello del pubblico ministero.

La Corte affronta, subito dopo, il principale argomento posto a sostegno

della tesi opposta, rappresentato dagli effetti derivanti dal principio di

tassatività, di cui all’art. 568 c.p.p., in forza del quale, la genericità del 576

c.p.p. non permetterebbe di mantenere il potere di appello della parte civile

avverso le sentenze di proscioglimento.

Il giudice di legittimità ha ritenuto, in proposito, che proprio l’iter

parlamentare di approvazione consenta, in via ermeneutica, di superare

l’ostacolo costituito dal principio di tassatività, arrivando a considerare la

formulazione dell’art. 576 come una <<mera imperfezione nella tecnica

legislativa>>. Al contrario, secondo la cassazione, la posizione della parte

civile nel processo penale, a seguito della mancata modifica dell’art. 652

c.p.p., sarebbe peggiorata rispetto all’originaria versione approvata in

prima battuta dal Parlamento, con possibili effetti sul livello minimo di

garanzia della pretesa ciclistica per i danni derivanti da reato. Ne consegue

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che la scelta legislativa sarebbe del tutto irragionevole se interpretata nel

senso proposto dalla tesi contraria al poter di appello della parte civile.

Infine, la Suprema corte ha posto l’attenzione sull’assenza di una

disciplina transitoria con riguardo agli appelli avverso le sentenze di

proscioglimento già presentati dalla parte civile al momento dell’entrata in

vigore della legge n. 46 del 2006. Dal punto di vista della successione nel

tempo delle norme processuali, statuita l’immediata applicabilità delle

nuove disposizioni ai procedimenti in corso (art. 10 l. 46 del 2006)

l’assenza di qualsiasi riferimento all’appello della parte civile, a fronte di

un’articolata disciplina transitoria dettata per i gravami dell’imputato e del

pubblico ministero, costituirebbe un ulteriore elemento sintomatico

dell’esclusione della parte civile dalle norme che limitano il potere di

appello.

Occorre osservare, a questo punto, che il contrasto di opinioni sul tema,

derivante da un lato dalla posizione della dottrina maggioritaria e, da un

altro lato, dalla posizione conservativa della corte di cassazione, ha

determinato la rimessione della questione alle Sezioni unite, stante il

rischio di un c.d. conflitto potenziale, rilevante ai sensi dell’art. 618

c.p.p.146

146 Nell’ambito di un procedimento relativo al delitto di diffamazione aggravata, punito dagli artt. 47 nn. 2 e 3, 227 commi 1 e 2 c.p.m.p., la prima Sezione penale della Suprema Corte (Cass., I, ord., 16 novembre 2006, n. 382, dep. 11 gennaio 2007, Pres. Fazzioli, Rel. Cassano, ric. p.c. Poggiali) ha rimesso alle Sezioni Unite la questione circa la permanenza o meno, in capo alla parte civile, del potere di proporre appello contro le sentenze assolutorie dell’imputato. In un’articolata decisione, la Suprema Corte ha dapprima ripercorso minuziosamente il complesso iter parlamentare della legge, che è stata rinviata alle Camere dal Presidente della Repubblica ex art. 74 Cost., con la motivazione, tra l’altro, che <<è parte del processo anche la vittima del reato costituitasi parte civile>>, la quale <<deve compromessa dalla legge approvata la possibilità di far valere la sua pretesa risarcitoria all’interno del processo penale>>. La Corte si è poi soffermata sulla questione se, ai procedimenti in corso, sia applicabile l’art. 9 della l. n. 46 del 2006, la quale ha abrogato l’art. 577 c.p.p. Pur prendendo atto che, sul punto, la giurisprudenza di legittimità è divisa, la Cassazione ha aderito all’indirizzo dell’immediata applicabilità ai procedimenti in corso, ex art. 10 comma 1 l. n. 46 del 2006, della disposizione prevista dall’art. 9, che, come detto, abroga l’art. 577 c.p.p.; di qui l’interiore problematica: se la parte civile possa proporre appello per i soli interesse civili avverso la sentenza di assoluzione dell’imputato. Nonostante l’interpretazione logico sistematica del combinato disposto degli artt. 576, comma 1, 568 e 597 c.p.p. porti a concludere nel senso di una unitarietà circa il regime di impugnazione previsto per il p.m. e la parte civile, ciò peraltro <<si

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L’oggettiva complessità interpretativa della novazione legislativa

intervenuta in materia veniva presa in considerazione anche dall’Ufficio del

massimario, che nella rassegna della giurisprudenza di legittimità per

l’anno 2006 la indicava tra le più rilevanti questioni di imminente esame147.

4. L’intervento delle Sezioni unite della Corte di cassazione.

L’intervento delle Sezioni unite è stato invocato prima che si formasse

all’interno della Corte un contrasto effettivo.

Il tema dell’impugnazione della parte civile è stato trattato dalla

sentenza a Sezioni unite n. 27614 del 2007148.

Nella sentenza si ricostruisce il contesto sistematico in cui è collocata la

questione inerente alla permanenza in capo alla parte civile del potere di

appello. Innanzitutto, si afferma, il codice di procedura penale consente alla

parte civile di costituirsi nel processo penale per l’esperimento dell’azione

risarcitoria; inoltre, lo stesso codice attribuisce ad imputato e responsabile

civile, quali naturali antagonisti della parte civile, il potere di proporre

appello avverso la condanna al risarcimento; infine, l’ordinamento

riconosce alla sentenza irrevocabile di assoluzione efficacia di giudicato nel

giudizio civile o amministrativo di danno.

porrebbe in contrasto con la volontà legislativa, quale desumibile dai lavori parlamentari, e con il dichiarato intento del legislatore di adeguare la disciplina ai rilievi contenuti nel messaggio del Presidente della Repubblica>>. La Corte, infine, ha rimarcato come l’art. 10 della l. n. 46 del 2006 non contenga una disciplina transitoria relativa agli appelli già proposti della parte civile. Il silenzio del legislatore sul punto potrebbe essere inteso o <<come volontà di adozione di un disegno unitario in materia di impugnazioni, con conseguente immediata applicabilità, anche in fase transitoria, dell’esclusione del potere di appello, sia pure ai soli effetti civili, della parte civile>>; ovvero <<come volontà di riservare, sia a regime che in fase transitoria, una disciplina differenziata alle impugnazioni della parte civile e del p.m. e, quindi, escludere, anche per quanto riguarda l’appello interposto dalla parte civile secondo la previgente normativa, l’applicabilità delle norme che limitano nei confronti del p.m. il potere di proporre appello>>. Questi i quesiti che sono stati rimessi al vaglio delle Sezioni Unite: <<a) se a seguito delle modifiche apportate all'art. 576 c.p.p. dall’art. 6 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, la parte civile possa tuttora proporre appello per i soli interessi civili avverso la sentenza di assoluzione dell’imputato; b) in caso negativo, se l’appello possa essere convertito in ricorso per cassazione ovvero possa ritenersi applicabile anche alla parte civile la disciplina transitoria contenuta nell’art. 10 della legge 20 febbraio 2006, n. 46>>. 147 La giurisprudenza delle Sezioni unite penali, in Cass. pen., supplemento n. 1 del 2007, 109-110. 148 Cass., S. U., 29 marzo 2007 (dep. 12 luglio 2007), n. 27614, in Cass. pen., 2007, 4451.

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Successivamente, richiamati gli interventi uniformi del giudice di

legittimità e l’antitetica posizione assunta dalla dottrina maggioritaria, la

Corte enuncia le ragioni per le quali la scelta ermeneutica, fondata su una

rigida e formale applicazione del principio di tassatività delle

impugnazioni, non possa essere condivisa: in primo luogo, perché è in

contrasto con la volontà legislativa; in secondo luogo, non è coerente con

l’interpretazione logico-sistematica dell’art. 576 c.p.p. rapportato ad altre

norme del codice di rito e alla disciplina transitoria; infine, non appare

costituzionalmente orientata sotto il profilo della ragionevolezza149.

Il primo argomento affrontato è quello inerente all’intento del

legislatore, che appare alla Corte facilmente rilevabile dall’itinerario

seguito dai lavori parlamentari, che vengono, peraltro, definiti tormentati.

La riespansione del potere di gravame della parte civile era stata

chiaramente perseguita mediante l’elisione, dal corpo dell’art. 576 c.p.p.,

dell’inciso di rinvio ai mezzi impugnatori predisposti per il pubblico

ministero, con lo scopo di emancipare la parte civile medesima da quella

pubblica e di garantire alla prima, in relazione al profilo civilistico, quel

“doppio grado di giudizio” a cui il danneggiato da reato avrebbe diritto se

avesse esercitato l’azione in sede civile.

Il recupero del potere di impugnazione della parte civile era stato poi

completato dalla abolizione della modifica relativa all’efficacia extrapenale

del giudicato assolutorio (art. 652 c.p.p.) e dalla disciplina transitoria, il cui

149 Secondo la cassazione, <<una volta ammessa per il danneggiato la possibilità di diventare parte civile, pur nel contesto di scelte che, in un modo o nell’altro, possono ritornargli a svantaggio, appare irragionevole precludergli radicalmente la possibilità di appello con possibili effetti pregiudizievoli per la sua pretesa di risarcimento del danno da reato>>. Sul punto, le Sezioni unite richiamano il pensiero espresso da autorevole dottrina subito dopo la promulgazione della legge 46 del 2006. Si veda, in proposito, A. SCALFATI, Parte civile: dubbi sul potere di gravame, in Guida dir., 2006, n. 10, 60.

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ambito operativo veniva circoscritto ai gravami proposti dall’imputato e dal

pubblico ministero150.

Dopo aver esaminato la volontà del legislatore, la Corte affronta

l’argomento cruciale della tesi avversata, cioè il principio di tassatività

delle impugnazioni. Tale principio, secondo la dottrina maggioritaria,

impedirebbe di ritenere che la parte civile continui ad avere la facoltà di

proporre appello, agli effetti civili, contro le sentenze di proscioglimento.

Le Sezioni unite affermano, al contrario, la permanenza del potere di

appello della parte civile in forza di un’interpretazione meno rigida e

restrittiva del principio di tassatività di cui all’art. 568 c.p.p., valorizzando

una determinata lettura dell’art. 576 c.p.p. In particolare, tale norma,

riconoscendo una generale legittimazione della parte civile ad impugnare,

non pone alcuna restrizione all’utilizzo degli ordinari mezzi previsti dal

sistema, la cui selezione deve essere operata interpretando le norme sulle

impugnazioni in modo conforme alla costituzione. Scegliere il mezzo di

impugnazione rispettando i principi costituzionali significa, ad avviso della

cassazione, compiere una scelta che non crei asimmetrie e irragionevoli

posizioni processuali differenziate. Per queste ragioni, la parte civile,

secondo la Suprema corte, va considerata ancora titolare del potere di

appellare la sentenza di primo grado, sia di condanna sia di

proscioglimento.

Inoltre, le Sezioni unite aggiungono che, se si negasse la facoltà di

appellare della parte civile, rimarrebbero prive di significato le disposizioni

150 La Suprema Corte, peraltro, ammette che la formulazione legislativa non sia stata esteriorizzata in maniera del tutto univoca, ma ricorda come <<soltanto per ragioni di rigoroso contingentamento dei tempi imposto dalla imminente scadenza della legislatura>> non aveva ricevuto la debita attenzione la proposta di emendamento avanzata dal senatore Zancan, il quale aveva suggerito, <<onde evitare qualsiasi equivoco>>, una differente formulazione: <<la parte civile può proporre appello contro i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile e, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunziata nel giudizio, anche abbreviato, qualora abbia acconsentito alla abbreviazione del rito>>.

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di cui agli articoli 600 comma 1, 601 e 622 c.p.p., le quali, anche se

implicitamente, presuppongono il potere di appello della medesima.

Infine, la Corte ritiene irragionevole la tesi della dottrina maggioritaria

perché la parte civile privata dell’appello subirebbe un trattamento

differenziato rispetto all’imputato e al responsabile civile, che possono

appellare contro il capo della sentenza relativo alla condanna ai danni (art.

574 e 575 c.p.p.).

Va osservato che talune argomentazioni della Corte di legittimità sono

state messe in discussione da una parte della dottrina. In particolare, in

riferimento agli artt. 600, 601 e 622 c.p.p.

L’art. 600 c.p.p. prevede la possibilità per la parte civile, qualora il

giudice di primo grado abbia omesso di pronunciarsi sulla richiesta di

provvisoria esecuzione ai sensi dell’art. 540 comma 1, ovvero l’abbia

rigettata, di riproporla mediante impugnazione, su questa parte, della

sentenza di primo grado al giudice di appello. Secondo un’autorevole

dottrina, peraltro, l’avere previsto che la domanda di provvisoria

esecuzione possa essere oggetto di appello, indica semplicemente l’unico

caso in cui questo mezzo è attribuito alla parte civile, alla quale resterebbe,

invece, preclusa la possibilità di appellare per altri profili la stessa sentenza

di condanna151.

L’art. 601 c.p.p., nel disciplinare gli atti preliminari al giudizio di

appello, stabilisce che il presidente debba disporre la citazione

dell’imputato non appellante se l’appello è stato proposto per i soli interessi

civili. La Corte ha affermato che la disposizione non avrebbe più senso se

fosse stato soppresso il potere di appello per ala parte civile. Tuttavia,

occorre ricordare che l’art. 574 c.p.p. prevede il potere di impugnazione 151 G. FRIGO, E’ irrealistico ipotizzare risorse equivalenti a quelle delle figure processuali “necessarie”, cit., 92.

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dell’imputato contro i capi della sentenza che riguardano la sua condanna

alle restituzioni e al risarcimento del danno <<col mezzo previsto per i capi

penali della sentenza>>, mentre l’art. 575 c.p.p. prevede il potere di

impugnazione del responsabile civile contro le disposizioni della sentenza

di condanna al risarcimento dei danni e alle restituzioni <<col mezzo che la

legge attribuisce all’imputato>> e, cioè, in tutti e due i casi, con l’appello,

ai sensi dell’art. 593, comma 1 c.p.p. Ne consegue che esistono altri casi di

possibile appello per i soli interessi civili, nei quali sussiste l’interesse

all’integrazione del contraddittorio, nei confronti dell’imputato non

appellante, mediante la sua citazione in giudizio: nel caso dell’art. 574

c.p.p., il coimputato dello stesso reato, condannato al risarcimento dei

danni; nel caso dell’art. 575 c.p.p., l’imputato che ha commesso il fatto per

il quale esiste la responsabilità civile del terzo152.

In relazione all’art. 622 c.p.p., infine, è necessario porre l’attenzione

sulla prima parte del testo dell’articolo nella quale si fa riferimento

all’annullamento di <<disposizioni o di capi che riguardano l’azione

civile>>. In dottrina si è replicato che tale annullamento può essere

sollecitato anche dalle altre parti private e dall’imputato con ricorso contro

sentenze da essi appellabili, ai sensi degli artt. 574 e 575 c.p.p.153

Peraltro, la soluzione a cui è giunta la cassazione a Sezioni unite può

essere compresa in modo adeguato esaminando l’evoluzione storica

attraverso la quale si è sviluppato il sistema delle impugnazioni.

Come abbiamo già avuto modo di illustrare, sotto il codice di procedura

penale del 1865 la parte civile poteva proporre appello sia verso la sentenza

di condanna sia verso quella di proscioglimento. La stessa soluzione era

152 A. A. ARRU, Il nuovo regime delle impugnazioni della parte civile, cit., 200; F. CAPRIOLI, I nuovi limiti all’appellabilità delle sentenze di proscioglimento, cit., 256. 153 A. A. ARRU, Il nuovo regime delle impugnazioni della parte civile, cit., 201; F. CAPRIOLI, I nuovi limiti all’appellabilità delle sentenze di proscioglimento, cit., 257.

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adottata, all’epoca, in Francia. Al contrario, il codice del 1930 prevedeva la

possibilità per la parte civile di proporre appello soltanto nei confronti di

una sentenza di condanna dell’imputato mentre, a parte i casi in cui la

stessa parte civile fosse stata condannata ai danni e alle spese, non le era

consentito di impugnare le sentenze di proscioglimento.

Come è noto, soltanto nel 1970, grazie all’intervento della Corte

costituzionale, fu concesso alla parte civile la possibilità di esperire il

ricorso per cassazione avverso le sentenze di proscioglimento154.

Una rilevante innovazione apportata dal codice del 1988 è stata proprio

quella di stabilire la facoltà per la parte civile di appellare le sentenze di

proscioglimento.

Negare alla parte civile la facoltà di appellare il proscioglimento

avrebbe avuto il significato di un ritorno al passato, cancellando una delle

poche novità significative del sistema delle impugnazioni del 1988 che,

come è noto, non è stato rivisto alla luce dei principi del processo

accusatorio, come è avvenuto, invece per la disciplina del giudizio di primo

grado.

Occorre considerare, inoltre, che la pronuncia delle Sezioni unite è

intervenuta successivamente alla sentenza costituzionale 26 del 2007 che

ha restituito il potere di appello al pubblico ministero. Mentre un anno

dopo, nel 2008, la Corte costituzionale ha ripristinato anche la possibilità

per l’imputato di appellare le sentenze di proscioglimento.

