universitÀ di pisa tesi di laurea - core.ac.uk · corso di laurea magistrale in psicologia clinica...
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UNIVERSITÀ DI PISA
Dipartimento di patologia chirurgica, medica, molecolare e dell’area critica
Corso di Laurea Magistrale in Psicologia Clinica e della Salute
Tesi di Laurea
Disturbi esternalizzanti in età evolutiva e Funzione Riflessiva materna:
uno studio pilota
Relatore: Candidato:
Dott. Pietro Muratori Serena Marinelli
ANNO ACCADEMICO 2015-2016
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“Se una società vuole veramente proteggere i suoi bambini deve cominciare
con l’occuparsi dei genitori”.
J. Bowlby
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Sommario
ABSTRACT .......................................................................................................... 5
INTRODUZIONE ................................................................................................ 6
CAPITOLO 1 ........................................................................................................ 8
1.1 LA MENTALIZZAZIONE .......................................................................................................... 8 1.2 LE DIMENSIONI DELLA MENTALIZZAZIONE ...................................................................... 10 1.3 LA FUNZIONE RIFLESSIVA ................................................................................................... 13 1.4 BASI NEURALI DELLA TOM ................................................................................................. 14
CAPITOLO 2 ...................................................................................................... 18
2. 1 L’IMPORTANZA DELLA TEORIA DELL’ATTACCAMENTO .................................................. 18 2. 2 DINAMICHE RELAZIONALI E STILI D’ATTACCAMENTO .................................................... 21 2. 2. 1. LA DISORGANIZZAZIONE DELL’ATTACCAMENTO ............................................................ 26 2. 3 L’ADULT ATTACHMENT INTERVIEW ................................................................................. 30 2. 3.1 ATTACCAMENTO E FUNZIONE RIFLESSIVA ....................................................................... 32
CAPITOLO 3 ...................................................................................................... 35
3.1 I DISTURBI ESTERNALIZZANTI ............................................................................................. 35 3.1.1 IL DISTURBO OPPOSITIVO-PROVOCATORIO (DOP) ............................................................ 36 3.1.2 IL DISTURBO DELLA CONDOTTA (DC) ................................................................................ 37 3.2 I DISTURBI ESTERNALIZZANTI SECONDO LA PROSPETTIVA DEL DSM 5 .......................... 39 3.3 PROSPETTIVE EZIOPATOGENETICHE MULTIFATTORIALI ................................................. 42 3.3.1 LE VARIABILI NEUROBIOLOGICHE ...................................................................................... 42 3.3.2. PARENTING ........................................................................................................................ 44 3.3.3 I TRATTI CALLOUS UNEMOTIONAL: EZIOPATOGENESI ....................................................... 45 3.3.4 RELAZIONI D’ATTACCAMENTO E AGGRESSIVITÀ ............................................................... 46
CAPITOLO 4 ...................................................................................................... 48
4.1 IL RUOLO DELLA MENTALIZZAZIONE ................................................................................ 48 4.2 REFLECTIVE-FUNCTIONING MANUAL ................................................................................ 50
CAPITOLO 5 ...................................................................................................... 55
5.1 LO STUDIO CLINICO ............................................................................................................. 55 5.1.1 I PARTECIPANTI ................................................................................................................... 56 5.1.2 STRUMENTI ......................................................................................................................... 56 5.1.3 PROCEDURA ........................................................................................................................ 58 5.2 RISULTATI ............................................................................................................................ 59
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5.2.1 ANALISI QUALITATIVA ....................................................................................................... 59 5.2.2 STUDIO CORRELAZIONALE ................................................................................................. 61 5.3 DISCUSSIONE ........................................................................................................................ 62
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................ 66
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ABSTRACT
La clinica dei disturbi esternalizzanti occupa un settore della psicopatologia dello
sviluppo di marcato e crescente interesse determinato dall’incremento
dell’incidenza di tali disturbi (Lavigne et al, 2009), dalle difficoltà nella
valutazione e nel trattamento (Garland et al., 2008) e dall’incremento delle spese
in ambito sanitario e sociale. È stato ipotizzato (Fonagy et al., 1991; 1993; 1996;
2008) che i comportamenti violenti possano essere ricondotti a difficoltà
metacognitive. La Mentalizzazione è considerata in stretta relazione con lo
sviluppo dello stile d’attaccamento e, pertanto, risulta di fondamentale importanza
comprendere la connessione fra lo sviluppo della funzione riflessiva e
l’opportunità di esplorare la mente del proprio caregiver all’interno della relazione
primaria. Ne consegue che la capacità di Mentalizzazione della Figura
d’Attaccamento (FdA) ha un ruolo cruciale nello sviluppo infantile e le
conseguenze in una condizione di carenza possono non permettere al genitore di
comprendere il bambino.
Lo studio pilota si prefigge di esaminare la correlazione tra la qualità della funzione
riflessiva materna e la gravità della psicopatologia esternalizzante del bambino, in
particolare il Disturbo della Condotta (DC) e il Disturbo Oppositivo-Provocatorio
(DOP). I risultati non evidenziano una relazione statisticamente significativa tra i
comportamenti esternalizzanti e la Funzione Riflessiva materna; contrariamente è
stata trovata una correlazione negativa statisticamente significativa tra i tratti
Callous-Unemotional del bambino e la qualità di Funzione Riflessiva materna.
Parole chiave: Mentalizzazione, Funzione riflessiva, tratti callous-unemotional,
Disturbo Oppositivo-Provocatorio, Disturbo della Condotta
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INTRODUZIONE
«Solo quando il bambino conosce che l’altro ha una mente, può cominciare a
costruire un’idea compiuta della propria, come distinta tanto dal proprio corpo
quanto dalla mente altrui». È questo quanto asserisce Giovanni Liotti ne “Le opere
della coscienza” (Liotti, 2005, p. 61), il cui tema affonda le radici nella magistrale
teoria piagetiana del superamento dell’egocentrismo cognitivo del bambino,
processo che farà poi spazio alla conoscenza di sé-con-l’altro sorretta dalla Teoria
della Mente. L’argomento che tratterò in questa tesi nasce dall’incontro integrato
e multidisciplinare tra il concetto di Mentalizzazione e la psicopatologia dello
sviluppo. La Mentalizzazione, definita all’interno di molteplici modelli teorici di
riferimento, può essere presentata come “la capacità di concepire stati mentali
inconsci e consci in se stessi e negli altri” (Fonagy, 1991) e fornisce una chiave di
lettura per interpretare la patogenesi e il mantenimento dei Disturbi esternalizzanti.
Per mezzo di tale lente d’ingrandimento indagheremo i disturbi del comportamento
dirompente, secondo la classificazione del DSM-IV TR (APA, 2000), con
riferimento ai cambiamenti dell’ultima edizione. All’interno del cluster citato
rientrano disturbi come il disturbo oppositivo provocatorio (DOP), il disturbo della
condotta (DC), il disturbo da comportamento dirompente non altrimenti
specificato, il disturbo da deficit d’attenzione e iperattività (ADHD) e il disturbo
da deficit d’attenzione e iperattività non altrimenti specificato. Lunghi filoni di
ricerca sono stati dedicati a questi disturbi, seguendo il punto di vista
neurobiologico, cognitivo-comportamentale, cognitivo-evoluzionista,
psicoanalitico, tutti con un grande e unico fine in comune: giungere alla scoperta
delle cause e del conseguente trattamento ottimale del problema.
La Mentalizzazione è definita e al contempo discerne da altri concetti similari
come la “Teoria della Mente” (ToM), la metacognizione e la funzione riflessiva,
sebbene molti autori utilizzino i termini Teoria della mente e Mentalizzazione in
maniera intercambiabile (Choi-Kain & Gunderson, 2008). Il primo capitolo è
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dedicato alla descrizione e analisi dei concetti sopra menzionati. La cornice teorica
all’interno della quale vengono compresi è la Teoria dell’attaccamento, proposta
da Bowlby (1969, 1973, 1980), argomento che sarà approfondito nel secondo
capitolo. A partire da celebri studi condotti (Ainsworth, Bowlby, 1965) sono stati
definiti quattro pattern o stili di attaccamento sviluppati dal bambino nell’arco dei
primi mesi di vita nei confronti della figura d’attaccamento (FdA) o caregiver
primario. Nel terzo capitolo presenterò una disamina dei principali quadri clinici
dei disturbi esternalizzati, con particolare riferimento al Disturbo della Condotta
(DC) e al Disturbo Oppositivo-Provocatorio (DOP) in accordo al DSM-IV (APA,
1995; APA, 2000).
Il presente lavoro è frutto di una ricerca, in collaborazione con la Facoltà di Scienze
della Formazione dell’Università di Urbino “Carlo Bo”, condotta su un campione
di 15 diadi madre-bambino, per un totale complessivo di 30 soggetti reclutati
presso il servizio “Al di là delle nuvole”, all’interno del gruppo di Coping Power
Program condotto dal Dott. Pietro Muratori, presso la IRCCS Fondazione Stella
Maris. Ciò che abbiamo esaminato in questo studio pilota è la correlazione fra la
qualità della funzione riflessiva materna e il disturbo esternalizzante del bambino.
Riteniamo che la capacità riflessiva del genitore sia anche alla base dell’abilità del
genitore stesso di conferire intenzionalità ai comportamenti del figlio e che eserciti
un effetto protettivo nei momenti di distress esperiti dal bambino e sulla sua
capacità di modulazione delle emozioni. La carenza della funzione riflessiva
materna può contribuire a spiegare la difficoltà dei bambini con disturbi
esternalizzanti a gestire adeguatamente le emozioni spiacevoli. L’esiguo materiale
di ricerca in letteratura sulle caratteristiche del genitore ha stimolato un interesse
maggiormente rivolto all’indagine della capacità riflessiva genitoriale in relazione
allo sviluppo di disturbi esternalizzanti.
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CAPITOLO 1
1.1 La Mentalizzazione
La Mentalizzazione è stata tradizionalmente indagata da vari filoni di ricerca, in
particolare dalla tradizione psicoanalitica, dalle neuroscienze cognitive e dalla
teoria dell’attaccamento, ed è stata evidenziata la relazione fra tale costrutto e le
capacità di autoregolazione e di costruzione delle prime relazioni nell’infanzia
(Slade, 2010).
Fonagy (1991, p. 639) ha inizialmente definito la Mentalizzazione come «la
capacità di concepire stati mentali inconsci e consci in se stessi e negli altri».
Successivamente altri autori hanno riconcettualizzato la Mentalizzazione nei
termini di un processo di metabolizzazione e rappresentazione per indicare il
cambiamento intrapsichico di base delle proprie esperienze somatiche arcaiche in
idee, parole e immagini più organizzate al fine di poter essere comunicate,
modificate e collegate (Lecours, Bouchard, 1997).
L’assunzione del termine Mentalizzazione ha conferito al costrutto una
caratteristica maggiormente processuale in cui è possibile individuare un aspetto
diacronico e sincronico. In questo senso, la Mentalizzazione viene vista come una
capacità flessibile e, sebbene l’apprendimento maggiore della capacità di
Mentalizzazione derivi da relazioni significative a livello emotivo (Dunn, 1994),
essa è comunque un’abilità che varia in maniera flessibile e dinamica in funzione
delle specifiche relazioni e del contesto in cui tali relazioni prendono forma
(Siegal, 1999).
Non di rado il concetto di Mentalizzazione è stato collegato al costrutto di Teoria
della mente (in inglese Theory of Mind, ToM).
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La ToM è definita come «l’insieme di capacità e conoscenze che permettono ad
un essere umano di attribuire ai propri simili, per inferenza, idee, credenze,
sentimenti, desideri e progetti che, invisibili, guidano il comportamento visibile»
(Liotti, 2005 p. 60). Questa capacità, come verrà descritto alla fine di questo
paragrafo, si sviluppa nel corso dei primi tre anni di vita e fa capo a processi innati
corrispondenti a specifici circuiti cerebrali e la letteratura è concorde nel
considerare la ToM una disposizione biologica innata per mezzo della quale è
possibile comprendere l’intenzionalità e gli stati mentali altrui (Baron-Cohen,
1995, 1997; Camaioni, 1995). Nei quadri psicopatologici caratterizzati da marcati
deficit metacognitivi, come i Disturbi dello Spettro autistico, frequentemente non
è rilevato un adeguato sviluppo della ToM (Liotti, 2005). Il concetto di
Metacognizione, strettamente intrecciato ai costrutti presi in esame, viene definito
come la capacità dell’adulto di monitorare la propria esperienza cosciente e di
riconoscere i propri stati mentali. In questa prospettiva, la metacognizione
rappresenta il livello più evoluto e maturo delle abilità di Teoria della Mente
inizialmente sviluppate nell’infanzia (Flavell, 1979; Main, 1991; Semerari, 1999).
Alla fine del primo anno di vita lo sviluppo delle competenze intersoggettive e
della ToM spinge il bambino a cercare di comprendere i bisogni dell’altro nella
relazione e ad agire per il loro soddisfacimento (Lavelli, 2007). Nel corso dello
sviluppo, il bambino costruisce con il caregiver di riferimento una molteplicità di
schemi di interazione (Stern, 1985), che rappresentano la base per la costruzione
futura di personali schemi di relazione e interazione con gli altri significativi. Tali
schemi vengono costruiti sulla base, sia di peculiari caratteristiche del bambino
(come il temperamento), sia sulla base della qualità delle risposte affettive
dell’adulto; a partire da scambi e sequenze interattive ripetute nel tempo si
costruisce un sistema bidirezionale della diade, ovvero un modello della loro
interazione (Beebe e Lachman, 2002).
Il costrutto di ToM fu introdotto per la prima volta dai primatologi Premack e
Woodruff (1978) a partire da studi naturalistici condotti su piccoli di scimpanzè. I
loro studi hanno indagato l’eventuale presenza e sviluppo dell’abilità di ToM
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utilizzando il paradigma che successivamente diede forma al “compito di falsa
credenza”, paradigma teso a verificare lo sviluppo della ToM. La loro ipotesi fu
confermata e successivamente il paradigma sperimentale venne sviluppato
ulteriormente e adattato agli studi su bambini in età prescolare. Ad esempio, in una
versione sviluppata da Wimmer e Perner (1983) ai soggetti viene raccontata una
storia, in cui un personaggio chiamato Maxi posiziona una caramella in un armadio
in cucina ed esce dalla stanza. Successivamente la madre entra in cucina e sposta
la caramella in un cassetto. Alla fine di questo breve racconto al bambino viene
chiesto dove, secondo lui, Maxi cercherà la caramella. Gli studi condotti mediante
l’uso di tale paradigma in bambini di età prescolare hanno portato i ricercatori a
stabilire che lo sviluppo della Teoria della Mente nei bambini sarà visibile dai 3, 4
anni in poi. Bambini con una Teoria della Mente adeguatamente sviluppata
capiranno che il protagonista della storia crederà ingenuamente che la caramella
sia nell’armadio, dimostrando la loro capacità di adeguarsi al punto di vista altrui
e di conferire emozioni e idee proprie del soggetto (Wimmer, Perner, 1983). I
bambini con un deficitario sviluppo di ToM hanno difficoltà a concepire che l’altro
possa avere pensieri differenti dai propri e, quindi, risultano meno capaci di
comprendere l’esistenza della mente dell’altro come differente dalla propria.
