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Università degli Studi di Roma Tre
Scuola di Economia e Studi Aziendali
Corso di Laurea in Economia aziendale (classe LM-77)
Audit e Valutazioni Aziendali
Tesi di laurea magistrale in Revisione Aziendale Interna
``Il ruolo dell'Internal Auditing nelle organizzazioni nonprofit``
Relatore: Prof. Carlo Regoliosi
Correlatore: Prof.ssa Paola Demartini
Candidato: Francesca Venditti
Matricola: 404431
Anno Accademico: 2013-2014
INDICE - SOMMARIO
PREMESSA................................................................................................. pag. 4
CAPITOLO IINQUADRAMENTO TEORICO, ECONOMICO-AZIENDALE E GIURIDICO DELLE ORGANIZZAZIONI NONPROFIT
1.1 Introduzione........................................................................................... pag. 81.2 I molti nomi di un concetto in evoluzione: definizioni a confronto..........« 91.3 Crisi del welfare state e sviluppo del nonprofit in Italia.............................« 171.4 Organizzazioni nonprofit nell’accezione economico-aziendale: nuove tendenze negli studi di economia aziendale.....................................« 25 1.4.1 Relazione tra le organizzazioni nonprofit ed il concetto di azienda...« 25 1.4.2 Le organizzazioni nonprofit nel dibattito sulla classificazione delle aziende: caratteri distintivi...............................................................« 291.5 La dimensione quantitativa del nonprofit italiano......................................« 421.6 Le organizzazioni nonprofit nell’ordinamento giuridico italiano...............« 501.7 Conclusioni.................................................................................................« 54
CAPITOLO ⅡRISK MANAGEMENT E SISTEMI DI CONTROLLO INTERNO NELLE OR-GANIZZAZIONI NONPROFIT.
2.1 Introduzione......................................................................................... pag. 56 2.2 CoSO Report Ⅰ: un nuovo concetto di sistema di controllo interno...........« 58 2.3 Enterprise Risk Management (ERM): caratteri generali............................« 612.4 Applicazione dell’ERM alle organizzazioni non profit: analisi dei rischi caratteristici.....................................................................« 662.5 Modello Organizzativo 231/01 e correlazioni con il modello ERM..........« 71 2.5.1 Applicabilità della normativa 231/01 alle organizzazioni nonprofit.« 77 2.5.2 Implementazione del Modello 231/01 in un’organizzazione nonprofit: il caso ActionAid..............................................................« 81 2.5.2.1 L’organizzazione ActionAid...................................................« 81 2.5.2.2 Codice Etico e modello organizzativo di ActionAid..............« 842.6 Conclusioni................................................................................................« 86
1
CAPITOLO ⅢLA FUNZIONE DI INTERNAL AUDITING NELLE ORGANIZZAZIONI NONPROFIT.
3.1 Introduzione........................................................................................... pag. 893.2 Riflessioni sul concetto di internal auditing: definizione ed aspetti evolutivi..................................................................« 913.3 Internal auditing e creazione del valore.....................................................« 98
3.4 Rilevanza della funzione di internal auditing nel nonprofit: Il Social Internal Auditing.........................................................................« 1053.5 La funzione di internal auditing nel nonprofit: il caso Save the Children...........................................................................« 115 3.5.1 L’organizzazione Save the Children.................................................« 115 3.5.2 Il sistema di controllo interno ed il ruolo dell’internal auditor.........« 1173.6 La funzione di internal auditing nel nonprofit: il caso AIESEC ...............« 123 3.6.1 L’associazione AIESEC....................................................................« 123 3.6.2 Implementazione della funzione di internal auditing.......................« 1263.7 Auditing finanziario e contabile................................................................« 1403.8 Il sistema informativo-contabile delle aziende nonprofit: il caso AIL......« 143 3.8.1 L’associazione AIL...........................................................................« 147 3.8.2 Il sistema contabile-gestionale adottato in AIL................................« 1503.9 Conclusioni...............................................................................................« 154
BIBLIOGRAFIA........................................................................................pag. 156
2
PREMESSA
In Italia, secondo i dati dell’ultimo censimento ISTAT (2011), le organizzazioni
nonprofit hanno assunto e, continuano ad assumere, un ruolo particolarmente rile-
vante: sono oltre 300 mila, impiegano 681 mila addetti, la loro attività è sostenuta
da 4,7 milioni di volontari e contribuiscono a produrre il 4,3% del PIL nazionale.
Non è corretto parlare di settore del nonprofit, perché non si tratta di una realtà
omogenea, bensì di un mondo composto da soggetti tra loro molto diversi per di-
mensioni e natura (cooperative sociali, associazioni di promozione sociale e vo-
lontariato, organizzazioni non governative, onlus, enti non commerciali).
Nel primo capitolo del presente lavoro si vuole restringere e delineare il campo
oggetto di studio, inquadrando a livello teorico, economico e giuridico le organiz-
zazioni nonprofit, affrontando sia le problematiche definitorie, sia quelle evolutive
che le hanno caratterizzate negli anni.
Particolare accento viene posto sulle differenze sostanziali che consentono di di-
stinguere gli enti nonprofit da realtà di diversa natura economica, attraverso un
breve confronto tra la dottrina classica e le teorie di più recente fattura, con alcuni
accenni anche alla letteratura internazionale in materia.
3
Si tratta poi di un contesto che continua a svilupparsi nella quasi totale mancanza
di direttive specifiche in materia di controlli e senza la vigilanza di un’authority
dedicata (l’Agenzia per il terzo settore è stata soppressa nel 2012 e le sue compe-
tenze sono state trasferite al ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali) e quin-
di, sempre maggiormente esposto a tutta una serie di rischi nuovi e potenzialmen-
te molto dannosi.
Nel secondo capitolo, dopo una preliminare presentazione dei modelli di riferi-
mento CoSO Report I, ERM e Modello 231/2001 e, una breve analisi dei rischi
propri delle organizzazioni nonprofit, si spiega quindi come sia sempre più urgen-
te per queste ultime, specialmente per quelle di grandi dimensioni che si trovano
ogni giorno a gestire ingenti carichi di operazioni, investire nella predisposizione
di un programma strutturato di risk management. A tal proposito viene presentato
un caso di studio relativo al Modello organizzativo 231/2001 implementato da Ac-
tionAid, a dimostrazione di come sia possibile adattare tale modello, rendendolo
efficace anche nel contesto di un ente nonprofit.
Ma è il terzo capitolo quello che affronta il tema centrale del presente lavoro, ov-
vero quello relativo al ruolo che la funzione di Internal Auditing ha, o potrebbe
avere, nell’universo delle organizzazioni nonprofit.
Per interpretare meglio le caratteriste assunte dalla funzione di Internal Auditing
nello scenario odierno, viene proposto un excursus storico relativo all’evoluzione
di cui questa ultima è stata protagonista negli anni, partendo dalle origini agli inizi
4
del ‘900 fino ad arrivare alla definizione fornita dall’Institute of Internal Auditors
nel 1999, identificando i cambiamenti intervenuti negli obiettivi e nel ruolo di tale
attività.
Obiettivo primario del capitolo è, a questo punto, quello di capire come la funzio-
ne di Internal Auditing sia realmente capace di contribuire al processo di creazio-
ne di valore all’interno di un’organizzazione nonprofit e, come si possa misurare
in maniera idonea tale contributo.
Al fine di fornire degli spunti concreti di riflessione sul tema, vengono presentati
tre casi di studio, Save the Children, AIESEC Italia e AIL, nei quali vengono de-
scritti diversi metodi di implementazione della funzione di Internal Auditing.
La decisione di sviluppare il tema del ruolo dell’internal auditing nelle organizza-
zioni nonprofit, non è stata dettata solo dalla sempre maggior rilevanza che tali
realtà stanno assumendo nel nostro paese e, quindi, dal crescente fabbisogno di
strutturate forme di controllo, ma anche da una profonda passione che nutro nei
confronti della revisione interna e dall’esperienza diretta che ho avuto lavorando
sia in AIL che in AIESEC Italia.
In particolar modo, dopo oltre tre anni nell’organizzazione, ho avuto il piacere di
ricoprire il ruolo di Internal Auditor in AIESEC Italia, esperienza che mi ha con-
sentito di affrontare concretamente i temi legati alla revisione interna.
Nello svolgimento del suddetto ruolo e, soprattutto nel corso della stesura della
presente tesi di ricerca, ho avuto modo di incontrare numerosi esperti e professio-
5
nisti, il cui contributo è risultato essere di fondamentale importanza per il rag-
giungimento degli obiettivi che mi ero proposta.
Colgo quindi l’occasione per ringraziare, primo fra tutti, il mio relatore, il Prof.
Carlo Regoliosi, per avermi supportata sin dal primo momento, senza essere mai
invadente, fornendomi costruttivi spunti di riflessione ed ampi margini di libertà
nella trattazione del tema da me scelto, ma soprattutto perché é proprio grazie al
corso da lui tenuto che, sin dal primo anno, mi sono profondamente appassionata
ai temi del controllo, della gestione dei rischi e della revisione interna.
Un ringraziamento speciale va poi a tutti i professionisti che mi hanno dedicato
parte del loro prezioso tempo, per fornirmi le conoscenze e gli strumenti necessari
a svolgere una trattazione che non fosse solo puramente teorica, bensì supportata
da casi di studio reali e concreti. In particolar modo vorrei ringraziare la Dott.ssa
Liberata Giovannelli, il Dott. Andrea Marcoccio, la Dott.ssa Tiziana Mazzini, il
Dott. Francesco Papa, il Dott. Giovanni Poggio, il Dott. Nicola Giovinazzi, il
Dott. Domenico Lascala, la Dott.ssa Marialuisa Petrelli, la Dott.ssa Elisa Londei
ed il Dott. Enrico Spitaleri.
6
CAPITOLO I
INQUADRAMENTO TEORICO DELLE ORGANIZZAZIONI NONPROFIT
SOMMARIO: 1.1 Introduzione. - 1.2 I molti nomi di un concetto in evoluzione: definizioni a confronto. - 1.3 Crisi del welfare state e sviluppo del nonprofit in Italia. - 1.4 Organizzazioni nonprofit nell’accezione economico-aziendale: nuove tendenze negli studi di economia aziendale. - 1.4.1 Relazione tra le organizzazioni nonprofit ed il concetto di azienda. - 1.4.2 Le organizzazioni nonprofit nel dibatti-to sulla classificazione delle aziende: caratteri distintivi. - 1.5 La dimensione quantitativa del NonProfit italiano e le prospettive future di sviluppo. - 1.6 Le or-ganizzazioni nonprofit nell’ordinamento giuridico italiano. - 1.7 Conclusioni.
1.1 Introduzione
L’obiettivo che si prefigge questo primo capitolo è quello di svolgere un’ana-
lisi preliminare sul tema oggetto di studio, finalizzata a restringere il campo og-
getto di studio e, a fornire alcune nozioni elementari essenziali per la piena com-
prensione dei capitoli successivi. Si cerca di inquadrare a livello teorico, econo-
mico e giuridico le organizzazioni nonprofit, affrontando sia le problematiche de-
finitorie sia quelle evolutive che le hanno caratterizzate negli anni. Si pone parti-
colare attenzione allo sviluppo che tali organizzazioni hanno avuto nella realtà
italiana, fornendo un’idea riguardo al ruolo da esse ricoperto nell’economia attua-
le del nostro paese e alle loro prospettive future di crescita.
7
Le organizzazioni oggetto di studio vengono considerate come aziende, badando
bene al fatto che, considerare le organizzazioni nonprofit dal punto di vista azien-
dale, non significa far prevalere la logica ed i criteri di scelta economici sui valori
e le motivazioni etiche individuali, ma comprendere che fare ricorso alla raziona-
lità tipicamente impiegata nella gestione degli enti profit, consente di ottenere
maggiori e migliori performance in vista del raggiungimento di quanto è stato
pianificato, trasformando la necessità di mantenere l’equilibrio economico in un
vincolo e non più in un obiettivo.
1.2 I molti nomi di un concetto in evoluzione: definizioni a confronto
Prima di addentrarci nel problema legato alla definizione della linea di de-
marcazione tra organizzazioni nonprofit e realtà che esulano da tale categoria, ap-
pare opportuno proporre alcuni chiarimenti in merito ai molteplici nomi utilizzati
per indicare queste organizzazioni.
Non di rado ci si ritrova di fronte a differenti grafie del termine nonprofit, quali:
“no profit”, “non profit”, “nonprofit” o “non-profit”. Come esaurientemente espli-
cato da Barbetta e Maggio1 , le prime due dizioni vanno rifiutate in quanto gram-
maticalmente scorrette, mentre le altre due grafie, “nonprofit” e “non-profit” sono
entrambe accettate dagli studiosi statunitensi ed inglesi, ma il loro significato non
coincide pienamente. Il termine “non-profit” pone in evidenza il prefisso “non”
8
1 Barbetta G.P. - Maggio F., Nonprofit, Società editrice Il Mulino, 2008, p. 9,10
così da identificare le organizzazioni appartenenti al settore non-profit in senso
negativo rispetto alla restante parte del sistema economico e sociale, cioè come
organizzazioni il cui fine non consiste nel perseguimento di un utile economico2.
Il termine “nonprofit” mira invece a sottolineare le caratteristiche positive delle
organizzazioni che ne fanno parte e che le distinguono dal resto dell’economia. Si
tratta, infatti, di organizzazioni che, sebbene nella maggior parte dei casi non pro-
ducano un utile espresso in termini monetari, hanno comunque come finalità ulti-
ma la produzione di utilità per la collettività di riferimento. Esse producono co-
munque nuova ricchezza, la quale però non risulta espressa in termini monetari
risultando, conseguentemente, di più difficile misurazione.3
Proprio partendo da quest’ultima nomenclatura, nel 1996 Salomon e Anheimer4
hanno individuato nelle seguenti caratteristiche gli elementi che “in positivo”
vanno considerati per decidere della natura nonprofit di un’organizzazione:
a) costituzione formale;
9
2 A tal proposito il grande grande studioso di management – l’americano Peter Drucker – scriveva in un saggio del 1989: “Non a scopo di lucro, non imprenditoriale, non governa-tivo sono tutte definizioni negative, ed è impossibile definire qualcosa dicendo ciò che non è.” (Drucker P.F., Economia, politica e management, Etas, 1989)
3 “...quello che manca è uno strumento di agevole valorizzazione della ricchezza prodot-ta, non la ricchezza prodotta”. Leardini C., L’amministrazione della fondazione banca-ria, CEDAM, 2005, p. 6
4 Salomon Lester M. - Anheimer H. K., Defining the nonprofit sector: a cross-national analysis, Manchester-New York, Manchester University Press, 1996
a) natura giuridica privata, ovvero che facciano riferimento all’autonomia
di iniziativa privata e a comportamenti non vincolati da norme di diritto
pubblico;
b) autogoverno, ovvero che abbiano organi gestionali e di controllo auto-
nomi e con un proprio potere decisionale;
c) assenza di distribuzione di profitto;
d) presenza di lavoro volontario, ovvero che non sia obbligatorio divenire
soci dell’organizzazione, e che sia prevista la partecipazione di volonta-
ri all’attività.
Ci sono però pareri discordanti sull’applicazione rigorosa dei criteri suggeriti,
perché essa, a parere di alcuni, porterebbe ad escludere alcune realtà importanti
quali le cooperative sociali e gli organismi di diretta emanazione della Chiesa Cat-
tolica.
10
Nelle cooperative sociali, infatti, verrebbe meno il vincolo di non distribuzione
degli utili5.
A tal proposito, un contributo interessante è quello fornito da Levi6, il quale, par-
lando del vincolo di non distribuzione degli utili, afferma che quest’ultimo non
può essere un criterio sufficiente tale da consentire una netta distinzione tra orga-
nizzazioni profit e cooperative sociali.
Secondo l’autore la reale differenza va individuata non tanto nel conseguimento e
nella distribuzione dell’utile, bensì nel criterio ispiratore e nella logica alla base
della distribuzione stessa. Infatti, mentre negli enti profit la massimizzazione del
reddito è basata sul capitale investito e perciò, i dividendi altro non sono che la
remunerazione del capitale di rischio, nelle cooperative nonprofit il conferimento
del surplus generato avviene non sulla base della partecipazione al capitale socia-
11
5 Alle cooperative sociali si applicano le norme sulla destinazione degli utili proprie delle cooperative. Sulla base di quanto sancito dagli artt. 2518 n.9 e 2536 c.c. e dell’art. 26 del D.L.C.P.S. del 14 dicembre 1947, n. 1577, le cooperative hanno l’obbligo di destinare nel modo seguente la quota degli utili conseguiti:- il 20% deve essere destinato al fondo di riserva legale;- il 3% al Fondo mutualistico per la promozione e lo sviluppo della cooperazione.Per quanto concerne il restante 77%, la legge riconosce la possibilità di procedere ad una distribuzione ai soci nelle seguenti forme:- come remunerazione del capitale sociale nella forma di una rivalutazione gratuita del
capitale sociale ex art. 7 della legge n. 59/1992; ciò può avvenire nei limiti dell’indice di inflazione calcolato dall’Istat;
- come vero e proprio dividendo. Il dividendo non può superare la misura massima degli interessi spettanti ai detentori di buoni fruttiferi, aumentata del 2,5%;
- come ristorno sui “conferimenti” mutualistici, e, quindi, in proporzione agli scambi ef-fettuati con la cooperativa nel corso dell’esercizio. Si tratta di utili distribuiti sotto forma di integrazione delle retribuzioni, nelle cooperative di lavoro, o di restituzione di parte dei costi sostenuti, nelle cooperative di consumo.
6 Levi Y., “Rethinking the for profit vs nonprofit argument: a social enterprise perspecti-ve”, Economic analysis, n. 1, 1998, February
le, bensì è legato al contributo apportato dal singolo membro alle attività rientranti
nella mission dell’ente.