Per evitare i dubbi interpretativi che sono intervenuti immediatamente

dopo l’entrata in vigore della c.d. Legge Pecorella, appare plausibile

affermare che il legislatore della riforma, al fine di dare attuazione al

principio del doppio grado di giurisdizione, avrebbe potuto perseguire una

154 Corte cost., 22 gennaio 1970, n. 1, in Giur cost., I; Corte cost., 17 febbraio 1972, n. 29, in Giur cost., 1972, 131.

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soluzione normativa differente. Infatti, era stato proposto in dottrina di

prevedere che, fermo restando l’appello contro le sentenze di condanna, il

pubblico ministero potesse proporre contro il proscioglimento un appello

inteso solo all’annullamento della decisione di primo grado155. In base a

questa impostazione, il pubblico ministero avrebbe avuto un potere di

appello soltanto rescindente. In secondo grado il giudice avrebbe potuto, in

alternativa, confermare la sentenza di assoluzione oppure annullare e

rinviare in primo grado, sede nella quale si sarebbe dovuto rinnovare il

giudizio.

5. Questioni di legittimità costituzionale.

La tesi della permanenza in capo alla parte civile del potere di appellare le

sentenze di proscioglimento, nonostante la riforma del 2006, ha trovato una

conferma anche negli interventi della Corte costituzionale.

Con l’ordinanza n. 32 del 2007 la Corte ha dichiarato la manifesta

inammissibilità della questione di legittimità costituzionale relativa alle

disposizioni sull’impugnazione della parte civile, di cui agli artt. 576 c.p.p.

e 10 della legge n. 46 del 2006156.

L’ordinanza della Consulta giustifica la conclusione alla quale perviene,

rilevando che la sollevata questione di legittimità costituzionale muove

dalla premessa interpretativa in forza della quale la novella del 2006, in

contrasto con i principi costituzionali di uguaglianza, di parità delle parti

nel processo, di inviolabilità del diritto di azione e di difesa (artt. 3, 111, 24

Cost.), avrebbe soppresso il potere di appello della parte civile.

Questa premessa, ad avviso della Corte, è stata recepita con assoluta

rigidità, senza neppure prendere in considerazione l’opposta opzione

155 A. NAPPI, Guida al Codice di Procedura Penale, Milano, 2007, 890. 156 Corte cost., n. 32 del 2007, in Cass. pen., 2007, 1906.

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ermeneutica, illustrando le ragioni della mancata condivisione dei relativi

argomenti. Questo modo di procedere ha avuto come conseguenza che la

mancata utilizzazione dei poteri interpretativi che la legge riconosce, in via

esclusiva, al giudice rimettente e la carenza di una verifica di altre e diverse

soluzioni interpretative, integrano, nel modello del giudizio incidentale di

costituzionalità, omissioni significative e tali da non abilitare il giudice a

sollevare la questione di legittimità costituzionale.

In effetti, la Corte, dando atto dell’assenza di un “diritto vivente”

conforme alla premessa intepretativa posta a base dei dubbi di legittimità

costituzionale, lascia implicitamente intendere che l’eventuale consolidarsi

dell’orientamento interpretativo contrario all’ammissione dell’appello della

parte civile avverso la sentenza di proscioglimento dell’imputato

pronunciata in primo grado non resisterebbe alla verifica di conformità alla

Costituzione.

Successivamente, con l’ordinanza n. 3 del 2008, il giudice delle leggi ha

nuovamente dichiarato manifestamente inammissibili le questioni di

legittimità costituzionale dell’art. 576, nella parte in cui, in asserito

contrasto con i principi di eguaglianza, di parità delle parti nel processo e di

inviolabilità del diritto di azione e di difesa, escluderebbe, in capo alla parte

civile, il potere di proporre appello avverso la sentenza di proscioglimento

dell’imputato157. La Corte costituzionale ha ribadito la manifesta

inammissibilità delle questioni di legittimità relative all’art. 576 c.p.p.,

facendo riferimento alla opzione interpretativa nel frattempo divenuta

maggioritaria presso la giurisprudenza di legittimità e confermata dalla

decisione delle Sezioni unite.

157 Corte cost., n. 3 del 2008, in Giur. Cost., 2008, 54.

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6. La conversione dell’impugnazione della parte civile.

L’istituto della conversione dell’impugnazione garantisce l’unità del

procedimento nel corso di tutte le fasi e al tempo tende ad evitare le

conseguenze che potrebbero derivare dalla coesistenza di più mezzi di

impugnazione avverso la medesima decisione158.

Nella scelta del mezzo idoneo a preservare l’unità del procedimento, il

codice ha privilegiato l’appello in quanto quest’ultimo è un gravame che,

consentendo l’esame sia del merito sia della legittimità, assorbe il ricorso

per cassazione159.

L’art. 7 della legge n. 46 del 2006, ha modificato il testo della

disposizione in esame inserendo un inciso che tende a limitare l’operatività

della conversione al caso in cui sussiste la connessione di cui all’art. 12

c.p.p.

L’intento del legislatore era quello di restringere l’operatività della

conversione per rafforzare la scelta a favore dell’inappellabilità delle

sentenze di proscioglimento160.

Le reazioni della dottrina rispetto a questa modifica sono state di segno

diverso. Da una parte minoritaria degli studiosi, è stato valutato

positivamente il cambiamento di prospettiva dalla connessione meramente

formale della sentenza (nel caso di una sentenza che contenga più

imputazioni o si riferisca a più imputati) alla connessione sostanziale dei

processi (ex art. 12). Da questo punto di vista, la conversione è stata intesa

158 F. CAPRIOLI, sub art. 580 c.p.p., in Commentario breve al Codice di procedura penale, Padova, 2005, 1995; F.M. IACOVIELLO, Conversione anche per i ricorsi del p.m., in Guida dir., 2006, 10, 83; CENCI, La conversione dei mezzi di impugnazione, in A. Gaito, (a cura di), Le impugnazioni penali, I, Torino, 1998, 271; A. DIDDI, La conversione del ricorso in appello, in A. Scalfati, (a cura di), Novità su impugnazioni penali e regole di giudizio, 2006, 177; SALIDU, sub art. 580 c.p.p., in Comm Chiavario VI, 85. 159 MAZZARRA, Problemi vecchie nuovi in tema di conversione dei mezzi di impugnazione, in Riv. giur. umbra, 1993, 116. 160 A. DIDDI, La conversione del ricorso in appello, cit., 196.

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come l’effetto della connessione dei processi e non della formale riunione

nella medesima sentenza di imputati e imputazioni161.

Peraltro, la dottrina prevalente ha prospettato un’interpretazione

estensiva del nuovo testo dell’art. 580, che è fondata sulla ratio della regola

di conversione e consente di ritenere sempre operante il meccanismo della

conversione nel caso di pluralità di impugnazioni aventi ad oggetto la

medesima fattispecie giudiziale162. Secondo questa impostazione la

disposizione di cui all’art. 580 c.p.p. è tesa a garantire l’unità dei controlli

sulla decisione resa in primo grado, sia quando più regiudicande sono

decise con un’unica sentenza sia quando le parti di un unico processo si

trovino ad avere occasionalmente a disposizione impugnazioni diverse.

In primo luogo, si ritiene che l’art. 580 c.p.p. sia applicabile nell’ambito

di un processo cumulativo, concernente più imputati o più imputazioni

contestate ad un unico imputato. In questa eventualità, la sentenza può

essere, in astratto, scindibile in determinati capi, ciascuno impugnabile con

il mezzo consentito dalla legge, potendo, quindi, un capo essere appellabile

ed un altro capo soltanto ricorribile.

In secondo luogo, ad avviso della maggioranza della dottrina, la regola

della conversione ex art. 580 c.p.p. deve trovare applicazione anche nel

caso in cui un unico imputato sia stato giudicato per un’unica imputazione

e avverso la sentenza soltanto una parte possa appellare, mentre l’altra

possa solo ricorrere per cassazione163. 161 F.M. IACOVIELLO, Conversione anche per i ricorsi del p.m., cit., 87. 162F. CAPRIOLI, I nuovi limiti all’appellabilità delle sentenze di proscioglimento tra diritti dell’individuo e “parità delle armi”, in Giur. it., 2007, 258; F. NUZZO, Appunti in tema di conversione delle impugnazioni ex art. 580 c.p.p., in Cass. pen., 2008, 2474. 163 M. BARGIS, Il “ritocco” all’art. 580 c.p.p. e le sue polimorfi ricadute, in M. Bargis-F. Caprioli (a cura di), Impugnazioni e regole di giudizio nella legge di riforma del 2006, Torino, 2007, 242; G. DEAN, Il nuovo regime delle impugnazioni della parte civile e la nuova fisionomia dei motivi di ricorso per cassazione, in Dir. pen. proc., 2006, 814; A. DIDDI, La conversione del ricorso in appello, cit., 198; M. GEMELLI, Parte civile ed inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, in Giust. pen., 2006, III, 665; E. M. MANCUSO, La modifica delle norme in materia di impugnazione della parte civile, in A. Scalfati (a cura di), Novità su impugnazioni e regole di giudizio, 156; F. NUZZO, Appunti in tema di

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Si pensi, a titolo esemplificativo, all’assetto che si è venuto a creare in

seguito all’intervento della Corte Costituzionale relativo alla modifica

dell’art. 443 comma 1 ad opera della legge n. 46 del 2006164. In tale

contesto, la sentenza di proscioglimento emessa nel giudizio abbreviato è

appellabile dal pubblico ministero e dalla parte civile ma non dall’imputato

(salvo che si tratti di sentenza di assoluzione per difetto di imputabilità,

derivante da vizio totale di mente) che può soltanto ricorrere per

cassazione. In un’evenienza di questo tipo la mancata applicazione della

regola della conversione dell’impugnazione porterebbe ad una

proliferazione di procedimenti impugnativi del tutto contraria al principio

di economia processuale.

Occorre precisare che l’interpretazione estensiva dell’art. 580 c.p.p. si

fonda sulla base del c.d. argomento a fortiori. Si tratta di un principio

interpretativo che si è sviluppato sotto la vigenza del codice di procedura

penale del 1930. Partendo dalla premessa che la regola della conversione

dell’impugnazione opera ogni volta in cui la sentenza risulta composta di

più capi, “a maggior ragione” la medesima regola deve essere applicata

anche quando lo stesso capo della sentenza è impugnabile dalle parti con

mezzi di gravame differenti165.

La giurisprudenza sembra aver aderito a questa interpretazione

estensiva: ha riconosciuto, infatti, che la conversione del ricorso per

cassazione in appello opera anche con riferimento alla proposizione di

conversione delle impugnazioni ex art. 580 c.p.p., cit., 2489; G. SPANGHER, La parte civile nella legge Pecorella. Potrà ricorrere, ma non appellare, in Dir. giust., 2006, 16, 40. Contra, invece, G. FRIGO, Un intervento coerente con il sistema, in Guida dir., n. 10, 2006, 104, il quale esclude che un’ipotetica impugnazione della parte civile possa determinare la conversione del p.m. 164 Corte Cost., sent. 20 luglio 2007, n. 320, in Guida dir., n.31, 45, con commento di R. BRICCHETTI, Epilogo ragionevolmente prevedibile in un contesto di evidenti asimmetrie. 165 M. BARGIS, Impugnazioni, in G. Conso V. Grevi, Compendio di procedura penale, 2010, 908; G. DEAN, Il nuovo regime delle impugnazioni della parte civile, cit., 816; per un quadro riassuntivo della dottrina sotto il codice previgente si veda P. FERRUA, sub art. 514 c.p.p. 1930, in AA. VV., Commentario breve al codice di procedura penale, a cura di G. Conso V. Grevi, Padova, 1987, 1372.

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rimedi eterogenei contro la sentenza relativa a un unico capo di

imputazione166.

7. Giudice di pace e appello della parte civile.

E’ arrivato il momento di esaminare un argomento di particolare

interesse per le implicazioni sistematiche: la disciplina del potere di

impugnazione della parte civile nel procedimento di fronte al giudice di

pace167.

Anche in tale settore occorre, infatti, fare i conti con gli effetti della

riforma operata dalla legge n. 46 del 2006. Al fine di una migliore

comprensione della materia, pare opportuno effettuare brevemente un

esame della disciplina delle impugnazioni nel procedimento davanti al

giudice di pace in relazione al periodo precedente all’intervento della

riforma.

Innanzitutto, una particolare legittimazione ad impugnare le sentenze di

proscioglimento del giudice di pace veniva riconosciuta al ricorrente, il

quale avesse chiesto la citazione a giudizio dell’imputato secondo quanto

disposto dall’art. 21 dlgs n. 274 del 2000. Infatti, in base all’art. 38 comma

1 del medesimo dlgs n. 274 <<il ricorrente che ha chiesto la citazione a

giudizio dell’imputato a norma dell’art. 21 può proporre impugnazione

anche agli effetti penali, contro la sentenza di proscioglimento del giudice

di pace negli stessi casi in cui è ammessa l’impugnazione da parte del

pubblico ministero>>.

Va precisato che la norma in esame deve essere coordinata con l’art. 36

dello stesso decreto, che, prima della riforma del 2006, stabiliva quali erano

166 Cass., I, 16 gennaio 2008, in Arch. n. proc. pen., 2009, 117. 167 Si veda, sull’argomento D. CURTOTTI NAPPI, sub artt. 36-39 D.lgs 28 agosto 2000, n. 274, in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, 2010, 9345 ss.; A. CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, Milano, 2006, 607 ss.

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le sentenze appellabili dal pubblico ministero. Questi è legittimato a

<<proporre appello contro le sentenze di condanna del giudice di pace che

applicano una pena diversa da quella pecuniaria>>. In particolare, poteva

appellare <<le sentenze di proscioglimento nei reati puniti con pena

alternativa>>. Il risultato di tale combinato di norme comportava

l’appellabilità delle sentenze di proscioglimento punite con pene

alternative, mentre rimanevano escluse dal novero delle sentenze

appellabili quelle di proscioglimento punite con la sola pena pecuniaria.

Inoltre, l’art. 38 dlgs 274 riservava la possibilità al ricorrente,

costituitosi ai sensi dell’art. 21 dello stesso decreto, di impugnare la

sentenza anche agli effetti penali.

Invece, nel caso in cui l’imputato veniva citato con le forme ordinarie di

cui all’art. 20 dlgs 274 del 2000, in forza del richiamo dell’art. 2 dello

stesso decreto, doveva ritenersi applicabile la regola generale di cui all’art.

576 c.p.p., che stabiliva la facoltà per la parte civile di proporre

impugnazione, con il mezzo previsto per il pubblico ministero, contro i capi

della sentenza di condanna che riguardavano l’azione civile e, ai soli effetti

della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento

pronunciata nel giudizio168. Come è noto, l’inciso “con il mezzo previsto

per il pubblico ministero” creava un collegamento con l’art. 593 c.p.p.

relativo ai casi di appello.

Dal combinato disposto delle due norme si evinceva la facoltà della

parte civile di appellare le sentenze di proscioglimento, ad esclusione di

quelle relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda.

168 L’art. 2 dlgs 274 del 2000 stabilisce che <<nel procedimento davanti al giudice di pace, per tutto ciò che non è previsto dal presente decreto, si osservano in quanto applicabili, le norme contenute nel codice di procedura penale>>. Ne consegue che l’art. 576 c.p.p., che afferma il potere della parte civile di proporre impugnazione, trova applicazione, in difetto di specifica e diversa normativa, ai sensi dell’art. 2 dlgs 274, anche in caso di sentenza pronunciata dal giudice di pace.

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Con l’entrata in vigore della c.d. legge Pecorella il quadro normativo

appena delineato ha subito determinati cambiamenti.

Infatti, le modifiche apportate dalla legge n. 46 del 2006 hanno inciso,

come è noto, sull’art. 593 c.p.p. relativo ai casi di appello del pubblico

ministero e sull’art. 576 c.p.p. inerente alla possibilità di impugnazione

della parte civile. Inoltre, con l’art. 9 della legge 46 del 2006 è stata

soppressa la legittimazione del pubblico ministero ad appellare le sentenze

di proscioglimento del giudice di pace.

A tale proposito, in forza del principio di tassatività regolante la materia

delle impugnazioni, deve escludersi la possibilità di integrare la disciplina

in esame con quanto disposto dall’art. 593 c.p.p., in seguito all’intervento

della Corte costituzionale con la sentenza 26 del 2007, che ha restituito il

potere di appello al pubblico ministero169.

Occorre, inoltre, ricordare che, in base alla sentenza della cassazione a

Sezioni unite del 2007, è stato riconosciuto esistente il potere della parte

civile di appellare, ai soli fini della responsabilità civile, le sentenze rese

nel giudizio di primo grado. Si ritiene che tale principio trovi applicazione

nel procedimento davanti al giudice di pace170.

Alla luce di quanto esposto, è possibile illustrare la disciplina delle

impugnazioni nel procedimento di fronte al giudice di pace nel seguente

modo.