1.2 Le dimensioni della Mentalizzazione
La più recente teorizzazione di Bateman e Fonagy definisce la Mentalizzazione
come il “processo mentale con cui un individuo, implicitamente ed esplicitamente,
interpreta le proprie azioni personali e quelle degli altri come significative sulla
base di stati mentali intenzionali, quali desideri personali, bisogni, emozioni,
credenze e ragioni” (Bateman e Fonagy, 2004, p. 173). Da tale definizione si
evidenziano alcune dimensioni del costrutto, in particolare:
Dimensione esplicita/implicita
Dimensione Sé/l’altro
Dimensione emozionale/cognitiva.
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Fonte: Choi-Kain, L. W., & Gunderson, J. G. (2008). Mentalization: ontogeny, assessment, and application in the
treatment of borderline personality disorder. American Journal of Psychiatry, 165(9), 1127-1135.
La prospettiva teorica sostenuta da Fonagy ha fornito al concetto di
Mentalizzazione un’impronta di natura psicanalitica e rivolta maggiormente alla
dimensione interna del soggetto, orientata a Sé e arricchita affettivamente,
trasferendo al concetto di Teoria della Mente il lato più empirico, esterno e
orientato all’altro (Choi-Kain & Gunderson, 2008). La Mentalizzazione esplicita
ed implicita si riferiscono a due differenti sistemi di funzionamento (implicito ed
esplicito). Inoltre, quando il processo mentale interpreta azioni proprie o altrui si
rimanda alla seconda dimensione che è collegata all’oggetto preso in
considerazione (sé o l’altro); la dimensione relativa agli stati mentali denota due
aspetti, uno affettivo e uno cognitivo, facenti parte del contenuto e del processo di
Mentalizzazione. La Mentalizzazione implicita rappresenta “una funzione
procedurale non conscia e irriflessiva” (Bateman & Fonagy, 2006; 2004, p. 173),
funzione che permette di immaginare gli stati mentali propri e altrui, in accordo al
pensiero di Baron-Cohen che ha interpretato la Mentalizzazione come una capacità
che viene messa in atto in modo involontario, abituale e inconscio, permettendo di
leggere con la mente senza fatica (Baron-Cohen, 1995). Il concetto può essere
esemplificato dall’abilità di rispettare il proprio turno all’interno di una
conversazione, infatti ciò non comporta una riflessione volontaria e conscia ma le
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persone ne sono capaci in maniera naturale e istintuale (Allen, 2006). Al contrario,
la Mentalizzazione esplicita si esercita per mezzo di un uso volontario e conscio
ed interviene quando si presentano dei problemi nei rapporti relazionali (Allen &
Fonagy, 2002).
Fra la componente esplicita e la componente implicita non vi è un rapporto
mutualmente esclusivo ed esse non rappresentano variabili discrete di un processo,
piuttosto si collocano lungo un continuum ai cui poli vi sono la Mentalizzazione
esplicita ed implicita (Allen, 2006). Una loro mancata integrazione lungo
l’infanzia può essere un fattore causale per l’esacerbazione di disturbi psicologici
(Bateman & Fonagy, 2006). Per ciò che concerne la seconda dimensione della
Mentalizzazione, gli oggetti presi in esame, si può asserire che vi sia
un’interazione, sia nel caso in cui l’oggetto sia il Sé sia in quello in cui sia l’altro.
In quest’ottica, la rappresentazione dei propri stati mentali allo stesso tempo
permette di costruire un’immagine degli stati mentali altrui, facendo quindi da
promotrice per l’interazione tra soggetti. Inoltre, i desideri, le credenze e tutto ciò
che concerne gli stati mentali, sia del soggetto che dell’altro, hanno connotazione
dinamica, data dal cambiamento degli stati interni al variare della cornice
interpersonale. L’ultima dimensione investe sia i contenuti della Mentalizzazione,
sia la sua componente processuale, quest’ultima garantita da specifiche abilità
cognitive preservate che rendono possibile immaginare gli stati mentali relativi a
Sé e all’altro, attraverso l’integrazione della cognizione e della comprensione
dell’affettività. I contenuti, nonché gli stati mentali, soprattutto quelli coscienti,
possono essere emotivamente floridi, con intensità variabile, e cognitivi (Allen,
2006). In letteratura diversi studi confermano che la mancata integrazione degli
stati emotivi nella coscienza si ripercuote sulla capacità dell’individuo di
regolazione emozionale, al contrario la loro integrazione a livello cosciente rende
l’individuo maggiormente consapevole nel riconoscimento, nella regolazione e
nella gestione degli stati affettivi propri e altrui (Semerari, 1999, 2000).
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1.3 La funzione riflessiva
La funzione riflessiva è «l’insieme dei processi psicologici sottostanti la capacità
di mentalizzare» (Fonagy et al. 1997). Questa abilità è dunque da intendersi sia
come espressione, sia come misura della Mentalizzazione stessa, ovvero della
capacità di riflettere e pensare sul comportamento proprio e altrui e la capacità di
vedere e capire se stessi e gli altri in termini di stati mentali, cioè sentimenti,
convinzioni, intenzioni e desideri nel loro insieme. «La metacognizione, la
Mentalizzazione e il funzionamento riflessivo sono considerati espressione della
funzione riflessiva da cui in gran parte dipende lo sviluppo del Sé che pensa e che
sente» (Fonagy et al., 1997, p. 5).
Il “Reflective Functioning Manual” (Fonagy et al., 1998) definisce la funzione
riflessiva come un costrutto che comprende diverse componenti: la componente
autoriflessiva e la componente interpersonale.
Entrambe le componenti forniscono all'individuo la capacità di distinguere la realtà
interna da quella esterna, e i processi intrapsichici dai processi interpsichici.
La genesi di tale funzione ha una matrice relazionale. Viene osservato che «la
Mentalizzazione avviene attraverso l'esperienza che il bambino fa di quanto i
propri stati mentali siano stati "capiti e pensati" grazie a interazioni cariche di
affetto con il genitore (…) – ne deriva che - l'emergere e il completo sviluppo della
funzione riflessiva dipende dalla capacità del genitore di percepire più o meno
accuratamente l'intenzionalità del bambino» (Fonagy et al., 1998, p. 6). Le
capacità conseguenti allo sviluppo di tale funzione, nelle sue diverse componenti,
hanno quindi un’origine, uno sviluppo ed un’espressione di natura interpersonale.
La connotazione fortemente relazionale della Funzione Riflessiva rimanda alla
teoria dell’attaccamento proposta da Bowlby, secondo cui gli eventi mentali sono
di natura primariamente interpersonale e sono modellati dalle esperienze precoci
con le persone che hanno provveduto a instaurare gli originari legami di
attaccamento (Bowlby, 1996).
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1.4 Basi Neurali della ToM
Le abilità metacognitive e la Mentalizzazione sono sostenute da processi mentali
e basi neurali differenti.
I contributi delle neuroscienze supportano l’ipotesi sopra citata della diacronicità
del costrutto, il quale si trasforma lungo tutto l’arco della vita in congruenza con i
cambiamenti funzionali delle strutture cerebrali coinvolte. Vollm et al. (2006)
mediante studi di neuroimaging hanno indagato le basi neurali della ToM durante
la risoluzione di un classico compito di falsa credenza. I risultati evidenziano una
concordanza delle strutture attivate tra i soggetti adulti e i bambini, sebbene sia
stato riscontrato un differente grado di attivazione a carico di specifiche strutture
nervose in base all’età. L’attivazione è prevalente a livello della corteccia
prefrontale, della giunzione temporo-parietale e dell’amigdala, quest’ultima
implicata nell’elaborazione emotiva, in cui è stata registrata una maggiore
attivazione negli adulti rispetto ai bambini, a sostegno dell’ipotesi di una maggiore
capacità nell’adulto di cogliere gli indizi emozionali, come richiesto dal compito
somministrato. Tale specificità di attivazione per la fase di vita indagata sembra
legata anche alla natura del compito proposto. Differenti tipologie di compiti sono
correlati a una differente attivazione neurale, per cui si sostiene la qualità dinamica
del costrutto indagato (Kobayashi et al., 2007). Successivi lavori hanno adottato
una metodologia più adeguata così da controllare più efficacemente le variabili di
disturbo, come il diverso grado di sviluppo linguistico in funzione dell’età. I
risultati confermano che la capacità di Mentalizzazione si sviluppa marcatamente
con l’acquisizione delle abilità di falsa credenza di primo ordine (Mainhardt et al.,
2011). Numerosi studi neuroscientifici condotti con risonanza magnetica
funzionale (fMRI) supportano l’attivazione di distinti circuiti neurali e segnalano
la presenza di una rete coinvolta nelle abilità cognitive superiori sopracitate. In
questa prospettiva il substrato neurale del cosiddetto “cervello sociale” comprende
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l’interconnessione delle aree posteriori del solco temporale superiore (pSTS), della
giunzione temporo-parietale (TPJ), del polo temporale (TP) e della parte dorsale
della corteccia prefrontale mediale (mPFC) (Frith & Frith, 1999; Frith & Frith
2006; Gallagher & Frith, 2003). Vi è generale accordo sulla diversa attivazione e
sulla modificazione dei collegamenti all’interno di questo network neurale durante
tutto il corso dello sviluppo, come dimostrato dalla diversa attivazione a carico
della mPFC che registra un incremento dell’attivazione all’esordio
dell’adolescenza, verosimilmente legato alla sua completa maturazione in questa
fascia d’età. Questi studi sostengono anche l’ipotesi dell’influenza dei metodi e
delle condotte educative sullo sviluppo cerebrale delle strutture coinvolte in tale
network cerebrale e ne consegue che la qualità delle relazioni educative possa
differenziare lo sviluppo neurobiologico che, a sua volta, contribuisce a definire
molte delle abilità cognitive superiori ed, in particolare, l’abilità di comprendere
gli stati mentali propri e altrui (Blackemore, 2012). Le basi neurobiologiche
sopracitate possono essere ricondotte al sistema dei neuroni specchio (MNS), una
popolazione di neuroni la cui attivazione è subordinata alla visione di un’azione o
al compimento della stessa (Iacoboni e Dapretto, 2006). Successivamente è stata
accertata la loro implicazione sia nell’imitazione delle espressioni visive sia nella
comprensione delle emozioni trasmesse dalla visione di volti altrui, ovvero nel
cosiddetto “contagio emotivo” responsabile della costruzione della primissima
relazione tra madre e bambino (Mancini et al., 2013). Aztil e colleghi (2011) hanno
indagato con studi di fMRI il network cerebrale che sostiene il comportamento
materno, in particolare è stata indagata la reazione emotiva materna durante la
visione dei filmati dei propri figli. Dai risultati si evidenzia che le aree attivate
nella relazione d’accudimento comprendono sia regioni limbiche motivazionali sia
regioni corticali di controllo delle emozioni; tra queste ultime si è registrata
l’attivazione delle mPFC, area corticale coinvolta nell’empatia e nella
Mentalizzazione, entrambe qualità fondamentali per incrementare la responsività
materna ai segnali del bambino (Aztil et al., 2011) .
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I risultati delle ricerche neuroscientifiche evidenziano un forte collegamento tra
l’attaccamento e la Mentalizzazione e sostengono l’ipotesi di Schore (2001)
secondo cui l’attaccamento sicuro è il promotore di un migliore sviluppo delle aree
cerebrali che sottendono la funzione di Mentalizzazione. L’autore sostiene
l’ipotesi per cui «la relazione d’attaccamento interviene, quindi, direttamente
nella configurazione maturativa dei sistemi deputati alla gestione dello stress posti
nell’emisfero destro» (Schore, 2001, p.41). L’auto-modulazione affettiva
all’interno dei contesti relazionali è sostenuta dalle circuiterie fronto-limbiche, così
come i modelli operativi interni (MOI), strutturati a partire dagli schemi interattivi
e relazionali con la figura d’attaccamento primaria, sono correlati all’attività a
carico della corteccia orbitofrontale, che insieme all’amigdala, mantiene una
notevole plasticità lungo tutto l’arco della vita (Schore, 2011). La Mentalizzazione
prende avvio all’interno del contesto sociale in cui l’elaborazione delle
caratteristiche fisiche degli stimoli visivi avviene a livello del solco temporale
superiore, area deputata all’identificazione degli stimoli visivi, al riconoscimento
e alla discriminazione delle espressioni facciali (Bonda et al., 1996; Frith, Frith,
1999, 2000; Emery, Perrett, 2000); mentre le componenti emozionali associate allo
stimolo sono elaborate a livello dell’amigdala (Rolls, 1999; Aggleton, Young,
1999; Emery, Perrett, 2000; Stone, 2002). Questo processo è considerato una
forma di Mentalizzazione implicita che avviene in virtù delle caratteristiche di
flessibilità, aggiornamento, adattamento al contesto e automonitoraggio emotivo
conferitegli dall’attivazione della corteccia prefrontale (Rolls,1999; Elliot et al.,
2000). Pertanto, il ruolo giocato da quest’ultima struttura è il più importante al fine
di mettere in atto un’adeguata funzione riflessiva, ovvero un’adeguata capacità di
mentalizzare (Blair, Cipollotti, 2000; Rowe et al., 2001; Stuss et al., 2001; Siegal,
Varley, 2002; Adolphs, 2003). Qualora la stimolazione della corteccia prefrontale
mediale sia eccessiva può verificarsi una “disconnessione” della stessa che
determina l’attivazione di aree più rostrali subcorticali automatizzate come
l’amigdala e le regioni subcorticali posteriori. Questa attivazione si traduce nel
passaggio da una risposta comportamentale ponderata e adattabile a una modalità
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di risposta istintuale di attacco-fuga-freezing. Si può desumere che soggetti con
attaccamento insicuro o disorganizzato tendono a dimostrare maggiore sensibilità
nell’instaurare relazioni intime e a reagire con una iperattivazione dell’arousal, con
la conseguente cascata di eventi neurochimici sopra descritti. (Arnsten, 1998;
Arnsten et al., 1999; Mayes, 2000).
Diversi studi empirici hanno dimostrato l’implicazione della corteccia cingolata
anteriore nella Mentalizzazione del Sé (Lane et al., 1997; Damasio, 1999; Frith,
Frith, 1999). L’attività del cingolato dorsale anteriore è correlata con le
rappresentazioni implicite del sé, mentre il cingolato rostrale anteriore darebbe
luogo all’attività riflessiva esplicita (autorappresentazione del sé) (Lane, 2000).
In sintesi, il collegamento neurobiologico tracciato tra Mentalizzazione,
attaccamento e biologia evidenzia la natura circolare, viziosa e di influenza
reciproca che tali variabili hanno tra loro. Un contesto relazionale in cui si sviluppa
uno stile di attaccamento di tipo disorganizzato e/o insicuro può danneggiare lo
sviluppo di circuiti cerebrali importanti per la regolazione dell’arousal affettivo,
ossia gli stessi circuiti indispensabili per sostenere le capacità di Mentalizzazione
(Bateman, Fonagy, 2006).
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CAPITOLO 2
2. 1 L’importanza della teoria dell’attaccamento
Nel bambino come nell’adulto la prova di essere compreso, riconosciuto e accolto
dà luogo a un’esperienza di sicurezza che predispone a una esplorazione della
mente sia propria che dell’altro, nella quale, si avrà un rispecchiamento di sé stessi.
Si comprende, quindi, l’enorme importanza e il necessario aggancio alla
prospettiva in chiave evoluzionista dell’attaccamento.