Per quanto invece concerne gli organismi della Chiesa cattolica, facendo riferi-
mento ai criteri suggeriti da Salomon e Anheimer, essi non rispetterebbero il re-
quisito dell’autogoverno, per il fatto che i soggetti incaricati della direzione e del-
la Presidenza sono nominati in generale dall’autorità ecclesiastica. Escludere gli
enti di matrice Cattolica dal novero delle organizzazioni nonprofit non appare
però opportuno, in quanto significherebbe non tener conto di istituti che vantano
una tradizione secolare in ambito di assistenza sociale, sanitaria e dell’educazione,
e che rappresentano gli autentici precursori del settore nonprofit italiano.
Dopo quanto detto sino ad ora, risulta opportuno un breve accenno a una serie di
termini aggreganti che hanno iniziato ad essere frequentemente utilizzati a partire
dagli anni Novanta, per sottolineare, da un lato, le peculiarità comuni alle orga-
nizzazioni rientranti nella categoria del nonprofit, e dall’altro, per distinguerle una
volta per tutte dal resto dell’economia e della società.
Innanzitutto, segnaliamo il termine “terzo settore” o “terzo sistema”, parola che
tende a far rientrare nel nonprofit tutte quelle realtà che non appartengono né allo
Stato, né al mercato.7
12
7 Barbetta G.P. - Maggio F., Nonprofit, Società editrice Il Mulino, 2008, p. 15,16
Come chiaramente esplicato nel report di UniCredit Foundation8 relativo alla ri-
cerca sul valore economico del Terzo Settore in Italia, tale posizionamento del set-
tore nonprofit deriva da un’interpretazione riduttiva della sua esistenza. Da un lato
si sostiene che il Terzo Settore nasca in risposta all’impossibilità dello Stato di far
fronte all’intera domanda di beni pubblici espressa dai cittadini9, e dall’altro che si
origini in risposta all’incapacità delle imprese for profit di controllare totalmente i
propri produttori attraverso gli ordinari meccanismi di Mercato, ovvero i contratti.
In merito a quest’ultimo aspetto, il Terzo Settore sarebbe invece in grado di eser-
citare un controllo attraverso un meccanismo alternativo, ovvero il vincolo di non
redistribuzione degli utili, mantenendo come fine ultimo del proprio agire il per-
seguimento della pubblica utilità e il conseguente incremento del livello di benes-
sere collettivo.10
13
8 UniCredit Foundation, Ricerca sul valore economico del Terzo Settore in Italia, 2012
9 Si tratta della c.d. teoria del fallimento dello Stato di Burton Weisbrod (1977 e 1988), secondo la quale la fornitura di beni e servizi da parte di un'organizzazione di terzo setto-re risulterebbe generata dall'insoddisfazione (quantitativa e qualitativa) di alcuni consu-matori per la produzione (standardizzata) statale, specialmente quando il bene oppure servizio offerto presenta gli attributi di 'bene pubblico'. La fornitura non-profit diverrebbe addizionale a quella statale, e finanziata da donazioni volontarie dei consumatori insoddi-sfatti, rese possibili dal vincolo di non distribuzione degli utili dell'ente di terzo settore, il quale promuoverebbe comportamenti di tipo altruistico.
10 Si tratta della c.d Teoria del fallimento del Mercato di Henry Hansmann (1980), il qua-le sostiene che l'organizzazione non-profit si afferma come risposta al fallimento del con-tratto tra consumatori e organizzazioni lucrative, quando il livello di “asimmetria infor-mativa” tra acquirenti e venditori è tanto elevato da far sorgere delle vere e proprie crisi di fiducia. H. Hansmann suggerisce che questo caso è particolarmente diffuso nei mercati in cui chi acquista il bene non ne è il diretto beneficiario. In tal caso l'esistenza di un vin-colo di non distribuzione degli utili rappresenterebbe un elemento di garanzia per l'acqui-rente, in quanto segnalerebbe che ogni eventuale surplus di gestione dell'ente verrà im-piegato per aumentare la quantità o la qualità del servizio piuttosto che per fini speculati-vi.
Più recente è invece la comparsa della parola “economia civile” che fa riferimento
ai principi regolativi propri della vita delle organizzazioni di cui stiamo parlando:
“economia”, perché si tratta di realtà che producono i c.d. “beni relazionali”11;
14
11 Rosalba Miceli, giornalista della Stampa, ci ricorda che nel saggio I beni relazionali. Che cosa sono e quali effetti producono (Torino, Bollati Boringhieri, 2011), Donati e Ric-cardo Solci pervengono ad una maggiore definizione del “bene relazionale”, partendo dai singoli termini che lo compongono: bene e relazionale. Il termine “bene” viene considera-to in una prospettiva sociologica: un bene è pertanto “una realtà che soddisfa dei bisogni propriamente umani, ed è «buona» in quanto realizza questo soddisfacimento”. Secondo tale interpretazione “il concetto di bene equivale a quello anglosassone di good quando viene riferito a una «entità concreta» che viene scambiata e circola tra le persone e i gruppi sociali”, ma che non si identifica con una merce. Il termine “relazionale” rimanda alla relazione sociale “in quanto realtà che «fa» la società e costituisce i fatti sociali”. È solo all’interno di una prospettiva relazionale che è possibile comprendere la specificità dei beni relazionali: “Questa teoria ci consente di arrivare a definire i beni relazionali co-me quelle entità immateriali che consistono nelle relazioni sociali che emergono da agen-ti/attori riflessivamente orientati a produrre e fruire assieme di un bene che essi non po-trebbero ottenere altrimenti”. In questa ottica la relazione assume una sua “materialità”, nel momento in cui diviene essa stessa “bene”. Di particolare importanza è l’analisi del rapporto che unisce tra loro i beni relazionali e il capitale sociale (che consiste nelle rela-zioni di fiducia, cooperazione e reciprocità). Quest’ultimo infatti costituisce al tempo stesso una precondizione per la nascita di un bene relazionale ed è a sua volta rigenerato da questo, in un circolo virtuoso. Per intenderci, il capitale sociale “non è la risorsa che un individuo può mobilitare usando in modo strumentale la sua relazione con chi può procurargliela. Ma è la relazione stessa, se e in quanto si tratta di una relazione, che ha la potenzialità di essere sorgente di uno scambio sociale che avviene in una maniera sui ge-neris non di tipo commerciale né politico, ma come azione finalizzata a uno scopo che opera attraverso la fiducia e norme cooperative, mobilitando le risorse accessibili”. Giuseppe Ambrosio di UniCredit Foundation, spiega inoltre che la peculiarità dei beni relazionali risiede nel fatto che l’utilità per il soggetto consumatore di un bene relazionale dipende - oltre che dalle sue caratteristiche intrinseche ed oggettive- dalle modalità di fruizione con altri soggetti. Poiché la produzione di tali beni non segue le regole di pro-duzione dei beni privati, essa non può essere lasciata all’agire del Mercato for profit. Al contempo, essi non possono essere prodotti nemmeno attraverso le modalità di fornitura dei beni pubblici da parte dello Stato, nonostante l’esistenza di tratti in comune tra le due categorie di beni. All’interno di questa prospettiva socio-economica, si rende, dunque, necessaria l’azione di soggetti di offerta - le organizzazioni del Terzo Settore - che fanno della relazionalità la loro ragione di esistere ed in grado di inventarsi un assetto organiz-zativo capace di liberare la domanda dal condizionamento dell’offerta, facendo in modo che sia la prima a dirigere quest’ultima.
“civile”, perché il principio che presiede alla vita delle organizzazioni sarebbe lo
stesso che tiene assieme le diverse componenti di una società civile, e cioè il prin-
cipio della reciprocità.12
D’ora in avanti, tenendo conto degli obiettivi perseguiti dal presente lavoro di ri-
cerca, si farà riferimento all’accezione indicata dalla grafia “nonprofit”, volendo,
come già accennato in precedenza, trattare gli enti oggetto di studio al pari di
aziende vere e proprie, tenendo a mente, però, che si distinguono dal resto del-
l’economia per tutta una serie di caratteristiche uniche e peculiari che vengono
enucleate nelle pagine che seguono.
1.3 Crisi del welfare state e sviluppo del NonProfit in Italia
Dopo aver chiarito alcuni dubbi terminologici, proseguiamo la nostra analisi
accennando, senza presunzione di completezza, alle origini del nonprofit e ai mo-
tivi alla base del suo notevole sviluppo negli ultimi decenni.
Si ritiene comunemente che siano i paesi di matrice anglosassone a vantare la tra-
dizione più radicata nel campo delle organizzazioni nonprofit, ma in Italia ci sono
delle realtà rientranti in tale categoria ben più antiche delle charities inglesi ed
americane. Si tratta prevalentemente di istituzioni di natura religiosa come ospe-
dali, biblioteche ed università, che risalgono già all’epoca del tardo Medioevo e
che all’inizio del XX secolo sono state affiancate da quelle realtà legate alla nasci-
15
12 Bruni L. - Zamagni S., Economia civile, Società editrice il Mulino, 2004
ta e allo sviluppo del movimento dei lavoratori, quali le società di mutuo soccor-
so, le cooperative di consumo e di produzione e le associazioni politiche e sinda-
cali.
A partire dalla fine del XIX secolo, però, il settore pubblico ha cercato di indivi-
duare nuovi metodi e strumenti per garantire ai cittadini degli standard di vita via
via più elevati e dignitosi, migliorando i livelli d’istruzione e di assistenza sia sa-
nitaria che sociale.
In tal modo l’evoluzione del sistema pubblico di sicurezza e protezione sociale ha
gradualmente limitato il ruolo delle organizzazioni private, e quindi anche di quel-
le nonprofit, integrandole quando possibile nella pubblica amministrazione e se-
gnandone la scomparsa.
A tal proposito, effetti particolarmente rilevanti furono quelli derivanti dalla legge
6972, meglio conosciuta come leggi Crespi, approvata nel 1890. Tale provvedi-
mento sottometteva al controllo pubblico le Opere pie che fornivano servizi di ti-
po assistenziale, sanitario, educativo e di formazione professionale ed imponeva a
ogni istituzione che avesse una qualche rilevanza economica di assumere la natura
giuridica pubblica.
Dopo l’approvazione della Costituzione repubblicana, avvenuta nel 1948, la Leg-
ge Crispi restò a lungo immutata, nonostante l’art. 38 della stessa Costituzione
stabilisse che «l’assistenza privata è libera», consentendo con ciò ai privati di for-
nire servizi assistenziali senza dover assumere la veste giuridica di ente pubblico.
16
Solo nel 1988 la corte dichiarò incostituzionale l’art. 1 della Legge Crispi che di
fatto proibiva la prestazione di servizi assistenziali da parte di soggetti privati.
Il modello sopra descritto, orientato alla creazione di un sistema assistenziale con-
trollato dalla Stato e meglio conosciuto come “Welfare State”, fu caratterizzato da
una crescita e un successo inarrestabile dalla fine della Seconda Guerra Mondiale
fino alla prima metà degli anni Settanta, ma, come accennato nel paragrafo prece-
dente, entrò profondamente in crisi nel trentennio successivo.
Secondo il parere degli autori Musella e Santoro13, le origini della suddetta crisi
vanno individuate in primis nell’incapacità organizzativa di una struttura non più
idonea a soddisfare, in termini sia qualitativi che quantitativi, i crescenti bisogni
della società, ed in secundis nella sempre maggiore scarsità delle risorse economi-
che a disposizione. Si trattava di un modello non flessibile, e per tanto inadatto a
rispondere in maniera tempestiva ed efficiente alle richieste sempre più differen-
ziate e mutevoli della popolazione.
La progressiva riduzione dell’intervento statale, la ridefinizione delle priorità e la
razionalizzazione delle modalità di erogazione dei servizi sociali, hanno favorito
l’affermarsi dell’iniziativa privata anche in ambito sociale, segnando così l’affer-
mazione di un modello economico alternativo ispirato al paradigma di Mercato
dell’Economia Civile. In particolare, negli ultimi anni, si assiste alla promozione
17
13 Musella M.-Santoro M., L’economia sociale nell’era della sussidiarietà orizzontale, G.Giappichelli Editore-Torino, 2012, p.14-16
di un sistema di welfare mix14, ovvero un sistema di organizzazione della produ-
zione e dell’offerta dei servizi socio-assistenziali e sanitari incentrata sulla plurali-
tà dei soggetti di offerta, una pluralità che non è solo numerosità, ma anche varietà
di tipologie organizzative, molteplicità di “prodotti” offerti.
A parere di chi scrive, lo sviluppo di un sistema di welfare basato sull’interazione
e sulla cooperazione tra Pubblica Amministrazione, organizzazioni sociali e citta-
dini, non implica un arretramento dello Stato, bensì comporta uno sforzo concreto
da parte di quest’ultimo, mirato a promuovere e sostenete l’iniziativa privata.
Lasciare spazio agli enti con natura giuridica diversa da quella pubblica, non si-
gnifica affatto ridurre la fruibilità dei servizi sui quali si riversa un forte interesse
sociale, ma comporta, al contrario, l’incremento dell’offerta di questi ultimi, un
adattamento più efficace e tempestivo alle mutevoli esigenze dei destinatari a cui
tali servizi si rivolgono, nonché un notevole miglioramento del livello qualitativo
degli stessi.
Il non accentramento nelle mani statali dei servizi socio-assistenziali innesca, in-
fatti, una sequenza di meccanismi competitivi, capaci di stimolare il miglioramen-
to dell’intero sistema di welfare.
Come meglio vedremo in seguito, parlando del c.d. principio di sussidiarietà, il
nuovo modello di welfare che si va rafforzando sempre di più, implica un concetto
18
14 Vedi, sul punto, il volume a cura di Ascoli U. e Pasquinelli S., Il welfare mix. Stato so-ciale e terzo settore, Franco Angeli editore, 1993
di responsabilità condivisa, per il quale lo Stato non è più visto come l’unico ed
esclusivo responsabile del benessere generale della collettività. Quello che viene
richiesto ai privati è uno sforzo orientato a collaborare con il soggetto pubblico
per moltiplicare in maniera consistente le risorse disponibili al fine di garantire a
tutti migliori condizioni di vita, e di rendere più rapido, efficace ed efficiente il
soddisfacimento dei bisogni della collettività.
Pur non rientrando negli obiettivi di ricerca del presente lavoro, affermare quanto
sopra riguardo le politiche di privatizzazione e di ristrutturazione dei sistemi di
welfare State , richiede un breve accenno alle teorie sulla c.d. economia del benes-
sere, ed in particolar modo sull’esistenza, secondo alcuni, di un trade-off tra equi-
tà ed efficienza15, dove per equità si intende una distribuzione non squilibrata del-
le risorse disponibili.
L’economia del benessere16 si occupa, innanzitutto, di trovare tutte le condizioni
di efficienza economica, partendo da una certa distribuzione iniziale delle risorse
disponibili ed individuando infiniti livelli di ottimo sociale. Per poter scegliere
un’unica combinazione ottima, si ricorre allora a un principio di equità. La fun-
zione del benessere sociale è quindi il criterio in base al quale è possibile ordinare
19
15 Musella M., Verso una teoria economica dello sviluppo umano, Maggioli Editore, 2014
16 Acocella N., Economia del Benessere. La logica della politica economica, Carocci Edi-tore, 2008
tutti gli stati sociali, dal momento che essa rappresenta i giudizi di valore di una
società sulla distribuzione delle utilità tra i cittadini.
Il problema principale è, a questo punto, quello di capire attraverso quali meccani-
smi è possibile raggiungere l’ottimo sociale e, bisogna domandarsi se un mercato
concorrenziale può essere effettivamente capace di far pervenire l’economia ad
una soluzione di ottimo sociale che sia efficiente e socialmente desiderabile.
Gli studiosi appartenenti alla scuola neoclassica affermano che qualsiasi assetto
istituzionale orientato al perseguimento dell’efficienza debba necessariamente ri-
nunciare a qualunque intervento mirato a garantire un’equa distribuzione delle
risorse. Tale convinzione si fonda sul c.d. homo oeconomicus che tende a prendere
decisioni in base alla massimizzazione del proprio interesse personale e quindi,
conseguentemente, sull’idea che sia necessario un sistema di incentivi volti a mo-
tivare gli individui ad agire in modo tale da raggiungere determinati obiettivi di
utilizzo efficiente delle risorse.
Una risposta in merito alla questione se un mercato concorrenziale può essere ef-
fettivamente capace di far pervenire l’economia ad una soluzione di ottimo sociale
che sia efficiente e socialmente desiderabile, viene fornita dai due teoremi fonda-
20
mentali dell’economia del benessere17 ed in particolare, secondo la scuola neo-
classica, l’esigenza di effettuare ridistribuzioni coerenti con gli obiettivi di equità
della collettività può essere soddisfatta attraverso l’intervento pubblico.