Il pubblico ministero e l’imputato possono attualmente proporre appello

soltanto contro le sentenze di condanna che applicano una pena diversa da

quella pecuniaria (artt. 36 e 37 dlgs 274 del 2000).

169 D. CURTOTTI NAPPI, sub art. 36, cit., 9346. 170 D. CURTOTTI NAPPI, sub art. 38, cit., 9357; P. TONINI, Manuale di procedura penale, XI ed., Milano, 2010, 783.

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Il pubblico ministero e l’imputato non possono mai proporre appello

contro le sentenze di proscioglimento (art. 36 mod. dalla legge n. 46 del

2006)171.

Per quanto riguarda, invece, la persona offesa, occorre distinguere il

caso in cui questa si sia avvalsa del ricorso immediato ex art. 21 dall’altro

caso in cui la medesima abbia scelto la strada della citazione ai sensi

dell’art. 20, poiché solo in quest’ultima circostanza potrà appellare la

sentenza di proscioglimento.

La persona offesa che ha proposto la citazione in giudizio dell’imputato

mediante ricorso immediato ai sensi dell’art. 21 dlgs 274 del 2000, può

esperire contro la sentenza di proscioglimento il ricorso per cassazione,

anche agli effetti penali, analogamente a quanto è stabilito per il pubblico

ministero. E’legittimata ad appellare, invece, le sentenze di condanna.

Al contrario, nell’ipotesi di citazione a giudizio dell’imputato a norma

dell’art. 20 dlgs 274 del 2000, la parte civile è legittimata a proporre

appello, ai soli effetti civili, contro la sentenza di proscioglimento del

giudice di pace172.

171 La Corte Costituzionale con sentenza 25 luglio 2008, n. 298 ha preso in esame la regola in base alla quale le sentenze di proscioglimento pronunciate dal giudice di pace non sono appellabili dal pubblico ministero e ha dichiarato non fondata la relativa questione di legittimità. La scelta del legislatore – ha affermato la Corte – è compatibile con il principio di parità delle parti per vari motivi. In primo luogo, perché si tratta di reati <<di fascia bassa>>. In secondo luogo, perché il procedimento davanti al giudice di pace è improntato a marcata rapidità e semplificazione di forme. Infine, perché prima della legge n. 46 del 2006 colui che si trovava in una posizione di svantaggio, rispetto ai poteri di appello della pubblica accusa, era l’imputato, <<ossia, proprio la parte il cui diritto d’appello ha una maggiore “forza di resistenza”rispetto a spinte di segno soppressivo>>. 172 In tal senso, Cass., V, 5 dicembre 2008, n. 4695, in Riv. pen., 2009, 1464; Cass., IV, 17 aprile 2007, n. 15223, in Giudice di pace, 2007, n. 3, 257.

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CAPITOLO IV

IMPUGNAZIONE DELLA PARTE CIVILE E POTERI

DECISIONALI DEL GIUDICE DI APPELLO

1. L’impugnazione delle sentenze di proscioglimento.

Come è noto, una rilevante innovazione apportata dal codice di

procedura penale del 1988 consiste nella possibilità per la parte civile di

proporre appello, agli effetti della responsabilità civile, contro le sentenze

di proscioglimento173.

Occorre, innanzitutto, comprendere il significato della formula <<ai soli

effetti della responsabilità civile>>, contenuta nell’art. 576 c.p.p.

Nel caso in cui, all’esito del giudizio, sia pronunciata una sentenza di

assoluzione, può accadere che la parte civile faccia appello avverso la

decisione medesima mentre, al contrario, il pubblico ministero resti inerte e

non proponga appello. In questa eventualità, poiché quella della parte civile

è un’impugnazione ai soli effetti della responsabilità civile, la sentenza di

assoluzione non appellata dal pubblico ministero diventa irrevocabile sotto

il profilo penale174.

173 Con la riforma del 2006, operata attraverso la L. n. 46 del 2006, è stata eliminata la previsione per cui la parte civile poteva proporre impugnazione col mezzo previsto per il pubblico ministero. Correlativamente, a seguito della suddetta riforma, ed in linea con il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, è stata affermata l’impugnabilità della sentenza per i soli interessi della parte civile, esclusivamente attraverso il ricorso per cassazione: essendo stato eliminato il riferimento, nell’art. 576 c.p.p., alla possibilità di utilizzare il mezzo di impugnazione previsto per il pubblico ministero, l’unica possibilità era quella di ricorrere all’art. 568, comma 2, secondo cui la sentenza, quando non altrimenti impugnabile, è sempre soggetta a ricorso per cassazione. A tale situazione equivoca ha posto rimedio la giurisprudenza che, pur in deroga al principio di tassatività, ha stabilito che ex art. 576, comma 1, la parte civile, anche dopo l’intervento ad opera della L. n. 46 del 2006, può comunque proporre appello contro i capi che riguardano l’azione civile (Sez. un., 29 marzo – 12 luglio 2007, Poggiali, in Cass. pen., 2007, 4451). 174 M. BARGIS, Impugnazioni, in G. Conso-V. Grevi, Compendio di procedura penale, Padova, 2010, p. 893; F. CAPRIOLI, sub art. 576 c.p.p., in Commentario breve al codice di procedura penale, coordinato da Conso G. e Grevi V., Padova, 2005, p. 1988; A. CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, Milano, 2006, p. 886; M. GIALUZ, sub art. 576 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, a cura di Giarda A. e Spangher G., Giuffrè, Milano, 2010, P. 7022; F. NUZZO, sub art. 593 c.p.p., in Codice di procedura penale, Rassegna di giurisprudenza e dottrina, a cura di Lattanti G., e Lupo E.,

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Sia ben chiaro: la parte civile impugna la decisione di assoluzione per

ottenere la condanna alle restituzioni e al risarcimento dei danni, anche non

patrimoniali. Ma tale condanna ha un presupposto logico: l’accertamento

della responsabilità penale dell’imputato.

Peraltro, la parte civile non può limitarsi soltanto alla richiesta di una

declaratoria di colpevolezza sulla responsabilità penale, perché il petitum in

questo caso sarebbe diverso da quello consentito dalla legge e, di

conseguenza, l’impugnazione sarebbe inammissibile. La domanda civile

deve, invece, a pena di inammissibilità, fare riferimento specifico e diretto

agli effetti civilistici che si intendono ottenere, cioè la condanna al

risarcimento del danno175.

Da tale disciplina consegue che il giudice, chiamato a decidere

sull’appello della parte civile, dovendo pronunciarsi su una domanda civile

che dipende da un accertamento sul fatto di reato, può, in via incidentale,

affermare la responsabilità penale dell’imputato. In tal caso, il giudicato si

sdoppia, e si avranno due differenti decisioni: un giudicato di assoluzione

ai fini penali ed una sentenza di appello che afferma la responsabilità

dell’imputato come presupposto della condanna al risarcimento e che è

idonea a diventare un giudicato se confermata in cassazione.

Peraltro, in dottrina e in giurisprudenza si discute se il giudice

dell’impugnazione debba, nel rispetto del giudicato ai fini penali, limitarsi

a rimuovere la statuizione agli effetti civili per consentire una successiva Giuffrè, Milano, 2008, p. 309; ID, Sui poteri del giudice dell’impugnazione in materia civile nell’ipotesi di estinzione del reato, nota a Cass. Sez. Un., 19 luglio 2006, n. 25083, in Cass. pen., 2008, 214; P. TONINI, Manuale di procedura penale, Milano, 2010 p. 842. 175 Cass., V, 17 marzo 2006, Arch. n. proc. pen., 2007, p. 244; Cass., 24 ottobre 2003, Cantamessa, in Guida dir., 2004, p. 14; Cass., 4 marzo 1999, Pirani CED 213698 secondo cui la richiesta della parte civile <<deve fare riferimento specifico e diretto, a pena di inammissibilità del gravame, agli effetti di carattere civile che si intende conseguire>>: ne deriva <<che una richiesta della parte civile impugnante al giudice del gravame, riguardante esclusivamente l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato, prosciolto nel precedente grado di giudizio, rende inammissibile l’impugnazione, in quanto richiede al giudice adìto di deliberare soltanto in merito a un effetto penale, che esula dai limiti delle facoltà riconosciute dalla legge alla detta parte processuale>>.

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azione della parte civile in sede propria che non subisca gli effetti negativi

discendenti dall’art. 652 c.p.p., o se possa altresì, se richiesto con i motivi

di impugnazione, pronunciare nel merito dell’azione civile condannando

l’imputato ed eventualmente il responsabile civile al risarcimento del

danno176.

In proposito, secondo la prevalente interpretazione dottrinale e un

orientamento giurisprudenziale ormai minoritario, il proscioglimento, se

non impugnato dal pubblico ministero, diventa irrevocabile e, di

conseguenza, l’impugnazione ai soli effetti civili prevista dall’art. 576

c.p.p. non può portare a una pronuncia di condanna dell’imputato al

risarcimento del danno, ma solo ad un accertamento idoneo a rimuovere gli

effetti extrapenali della sentenza impugnata ai sensi dell’art. 652 comma 1

c.p.p. Tale accertamento permette, altresì, all’interessato di esercitare

senza vincoli l’azione in sede civile in un momento successivo177.

Secondo un altro orientamento dottrinale, accolto anche dalla cassazione

a Sezioni unite, l’impugnazione della parte civile può essere diretta a

ottenere non solo la rimozione dell’eventuale preclusione che potrebbe

derivare dalla sentenza impugnata, in ordine al possibile esercizio della

relativa azione in sede civile (art. 652 c.p.p.), ma anche la condanna

dell’imputato alle restituzioni o al risarcimento del danno178.

176 F. CAPRIOLI, sub art. 576 c.p.p., cit., p. 1988; M. GIALUZ, sub art. 576 c.p.p., cit., p. 7022. 177 M. BARGIS, Impugnazioni, cit., p. 894; CORDERO F., Procedura penale, Milano, 2006, p. 1114, ad avviso del quale: <<il proscioglimento (non impugnato dal pubblico ministero) è irrevocabile; la sentenza favorevole all’impugnante non decide sul merito, accordando o negando il risarcimento (lo vieta l’art. 538); rimuove soltanto l’effetto extrapenale (art. 652), aprendo all’interessato la via d’un giudizio civile>>; M. MANISCALCO, L’azione civile nel processo penale, Padova, 2006, p. 239; G. RANALDI, Impugnazioni per i soli interessi civili, in Giur. it., 1999, p. 813; C. VALENTINI, I lavori parlamentari, in Bargis-Caprioli, Impugnazioni e regole di giudizio nella legge di riforma del 2006 – Dai problemi di fondo ai primi responsi costituzionali, Giappichelli, Torino, 2007, p. 218; si veda, in giurisprudenza: Cass., I, 7 aprile 1997, Giampaolo, in Cass. pen., 1998, p. 1149; Corte App., Catanzaro, 28 gennaio, 2000, Donati, in Cass. pen., 2001, p. 669, con nota di A. CASALINUOVO, L’impugnazione della parte civile in caso di proscioglimento dell’imputato: problemi irrisolti. 178 A. CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, cit., p. 886 ss.; NAPPI A., Guida al codice di procedura penale, X ed., Giuffrè, Milano, 2007, p. 900 ss., che afferma: <<la parte civile può, comunque, vedere accolta anche nel giudizio d’impugnazione la domanda proposta con l’intervento nel processo

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In particolare, si ritiene che la parte civile abbia interesse a impugnare

anche la sentenza di proscioglimento priva di efficacia preclusiva nel

processo civile, dato che l’art. 576 c.p.p. non distingue tra le formule di

proscioglimento che ammettono l’impugnazione179. In questa ottica, l’art.

576 c.p.p. è considerato come un’ulteriore deroga, oltre a quella prevista

dall’art. 578 c.p.p., alla regola, contenuta nell’art. 538, che collega la

decisione sul danno alla sentenza di condanna dell’imputato180.

Infatti, l’art. 576 c.p.p., se esclude certamente la possibilità che la parte

civile ottenga in appello una condanna penale, riconosce implicitamente la

possibilità che la domanda civile venga accolta direttamente dal giudice

dell’impugnazione. In proposito, si afferma che proprio in ragione del fatto

che il giudice penale può decidere sulla domanda per le restituzioni e il

risarcimento del danno solo quando pronuncia sentenza di condanna (art.

538 c.p.p.), deve ritenersi che la parte civile sia legittimata non solo a

proporre impugnazione contro la sentenza di proscioglimento o di

assoluzione pronunziata nel giudizio ma anche a chiedere l’affermazione

della responsabilità penale dell’imputato, sia pure ai soli effetti della

responsabilità civile, cioè ai soli fini dell’accoglimento della sua domanda

di restituzione o di risarcimento del danno181.

penale, la cui sorte non può dipendere dall’esistenza o dall’ammissibilità dell’impugnazione del p.m.; e, quindi, la parte civile ha interesse a impugnare anche la sentenza di proscioglimento priva di efficacia preclusiva nel processo civile, come del resto si desume dal fatto che l’art. 576 non distingue tra le formule di proscioglimento che ammettono l’impugnazione>>; ID, Sull’impugnazione della parte civile contro la sentenza di proscioglimento, in Gazzetta giuridica, 1999, 40, p. 3; si veda tra le numerose pronunce che accolgono la tesi in questione: Cass., S. U., 11 luglio 2006, Negri, in Diritto penale e processo, n. 2/2007, p. 223 ss.; Cass., I, 26 aprile 2007, Viviano, in Cass. pen., p. 2008, 4753; Cass., I, 12 marzo 2004, Maggio, CED 227971; Cass., IV, 23 gennaio 2003, Grecuccio, in Cass. pen., 2004, p. 3299; Cass., 15 gennaio 2002, Sconcerti, in A.n. proc. pen., 2003, p. 166; Cass., 6 febbraio 2001, Maggio, in Cass. pen., 2001, p. 3472; Cass., IV, 29 ottobre 1997, Marcelli, in G. it., 1999, p. 812; Corte App., Perugina, 25 giugno 2002, Gualtiero, in Riv. dir. proc., 2003, p. 1235. 179A. CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, cit., p. 886 ss. 180 NAPPI A., Guida al codice di procedura penale, cit., 901. 181 Cass., S. U., 11 luglio 2006, Negri, in Diritto penale e processo, n. 2/2007, p. 225: <<In sintesi, la normativa processuale penale vigente ha scelto l’autonomia dei giudizi sui due profili di responsabilità, civile e penale, nel senso che l’impugnazione proposta ai soli fini civili non può incidere sulla decisione del giudice del grado precedente in merito alla responsabilità penale del reo, ma il giudice penale

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La tesi in esame trova un’ulteriore conferma a livello sistematico,

poiché l’art. 622 c.p.p. prevede che la Corte di cassazione possa disporre

l’annullamento con rinvio al giudice civile competente per valore in grado

di appello anche quando accolga il ricorso proposto ai soli effetti civili

contro una sentenza di proscioglimento. Va considerato che il rinvio è

operato in favore del giudice civile competente per valore in grado di

appello e non avrebbe senso se si dovesse ritenere che la parte civile possa

invocare la sola eliminazione degli effetti pregiudizievoli, poiché tale

risultato potrebbe essere raggiunto con il solo annullamento della sentenza

ai fini civili, senza bisogno di una fase di rinvio. Se il giudizio di rinvio è,

dunque, il naturale proseguimento del giudizio di legittimità, allora deve

concludersi che, pur in presenza di una sentenza di proscioglimento,

l’azione civile possa essere seguita da una sentenza che decida sulle

restituzioni e sul risarcimento del danno182.

2. I poteri del giudice dell’impugnazione nel caso di gravame del solo

pubblico ministero.

a. Gli orientamenti giurisprudenziali e il primo intervento delle

Sezioni Unite.

Uno degli aspetti più controversi legati ai rapporti intercorrenti tra

l’impugnazione della parte civile e quella del pubblico ministero riguarda

dell’impugnazione, dovendo decidere su una domanda civile necessariamente dipendente da un accertamento sul fatto di reato e dunque sulla responsabilità dell’autore dell’illecito extracontrattuale, può, seppure in via incidentale, statuire in modo difforme sul fatto oggetto dell’imputazione, ritenendolo ascrivibile al soggetto prosciolto>>. 182 A. CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, cit., p. 888.

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l’ipotesi in cui a impugnare la sentenza di proscioglimento sia soltanto il

pubblico ministero183.

Occorre comprendere, in tale eventualità, se il giudice d’ appello,

quando su impugnazione del pubblico ministero riforma una sentenza di

proscioglimento e condanna l’imputato, debba provvedere sulla domanda

di risarcimento del danno proposta dalla parte civile anche nel caso in cui

questa non abbia impugnato la decisione di primo grado.

Il contrasto giurisprudenziale in materia dipende, in effetti, dal

progressivo ampliamento dei poteri di impugnazione della parte civile. Lo

sviluppo di tali poteri ha, infatti, messo in crisi la natura di stretta

accessorietà dell’azione civile rispetto a quella penale. Di conseguenza, la

soluzione della questione in esame va ricavata dalla dimensione sistematica

che si intende attribuire all’azione civile inserita nel processo penale.