Nel 1980 J. Bowlby, antropologo e psicoanalista inglese, ha formulato la Teoria
dell’Attaccamento, basandosi sui precedenti studi concernenti le pulsioni e gli
istinti nella diade madre-bambino, ed ha ampliato le teorie psicoanalitiche
soffermandosi su un approccio di carattere evoluzionista su cui basare i successivi
studi sperimentali. A partire dai primi studi degli anni Ottanta si sono esplorate le
ragioni profonde che legano il bambino al caregiver, non esclusivamente relative
al fornimento di cibo da parte della madre ma da un bisogno intimo e innato del
bambino di difesa, appagamento, calma e calore affettivo da parte del caregiver
primario. Grazie a metodi di indagine come la Strange Situation (SS) e l’Adult
Attachment Interview (AAI) è stato possibile esplorare diversi stili di attaccamento
che il bambino può sviluppare nel primo anno di vita e il cui riflesso sarà visibile
anche nel corso dello sviluppo e in età adulta. Lo stile d’attaccamento si sviluppa
a partire dai primi contatti oculari con la Figura di Attaccamento (FdA); tali pattern
hanno una natura flessibile per tutto l’arco di vita ed è pertanto possibile
modificarli mediante l’esperienza di relazioni adeguate. Bowlby (1989) definisce
l’attaccamento come “la forma di comportamento che si manifesta in una persona
che consegue o mantiene una prossimità nei confronti di un’altra persona,
chiaramente identificata, ritenuta in grado di affrontare il mondo in modo
adeguato (…); l’attaccamento è evidente soprattutto nella prima infanzia, ma può
19
essere osservato nell’ambito dell’intero ciclo di vita, specialmente nei momenti di
emergenza. Dato che è osservabile virtualmente in tutti gli esseri umani è
considerato parte integrante della natura umana e ritenuto un comportamento che
condividiamo (in vario grado) con membri di altre specie. La funzione biologica
che gli viene attribuita è quella della protezione” (Bowlby, 1989, p. 25) Questa
definizione mette in luce le motivazioni sia biologiche sia affettive alla base del
comportamento di attaccamento, in particolare per assicurare sostegno e
accudimento al piccolo. L’autore pone l’attenzione sul concetto di attaccamento
come sistema comportamentale “(…) concepito sulla base dell’analogia con un
sistema fisiologico organizzato in modo omeostatico per assicurare che una certa
misura fisiologica, come la temperatura corporea o la pressione sanguigna, sia
mantenuta entro limiti appropriati. Proponendo il concetto di sistema
comportamentale per spiegare come un bambino o un adulto mantenga una
relazione con la figura di attaccamento entro certi limiti di distanza o
accessibilità, non si fa altro che utilizzare principi largamente accettati per
giustificare una diversa forma di omeostasi, in cui i limiti stabiliti riguardano la
relazione dell’organismo con persone chiaramente identificate, o altre
caratteristiche dell’ambiente, e in cui i limiti sono mantenuti grazie a modalità
comportamentali invece che tramite mezzi fisiologici.” (Bowlby, 1988, pp. 137).
L’attaccamento può essere concettualizzato come sistema motivazionale che si
esprime attraverso la messa in atto di comportamenti volti a richiamare
l’attenzione e la cura della FdA (Bowlby, 1969). Il periodo relativamente lungo di
dipendenza infantile rende il bambino estremamente vulnerabile e bisognoso di
protezione. In quest’ottica, il comportamento di attaccamento è un sistema
finalizzato ad assicurare la vicinanza con il caregiver primario e quest’ultimo
sviluppa una forma di attaccamento complementare (Bowlby, 1969). È stato
dimostrato che il comportamento e l’atteggiamento del genitore in risposta alle
richieste di cura del bambino hanno un fondamentale impatto nella strutturazione
dello stile d’attaccamento, entrambi fattori di maggiore influenza rispetto ad altre
variabili co-influenti di natura genetica o temperamentale. I pattern d’attaccamento
20
sono distintivi e specifici per ciascun rapporto diadico (fra il bambino e le sue
diverse figure di riferimento) e si riconosce la compresenza di vari stili
d’attaccamento nello stesso individuo, in funzione delle differenti relazioni
interpersonali instaurate.
La letteratura scientifica ha indagato le conseguenze a lungo termine legate allo
sviluppo di specifici pattern d’attaccamento, nello specifico si è osservato che lo
stile d’attaccamento si struttura in stati mentali, in atteggiamenti e in un peculiare
modo di considerare, manifestare e modulare le emozioni che caratterizzano
l’attaccamento stesso (per esempio l’ira alla separazione, la disperazione alla
perdita, la gioia e il desiderio di rassicurazioni al ricongiungimento con la FdA)
(Liotti, 2005). Gli stati mentali, gli atteggiamenti e i comportamenti derivanti dal
pattern d’attaccamento si strutturano nei cosiddetti Modelli Operativi Interni
(MOI): a partire dalla tarda infanzia, i comportamenti di attaccamento del bambino
si organizzano sempre di più a livello rappresentativo oltre che comportamentale.
L’organizzazione di questi sistemi emerge dalle esperienze del bambino con la
figura di attaccamento e in particolare dalle esperienze concomitanti
all’attivazione del sistema di attaccamento. Secondo Bowlby (1973) il bambino
svilupperebbe rappresentazioni complementari del Sé e della figura di
attaccamento. Questi modelli riflettono la percezione da parte del bambino e la sua
fiducia di essere degno di accettazione, cure e protezione da parte della figura di
attaccamento, conferendo qualità e senso alle emozioni provocate dall’interazione
tra sé e l’altro e di sé e l’altro. I MOI strutturano i processi di valutazione, i pensieri,
i ricordi e i sentimenti del bambino nei confronti della figura di attaccamento e ne
orientano i comportamenti futuri (Main, Kaplan e Cassidy, 1985) e svolgono un
ruolo primario nella nascita del sistema cognitivo di modulazione delle emozioni
(Linehan, 1993; Taylor, Bagby, Parker, 1997) e anche nell’assunzione di un
atteggiamento negativo rispetto alle proprie emozioni in soggetti con attaccamento
insicuro.
La ricerca sull’attaccamento ha fornito molti dati sulla psicopatologia, nello
sviluppo cosi come in età adulta, dal momento che è stato osservato che gli sviluppi
21
psicopatologici in un cospicua casistica prendono avvio a partire da esperienze
infantili di carattere traumatico e negativo (Bowlby, 1973, 1980, 1988). La ricerca
si è interessata ai diversi tipi di organizzazione relazionale e comportamentale che
il bambino può sviluppare a partire dalle dinamiche interpersonali che si instaurano
con la FdA e si è giunti a una tipizzazione degli stili di attaccamento, ricavata
principalmente dalle ricerche condotte con metodi di indagine osservazionale della
diade madre-bambino, grazie all’utilizzo di particolari procedure come la Strange
Situation (SS) (Ainsworth & Bowlby, 1965), e attraverso la somministrazione di
interviste strutturate utili all’indagine dello stile di attaccamento genitoriale e dei
relativi stati mentali, come l’ Adult Attachment Interview (AAI) (Liotti 2005). È
stato dimostrato che lo sviluppo della capacità di mentalizzare pone le proprie basi
durante il primo anno di vita del bambino, soprattutto in relazione alla prime
esperienze emotivamente significative con la FdA. Le esperienze cardine per il
processo di sviluppo di tale capacità sono quelle di riflessione degli stati mentali
del bambino fornita dal caregiver primario e le interazioni emozionalmente
pregnanti della diade.
La riflessione da parte del genitore fornisce al bambino una rappresentazione dello
stato interno dello stesso che può mostrarsi similare o differente da quello esperito
dal bambino e particolarmente delicata è la riflessione di sentimenti complessi,
come nel caso degli stati di angoscia e di disagio (Fonagy et al. 1998).
2. 2 Dinamiche relazionali e stili d’attaccamento
La letteratura scientifica ha distinto quattro stili di attaccamento.
Essi sono distinti in quattro categorie discrete che si strutturano durante il corso
del primo anno di vita. E’ stato riscontrato che in famiglie a basso rischio di
psicopatologia vi è una maggiore possibilità di sviluppo del pattern “sicuro” (B),
in cui il bambino nella SS reagisce alla separazione con il pianto e alla riunione
22
calmandosi, del pattern “insicuro evitante” (A), il bambino non piange alla
separazione e alla riunione evita il contatto, e del pattern “insicuro-resistente” (C),
in cui il bambino piange alla separazione e continua ad opporsi alla riunione; è
stato evidenziato che il 20% dei bambini manifesta un attaccamento disorganizzato
(D), ossia non mostra alcuna organizzazione del proprio comportamento secondo
una condotta coerente (Liotti, 2005). Questo stile di attaccamento si riscontra nel
50%-80% dei bambini appartenenti a famiglie ad alto rischio psicopatologico nei
casi in cui, durante il primo anno di vita, il bambino non è riuscito a regolare il
proprio comportamento di attaccamento in modo costante e armonico. Lo stile di
attaccamento disorganizzato mostra nella SS risposte multiple, di solito
inconciliabili, sia nella fase di separazione che di riunione (Liotti, 2005). Lo stile
di attaccamento sicuro determina una valutazione positiva delle emozioni di
attaccamento di Sé e dell’Altro; lo stile d’attaccamento evitante determina nel
bambino la tendenza a fornire giudizi negativi delle emozioni proprie e altrui; il
bambino con stile ambivalente è portato a nutrire opinioni ambivalenti circa le
emozioni di attaccamento in Sé e negli altri. Per quanto concerne l’attaccamento
D, il bambino mostra un’attribuzione su Sé e sull’Altro drammatica, incoerente e
multipla; in questo caso il Sé e l’Altro ricopriranno ruoli alternati come il salvatore,
il persecutore e la vittima.
I Modelli Operativi Interni sono costruiti a partire dalla traduzione della
conoscenza implicita (non dichiarativa) in una conoscenza semantica esplicita
(dichiarativa) (Amini et al., 1996). Il ruolo della memoria implicita del bambino è
quello di condensare le interazioni con la FdA e, in particolare, le modalità di
risposta di quest’ultima, formando delle “Rappresentazioni Generalizzate delle
Interazioni” o RIG (Stern, 1985), ossia delle rappresentazioni della memoria
implicita che con lo sviluppo del linguaggio si strutturano in un complesso
semantico, dichiarativo, contenente la raffigurazione dello specifico stile di
attaccamento sviluppato, nonché l’idea di sé e dell’altro come meritevoli e/o capaci
di affetto. Ne deriva che tali rappresentazioni costituiscono un ponte tra le memorie
implicite e le memorie semantiche dichiarative, per mezzo delle facoltà
23
linguistiche emergenti (Liotti, 2005). Il bambino che sviluppa un pattern di
attaccamento sicuro ha un’idea di Sé come degno d’amore e un’immagine
dell’altro come disponibile e degno di fiducia; al contrario, il bambino con un
pattern di attaccamento di tipo evitante sviluppa un’impressione di Sé come
pretenzioso e scomodo e dell’altro come impegnato e mal disposto; nel pattern di
attaccamento resistente, il bambino si serve di continue pressioni emotive e
manipolazioni per gestire l’incontrollabile risposta del caregiver. Bowlby (1973)
ha ipotizzato una dissociazione tra la conoscenza semantica e la conoscenza
episodica che si determina nel caso in cui la memoria episodica contenga ricordi
negativi dell’interazione con la FdA, opponendosi così alle teorie psicoanalitiche
che vedono il fulcro dell’incoerenza tra sistemi mnestici nelle dinamiche
intersoggettive. Secondo lo psicoanalista britannico l’espulsione dall’esperienza
cosciente dei ricordi episodici della relazione negativa con i genitori deriva
dall’accumulo di conoscenze semantiche idealizzate dei genitori, quindi,
l’incapacità di ricordare non è dovuta all’incapacità di sostenere l’angoscia nata da
pulsioni inaccettabili (interpretazione psicoanalitica) ma all’imposizione dei
genitori sul bambino, mediante parole e comportamenti minatori di negligenza
affettiva, di connotare positivamente un episodio di per sé emotivamente negativo.
Questa interazione dà luogo, insieme alla propensione innata del bambino a
desiderare consolazione e sostegno dalle figure di riferimento, all’idealizzazione
dei genitori. Questi ricordi episodici negativi, espulsi dalla coscienza perché
impegnata a formulare un’idea mitizzata e irrealistica della relazione con le FdA,
andranno a comporre elementi dell’inconscio cognitivo (Eagle, 1987). Le ricerche
condotte con strumenti come l’AAI hanno in seguito ampiamente suffragato le
ipotesi dell’autore, mostrando come lo stile d’attaccamento evitante del bambino
e la squalifica della relazione d’accudimento da parte della FdA determini nel
bambino la tendenza a idealizzare il caregiver ed allontanare dalla coscienza estese
porzioni di memoria episodica. Tale condizione mostra una tendenza alla
trasmissione transgenerazionale e pertanto il suo mantenimento nelle generazioni
successive: lo stile d’attaccamento sviluppato dal genitore nel corso della propria
24
infanzia si ripercuote nel modo e nella capacità di accudimento del figlio, che a
sua volta avrà influenza non solo sull’attaccamento che svilupperà ma anche
rispetto al modo di conoscere sé stesso. Tale scoperta di Sé avviene all’interno
della relazione, primariamente con il caregiver e successivamente in altre relazioni
interpersonali significative (Main, 1995).
In un’ottica di trasmissione transgenerazionale il soggetto, divenuto a sua volta
genitore, riproporrà la dinamica relazionale appresa nell’infanzia, promuovendo
nel figlio la medesima distorsione dell’autoconoscenza (Liotti, 2005).
Lo stile relazionale di tipo insicuro/ambivalente, in cui il genitore non riesce ad
attribuire un valore stabile alla relazione d’accudimento, connotando la relazione
con dubbi e contraddizioni, può causare nel figlio un conflitto, diverso da quello
precedentemente illustrato, tra gli aspetti episodici e semantici della conoscenza di
Sé. Nello specifico, il bambino non riuscirà ad assegnare un contenuto e un senso
stabile ai molti eventi incoerenti che riempiono la sua coscienza (Main, 1995).