Ci sono poi altri studiosi che invece sostengono la tendenziale, anche se comples-
sa, complementarità macroeconomica e di lungo periodo tra il principio di effi-
cienza e quello di equità, specificando che deve essere considerata equa una situa-
zione nella quale l’accesso alle opportunità risulta garantito a tutti e le regole a cui
si fa riferimento per la distribuzione dei benefici e dei costi sono condivise. Adot-
tando questo nuovo punto di vista, i meccanismi di incentivazione del singolo non
risultano più in contrasto con gli obiettivi di equità, perché si tiene conto dell’im-
pegno dello Stato a garantire uguali situazioni di partenza e, soprattutto, a creare e
a mantenere condizioni di uguaglianza sostanziale. In questo modo si riesce co-
munque a raggiungere una situazione di efficienza, intesa o come massimizzazio-
21
17 Il giudizio di valore che l’economia del benessere adotta è innanzitutto il principio di efficienza allocativa (paretiana). Facendo riferimento al criterio paretiano, un’allocazione A è socialmente preferita ad un’altra allocazione B se l’allocazione A è per almeno un individuo preferita e per gli altri individui è indifferente rispetto all’allocazione B.Inoltre, un’allocazione è un ottimo paretiano, se non esiste alcuna altra allocazione dove è possibile migliorare la posizione di un individuo senza peggiorare quella di almeno un altro individuo. Se una allocazione non è efficiente è sempre possibile realizzare una tran-sazione che migliorerà la condizione di almeno di alcuni individui senza peggiorare quel-la di altri. Considerato quanto sopra, il primo teorema dell’economia del benessere affer-ma che: se valgono certe assunzioni, un’allocazione di beni e fattori produttivi risultante da un equilibrio di concorrenza perfetta (sempreché esista) è efficiente in senso paretiano.Il secondo teorema dell’economia del benessere dice poi che: se si modificano opportu-namente le dotazioni iniziali di risorse (utilizzando particolare strumenti redistributivi: imposte o sussidi personalizzati in somma fissa – lump sum), l’economia concorrenziale consente di raggiungere una qualsiasi allocazione efficiente (e quindi anche l’ottimo so-ciale).
ne del risultato o come minimizzazione dei costi, attraverso un reale sistema di
incentivi fondato su regole condivise da tutti.
Un contributo di particolare interesse in merito a quanto sopra discusso, è quello
riconducibile ad Amartya Sen, il quale fornisce una giustificazione economica
della necessità per lo Stato di favorire l’iniziativa privata.
Secondo questo autore esistono ampi spazi di manovra per dimostrare che equità
ed efficienza possono assumere caratteri sinergici e, quindi, che è possibile rag-
giungere situazioni nelle quali un miglioramento delle condizioni di equità provo-
ca anche una maggiore accumulazione e una maggiore crescita dell’economia.
L’approccio usato da Sen è quello c.d. delle capabilities18, in base al quale la vita
umana è incentrata su alcuni funzionamenti fondamentali e a tutti dovrebbero es-
sere date le capabilities per accedere a questi funzionamenti, lasciando poi, in os-
sequio ai principi liberali, a ciascuno la possibilità di scegliere di acquisirli e,
quindi, di scegliere che tipo di vita vivere. I funzionamenti rappresentano perciò
quelle diverse dimensioni della vita che consentono di stare bene, ovvero di rag-
giungere livelli adeguati di well being.
Concludendo, l’idea di Sen è che un assetto istituzionale più equo, ma anche più
efficiente, è quello che tende all’ampliamento effettivo della «capacità di ciascuno
22
18 Sen A., “Capability and Well-Being”, in M. NUSSBAUM-A. Sen, (eds.), The Quality of Life, New York: Oxford Clarendon Press, 1993
di agire la propria libertà in modo da procedere verso obiettivi che, per un qualche
motivo, egli ritiene importanti».
Se, dunque, una sollecitazione dell’iniziativa privata da parte dello Stato amplia il
perimetro delle capabilities e, quindi, la libertà di scelta, è da considerarsi econo-
micamente conveniente.
Accettata la tesi secondo la quale un maggiore intervento da parte dei soggetti
privati nella sfera del sistema di welfare possa generare effettivi benefici per la
collettività, si sente però il bisogno di evidenziare la necessità per lo Stato di ride-
finire gli strumenti idonei a favorire concretamente e correttamente l’iniziativa da
parte dei singoli cittadini e delle organizzazioni sociali.
Nello specifico si ritiene sia di fondamentale importanza creare un sistema norma-
tivo volto a tutelare gli interessi dei destinatari delle prestazioni erogate, definen-
do ad esempio: criteri chiari per l’accreditamento degli enti autorizzati a fornire
determinati servizi di valenza sociale; standard qualitativi per i servizi offerti; re-
golamenti più stringenti in materia di finanziamento; leggi in tema di governance,
nonchè specifici obblighi relativi alla rendicontazione delle attività e alla gestione
degli enti.
23
1.4 Organizzazioni nonprofit nell’accezione economico-aziendale: nuo-
ve tendenze negli studi di economia aziendale.
Ai fini propri della nostra ricerca, è opportuno fornire una definizione eco-
nomico-aziendale delle organizzazioni nonprofit. Considerando sia la dottrina tra-
dizionale, sia le tendenze più recenti, cercheremo di delinearne i principali caratte-
ri distintivi rispetto alle organizzazioni escluse dalla tipologia oggetto di studio.
1.4.1 Relazione tra le organizzazioni nonprofit ed il concetto di azienda.
Prima di tutto è necessario chiarire il fatto che, per indicare l’insieme delle
organizzazioni nonprofit, non è appropriato l’utilizzo del termine “settore” non
formando esse un settore nel vero senso della parola.19 Ciò è vero considerando
che la dottrina20 definisce il termine “settore” come “insieme di aziende simili re-
lativamente ai processi di produzione, o ai prodotti, o che operano in mercati stret-
tamente dipendenti”. Al contrario, le attività e le aziende che rientrano nel nonpro-
fit, sono caratterizzate da una molteplicità di prodotti e servizi offerti o di clien-
ti/utenti da non poterle ricondurle ad unitarietà.
24
19 Bandini F. (a cura di), Economia e management delle aziende nonprofit e delle imprese sociali, CEDAM, 2013
20 Vedi, tra gli altri, Brosio G., Economia e finanza pubblica, Carrocci Roma 1993 e Sti-glitz J.E., 1989
Chiarito che non si tratta di un settore, ci rifaremo d’ora in poi al concetto
d’azienda, individuando tutte quelle caratteristiche in presenza delle quali un
qualsiasi istituto sociale può essere considerato tale.
Prima di tutto dobbiamo ricordare che i concetti di istituto sociale e di azienda non
sono tra di loro coincidenti, essendo quest’ultima solo un’astrazione strettamente
economica dell’istituto sociale e strumentale al raggiungimento delle finalità dello
stesso e al soddisfacimento dei bisogni dei suoi membri.21
Secondo l’economia aziendale quando un’attività umana si svolge in forma “isti-
tuzionalmente organizzata”, ovvero secondo regole consolidate e codificate e con
comportamenti accettati da coloro che sono coinvolti nell’attività sopracitata, po-
ne in essere un istituto, inteso come un complesso di elementi e di fattori, di ener-
gie e di risorse personali e materiali22, e deve rispettare, tra gli altri, i principi e i
criteri di “razionale impiego” dei beni che sono disponibili in quantità limitata ri-
spetto ai propri bisogni.23
L’elemento che distingue un istituto sociale da una qualsiasi altra forma associati-
va, è, come chiaramente spiegato dalle parole di Azzini24, la sua attitudine a per-
25
21 Alberti G.B., Elementi di economia aziendale, CEDAM, 2002, p. 13.
22 Airoldi G., Aziende non profit: classificazioni, 1996, in AA.VV., Le aziende non profit tra Stato e mercato, Atti del convegno AIDEA svoltosi a Roma, 28-30 settembre 1995, Clueb, Bologna; Brunetti G. e Coda V.. 1994, pag.39
23 Masini C., Lavoro e risparmio, Utet Torino, 1979 e Airoldi G., Brunetti G. e Coda V.,Economia Aziendale, Bologna, Il Mulino, 1994
24 Azzini L., Istituzioni di Economia d’azienda, Giuffrè, 1982, p. 10.
durare nel tempo e quindi la conseguente necessità di dotarsi di norme proprie atte
a regolare sia i rapporti interni sia quelli esterni per perseguire tale intento.
Per quanto invece concerne la definizione di azienda, ne esistono molteplici e non
è possibile individuarne una che sia unica, vera ed esaustiva.25 È però interessante
delineare quali siano i requisiti che differenziano l’azienda rispetto a qualsiasi al-
tra entità economica.
Quand’è che un istituto è classificabile come azienda? Troina afferma che “cia-
scuna entità azienda è individuabile in quanto centro di produzione su basi siste-
matiche di beni e/o servizi. La produzione (trasformazione ) economica attuata su
basi sistematiche (ovvero la creazione sistematica di utilità) è da considerarsi la
qualità ontologica che caratterizza ogni singola entità azienda, a prescindere dal-
le possibili ed alternative classificazioni di studio e - almeno inizialmente - facen-
do astrazione della peculiare produzione che ciascuna di esse attua. In altre paro-
le, un istituto è definibile come azienda in quanto è centro sistematico di una certa
produzione da destinare al consumo per la soddisfazione di certi bisogni
umani”.26
26
25 Sulle definizioni del concetto di azienda Onida afferma che: “...possono mutare nel tempo, anche perché mutano, nelle loro manifestazioni, gli stessi fenomeni che formano oggetto di studio”.Onida P., Economia d’azienda, UTET, 2005, p. 50.
26 Troina G., Lezioni di Economia Aziendale, CISU, 2006, p.4
Riprendendo poi il pensiero dell’ aziendalista Gino Zappa, Onida27 afferma che la
vita dell’azienda si manifesta essenzialmente nella durevole e coordinata attività
rivolta a dati fini, nel sistema in continuo rinnovamento e mutevole degli atti e dei
fatti di gestione. Si tratta quindi di un istituto economico destinato a perdurare nel
tempo, il cui obiettivo è quello di soddisfare i bisogni dell’uomo, attraverso un
complesso organizzato di beni e di persone.
Onida28 inoltre, approfondendo il pensiero del maestro, spiega due caratteri gene-
rali e di fondamentale importanza per distinguere le aziende dagli istituti econo-
mici di diversa natura: l’unità nella molteplicità e la permanenza nella mutabilità.
Prima di tutto l’azienda è una realtà dinamica ed in continua evoluzione che, ri-
cerca in ogni momento la più efficiente combinazione delle risorse disponibili per
il miglior soddisfacimento dei bisogni umani.29 Si tratta poi di un’attività econo-
mica che viene svolta in maniera continua e coordinata attraverso un incessante
susseguirsi di operazioni economiche che si distinguono da una qualsiasi altra at-
tività economica, in quanto, sebbene svolte in tempi e contesti differenti, risultano
fortemente correlate ed interdipendenti, acquistando significato e valore solo se
considerate in maniera sistematica. L’azienda é pertanto costituita da una molte-
plicità di elementi collegati da strette relazioni di complementarità e connessio-
27
27 Onida P., Economia d’azienda, UTET, 2005
28 Onida P., Economia d’azienda, UTET, pagg. 4-5, 2005
29 Todesco C., La misurazione dei risultati delle organizzazioni nonprofit, Università de-gli studi di Verona-Dipartimento di Scienze Giuridiche, a.a. 2010-2011
ne, che cooperano per il raggiungimento di un fine comune. Proprio il fatto che
un’azienda possa essere considerata come un insieme di operazioni economiche
sistematicamente correlate, presuppone quanto osservato da Zappa30, ovvero che
non si tratti di un accidente della vita economica, bensì di un istituto duraturo o
almeno nato per durare. Per poter sopravvivere negli anni un’azienda deve impa-
rare a gestire la mutabilità fisiologica intrinseca nella sua natura, mantenendo
sempre la propria indipendenza rispetto alle persone che ne guidano la gestione e
agli avvenimenti che li riguardano, facendo in modo che i mutamenti avvengano
senza compromettere la continuità e la funzionalità del sistema di elementi etero-
genei che la compongono.
1.4.2 Le organizzazioni nonprofit nel dibattito sulla classificazione delle aziende: caratteri distintivi.
Dopo aver dato una generale definizione di azienda, per poter collocare al
posto giusto le aziende nonprofit, dobbiamo affrontare un’altra annosa questione:
la classificazione delle aziende.
Proponiamo prima di tutto quanto affermato dalla teoria aziendale classica, riser-
vandoci più avanti la possibilità di effettuare un confronto con le tendenze degli
ultimi anni.
28
30 Zappa V., Le produzioni nell’economia delle imprese, Ⅰ, pagg. 65,80, Milano, 1957
Onida31 propone la classificazione che divide le c.d. “aziende di erogazione” dalle
“aziende di produzione per lo scambio o per il mercato”.
Ciò che le distingue sono le diverse modalità con cui esse soddisfano i bisogni
della collettività, gestendo ed impiegando le risorse a loro disposizione in modo
tale da tendere all’equilibrio economico ed operando quindi secondo il principio
di economicità. La principale differenza è pertanto la configurazione assunta dai
rispettivi cicli di gestione, ovvero l’insieme delle diverse operazioni economiche
svolte da un’azienda e riconducibili a quattro raggruppamenti: finanziamenti, in-
vestimenti, disinvestimenti, rimborsi e remunerazioni.
Nello specifico, le “aziende di erogazione” si occupano direttamente e durevol-
mente di soddisfare i bisogni di determinati soggetti, attraverso il trasferimento di
beni e servizi che non necessariamente comportano l’obbligo di corrispondere una
remunerazione, da parte dei destinatari, per i beni e servizi ricevuti.
Nella classe delle “aziende di produzione per lo scambio di mercato” si collocano,
invece, quelle aziende che provvedono al soddisfacimento dei bisogni della collet-
tività in maniera indiretta, cioè attraverso il collocamento sul mercato dei beni e
dei servizi prodotti, al fine di ottenere un corrispettivo.
Appare quindi evidente come la differenza non risieda nelle modalità di acquisi-
zione e di impiego dei fattori di produzione, bensì nel diverso modo in cui i beni e
i servizi prodotti vengono successivamente messi a disposizione della collettività.
29
31 Onida P., Economia d’azienda, UTET, pagg. 5-13, 2005
Nelle aziende di erogazione il ciclo di gestione termina con il collocamento sul
mercato dei beni e dei servizi prodotti, poichè, nella c.d. “fase dei disinvestimen-
ti”32, non viene acquisito nuovo potere d’acquisto da destinare alla ricostituzione
dei fattori di produzione impiegati ed allo sviluppo di nuovi cicli di gestione.33
Le aziende di erogazione, per realizzare il proprio oggetto, determinano “uscite”
della ricchezza di cui dispongono grazie alle “entrate” provenienti da varie fonti,
ma, come ci ricorda Onida34, tali “entrate” e tali “uscite” non sono perfettamente
assimilabili ai costi e ai ricavi delle aziende di produzione per lo scambio. In que-
ste ultime, i costi vengono sostenuti in vista dei ricavi ch’essi potranno permettere
di conseguire; nelle aziende di erogazione, invece, le erogazioni e i consumi e
quindi le “uscite”, sono stimolate non dalle “entrate”, ma dai bisogni dell’ente al
quale l’azienda pertiene. Inoltre nell’azienda di produzione, l’espansione della
produzione e dei relativi costi determina, almeno nel lungo termine, l’accresci-
mento dei ricavi, mentre in quella di erogazione, l’aumento delle uscite per soddi-
30
32 Ottenuti i prodotti e i servizi oggetto dell’attività d’azienda, si procede al loro colloca-mento sul mercato, al fine di ottenere nuovo potere d’acquisto in misura superiore rispetto alla sommatoria dei poteri d’acquisto inseriti nel processo produttivo. La differenza tra il potere d’acquisto conseguito dal collocamento sul mercato dei beni e servizi prodotti e il potere d’acquisto inserito nel processo produttivo, rappresenta la nuova ricchezza prodot-ta dall’azienda. Il potere d’acquisto ottenuto durante la fase dei disinvestimenti può essere reintrodotto nel ciclo gestione, cosa che avviene solitamente nel breve termine, oppure può essere trasferito ai soggetti detentori del capitale di rischio dell’azienda, dando così luogo alla fase dei rimborsi e delle remunerazioni. (Alberti G.B., Elementi di economia aziendale, CEDAM, 2002, p. 23).
33 Todesco C., La misurazione dei risultati delle organizzazioni nonprofit, Università de-gli studi di Verona-Dipartimento di Scienze Giuridiche, a.a. 2010-2011
34 Onida P., Economia d’azienda, UTET, pag, 8 2005
sfare i bisogni dei quali l’azienda si occupa, può determinare la contrazione delle
entrate, ma risultare comunque conveniente per il benessere dell’ente cui l’azien-
da appartiene.
Esiste poi una terza classe di aziende che vengono definite “composte” per via
della loro natura ibrida. Trattasi infatti di aziende di erogazione nelle quali l’attivi-
tà produttiva é molto complessa e sviluppata e quindi per nulla diversa da quella
svolta dalle aziende di produzione per il mercato.35 Tale attività di produzione è
spesso finalizzata all’ottenimento di beni e servizi che andranno in seguito scam-
biati sul mercato dietro corrispettivo, pur mantenendo come fine ultimo il diretto
soddisfacimento dei bisogni della collettività.
Altra classificazione interessante è quella proposta da Troina36, che trova la sua
ratio logica nel diversificare le diverse “entità azienda” rispetto alle modalità di
destinazione delle rispettive produzioni. partendo da questo presupposto, l’Autore
individua tre distinte tipologie di istituti aziendali:
31
35 Secondo Onida nelle aziende composte “...l’azienda di erogazione è intimamente col-legata in una sola economia complessa e solidale, ad un una o più aziende di produzio-ne”. ONIDA P., Economia d’azienda, UTET, 2005, p. 11; Azzini L., Istituzioni di econo-mia d’azienda, Giuffrè, 1982, pp. 37-38.
36 Troina G., Lezioni di Economia Aziendale, CISU, 2006, p. 4-5
• aziende che producono per lo scambio e che operano, quindi, sul mercato,
altresì chiamate imprese37;
• aziende che producono destinando la loro produzione alle persone o alle
“istituzioni” che le mantengono in vita. Esse sono anche dette aziende di
consumo o pseudoimprese o aziende autoproduttrici;
• aziende che destinano la produzione a tutta la collettività, o ad una parte pre-
stabilita di essa, attraverso atti di liberalità. Esse sono anche dette aziende di
erogazione.