Come è ben noto, il codice di procedura penale del 1930 consolidò il

principio in base al quale la parte civile poteva proporre appello soltanto

nei confronti di una sentenza di condanna dell’imputato mentre, a parte i

casi in cui la stessa parte civile fosse stata condannata ai danni e alle spese,

non le era consentito di impugnare le sentenze di proscioglimento184.

L’azione civile risultava, così, completamente subordinata alle vicende del

processo penale. In particolare, la decisione sull’azione civile dipendeva

totalmente da quella sull’azione penale, nel senso che in mancanza della

condanna non poteva esserci alcuna decisione sulla responsabilità civile.

183M. BARGIS, Impugnazioni, cit., p. 894; F. CAPRIOLI, sub art. 576 c.p.p., cit., p. 1989; A. CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, cit., p. 906; G. DE ROBERTO, sub art. 576 c.p.p., in Codice di procedura penale, Rassegna di giurisprudenza e dottrina, a cura di Lattanti G., e Lupo E., Giuffrè, Milano, 2008; M. GIALUZ, sub art. 576 c.p.p., cit., p. 7025; M. NOFRI, Nuovi spazi alla parte civile nel giudizio d’appello, in Cass. pen., 2003, 1977; A. PENNISI, Ingiustificati ripensamenti giurisprudenziali in tema di impugnazioni della parte civile, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, Giuffrè, Milano, anno XLVI Fasc. 1-2 – 2003. 184 D. SIRACUSANO, Azione civile e giudizi di impugnazione, cit., p. 48; PENNISI, voce Parte civile, in Enc dir., Milano, 1980, 1019.

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Dunque, nel sistema del codice di rito del 1930, si riteneva che il

giudice d’appello, una volta accolta l’impugnazione del pubblico ministero

avverso il proscioglimento di primo grado, potesse condannare l’imputato

al risarcimento del danno185.

Successivamente, due sentenze della Corte costituzionale avevano

riconosciuto alla parte civile il diritto di proporre ricorso per cassazione

contro le sentenze di proscioglimento186.

In seguito al riconoscimento del potere di proporre ricorso per

cassazione in capo alla parte civile si era sviluppato un orientamento

giurisprudenziale che escludeva una pronuncia sul tema civile nel giudizio

di appello, quando la parte civile non avesse impugnato il proscioglimento

di primo grado187.

Quest’ultimo orientamento ha trovato conferme nella giurisprudenza

successiva, in conseguenza dell’ulteriore ampliamento apportato dal codice

di procedura penale del 1988 al potere di impugnazione della parte

civile188.

185 Cass., IV, 25 giugno 1962, in Cass. pen., 1962, p. 1111, n. 2070; Cass., III, 3 giugno 1975, in Cass. pen., 1977, p. 984, n. 1181; Cass., IV, 7 novembre 1977, in Cass. pen., 1979, p. 602, n. 588; in dottrina E. FORTUNA, Azione penale e azione risarcitorio. La parte civile nel sistema penale, Milano, 1980, p. 556 ss. 186 Corte cost., 22 gennaio 1970, n. 1, in Giur. cost., 1970, I; Corte cost., 17 febbraio 1972, n. 29, in Giur. cost., 1972, p. 131. La prima aveva dichiarato l’illegittimità dell’art. 195 c.p.p. 1930, per violazione dell’art. 111 comma 2 Cost., nella parte in cui poneva limiti a che la parte civile potesse proporre ricorso per cassazione contro le disposizioni della sentenza concernenti i suoi interessi civili. La seconda aveva dichiarato l’illegittimità dell’art. 23 c.p.p. 1930. in relazione all’art. 111 comma 2 Cost., nella parte in cui escludeva che il giudice penale potesse decidere sull’azione della parte civile anche quando, concluso il procedimento penale con sentenza di proscioglimento, l’azione della parte civile, a tutela dei suoi interessi civili, proseguisse in sede di cassazione ed eventuale successivo giudizio di rinvio. 187 Cass., IV, 23 gennaio 1984, in Cass. pen., p. 962, n. 729; Cass., III, 23 settembre 1986, in Foro it., 1988, II, c. 306; Cass., II, 8 novembre 1988, in Cass. pen., 1990, p. 1531, n. 1224; nonché, ancora riguardo al codice abrogato: Cass., I, 6 maggio 1991, in Cass. pen., 1993, p. 98, n. 81; Cass., IV, 30 aprile 1993, in Rep. giust. civ., 1995, p. 2485, n. 2; Cass., IV, 3 febbraio 1994, in Giur. it., 1994, II, c. 798, con nota critica di SOTTANI, Parte civile non appellante e ricorso per cassazione; in dottrina, A. GIARDA, Sentenza assolutoria dell’imputato, potere di ricorso per cassazione e principio di immanenza della parte civile, in Scritti in memoria di G. Bellavista, vol. II, in Il Tommaso Natale, 1978, p. 753; A. PENNISI, L’accessorietà dell’azione civile nel processo penale, Milano 1981, p. 158 ss. 188 Cass., IV, 21 giugno 1993, CED 194861; Cass., III, 29 ottobre 1996, CED 206724; in dottrina A. CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, cit., p. 906 ss.; contra Cass., V, 20 marzo 1997, in Arch. n. proc. pen., 1997, p. 821.

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Le Sezioni Unite hanno avallato l’orientamento in esame nel 1998. Il

Supremo Collegio ha, in particolare, valorizzato la piena autonomia delle

posizioni della parte civile e del pubblico ministero. L’azione civile e

quella penale, pur esercitate nello stesso processo, vengono definite da capi

diversi della sentenza, ciascuno capace di assumere la condizione di

giudicato anche in momenti processuali differenti, proprio in relazione alla

parte della decisione oggetto di impugnazione. In base a tale premessa, la

cassazione ha riconosciuto che, laddove la parte civile faccia acquiescenza

di fronte al capo della sentenza a lei sfavorevole, su di esso si forma il

giudicato. Ne consegue che, il giudice di appello, che accolga il gravame

del pubblico ministero e condanni l’imputato, non potrà pronunciarsi sulle

questioni civili189.

b. Nuovi contrasti giurisprudenziali: le Sezioni Unite compongono la

questione nel 2002.

Peraltro, la giurisprudenza successiva si era allineata soltanto in parte

alle statuizioni delle Sezioni Unite del 1998190.

Di conseguenza, la questione è stata rimessa nuovamente alle Sezioni

Unite che, ritornando sui propri passi, hanno stabilito che il giudice

d’appello può pronunciarsi sulla questione civile quando, nell’accogliere

l’impugnazione del pubblico ministero, condanni l’imputato prosciolto in

189 Cass., Sez. Un., 25 novembre 1998, Lo parco, in Cass. pen., 1999, p. 2084, n. 987. 190 Cass., V, 1 marzo 1999, in Cass. pen., 2001, p. 204, n. 80; Cass., III, 1 giugno 2000, in Arch. n. proc. pen., 2000, p. 495; si sono espresse, invece, in conformità al precedente delle Sezioni unite: Cass., IV, 21 aprile 2000, in Cass. pen., 2001, p. 3118, n. 1506, con nota adesiva di E. SQUARCIA, Persona offesa e persona danneggiata dal reato: una distinzione non sempre agevole; Cass., V, 14 febbraio 2002, in Guida dir., 2002, n. 30, p. 79; in questo senso, in dottrina, E. SQUARCIA, L’azione di danno nel processo penale, Padova, 2002, p. 313 ss.

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primo grado, anche nel caso in cui la parte civile non abbia proposto

appello191.

Il Supremo collegio giunge a tale conclusione attraverso determinate

argomentazioni, che pare opportuno analizzare. Va detto, tuttavia, fin da

subito, che alcuni dei suddetti argomenti richiamano canoni interpretativi

tradizionali e, per questo, non del tutto compatibili con i principi del

sistema processuale attuale.

Le Sezioni unite affermano, in contrasto con quanto affermato nel 1998,

che la sentenza di primo grado, non impugnata dalla parte civile, non è

idonea a passare in giudicato per la porzione riguardante la questione

civile. In caso contrario, infatti, dovrebbe ritenersi che il giudicato agli

effetti civili si formi su un capo inesistente, poiché la sentenza di

proscioglimento non contiene, per definizione, una pronuncia sul tema

civile: il giudice penale può decidere la relativa questione solo in quanto

condanni l’imputato (art. 538 c.p.p.). A tal fine, risulta decisivo il dato

esegetico che emerge dalla formulazione dell’art. 576 comma 1 c.p.p.

Infatti, il legislatore individua l’oggetto dell’impugnazione della parte

civile avverso la pronuncia di condanna nei <<capi… che riguardano

l’azione civile>>, mentre, con riguardo all’impugnazione del

proscioglimento, si riferisce alla <<sentenza di proscioglimento>> nella

sua interezza.

Inoltre, se si formasse un giudicato agli effetti civili, il diritto al

risarcimento del danno dovrebbe considerarsi definitivamente escluso,

mentre non è così. Infatti, se in seguito all’impugnazione del pubblico 191 Cass., Sez. Un., Guadalupi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, p. 550, n. 30327. La sentenza è annotata in maniera adesiva da AMATO, Smentito un precedente delle Sezioni unite: il diritto ai danni non richiede nuove istanze, in Guida dir., 2002, n. 47, p. 76 ss., e in chiave critica da PANSINI, Sull’impugnazione della parte civile le Sezioni unite smentiscono se stesse, in Dir. giust., 2002, n. 11, p. 14 ss.; M. NOFRI, Nuovi spazi alla parte civile nel giudizio d’appello, in Cass. pen., 2003, 1977; si veda, ancora in senso critico, E. SQUARCIA, L’azione di danno nel processo penale, cit., p. 320 ss.

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ministero l’imputato viene condannato la sentenza, ai sensi dell’art. 651

c.p.p., ha efficacia di giudicato e quindi può essere posta a base di una

domanda di risarcimento del danno.

Tuttavia, la parte centrale della motivazione della sentenza del 2002

riguarda i rapporti tra azione penale e azione civile nei gradi di

impugnazione.

Le Sezioni unite affermano che la parte civile, nel caso risulti

soccombente in primo grado può impugnare autonomamente la sentenza di

proscioglimento oppure avvalersi dell’impugnazione del pubblico

ministero, la quale determinerebbe una devoluzione del capo della sentenza

relativo all’azione civile. Tale devoluzione di diritto del capo civile della

sentenza costituisce un’eccezione all’interno del sistema processuale che è,

al contrario, fondato sulla regola generale secondo cui la cognizione del

giudice d’appello è limitata ai punti della decisione ai quali si riferiscono i

motivi proposti (art. 597 comma 1 c.p.p.).

Le norme che, ad avviso delle Sezioni unite, costituiscono la base su cui

fondare la regola della devoluzione di diritto del capo relativo all’azione

civile, sono quelle contenute negli articoli 76 comma 2, 601, comma 4, 574

comma 4, 587 comma 3 e 597 comma 2 c.p.p.

L’argomento principale sul quale si fonda la pronuncia in esame è il

principio di immanenza della costituzione della parte civile, che fa

riferimento all’art. 76 c.p.p., che prevede che la costituzione di parte civile

produce i suoi effetti in ogni stato e grado del procedimento, e quindi anche

per i gradi successivi al primo, pur in difetto di impugnazione nei confronti

della parte civile o da quest’ultima proposta192.

192 Sul principio di immanenza si vedano: G. SABATINI, L’immanenza della costituzione di parte civile, in Giust. pen., 1951, III, p. 197 ss.; FOSCHINI, Immanenza della costituzione di parte civile, in Riv. it. dir. pen., 1951, p. 218 ss.; A. PENNISI, L’accessorietà dell’azione civile nel processo penale, Milano, 1981, p. 128-171; ID, sub art. 76 c.p.p., in Commentario breve al codice di procedura penale, coordinato

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Il principio di immanenza consente alla parte civile regolarmente

costituita di partecipare a tutte le fasi processuali, senza che occorra

rinnovare la costituzione.

Si tratta di un principio che ha sempre caratterizzato l’esercizio

dell’azione civile nel processo penale italiano fin dal primo codice del

1865, in deroga all’opposto principio, che si applica all’esercizio

dell’azione civile in sede civile, secondo cui la costituzione della parte, sia

essa attrice o convenuta, va rinnovata per ogni grado di giudizio193. Per

l’esercizio dell’azione civile nel processo penale era necessario, invece,

stabilire la regola dell’immanenza per uniformare la partecipazione della

parte civile ai giudizi di impugnazione e di rinvio a quella delle altre parti.

Dal principio di immanenza derivano alcuni corollari. In primo luogo, il

diritto della parte civile ad essere citata per il giudizio d’appello, anche

quando appellante sia soltanto l’imputato contro una sentenza di

proscioglimento, ai sensi dell’art. 601 comma 4 c.p.p. In secondo luogo, il

diritto del difensore della parte civile di partecipare, dopo averne ricevuto

avviso, al procedimento davanti alla corte di cassazione, anche se

sollecitato dall’impugnazione delle altre parti, ai sensi dell’art. 610 comma

5 c.p.p.. Infine, il diritto della parte civile e del suo difensore di intervenire

nell’eventuale giudizio di rinvio, ai sensi dell’art. 627 comma 2 c.p.p.

Nel principio di immanenza, inoltre, è implicito un ulteriore aspetto: la

mancata comparizione della parte civile nei gradi di giudizio successivi al

primo non comporta revoca della costituzione, per cui la stessa può anche

da Conso G. e Grevi V., Padova, 2005, p. 77; M. NOFRI., Sul principio di immanenza della costituzione di parte civile, in Riv. it. dir. pen. proc., 2001, 112; A. CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, cit., p. 312. 193 A. PENNISI, Ingiustificati ripensamenti giurisprudenziali in tema di impugnazioni della parte civile, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, Giuffrè, Milano, anno XLVI Fasc. 1-2 – 2003, p. 559.

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rimanere assente da un grado del giudizio senza perdere la sua qualità e

neppure il diritto di partecipare agli ulteriori gradi del processo.

Tra gli effetti suddetti non pare che il codice di procedura penale

preveda la possibilità per la parte civile di non impugnare la sentenza che

non abbia accolto in tutto o in parte la sua domanda, avvalendosi comunque

degli effetti dell’impugnazione dell’accusa. La parte civile non

impugnante, peraltro, conserva il diritto di partecipare ai successivi gradi di

giudizio, instaurati su sollecitazione delle altre parti, con lo scopo di evitare

una reformatio in peius della sentenza in relazione ai suoi interessi, ma non

con la prospettiva di ottenere una reformatio in melius194.

E’ necessario precisare che in dottrina si distingue tra un significato

“debole” e un significato “forte” di immanenza195. In base al primo, la parte

civile, al fine di partecipare ai giudizi di impugnazione, è dispensata dal

rinnovare la costituzione effettuata in primo grado. Nell’accezione “forte”,

l’immanenza determina la riproposizione automatica della domanda

risarcitoria nel giudizio di impugnazione, anche se la parte civile non abbia

esperito alcun rimedio contro sentenza di proscioglimento.

Ad avviso di una parte della dottrina, l’accezione forte dell’immanenza,

fatta propria dalla sentenza in esame, era connaturata ad un sistema in cui

la posizione di completa accessorietà dell’azione proposta dalla parte civile

consentiva di ritenere che l’appello del pubblico ministero producesse un

effetto devolutivo a beneficio del danneggiato costituito. Sottesa al sistema

era proprio l’esigenza di evitare che le istanze risarcitorie uscissero

definitivamente vanificate dal proscioglimento in primo grado

194 A. PENNISI, Ingiustificati ripensamenti giurisprudenziali in tema di impugnazioni della parte civile, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, Giuffrè, Milano, anno XLVI Fasc. 1-2 – 2003, p. 560; M. NOFRI, Nuovi spazi alla parte civile nel giudizio d’appello, cit., p. 1983. 195 A. BALDELLI, M. BOUCHARD, Le vittime del reato nel processo penale, Utet, Torino, 2003, p. 147 ss.; A. CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, cit., p. 313; M. NOFRI, Nuovi spazi alla parte civile nel giudizio d’appello, cit., p. 1981.

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dell’imputato. Un significato di tal genere dell’immanenza non è

compatibile, invece, con un sistema in cui si esclude qualsiasi effetto del

gravame del pubblico ministero a favore della parte civile196.

Anche gli argomenti a favore della devoluzione diritto del capo relativo

all’azione civile, ad opera dell’impugnazione del pubblico ministero, che si

traggono dagli articoli 574 comma 4 e 587 comma 3 c.p.p. sono stati

oggetto di critica da parte della dottrina.

Secondo le Sezioni unite, dal contenuto delle due norme si verrebbe a

delineare un sistema in cui la decisione nel giudizio di impugnazione sulla

responsabilità penale si riflette sulla decisione relativa alla responsabilità

civile automaticamente, ossia anche in mancanza di impugnazione del capo

concernente l’azione civile che nei casi indicati forma oggetto di una

devoluzione di diritto.