25
Figura 1: Sintesi delle principali scoperte della ricerca sull’attaccamento
Fonte: “The Neuroscience off human Relationship: Attachment and the
developing social brain”, Louis Cozolino, 2006
Osservazioni della madre Infant Strange Situation Adult Attachment Interview
SICURA- AUTONOMA SICURO SICURA
Disponibile emotivamente,
sensibile ed efficace
Il bambino ricerca la
vicinanza, viene consolato
facilmente/ riprende a
giocare
Ricordi dettagliati, prospettiva
equilibrata, narrativa coerente
DISTANZIANTE EVITANTE DISTANZIANTE
Distante e respingente Il bambino non cerca la
vicinanza e non appare
turbato dalla separazione
Prende le
distanze/nega/minimizza,
idealizza, manca di ricordi
INVISCHIATA-
AMBIVALENTE
ANSIOSO-
AMBIVALENTE
INVISCHIATA
Disponibilità incostante Il bambino cerca la
vicinanza, non è facilmente
consolabile e non ricomincia
velocemente a giocare
Eccessiva produzione verbale,
intrusioni, preoccupazione,
idealizzazione o rabbia
DISORGANIZZATA DISORGANIZZATO DISORGANIZZATA
Comportamenti
disorientanti, che spaventano
o sessualizzati, disorientati
Caotico, autolesivo Comportamento disorientato
conflittuale, storie di lutti e
traumi non risolti
26
2. 2. 1. La disorganizzazione dell’attaccamento
Il termine “disorganizzato/disorientato” descrive una categoria di comportamenti
afinalistici, contraddittori e timorosi che possono essere osservati nei bambini in
occasione del ricongiungimento con la figura materna dopo una separazione
(Strange Situation). Queste condotte derivano dal crollo nell’organizzazione
strategica del comportamento – vale a dire delle corrette strategie relazionali -
funzionale al mantenimento di un contatto con la figura di attaccamento in
condizioni di stress. I bambini con disorganizzazione dell’attaccamento sono
accomunati da tendenze comportamentali conflittuali e contraddittorie in presenza
simultanea o in rapida successione (per esempio, alcuni bambini girano in tondo
avvicinandosi alla madre ad occhi bassi o nel momento della riunione si avvicinano
alla mamma con la testa girata), dalla tendenza a manifestare segni di tensione
(portare le mani davanti alla bocca, raggomitolarsi a terra all’ingresso della madre
nella stanza o esprimere gioia su metà del volto e disprezzo sull’altra metà), e
disorientamento (con atteggiamento posturale rigido, tendenza a rivolgere
l’attenzione al mondo interiore piuttosto che all’ambiente circostante, e la messa
in atto di movimenti anomali, stereotipati e non sincronizzati) (Main, Solomon,
1990).
Sebbene la fenomenologia del comportamento disorganizzato sia complessa e
mutevole da caso a caso, vengono classificati come attaccamento disorganizzato
quei bambini che nella Strange Situation mostrano l’intenzione di riavvicinamento
alla FdA durante la separazione e nel caso di riunione la evitano intenzionalmente.
Crittenden (1999) ha proposto una classificazione alternativa a quella di
“disorganizzazione”, la categoria A/C con il compito di evidenziare la somiglianza
tra l’attaccamento disorganizzato e la combinazione tra attaccamento evitante e
resistente. L’ammirabile tentativo di conferire chiarezza e attribuire dei riferimenti
a questa categoria non è stato supportato per alcune chiare differenze
comportamentali (ad esempio, l’evitamento al momento della riunione con la FdA
27
è caratterizzato, nel caso della disorganizzazione, da terrore, espressione assente
nel caso dello stile evitante).
La prima indagine volta a scoprire le basi dell’attaccamento disorganizzato ha
identificato un’elevata correlazione tra la disorganizzazione dell’attaccamento nei
bambini e la presenza di traumi irrisolti nel caregiver primario (Main, Hesse, 1990,
1992), correlazione che ha trovato generale accordo nelle successive ricerche
condotte fino ad oggi (Lyons-Ruth, Jacobvitz, 1999; Main, 1995; Main, Morgan,
1996; Solomon, George, 1999b). Attribuendo al trauma e al lutto irrisolto il ruolo
di antecedenti della disorganizzazione, Main e Hesse (1990, 1992) hanno fornito
la spiegazione di tale relazione. Il ricordo traumatico ritorna alla mente in modo
compulsivo e inaspettato manifestandosi, sul volto del genitore, mediante
espressioni di paura e terrore, anche durante l’accudimento del piccolo.
Quest’ultimo, in modo automatico, diviene spaventato da tali espressioni e
promuove l’attivazione dei sistemi motivazionali innati attivati per fronteggiare il
pericolo (reazione di attacco-fuga-freezing) (Le Doux, 1996), parallelamente
all’attivazione del sistema d’attaccamento che lo porta a cercare protezione nella
FdA in situazioni ambigue e minacciose (Liotti, 2005). Pertanto si crea un conflitto
tra i due sistemi motivazionali innati: il sistema di difesa arcaico e il sistema
dell’attaccamento (Liotti, 2005). Nello specifico ciò che crea disorganizzazione
non è di per sé l’espressione di paura espressa dalla FdA quanto piuttosto
l’incongruenza fra la paura espressa ed un reale pericolo esterno percepibile dal
bambino; al contrario, una congruenza fra la paura manifestata dalla madre e un
reale pericolo o minaccia preserva il ruolo protettivo della FdA e non determina la
disorganizzazione dell’attaccamento. Nel quadro della disorganizzazione, il volto
spaventato durante l’accudimento esprime il riflesso della rievocazione coatta di
un ricordo traumatico, non percepibile dal bambino (Liotti, 2005).
Concludendo, la contrapposizione tra paura indotta e protezione offerta causano
l’instaurarsi di un attaccamento disorganizzato. Nell’adulto la presenza di traumi
irrisolti può sfociare in due esiti: il primo è l’aggressività rivolta al piccolo e il
secondo, meno drammatico, è la manifestazione di paura durante l’accudimento,
28
senza necessariamente sfociare in comportamenti di violenza fisica. Questo
comportamento genitoriale è definito “frightened/frightening”, cioè spaventato e
spaventante (Main & Hesse 1990, 1992). Alcuni autori interpretano la
disorganizzazione dell’attaccamento come una strategia di coping disfunzionale,
caratterizzata dall’incapacità di attivare una strategia coerente per affrontare lo
stress della separazione. Questo comportamento risulta bloccato fra tendenze
comportamentali opposte: quando il sistema di attaccamento è sollecitato in
maniera intensa e cronica, i processi di esclusione mnestica delle esperienze
relative all’attaccamento sono più severi e i comportamenti di attaccamento che si
strutturano tendono ad esprimere in parallelo tendenze sia di rifiuto che di
riavvicinamento, emergono così comportamenti contradditori e incoerenti, ossia
disorganizzati (Solomon e George, 2007). Talvolta la disorganizzazione
dell’attaccamento è caratterizzata da comportamenti privi di coerenza che
sembrano derivare dalla compartimentazione dissociativa, per esempio nel caso di
movimenti di avvicinamento alla FdA seguiti in maniera estremamente veloce e
apparentemente senza motivi specifici da movimenti di allontanamento, oppure
nel caso di avvicinamenti e allontanamenti simultanei, con comportamenti di
significato diverso, nessuno dei quali è inibito o integrato con l’altro al fine di
mettere in atto una soluzione unitaria e funzionale (Liotti e Farina, 2011). I
comportamenti indice di disorganizzazione possono consistere anche in condotte
che mimano l’alienazione o il detachment dissociativo, come ad esempio quando
il bambino si arresta improvvisamente a livello motorio mantenendo lo sguardo
assente, oppure si irrigidisce come nel freezing (Attili, 2007).
La disorganizzazione dell’attaccamento rappresenta un fattore di rischio evolutivo
accresciuto in numerosi ambiti clinici (Moss et al., 2004):
difficoltà nello sviluppo delle relazioni interpersonali (Moss et Al., 2006);
deficit nella capacità di regolazione emotiva, specie in situazioni di stress,
e un generale ostacolo allo sviluppo e all’esercizio delle capacità
metacognitive (Schore, 2001) e di Mentalizzazione (Bateman e Fonagy,
2004)
29
tendenza a reagire ad eventi traumatici con la dissociazione (Liotti e Farina,
2011).
La presenza di disorganizzazione dell’attaccamento è un fattore di rischio anche
per lo sviluppo di disturbi della condotta in età prescolare e scolare (Solomon,
George e De Jong, 1995): secondo alcune ricerche i disturbi del comportamento
espressi dai bambini disorganizzati di età compresa fra i 5 e i 9 anni comprendono
sia sintomi di estroversione sia sintomi di introversione; inoltre, in questa fascia di
età la disorganizzazione è correlata soprattutto a dinamiche comportamentali
caratterizzate da aggressività e distruttività (Lyons-Ruth, Alpern e Repacholi,
1993). I MOI maturati nel corso delle interazioni con le figure di accudimento,
influenzano la percezione di sé e dell’altro, e determinano la specifica modalità di
interpretare gli eventi sociali e le aspettative sulla relazione (Bowlby, 1969, 1973).
30
2. 3 L’Adult Attachment Interview
L’Adult Attachment Interview (AAI, George, Kaplan e Main 1985; Main, Goldwin
e Hesse 2002) è un’intervista semi-strutturata, comprensiva di 20 domande utili
all’indagine dei rapporti fra il soggetto e le figure di riferimento della sua infanzia.
Lo stile d’attaccamento viene rilevato valutando alcuni indici che si riferiscono
alla coerenza del messaggio, alla capacità di monitoraggio cognitivo,
all’idealizzazione, alla mancanza di memoria, alla rabbia, alla paura e alla passività
(Fabbro, 2012).
Fonte: George, C., Kaplan, N., & Main, M. (1985). Attachment interview for
adults. Unpublished manuscript, University of California, Berkeley.
L’intervista si sviluppa mediamente nell’arco di un’ora, all’interno della quale
vengono esplorati i vissuti pregressi con le figure significative dell’infanzia del
soggetto. Nello specifico, la prima fase dell’intervista approfondisce le esperienze
e i rapporti con le figure significative, che rimandano a un periodo di tempo
compreso, indicativamente, tra i primi ricordi e la prima adolescenza (0-12 anni).
31
A tal proposito, vengono chiesti 5 aggettivi che descrivano il rapporto con ciascun
genitore ed eventuali altre figure importanti. Tali aggettivi dovranno essere
spiegati e il soggetto viene invitato a raccontare eventi specifici, che aiutino a
capire come mai abbia usato proprio quelle parole. Successivamente viene
indagata la presenza di esperienze traumatiche, di separazione dalle FdA e i lutti.
Infine l’attenzione viene spostata sulle relazioni attuali con le figure di riferimento,
con i figli e i desideri per il loro futuro. L’analisi dell’intervista prende in esame lo
stile narrativo del soggetto, le reazioni provocate dai ricordi, alla trasformazione
nel tempo dei sentimenti e la consapevolezza delle influenze esercitate dalle
esperienze sullo sviluppo della personalità (Di Carlo, Schimmenti, Caretti, 2011).
L’intervista viene audioregistrata e trascritta per permettere l’analisi qualitativa
delle narrazioni (Steele e Steele 2008). Main, Kaplan e Cassidy (1985) ritengono
che le rappresentazioni mentali del genitore rispetto alle esperienze precoci vissute
con il proprio caregiver influenzino fortemente la qualità dell’attaccamento del
proprio figlio avvalorando l’ipotesi di una trasmissione intergenerazionale
dell’attaccamento. Questi stati mentali dell’adulto relativi alle relazioni di
attaccamento possono essere classificati attraverso l’AAI (Main, Goldwyn, Hesse,
2003).
L’AAI valuta la capacità dell’individuo di narrare in maniera coerente, sia sul
piano cognitivo sia sul piano affettivo, la propria storia e permette di definire 3
modelli principali di stile di attaccamento dell’adulto (Main, Goldwyn, Hesse,
2003):
Sicuro/Autonomo, caratterizzato da coerenza nella narrazione delle
esperienze di attaccamento, riconoscimento della loro influenza sullo
sviluppo della personalità;
Distanziante, caratterizzato da distanziamento, svalutazione delle relazioni
di attaccamento o idealizzazione e mancanza di ricordi delle esperienze con
i genitori;
Preoccupato/invischiato, caratterizzato dal coinvolgimento nelle precoci
relazioni di attaccamento di tipo passivo, conflittuale o spaventato
32
A questi stili si aggiungono 3 categorie:
Irrisolto/Disorganizzato, caratterizzato da mancata elaborazione di un lutto
o di un trauma (Main, Hesse, 1990; 1992);
Non classificabile, caratterizzato da disorganizzazione diffusa,
evidenziabile da stati mentali contraddittori e incompatibili o scissi e non
integrati rispetto all’attaccamento (Hesse, 1996);
Hostile/Helpless, caratterizzato dalla pervasiva non integrazione della
rappresentazione delle relazioni di attaccamento (Lyons-Ruth, Bronfman,
Atwood, 1999).
L’AAI oltre a valutare lo stile d’attaccamento del soggetto intervistato può
misurare la sua Funzione Riflessiva (RF). In conformità con il Reflective Function
Manual (Fonagy et al., 1998) gli indici che codificano per una elevata RF sono:
la consapevolezza della qualità degli stati mentali;
l’atto esplicito di comprendere le cognizioni sottese a un comportamento;
la coscienza rispetto alla natura evolutiva degli stati mentali;
la dimostrazione di una consapevolezza circa gli stati mentali relativi
all’intervistatore.
2. 3.1 Attaccamento e Funzione Riflessiva
La Funzione Riflessiva (RF) è quell’insieme di “processi psicologici sottostanti
la capacità di Mentalizzare” (Fonagy et al., 1997) e, più nello specifico, indica la
capacità di astrazione e di coscienza riflessiva. Il link tra la funzione riflessiva del
caregiver e lo stile d’attaccamento sviluppato dal bambino è stato indagato da
numerosi studi. È stata dimostrata una forte relazione tra la capacità di
Mentalizzare e l’attaccamento: un’elevata funzione riflessiva in madri che avevano
vissuto esperienze di deprivazione nell’infanzia correla con lo sviluppo di uno stile
33
di attaccamento sicuro da parte del figlio (Fonagy et al., 1994), evidenziando il
ruolo protettivo assunto dalla RF. Slade e collaboratori (1999) hanno testimoniato
la trasmissione transgenerazionale dell’attaccamento confrontando la qualità del
parenting (competenza genitoriale) e la coerenza del rapporto con i figli sia in
madri con attaccamento sicuro, sia in madri con attaccamento insicuro. La
trasmissione intergenerazionale del trauma può essere moderata, e talvolta
bloccata, in funzione della capacità materna di Mentalizzare e, in particolare, di
riflettere sulle cognizioni e sui sentimenti suscitati dalla storia propria e altrui
(Bateman & Fonagy, 2006). Le persone che durante l’intervista hanno mostrato la
capacità di riflettere sugli stati mentali propri e del genitore avevano una maggiore
predisposizione a crescere figli con pattern d’attaccamento sicuro, probabilità
ricondotta all’attitudine del genitore di sostenere e incoraggiare lo sviluppo del Sé
del bambino (Fonagy et al., 1993). È interessante notare come una storia di
maltrattamenti infantili nel passato di un genitore, sebbene possa rivelarsi
predittiva di abusi perpetrati da quest’ultimo in età adulta, può volgere in diversi
esiti relazionali come dimostrato da vari studi condotti su gruppi di madri con
esperienza di abuso. La ricerca condotta da Egeland e Susman-Stillman (1996) su
madri che riferivano pregressi abusi infantili ha rilevato che le madri che sono state
in grado di interrompere il ciclo di abusi transgenerazionale mostravano una
maggiore abilità nel parlare in modo coerente, sincero e stabile della propria
esperienza di abuso, capacità che è stata messa in relazione con una più profonda
e adeguata riflessione sullo stile di accudimento adottato con i figli. Tale evidenza
empirica conferma l’ipotesi secondo cui la capacità di Mentalizzare e
l’attaccamento sicuro del genitore risultano fortemente collegate, favorendo lo
sviluppo da parte del bambino di MOI saldi e coesi, nonché di effetti positivi in
termini di attaccamento infantile sicuro (Bateman & Fonagy, 2006). Quest’ultimo,
rilevato mediante la somministrazione dell’AAI, è stato definito come predittivo
di un basso indice di sviluppo di disturbo della condotta (DC) e di comportamenti
internalizzanti ed esternalizzanti (Allen et al., 1998). Tale correlazione può essere
spiegata dagli effetti che l’attaccamento sicuro e lo sviluppo adeguato della Teoria
34
della mente producono in termini di regolazione dell’arousal fisiologico e
dell’affettività. Ne deriva che la sicurezza dell’attaccamento, favorendo
un’attivazione psicofisica adeguata, contribuirebbe ad agevolare lo sviluppo della
funzione riflessiva (Field, 1985; Kraemer, 1999; Panksepp et al., 1999). In
un’ottica di prevenzione rispetto allo sviluppo di condotte esternalizzanti è
fondamentale, durante il primo sviluppo, l’acquisizione della capacità di inibire
risposte dominanti in favore di risposte secondarie (Kochanska et al., 2000;
Rothbart et al., 2000), capacità che sembra correlata allo sviluppo di uno stile di
attaccamento sicuro nel primo anno di vita (Kochanska et al., 2000; Kochanska,
2001; Kreppner et al., 2001). La relazione d’attaccamento negli esseri umani ha
sia una funzione evolutiva di protezione nei confronti della vulnerabilità del
bambino, sia una funzione sociale favorendo la costruzione di un ambiente
emotivamente accomodante in cui si possa realizzare una comprensione sociale;
ne consegue che eventuali deficit dell’attaccamento possono incidere sulla
vulnerabilità del bambino in future situazioni di distress che, a causa della scarsa
capacità interpretativa, avrà difficoltà a sostenere (Bateman & Fonagy, 2006).