Sempre nell’opera “Lezioni di economia aziendale”, Troina spiega che l’azienda-
impresa nasce e viene mantenuta in vita non tanto perché possa produrre un certo
bene e/o un certo servizio piuttosto che un altro, ma perché, tramite la strumenta-
lità del bene e/o del servizio prodotto, essa possa pervenire ad un adeguato sur-
plus, inteso quest’ultimo come positiva differenza tra il flusso di ricavi conseguiti
per la cessione dei beni e/o dei servizi prodotti ed il flusso dei costi che é stato
necessario sostenere per poter realizzare la produzione stessa.
Da quanto sopra affermato, si deduce che per questo tipo d’azienda, l’indispensa-
bile obiettivo da perseguire è quello di conseguire un adeguato livello di surplus,
tale da garantire la continuità aziendale e l’adeguata remunerazione di tutti i fatto-
32
37 Secondo lo Zappa, se in senso generico è impresa ogni azienda di produzione, tipica- mente l’impresa è l’azienda che produce per lo scambio di mercato al fine di conseguire un reddito. Però, osserva ancora lo Zappa, le imprese che producono per lo scambio di mercato non operano necessariamente al fine di conseguire un reddito. Zappa V., Le pro- duzioni nell’economia delle imprese, I, pagg. 209-210, Milano, 1957
ri produttivi impiegati. Per tale motivo le imprese sono caratterizzate dal rischio
che l’economia dei costi e dei ricavi messa in atto non sia idonea a garantire il
surplus atteso, minandone la sopravvivenza.
Al contrario, obiettivo delle aziende di erogazione è quello di svolgere la propria
attività nel modo più efficiente possibile, coprendo le spese future che andranno
sostenute, attraverso sufficienti e programmati proventi che derivano - direttamen-
te o indirettamente - da atti di liberalità a loro favore. In questo caso sono i pro-
venti su cui si può contare a determinare il livello della produzione da erogare e,
quindi, i relativi oneri da sostenere. Da quanto detto, si deduce che un’azienda di
erogazione per poter sopravvivere deve subordinare le spese ai proventi, ovvero
spendere nei limiti delle risorse disponibili.
L’equilibrio economico di un’azienda di erogazione deve essere valutato conside-
rando la politica di spese posta in essere dall’ente, verificando che l’azienda sia in
grado di programmare le spese da sostenere, gestendo efficientemente nel tempo
le risorse di cui è dotata. Per stabilire se un’azienda d’erogazione si trova in equi-
librio economico o meno, bisogna pertanto non limitarsi al solo equilibrio conta-
bile, ma piuttosto guardare alla sua produzione erogativa, in modo tale da include-
re nell’analisi il fine ultimo per il quale la stessa è stata creata e per il quale viene
mantenuta in vita. A tal proposito è utile ricordare che, nel caso delle aziende
d’erogazione, occorre distinguere due categorie di spese: le spese istituzionali, che
sono direttamente imputabili al fine erogativo, e le spese strutturali che, invece,
33
servono per mantenere in piedi la struttura (stipendi, canoni, fitti etc.). Un’attenta
analisi del rapporto tra spese strutturali e spese istituzionali, può aiutare a com-
prendere se l’azienda viene gestita in maniera adeguata o meno rispetto al fine per
cui è stata costituita.
Come inizialmente preannunciato, quanto sopra affermato si rifà alla teoria azien-
dale classica che, negli ultimi anni, è stata oggetto di non poche critiche.
Tra gli altri, Viganò38 e Farneti39 hanno messo in dubbio l’attuale validità delle
vecchie definizioni d’azienda e del sopra indicato metodo di classificazione,
aprendo un dibattito che portasse ad individuare una soluzione più consona per
l’inquadramento di realtà nuove ed emergenti quali quella delle aziende nonprofit.
A tal proposito Farneti40 fornisce la seguente definizione : “l’azienda può essere
definita come un sistema di forze economiche che realizza, nell’ambiente di cui è
parte complementare, in condizioni di autonomia e di tendenziale durabilità,
un’attività economica consistente in un processo di produzione e di distribuzione
di beni e/o servizi, con il fine di creare utilità a favore del soggetto aziendale e/o
di altre collettività di riferimento”.
34
38 Viganò E., Il concetto generale di azienda, in AA.VV., Azienda. Primi contributi per un rinnovato concetto generale, Cedam, 2000, p. 633.
39 Farneti G., Verso una nuova definizione di «azienda», con quali conseguenze sull’Eco-nomia Aziendale: prime riflessioni, in Rivista Italiana di Ragioneria e di Economia Aziendale, n. 7-8, 1999, pp. 346 e ss.
40 Farneti G., Economia d’Azienda, FrancoAngeli, 2007, p. 3.
Sulla scia di queste nuove tendenze, a partire dagli anni Novanta, si è aperto un
acceso dibattito in merito all’inquadramento delle aziende nonprofit all’interno
del più ampio mondo delle organizzazioni nonprofit in generale. Essendo ormai
evidente il progressivo ed incessante sviluppo di questa particolare classe di orga-
nizzazioni, Borgonovi (1994)41, Capaldo (1996)42 ed Airoldi (1996)43, hanno in-
trodotto ufficialmente questa nuova tipologia di azienda, provando anche ad indi-
viduarne i caratteri distintivi.
La prima peculiarità riguarda la motivazione, la mission, alla base della loro esi-
stenza e la natura dell’attività svolta. Rientrano infatti nel nonprofit tutte le orga-
nizzazioni che si prefiggono l’incremento dell’utilità per la collettività o per de-
terminati gruppi di soggetti come fine istituzionale, intervenendo in ambiti quali
quelli della salute, dell’assistenza sociale, della cultura e dell’istruzione.
A differenza delle realtà profit, i fini sono di natura non economica ma, anche se
tali organizzazioni sono generalmente finanziate da donatori, ciò non preclude la
possibilità di svolgere attività generatrici di reddito. È proprio qui che risiede il
35
41 Borgognovi E., Dalla storicizzazione dei fini e dalla flessibilità dei mezzi il contributo delle aziende nonprofit al progresso economico sociale, in L’elasticità dell’azienda di fronte al cambiamento (Atti del convegno AIDEA, Torino 1993), Clueb, Bologna, 1994.
42 Capaldo P., Le aziende non profit tra Stato e mercato, Atti del ⅩⅤⅢ Convegno del-l’Accademia Italiana di Economia Aziendale (Roma, 28-30 settembre 1995), Clueb, Bo-logna, 1996
43 Airoldi G.,Aziende non profit: classificazioni, Atti del ⅩⅤⅢ Convegno dell’Accade-mia Italiana di Economia Aziendale (Roma, 28-30 settembre 1995), Clueb, Bologna, 1996
secondo elemento distintivo, ovvero nel fatto che non va esclusa la possibilità per
tali organizzazioni di conseguire un risultato economico positivo, ma semplice-
mente quella di ridistribuire gli utili che invece vanno interamente reinvestiti.
Sia le organizzazioni profit sia quelle nonprofit devono operare secondo il princi-
pio di economicità44, ma mentre le prime lo fanno per ottenere un utile capace di
remunerare adeguatamente il capitale di rischio, per le seconde operare combi-
nando efficacia ed efficienza significa creare migliori condizioni per i soggetti a
cui è destinata l’attività di tali organizzazioni.
Il risultato economico quindi non rappresenta per le nonprofit un indicatore sinte-
tico di performance idoneo, essendo per esse non un obiettivo operativo, bensì un
vincolo da rispettare per garantire un’esistenza autonoma dell’attività.
L’economicità assume quindi un significato diverso, specialmente in tema di auto-
sufficienza economica. Se da un lato per le aziende profit economicità significa
generare ricavi tali da coprire tutti i costi e da remunerare i diversi fattori produt-
tivi, senza dover quindi ricorrere a fonti di finanziamento esterno sproporzionate
rispetto alle proprie capacità di presumibile rientro sul debito, la sopravvivenza
della maggior parte delle aziende nonprofit dipende fortemente dai contributi dei
donatori o degli Enti pubblici. Quello che si cerca di conseguire in quest’ultimo
caso non è dunque un equilibrio costi-ricavi, bensì un equilibrio costi-benefici,
36
44 Intesa come combinazione di efficienza ed efficacia in maniera duratura. Zangrandi A. (a cura di) , Aziende non profit: le condizioni di sviluppo, Egea, Milano
dove tali benefici sono da considerare più di ordine sociale che non piuttosto
economici.45 In altre parole, le aziende nonprofit non hanno come fine il surplus,
ma più propriamente attuano processi economici per soddisfare fini diversi dal-
l’accrescimento della propria ricchezza o, se questa è perseguita, lo è in misura
strumentale per accrescere la possibilità di soddisfazione del fine dichiarato. Es-
se, in quanto aziende, tenderanno a rendere massimo il rapporto mezzi-fini e ri-
cercheranno il loro equilibrio economico soddisfacendo nella misura più adegua-
ta possibile le attese-interessi delle persone o delle istituzioni ad esse
convergenti.46
Le aziende nonprofit, come le imprese, fanno riferimento all’autonomia di inizia-
tiva privata e a comportamenti non vincolati da norme di diritto pubblico, ma ope-
rano in settori spesso considerati marginali e non considerati dalle imprese per il
fatto che non si riesce a coprire col il prezzo di vendita del bene o servizio il costo
sostenuto per la sua produzione. Compito delle aziende nonprofit diventa spesso
quello di dimostrare come anche questi settori siano economicamente sostenibili.
Inoltre sul risultato economico e sul governo dell’azienda influiscono in modo
particolare le motivazioni personali che hanno portato la persona a lavorare in
questo ambito.
37
45 Bandini F. (a cura di), Economia e management delle aziende nonprofit e delle imprese sociali, pag. 5 CEDAM, 2013
46 Troina G., Lezioni di Economia Aziendale, CISU, 2006, p. 38
A differenza degli enti pubblici, le aziende non profit non sono diretta espressione
dell’intera collettività, ma della volontà di alcuni soggetti con i quali instaurano
uno stretto rapporto maggiormente fiduciario, rispetto a quello che può instaurare
un ente pubblico. Inoltre erogano servizi direttamente disciplinati dal proprio sta-
tuto in totale autonomia perché non esiste, come per gli enti pubblici, un vincolo
di legge specifico che indichi quali servizi produrre e come produrli.47
Secondo Zamagni48, le organizzazioni nonprofit sono enti di carattere misto, che
contengono contemporaneamente aspetti tipici del settore pubblico e del settore
privato, ma accomunati dal principio di reciprocità. Infatti l’erogazione di beni e
servizi da parte delle organizzazioni nonprofit non presuppone l’esistenza di una
contropartita in termini di copertura dei costi di produzione o di remunerazione
dei fattori produttivi data l’assenza di un prezzo di vendita dei prodotti o servizi
( e se anche tale prezzo viene pagato é sempre inferiore a quello di mercato) e la
partecipazione di lavoro volontario e gratuito.
Prescindendo poi dalle generiche caratteristiche comuni che tipizzano ogni azien-
da nonprofit, e delle quali abbiamo precedentemente parlato, é possibile indivi-
duare altre importanti tipicità tra cui:
38
47 Bandini F. (a cura di), Economia e management delle aziende nonprofit e delle imprese sociali, CEDAM, 2013 pag. 6-7
48 Zamagni S. (a cura di), Non Profit come economia civile, Il Mulino, Bologna, 1998
• la presenza di una gestione complessa caratterizzata dalla compresenza
di attività istituzionali, finalizzate al raggiungimento della mission, e at-
tività collaterali, finalizzate alla produzione di avanzi di gestione da uti-
lizzarsi per il finanziamento dell’attività principale;
• in termini organizzativi ed amministrativi la gestione è spesso approssi-
mativa e sorretta dallo slancio ideale del suo fondatore e di coloro che
prestano la propria attività soprattutto nella fase iniziale di vita;49
• tendenza a creare, al pari delle imprese, adeguate strutture patrimoniali,
al fine di favorire condizioni di sviluppo e di sopravvivenza dell’istituto
nel tempo;
• rapporto di natura fiduciaria con la collettività di riferimento, sia per i
servizi prestati, che per i fondi ricevuti;
• il successo dell’organizzazione dipende strettamente dalle risorse umane
a disposizione; le organizzazioni avvertono sempre più la necessità di
disporre di personale, soprattutto direttivo, con maggiore preparazione in
materiale gestionale e direzionale.
Restano poi valide tutte le altre condizioni indicate nella definizione di organizza-
zione nonprofit di Salamon e Anheier precedentemente citata.
39
49 Bandini F., Manuale di economia delle aziende non profit, CEDAM, Padova, 2003
Infine, tenendo conto delle diverse fonti di finanziamento di cui si avvalgono le
organizzazioni nonprofit, possiamo distinguere due grandi raggruppamenti50: da
una parte vi sono le organizzazioni la cui natura è usualmente definita “redistribu-
tiva”, in quanto si caratterizzano per la fornitura gratuita di beni e servizi a sogget-
ti che non sono in grado di offrire un corrispettivo. Tali organizzazioni si configu-
rano come vere e proprie aziende di erogazione e si finanziano prevalentemente
attraverso donazioni di privati o trasferimenti da parte del settore pubblico. Si trat-
ta quindi di organizzazioni che mirano a soddisfare i bisogni della comunità di
riferimento, operando in modo simile a strumenti di redistribuzione di reddito e di
ricchezza, al di fuori delle logiche di mercato. Il sostentamento e la crescita di
queste organizzazioni è legata alla loro capacità di attrarre sempre nuovo potere
d’acquisto. Dall’altra parte troviamo organizzazioni nonprofit che pur perseguen-
do sempre obiettivi di utilità sociale, svolgono la propria attività offrendo sul mer-
cato beni e servizi contro il riconoscimento di un prezzo, che può anche differire
da quello comunemente praticato sul mercato per beni e servizi simili, ma costi-
tuisce comunque una remunerazione per i beni e servizi ceduti. Si tratta quindi di
organizzazioni le cui caratteristiche si avvicinano molto a quelle delle imprese, in
quanto il collocamento dei propri prodotti sul mercato avviene dietro il ricono-
scimento di un corrispettivo monetario.
40
50 Todesco C., La misurazione dei risultati delle organizzazioni nonprofit, Università de-gli studi di Verona-Dipartimento di Scienze Giuridiche, a.a. 2010-2011
Lo sviluppo di tali organizzazioni dipende prevalentemente dalla capacità di com-
petere sul mercato, offrendo beni e servizi qualitativamente soddisfacenti ad un
prezzo adeguato. Tale distinzione non risulta però essere così netta nella realtà
poichè vi sono numerose organizzazioni nonprofit che, nate come enti con finali-
tà redistributive, in seguito all’aumentare della domanda nel proprio settore di at-
tività e grazie alla professionalità acquisita, hanno iniziato a svolgere attività di
vendita di beni e servizi, assumendo strutture organizzative più stabili sempre più
simili a quelle di imprese tradizionali.51
1.5 La dimensione quantitativa del NonProfit italiano e le prospettive future di sviluppo
Volendo ora analizzare in maniera più specifica la realtà nonprofit italiana,
possiamo innanzitutto dire che essa é stata protagonista di un notevole sviluppo
negli ultimi anni, non solo per la sempre più evidente crisi del sistema di welfare
state del nostro paese, ma anche per il recente riconoscimento del c.d. “principio
di sussidiarietà” da parte dell’ordinamento giuridico italiano.
In particolare, l’art. 118 della Costituzione riserva un ruolo centrale al sopra citato
principio, distinguendo anche la sussidiarietà verticale da quella orizzontale.
Il secondo comma dell’art. 118 si riferisce al principio di sussidiarietà verticale,
ovvero all’attribuzione della responsabilità e titolarità dell’intervento pubblico
41
51 Barbetta G.P. - Maggio F., Nonprofit, Società editrice Il Mulino, 2008
all’istituzione più prossima al cittadino e quindi al riparto e alla distribuzione di
funzioni tra istituzioni pubbliche.52
Lo stesso art. 118, al comma 4, fa invece riferimento alla sussidiarietà orizzontale,
ovvero al riparto e alla distribuzione di funzioni tra istituzioni pubbliche e orga-
nizzazioni sociali.53
Questo comma prevede che siano in primis i cittadini, singoli ed associati, a svol-
gere in autonomia attività di interesse generale, mediante il favore ed il sostegno
di Comuni, Province, Regioni e dello Stato.54
Questa nuova idea di sussidiarietà e di amministrazione condivisa tra Stato e cit-
tadini, conferma quando già detto in precedenza in merito al fatto che non esiste
contrapposizione tra pubblico e privato, bensì uno stretto legame di collaborazio-
ne tra di essi.
In realtà il principio di sussidiarietà veniva riconosciuto dalla Costituzione italia-
na, anche se solo in maniera implicita, già prima della legge costituzionale n. 3/
42
52 Art. 118, Cost. Ⅰ comma: “ Le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.”
53 Art. 118, Cost., Ⅳ comma:“ Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
54 Musella M.-Santoro M., L’economia sociale nell’era della sussidiarietà orizzontale, G.Giappichelli Editore-Torino, 2012, p.29-36
2001 e, in particolare, ciò avveniva nell’art. 2 Cost.55, che introduce la supremazia
del ruolo della singola persona rispetto allo Stato e a qualsiasi altro potere pubbli-
co, nella creazione di un assetto istituzionale democratico in cui viene garantito,
da un lato, il rispetto dell’individuo isolatamente considerato, e dall’altro dell’es-
sere umano associato secondo una libera vocazione sociale.
Lo stesso articolo contribuisce all’affermazione del principio di pluralismo socia-
le secondo cui la finalità ultima delle formazioni sociali dovrebbe essere quella di
favorire lo sviluppo della personalità e della socialità del singolo individuo, age-
volandone l’inserimento nel contesto sociale e definendo le condizioni necessarie
al soddisfacimento dei suoi bisogni.