Per quanto riguarda l’art. 574 comma 4 c.p.p., l’effetto estensivo

dell’impugnazione proposta dall’imputato contro la pronuncia di condanna

penale o di assoluzione al capo della sentenza relativo alle restituzioni, al

risarcimento del danno e alla refusione delle spese processuali, si ricollega

alla inscindibilità della responsabilità penale e civile in capo alla stessa

persona fisica dell’imputato. Ne consegue che l’effetto devolutivo

dell’impugnazione dell’imputato o del responsabile civile avverso i capi

penali della sentenza si estenda ai capi civili. Dalla disciplina descritta

risulta, secondo alcuni studiosi, che la norma si può riferire soltanto

all’impugnazione dell’imputato197.

196 A. CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, cit., p. 911; M. NOFRI, Nuovi spazi alla parte civile nel giudizio d’appello, 1982; PANSINI, Sull’impugnazione della parte civile le Sezioni unite smentiscono se stesse, in Dir. giust., 2002, n. 11, p. 14 ss.; E. SQUARCIA, L’azione di danno nel processo penale, cit., p. 320 ss. 197 A. PENNISI, Ingiustificati ripensamenti giurisprudenziali in tema di impugnazioni della parte civile, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, Giuffrè, Milano, anno XLVI Fasc. 1-2 – 2003, p. 560; M. NOFRI, Nuovi spazi alla parte civile nel giudizio d’appello, 1981; A. CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, cit., p. 906 ss.

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Analoghe considerazioni possono essere svolte per quanto riguarda l’art.

587 comma 3 c.p.p. In tal caso, il legislatore ha ritenuto necessario

prevedere espressamente l’eccezione al principio generale dell’effetto

parzialmente devolutivo dell’impugnazione, stabilendo espressamente un

effetto estensivo dell’impugnazione. Una previsione espressa simile manca,

al contrario, per l’impugnazione del pubblico ministero, il cui gravame non

può, di conseguenza, avere un effetto devolutivo nei confronti nei confronti

del capo civile della sentenza198.

L’ultimo argomento utilizzato dalla sentenza in esame è quello relativo

all’art. 597 comma 2 lett. a), che attribuisce al giudice di appello che

pronuncia una condanna il potere di adottare ogni altro provvedimento

imposto o consentito dalla legge.

Secondo le Sezioni unite, una volta che il giudice dell’impugnazione sia

stato chiamato a decidere sull’azione penale attraverso l’impugnazione del

pubblico ministero, la pronuncia sull’azione civile discenderebbe quale

conseguenza naturale della condanna penale.

Tuttavia nel nostro sistema processuale sono due i presupposti in base ai

quali il giudice si pronuncia sulle restituzioni e sul risarcimento del danno.

Innanzitutto, l’art. 538 comma 1 c.p.p. lega indissolubilmente la

decisione sull’azione civile alla condanna penale, ad eccezione delle ipotesi

di cui all’art. 578 c.p.p.

Tuttavia, un’altra condizione della pronuncia sulle restituzioni e sul

risarcimento del danno è costituita dalla domanda della parte civile. In

seguito alla presentazione di tale domanda sorge il potere-dovere del

giudice penale di decidere sull’azione civile con la sentenza di condanna

dell’imputato. Soltanto attraverso l’assolvimento di quest’onere della parte 198 A. PENNISI, Ingiustificati ripensamenti giurisprudenziali in tema di impugnazioni della parte civile, cit., 560; A. CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, cit., p. 906 ss.

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civile il giudice dell’impugnazione viene investito della cognizione

sull’azione civile199.

La giurisprudenza si è in seguito allineata quasi totalmente alla

soluzione delineata dalle Sezioni Unite del 2002200.

Occorre precisare che si è registrato un solo caso in cui la Cassazione si

è discostata espressamente dalla conclusione accolta dalle Sezioni Unite.

Riprendendo la soluzione ermeneutica superata dal Supremo Consesso, la

Cassazione ha affermato che la parte lesa, una volta costituitasi parte civile,

può liberamente decidere di insistere, nei gradi successivi del processo

penale, nell’attivata azione per le restituzioni e il risarcimento del danno,

nonostante l’acquiescenza del pubblico ministero, oppure scegliere di non

coltivare l’azione stessa, anche quando il pubblico ministero impugni

nell’interesse dello Stato, con la conseguenza di far formare il giudicato in

ordine al relativo rapporto, con effetti sia sostanziali sia processuali201.

3. I poteri del giudice dell’impugnazione in materia civile in caso di

prescrizione del reato.

L’art. 578 c.p.p. riproduce sostanzialmente il testo dell’art. 12, comma

1, della legge 3 agosto 1978 n. 405202. La ratio della previsione è quella di

199 A. PENNISI, Ingiustificati ripensamenti giurisprudenziali in tema di impugnazioni della parte civile, cit., 562. 200 Si vedano, tra le numerose pronunce: Cass., II, 8 maggio 2009, CED, 245179; Cass., III, 30 aprile 2009, 243909; Cass., V, 7 luglio 2005, 233750; Cass., 14 maggio 2003, 225114; Cass., II, 23 aprile 2003, 225102. 201 Cass., VI, 8 aprile 2003, in Cass. pen., 2005, p. 125. 202 L’art. 578 c.p.p. trova il suo antecedente storico nella legge 3 agosto 1978 n. 405, che, oltre a delegare al Presidente della Repubblica la concessione dell’amnistia e dell’indulto, dettava alcune disposizioni di carattere generale destinate ad operare anche in relazione ad ogni altro successivo provvedimento di clemenza. In particolare, l’art. 12 comma 1 della legge 405/78 prevedeva che << quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni e al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la Corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia, decidono ugualmente sull’impugnazione, ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili>>. Evidenti le finalità della norma: da un lato, evitare che il provvedimento di clemenza si risolvesse in un pregiudizio per il danneggiato; da un altro

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contemperare due centri di interesse tra loro in conflitto: da un lato, quello

dell’imputato a vedere dichiarata la causa di estinzione del reato ascrittogli;

da un altro lato, quella del danneggiato dal reato, ad evitare il pregiudizio

potenzialmente derivante dalla pronuncia del provvedimento con cui viene

dichiarata l’estinzione del reato203.

Affinché l’art. 578 c.p.p. trovi attuazione, devono ricorrere due

presupposti204.

La prima condizione indispensabile per l’operatività degli effetti previsti

dall’art. 578 c.p.p. è che il giudice di appello o la Corte di cassazione

dichiarino l’estinzione del reato per amnistia o per prescrizione. La

giurisprudenza è costante nel ritenere che il richiamo espresso all’amnistia

e alla prescrizione escluda, di conseguenza, l’applicazione analogica della

disciplina ad altre cause estintive del reato come la morte dell’imputato, la

remissione della querela o l’oblazione205.

La seconda condizione è che in primo grado sia stata affermata la

responsabilità penale dell’imputato e sia stata pronunciata condanna, anche

generica, al risarcimento del danno. Di conseguenza, la norma non è

applicabile nel patteggiamento, in quanto il giudice, con la relativa

sentenza, non decide sulla domanda della parte civile, salvo che sulle spese.

Va precisato, peraltro, che la decisione sull’azione civile ai sensi

dell’art. 578 c.p.p. è possibile nell’eventualità in cui nel giudizio di

lato, soddisfare esigenze di economia processuale mediante l’utilizzazione degli atti del processo penale per decidere la regiudicanda civile, senza costringere le parti ad intentare un nuovo processo in sede civile. L’art. 578 c.p.p. riproduce integralmente il contenuto dell’art. 12 comma 1, con la sola variante dell’estensione della relativa disciplina anche all’ipotesi di estinzione del reato per prescrizione. 203 C. FIORIO, L’appello, in Le impugnazioni penali, Trattato diretto da A. Gaito, vol. I, 1998, p. 366. 204 G. DE ROBERTO, sub art. 578 c.p.p., in Codice di procedura penale, Rassegna di giurisprudenza e dottrina, a cura di Lattanti G., e Lupo E., Giuffrè, Milano, 2008, p. 143; F. CAPRIOLI, sub art. 578 c.p.p., in Commentario breve al codice di procedura penale, coordinato da Conso G. e Grevi V., Padova, 2005, p. 1993; A. CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, cit., p. 918 ss. 205 Cass., VI, 6 febbraio 2004, n. 13661, CED 229400; Cass., IV, 14 ottobre 2005, n. 44663, CED 232620; Cass., IV, 8 febbraio 2007, n. 12807, CED 236197; in dottrina G. DE ROBERTO, sub art. 578 c.p.p., cit., p. 143; A. CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, cit., p. 919.

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impugnazione sia pronunciata sentenza di applicazione della pena avendo il

giudice ritenuto ingiustificato il dissenso del pubblico ministero o il rigetto

della richiesta, secondo quanto disposto dall’art. 448 comma 3 c.p.p.206

Occorre comprendere, alla luce della disciplina appena descritta, se il

giudice di appello, nel dichiarare l’estinzione del reato per prescrizione,

possa condannare l’imputato al risarcimento del danno in favore della parte

civile che abbia impugnato la sentenza di primo grado di assoluzione.

Secondo una parte della giurisprudenza l’art. 578 c.p.p. subordina

espressamente la pronuncia del giudice dell’impugnazione sull’azione

civile, nelle ipotesi di dichiarazione di amnistia o di prescrizione, alla

sussistenza di una sentenza di condanna dell’imputato in primo grado. Ne

consegue che il giudice di appello, nel caso in cui l’imputato sia stato

assolto in primo grado, non può pronunciare condanna al risarcimento dei

danni in favore della parte civile che ha proposto impugnazione, quando

dichiara estinto il reato per amnistia o prescrizione207.

206 M. BARGIS, Impugnazioni, cit., p. 598, dove si osserva che in questo caso non siamo di fronte ad un’eccezione rispetto alla regola, in quanto <<il giudice dell’impugnazione ha a disposizione gli atti di una completa istruzione dibattimentale: atti certamente sufficienti a fondare una pronuncia di responsabilità civile>>; nello stesso senso A. CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, cit., p. 918 ss. 207 Cass., VI, 30 ottobre 1997, in Guida dir., 1998, 6, p. 85; Cass., IV, 14 marzo 2002, in Giur. it., 2003, p. 2148, con nota critica di R. FONTI, Regiudicanda civile e declaratoria di prescrizione del reato in appello, che osserva:<<il giudice di appello per sostituire all’epilogo assolutorio di primo grado con formula piena, la pronuncia di proscioglimento per estinzione del reato, deve accertare in positivo che sussista la responsabilità penale del soggetto rispetto al quale è inibita la pronuncia di condanna per la presenza di una delle cause di estinzione del reato. Accertata la responsabilità penale, erroneamente esclusa nel giudizio precedente, con una sentenza completamente sostitutiva di quella riformata, non si comprende come si possa escludere la pronuncia sui danni se nelle more del giudizio maturi la prescrizione. Diversamente opinando, si arrecherebbero gravi pregiudizi alla parte civile la quale, dopo aver esercitato il potere impugnatorio espressamente conferitole dalla legge, lo vedrebbe svuotato e svilito nel suo epilogo finale: a fronte di un nuovo accertamento che riconosce la responsabilità dell’imputato, si vedrebbe rifiutare la pronuncia sui danni a causa di un evento estraneo al processo, frutto di ritardi o disfunzioni del sistema (è il caso della prescrizione del reato) ovvero di scelte legislative determinate da ragioni di opportunità (è il caso dell’amnistia). Considerato che la ratio sottesa alla norma in esame risiede, appunto, nell’impedire il verificarsi di tale pregiudizio in sede di impugnazione, è del tutto insignificante che il giudizio di primo grado si sia concluso con un verdetto di assoluzione piuttosto che di condanna; rileva, invece, che il nuovo accertamento, effettuato dal giudice d’appello, abbia riconosciuto la responsabilità penale dell’imputato, il quale non può essere condannato unicamente per il maturarsi del termine prescrizionale>>.

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Al contrario, ad avviso di un’altra parte della giurisprudenza il giudice

di appello, qualora, su impugnazione del pubblico ministero e della parte

civile, ritenga configurabile la responsabilità penale dell’imputato, negata

dal giudice di primo grado, dichiarando l’estinzione del reato per

prescrizione, può pronunciare condanna al risarcimento dei danni in favore

della parte civile208.

Le Sezioni unite, accogliendo quest’ultima interpretazione, hanno

escluso la condizione della precedente condanna per la decisione del

giudice di appello sull’azione civile in seguito all’impugnazione della parte

civile contro una sentenza di proscioglimento209.

Infatti, secondo il Supremo collegio, l’art. 578 c.p.p. si riferisce

all’impugnazione proposta dall’imputato o dal pubblico ministero, e

soltanto in questa ipotesi stabilisce che, in caso di dichiarazione della

prescrizione del reato, il giudice di appello possa decidere sugli effetti civili

quando sia stata pronunciata in primo grado una sentenza di condanna.

Quando ad impugnare la sentenza di primo grado è la parte civile, non

deve essere applicato l’art. 578 c.p.p. ma l’art. 576 c.p.p., che conferisce al

giudice dell’impugnazione il potere di decidere sulla domanda di

risarcimento del danno anche in mancanza di una precedente statuizione sul

punto210.

208 Cass., II, 16 gennaio 2004, in Arch. n. proc. pen., 2004, p. 202. 209 Cass., Sez. Un., 19 luglio 2006, n. 25083, in Cass. pen., 2006, p. 3519; la sentenza è stata annotata da F. NUZZO, Sui poteri del giudice dell’impugnazione in materia civile nell’ipotesi di estinzione del reato, in Cass. pen., 2008; A. PENNISI, “Precedente condanna”e poteri di decisione del giudice penale sull’azione civile, in Dir. pen. proc., n. 2/2007, p. 226 ss. 210F. NUZZO, Sui poteri del giudice dell’impugnazione in materia civile nell’ipotesi di estinzione del reato, cit., osserva che <<Il raffronto sul piano esegetico-sistematico del contenuto degli artt. 578 e 576 c.p.p., quindi, suffraga l’inferenza circa la diversa proiezione delle citate disposizioni, dovendosi concludere che l’art. 578 c.p.p. trova applicazione se con l’impugnazione per gli effetti penali, idonea a impedire il formarsi del giudicato, non concorra un’impugnazione per gli effetti civili, mentre l’art. 576 c.p.p. opera nel caso opposto, cioè allorché sussista l’impugnazione della parte civile unita, o meno, a quella di altri legittimati>>.

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E’ opportuno osservare che il conflitto giurisprudenziale è sorto a causa

di un diverso modo di intendere il significato della “precedente condanna”

quale presupposto per la decisione sull’azione civile in sede di

impugnazione in seguito ad una declaratoria di estinzione del reato per

amnistia o per prescrizione, così come previsto dall’art. 578 c.p.p.211

Secondo quella parte della giurisprudenza disattesa dalle Sezioni unite,

la dipendenza dalla precedente condanna della decisione del giudice penale

sull’azione civile, anche se prevista dall’art. 578 c.p.p. solo per le ipotesi di

estinzione del reato per amnistia e per prescrizione, costituirebbe una

regola generale, e perciò applicabile a tutte le ipotesi di proscioglimento e

riferibile direttamente all’art. 538 comma 1 c.p.p., secondo cui il giudice

decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno solo

quando pronuncia sentenza di condanna.

Ne discenderebbe che una decisione esplicita del giudice penale

sull’azione civile non sarebbe ammissibile, se non preceduta da una

condanna penale, neppure nel caso in cui sia stata la medesima parte civile

ad impugnare una sentenza di proscioglimento e il gravame sia accolto212.

Peraltro, la soluzione appena esposta, come chiarito dalle Sezioni unite,

non tiene conto dell’evoluzione che ha investito l’istituto dell’azione civile

nel sistema del codice di procedura penale vigente, ed è, al contrario

rimasta ferma al principio di accessorietà che la caratterizzava nel codice

del 1930213.

211 A. PENNISI, “Precedente condanna”e poteri di decisione del giudice penale sull’azione civile, cit., p. 226. 212 Cass., VI, 30 ottobre 1997, in Guida dir., 1998, 6, p. 85, in cui si precisa che In tale ipotesi alla parte civile <<spetta solo il potere di impugnare gli accertamenti e le valutazioni che rimuovono quelli preclusivi del successivo esercizio dell’azione civile, o comunque in contrasto con i suoi interessi civili, ma non quello di ottenere direttamente dal giudice penale una pronuncia di condanna al risarcimento dei danni>>. 213 In ossequio al principio di accessorietà, l’art. 23 c.p.p. 1930 stabiliva che <<il giudice penale non può decidere sull’azione civile quando il procedimento si chiude con sentenza che dichiari non doversi procedere o che pronuncia assoluzione per qualsiasi causa>>.

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Come è noto, infatti, il potere di impugnazione della parte civile era

stato ampliato, in prima battuta, dalle pronunce della Corte costituzionale

del 1970 e del 1972 che avevano riconosciuto alla medesima la facoltà di

ricorrere per cassazione contro le sentenze di proscioglimento214.