35
CAPITOLO 3
3.1 I disturbi esternalizzanti
È importante descrivere la nosografia dei disturbi esternalizzanti, specie in
riferimento alla sua evoluzione nelle diverse edizioni del DSM. Dal punto di vista
clinico questa classe di disturbi si differenzia dai disturbi internalizzanti per la
caratteristica sintomatologia connotata da una specifica incapacità nel gestire e
modulare la rabbia, esempi di tale difficoltà sono l’aggressività in ogni sua
espressione, dal suo agito fisico alla sua manifestazione verbale, comportamento
polemico, ostile e oppositivo, la mancanza di rispetto delle regole e dei principi
morali e sociali e, sebbene più marginalmente, i disturbi d’attenzione e iperattività
(Lambruschi e Muratori, 2013). I quadri clinici esternalizzanti con insorgenza
nell’età evolutiva sono stati inseriti nella nosografia psichiatrica con la seconda
edizione del DSM (DSM-II) in cui vennero descritti tre quadri psicopatologici
ciascuno dei quali definito da una peculiare condotta deviante, ovvero
comportamenti di evasione, comportamenti criminali di gruppo e, infine,
comportamenti violenti non socializzati (APA, 1968). Alla base della
classificazione proposta dal DSM-II vi è una concezione del disturbo come
unicamente “reattivo” all’ambiente di vita del soggetto, ritenuto l’unico agente
eziopatogenetico che slatentizza il disturbo. Tale prospettiva è stata revisionata
nelle diverse edizioni successive e, già a partire dalla classificazione del DSM III,
è stata proposta un’eziopatogenesi multipla in cui intervengono sia fattori
ambientali avversi sia caratteristiche proprie del bambino, intime e innate (APA,
1980). A partire da tale classificazione sono state introdotte le categorie
diagnostiche del disturbo della condotta (DC) e del disturbo oppositivo
provocatorio (DOP), quadri psicopatologici ben distinti per cui non è prevista la
possibilità di diagnosi in comorbidità (APA, 1980). Inoltre è stata proposta una
prima tipizzazione in sottocategorie nel DC, formulata sulla base dell’indole dei
36
comportamenti del bambino, con aggressività manifesta o meno, comportamenti
di marcata pericolosità aventi il fine di recare danno agli altri ignorando le
principali regole e principi sociali e morali, nonché delle sue abilità relazionali.
Questa impronta è stata seguita e sviluppata dal più recente DSM 5, in cui la
presenza di capacità empatiche e relazionali svolge un ruolo protettivo, mentre un
deficit a tale livello è indicativo di una prognosi peggiore. Il DSM-III ha proposto
l’età d’esordio sia come criterio per la distinzione nelle sottocategorie diagnostiche
sia come criterio per definire la gravità e l’outcome del disturbo: i soggetti con
insorgenza del disturbo precoce (età < 10 anni) sono ritenuti casi con prognosi più
infausta, a dispetto delle forme più tardive a insorgenza durante l’adolescenza che,
generalmente, trovano risoluzione con l’inizio della prima età adulta.
I criteri diagnostici del DSM-II per la diagnosi di DOP richiedevano la presenza,
negli ultimi 6 mesi, di almeno due sintomi tra quelli proposti, come infrangere le
norme di minore rilievo, comportamenti marcatamente polemici, esagerata
testardaggine, crisi di rabbia e condotte provocatorie, con compromissione del
funzionamento nell’ambito scolastico e sociale (APA, 1968).
La classificazione proposta dal DSM-IV (APA, 2000) distingue tre quadri
psicopatologici dei Disturbi del Comportamento Dirompente (DCD), quali:
Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP)
Disturbo della Condotta (DC)
Disturbo con deficit d’attenzione con iperattività (ADHD)
3.1.1 Il disturbo Oppositivo-Provocatorio (DOP)
I criteri diagnostici proposti dal DSM-IV (APA, 1995) e dal DSM-IV-TR (APA,
2000) per il DOP prevedono:
1. Una modalità di comportamento negativistico, ostile e provocatorio che
dura da almeno sei mesi durante i quali sono stati presenti quattro (o più)
dei seguenti:
37
a. Spesso va in collera
b. Spesso litiga con gli adulti
c. Spesso sfida attivamente o si rifiuta di rispettare le richieste o le regole degli
adulti
d. Spesso irrita deliberatamente le persone
e. Spesso accusa gli altri per i propri errori o il proprio cattivo comportamento
f. È spesso suscettibile o facilmente irritato dagli altri
g. È spesso arrabbiato e rancoroso
h. È spesso dispetto e vendicativo
Nota. Considerare soddisfatto un criterio, solo se il comportamento si manifesta
più frequentemente rispetto a quanto si osserva tipicamente in soggetti
paragonabili per età e livello di sviluppo.
2. L’anomalia del comportamento causa compromissione clinicamente
significativa del funzionamento sociale, scolastico o lavorativo
3. I comportamenti non si manifestano esclusivamente durante il decorso di
un disturbo psicotico o di un disturbo dell’umore
4. Non sono soddisfatti i criteri per il disturbo della condotta e se il soggetto
ha 18 anni o più non risultano soddisfatti i criteri per il disturbo antisociale
di personalità.
3.1.2 Il disturbo della condotta (DC)
I criteri diagnostici proposti dal DSM-IV TR (APA, 2000) per il DC comprendono:
1. Una modalità di comportamento ripetitiva e persistente in cui i diritti
fondamentali degli altri o le principali norme o regole societarie appropriate
per l’età vengono violati, come manifestato dalla presenza di tre o più dei
38
seguenti criteri nei 12 mesi precedenti con almeno un criterio presente negli
ultimi 6 mesi:
Aggressioni a persone o animali:
a. Spesso fa il prepotente, minaccia o intimorisce gli altri;
b. Spesso dà inizio a colluttazioni fisiche;
c. Ha usato un’arma che può causare seri danni fisici ad altri (per esempio, un
bastone, una barra, una bottiglia rotta, etc.);
d. È stato fisicamente crudele con le persone;
e. È stato fisicamente crudele con gli animali;
f. Ha rubato affrontando la vittima (per esempio, aggressione, scippo,
estorsione, rapina a mano armata);
g. Ha forzato qualcuno ad attività sessuali.
Distruzione della proprietà:
a. Ha deliberatamente appiccato il fuoco con l’intenzione di causare seri
danni;
b. Ha deliberatamente distrutto proprietà altrui in modo diverso dall’appiccare
il fuoco.
Frode o furto:
a. È penetrato in un edifico, un domicilio o un’automobile altrui;
b. Spesso mente per ottenere vantaggi o favori o per evitare obblighi (cioè
raggira gli altri);
c. Ha rubato articoli di valore senza affrontare la vittima (per esempio, furto
nei negozi, ma senza scasso; falsificazioni).
Gravi violazioni di regole:
a. Spesso trascorre fuori la notte nonostante le proibizioni dei genitori, con
inizio prima dei 13 anni di età;
b. È fuggito da casa di notte almeno 2 volte mentre viveva a casa dei genitori
o di chi ne faceva le veci (o una volta senza ritornare per un lungo periodo);
c. Marina spesso la scuola, con inizio prima dei 13 anni di età.
39
2. L’anomalia del comportamento causa compromissione clinicamente
significativa del funzionamento sociale, scolastico o lavorativo.
3. Se il soggetto ha 18 anni o più, non sono soddisfatti i criteri per il disturbo
antisociale di personalità.
3.2 I disturbi esternalizzanti secondo la prospettiva del DSM 5
Nell’ultima edizione del DSM (APA, 2013) la diagnosi di Disturbo della Condotta
(DC) e di Disturbo Oppositivo-Provocatorio (DOP) non è più limitata alla
presenza di indici sintomatologici dicotomici, in cui i sintomi sono presenti o
meno, ma richiede la valutazione della compromissione della qualità di vita del
soggetto. La nuova impostazione teorica segue un approccio dimensionale
(Hudziak et al., 2007), che rende possibile la valutazione del grado di intensità del
sintomo (Kraemer, 2007) e una prospettiva evolutiva, che conferisce notevole
rilevanza all’età di esordio del disturbo.
La diagnosi di DC non costituisce più un criterio di esclusione per proporre
diagnosi di DOP, in accordo a diversi studi che hanno dimostrato il valore
predittivo e prognostico del DOP per lo sviluppo di un DC (Burke, Walman,
Lahey, 2010). La classificazione dei disturbi esternalizzanti, precedentemente
raggruppati nei Disturbi da Comportamento Dirompente (DCD) (DSM-IV), è
stata riformulata e concettualizzata in diverse categorie. Il disturbo da deficit
d’attenzione e iperattività (ADHD) è stato inserito all’interno dei Disturbi del
Neurosviluppo; il DOP e il DC rientrano nella nuova categoria dei Disturbi
Dirompenti, del Controllo degli Impulsi e della Condotta (APA, 2013).
La diagnosi di ADHD è stata inserita nei Disturbi del Neurosviluppo perché
specificatamente caratterizzata da deficit di natura neuropsicologica responsabili
di un anormale sviluppo cognitivo con disfunzione delle capacità attentive ed
esecutive ed esordio precoce (< 12 anni); nel 50% dei casi si assiste a una completa
risoluzione del quadro clinico in età adulta, mentre nei casi in cui sia presente
40
familiarità per il disturbo e/o comorbidità (spesso con il DC) è frequente la
cronicizzazione (APA, 2013).
La recente categoria dei Disturbi dirompenti, del Controllo degli Impulsi e della
Condotta comprende otto distinti quadri clinici (APA, 2013):
Disturbo oppositivo-provocatorio;
Disturbo esplosivo intermittente;
Disturbo della condotta;
Disturbo di personalità antisociale;
Piromania;
Cleptomania;
Disturbo da comportamento dirompente, del controllo degli impulsi e della
condotta con altra specificazione;
Disturbo da comportamento dirompente, del controllo degli impulsi e della
condotta senza specificazione.
Questa categoria raggruppa i disturbi caratterizzati dalla presenza di
compromissione dell’autoregolazione e da comportamenti dirompenti, antisociali
e aggressivi.
Nel passaggio dal DSM-IV al DSM 5 gli specifici criteri diagnostici del DC e del
DOP hanno subito minime variazioni. I descrittori diagnostici del criterio A del
DOP sono stati divisi in tre cluster: “Umore collerico/irritabile”, “Comportamento
polemico/provocatorio” e “Vendicatività”; e sono stati aggiunti alcuni
specificatori in riferimento alla manifestazione del comportamento problematico
nel tempo (Black, Grant, 2015):
Per i bambini di età inferiore ai 5 anni, il comportamento dovrebbe
verificarsi quasi tutti i giorni per un periodo di almeno 6 mesi;
Per gli individui di 5 anni o maggiori, il comportamento dovrebbe
verificarsi almeno una volta alla settimana per almeno sei mesi.
Viena data rilevanza anche al grado di intensità con cui si manifestano i
comportamenti problematici, collocabile al di sopra o al di sotto della norma. Tra
41
le sottotipizzazioni del disturbo è invariata la distinzione per età d’esordio (“Tipo
con esordio nell’infanzia”; “Tipo con esordio nell’adolescenza”; “Esordio non
specificato”). È stato introdotto lo specificatore “con emozioni prosociali limitate”,
indicatore della presenza di tratti Callous Unemotional (CU) (Black, Grant, 2015).
Questo criterio ha reso più fine la diagnosi di DC e permette di caratterizzare la
casistica in cui il Disturbo della Condotta si associa alla presenza di tratti CU,
considerati i corrispettivi infantili della psicopatia in età adulta. Si assegna tale
specificatore ai soggetti che:
a) Non provano rimorso o senso di colpa dopo aver compiuto atti dissociali e
violenti (escludendo il rimorso mostrato dall’individuo in caso di arresto
e/o punizione);
b) Sono indifferenti e dispregianti rispetto i sentimenti altrui, risultando freddi
e poco empatici agli occhi degli altri. Si preoccupano maggiormente delle
ripercussioni che le azioni hanno su di loro e non su gli altri;
c) Non mostrano preoccupazione per le scarse prestazioni a scuola, lavoro o
altre attività. Non si impegnano adeguatamente per le attività svolte ed
incolpano gli altri dei loro risultati;
d) Sono anaffettivi evitando di esprimere emozioni verso gli altri o lo fanno in
maniera superficiale. Usano l’emotività come strumento per manipolare o
intimidire.
Le relazioni dei soggetti con DC e CU sono disfunzionali, strumentali e
manipolative. Il criterio C permette la possibilità di diagnosticare il DC anche in
soggetti con più di 18 anni
Sebbene il criterio C abbia permesso di diagnosticare il DC anche superati i 18
anni, l’intento del DSM-5 era quello di illustrare una sindrome comportamentale
infantile che raffigurasse il precursore del disturbo antisociale di personalità
(Black, Grant, 2015).