Allo stesso modo al singolo essere umano viene richiesta l’adesione a un princi-
pio di solidarietà sociale affinché i suoi comportamenti siano sempre orientati al
perseguimento del bene comune. In merito a ciò Zamagni dice: « l’interesse di
ognuno si realizza assieme a quello degli altri, non già contro (come accade con il
bene privato), né a prescindere dall’interesse degli altri (come accade con il bene
pubblico)».56
43
55 L’Art. 2 Cost. sancisce che: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e so-ciale»
56 Zamagni S.,“Un’idea di Europa: il modello sociale europeo”, in Macinavi C. (a cura di), Beni pubblici e servizi sociali in tempi di sussidiarietà, p. 266 e ss., 2007
Il riconoscimento costituzionale della sussidiarietà ha rappresentato e rappresente-
rà un indubbio fattore propulsore della crescita della realtà nonprofit, lasciando
sempre maggiore spazio all’iniziativa privata.
Tale sviluppo risulta evidente dai dati raccolti nel 2011 attraverso il 9° Censimen-
to delle istituzioni nonprofit.
Al 31 dicembre 2011, analizzando i dati ISTAT57, le istituzioni non profit attive in
Italia risultavano essere 301.191, con una crescita pari al 28% rispetto al 2001.
Esse rappresentavano il 6,4% delle unità giuridico-economiche attive in Italia e il
3,4% degli addetti (dipendenti)58 in esse impiegati. Indipendentemente dalla loro
dimensione in termini occupazionali, le istituzioni non profit costituivano, e con-
tinuano a costituire, in alcuni settori, la principale realtà produttiva del Paese.
Le dimensioni del settore sono rilevanti anche in termini di risorse umane impie-
gate, infatti le istituzioni non profit contano sul contributo lavorativo di:
• 4,7 milioni di volontari (circa 4 milioni nel 2001), corrispondente al 12%
della popolazione in età lavorativa;
• 681mila dipendenti, corrispondente a poco più del 3% dell’occupazione
non agricola dello stesso anno, ovvero a quasi il 50% di quella dei servi-
zi di pubblica utilità;
44
57 ISTAT, 9° Censimento dell’industria e dei servizi e Censimento delle istituzioni nonprofit, 2011
58 Per le istituzioni non profit gli addetti corrispondono ai lavoratori dipendenti.
• Considerando anche l’occupazione non retribuita, il peso del settore cor-
risponde a quasi il 25% dell’occupazione complessiva;
• 271mila lavoratori esterni;
• 5mila lavoratori temporanei.
Sono quattro istituzioni su cinque a usufruire del lavoro volontario, mentre il
13,9% delle istituzioni rilevate opera con personale dipendente e l‘11,9% si avvale
di lavoratori esterni (lavoratori con contratto di collaborazione). Rispetto al 2001,
raddoppia il numero di istituzioni con lavoratori esterni (35.977 istituzioni
nonprofit nel 2011 contro 17.394 nel 2001) con un incremento del numero di col-
laboratori del 169,4 %.
L’incremento riguarda quasi tutte le regioni italiane, con punte sopra la media na-
zionale al Centro e nel Nord-ovest (rispettivamente 32,8% e 32,4% in più rispetto
al 2001). Nello specifico la distribuzione territoriale delle istituzioni non profit
mantiene le caratteristiche, già rilevate nel 2011, di relativa concentrazione nel-
l’Italia settentrionale (157.197 unità pari al 52,2% del totale nazionale) e di una
minore localizzazione nel Centro (64.677 unità pari al 21,5%) e nel Mezzogiorno
(79.317 unità pari al 26,3%).
45
In base alla classificazione59 delle attività svolte dalle organizzazioni non profit
adottata nell’ambito del Censimento, l’area Cultura, sport e ricreazione è il settore
di attività prevalente nel quale si concentra il massimo numero di istituzioni: oltre
195 mila istituzioni, pari al 65% del totale nazionale. Molto meno rilevanti dal
punto di vista numerico risultano gli altri settori, ma si deve evidenziare un signi-
ficativo 8% nel settore dell’assistenza sociale e protezione civile, che occupa il
33% degli addetti nel nonprofit.
Dal punto di vista del valore economico, una recente ricerca di Unicredit Foun-
duation60 quantifica un volume di entrate stimato di 67 miliardi di Euro nel 2008,
pari al 4,3% del Pil, in deciso aumento rispetto ai dati Istat del 2001 che attestava-
no tale cifra a 38 miliardi di Euro, pari al 3,3% del Pil. Dati ancor più significativi
se accompagnati da una quantificazione del risparmio sociale derivante dalle ore
di lavoro messe gratuitamente a disposizione dai volontari e, ancor più, dal benes-
sere materiale e immateriale apportato a chi ha beneficiato delle loro prestazioni,
del loro aiuto e della loro solidarietà. Riprendendo le parole di Roberto Nicastro,
direttore generale di UniCredit, possiamo affermare che lo sviluppo del nonprofit,
di fatto, è una delle poche e bellissime risposte concrete alla crisi, con un aspetto
46
59 International Classification of Non profit Organizations �– ICNPO, in United Nations, Department or Economic and Social Affairs - Statistics Division, Handbook on Non-pro-fit Institutions in the System of National Accounts, Studies in methods, Series F., No. 91, New York, 2003.
60 UniCredit Foundation, 2012, Ricerca sul valore economico del terzo settore in Italia.
di anticiclicità. È forse l'unico settore che non sia export, rivolto all'interno dove
gli occupati non diminuiscono e porta, più delle attese, un grande contributo di
modernità, basti pensare al rapporto virtuoso con il territorio.
Per concludere, quanto sopra detto in merito al valore economico generato dal
Terzo Settore italiano, assume una dimensione ancora più significativa se si tiene
conto del fatto che, quando parliamo di organizzazioni nonprofit e di economia
sociale, per poter dare un’idea reale e significativa dell’effettiva ricchezza prodot-
ta, é opportuno considerare tre diverse tipologie di valore aggiunto61:
a)valore aggiunto economico, ovvero l’apporto in termini di aumento (o non
consumo) di ricchezza materiale, economica e finanziaria (investimento, ri-
sparmio), che un’organizzazione produce attraverso la sua attività specifica;
b) valore aggiunto sociale, cioè il contributo specifico in termini di produzione di
beni relazionali (dimensione relazionale interna) e creazione di capitale sociale
(dimensione relazionale esterna);
c) valore aggiunto culturale, inteso come apporto specifico in termini di diffu-
sione di valori (equità, tolleranza, solidarietà, mutualità), coerenti con la propria
mission, nella comunità circostante.
47
61 Venturi P., Villani R., Nuovo welfare e valore aggiunto dell’economia sociale, 2011
1.6 Le organizzazioni nonprofit nell’ordinamento giuridico italiano
Il settore nonprofit italiano è costituito da un insieme ampio e variegato di
organizzazioni che si differenziano l’una dall’altra per dimensioni, struttura orga-
nizzativa e ruolo. Obiettivo di questo paragrafo è quello di evidenziare le princi-
pali implicazioni giuridiche dei più diffusi assetti istituzionali scelti dagli enti
nonprofit, partendo da una breve analisi degli enti regolati dal libro Ⅰ del Codice
Civile che, agli artt. dal 14 al 42, prevede le seguenti forme giuridiche: associa-
zioni (riconosciute e non), fondazioni e comitati.
Le associazioni
Il termine associazione è usato spesso in senso molto ampio, perché può designare
qualunque raggruppamento di persone che si organizza per gestire un interesse
comune. Questa definizione potrebbe tuttavia adattarsi anche al caso di impresa a
fine di lucro, che altro non è se non un’organizzazione costituita con lo scopo di
procurarsi un vantaggio economico, cioè conseguire e distribuire profitto. Secon-
do i commentatori, però, il codice distinguerebbe tra le due fattispecie poiché le
finalità perseguite dai membri dovrebbero avere natura non economica e non
commerciale.
Secondo il codice civile, l’associazione può essere riconosciuta o non riconosciu-
ta, a seconda che abbia personalità giuridica oppure no. Con il riconoscimento,
l’associazione diventa persona giuridica a tutti gli effetti, in grado di firmare con-
48
tratti e obbligazioni, di rispondere con il solo proprio patrimonio agli obblighi sot-
toscritti e, se necessario, di comparire in giudizio. Al contrario, nelle associazioni
non riconosciute, è il presidente che risponde personalmente, anche dal punto di
vista patrimoniale, degli obblighi sociali. Il riconoscimento in origine era accorda-
to solo dal Capo dello Stato. Per semplificare, questa procedura è stata poi asse-
gnata da un lato alle Prefettura, quali uffici territoriali del governo, dall’altro alle
Regioni.62
La costituzione per atto pubblico è richiesta solo per quelle associazioni che in-
tendono chiedere il riconoscimento, mentre per quelle non riconosciute non viene
richiesta alcuna formalità.
Le fondazioni
La seconda tipologia di organizzazioni regolamentata dal Codice Civile negli artt.
15, 25, 26 e 28 c.c., é la fondazione. Il legislatore non fornisce una definizione
specifica di fondazione, ma “ tradizionalmente essa viene intesa come organizza-
zione creata per la gestione di un patrimonio autonomo destinato e vincolato, in
modo tendenzialmente perpetuo, al perseguimento di uno scopo socialmente rile-
vante”. 63 Per le fondazioni il fulcro è rappresentato dall’elemento patrimoniale:
pertanto, mentre nelle associazioni determinati soggetti si vincolano con un con-
tratto al raggiungimento di uno scopo, nel caso della fondazione è il patrimonio a
49
62 Barbetta G.P. - Maggio F., Nonprofit, Società editrice Il Mulino, 2008, pagg. 34-35
63 Ponzanelli G., Gli enti collettivi senza scopo di lucro, Torino, 2000, pag 139
essere vincolato ad uno scopo. La struttura dell’ente non richiede, tra l’altro, l’esi-
stenza o la permanenza del fondatore, tanto che la sua costituzione può avvenire
anche per un atto mortis causa.64
I comitati
Il Codice Civile riserva alla disciplina del comitato gli articoli da 39 a 42. Esso
nasce dall’iniziativa di più soggetti che si prefiggono il raggiungimento di uno
scopo, attraverso la formazione di un patrimonio. È un ente che permette di gesti-
re lo sviluppo di iniziative e progetti, attraverso la raccolta dei fondi necessari.
Si tratta quindi di “una forma di organizzazione plurisoggettiva, in cui un gruppo
di persone annuncia al pubblico un’iniziativa di beneficenza o soccorso, oppure
un programma orientato a promuovere opere pubbliche, monumenti, esposizioni e
altre iniziative del genere, secondo l’elencazione esemplificativa contenuta nel-
l’art. 39 c.c., sollecitando i terzi a intervenire con oblazione”65. Il comitato, quindi,
rappresenta lo strumento ideale per la gestione di iniziative che necessitano di un
veicolo agile e facilmente gestibile: non è necessario che vi sia un patrimonio ini-
ziale, può esser costituito verbalmente e non c’è alcun vincolo di carattere gestio-
nale e organizzativo. Il Codice Civile non impone l’obbligo dello statuto e della
pubblicità, la forma dell’atto pubblico è infatti necessaria solo ed esclusivamente
50
64 Bandini F. (a cura di), Economia e management delle aziende nonprofit e delle imprese sociali, pag. 24 CEDAM, 2013
65 Ponzanelli G., Gli enti collettivi senza scopo di lucro, Torino, 2000, pag 163
nel caso in cui il comitato intenda ottenere il riconoscimento. Infine, una volta che
si è esaurito lo scopo per il quale il comitato era stato costituito, quest’ultimo si
estingue.66
La legislazione speciale
Negli ultimi due decenni un’abbondante produzione di legislazione speciale ha
affiancato quanto già previsto dal Codice Civile, cercando, con scarsi risultati, di
adeguare l’ordinamento giuridico al nuovo ruolo che le organizzazioni nonprofit
italiane hanno iniziato a ricoprire nel mercato dei servizi alla persona e alla comu-
nità. Vi sono pertanto altre numerose disposizioni normative che regolano ulteriori
forme giuridiche che possono essere assunte dalle organizzazioni nonprofit: socie-
tà di mutuo soccorso (L. 3818/1886), enti di formazione professionale (L. 845/
1978), organizzazioni non governative (L. 49/1987), fondazioni di origine banca-
ria (L. 218/1990 e D.Lgs. 153/1999), organizzazioni di volontariato (L. 266/
1991), cooperative sociali (L. 381/1991), associazioni di promozione sociale (L.
383/2000), imprese sociali (D.Lgs. 155/2006), solo per citare le principali.
La situazione finora delineata risulta complicata dal fatto che, ai fini tributari, è
prevista un’ulteriore classificazione per le aziende nonprofit, che possono essere
distinte tra “enti non commerciali” o “O.N.L.U.S.”. La complicazione deriva dal
fatto che le O.N.L.U.S. costituiscono una particolare categoria di organizzazioni
51
66 Bandini F. (a cura di), Economia e management delle aziende nonprofit e delle imprese sociali, pag. 25 CEDAM, 2013
nonprofit, istituita con il D.Lgs n. 460 del 1997 e rappresentano un’ulteriore for-
ma giuridica adottabile da un’organizzazione nonprofit, risultando peraltro disci-
plinata solamente del punto di vista tributario.67
1.7 Conclusioni
In questo capitolo si è cercato di descrivere brevemente l’universo delle orga-
nizzazioni nonprofit, evidenziandone i tratti caratteristici e l’importanza che esse
hanno assunto e, continuano ad assumere, nel contesto italiano.
La crisi del welfare state prima, e il riconoscimento del principio di sussidiarietà
nella nostra costituzione poi, hanno contribuito enormemente alla progettazione di
un nuovo sistema di protezione sociale e di politiche per il benessere dei cittadini,
che ha portato inevitabilmente a rivalutare il ruolo svolto dagli enti nonprofit.
Il maggior rilievo acquisito da tali realtà nello scenario economico del nostro pae-
se, ha implicato la necessità di delineare in maniera chiara i confini all’interno dei
quali tali organizzazioni si muovono, individuandone le caratteristiche tipiche che
consentono di distinguerle da enti di diversa natura.
Sulla base di quanto discusso nel capitolo, si può affermare che si tratta di aziende
a tutti gli effetti che, in molti casi, svolgono una attività di produzione e di scam-
bio sul mercato del tutto assimilabile a quella propria dalle imprese profit.
52
67 Todesco C., La misurazione dei risultati delle organizzazioni nonprofit, Università de-gli studi di Verona-Dipartimento di Scienze Giuridiche, a.a. 2010-2011
In nessun caso le organizzazioni nonprofit possono sottrarsi dall’onere di operare
nel pieno rispetto del principio di economicità, il quale però, non rappresenta più
un obiettivo da raggiungere, bensì un vincolo da rispettare al fine di garantire la
sopravvivenza dell’ente ed il perseguimento completo, efficace ed efficiente della
propria mission.
Difatti, il fine istituzionale delle organizzazioni nonprofit, non può in nessun caso
essere il conseguimento di un utile, ma quest’ultimo è solo la condizione necessa-
ria alla produzione di utilità per la collettività, che rappresenta il vero obiettivo da
raggiungere.
L’adozione di un approccio aziendale al problema trattato nel presente lavoro, na-
sce dalla convinzione che l’adattamento di modelli e pratiche gestionali tipiche
delle realtà profit non implica lo snaturamento di quelle organizzazioni che non
hanno come fine ultimo la generazione di un utile, bensì può aiutare queste ultime
a migliorare le proprie performance e, a facilitare il raggiungimento degli obiettivi
fissati e del loro fine istituzionale.
53
CAPITOLO Ⅱ
RISK MANAGEMENT E SISTEMI DI CONTROLLO INTERNO NELLE ORGANIZZAZIONI NONPROFIT
SOMMARIO: 2.1 Introduzione. - 2.2 CoSO Report Ⅰ: un nuovo concetto di siste-ma di controllo interno. - 2.3 Enterprise Risk Management (ERM): caratteri gene-rali. - 2.4 Applicazione dell’ERM alle organizzazioni non profit: analisi dei rischi caratteristici. - 2.5 Modello Organizzativo 231/01 e correlazioni con il modello ERM. - 2.5.1 Applicabilità della normativa 231/01 alle organizzazioni nonprofit. - 2.5.2 Implementazione del Modello 231/01 in un’organizzazione nonprofit: il ca-so ActionAid. - 2.5.2.1 L’organizzazione ActionAid. - 2.5.2.2 Codice Etico e mo-dello organizzativo di ActionAid. - 2.6 Conclusioni.