Successivamente, l’art. 12 l. 3 agosto 1978, n. 405, aveva consentito al

giudice di appello e alla Corte di cassazione di decidere sull’azione civile,

sia pure limitatamente alle ipotesi in cui fosse dichiarata l’estinzione del

reato per amnistia, dopo una condanna penale.

In realtà, il sistema è cambiato in modo radicale con il codice di

procedura penale vigente, che al principio di accessorietà ha sostituito il

principio di autonomia dell’azione civile rispetto a quella penale. Tale

scelta rappresenta un effetto del nuovo sistema processuale misto

prevalentemente accusatorio, che implica parità di diritti per tutte le parti

del processo.

In forza del nuovo assetto sistematico sono stati conferiti alla parte

civile dall’art. 576 c.p.p. poteri di impugnazione autonoma. Questa scelta,

dunque, implica che il riferimento alla precedente condanna di cui all’art.

578 c.p.p. non riguarda l’impugnazione proposta dalla parte civile avverso

la sentenza di proscioglimento.

214 Corte cost., 22 gennaio 1970, n. 1, in Giur. cost., 1970, I; Corte cost., 17 febbraio 1972, n. 29, in Giur. cost., 1972, p. 131.

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CAPITOLO V

L’IMPUGNAZIONE DELLA SENTENZA DI NON LUOGO A PROCEDERE

1. Il previgente quadro delle impugnazioni della sentenza di non luogo

a procedere.

Prima delle modificazioni introdotte dall’art. 4 della legge n. 46 del

2006, l’art. 428 comma 1 c.p.p. stabiliva che, salvo quanto previsto dall’art.

593 comma 3 c.p.p. contro la sentenza di non luogo a procedere potessero

proporre appello il procuratore della repubblica, il procuratore generale e

l’imputato215.

La sentenza di non luogo a procedere pronunciata all’esito dell’udienza

preliminare era, dunque, appellabile sia dall’imputato sia dal pubblico

ministero. Tale regola subiva, tuttavia, determinate eccezioni.

In primo luogo, non era appellabile, bensì soltanto ricorribile per

cassazione ai sensi dell’art. 428 comma 5, la sentenza di non luogo a

procedere relativa a contravvenzioni punita con la sola pena dell’ammenda

o con pena alternativa (art. 593 comma 3, richiamato dall’art. 428 comma

1).

215 M. DANIELE, sub art. 428 c.p.p., in Commentario breve al codice di procedura penale, coordinato da Conso G. e Grevi V., Padova, 2005, p. 1524 ss.; ID, Profili sistematici della sentenza di non luogo a procedere, Torino, 2005; R. BRICCHETTI-L. PISTORELLI, La sentenza liberatoria va in Cassazione, in Guida dir., 11 marzo 2006, n. 10, p.67 ss.; H. BELLUTA, Ripensamenti sulla “giustiziabilità” della sentenza di non luogo a procedere, in M. Bargis e F. Caprioli, Impugnazioni e regole di giudizio nella legge di riforma del 2006 – Dai problemi di fondo ai primi responsi costituzionali, Giappichelli, Torino, 2007, p. 117 ss. che sottolinea come <<il dato più rilevante del vecchio regime poteva considerarsi l’ampia “giustiziabilità” della pronuncia liberatoria emessa dal giudice dell’udienza preliminare>>; R. BRICCHETTI, Impugnazione della sentenza di non luogo a procedere, in AA. VV., Il nuovo regime delle impugnazioni tra Corte costituzionale e Sezioni Unite, a cura di FILIPPI L.,Cedam, Padova, 2007, p. 105 ss.

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In secondo luogo, non era appellabile dall’imputato la sentenza di non

luogo a procedere “perché il fatto non sussiste” o “per non aver commesso

il fatto”, mancando in tali ipotesi l’interesse a proporre impugnazione,

previsto, in termini generali, a pena di inammissibilità dell’impugnazione

dal combinato disposto degli articoli 568 comma 4 e 591 comma 1 lett. a)

c.p.p.

L’imputato era, dunque, legittimato ad impugnare, ai sensi dell’art. 425

c.p.p., la sentenza di non luogo a procedere che avesse dichiarato

l’estinzione del reato, la non punibilità dell’imputato, la non esercitabilità o

proseguibilità dell’azione penale o, infine, che avesse accertato che il fatto

non era previsto dalla legge come reato.

Occorre precisare che la persona offesa dal reato e la parte civile non

potevano appellare la sentenza di non luogo a procedere.

Peraltro, la persona offesa poteva, come stabilito dal comma 3 dell’art.

428 c.p.p., ricorrere per cassazione contro la sentenza di non luogo a

procedere nei casi di nullità previsti dall’art. 419 comma 7 c.p.p., quando

fosse stata omessa o compiuta tardivamente la notificazione degli atti

introduttivi dell’udienza preliminare, ossia nell’ipotesi in cui non le fosse

stato notificato l’avviso del giorno, dell’ora e del luogo dell’udienza

medesima216. In questi casi, il ricorso mirava ad ottenere l’annullamento

con rinvio per vitia in procedendo in base all’art. 623 lett. d)217.

216 Sotto altri profili, come ad esempio la pretesa mancanza di motivazione, la sentenza di non luogo a procedere era inoppugnabile per la persona offesa in quanto non comportava effetti preclusivi né pregiudizialmente vincolanti in relazione all’azione civile. Si veda Cass., III, 17 febbraio 2000, Marra, Ced 216062, che precisa, altresì come, d’altra parte, non potesse invocarsi la norma generale di cui all’art. 576 c.p.p. giacchè essa attribuisce alla parte civile il potere di impugnare, ai soli fini della responsabilità civile, le sentenze di proscioglimento dell’imputato, ma solo se pronunciate nel giudizio. 217 G. M. ANCA, voce udienza preliminare, in Dig. pen., vol. XV, 1999, p. 55.

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La parte civile non poteva impugnare in via autonoma la sentenza di non

luogo a procedere in ragione del fatto che il proscioglimento in udienza

preliminare non possedeva alcuna efficacia extrapenale218.

Contro la sentenza di non luogo a procedere non poteva proporre

impugnazione neppure la persona offesa che si fosse costituita parte civile

nei procedimenti per i reati di ingiuria e diffamazione, ai sensi dell’art. 577

c.p.p., abrogato dalla l. n. 46 del 2006, poiché tale norma limitava

l’impugnazione alle sole sentenze di proscioglimento pronunciate in

giudizio219.

Alla parte civile e alla persona offesa era, comunque, data la facoltà di

presentare richiesta motivata al pubblico ministero di proporre

impugnazione “a ogni effetto penale”, dovendosi ritenere applicabile anche

all’udienza preliminare la disposizione, di carattere generale, di cui all’art.

572 c.p.p., 220.

218 G. TRANCHINA, Impugnazione, dir. proc. pen., Enc. d., Agg., II, p. 399; R. E. KOSTORIS, sub art. 428, in in Codice di procedura penale commentato, a cura di Giarda A. e Spangher G., Milano, 2001, p. 1771; A. SCELLA, sub art. 652 c.p.p., in Commentario breve al codice di procedura penale, coordinato da Conso G. e Grevi V., Padova, 2005, p. 2210; in giurisprudenza: Cass., 26 febbraio 1992, Varano, in Giur. it., 1994, II, p. 228, con nota di P. P. PAULESU. 219 Cass., 19 marzo 1997, Latella, in Guida dir., 1997, 21, p. 78; Cass., 20 giugno 1996, Zavattoni, in Guida dir., 1996, 35, p. 97; Cass., 13 giugno 1994, Calarco, 198888; Cass., 11 novembre 1992, p.c. in c. Beria d’Argentine, in A. n. proc. pen., 1993, p. 778; App. Roma 20 maggio 1993, Cepparuolo, in Foro it., 1993, II, p. 488; Corte Cost., 29 luglio 1992, n. 381, in cass. pen., 1992, p. 2975, che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 428, sollevata con riferimento agli artt. 3 e 76 Cost., nella parte in cui non prevede, per la persona offesa costituita parte civile, la facoltà di proporre appello avverso le sentenze di non luogo a procedere per il reato di diffamazione commesso con il mezzo della stampa; non può, infatti, ritenersi violato il principio di uguaglianza, poiché la fase dell’udienza preliminare si differenzia da quella del giudizio, essendo caratterizzata da decisioni basate su una regola di tipo processuale (e non sostanziale), che giustifica e rende non arbitraria la scelta del legislatore di limitare il potere di impugnativa della parte privata, nei processi per ingiuria e diffamazione, alle sole sentenze di condanna e di proscioglimento, né d’altra parte, vi è alcuna violazione della legge delega, poiché la stessa riferisce chiaramente detto potere di impugnativa soltanto a tali sentenze. E’ stata, inoltre, ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 577, che esclude la possibilità, per la persona offesa costituita parte civile, di impugnare le sentenze di non luogo a procedere, sollevata in riferimento agli artt. 24 e 113 Cost., poiché da un lato il diritto sostanziale della parte lesa, costituita parte civile, può essere tutelato nella sede civile, senza che alcun pregiudizio derivi dall’inappellabilità delle predette sentenze, da un altro lato il diritto di difesa può essere diversamente disciplinato dal legislatore, con i necessari adattamenti alle varie esigenze, a condizione che non ne siano pregiudicate finalità e funzioni. 220 G. GARUTI, La verifica dell’accusa nell’udienza preliminare, Padova, 1996, p. 333.

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Controversa era, inoltre, la proponibilità dell’appello incidentale, ossia

l’applicabilità alla sentenza di non luogo a procedere della disposizione

contenuta nell’art. 595 c.p.p.221

Occorre notare che, contro il capo della sentenza di non luogo a

procedere che decide sulle spese e sui danni, possono proporre

impugnazione, secondo la disciplina dettata dall’art. 428, il querelante,

l’imputato e il responsabile civile (l’art. 427 comma 4 c.p.p.).

Il rinvio esplicito all’art. 428 c.p.p. sembrava individuare il mezzo di

impugnazione ordinario nell’appello222. Ad avviso di un’altra parte della

dottrina, invece, stando alle regole generali secondo cui l’impugnazione

dell’imputato e del responsabile civile si propone con il mezzo previsto per

le disposizioni penali della sentenza (artt. 574 comma 2 e 3 e 575 comma

1) e quella del querelante con il mezzo contemplato per il pubblico

ministero (artt. 576 comma 2 e 542 comma 1), il querelante era in grado di

proporre appello mentre l’imputato e il responsabile civile erano autorizzati

solo a presentare ricorso per cassazione223.

Il secondo comma dell’art. 428 c.p.p. prevedeva che sull’appello

decidesse la corte di appello in camera di consiglio con le forme previste

dall’art. 127 c.p.p.

221 A. MOLARI, Lineamenti e problemi dell’udienza preliminare, in Ind. pen., 1988, p. 336, il quale ammetteva la proponibilità dell’appello incidentale contro la sentenza di non luogo a procedere, sul presupposto che l’art. 595 conterrebbe una disposizione di carattere generale. Altri, invece, muovendo dal carattere eccezionale dell’istituto e dal contenuto dell’art. 595 comma 3, secondo il quale <<l’appello incidentale del pubblico ministero produce gli effetti previsti dall’art. 597 comma 2>>, erano pervenuti alla conclusione opposta. Si vedano, in proposito, P. DELLA SALA-G. GARELLO, L’udienza preliminare. Verifica dell’accusa e procedimenti speciali, Milano, 1989, p. 277; G.GARUTI, cit., p. 336. 222 G. GARUTI, La verifica dell’accusa nell’udienza preliminare, Padova, 1996, p. 342. 223 A. SCALFATI, L’udienza preliminare. Profili di una disciplina in trasformazione, Padova, 1999, p. 122. E’ necessario precisare che la sentenza di non luogo a procedere è divenuta, in seguito alla riforma del 2006, inappellabile. Di conseguenza, sono venuti meno i suddetti dubbi interpretativi. Attualmente, il querelante, l’imputato e il responsabile civile possono soltanto ricorrere ricorso per cassazione contro il capo della sentenza di non luogo a procedere (perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto) che, in relazione a un reato procedibile a querela della persona offesa, abbia deciso in ordine al pagamento delle spese del procedimento, alla rifusione delle spese sostenute dall’imputato e, in caso di costituzione di parte civile, dal responsabile, ed al risarcimento del danno richiesto dall’imputato e dal responsabile civile.

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In caso di appello del pubblico ministero, la corte poteva confermare la

sentenza di non luogo a procedere ovvero, in riforma della medesima,

pronunciarne un’altra con formula meno favorevole all’imputato o

disporre, con decreto, il giudizio, dinanzi al tribunale competente, nei

confronti dell’imputato (art. 428 comma 6 c.p.p.)224.

In caso di appello dell’imputato, invece, la corte, in ossequio al divieto

di reformatio in peius, poteva rigettarlo e, quindi, confermare la sentenza di

non luogo a procedere ovvero accoglierlo e, pertanto, pronunciarne un’

altra con formula più favorevole all’imputato medesimo (art. 428 comma 7

c.p.p.).

Contro la sentenza di non luogo a procedere pronunciata in grado di

appello era data possibilità di ricorso per cassazione all’imputato e al

procuratore generale (art. 428 comma 8 c.p.p.)225.

La corte di cassazione decideva in camera di consiglio con le forme

previste dall’art. 611 c.p.p. (art. 428 comma 9), quindi in assenza delle parti

e dei difensori.

Va detto che il procuratore della Repubblica, il procuratore generale e

l’imputato, nei limiti del loro diritto ad appellare, avevano la possibilità di

224 Una controversia interpretativa era insorta in relazione a declaratorie di nullità, da parte del tribunale, del decreto di rinvio a giudizio pronunciato dalla corte di appello. Una prima decisione (Cass., VI, 12 giugno 2003, Donzelli, CED 228306) aveva affermato che il principio di regressione alla fase in cui era stato compiuto l’atto nullo comportava che gli atti fossero restituiti alla corte di appello per la rinnovazione. Poco dopo, era stata pronunciata una decisione di segno contrario (Cass., I, 9 gennaio 2004, conf. Comp. In c. Scopelliti, CED 227052), intesa cioè a far regredire il procedimento alla fase dell’udienza preliminare. Infine, una terza pronuncia aveva riproposto la prima soluzione (Cass., I, 28 aprile 2004, conf. Comp. In c. Grossi, CED228055). 225 Inammissibile per difetto di legittimazione era stato, pertanto, dichiarato il ricorso per cassazione presentato dalla persona offesa nei confronti di una sentenza di non luogo a procedere pronunciata in grado di appello (Cass., V, 10 ottobre 2005, p.o. in c. Lillo, CED 232705). Va ricordato, poi, che Cass., V, 20 maggio 2003, Menino, CED 225334, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 428, sollevata con riferimento agli artt. 3 e 76 Cost., nella parte in cui non prevede la facoltà per la parte civile di ricorrere avverso la sentenza di non luogo a procedere emessa in grado di appello in relazione al reato di diffamazione a mezzo stampa (questione già respinta dalla Corte costituzionale con la citata sentenza 29 luglio 1992, n. 381), in quanto difetta l’interesse a proporre l’impugnazione (art. 568 c.p.p.), atteso che le sentenze emesse in udienza preliminare non hanno efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo di danno, e non è irragionevole la scelta del legislatore di offrire una tutela diversa alla persona offesa solo in base ad impugnazioni successive al dibattimento.

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optare per la proposizione, contro la sentenza di non luogo a procedere, del

ricorso immediato per cassazione, c.d. per saltum, a norma dell’art. 569

c.p.p. (art. 428 comma 4 c.p.p.). Il richiamo all’art. 569 implicava

l’operatività del secondo comma della disposizione.

Di conseguenza, se una delle parti appellava la sentenza, si applicava la

disposizione dell’art. 580 c.p.p.. Nel caso in cui venivano proposti mezzi di

impugnazione diversi contro la sentenza di non luogo a procedere, il

ricorso per cassazione si convertiva nell’appello.

Tale disposizione, peraltro, non si applicava qualora, entro quindici

giorni dalla notificazione del ricorso per cassazione, la parte che aveva

proposto appello dichiarava di rinunciarvi per proporre direttamente ricorso

per cassazione.

In tal caso, era l’appello a convertirsi nel ricorso per cassazione e la

parte appellante doveva presentare, entro quindici giorni dalla

dichiarazione suddetta, nuovi motivi qualora l’atto di appello non avesse i

requisiti per valere come ricorso.

2. Le novità introdotte dalla riforma del 2006.

In seguito alla riforma dell’art. 428 c.p.p. operata dalla legge n. 46 del

2006 la sentenza di non luogo a procedere è diventata inappellabile226.