42
3.3 Prospettive eziopatogenetiche multifattoriali
3.3.1 Le variabili neurobiologiche
Il ventaglio delle ipotesi eziopatogenetiche permette di ricostruire, tassello dopo
tassello, le concause del disturbo della condotta (DC) e del disturbo oppositivo-
provocatorio (DOP). Partendo da fattori neurobiologici la letteratura è colma di
ricerche interessanti, che con il tempo hanno delineato peculiari profili genetici
neurobiologici. Sempre più conferma è stata data al coinvolgimento del
polimorfismo del gene 5-HTTLPR associato alle manifestazioni più calcolate e
distaccate dell’aggressività. Questo gene media una ridotta attività dell’amigdala
ma la sua riverberazione sui comportamenti devianti sarebbe notevolmente
maggiore nei casi di soggetti provenienti da un contesto socio-economico
sfavorevole (Sadeh et al. 2010). Un altro polimorfismo trovato è quello del gene
coinvolto nella modulazione della produzione dell’enzima Monoamina Ossidasi A
(MAOA) che a sua volta sembra coinvolto nella modulazione della serotonina. La
relazione tra la sua presenza e l’espressione di comportamenti violenti e patologici
nei bambini e negli adolescenti sembra essere maggiormente supportata dalla
presenza di uno sfondo familiare caratterizzato da maltrattamento (Caspi et al.,
2002). Oltre a studi sulla genetica molecolare, l’attenzione è stata riportata anche
sull’attività funzionale cerebrale attraverso l’utilizzo di metodiche come la
risonanza magnetica funzionale. Ciò che hanno mostrato è una ridotta attività della
corteccia prefrontale ventro-mediale nei soggetti con disturbo della condotta. Tale
riduzione sembra rappresentare una possibile spiegazione dell’errore di previsione
delle conseguenze associate alle nostre azioni. Questa scarsa attività non viene
ritrovata nei soggetti con tratti Calloso Anemozionali (CU), avvalorando la tesi
della ridotta sensibilità e attenzione che questi soggetti hanno per la punizione
(Viding, McCrory, 2012). Mediante la stessa fMRI sono state condotte altre
ricerche che si sono concentrate sull’attività dell’amigdala. L’iperattivazione di
43
quest’ultima è stata evidenziata in bambini con DCD, mentre la stessa diagnosi
associata a tratti CU ha prodotto un risultato opposto, nonché un esiguo
funzionamento dell’amigdala (Sebastian et al., 2012). Pertanto risulta confermata
l’influenza di una vulnerabilità neurobiologica nelle difficoltà di auto-
modulazione e, di conseguenza, nell’evoluzione di disturbi esternalizzanti.
Un’interessante linea di ricerca ha studiato, in bambini con diagnosi di DCD,
l’attitudine a riconoscere le espressioni emotive del volto altrui con particolare
attenzione alla paura, considerata il principale input relazionale che può portare
all’interruzione degli agiti aggressivi se riconosciuta sul volto dell’altro. I soggetti
con DCD e tratti CU hanno difficoltà a discernere e individuare il volto spaventato
nell’altro, difficoltà sostenuta da una forte base neurobiologica (Sylvers, Brennan,
Lilienfeld, 2011). Successivi studi, che hanno riconosciuto l’importanza di tale
evidenza, hanno scoperto che il deficit di questi soggetti può essere, in parte,
normalizzato chiedendo loro di guardare l’area degli occhi delle figure presentate
(Dadds, Rhodes, 2008), suggerendo l’idea che la difficoltà a mantenere il contatto
oculare sottenda la problematica di riconoscere le diverse tonalità affettive nei volti
degli altri. Tali evidenze creano il link con la relazione d’attaccamento, nella quale
lo sguardo è uno dei promotori della trasmissione di affetti e pensieri, fin dai primi
attimi di vita, nella diade genitore bambino. Il successivo sviluppo morale del
bambino si fonda sulla costanza e sull’interazione partecipata a tale contatto
oculare (Trentacosta et al., 2001).
44
3.3.2. Parenting
La letteratura ha messo in evidenza il ruolo dello stile genitoriale nello sviluppo
dei disturbi esternalizzanti. In particolare, la presenza di Disturbi da
Comportamento Dirompente (DCD) è in forte relazione a caratteristici quadri
familiari, nonché alla presenza di psicopatologia genitoriale. Un contesto familiare
caratterizzato dalla presenza di sintomi depressivi nella madre e un disturbo di
personalità antisociale nel padre costituisce un importante fattore di rischio per lo
sviluppo di DC nel bambino (Pfiffner et al., 2005). La psicopatologia genitoriale,
come nei casi di alterazione dell’umore e abuso di sostanze psicoattive, sembra
predisporre all’insorgenza del DC piuttosto che del DOP.
Le metodologie educative instabili ed inefficaci sono correlate all’insorgenza e al
mantenimento del DOP (Keown, 2012). Il disturbo mentale del genitore correla
con le condotte devianti del bambino e influisce sui sentimenti che il genitore nutre
nei confronti del figlio che viene percepito come inadeguato e inetto. Uno studio
condotto da Querido, Bearss e Eyberg (2002) ha riportato che le madri con un
disturbo depressivo tendono ad avere un’immagine distorta del comportamento del
loro bambino nei periodi di marcata flessione del tono dell’umore. L’alterata
percezione genitoriale del comportamento dei figli si associa a una visione
negativa stabile della personalità del bambino, che a sua volta conduce
all’adozione di tecniche educative dure e coercitive basate sul controllo, che
determinano un inasprimento e mantenimento delle condotte oppositive e
aggressive in età scolare, creando in questo modo un circolo vizioso (Nix et al.,
1999). Queste interazioni relazionali sfociano in una mancanza di coinvolgimento
da parte del genitore con il figlio, evidenza che è stata correlata alla difficoltà di
socializzazione del bambino con i pari. Si ritiene che le difficoltà nello sviluppo
psicosociale del bambino siano, almeno in parte, conseguenza della scarsa
possibilità di apprendere modalità positive e costruttive di interazione nella
45
dinamica relazionale poco coinvolgente con il genitore (Trentacosta et al., 2011).
Pertanto la letteratura è concorde nel ritenere i metodi educativi rigidi e violenti
importanti fattori di rischio per lo sviluppo di comportamenti aggressivi-reattivi
(Frick, Viding, 2009).
Un fattore di rischio aggiuntivo in età adolescenziale è rappresentato
dall’appartenenza a gruppi di coetanei dissociali (Lochman, Wells, 2002a).
Il parenting è influenzato anche da variabili ecologiche, come il contesto socio-
economico e il background culturale delle famiglie. I contesti familiari di bambini
con DC e DOP presentano, molto frequentemente, un basso livello socio-
economico e un grado più basso di scolarizzazione, entrambe condizioni influenti
sulla quantità di stress percepita dal genitore e, in generale, sul distress familiare.
Il fattore “stress” gioca in questi casi un ruolo importante dal momento che il
genitore con alti livelli di stress non è capace di riconoscere l’influenza che i propri
stati emotivi hanno sulle manifestazioni comportamentali del figlio (Peters, Calam,
Harrington, 2005) e mostrano una maggiore difficoltà a interpretare le sue
intenzioni e i suoi stati mentali ed emotivi (Waters et al., 2010).
3.3.3 I tratti Callous Unemotional: eziopatogenesi
La presenza di tratti Callous Unemotional (CU) si associa a prognosi peggiori sia
in età evolutiva sia nell’età adulta. È stato evidenziato che soggetti con DC e CU
hanno un esito più sfavorevole e un’esigua risposta ai trattamenti evidence-based
rispetto ai soggetti senza CU (Frick, 2012).
I soggetti con diagnosi di DC o DOP e tratti di personalità CU sono contraddistinti
da comportamenti manipolatori, indifferenza affettiva verso Sé e gli altri e
manifestazioni di distacco e indifferenza per i sentimenti altrui, caratteristiche che
richiamano i sintomi tipici del disturbo di personalità antisociale. In letteratura
sono state proposte due differenti ipotesi circa l’eziopatogenesi di tali tratti di
personalità. La prima ipotesi sostiene la componente ereditaria del disturbo;
46
notevoli studi hanno suffragato tale ipotesi dimostrando l’alta influenza della
predisposizione genetica, la quale ammonta al 78% (Viding, Frick, Plomin, 2007).
La seconda ipotesi sostiene la forte influenza della componente ambientale alla
base del disturbo; alcuni studi hanno evidenziato una forte correlazione tra i tratti
CU e esperienze di deprivazione precoci e ripetute (Kumsta, Sonuga-Barke,
Rutter, 2012) con un ambiente familiare fortemente caotico in età prescolare, ad
esempio incoerenza del contesto abitativo, frequenti cambiamenti di caregiver
(Fontaine, Moffitt, Viding, 2011).
In quest’ottica l’apprendimento sociale (Bandura, 1967), ovvero l’apprendimento
di comportamenti mediato dall’esempio offerto dal contesto familiare, consente al
bambino di apprendere schemi di comportamento non congrui, caratterizzati da
aggressività e confacenti al raggiungimento dei propri obiettivi.
La ricerca condotta da Bohlin e collaboratori (2012) ha riscontrato una
correlazione fra lo stile di attaccamento disorganizzato e lo sviluppo di tratti CU.
La disorganizzazione dell’attaccamento può derivare sia da processi cognitivi nel
bambino sia da un atteggiamento genitoriale contraddistinto da mancanza di
attenzione e controllo verso i figli (Hawes et al., 2011).
3.3.4 Relazioni d’attaccamento e aggressività
Un interessante studio longitudinale sostiene il ruolo della relazione
d’attaccamento come catalizzatore atto a esacerbare differenti traiettorie di
sviluppo, comprese quelle di comportamenti violenti (Kochanska e Kim, 2012).
Nelle diadi insicure il comportamento privo di moderazione del bambino viene
stimolato dai metodi educativi coercitivi e controllanti della madre che cerca in
questo modo di affermare il suo potere. Differentemente, nelle coppie sicure, al
medesimo comportamento del bambino avremo nella madre una risposta
responsiva e non improntata alla coercizione. Sono proprio questi primi scambi
interattivi nella diade madre-bambino che possono definire i cicli comportamentali
47
incongruenti tipici nei DCD. Uno studio pioneristico di Bowlby (1944) ha
analizzato le peculiarità psicologiche di 44 soggetti delinquenti e delle loro storie
familiari e ha rilevato, in un quarto dei soggetti, racconti di separazioni precoci dai
genitori e caratteristiche “anaffettive” correlate in 12 casi su 14 totali a profonde
mancanze di cure materne. È stato anche evidenziato che lo stile d’attaccamento
disfunzionale, se isolato, può non esacerbare la psicopatologia esternalizzante
(Lambruschi, Muratori, 2013). Numerose ricerche empiriche hanno messo in
evidenza una marcata correlazione fra specifico stile d’attaccamento deviante e il
corrispondente esito psicopatologico:
l’attaccamento sicuro svolge il ruolo di fattore protettivo;
l’attaccamento insicuro-evitante correla con successivi problemi
esternalizzanti;
l’attaccamento insicuro-ambivalente mostra una relazione con i disturbi
internalizzanti; (Egeland, Sroufe, 1981; Sroufe, 1983; Erickson, Sroufe,
Egeland, 1985).
l’attaccamento disorganizzato è risultato fortemente correlato con disturbi
esternalizzanti, in particolare con i disturbi della condotta (Lyons-Ruth et
al., 1989; Shaw, Vondra, 1995; Shaw et al., 1997).
Tali studi hanno evidenziato che un singolo fattore predisponente (attaccamento e
temperamento) non determina manifestazioni aggressive al di sopra della norma;
in caso contrario la combinazione dei due fattori colloca tali bambini al 99°
percentile per i livelli di aggressività (Lambruschi, Muratori, 2013).
48
CAPITOLO 4
4.1 Il ruolo della Mentalizzazione
I disturbi esternalizzanti (DOP e DC) si contraddistinguono per peculiari
caratteristiche cliniche come l’ipocontrollo comportamentale e alcune
distorsioni cognitive, fra cui un deficit nella capacità di focalizzare l’attenzione
su più segnali sociali durante l’interazione con gli altri, percepiti come ostili
(Dodge, Newman, 1981; Dodge et al., 1986; Gouze, 1987; Lochman, 1989;
Milich, Dodge, 1984). In quest’ottica la continua deformazione nella
percezione, nell’interpretazione e nella codifica degli indizi ambientali sono
ritenuti “il risultato autoprotettivo delle loro interazioni primarie con un
ambiente sociale percepito come insicuro, inconsistente o addirittura
minacciante” (Lambruschi, Muratori, 2013 p. 71). Il comportamento assunto
nei confronti dell’ambiente circostante è improntato all’ipervigilanza e
l’attenzione è orientata agli stimoli minacciosi, questo fa sì che il bambino non
impieghi strategie cognitive più complesse di tipo inferenziale per comprende
il comportamento altrui e l’ambiente. A tal proposito Fonagy e collaboratori
(1991; 1993; 1996; 2008) hanno ipotizzato che i comportamenti violenti
possano essere ricondotti a difficoltà metacognitive. La Mentalizzazione è
considerata in stretta relazione con la base dell’attaccamento da cui è possibile
comprendere la sostanziale connessione fra lo sviluppo della funzione
riflessiva e l’opportunità di esplorare la mente del proprio caregiver all’interno
della relazione primaria. Ne consegue che la Mentalizzazione della Figura di
Attaccamento (FdA) ha un ruolo cruciale, e le conseguenze in una condizione
di carenza possono non permettere al genitore di comprendere gesti di
affermazione del Sé del bambino (Fonagy, 1991; Fonagy, Moran, Target, 1993;
Fonagy, Target, 1996; Allen, Fonagy, 2008). L’autore chiarisce il concetto
mediante un esempio in cui un bambino compie un gesto di affermazione del
49
Sé che, non capito, viene confuso per un’azione violenta e distruttiva (Fonagy,
Moran, Target, 1993, p. 232). A volte un comportamento apparentemente
aggressivo cela uno scopo, diverso da quello del fare del male, di affermazione
del proprio Sé, alcuni esempi sono la perseveranza di un’azione o il
raggiungimento di un obiettivo. I genitori che mostrano una carente funzione
riflessiva e una conseguente difficoltà nell’interpretare correttamente i
comportamenti del figlio saranno più inclini a fraintendere l’espressione del Sé
infantile con l’aggressività, tanto da condurre il bambino a sovrapporre i due
stati mentali e, in un futuro, provare piacere negli agiti violenti (Baldoni, 2005).
La disorganizzazione dell’attaccamento è caratterizzata da elevati livelli di
invasività e aggressività genitoriale nei confronti del bambino che possono
condurlo a manifestare atteggiamenti ipervigili nei confronti del
comportamento del genitore (da cui deve proteggersi) e un’incapacità a
mentalizzare l’immagine del genitore incostante e spaventante. Questa
modalità di funzionamento infantile è sostenuta dall’assunto che l’ipotetica
comprensione da parte del bambino degli stati mentali del caregiver
spaventante lo costringerebbe a confrontarsi con rappresentazioni e immagini
estremamente dolorose connotate da odio, indifferenza e cattiveria. Pertanto,
queste condizioni sono ritenute un terreno fertile per lo sviluppo di gravi deficit
metacognitivi e ne deriva che il conteso disfunzionale in cui è inserito il
bambino non gli permette di utilizzare in modo funzionale la Mentalizzazione
ma piuttosto favorisce la messa in atto di script autoprottetivi, semplici e
automatici, quali i comportamenti violenti (Lambruschi, Muratori, 2013).
50
4.2 Reflective-Functioning Manual
Il Reflective-Functioning Manual (Fonagy et al., 1998) è il manuale per la
valutazione della Funzione riflessiva applicabile all’intervista semi-strutturata
Adult Attachment Interview (AAI- George, Kaplan e Main 1985; Main,
Goldwin e Hesse2002). Mediante i parametri di questo manuale è possibile
estrapolare la stima qualitativa della funzione riflessiva del soggetto
intervistato, nel nostro caso delle madri. Lo scoring di questa misura ha inizio
dalle narrazioni riportate in forma scritta dell’AAI.