2.1 Introduzione
Dopo aver definito e delineato le principali caratteristiche delle organizzazio-
ni nonprofit, tenuto conto del notevole sviluppo di cui sono state assolute prota-
goniste negli ultimi anni, nel presente capitolo intendiamo porre in evidenza quan-
to per esse risulti necessaria una maggiore consapevolezza delle attività svolte e
dei relativi rischi e, conseguentemente, lo sviluppo di un programma di risk ma-
nagement e di un sistema di controllo interno adeguati. Possiamo, infatti, ritenere
valida anche per le organizzazioni nonprofit, la crescente esigenza di rassicurare i
molteplici stakeholders in merito al fatto che i vertici aziendali adottino politiche
gestionali capaci di tutelarne gli interessi, rispettando le norme che regolano l’am-
biente esterno in cui si trovano ad operare. Il risk management, inteso come l’in-
sieme di processi, mezzi e risorse presenti a tutti i livelli dell’organizzazione, che
54
danno ragionevole garanzia del raggiungimento degli obiettivi aziendali, é divenu-
to un componente essenziale del sistema di corporate governance68. All’interno di
tale sistema vi sono la gestione globale dei rischi nonché il Sistema di Controllo
Interno (SCI), che assumono la connotazione di strumenti con cui gli organi di
governo adempiono le proprie responsabilità in termini di correttezza gestionale,
trasparenza delle informazioni, efficienza ed efficacia.69
I modelli di riferimento considerati nel presente lavoro sono quello dell’Enterprise
Risk Management (ERM) e quello regolato dal d.lgs 231/2001, poiché, a parere di
chi chi scrive, hanno contribuito a modificare profondamente la concezione di si-
stema di controllo interno. L’analisi generale è poi seguita da una riflessione che,
partendo dai rischi caratteristici delle organizzazioni nonprofit, punta a compren-
dere come il risk management e il controllo interno possano essere applicati in
maniera efficace alle stesse e, a tale scopo, vengono presentati tre casi di studio
55
68 La corporate governance, secondo una visione in buona parte condivisa, può essere definita facendo riferimento a due piani diversi: uno interno, come sistema di assegnazio-ne del potere decisionale, progettato per ovviare all’impossibilità di concludere contratti completi tra i diversi stakeholders; l’altro esterno, come insieme di regole, istituzioni e procedure concepite per difendere gli investitori da comportamenti opportunistici di im-prenditori e manager, assicurando l’adeguato ritorno del capitale investito e condizionan-do l’attività di questi ultimi attraverso una serie di meccanismi e incentivi. Elementi co-muni tra ottica interna ed esterna sono l’oggetto, rappresentato dagli stakeholders azien-dali, e l’obiettivo, che risiede nella promozione di correttezza, trasparenza e responsabili-tà nell’attività dell’impresa. Questa definizione é suggerita in: Mustilli M., Teoria del-l’impresa, processi decisionali e governance, Corporate Governance: governo, controllo e struttura finanziaria, Il Mulino, 2009
69 Dittmeier C.A., Internal Auditing, Egea, 2011 p. 142
volti a mostrare concretamente come, alcune realtà nonprofit hanno risposto alla
crescente esigenza di controllo.
2.2 CoSO Report Ⅰ: un nuovo concetto di sistema di controllo interno (SCI)
Nel 1992, in materia di SCI, è stato pubblicato un documento di fondamentale
importanza, il c.d. CoSO Report Ⅰ che, propone uno schema comune per la defini-
zione del controllo interno e per le procedure di valutazione dei controlli. Esso è
la prima risposta concreta all’esigenza di modificare in maniera radicale il concet-
to di SCI, esigenza scaturita dall’elevato dinamismo del contesto in cui operano
le aziende e dalla conseguente necessità per queste ultime di doversi adattare re-
pentinamente agli scenari in continua evoluzione.
Per lungo tempo il controllo interno è stato inteso come un sistema di vincoli in
capo al management, finalizzato a ridurre il rischio di comportamenti indesiderati
e di pratiche contrarie alle norme vigenti. Né è derivata una visione restrittiva del-
le potenzialità del sistema, interpretato soprattutto come insieme di controlli a tu-
tela del patrimonio e della rispondenza della comunicazione economico finanzia-
ria a principi e regole contabili. Si trattava di un concetto statico e concentrato sul-
la massimizzazione dei controlli, che portava a considerare il controllo interno
come un’attività meramente gestionale e non anche manageriale e strategica.
56
La nuova idea di sistema di controllo interno proposta dal CoSO Report Ⅰ e, am-
pliamente sviluppata nel successivo CoSO Report Ⅱ, si incentra sulla gestione
continuativa dei rischi aziendali al fine di minimizzarli quanto più possibile. Si fa
strada dunque un sistema di governo dei rischi che si configura come un processo
continuo, concentrato sul raggiungimento degli obiettivi aziendali, anticipatorio,
proattivo e a responsabilità diffusa. Pertanto, data anche la comune finalizzazione
al corretto esercizio della responsabilità per l’ottimizzazione dei risultati d’impre-
sa, assume sempre maggiore importanza l’integrazione tra le diverse forme di
controllo (internal auditing, risk management, controllo di gestione etc.). Al ri-
guardo, é possibile assumere un concetto ampio di controllo interno, che ricom-
prende l’insieme delle attività coordinatamente dirette a garantire:
• la disponibilità di tutte le informazioni rilevanti per il consapevole ed effica-
ce sviluppo delle decisioni aziendali;
• l’ottenimento di coerenza tra attese interne ed esterne, risorse, attività e ri-
sultati raggiunti;
• la correttezza, la completezza e la trasparenza delle comunicazioni intra e
interaziendali;
• la correttezza delle procedure adottate e dei comportamenti realizzati; il con-
tenimento e la gestione dei rischi;
• la salvaguardia del patrimonio aziendale e delle potenzialità di creazione di
valore.
57
Rileva poi evidenziare la crescente enfasi posta sul controllo ex ante, volto ad
agevolare la costante ottimizzazione delle performance aziendali e a prevenire
danni economici e d’immagine. Un efficace controllo ex ante rappresenta un fatto-
re di garanzia della qualità delle decisioni gestionali, nell’interesse degli sha-
reholders e di tutti gli altri stakeholder.70
Tornando a quanto previsto dal CoSO Report Ⅰ, esso definisce il controllo interno
come un processo messo in atto dal consiglio di amministrazione, dal manage-
ment e da tutto il personale, volto a fornire una ragionevole garanzia sul rag-
giungimento dei seguenti obiettivi71:
• efficacia ed efficienza delle attività operative;
• attendibilità delle informazioni di bilancio;
• conformità alle leggi e alle norme vigenti (compliance).
Si tratta evidentemente di una definizione basata sul carattere sistematico ed inte-
grato che deve caratterizzare un efficace ed efficiente SCI e, sul fatto che quest’ul-
timo deve supportare il management al fine di favorire il perseguimento degli
obiettivi aziendali.
58
70 Salvioni D.M., Il sistema di controllo di corporate governance, Corporate governance: governo, controllo e struttura finanziaria, Il Mulino, 2009
71 Committee of Sponsoring Organizations of the Treadwaz Commission (CoSO), Inter-nal Control, Integrated Framework, AICPA, 1992
2.3 Enterprise Risk Management (ERM): caratteri generali
L’ERM, anche conosciuto come CoSO Report Ⅱ, rappresenta l’evoluzione
del documento descritto nel precedente paragrafo e, tratta dei rischi e delle oppor-
tunità che influenzano la creazione o la preservazione di valore ed è definito come
segue72:
La gestione del rischio aziendale è un processo, posto in essere dal consiglio di
amministrazione, dal management e da altri operatori della struttura aziendale;
utilizzato per la formulazione delle strategie in tutta l’organizzazione; progettato
per individuare eventi potenziali che possono influire sull’attività aziendale, per
gestire il rischio entro i limiti del rischio accettabile e per fornire una ragionevole
sicurezza sul conseguimento degli obiettivi aziendali.
Prendendo le mosse da questa definizione si deduce che L’ERM è:
• un processo continuo e pervasivo che interessa tutta l’organizzazione, svolto
da persone che occupano posizioni a tutti i livelli della struttura aziendale;
• utilizzato per la formulazione delle strategie, ovvero per la definizione del
profilo di rischio desiderato, per plasmare il contesto in cui si originano i
rischi e per la definizione delle politiche di gestione degli stessi;
59
72 Enterprise Risk Management – Integrated Framework: Executive Summary and Fra-mework, Enterprise Risk Management – Integrated Framework: Application Techniques, 2 vol., 2004 by the Committee of Sponsoring Organizations of the Treadway Commission
• utilizzato in tutta l’organizzazione: sia nelle sue singole attività (in ogni li-
vello e in ogni unità della struttura), che nella sua attività complessiva. Esso
include una visione del rischio che considera l’azienda nel suo complesso;
• progettato per identificare eventi potenziali73 che potrebbero influire sull’at-
tività aziendale e per gestire il rischio entro i limiti del rischio accettabile;
• in grado di fornire una ragionevole sicurezza al consiglio di amministrazione
e al management in relazione al raggiungimento degli obiettivi prefissati;
• in grado di conseguire obiettivi relativi a una o più categorie distinte 74 , ma
che si possono sovrapporre.
L’ERM è costituito da otto componenti interconnessi. Essi derivano dal modo in
cui il management gestisce l’azienda e sono integrati con i processi operativi.
Questi componenti sono:
• Ambiente interno - L’ambiente interno, che costituisce l’identità essen-
ziale di un’organizzazione, determina i modi in cui il rischio è considera-
60
73 Un evento può avere un impatto negativo, un impatto positivo, o entrambi. Eventi con im-patti negativi costituiscono “rischi”, che possono ostacolare la creazione di valore o erodere quello esistente. Eventi con un impatto positivo possono compensare impatti negativi o pos-sono costituire “opportunità”. Le opportunità sono possibilità che un evento si verifichi e in-fluisca positiva- mente per il conseguimento degli obiettivi, contribuendo, così, alla creazio- ne di valore oppure preservando quello esistente. Il management valuta le opportunità emerse, riconsiderando le strategie formulate in precedenza o i processi di definizione degli obiettivi in atto ed elaborando nuovi piani per cogliere i vantaggi che ne derivano.
74 Le distinte categorie di obiettivi sono:• strategici: sono quelli a supporto dell’orientamento strategico di fondo del-l’azienda, sono di natura generale e vengono definiti ai livelli più elevati della struttura organizzativa;• operativi: riguardano l’impiego efficace ed efficiente delle risorse aziendali;• di reporting: riguardano l’affidabilità delle informazioni fornite dal reporting;• di conformità: riguardano l’osservanza delle leggi e dei regolamenti in vigore.
to e affrontato dalle persone che operano in azienda, come pure la filoso-
fia della gestione del rischio, i livelli di accettabilità del rischio, l’integri-
tà e i valori etici e l’ambiente di lavoro in generale.
• Definizione degli obiettivi - Gli obiettivi devono essere fissati prima di
procedere all’identificazione degli eventi che possono potenzialmente
pregiudicare il loro conseguimento. L’ERM assicura che il management
abbia attivato un adeguato processo di definizione degli obiettivi e che
gli obiettivi scelti supportino e siano coerenti con la missione aziendale e
siano in linea con i livelli di rischio accettabile.
• Identificazione degli eventi75 - Gli eventi esterni e interni, che influiscono
sul conseguimento degli obiettivi aziendali, devono essere identificati
distinguendoli tra “rischi” e “opportunità”. Le opportunità devono essere
valutate riconsiderando la strategia definita in precedenza o il processo
di formulazione degli obiettivi in atto.
• Valutazione del rischio - I rischi sono analizzati, determinando la proba-
bilità che si verifichino in futuro e il loro impatto, al fine di stabilire co-
61
75 Un evento può avere un impatto negativo, un impatto positivo, o entrambi. Eventi con impatti negativi costituiscono “rischi”, che possono ostacolare la creazione di valore o erodere quello esistente. Eventi con un impatto positivo possono compensare impatti ne-gativi o possono costituire “opportunità”. Le opportunità sono possibilità che un evento si verifichi e influisca positivamente per il conseguimento degli obiettivi, contribuendo, co-sì, alla creazione di valore oppure preservando quello esistente. Il management valuta le opportunità emerse, riconsiderando le strategie formulate in precedenza o i processi di definizione degli obiettivi in atto ed elaborando nuovi piani per cogliere i vantaggi che ne derivano.
me devono essere gestiti. I rischi sono valutati in termini di rischio ine-
rente (rischio in assenza di qualsiasi intervento) e di rischio residuo (ri-
schio residuo dopo aver attuato interventi per ridurlo).
• Risposta al rischio - Il management seleziona le risposte al rischio emer-
so (evitarlo, accettarlo, ridurlo, comparteciparlo) sviluppando interventi
per allineare i rischi emersi con i livelli di tolleranza al rischio e di ri-
schio accettabile.
• Attività di controllo - Devono essere definite e realizzate politiche e pro-
cedure per assicurare che le risposte al rischio siano efficacemente ese-
guite.
• Informazioni e comunicazione - Le informazioni pertinenti devono esse-
re identificate, raccolte e diffuse nella forma e nei tempi che consentano
alle persone di adempiere correttamente le proprie responsabilità. In li-
nea generale, si devono attivare comunicazioni efficaci, in modo che
queste fluiscano per l’intera struttura organizzativa: verso il basso, verso
l’alto e trasversalmente.
• Monitoraggio - L’intero processo dell’ERM deve essere monitorato e
modificato ove necessario. Il monitoraggio si concretizza in interventi
continui integrati nella normale attività operativa aziendale o in valuta-
zioni separate, oppure in una combinazione dei due metodi.
62
Esiste un rapporto diretto tra obiettivi, ossia ciò che un’azienda si sforza di conse-
guire, e i componenti dell’ERM, ovvero ciò che occorre per conseguire gli obiet-
tivi. Questo rapporto è schematizzato in una matrice tridimensionale a forma di
cubo.
Le quattro categorie di obiettivi - strategici, operativi, di reporting e di conformità
sono rappresentate nelle colonne verticali del cubo, gli otto componenti sono in-
vece rappresentati nelle righe orizzontali del cubo, e le unità operative dell’orga-
nizzazione sono rappresentate dalla terza dimensione della matrice. Questo sche-
ma fa capire l’estrema flessibilità del modello, che qui si illustra: esso può essere
applicato, sia all’intero processo di gestione del rischio aziendale, sia distintamen-
te alle singole categorie di obiettivi, ai componenti, alle singole unità operative e
alle singole sub unità di queste ultime.
2.4 Applicazione dell’ERM alle organizzazioni non profit: analisi dei rischi caratteristici
Negli ultimi anni sono sempre di più le aziende che, riconoscendone l’impor-
tanza strategica, decidono di effettuare investimenti mirati alla creazione di una
funzione aziendale preposta al controllo interno ed, in particolare modo, al risk
management. Molto spesso però si tende a credere che l’implementazione di un
sistema strutturato di controllo interno e di gestione dei rischi sia opportuna solo
nel caso di imprese di grandi dimensioni: obiettivo dei prossimi paragrafi sarà in-
63
vece quello di dimostrare come, apportando gli opportuni adattamenti, tali stru-
menti possano generare un impatto positivo anche nelle aziende nonprofit.
Uno dei motivi per cui, ad oggi, la maggior parte degli enti del Terzo Settore sem-
bra essere ancora diffidente circa l’opportunità di investire risorse nelle pratiche di
controllo e risk management, va senza dubbio individuato nell’ambiente organiz-
zativo interno76 che, tra l’altro, riflette la cultura del rischio e del controllo.
Nella maggior parte dei casi chi opera nelle aziende nonprofit non si pone il pro-
blema della gestione dei rischi, perché non riesce a considerare tali rischi come
una reale minaccia per il raggiungimento degli obiettivi prefissati e, quindi, per il
compimento della propria mission. Inoltre, sono in molti ad avvalorare la tesi se-
condo cui solo le organizzazioni di grandi dimensioni avrebbero bisogno di un
vero e proprio risk management, specie considerando il trade off costi e benefici.
Si crede infatti che l’implementazione di sistemi di controllo e di gestione dei ri-
schi sia un processo molto lungo e complicato e che debba necessariamente impli-
care un enorme dispendio di tempo e di risorse economiche. Questo potrebbe non
essere vero, specialmente nel caso in cui, almeno nelle fasi iniziali, si adottino mi-
sure semplici comunque capaci di generare dei benefici immediati.
64
76 L’ambiente interno è la prima delle otto componenti dell’ERM e riguarda le politiche dei vertici nella gestione del rischio, l’orientamento comportamentale delle persone ope-ranti a tutti i livelli aziendali, lo stile manageriale, i valori etici, la definizione di ambiti di autorità e di responsabilità, le competenze in relazione alle responsabilità e l’esistenza di politiche e procedure. Esso comprende ovviamente l’ambiente di controllo trattato nel modello COSO Report I, che determina il grado di sensibilità del personale alla necessità di controllo.
Premesso quanto sopra, nell’attuale contesto di sviluppo del Terzo Settore risulta
necessaria una maggiore consapevolezza delle attività svolte che tenga anche con-
to dei rischi e delle opportunità ad esse attribuibili.
Inoltre bisogna dire che, proprio conseguentemente all’enorme sviluppo di cui si
sono rese protagonista, le aziende nonprofit si trovano a dover affrontare nuove
sfide quali ad esempio la necessità di ridurre i costi strutturali ed operativi; la ge-
stione di relazioni sempre più complesse con parti terzi per l’erogazione di beni e
servizi o ancora l’acquisizione di competenze sempre più tecniche e professionali,
indispensabili per rispettare il principio di economicità.
Queste sopraggiunte criticità influenzano inevitabilmente il modo di operare delle
aziende nonprofit, le tipologie di controlli interni che devono essere implementati
nonché le categorie di rischi che necessitano di essere gestiti.
Gli enti nonprofit, a cause delle loro peculiarità strutturali e gestionali, si trovano
a dover gestire una grande quantità di rischi speciali e nuovi che, implicano la ne-
cessità di maturare all’interno di queste organizzazioni una maggiore consapevo-
lezza sull’importanza di un sistema di controllo interno e di gestione dei rischi
funzionante.
Secondo il parere di alcuni autori77, il risk management può aiutare un’organizza-
zione a proteggere i beneficiari, i volontari, il personale, e la collettività in genera-
65
77 Cerri M., Botto E., Il risk management al servizio delle organizzazioni non profit, Non Profit, Vol.5, fasc. 2, pagg. 243 e ss, Magioli Editore, 1999
le, da eventuali danni. Poiché lo scopo di una nonprofit che eroga un servizio è
quello di rispondere ad un bisogno espresso dalla comunità, l’idea che una qual-
siasi delle attività condotte possa danneggiare la collettività può essere difficile da
comprendere all’interno dell’organizzazione. Tuttavia solo quando un’organizza-
zione nonprofit comincia ad accorgersi di alcuni fatti negativi essa è in grado di
identificare le strategie necessarie ad evitare incidenti ed errori di procedura. Que-
sto le permette di ridurre al minimo il potenziale di errori di valutazione che le
possono togliere la credibilità e la fiducia dell’opinione pubblica di cui essa ha
bisogno per restare affidabile. Il risk management diventa quindi per la nonprofit
un mezzo per verificare la sicurezza della propria struttura, l’adeguatezza dei pro-
pri criteri di fornitura dei servizi, i metodi con i quali serve gli utenti, il modo in
cui forma i volontari e la qualità del proprio rapporto con il pubblico.