226 Nel nuovo testo della disposizione si legge che: -contro la sentenza di non luogo a procedere possono proporre ricorso per cassazione il procuratore della Repubblica e il procuratore generale, nonché l’imputato, salvo che con la sentenza sia stato dichiarato che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso (comma 1); -la persona offesa dal reato può proporre ricorso per cassazione nei soli casi di nullità previsti dall’art. 419 comma 7 c.p.p. (comma 2); -la persona offesa costituita parte civile può proporre ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p. (comma 2); -sull’impugnazione decide la corte di cassazione in camera di consiglio con le forme previste dall’art. 127 c.p.p. (comma 3). Sulla riforma dell’art. 428 c.p.p. si vedano: R. BRICCHETTI-L. PISTORELLI, La sentenza liberatoria va in Cassazione, cit., p. 70; H. BELLUTA, Ripensamenti sulla “giustiziabilità” della sentenza di non luogo a procedere, cit., p. 126; R. BRICCHETTI, Impugnazione della sentenza di non luogo a procedere, cit., p. 128; ID, sub art. 428 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, a cura di Giarda A. e Spangher G., Giuffrè, Milano, 2010, p. 5393 ss.

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Contro la sentenza di non luogo a procedere l’imputato, salvo che con

essa sia stato dichiarato che “il fatto non sussiste” o che “l’imputato non lo

ha commesso”, e il pubblico ministero possono, dunque, soltanto proporre

ricorso per cassazione.

La stessa possibilità è stata attribuita alla persona offesa che si sia

costituita parte civile. Poiché la sentenza di non luogo a procedere non

dispiega effetti preclusivi o pregiudizialmente vincolanti nel giudizio civile

o amministrativo di danno promosso dal danneggiato, il ricorso dell’offeso

costituito parte civile non presenta differenze rispetto a quello del pubblico

ministero227.

Occorre precisare che la persona danneggiata dal reato, che non sia

anche persona offesa, non ha a disposizione nessun mezzo di impugnazione

contro la sentenza di non luogo procedere228.

La situazione della persona offesa dal reato non costituitasi parte civile è

rimasta immutata rispetto al passato. La persona offesa dal reato può

ricorrere per cassazione contro la sentenza di non luogo a procedere

soltanto nei casi di nullità previsti dall’art. 419 comma 7 c.p.p.

Nessun potere di impugnazione, salvo quello di cui all’art. 427 comma 4

c.p.p., è conferito al responsabile civile.

Sul ricorso per cassazione la Corte decide in camera di consiglio con le

forme previste dall’art. 127 c.p.p., sempre che il presidente non rilevi una

causa di inammissibilità del ricorso, assegnandolo alla sezione competente

che lo tratterà in udienza camerale “non partecipata” ai sensi dell’art. 611

comma 1 c.p.p.

In particolare, gli atti introduttivi dell’udienza camerale vengono

comunicati o notificati almeno dieci giorni prima della data fissata. Fino a

227 R. BRICCHETTI-L. PISTORELLI, La sentenza liberatoria va in Cassazione, cit., p. 71. 228 R. BRICCHETTI, Impugnazione della sentenza di non luogo a procedere, cit., p. 129.

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cinque giorni prima dell’udienza possono essere presentate memorie in

cancelleria. Il pubblico ministero e i difensori sono sentiti se compaiono229.

Il nuovo art. 428 c.p.p. tace in ordine alla tipologia di sentenze che la

Suprema Corte è chiamata ad adottare. Non resta, pertanto, che operare un

rinvio alle disposizioni generali in materia. In caso di ricorso per

cassazione, la corte può, dunque, pronunciare sentenza di inammissibilità230

o di rigetto del ricorso, così confermando la sentenza di non luogo a

procedere, ovvero sentenza di annullamento231. Nel caso in cui si tratti di

annullamento con rinvio, gli atti sono trasmessi, ex art. 623 comma 1 lett.

d), al medesimo tribunale, che deve investire un giudice dell’udienza

preliminare diverso da quello che ha pronunciato la sentenza annullata232.

Considerato che il giudice di rinvio ha gli stessi poteri decisori che

aveva quello la cui sentenza è stata annullata, si deve ritenere che il giudice

sia in ogni caso tenuto a celebrare una nuova udienza preliminare e,

naturalmente, a norma dell’art. 627c.p.p., ad uniformarsi alla sentenza della

corte di cassazione per ciò che concerne ogni questione di diritto con essa

decisa.

Il giudizio di rinvio si può concludere con una nuova sentenza di non

luogo a procedere oppure con un decreto che dispone il giudizio. Non è da

escludere, naturalmente, la possibilità di un annullamento senza rinvio. Si

229 R. BRICCHETTI, Impugnazione della sentenza di non luogo a procedere, cit., p. 130; G. GARUTI, Mezzi di critica e strumenti di controllo della sentenza di non luogo a procedere, in AA. VV., Novità su impugnazioni penali e regole di giudizio, Milano, 2006, p. 77 ss., che precisa che il richiamo all’art. 127 c.p.p. va letto ed interpretato tenendo conto delle peculiarità del giudizio di cassazione. 230 Cass., V, 17 ottobre 2007, Adamo, CED 238500; Cass., VI, 12 maggio 2009, p.c. in c. Rienzi, CED, 243677, in cui si precisa che, nei casi in cui venga dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione proposto dalla persona offesa costituita parte civile, va disposta la condanna di quest’ultima anche alla rifusione delle spese sostenute dall’imputato nel resistere al ricorso. 231 Peraltro, la sentenza di non luogo a procedere è sempre revocabile, ai sensi dell’art. 434 c.p.p., su richiesta del pubblico ministero, dal giudice per le indagini preliminari, in caso di sopravvenienza o scoperta di nuove fonti di prova che, da sole o unitamente a quelle già acquisite, possano determinare il rinvio a giudizio. 232R. BRICCHETTI-L. PISTORELLI, La sentenza liberatoria va in Cassazione, cit., p. 72; G. GARUTI, Mezzi di critica e strumenti di controllo della sentenza di non luogo a procedere, p. 81.

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pensi, ad esempio, alle ipotesi che il fatto non sia più previsto dalla legge

come reato, che il reato sia estinto o che l’azione penale non dovesse essere

iniziata o proseguita233.

3. L’impugnazione agli effetti penali proposta dalla persona offesa

costituita parte civile.

Come è noto, in seguito all’intervento della legge di riforma n. 46 del

2006, sono state apportate significative modifiche al regime

dell’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere234.

In particolare, è stata attribuita alla persona offesa costituita parte civile

la facoltà di proporre ricorso per cassazione contro la sentenza di non luogo

a procedere.

In merito a tale potere di impugnazione, si è posta la questione se la

persona offesa possa ricorrere agli effetti penali ovvero ai soli effetti civili.

In presenza di un contrasto interpretativo nella giurisprudenza di

legittimità sulla portata del novellato art. 428 c.p.p., che, nel rendere

inappellabile la sentenza di non luogo a procedere, ha, nel contempo,

attribuito alla persona offesa, costituita parte civile, il potere di proporre

ricorso per cassazione, le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi

sulla questione. Secondo un primo indirizzo, decisamente minoritario si

riteneva che il ricorso avesse natura di impugnazione ai soli effetti civili,

attesa la natura accessoria dell'azione civile235. Secondo un diverso

233 R. BRICCHETTI, Impugnazione della sentenza di non luogo a procedere, cit., p. 131; G. GARUTI, Mezzi di critica e strumenti di controllo della sentenza di non luogo a procedere, p. 81. 234R. BRICCHETTI, sub art. 428 c.p.p., cit., p. 5390 ss. 235 Cass., IV, 25 ottobre 2006, n. 11960, Martinelli, CED 236249; Cass., II, 12 aprile 2007, n. 16908, CED 236661. Secondo questa impostazione, in caso di annullamento, la sentenza del giudice dell’udienza preliminare, in applicazione dell’art. 622 c.p.p., avrebbe dovuto essere annullata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello (Sez. IV n. 11960/06) o, in alternativa, senza rinvio (Sez. II n. 16908/07).

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indirizzo, nettamente prevalente e argomentato si riteneva il ricorso fosse

preposto alla tutela degli interessi penali della persona offesa, movendo

dall’inquadramento sistematico e funzionale dell’udienza preliminare e

della sentenza di non luogo a procedere, con la conseguenza che, in caso di

accoglimento del ricorso, il rinvio avrebbe dovuto essere disposto davanti

al giudice dell'udienza preliminare236. Le Sezioni Unite hanno confermato

questo secondo indirizzo, sostenendo che il ricorso per cassazione della

persona offesa costituita parte civile costituisce uno strumento preordinato

all'esclusiva tutela degli interessi penali, mediante il perseguimento

dell'obiettivo del rinvio a giudizio dell’imputato237.

L’iter argomentativo del Collegio prende inizio da un inquadramento

sistematico degli epiloghi decisori dell’udienza preliminare. In particolare

si afferma che la sentenza di non luogo a procedere, a differenza della

sentenza di proscioglimento, consiste in un giudizio di tipo prognostico,

funzionale ad accertare l’idoneità degli elementi raccolti nel corso delle

indagini preliminari a sostenere l’accusa in giudizio. Ne consegue che la

sentenza di non luogo a procedere è priva di effetti irrevocabili sul merito

della controversia riguardo all’accertamento della colpevolezza o

dell’innocenza dell’imputato238.

236 Cass., V, 15 gennaio 2007, n. 5698, Reggiani, CED 235863; Cass., IV, 19 aprile, 2007, n. 26410, Giganti, CED 236801; Cass., V, 3 maggio 2007, n. 21876, Pappaianni, CED 236250; Cass., II, 12 giugno 2007, n. 26550, Pica, CED 237300; Cass., V, 5 giugno 2007, n. 34432, Blandini, CED 237710; Cass., V, 26 giugno 2007, n. 35651, Cataluddi, CED 237715; Cass., V, 22 febbraio 2008 n. 12902, De Simone, CED 239386. 237 Cass., Sez. Un., 29 maggio 2008, n. 25695, pubblicata e commentata in Guida dir., n. 40, p. 71, con nota di R. BRICCHEETTI, Più che il principio affermato rilevano alcune critiche di sistema, p. 76; in Giust. pen., 2008, III, p. 673, con nota di N. VENTURA, Sull’impugnazione proposta dalla persona offesa costituita parte civile a norma dell’art. 428 c.p.p., p. 673; in Cass. pen., 2009, n. 1, p. 102, con nota di G. ANDREAZZA, Il ricorso per cassazione della persona offesa costituita parte civile avverso la sentenza di non luogo a procedere tra incoerenze sistematiche e dubbi di costituzionalità, p. 109. 238 R. BRICCHETTI-L. PISTORELLI, L’udienza preliminare, Milano, 2003, p. 277 ss.; R. BRICCHETTI-L. PISTORELLI, La sentenza liberatoria va in Cassazione, cit., p. 67 dove si specifica <<Al giudice dell’udienza preliminare è, dunque, riservato un giudizio prognostico sui possibili sviluppi dibattimentali. Solo se ritiene che l’insufficienza degli elementi acquisiti non possa essere colmata o che la loro contraddittorietà non possa essere sanata in giudizio, il giudice deve prosciogliere l’imputato. in altre parole, il comma 3 dell’art. 425 non impone in ogni caso al giudice dell’udienza preliminare il

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A sostegno della tesi che configura il ricorso della persona offesa

costituita parte civile come un’impugnazione agli effetti penali, il Supremo

consesso aggiunge una serie di argomentazioni ulteriormente stringenti.

In primo luogo, i giudici di legittimità osservano come, per il disposto di

cui all’art. 652 comma 1 c.p.p., le pretese di ristoro del danno derivante da

reato, imputabili alla parte civile, non appaiono compromesse

dall’emissione di una sentenza di non luogo a procedere239.

In secondo luogo, il Collegio giudicante si sofferma sull’aspetto dato

dalla legittimazione a proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza

di non luogo a procedere, stabilita con riguardo al soggetto che sia offeso

dal reato e danneggiato. In tal modo, si osserva, la scelta legislativa sembra

orientata verso la tutela di colui a cui si attribuisce la titolarità dell’interesse

tutelato dalla norma incriminatrice. Ne consegue che l’impugnazione in

esame è finalizzata a tutelare la vittima del reato che subisce il danno

criminale, costituito dall’offesa al bene giuridico protetto dalla norma

incriminatrice240.

proscioglimento dell’imputato qualora gli elementi acquisiti risultino insufficienti o contraddittori. La sentenza di non luogo a procedere è, dunque, una sentenza meramente processuale che accerta soltanto la necessità o meno di passare alla fase dibattimentale>>. Nello stesso senso Corte costituzionale, 8 giugno 2001 n. 185, in Cass. pen.,2001, p. 2976, che ha rilevato che la funzione dell’udienza preliminare è quella di verificare l’esistenza dei presupposti per l’accoglimento della domanda di giudizio formulata dal pubblico ministero. La Corte cost., inoltre, ha precisato che <<ad una richiesta in rito, non può non corrispondere, in capo al giudice, una decisione di eguale natura, proprio perché anch’essa calibrata sulla prognosi di non superfluità del sollecitato passaggio alla fase dibattimentale>>. La medesima interpretazione ha ricevuto conferma anche dalle Sezioni unite. Si veda Cass., S.U., 26 novembre 2002, Vottari, in Guida dir., n. 5, 2003, p. 91 che ha affermato che <<l’obiettivo arricchimento, qualitativo e quantitativo, dell’orizzonte prospettico del giudice dell’udienza preliminare (…) non attribuisce (…) allo stesso il potere di giudicare in termini di anticipata verifica della innocenza/colpevolezza dell’imputato, poiché la valutazione critica di sufficienza, non contraddittorietà e comunque di idoneità degli elementi probatori (…) è sempre e comunque diretta a determinare, all’esito di una delibazione di tipo prognostico, divenuta oggi più stabile per la tendenziale completezza delle indagini, la sostenibilità dell’accusa in giudizio e, con essa, l’effettiva, potenziale, utilità del dibattimento in ordine alla regiudicanda>>. 239 Si veda, in dottrina, A. SCALFATI, Parte civile: dubbi sul potere di gravame, in Guida dir., 10/2006, 59. 240 Sul concetto di persona offesa dal reato, si vedano L. BRESCIANI, voce Persona offesa dal reato, in Dig. d. pen., Utet, 1995, p. 527; A. CIAVOLA, sub art. 90 c.p.p., in Commentario breve al codice di procedura penale, coordinato da Conso G. e Grevi V., Cedam, Padova, 2005, p. 242 ss.; A. CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, Milano, 2006, p. 2 ss.; M. GUALTIERI, sub art. 90 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, a cura di Giarda A. e Spangher G., Giuffrè, Milano,

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La S.C. ha sottolineato inoltre che non è possibile individuare, in capo

alla parte civile ricorrente, il perseguimento di un interesse civilistico,

atteso che la sentenza di non luogo a procedere non pregiudica in alcun

modo le pretese risarcitorie e che, a differenza di quanto stabilito dall'art.

576, comma 1, c.p.p., con riguardo alla sentenza di proscioglimento emessa

nel giudizio, l’art. 428, comma 2, c.p.p. non pone un’analoga limitazione

“ai soli effetti della responsabilità civile” all’impugnazione proposta dalla

persona offesa costituita parte civile contro la sentenza di non luogo a

procedere.

Per altro verso, secondo la Corte, qualora dovesse accogliersi l’opposta

tesi, l’eventuale annullamento con rinvio al giudice civile competente in

grado d’appello ex art. 622 comporterebbe l’inaccettabile privazione per

l’imputato di un grado di giudizio di merito, con l’ulteriore difficoltà, per il

giudice civile d’appello, di compiere una valutazione di merito in ordine ad

un aspetto, quello civilistico, non trattato dal giudice dell'udienza

preliminare.

D’altra parte, ad avviso della Corte, l’introduzione della norma, ad

opera della riforma del 2006, è avvenuta nell’ambito di un intervento

caratterizzato, contestualmente e in termini non conciliabili con il novellato

articolo 428 comma 2 c.p.p., dall’abrogazione dell’art. 577 c.p.p., ovvero

dell’unica norma che, sino a quel momento, riconosceva un analogo potere

impugnatorio alla persona offesa dal reato costituita parte civile avverso le

sentenze di proscioglimento. Inoltre, è rimasto in vigore il decreto

legislativo n. 274 del 2000, articolo 38 che riconosce al ricorrente in via

2010, p.973 ss.; P. TONINI, Manuale di procedura penale, XI ed., Giuffrè, Milano, 2010, p. 147, dove si specifica che <<La persona offesa dal reato è il titolare dell’interesse giuridico protetto, anche in modo non prevalente, da quella norma incriminatrice che si assume sia stata violata dal reato>>.

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immediata il potere di impugnazione <<anche agli effetti penali>> contro

le sentenze di proscioglimento. Ne consegue, secondo le Sezioni unite, una

diagnosi di incoerenza sistematica della legge di riforma delle

impugnazioni241.

In particolare, il Supremo collegio osserva la distonia dello strumento

del ricorso per cassazione, previsto dal novellato art. 428 c.p.p., rispetto al

quadro generale del sistema impugnatorio, così come ridisegnato dagli

interventi della Corte costituzionale, che ha ripristinato il potere di appello

del pubblico ministero e dell’imputato, nonché della cassazione, che ha

confermato la facoltà della parte civile di appellare il proscioglimento242.