Gli autori del manuale propongono la suddivisione delle domande dell’AAI in:
permit questions e demand questions. La prima categoria di domande permette
al soggetto di dimostrare la propria capacità di riflessione circa i propri stati
mentali e quelli altrui; non vanno, quindi, intese come domande espressamente
rivolte a indagare la funzione riflessiva. Una narrazione non riflessiva a tali
quesiti, pertanto, non influisce in modo considerevole sul punteggio finale ma
un suo elevato valore evidenzia la naturale propensione dell’individuo a
ragionare e riflettere sulle motivazioni che scatenano i comportamenti. La
seconda categoria è costituita da un insieme di domande che richiedono
l’esercitazione della funzione riflessiva dell’intervistato, quindi sollecitano le
riflessioni in termini di stati mentali come esemplificato da questa domanda
dell’AAI:
- “Secondo lei perché i suoi genitori si sono comportati così come si sono
comportati, quando lei era bambino?”.
Al di là di quest’ultimo set prestabilito di domande è possibile formularne altre
all’interno del colloquio, nel caso in cui una prima sollecitazione non sia stata
utile, caratterizzate dal medesimo scopo delle demand questions, ovvero
incitare risposte cariche di pensieri riflessivi come per la domanda: “e perché
pensa che loro hanno fatto questo?”.
Nel manuale vengono riportati i marker di riflessività (medio/alta o bassa) da
individuare nell’intervista del soggetto in sede di valutazione. È consigliato
51
evidenziare i termini che possono rimandare a stati mentali (ad esempio
“penso”, “credo”, “ricordo”, “sono triste”), quelli che rimandano al rifiuto di
pensare in termini mentalistici e termini come “sempre” e “mai”, riconosciuti
come indici di un basso funzionamento riflessivo.
Nel manuale vengono indicati i criteri su cui basarsi per assegnare, ad ogni
risposta, il corrispondente punteggio che viene stabilito su una scala che va da
-1 a +9, con parziale esclusione dei numeri pari. Il punteggio è assegnato in
base al grado di funzione riflessiva caratteristico del brano:
• Risposte contraddistinte da ostilità e/o evasività e caratterizzate da funzione
riflessiva assente, non integrata, bizzarra e impropria vengono racchiuse nella
categoria della FUNZIONE RIFLESSIVA NEGATIVA con punteggio -1;
• Risposte che mostrano diniego, tendenza alla generalizzazione e
egocentrismo rientrano nella categoria dell’ASSENZA DI FUNZIONE
RIFLESSIVA a cui viene assegnato il punteggio di 1;
• Brani ingenui, banali e iperanalitici costituiscono la categoria con
FUNZIONE RIFLESSIVA DUBBIA O BASSA a cui viene assegnato il
punteggio 3;
• Riferimenti chiari ed espliciti alla qualità degli stati mentali rimandano alla
categoria della FUNZIONE RIFLESSIVA CHIARA O COMUNE, il cui
punteggio è 5;
• Interviste che contengono un’elaborazione completa, personale e una presa
di coscienza dei nessi causali tra pensieri, emozioni e azioni rientrano nella
classe della FUNZIONE RIFLESSIVA NOTEVOLE con punteggio 7;
• Un elevato livello di insight delle elaborazioni e una loro eccezionale
capacità riflessiva sia quantitativamente che qualitativamente caratterizza la
categoria di FUNZIONE RIFLESSIVA ECCEZIONALE il cui valore è 9.
Nel manuale sono riportati alcuni aneddoti estrapolati da interviste per
esemplificare la comprensione delle caratteristiche di ogni classe.
L’ostilità che contraddistingue la prima categoria può essere espressa verbalmente
(ad esempio, “Come crede che possa saperlo? Me lo dica lei che è psicologo!”) o
52
in maniera non verbale attraverso strumenti come il silenzio o atteggiamenti
distraenti (Merelli et al., 2012). A questa categoria sono assegnati anche
spiegazioni, al contrario, eloquenti ma bizzarre, prive di un filo logico (ad esempio,
Intervistata: “Hanno risentito in modo eccessivo dell'influenza dei mass media,
particolarmente della televisione”. Intervistatore: “Mi può dire qualcosa di più su
questo punto?”. Intervistata: “II canale commerciale è cominciato giusto quando
avevo quattro anni e mezzo!”) (Amedei et al., 1998).
Quando la funzione riflessiva è assente ma non disconosciuta (punteggio 1) sono
presenti nell’intervista generalizzazioni, che evitano di approfondire una storia
personale, comportamenti di diniego, caratterizzati da rifiuto senza ostilità (per
esempio risposte come: “Non so, non saprei proprio dirlo”), spiegazioni concrete
volte ad accentuare le attribuzioni esterne, e una condizione di distorsione al
servizio del Sé caratterizzata da ricordi altamente egocentrici come esemplificato
da questa narrazione fornita dal manuale: “Mi ricordo di una volta che i miei sono
usciti per passare fuori la serata e come al solito ero molto sconvolta per il fatto
che mi lasciassero sola e sono andata avanti a piangere e piangere. Loro sono
ritornati indietro in fretta... qualcosa come venti minuti... mia madre ha detto che
la macchina aveva avuto un guasto lungo il viottolo e che l'avevano dovuta
lasciare lì, come effettivamente hanno fatto, ma credo che semplicemente non
volessero lasciarmi da sola e che abbiano messo su tutta questa farsa... di far
riparare l'auto e tutto il resto...”. Intervistatore: “Cosa le fa pensare che sia stato
per lei e non per l'auto?”. Intervistata: “Lo so e basta. E mi ricordo di averlo
pensato allora”.
Nella tipizzazione caratterizzata da funzione riflessiva bassa o dubbia (valore 3),
le risposte ingenue o semplicistiche non considerano la natura mista e
contraddittoria degli stati mentali, contraddistinti, in questo caso, da un’unica
dimensione. Le risposte sono risposte tendenzialmente superficiali e inquadrate in
una visione dicotomica come mostrato nel seguente esempio: “Mio padre non si
faceva mai vedere, non se ne curava e non era mai a disposizione, mentre mia
madre si prendeva sempre cura ed era tutta per noi”. A questa stessa categoria
53
appartengono le banalizzazioni con la tendenza all’uso di frasi stereotipate (ad
esempio, “Tutti i genitori vogliono il meglio per i loro figli”) e le
intellettualizzazioni e le pseudo-mentalizzazioni, (un esempio è Intervistatore:
“Direbbe che la sua infanzia abbia avuto molta influenza su chi lei è oggi?”.
Intervistato: “Ecco, è difficile rispondere a questo perché, sa, allevato nel contesto
socioculturale in cui si è, mm, sa, lo si assorbe quasi appena si impara a leggere,
che il bambino è il padre dell'uomo, e tutto quanto... Chi era? Wordsworth, non è
vero?”. Sebbene sia presente un linguaggio riflessivo, tale categoria è considerata
borderline in quanto emerge una carenza di specificazioni per cui il discorso risulta
banale e superficiale. Nel punteggio successivo, la funzione riflessiva chiara o
comune viene identificata per la presenza di riferimenti espliciti alla qualità degli
stati mentali. Infine, i punteggi 7 e 9 sono assegnati ad elaborati contraddistinti da
una evidente e completa funzione riflessiva, manifestata dalla completezza delle
risposte, dalla complessità del loro contenuto, dalla molteplicità di stati mentali
emersi e dalla consapevolezza dell’influenza da questi esercitata. Il punteggio più
alto può essere assegnato se il testo, oltre ad avere le caratteristiche sopracitate,
risulta agli occhi del valutatore marcatamente più profondo, tanto da suscitare
sorpresa per l’eccezionale capacità riflessiva.
Al termine, il valutatore sarà impegnato ad assegnare un punteggio globale (global
rating) all’intervista. Tale operazione risulta tutt’altro che semplice, a causa anche
del possibile numero infinito di combinazioni che possono caratterizzare un
colloquio. Viene dedotto che non esiste una formula per giungere al punteggio
globale, piuttosto il valutatore deve considerare l'intervista nel suo complesso,
accanto alle valutazioni dei singoli passaggi. Non deve essere eseguita una media
aritmetica dei punteggi assegnati ai passaggi fondamentali. Anche se il manuale
fornisce semplici regole su cui basarsi per l’assegnazione del punteggio globale
per l’intervista, queste non devono essere utilizzate alla cieca e deve essere presa
in considerazione l’impressione del valutatore circa l’intera intervista. Per esempio
un colloquio può contenere esempi eclatanti di Funzione Riflessiva negativa e allo
stesso tempo contenere uno o due esempi di marcata Funzione Riflessiva. In tal
54
caso, il valutatore dovrà decidere a quale categoria assegnare l’intera intervista, se
al global rating 1 o 3, valutando nella sua interezza l’intervista come Funzione
Riflessiva assente (1) o bassa/dubbia (3). A volte il valutatore potrebbe non essere
in grado di decidere tra categorie adiacenti e, per questo motivo, le classificazioni
sono ancorate a numeri dispari: quando il valutatore è fiducioso che una particolare
trascrizione cada tra due classi, può essere assegnato il numero pari tra le classi per
il global rating.
Nella popolazione generale, classi come la FR negativa, la FR eccezionale, la FR
notevole e la FR assente tendono a manifestarsi raramente, in contrapposizione
alle classi di FR dubbia e FR comune che si esprimono usualmente in un campione
di soggetti normali (Merelli et al., 2012).
L’analisi dello scoring, che risulta tutt’altro che veloce, rappresenta uno dei primi
limiti di questa scala. La somministrazione dell’intervista, la sua registrazione e la
trascrizione in forma scritta su cui successivamente svolgere lo scoring richiede
del tempo, tale da rendere difficoltoso l’utilizzo di questo metodo d’indagine su
campioni molto ampi (Merelli et al., 2012). In aggiunta a questo limite sono
presenti le variabili operatore-dipendente, come in qualsiasi test, ma in tal caso di
maggiore rilevanza per la possibilità dell’operatore di interpretare in modo erroneo
la funzione riflessiva, sovra-stimandola o sotto-stimandola. Inoltre, il singolo
punteggio fornito dalla scala di misura è limitante per la comprensione del
costrutto complesso e multidimensionale preso in esame, evidenziando la difficoltà
di misurazione della funzione riflessiva. Considerati questi aspetti, infine, la
capacità di Mentalizzazione è giudicata fluttuante e incostante sulla base dei suoi
correlati neurali, altamente influenzati da condizioni di stress acute e croniche
(Merelli et al., 2012).
55
CAPITOLO 5
5.1 Lo studio clinico
Nel panorama della psicopatologia infantile, e in particolare dei disturbi del
comportamento dirompente, la letteratura si è particolarmente interessata al
ruolo eziopatogenetico esercitato da alcune variabili come la predisposizione
genetica (familiarità) e le caratteristiche biologiche del soggetto, la relazione
d’attaccamento con il caregiver e le caratteristiche personologiche di
quest’ultimo. Una ricerca di Taubner e collaboratori (2013) ha evidenziato una
forte correlazione tra la carente qualità di funzione riflessiva e la presenza di
comportamento aggressivo e tratti di psicopatia in un campione di adolescenti.
Questi risultati supportano l’ipotesi per cui la Mentalizzazione dell’adolescente
sia un fattore protettivo per l’espressione di agiti aggressivi, anche nei casi in
cui sia certificata la presenza di tratti psicopatici. Dunque è possibile prendere
in considerazione, per ricerche future, l’applicazione di trattamenti basati sulla
Mentalizzazione nelle popolazioni cliniche con problemi esternalizzanti. Tali
trattamenti si ipotizza possano inibire o eliminare del tutto i comportamenti
aggressivi, sebbene possano rivelarsi meno efficaci per i tratti psicopatici alla
base (Taubner et al., 2013). Un campo non ancora esplorato è quello
dell’influenza esercitata dalla capacità riflessiva della Figura d’Attaccamento
(FdA). Come evidenziato in letteratura, l’interesse per l’indagine del rapporto
fra la qualità della funzione riflessiva della FdA e i disturbi esternalizzanti
nasce dalla correlazione riportata tra questa classe di disturbi e lo stile
d’attaccamento della diade, base da cui si sviluppa e dipende la qualità della
funzione riflessiva.
Questo studio-pilota ha adottato una prospettiva maggiormente dimensionale e
qualitativa volta ad indagare la possibile correlazione tra la qualità della
funzione riflessiva materna fruita e la gravità dei disturbi esternalizzanti, in
56
termini di gravità comportamentali e in presenza di gravi tratti calloso-
anemozionali.
5.1.1 I partecipanti
Lo studio-pilota ha indagato un campione complessivo di 15 diadi, reclutati
all’interno del servizio “Al di là delle nuvole” utenti del gruppo terapeutico
“Coping Power Program”, presso la IRCCS Fondazione Stella Maris.
Il campione è costituito da 15 diadi madre-bambino, cosi suddiviso:
Gruppo sperimentale (N=15) di bambini in età scolare compresa fra 8 e
11 anni con psicopatologia di tipo esternalizzante, nello specifico
diagnosi di Disturbo della Condotta (DC) e Disturbo Oppositivo-
Provocatorio (DOP), di cui (N) DC e (N) DOP;
Gruppo sperimentale (N=15) di soggetti in età adulta (madri), senza
psicopatologia.
5.1.2 Strumenti
La metodologia sperimentale ha previsto la somministrazione di strumenti per la
misurazione del comportamento in età evolutiva, quali la Child Behavior Checklist
(CBCL/6-18 – Achenbach e Rescorla, 2001) e Antisocial Process Screening
Device (APSD –Frick, Hare, 2001), in parallelo alla somministrazione
dell’intervista semi-strutturata per la valutazione dell’adulto Adult Attachment
Interview (AAI- George, Kaplan, Main, 1985).
Child Behavior Checklist.
La Child Behavior Checklist (CBCL/6-18 -- Achenbach e Rescorla, 2001) è uno
strumento di screening volto a fornire, in modo veloce ed affidabile, informazioni
sui problemi e sulle abilità comportamentali dei bambini e degli adolescenti di età
compresa tra i 6 e i 18 anni. Il questionario è stato sviluppato in 3 diverse versioni,
il Youth Self Report (YSR) per i bambini superiori agli 11 anni, il Teacher Report
57
Form (TRF) per gli insegnanti e la versione standard per i genitori, ed è composto
da 118 items suddivisi in 8 diverse sottoscale: ansia/depressione,
ritiro/depressione, lamentele somatiche, problemi sociali, problemi di pensiero,
problemi attentivi, comportamento di trasgressione delle regole e comportamento
aggressivo.
Tale strumento fornisce punteggi parziali relativi ad ogni subscala e due punteggi
globali per le scale che misurano l’internalizzazione e l’esternalizzazione.
Le scale prese in esame ai fini della ricerca sono quelle che indagano i
comportamenti esternalizzanti del bambino ossia la sottoscale “comportamento
aggressivo” e “comportamento di trasgressione delle regole”. In questo strumento
il coefficiente di Cronbach ha rilevato un valore di .75 sia per la sottoscala
“comportamento aggressivo” sia per la sottoscala “violazione delle regole”,
confermando l’affidabilià della misura.
Antisocial Process Screening Device.