Andiamo ora ad analizzare quali sono i rischi nuovi e speciali tipici delle aziende
nonprofit. In generale possiamo individuare quattro categorie di beni che sono ge-
neralmente a rischio; ognuna di esse può sia esporre a rischi, sia essere colpita
dalle conseguenze di eventi negativi: persone (membri dell’organo di amministra-
zione, volontari, impiegati, utenti, donatori e la collettività in generale); proprietà
(edifici, strutture, attrezzature, materiali etc.); reddito (vendite, finanziamenti,
contributi di altra natura); avviamento (reputazione, considerazione all’interno
della comunità e capacità di attrarre fondi e volontari).
66
A parere di chi scrive, gli enti nonprofit dovrebbero prestare particolare attenzione
proprio all’avviamento, essendo questo essenziale per la realizzazione della pro-
pria mission. Un sistema di controllo interno funzionante e un processo sistemati-
co di risk management possono senza dubbio favorire la salvaguardia della repu-
tazione positiva, garantendo così buone prospettive di sopravvivenza all’organiz-
zazione.
Quanto fino a qui detto, assume ancora maggior rilievo se si considera il periodo
di austerità e di crisi economica degli ultimi anni, che ha influito molto negativa-
mente sulle attività di fund raising78 e quindi, conseguentemente, sui bilanci delle
organizzazioni nonprofit. Non bisogna d’altro canto tralasciare che il crescente
debito pubblico, ha portato a delegare sempre di più ad enti terzi rispetto allo Sta-
to i servizi di carattere socio-assistenziale, richiedendo così alle organizzazioni
nonprofit un maggiore sforzo per riuscire a soddisfare la domanda di tali servizi.79
Risulta quindi evidente come la combinazione tra la riduzione drammatica delle
67
78 Il termine fund raising viene generalmente utilizzato nella letteratura scientifica italiana come sinonimo di raccolta fondi. In realtà nell’accezione inglese non vi è tanto il signifi-cato di raccogliere o ricevere quanto quello di accrescere, elevare, incrementare (to rai-se). Si tratta quindi di uno strumento atto ad accrescere e diversificare in modo dinamico le proprie fonti d’entrata al fine di permettere, in linea con i valori dell’ azienda nonprofit, lo sviluppo quali-quantitativo delle attività istituzionali e l’evoluzione della mission.
79 Musella M.-Santoro M., L’economia sociale nell’era della sussidiarietà orizzontale, G.Giappichelli Editore-Torino, 2012, p.14 : “Quando, all’inizio degli anni ’90, l’obiettivo del risanamento dei conti pubblici diviene essenziale per un ricollocamento dell’Italia nel quadro europeo e mondiale, salgono per prime sul banco degli imputati le spese connesse con lo Stato sociale e, la crisi del welfare state diviene “crisi fiscale”, incapacità, cioè, della finanza pubblica di sostenere l’onere delle prestazioni assicurate nel campo sanita-rio, previdenziale e socio-assistenziale”.
risorse a disposizione degli enti sopracitati e, l’aumento della domanda dei servizi
offerti da questi ultimi, se non gestita in maniera opportuna, possa influire pesan-
temente sulle loro performance e sui sistemi di controllo interno, comprometten-
done, in molti casi, la sopravvivenza.
Riferendoci ai dati contenuti nella ricerca di Unicredit Foundation sul valore eco-
nomico generato da Terzo Settore, è evidente come la principale fonte di finan-
ziamento delle aziende nonprofit siano le erogazioni da parte di privati che rap-
presentano ben il 70% del valore delle entrate complessive, nettamente superiore
al 36% dei contributi provenienti dal settore pubblico.
Entrambe le fonti di finanziamento sopracitate, dipendono strettamente dalla repu-
tazione dell’organizzazione, nonché dalla capacità di quest’ultima di comunicare
in maniera efficace e trasparente agli stakeholder esterni le modalità di impiego
delle risorse finanziarie e i risultati raggiunti.
2.5 Modello Organizzativo 231/01 e correlazioni con il modello ERM
Il d.lgs. n. 231/200180ha introdotto nel nostro ordinamento un peculiare mec-
canismo di imputazione della responsabilità amministrativa di tipo “para-pena-
le”81 ai seguenti soggetti diversi dalle persone fisiche: enti forniti di personalità
68
80 D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle per-sone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della L. 29 settembre 2000, n. 300).
81 La responsabilità è “nominalmente” amministrativa, ma l’accertamento avviene in sede di procedimento penale.
giuridica, società e associazioni anche prive di personalità giuridica. In virtù di
detto meccanismo, è prevista l’imputazione all’ente della responsabilità derivante
dalla commissione di alcuni reati, i cui autori sono sempre persone fisiche, in con-
siderazione del particolare legame che esiste tra lo stesso ente e il soggetto che ha
materialmente commesso l’illecito.82
L’adozione di uno specifico Modello di organizzazione, gestione e controllo, ben-
ché non resa obbligatoria dalla norma, può tuttavia costituire una sorta di “scudo
aziendale” in grado di esimere dalla responsabilità amministrativa. Infatti, in caso
di un “evento illecito 231”, l’ente non è responsabile del fatto commesso, se sono
provate le seguenti circostanze83:
• adozione, prima della commissione del fatto, di un Modello di organiz-
zazione e di gestione idoneo a prevenire i reati;
• nomina di un Organismo di Vigilanza (OdV) con compiti di verifica sul
funzionamento, osservanza e aggiornamento del Modello Organizzativo;
• adeguata vigilanza da parte dell’Organismo (OdV).84
69
82 Il modello 231/2001 per gli enti non profit: una soluzione per la gestione dei rischi, a cura del Gruppo di lavoro “D.Lgs. 231/2001 ed Enti non profit”(in collaborazione con l’Istituto di Ricerca dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili), Ottobre 2012.
83 É necessario distinguere tra i reati commessi da parte di soggetti apicali e i reati com-messi da soggetti sottoposti all’altrui vigilanza. Nel primo caso, l’onere della prova è a carico dell’ente, che deve dimostrare che il Modello Organizzativo è stato attuato e che i soggetti apicali hanno aggirato con l’inganno l’intero sistema decisionale. Nel secondo caso, l’efficace attuazione dell’idoneo Modello viene ritenuta sufficiente per escludere la responsabilità dell’ente e, pertanto, l’onere della prova è a carico dell’accusa.
84 Dittmeier C.A., Internal Auditing, Egea, 2011 p.66
• commissione del reato con elusione fraudolenta del Modello 231;
Nell’ottica integrata della governance aziendale si evidenzia che i punti cardine
del Modello Organizzativo ex D.Lgs. 231/01, anche se riferiti specificatamente
alle tipologie di reato indicate dalla legislazione vigente, costituiscono un vero e
proprio sistema di controllo interno e di gestione dei rischi.
A tal proposito, di seguito vengono riportati alcuni degli elementi chiave sui quali
vengono sviluppati i modelli organizzativi d.lgs 231/0185:
• mappatura delle “attività sensibili” dell’azienda, vale a dire delle attività
nel cui ambito si ritiene più alta la possibilità/probabilità che siano
commessi i reati;
• attribuzione all’Organismo di Vigilanza di specifici compiti di controllo
sull’efficace e corretto funzionamento del Modello;
• istituzione di un sistema sanzionatorio per i comportamenti che costitui-
scano una violazione del Modello;
• creazione e divulgazione di un Codice etico;
• attività di sensibilizzazione e diffusione a tutti i livelli aziendali delle re-
gole comportamentali e delle procedure istituite;
70
85 NedCommunity Amministratori non esecutivi ed indipendenti, Amministratori e componenti del Comitato controllo e rischi: come valutare la governance in tema di rischi e controlli, febbraio 2013.
• definizione di poteri autorizzativi coerenti con le responsabilità assegna-
te;
• verifica e documentazione delle operazioni a rischio;
• verifica dei comportamenti aziendali, nonché del funzionamento del Mo-
dello con conseguente aggiornamento periodico (controllo ex post).
È interessante osservare come tali elementi convergano perfettamente nel modello
ERM che, se correttamente applicato, può fornire un’idonea copertura anche ri-
spetto alle esigenze di presidio previste dal D.Lgs. 231/01.
Come illustrato nella figura riportata sopra, è possibile rilevare una perfetta sim-
metria funzionale tra gli otto presidi del Modello Organizzativo 231 e gli otto
elementi dell’Enterprise Risk Management. In particolare:
• la comunicazione degli obiettivi prevista nel framework internazionale si
traduce nel Modello Organizzativo stesso che richiede, con inconfutabile
chiarezza, la definizione degli obiettivi di prevenzione dei rischi previsti
dalla norma legislativa;
• l’ambiente interno, quale fondamento generale di controllo, prevede tra
l’altro, un codice etico di impresa e il relativo sistema disciplinare come
standard di riferimento per una cultura del controllo e una gestione azien-
dale impostata sul rispetto di tale rigore etico. In questo senso, la diffusio-
ne delle prescrizioni del Modello 231, soprattutto tramite una costante at-
tività formativa, contribuisce a rafforzare un ambiente aziendale più con-
71
sapevole dei rischi da affrontare e dei presidi necessari a contenerli. Inol-
tre, il sistema di procedure e di deleghe aziendali costituisce il quadro di
riferimento per l’assegnazione di responsabilità, garantendo l’accountabi-
lity di tutti i processi aziendali, compresi quelli rilevanti ai fini 231;
• l’identificazione degli eventi di rischio e la relativa valutazione richiedo-
no una continua analisi integrata delle aree potenzialmente esposte anche
ai rischi di reato ex 231 e delle relative modalità di realizzazione, per valu-
tarne l’effettivo grado di esposizione; tutto questo si svolge in modo inte-
grato al sistema di risk assessment complessivo dell’impresa;
• le scelte strategiche operate dall’azienda per fornire una risposta ai rischi
al fine di evitarli, contenerli o accettarli, richiedono spesso la revisione dei
processi di controllo e conseguentemente l’adozione di idonee procedure
aziendali che, sempre con approccio integrato, presidiano anche le aree
ritenute sensibili in ottica 231;
• oltre ai presidi di primo livello, previsti dalle procedure e di competenza
del management operativo, l’attività di controllo implica necessariamente
un’attività di audit e di compliance svolte con indipendenza anche ai fini
231;
• l’informazione e la comunicazione richiamano l’esigenza di sistemi e
modalità di informazione tra loro integrati nonché di una gestione struttu-
72
rata dei flussi informativi e delle segnalazioni verso l’Organismo di Vigi-
lanza, anche al fine di individuare situazioni potenzialmente a rischio;
• il monitoraggio rappresenta una componente centrale dello schema com-
plessivo che comprende la necessaria supervisione da parte dell’Organi-
smo di Vigilanza sull’adeguatezza e sul funzionamento del Modello, non-
ché sul suo continuo aggiornamento. All’attività di monitoraggio gli organi
di controllo e il Consiglio di amministrazione partecipano ciascuno in base
ai propri compiti e ruoli.
La correlazione appena descritta tra gli elementi dei due modelli mostra tutta la
valenza di un framework integrato dei sistemi di controllo e gestione dei rischi che
può quindi essere efficacemente declinato in ogni ambito in cui sono strutturati
presidi aziendali.
Inoltre, con l’introduzione di un numero crescente di reati, tra cui quelli informa-
tici, è essenziale per l’efficacia del Modello Organizzativo 231 che tutte le attività
insite nello stesso, dall’analisi dei rischi all’attuazione delle procedure aziendali,
siano realizzate in modo integrato con il complessivo sistema di controllo e di ge-
stione dei rischi.
2.5.1 Applicabilità della normativa 231/01 alle organizzazioni nonprofit
Fin dall’entrata in vigore del d.lgs. 231/2001, si è a lungo discusso in merito
all’applicabilità dello stesso al Terzo Settore.
73
Nel dibattito dottrinale erano stati sollevati talora dei dubbi sulla possibilità che
l’art. 1 del decreto legislativo86 – che individua i “Soggetti” destinatari della di-
sciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche - abbraccias-
se anche gli enti privatistici, in qualsiasi forma giuridica organizzati, privi di fina-
lità lucrativa.
Gli enti no profit privatistici (comitati, fondazioni, associazioni o altre organizza-
zioni collettive che perseguono fini ideali e/o solidaristici) non rientrano certa-
mente nella categoria pubblicistica degli enti espressamente esclusi, ma – secondo
un cospicuo orientamento dottrinale – non rientrerebbero comunque nella sfera
applicativa del d.lgs. n. 231/2001 in quanto carenti del necessario “carattere im-
prenditoriale” dell’attività svolta, requisito attorno al quale appare essere costruito
il complessivo sistema punitivo del decreto legislativo.87
Invero, trattandosi nella maggior parte dei casi di associazioni (espressamente in-
cluse ex art. 1 del decreto), il mero riconoscimento formale della natura di “orga-
nizzazione non lucrativa di utilità sociale” non solleverebbe l’ente dal rischio di
74
86 Il suddetto art. 1 circoscrive l’estensione soggettiva della responsabilità degli “enti” (questa è la categoria generica e generale fissata dal comma 1) sia in positivo (comma 2), sia in negativo (comma 3): (i) in positivo, sono richiamati tutti indistintamente gli “enti forniti di personalità giuridica”, nonché le “società” e le “associazioni” anche qualora “prive della personalità giuridica”; (ii) in negativo, sono richiamati lo Stato, gli enti pub-blici territoriali, gli enti pubblici non economici e gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.
87 Per ulteriori approfondimenti su questo punto, si veda: Di Giovine O., Lineamenti so-stanziali del nuovo illecito punitivo, in Reati e responsabilità degli enti, (a cura di) G. Lattanzi, Milano, 2010, p. 35).
incorrere nel sistema sanzionatorio per i reati commessi nel suo interesse o a suo
vantaggio, qualora sia dimostrata la reale natura economica dell’attività svolta.
Da quanto affermato sopra, il loro assoggettamento alla disciplina de qua avrebbe
dovuto essere scontato, tuttavia, considerata la “sensibilità” di alcuni servizi offer-
ti da enti nonprofit, si è fortemente dubitato che questi ultimi potessero essere as-
soggettati alla responsabilità da reato: a favore dell’esonero sono state addotte,
come già accennato, l’assenza del fine di lucro e la carenza del necessario caratte-
re imprenditoriale dell’attività svolta.
Gli argomenti addotti per escludere gli enti privatistici senza fine di lucro (e che
realmente non esercitano, sotto mentite spoglie, attività imprenditoriale) dall’am-
bito applicativo del decreto non sembrano comunque insuperabili, ed anzi il detta-
to normativo sembra deporre a favore della conclusione contraria.88
In primo luogo, il requisito della necessaria economicità dell’attività svolta è ri-
chiesto espressamente dalla legge (sebbene desumibile a contrario) solo in rela-
zione agli “enti pubblici” (diversi dallo Stato e dagli enti pubblici territoriali) (cfr.
art. 1, comma 3, d.lgs. n. 231/2001) e non, viceversa, in merito agli enti privatisti-
ci, che sono selezionati solo sulla base della tipologia di organizzazione collettiva
– societaria o associativa – che concretizza la “terzietà soggettiva” rispetto alla
75
88 In tema di responsabilità ex d.lgs. n. 231/2001 ed enti privatistici senza fine di lucro (Onlus), 27 Luglio 2011, nota al Tribunale di Milano, 22 marzo 2011, giudice Arnaldi
persona fisica (l’essere un “ente” ai sensi dell’art. 1 comma 1 del decreto legisla-
tivo).
In secondo luogo, l’interesse e il vantaggio per l’ente, quali criteri oggettivi di
ascrizione della responsabilità ex crimine all’ente (ex art. 5 d.lgs. n. 231/2001),
non hanno alcuna espressa caratterizzazione normativa in senso patrimonialistico,
potendo pertanto essere apprezzati anche in una dimensione non economica.
Infine, se anche il contesto criminologico in cui il d.lgs. n. 231/2001 è partorito
fosse individuabile – come pare ragionevole – proprio nella “criminalità del pro-
fitto”, cioè nelle attività di impresa orientate alla realizzazione illecita di vantaggi
economici, ciò non toglie che tale sistema punitivo sia stato progressivamente uti-
lizzato dal legislatore anche per colpire altri paradigmi criminali, orientati al rag-
giungimento di scopi ideologici: ne è un chiaro esempio l’art. 25-quater, che inse-
risce nel catalogo dei reati-presupposto i “Delitti con finalità di terrorismo o di
eversione dell’ordine democratico”, cioè fattispecie potenzialmente anche estra-
nee alla logica del profitto economico.
In merito all’applicabilità del decreto alle nonprofit, risulta particolarmente inte-
ressante quanto affermato dall’Istituto di Ricerca dei Dottori Commercialisti e de-
gli Esperti Contabili in uno studio pubblicato nel 201289, nel quale si discute sulle
opportunità connesse all’adeguamento degli enti nonprofit alla normativa 231.