Nonostante le censure avanzate in merito alle scelte del legislatore, le

Sezioni unite non rilevano alcuna incompatibilità dell’art. 428 comma 2

c.p.p. con gli articoli 3 e 112 Cost243. 241 A. GIARDA, Processo penale: sussulti di una legislatura al tramonto, in Corr. giur., 2006, p. 216, secondo il quale la norma si giustificherebbe in relazione al testo dell’art. 8 del progetto originario della legge n. 46, che modificava l’art. 652 c.p.p. nei seguenti termini:<<la sentenza penale di assoluzione, anche se irrevocabile, non ha effetto nei giudizi civili e amministrativi, salvo che la parte civile si sia costituita nel processo penale e abbia presentato le conclusioni>>; ove infatti si fosse interpretata la locuzione di “sentenza di assoluzione” nel senso di farvi rientrare anche la sentenza di non luogo a procedere, la facoltà di impugnazione di detta pronuncia agli effetti penali avrebbe compensato la parte civile del possibile pregiudizio da essa rappresentato; di conseguenza, una volta scomparsa la modifica dell’art. 652, la sopravvivenza del novellato art. 428 sarebbe da imputare ad un difetto di coordinamento. 242 Non sembra superfluo ricordare che entrambi i più recenti progetti di riforma del codice di rito, “Dalia” del 2005 e “Riccio” del 2007, confermano, in proposito, la tradizionale “appellabilità” della sentenza di non luogo a procedere. Per il progetto “Dalia” si veda l’art. 470. Impugnazione della sentenza di non luogo a procedere. - 1. Contro la sentenza di non luogo a procedere possono proporre appello il procuratore della Repubblica e il procuratore generale; 2. Sull’impugnazione decide la corte di appello in camera di consiglio con le forme previste dall’articolo 143. 3. La persona offesa dal reato può ricorrere per cassazione nei casi di nullità previsti dall’articolo 457, comma 7. 4. Il procuratore della Repubblica e il procuratore generale possono proporre ricorso immediato per cassazione a norma dell’articolo 625. 5. Se la sentenza è inappellabile, il procuratore generale, il procuratore della Repubblica e l’imputato possono ricorrere per cassazione. 6. La corte di appello, se non conferma la sentenza, pronuncia decreto che dispone il giudizio. 7. In ogni caso la corte di cassazione decide in camera di consiglio con le forme previste dall’articolo 668. Per il progetto “Riccio” si veda la direttiva 66.7: previsione che l’udienza si concluda con decreto che dispone il giudizio o con sentenza di non luogo a procedere, in casi predeterminati e comunque quando il giudice ritiene che gli elementi acquisiti non siano idonei a sostenere l’accusa in giudizio; previsione che, a pena di nullità, la sentenza contenga l’imputazione formulata e l’esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui si fonda la decisione; appellabilità della sentenza; decisione della corte d’appello, salvo che emetta decreto che dispone il giudizio, con sentenza ricorribile per cassazione solo per violazione di legge; revocabilità della sentenza in casi predeterminati, con idonee garanzie per l’imputato. 243 Nell’ordinanza di rimessione della decisione alle Sezioni Unite della corte di cassazione, la Sesta sezione riteneva illogica, ai sensi dell’art. 3 Cost., l’attribuzione di potestà impugnatorie analoghe a quelle riconosciute alla persona offesa dal reato dal novellato art. 428 comma 2 c.p.p., allorché collazionate agli

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Da un lato, il riconoscimento di un potere di impugnazione così ampio

si giustifica in base al ruolo sempre più significativo della persona offesa

nel quadro dell’ordinamento interno e di quello internazionale244. Nel

codice del 1988 sono previsti determinati poteri in capo alla persona offesa

dal reato, distinti in relazione alle diverse fasi processuali245. Dunque, nel

novero di tali poteri, la riforma del 2006 ha inserito anche il potere di

impugnazione riconosciuto alla persona offesa dall’art. 428 comma 2 c.p.p.

Da un altro lato, l’art. 112 Cost., attribuendo al pubblico ministero il

dovere di esercitare l’azione penale, non impone che questa sia esercitata

solo dall’organo della pubblica accusa in una sorta di monopolio pubblico

dell’azione penale. Va ricordato che la Corte costituzionale ha più volte

precisato che il principio di obbligatorietà dell’azione penale non si

identifica con una regola del monopolio dell’azione penale per cui non è

esclusa la legittimità di una norma ordinaria che riconosca anche al privato

la titolarità di tale azione, purché si tratti di titolarità non esclusiva ma

sussidiaria e concorrente rispetto a quella del pubblico ministero246.

omologhi poteri di cui l’anzidetto soggetto processuale dispone per impugnare la sentenza di proscioglimento resa all’esito della fase del giudizio, censurabile dalla parte civile, agli effetti civili, a norma dell’art. 576 cp.p.; inoltre, la stessa Sezione rimettente rilevava che una tale prerogativa dell’offeso configgerebbe con il canone dell’obbligatorietà dell’azione penale pubblica, di cui all’art. 112 Cost. 244 Sotto quest’ultimo aspetto, si veda la Decisione quadro del Consiglio dell’Unione Europea del 15 marzo 2001, n. 2001/220/GAI relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale, in http://eur-lex.europa.eu. 245L. BRESCIANI, voce Persona offesa dal reato, p. 536; G. ANDREAZZA, Il ricorso per cassazione della persona offesa costituita parte civile avverso la sentenza di non luogo a procedere tra incoerenze sistematiche e dubbi di costituzionalità, cit., p. 115; nel senso che, col nuovo codice, la persona offesa diviene <<portatrice di un interesse squisitamente penale finalizzato alla repressione del fatto criminoso>> E. AMODIO, Persona offesa dal reato, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, a cura di Amodio-Dominioni, vol. I, Milano, 1989, p. 536; per un quadro completo dei poteri della persona offesa si veda P. TONINI, Manuale di procedura penale, cit., p. 147 ss. 246 Si vedano, tra le altre, Corte cost., 30 dicembre 1993, n. 474, in Cass. pen., 1994, p. 1164; Corte cost., 26 luglio 1979, n. 84, in Cass. pen., 1980, p. 593, che hanno precisato che l’art. 112 Cost. non esclude che il potere di esercitare l’azione penale possa essere conferito a soggetti diversi dal pubblico ministero, escludendosi solo che gli possa esser sottratta la titolarità dell’azione penale in ordine a determinati reati, per cui sono ammesse azioni sussidiarie o concorrenti in capo ad altri soggetti. Nello stesso senso in dottrina v. E. SQUARCIA, L’azione di danno nel processo penale, Padova, 2002, p. 327 ss.; G. UBERTIS, Azione penale, in Enc. giur. Treccani, vol. IV, Roma, 1988, p. 3 ss.

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Dunque, il ricorso per cassazione della persona offesa costituita parte

civile contro la sentenza di non luogo a procedere è proposto, in seguito

alle modifiche introdotte dalla legge n. 46 del 2006, esclusivamente agli

effetti penali.

Occorre osservare che tale conclusione è coerente con la natura

dell’istituto della parte civile nel processo penale. E’ stato affermato,

infatti, che la parte civile assume un “ruolo bifronte” nel processo: da un

lato si configura come un litigante in sede impropria, da un altro lato può

essere indicata come una collaboratrice del pubblico ministero

nell’esercizio dell’azione penale247.

Il ruolo della parte civile si è sviluppato nel corso del tempo ed affonda

le sue radici nella storia dell’alternarsi del sistema accusatorio con il

sistema inquisitorio, quali modelli delle scelte legislative.

Come è noto, i termini di “accusatorio” e di “inquisitorio” si riferiscono

a due grandi ed opposti sistemi di ricerca del vero e del giusto. Si tratta di

modelli processuali, il primo dei quali è basato sul principio dialettico, il

secondo sul principio di autorità248.

Il diritto romano repubblicano era caratterizzato da un sistema di tipo

accusatorio.

Per i delitti pubblici, i crimina publica, l’accusa poteva essere mossa da

qualsiasi cittadino (quisque de populo), in quanto membro della società

offesa dal reato. Nei delitti privati, i privata delicta, non si poteva

procedere senza la domanda della persona offesa. Peraltro, anche in tema di

247 L’espressione è di PISANI, Unione e separazione dei giudizi: prospettive de iure condendo, in Centro nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale, VI Convegno di Studio Enrico De Nicola sul tema Azione civile e processo penale, Lecce, 1-4 maggio 1969, p. 7 estr. Nello stesso senso, R. VANNI, Parte civile, accusa privata e diritti della difesa nel processo penale, Luciano Landi editore, 1969, p. 9 ss.; F. BENEVOLO, La parte civile nel giudizio penale, Torino, 1883, p. 9 ss. 248 Per una completa descrizione del sistema accusatorio e inquisitorio, anche dal punto di vista storico, si veda P. TONINI, Manuale di procedura penale, XI ed., Giuffrè, Milano, 2010, p. 4 ss.

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pubblici crimini, il diritto di accusare, prima che a ogni altro cittadino, era

riconosciuto all’offeso.

Quando la persona offesa assumeva la veste di accusatore, assumeva

anche tutti gli obblighi e le responsabilità inerenti a questa qualità, e

innanzitutto quello di portare le prove a sostegno dell’accusa, potendo

essere abilitata alla raccolta delle medesime con una lex, in forza della

quale potevano essere esercitate speciali facoltà di indagine e di ricerche.

Il sistema appena descritto può essere definito accusatorio, in quanto

l’accusatore era l’offeso dal reato, i suoi congiunti o qualunque cittadino.

La partecipazione del privato era, quindi, decisiva per l’instaurazione e la

prosecuzione del processo accusatorio.

Qualora l’accusa fosse proposta dall’offeso dal reato o dai suoi

congiunti, l’azione penale era privata, perché la pena che mirava ad

infliggere al reo aveva carattere privato. Per la commistione tra le nozioni

di illecito penale e di illecito civile, in questa ipotesi non si poteva porre un

problema di tutela giurisdizionale del diritto al risarcimento che avesse

autonomia rispetto alla questione penale vera e propria.

Nel caso in cui, invece, l’accusa fosse proposta da quisquis de populo

nei confronti di un imputato di delitto pubblico, esulava dallo svolgimento

del processo accusatorio una richiesta di condanna al risarcimento del

danno.

E’ possibile affermare, in definitiva, che il sistema accusatorio, nella sua

versione originaria, ruotava intorno all’iniziativa processuale del privato,

ma non conosceva l’esercizio di un’azione civile, separata concettualmente

da quella penale, e sottoposta alla giurisdizione del giudice penale per

ragioni di connessione o di economia processuale249.

249 F. BENEVOLO, La parte civile nel giudizio penale, cit., p. 10; R. VANNI, Parte civile, accusa privata e diritti della difesa nel processo penale, cit., p. 13.

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Col passaggio dalla fase della repubblica a quella del principato, si

affermò progressivamente un tipo di processo inquisitorio, definito cognitio

extra ordinem. L’importanza e le funzioni della persona offesa nel

procedimento penale diminuirono sempre di più, fino a scomparire del tutto

quando il sistema inquisitorio prevalse, e all’accusa privata si sostituì

l’accusa d’ufficio, che aveva il suo punto di partenza nelle denuncie spesso

anonime. La questione era affidata ad un delegato dell’imperatore, che

cumulava il potere di accusare, di raccogliere le prove e di giudicare.

Tuttavia, anche quando il procedimento d’ufficio divenne il sistema

ordinario per i reati pubblici che potevano compromettere la compagine

dello Stato, per i reati più lievi e per quelli che, pur essendo gravi,

interessavano esclusivamente le persone o la famiglia, era richiesta, per

poter procedere, la querela di parte.

In seguito all’invasione dell’Impero da parte delle popolazioni

barbariche, il procedimento penale assunse connotazioni del tutto

irrazionali e fu dotato di un sistema probatorio basato sulla superstizione e

sul valore personale. Il diritto di accusare era ancora riconosciuto

all’offeso, che era anche ammesso a costituirsi parte nel giudizio pubblico e

a far valere le proprie ragioni nelle cosiddette ordalie, o giudizi di Dio. Le

parti ricorrevano spesso alle armi, battendosi in campo chiuso, dopo aver

prestato giuramento di aver detto la verità. In tale sistema, in cui

trionfavano il coraggio e la frode, la persona offesa correva facilmente il

rischio di essere giudicata spergiuro e calunniatore.

Con il successivo ritorno della civiltà, l’ordinamento barbarico recepì gli

insegnamenti del diritto romano. Si ripristinò gradualmente il sistema

inquisitorio della cognitio extra ordinem che, da quel periodo, fu

denominata inquisizione. A tale sistema si ispirò il diritto canonico nel

perseguire le eresie sorte nel popolo.

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Il sistema inquisitorio fu accolto progressivamente anche dai Comuni.

Infatti, gli statuti dei Comuni italiani favorirono in un primo tempo il

processo accusatorio, considerandolo come la norma. Con il consolidarsi,

tuttavia, degli organismi comunali, furono attribuite al potere giudiziario

funzioni sempre più ampie. Di conseguenza, gli Statuti cominciarono a

prevedere che, in mancanza di accusa privata, si dovesse procedere con

l’inquisizione.

Il sistema inquisitorio si diffuse in tutta l’Europa continentale, dove il

principio di autorità divenne il tratto caratteristico del processo penale degli

Stati assoluti. In particolare, per comprendere i riflessi del processo

inquisitorio sulla posizione processuale della persona offesa dal reato,

occorre osservare lo sviluppo del procedimento penale in Francia, a partire

dalla metà del XIV secolo.

In quel periodo, oltre a coloro che, con il nome di “procuratori”,

assumevano l’ufficio di rappresentare le parti nelle liti, erano presenti

anche i “procuratori del re”. I procuratori del re acquisirono gradualmente

il ruolo di pubblici ufficiali con il potere di accusare e di chiedere la

condanna, anche malgrado il silenzio della persona offesa. La spiegazione

di questa evoluzione va ricercata probabilmente nella natura delle pene che,

consistevano, di regola, in ammende e confische. Di conseguenza il re

aveva un interesse pecuniario alla condanna250. I procuratori del re

passarono dalla rappresentanza del fisco per il recupero delle ammende alla

rappresentanza della società offesa dal delitto, per assicurane la

repressione251.

250 C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, § XL, osserva che i delitti degli uomini erano il patrimonio del principe. 251 F. CARRARA, Programma del Corso di diritto criminale, Lucca, 1874, § 866; F. BENEVOLO, La parte civile nel giudizio penale, cit., p. 15.

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In tal modo, il procuratore del re diventò il rappresentante dello stato e il

titolare esclusivo dell’azione penale. La persona offesa, invece, assunse il

ruolo di parte civile all’interno di un processo penale di tipo inquisitorio.

Dunque, l’origine della parte civile è collegata allo sviluppo del sistema

inquisitorio, in cui l’azione penale è esercitata da un accusatore pubblico

nominato dal sovrano.

Il procedimento inquisitorio partiva tanto da un’accusa o querela

presentata da ogni persona ritenutasi offesa o danneggiata, quanto da una

denuncia. Durante l’istruttoria, l’accusatore o querelante contribuiva con le

sue deduzioni o informazioni a dare al giudice elementi per una sentenza di

condanna, che serviva successivamente come titolo per la rifusione del

danno sofferto. Occorre osservare che la parte civile poteva provare la

responsabilità penale dell’imputato, assumendo così la funzione di

accusatore privato. Peraltro, aveva l’onere di provare la sua legittimazione,

dovendo dimostrare di aver risentito un danno dal reato252.

In conclusione, si può constatare che, nella sua evoluzione storica,

l’istituto della parte civile mantiene alcuni caratteri propri dell’accusatore

protagonista del sistema accusatorio e acquista solo una parte dei connotati

propri dell’attore nel processo civile.

Alla luce di tali coordinate storiche, risulta del tutto conprensibile la

generale tendenza ad imputare alla persona offesa dal reato un ruolo

accusatorio, in quanto titolare di vere e proprie pretese penali, autonome

rispetto a quelle del pubblico ministero253.

252 R. VANNI, Parte civile, accusa privata e diritti della difesa nel processo penale, cit., p.17. 253 E. AMODIO, sub art. 90 c.p.p., in AA. VV., Commentario del nuovo codice di procedura penale, diretto da E. Amodio-A. Dominioni, I, Milano, 1989, p. 540; A. GHIARA, sub art. 90 c.p.p., in Commentario al nuovo codice di procedura penale, , I, Torino, 1989, p. 406; P. GUALTIERI, sub art. 90 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, a cura di Giarda A. e Spangher G., Giuffrè, Milano, 2010, p. 979.

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Di conseguenza, il potere della persona offesa, costituita parte civile, di

impugnare i capi penali della sentenza di non luogo a procedere appare una

conferma della funzione di accusa privata dell’istituto.

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94. SQUARCIA, E., L’azione di danno nel processo penale, Padova, 2002.

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98. TONINI P., Manuale breve. Diritto processuale penale, Milano, 2006.

99. TONINI P., Manuale di procedura penale, XI ed., Giuffrè, Milano, 2010.

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101. VARRASO G., Il tramonto “incompleto”del potere di impugnazione

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