La presenza di tratti di personalità Callous Unemotional (CU) è stata indagata
mediante la somministrazione del test Antisocial Process Screening Device (APSD
–Frick, Hare, 2001). L’inventario si compone di 20 items ed è disponibile nella
versione per gli adolescenti, i genitori e gli insegnanti. In questo studio è stata
utilizzata la forma combinata fra teacher report e parent report (compilazione da
parte i genitori e insegnanti). Tale strumento di misura esamina i tratti antisociali
di personalità del bambino e comprende tre dimensioni, in relazione alle
componenti del costrutto indagato:
- Dimensione Callous-Unemotional (6 items);
- Dimensione Narcisistica (7 items);
- Dimensione Impulsività (5 items).
Lo studio ha preso maggiormente in considerazione la presenza di tratti Callous-
Unemotional nel bambino. Il coefficiente di Cronbach di precedenti studi
(Muratori et al., 2015) indica l’elevato affidabilità di tale strumento (α= .73).
58
Adult Attachment Interview
L’Adult Attachment Interview (AAI, George, Kaplan e Main 1985; Main,
Goldwin e Hesse 2002) è un’intervista semi-strutturata, comprensiva di 20
domande utili all’indagine dei rapporti fra il soggetto e le figure di riferimento
della sua infanzia. Lo stile d’attaccamento viene rilevato valutando alcuni indici
che si riferiscono alla coerenza del messaggio, alla capacità di monitoraggio
cognitivo, all’idealizzazione, alla mancanza di memoria, alla rabbia, alla paura e
alla passività (Fabbro, 2012, p. 252). L’intervista si sviluppa mediamente nell’arco
di un’ora, all’interno della quale vengono esplorati i primi ricordi e la prima
adolescenza (0-12 anni), la presenza di esperienze traumatiche, di separazione
dalle FdA e i lutti, le relazioni attuali con le figure di riferimento, con i figli e i
desideri per il loro futuro. Si analizzano lo stile narrativo del soggetto, le reazioni
provocate dai ricordi, la trasformazione nel tempo dei sentimenti e la
consapevolezza delle influenze esercitate dalle esperienze sullo sviluppo della
personalità (Di Carlo, Schimmenti, Caretti, 2011).
La capacità dell’individuo di narrare in maniera coerente, sia sul piano cognitivo
sia sul piano affettivo, la propria storia permette di definire sia lo stile
d’attaccamento genitoriale verso le figure significative della sua infanzia sia di
inferire gli stati mentali dell’adulto che sostengono le narrazioni (Main, Goldwyn,
Hesse, 2003). In quest’ottica l’AAI fornisce una misura qualitativa della capacità
di Mentalizzazione del soggetto, ovvero un indice del grado e della qualità della
funzione riflessiva (Fonagy et al., 1998). Per approfondimenti sull’intervista e sul
manuale utilizzato si rimanda, rispettivamente, ai paragrafi 2.3 e 4.2.
5.1.3 Procedura
La volontà di partecipare al progetto è stata certificata dal rilascio del consenso
informato dai genitori. Il campione è stato reclutato attraverso una procedura di
59
screening (CBCL). I criteri d’inclusione adottati con i bambini sono stati il genere
maschile, l’età compresa tra i gli 8 e gli 11 anni, la diagnosi di Disturbo della
Condotta e Disturbo Oppositivo Provocatorio.
I bambini del campione clinico sono stati valutati prima della loro partecipazione
al gruppo terapeutico Coping Power Program (baseline). Sono state valutate le
competenze sociali e i problemi emotivo-comportamentali mediante la
somministrazione alla madre e agli insegnanti della scala Child Behavior Checklist
(CBCL). La presenza di tratti Callous-Unemotional è stata valutata con lo
strumento Antisocial Process Screening Device (APSD). Nel corrispettivo gruppo
di madri la valutazione si è concentrata sulla qualità della funzione riflessiva fruita
attraverso la somministrazione dell’intervista semi-strutturata Adult Attachment
Interview (AAI).
5.2 Risultati
5.2.1 Analisi qualitativa
La Funzione Riflessiva è stata rilevata in 15 madri. E’ stata evidenziata una
tendenza dei punteggi RF non ordinari e non conformi ai risultati generalmente
riportati nella popolazione non clinica (Merelli et al., 2012).
Rispetto al campione complessivo (n=15) i punteggi delle madri risultano così
distribuiti:
1 soggetto scoring = 5 (6,6%)
2 soggetti scoring = 1 (13,3%)
5 soggetti scoring = 2 (33,3%)
4 soggetti scoring = 3 (26,6%)
3 soggetti scoring = 4 (20%)
Dal punto di vista qualitativo il punteggio globale= 1 (rilevato in 2 madri su 15
tot.) indica una Funzione Riflessiva assente caratterizzata dalla mancanza, nella
narrazione, della consapevolezza degli stati mentali. In particolare emergono
riferimenti a stati mentali di Sé e dell’altro in assenza della profondità sorretta
60
dall’idea di un soggetto con proprie credenze e sentimenti. Nella narrazione è
assente la Mentalizzazione, mentre la consapevolezza del tipo di stati mentali, se
presente, occupa una dimensione implicita e risulta percepibile solo per deduzione.
Nelle trascrizioni delle madri con punteggio= 3 è presente, per tutta la durata
dell’intervista, una considerazione degli stati mentali sebbene essa sia ad un livello
rudimentale. Le interviste di queste madri sono caratterizzate da un atteggiamento
riflessivo, per esempio, come dimostrato dall’inserimento nella narrazione di
elementi di sviluppo o intergenerazionali, i quali non risultano abbastanza specifici
da meritare un punteggio più elevato. I colloqui valutati con il punteggio globale
3 contengono, in genere, più di un esempio di Funzione Riflessiva valutata a
punteggio 5, ma non presentano narrazioni con una valutazione superiore. Inoltre,
per lo scoring totale = 3 il soggetto deve ottenere un punteggio 3 o 4 ad almeno tre
risposte. Per la maggior parte, i riferimenti a stati mentali e conseguente ricaduta
sul comportamento non vengono elaborati.
La RF global rating= 5 è classificata come la valutazione più comune in un
campione normale. Le trascrizioni a questo livello mostrano un certo numero di
elementi che indicano una funzione riflessiva preservata, sebbene siano
solitamente sollecitati dall’intervistatore piuttosto che essere riferiti
spontaneamente dall’intervistato. A differenza delle interviste valutate con un
punteggio globale compreso fra 0 e 4, le interviste con scoring globale 5 rivelano
la presenza di un modello della mente di Sé e dell’altro coerente e semplice.
Alcuni trascritti evidenziano che la capacità di Mentalizzazione del soggetto è
attenuata da difficoltà di espressione. Si assegna il rating = 5 in presenza di almeno
un chiaro esempio di Mentalizzazione a livello 5 ed, in genere, in tali colloqui non
sono riportate singole risposte con valore negativo o un punteggio = 1. Tuttavia,
non è infrequente che la global rating 5 sia più comunemente assegnata a interviste
che combinano dichiarazioni molto riflettenti (scoring=7) con quelle più
superficiali e rudimentali (scoring=3).
Tra i punteggi pari sono presenti il punteggio 2 ottenuto da 5 madri e il punteggio
4 ottenuto da 3 madri. Le madri con global rating 2 risultano in una categoria
61
borderline tra una Funzione Riflessiva assente (scoring=1) e una Funzione
riflessiva dubbia o bassa (scoring=3). Nel global rating 4, assegnato a 3 interviste,
è possibile inferire la presenza di un modello della mente propria e altrui al pari di
quanto è riscontrabile in interviste con punteggi più alti sebbene, a differenza di
queste ultime, la capacità di Mentalizzazione non fornisca un modello della mente
di Sé e dell’altro coerente, integrato e facilmente comprensibile.
5.2.2 Studio correlazionale
L’analisi statistica correlazionale è stata utilizzata per indagare la tendenza delle
variabili prese in esame a covariare.
Correlazione fra i comportamenti esternalizzati e la funzione riflessiva materna
CBCL APSD
RF .087 - .472*
*p=0.08
Contrariamente all’ipotesi dello studio le analisi di correlazione non hanno rilevato
una correlazione statisticamente significativa tra i comportamenti esternalizzanti
(CBCL) e la Funzione Riflessiva materna (Reflective Functioning) (r= .087; p=
n.s.).
E’ stata evidenziata una correlazione moderata negativa tendente alla
significatività statistica tra i punteggi globali della Funzione Riflessiva materna
(Reflective Functioning) e i tratti Callous- Unemotional del bambino (APSD) (r=
- 0.472; p= 0.08).
62
5.3 Discussione
Dai risultati del presente studio pilota si evidenzia che le due variabili
interindividuali prese in esame, ossia la Funzione Riflessiva materna e disturbo
esternalizzante del bambino, risultano parzialmente in relazione. I risultati di un
precedente studio condotto su un campione normativo di adolescenti ha riportato
una correlazione positiva statisticamente significativa fra la capacità di
Mentalizzazione adolescenziale e la Funzione Riflessiva materna (Rosso et al.,
2015). Il risultato dello studio sopracitato supporta l’ipotesi della
transgenerazionalità per cui l’acquisizione della Mentalizzazione da parte dei figli
sembra dipendere dalla competenza nelle abilità di Mentalizzazione genitoriale,
ovvero delle figure significative primarie. Una ricerca di Taubner e collaboratori
(2013) fornisce un ulteriore conferma all’ipotesi del presente studio pilota: i
risultati della ricerca condotta su un gruppo normativo di adolescenti hanno
mostrato l’effetto moderatore della Funzione Riflessiva adolescenziale
sull’esacerbazione di comportamenti aggressivi, anche nel caso della presenza di
tratti Callous-Unemotional (CU). Inoltre è stata evidenziata una correlazione
statisticamente significativa tra il deficit di Mentalizzazione in età adolescenziale
e i tratti psicopatici con manifestazioni di aggressività proattiva. I risultati dello
studio confermano l’ipotesi secondo cui una migliore capacità di Mentalizzazione
ha un effetto moderatore rispetto alla messa in atto di comportamenti
esternalizzanti, permettendo al soggetto con tratti psicopatici di manifestare una
minore tendenza all’aggressività proattiva. In quest’ottica la Mentalizzazione può
svolgere la funzione di fattore protettivo rispetto all’insorgenza di comportamenti
aggressivi proattivi, anche se associati a tratti psicopatici (Taubner et al., 2013).
Sulla base dei dati presenti in letteratura è possibile interpretare i risultati
preliminari di questo studio pilota. Non è stata evidenziata una correlazione
significativa tra i comportamenti esternalizzanti infantili, rilevati mediante la
CBCL, e la Funzione Riflessiva materna; al contrario, è emersa un’interessante
correlazione negativa tendente alla significatività statistica tra i tratti Callous-
63
Unemotional del bambino e la Funzione Riflessiva materna. Questo risultato
indica che la presenza di tratti Callous-Unemotional più marcati si associa a una
minore capacità di Mentalizzazione nelle madri, in accordo all’analisi qualitativa
da cui è emerso che la quasi totalità delle madri (93,4%)ha ottenuto punteggi
inferiori rispetto a quelli attesi in soggetti normali (global rating <5). I tratti
Callous-Unemotional, caratterizzati da assenza di rimorso e di empatia, assenza di
preoccupazione per le proprie performance e anaffettività o affettività superficiale,
sono considerati indici predittivi di psicopatia nell’età adulta; tali tratti sono
considerati ben radicati nella struttura della personalità dell’individuo e pertanto
difficili da modificare.
I tratti Callous-Unemotional in bambini con diagnosi di Disturbo della Condotta
si associano a una prognosi peggiore e ad un esito sfavorevole ai trattamenti
evidence-based (Frick, 2012). Una ricerca condotta da Pasalich e collaboratori
(2012) ha esaminato le relazioni di attaccamento genitore-bambino ed i livelli di
tratti CU in bambini con problemi della condotta; i risultati mostrano che,
indipendentemente dalla severità clinica, alti livelli di tratti CU sono associati con
uno stile di attaccamento insicuro e, più marcatamente, con la disorganizzazione
dell’attaccamento piuttosto che con la rappresentazione di evitamento. Fonagy e
collaboratori (1994) hanno evidenziato il legame tra la capacità di Mentalizzare e
l’attaccamento riportando una forte correlazione fra l’elevata funzione riflessiva
materna e lo sviluppo di uno stile di attaccamento sicuro da parte del figlio (Fonagy
et al., 1994) ed evidenziando, quindi, il ruolo protettivo assunto dalla Funzione
Riflessiva. La capacità di Mentalizzare e l’attaccamento sicuro del genitore
risultano fortemente collegate, favorendo lo sviluppo da parte del bambino di MOI
saldi e coesi, nonché di effetti positivi in termini di attaccamento infantile sicuro
(Bateman & Fonagy, 2006). La letteratura è concorde nel ritenere lo stile di
attaccamento sicuro un predittore di basso indice di sviluppo di disturbo della
condotta (DC) e, più in generale, di comportamenti internalizzanti ed
esternalizzanti (Allen et al., 1998). La sicurezza dell’attaccamento favorisce
un’adeguata regolazione dell’arousal e dell’affettivita, contribuendo ad agevolare
64
lo sviluppo della funzione riflessiva (Field, 1985; Kraemer, 1999; Panksepp et al.,
1999).
Nel complesso il risultato del presente studio pilota è coerente con gli studi che
hanno indagato la relazione fra le diverse espressioni cliniche dei disturbi
esternalizzanti e il costrutto di attaccamento: lo studio rivela che tratti CU più
pervasivi correlano con una minor abilità di funzione riflessiva materna in accordo
ai risultati delle ricerche che indicano che una migliore funzione riflessiva
genitoriale è associata allo sviluppo del pattern di attaccamento sicuro e agli studi
che hanno rilevato una forte correlazione fra i tratti CU e gli stili di attaccamento
insicuro.
In virtù dei risultati ottenuti con la presente ricerca si suggerisce la necessità di
ampliare e migliorare lo studio del ruolo delle variabili genitoriali nell’insorgenza
e nel mantenimento dei disturbi esternalizzati dell’età evolutiva, con particolare
riferimento all’indagine delle abilità di Mentalizzazione genitoriale e alla ricaduta
che tale competenza può avere sull’espressione clinica dei Disturbi della Condotta.
Si ritiene opportuno implementare la metodologia sperimentale mediante
l’ampliamento del campione clinico e l’utilizzo di un disegno sperimentale che
valuti eventuali cambiamenti prima e dopo il trattamento del bambino, ovvero
l’influenza della qualità della funzione Riflessiva materna sul trattamento del figlio
e al follow-up, nonché ripetere l’indagine utilizzando la nuova classificazione
diagnostica proposta dal DSM 5 per i Disturbi dirompenti, del Controllo degli
Impulsi e della Condotta. E’ altresì opportuna l’indagine dell’influenza di ulteriori
variabili come, ad esempio, lo stile di parenting (competenza genitoriale) e la
presenza di psicopatologia genitoriale, sulle abilità di Mentalizzazione, entrambi
fattori fondamentali per comprendere i meccanismi relazionali della diade che non
di rado supportano la sintomatologia del bambino. Altri interessanti orizzonti
esplorativi possono concernere la valutazione della Funzione Riflessiva paterna,
in associazione a quella materna, come ulteriore mediatore di comportamenti
esternalizzanti e tratti Callous-Unemotional. I futuri risultati potranno essere utili
nel perfezionare il trattamento dei bambini con diagnosi di disturbi esternalizzanti,
65
implementandoli con terapie mirate al potenziamento di specifiche capacità, quali
la Mentalizzazione infantile e genitoriale.
66
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