76
89 (Cndcec - Irdcec, Il modello 231 per gli enti non profit: una soluzione per la gestione dei rischi, ottobre 2012)
Si ritiene che i dubbi in merito all’applicabilità del d.lgs 231/01 alle organizzazio-
ni nonprofit debbano essere superati, avendo riguardo sia al tenore letterale della
disposizione, sia all’attività in concreto svolta da molti di questi enti: basta pensa-
re ai valori immobiliari e mobiliari detenuti da alcune fondazioni, ovvero alle as-
sociazioni sportive dilettantistiche, che in molti casi diventano strumento di frodi
fiscali e truffe. Pare evidente, dunque, che anche gli operatori del mondo non pro-
fit debbano essere ritenuti soggetti a rischio 231, considerate, in alcuni casi, le ri-
levanti conseguenze, anche sociali, potenzialmente derivanti dalla commissione di
un illecito.
L’applicazione della normativa 231/01 alle realtà nonprofit implica però la neces-
sità di riadattare quanto previsto alle peculiarità di questo particolare tipo di orga-
nizzazioni. Non essendo stati ancora elaborati da parte della dottrina schemi orga-
nizzativi specifici per il nonprofit, per l’implementazione di un adeguato “modello
231” è necessario far riferimento al framework e ai principi previsti per le aziende
profit, sempre tenendo bene a mente i rischi caratteristici e le particolarità tipiche
delle organizzazioni oggetto del presente studio.
77
2.5.2 Implementazione del Modello 231/01 in un’organizzazione nonprofit : il caso ActionAid
2.5.2.1 L’organizzazione ActionAid
ActionAid è nata nel 1972 in Gran Bretagna e nei primi anni si è occupata di for-
niture di servizi di base a comunità povere del sud del mondo attraverso il mecca-
nismo del sostegno a distanza. Nel corso degli anni, grazie soprattutto all’espe-
rienza maturata sul campo, ActionAid capito di dover agire sulle cause globali
della povertà: ha scelto così di creare un movimento capace di superare i confini
nazionali e dare voce alle comunità stesse con cui lavora andando oltre la logica
dell’assistenza e cercando di mobilitare i cittadini nella rivendicazione dei diritti
umani propri e altrui. Infatti, la vision di ActionAid è quella di un mondo senza
povertà e ingiustizia dove ogni persona possa godere pienamente dei propri diritti
e la sua missione è di lottare al fianco delle comunità più povere e marginalizzate
per permettere loro di superare la povertà e di vincere l’ingiustizia sociale di cui
sono vittime. Al contempo opera affinché gli Stati e le loro istituzioni siano demo-
cratici e responsabili e promuovano, proteggano e realizzino i diritti di tutti.
L'attuale struttura di ActionAid International (AAI) è il risultato di un processo di
trasformazione avviato negli anni ’90 e formalizzato nel 2003 quando è stata co-
stituita AAI, associazione di diritto olandese con sede di coordinamento in Suda-
frica. Il processo di internazionalizzazione è nato dalla volontà di costruire un
network con una struttura di governance realmente democratica, conferendo mag-
78
giore autonomia, autorità e responsabilità nei processi decisionali alle componenti
di AAI che operano nei paesi. Dopo la costituzione nel 2003 del Segretariato In-
ternazionale a Johannesburg, è stato sviluppato un processo di revisione della go-
vernance internazionale, che ha visto una graduale evoluzione in senso federale.
Oggi il network conta oltre 40 sedi in 5 continenti, è membro di più di 100 net-
work locali, impiega circa 2700 persone e collabora con circa 3000 ONG e partner
locali e coinvolge nel proprio sforzo oltre 15 milioni di persone.
La federazione è governata a partire dal 2009 da un’Assemblea Generale in cui
sono rappresentati gli Affiliati, gli Associati e le organizzazioni in fase di associa-
zione. Un Consiglio Direttivo ristretto assicura l’efficacia del processo di governo
interno, supervisionando l’operato del Segretariato Internazionale che a sua volta
coordina, facilita e sostiene le attività della federazione.
ActionAid Italia (nome amministrativo ActionAid International Italia ONLUS) è
presente sul territorio dal 1989 e ha operato fino a tutto il 2003 con il nome di
Azione Aiuto. Nel 1996 ha ottenuto il riconoscimento dello Stato italiano come
Ente Morale ed è ONLUS dal giugno 1998. Nel 2003 ha ottenuto il riconoscimen-
to formale come ONG da parte del Ministero degli Affari Esteri. ActionAid Italia
è impegnata a produrre cambiamenti nelle asimmetriche relazioni di potere tra
comunità povere ed escluse da una parte e istituzioni dall’altra: lavora per una ri-
partizione più equa delle risorse e affinché tutti abbiano le medesime opportunità
di sviluppo, utilizzando il quadro di riferimento dei diritti umani. ActionAid Italia
79
ha due sedi: a Milano e a Roma. È presente inoltre sul territorio attraverso il lavo-
ro prestato da numerosi attivisti riuniti in 40 Gruppi ed Entità Locali e, dal 2011,
nelle c.d. Aree di Radicamento. La struttura operativa tende a favorire un decen-
tramento forte delle responsabilità e una conseguente capacità decisionale rapida e
autonoma di tutti i programmi, affidando la gestione ad uno staff di professionisti.
ActionAid Italia è governata da un Consiglio Direttivo e da un’Assemblea dei So-
ci. Il Consiglio Direttivo, all’interno del quale si distribuiscono aree di responsabi-
lità specifica tra i singoli consiglieri con decisione ordinaria, ha ampi poteri per
quanto riguarda l’amministrazione ordinaria e straordinaria di ActionAid Italia.
L’Assemblea dei Soci ha il potere di designare e revocare il Presidente e i membri
del Consiglio Direttivo, deliberare sulle azioni di responsabilità nei confronti degli
amministratori e in merito alle esclusioni dei Soci, approvare le linee generali di
indirizzo dell’associazione e deliberare sulle proposte di modifica dello Statuto e
sul bilancio consuntivo.
A fine 2012 sono 2613 i membri dell’Assemblea dei Soci e sono 814 le persone
che in qualità di consigliere siedono nel Consiglio Direttivo.
In materia di gestione e pianificazione interna, ActionAid ha sviluppato il sistema
ALPS (Accountability, Learning & Planning System), ovvero una metodologia di
lavoro che delinea processi comuni a tutta l'organizzazione: elaborazione di stra-
tegie e piani d'azione, revisione di questi piani sulla base dell'esperienza, stesura
di rapporti annuali, verifiche e controlli, interni ed esterni. Si tratta quindi di un
80
sistema che delinea i requisiti, le linee guida e i processi chiave in tema di accoun-
tability all’interno di ActionAid, non soltanto in termini di processi organizzativi
per la pianificazione, il monitoraggio, l’elaborazione delle strategie, le revisioni e
l’audit finanziario, ma anche di atteggiamenti e comportamenti che ALPS chiede
di mettere in pratica quotidianamente, come organizzazione ma anche e soprattut-
to come persone che ne fanno parte. ALPS nasce con l’intento di accrescere la re-
sponsabilità di ActionAid nei confronti di tutti gli interlocutori, garantire che la
pianificazione partecipativa metta al centro di ogni processo l’analisi delle rela-
zioni di potere e l’impegno nella rivendicazione dei diritti in particolare delle
donne e dei bambini.
2.5.2.2 Codice Etico e modello organizzativo di ActionAid
ActionAid International Italia Onlus a partire dal gennaio 2013, si è dotata di un
Codice Etico e ha adottato, con l’approvazione del proprio Consiglio Direttivo, ai
sensi del D.Lgs. 8 giugno 2001 n. 231, un “Modello di organizzazione, gestione e
controllo”. Il Modello Organizzativo dell’Associazione si sostanzia in un sistema
strutturato ed organico di meccanismi interni, procedurali, di controllo e sanziona-
tori, idonei a prevenire o a ridurre la possibilità di commissione dei reati previsti
dal Decreto e rivolti agli organi associativi, ai soggetti in posizione apicale e a
quelli sottoposti all’altrui direzione. ActionAid International Italia Onlus, conte-
stualmente all’approvazione e adozione del Modello Organizzativo, ha ritenuto
opportuno adottare ed attuare un proprio Codice Etico - che è parte integrante e
81
sostanziale del suddetto Modello Organizzativo - volto a definire l’insieme dei
valori riconosciuti, accettati e condivisi, nonché i diritti, doveri e responsabilità
rispetto i soggetti con cui l’Associazione entra in relazione per il conseguimento
del proprio oggetto sociale.
Il Codice Etico dell’Associazione è stato predisposto per indicare i princìpi ispira-
tori del comportamento di tutti i Destinatari, al fine di definire con chiarezza e tra-
sparenza i valori ai quali ActionAid si ispira nello svolgimento delle proprie attivi-
tà. L’adozione del Codice Etico costituisce altresì uno dei presupposti per l’effica-
ce funzionamento del sistema di controllo interno istituito dall'organizzazione.
ActionAid International Italia Onlus, nell’ambito del proprio modello di governo,
ha inoltre istituito un Organismo di Vigilanza per il controllo interno cui è deman-
dato il compito di vigilare sull’efficacia e sull’effettività dei sistemi di controllo
interno istituiti, unitamente ai Sindaci, ed alla Società di Revisione esterna.
2.6 Conclusioni
Nell’attuale contesto di sviluppo, le organizzazioni nonprofit si trovano ogni
giorno a dover fronteggiare rischi nuovi che mettono a dura prova la loro possibi-
lità di sopravvivenza ed il raggiungimento della mission. Pertanto, l’adozione di
specifici modelli organizzativi, quale quello 231, e l’utilizzo di tecniche di risk
management, è divenuta vitale per proteggere l’ente ed i suoi stakeholder dai po-
tenziali danni futuri.
82
Il crescente numero di enti operanti nel contesto del nonprofit, la crisi economica
degli ultimi anni e, l’incremento della domanda e della complessità dei servizi so-
litamente demandati all’opera del Terzo Settore, sono fattori che devono spingere
le organizzazioni senza fine di lucro a riflettere seriamente sulla possibilità di ef-
fettuare investimenti finalizzati a migliorare il sistema di controllo interno e quel-
lo di gestione del rischio, al fine di rimanere competitivi sul mercato.
Il rischio maggiore in cui tali enti incorrono, se non vengono predisposte adeguate
misure cautelative, è quello legato ai c.d danni reputazionali. La buona reputazio-
ne è l’elemento alla base del rapporto di fiducia che l’ente nonprofit instaura con i
propri stakeholder, in particolar modo con i propri finanziatori e, senza il quale
non riuscirebbe né a reperire i fondi necessari allo svolgimento della propria atti-
vità, né a soddisfare di conseguenza i bisogni della collettività.
Preservare una buona percezione da parte dell’ambiente esterno, significa predi-
sporre delle strutture e delle procedure capaci di:
• fornire adeguate garanzie sulla correttezza delle attività svolte, coerentemen-
te con il fine istituzionale dell’ente e, nel pieno rispetto della legge e dei re-
golamenti interni;
• fornire una rappresentazione chiara e trasparente della gestione dell’organiz-
zazione ed, in particolar modo, dell’utilizzo efficiente dei fondi raccolti e dei
risultati raggiunti;
83
• garantire una totale adesione ai valori e alla mission dell’ente da parte di tut-
ti coloro che, volontariamente o non, lavorano per lo stesso, rappresentando-
lo all’esterno e svolgendo concretamente le azioni necessarie al persegui-
mento degli obiettivi prefissati;
• prevenire le frodi o altri atti illeciti;
• garantire la qualità dei beni e/o servizi prodotti.
Chiaramente la decisione di predisporre o meno determinati sistemi di controllo e
di gestione, dove essere sempre subordinata ad una preliminare valutazione dei
costi e dei benefici legati a tale tipologia di investimento: se indubbiamente un
sistema strutturato di controllo interno e di gestione del rischio è in ogni caso, an-
che nelle organizzazioni nonprofit di più piccole dimensione, utile a migliorare le
performance generali, non è altresì vero che esso sia anche necessario ed indi-
spensabile in maniera indiscriminata in ogni realtà.
Da quanto sin qui trattato, a parere di chi scrive, almeno le organizzazioni nonpro-
fit di più ampie dimensioni, che intrattengono relazioni complesse con innumere-
voli stakeholder diversificati e, che si trovano a dover gestire quotidianamente
ingenti volumi di operations, dovrebbero inserire la creazione di un programma di
risk management adeguato tra le proprie priorità.
Per quanto riguarda tutte le altre realtà di minori dimensioni, pienamente consa-
pevoli degli innegabili limiti spesso esistenti in termini di professionalità delle
risorse umane impiegate e delle risorse economiche disponibili, si può comunque
84
suggerire di prendere una serie di accorgimenti semplici, poco dispendiosi, ma
comunque efficaci per individuare ed eliminare almeno in parte i rischi maggiori.
In merito a questo, nel capitolo terzo del presente lavoro, viene presentato il caso
di AIESEC Italia che può fornire utili spunti concreti di riflessione.
CAPITOLO III
LA FUNZIONE DI INTERNAL AUDITING NELLE ORGANIZZAZIONI NONPROFIT
SOMMARIO: 3.1 Introduzione - 3.2 Riflessioni sul concetto di Internal Auditing (IA): definizione ed aspetti evolutivi - 3.3 Internal auditing e creazione del valore - 3.4 Rilevanza della funzione di internal auditing nel nonprofit: Il Social Internal Auditing - 3.5 Il Risk management e l’Internal Auditing in Save the Children - 3.5.1 L’organizzazione Save the Children - 3.5.2 Il sistema di controllo interno ed il ruolo dell’internal auditor - 3.6 La funzione di internal auditing in AIESEC - 3.6.1 L’associazione AIESEC - 3.6.2 Implementazione della funzione di internal auditing - 3.7 Auditing finanziario e contabile - 3.8 Il sistema informativo-conta-bile delle aziende nonprofit: il caso AIL - 3.8.1 L’associazione AIL - 3.8.2 Il si-stema contabile-gestionale adottato in AIL - 3.9 Conclusioni.
3.1 Introduzione
Questo ultimo capitolo sviluppa il tema centrale del presente lavoro di ricer-
ca, ovvero quello riguardante il ruolo che la funzione di internal auditing ricopre
o, potrebbe ricoprire, nelle organizzazioni nonprofit.
L’analisi presenta prima di tutto alcune riflessioni in merito all’evoluzione di cui è
stato protagonista il concetto di internal auditing, prendendo spunto dal percorso
85
storico ed evolutivo ampiamente descritto da Giuseppe D’Onza nell’opera intito-
lata “L’Internal Auditing. Profili organizzativi, dinamica di funzionamento e crea-
zione del valore.”
L’accento verrà posto in particolare modo sul processo di sviluppo che, partendo
dall’iniziale concezione di IA intesa come attività prevalentemente ispettiva e le-
gata quasi esclusivamente agli aspetti economico-contabili, ha condotto sino alla
più recente definizione formulata dall’Institute of Internal Auditors nel 1999.
Partendo da questa nuova idea di IA, vista come attività indipendente ed obiettiva
di assurance e consulenza, finalizzata a creare valore e migliorare le operazioni
dell’organizzazione, si vuole, in breve, far emergere in che modo l’attività di in-
ternal auditing contribuisce concretamente al miglioramento generale delle per-
formance di un’organizzazione, presentando anche due possibili diversi approcci
da adottare nella misurazione dell’added value generato.
Segue poi un approfondimento che, prendendo spunto dalla convinzione che l’at-
tività di IA sia effettivamente capace di generare un incremento del valore azien-
dale, tratta del ruolo specifico che tale funzione potrebbe ricoprire in un’organiz-
zazione nonprofit, affrontando la questione del Social Internal Auditing. Questo
ultimo punto viene trattato seguendo l’impostazione adottata da Stefano Scarcella
Prandstaller, professore presso l’Università Sapienza di Roma.
Infine vengono presentati come good case practices le esperienze di Save The
Children, AIESEC Italia e AIL, per fornire alcuni spunti concreti di riflessione.
86
3.2 Riflessioni sul concetto di internal auditing (IA): definizione ed
aspetti evolutivi
Il ‘900 può essere considerato come il secolo che ha assistito alla nascita dell’In-
ternal Auditing inteso come professione vera e propria. In particolar modo, nel
1941, venne fondata un’associazione professionale, denominata Institute of Inter-
nal Auditors, che si prefiggeva come obiettivo quello di facilitare la diffusione
della Knowledge in materia di IA nel contesto imprenditoriale, politico e sociale
degli Stati Uniti.
Dal momento della sua nascita fino ai giorni nostri, l’IA ha subito un’evoluzione
costante, che ha modificato profondamente gran parte degli elementi fondanti di
questa professione, quali ad esempio, la natura e gli obiettivi delle attività svolte,
gli strumenti e le metodologie impiegate, le competenze e le certificazioni profes-
sionali richieste, nonché gli standard da rispettare per un corretto svolgimento del-
l’incarico ricevuto.
Tali cambiamenti sono stati dettati dall’inevitabile necessità di adattarsi al conti-
nuo mutamento del contesto nel quale l’IA si trova ad operare, ovvero le aziende,
le quali, per sopravvivere, sono costrette a rivedere ciclicamente i propri obiettivi,
gli assetti organizzativi e le strategie gestionali. Allo stesso modo la funzione di
IA, per poter contribuire in maniera efficace ed efficiente al processo di creazione
di valore per l’azienda, ha sentito negli anni la necessità di rinnovarsi.
87
Nel prosieguo del presente paragrafo viene fatto accenno, brevemente, al dibattito
dottrinale che si è sviluppato intorno al tema dell’IA, ponendo particolare accento
sulle implicazioni pratiche che sono derivate dalle diverse definizioni di questa
professione date dai vari autori nel corso del tempo.
Una delle opere italiane più rilevanti che agli inizi del ‘900 ha iniziato ad introdur-
re un’idea, benché ancora grezza, di IA, è lo scritto di Fabio Besta intitolato “La
Ragioneria”. L’Autore nel definire i confini del controllo concomitante90, affer-
mava che in tutte quelle aziende che operavano in più ambiti geografici era neces-
sario avvalersi di ispettori interni per vigilare sulle attività svolte nelle diverse se-
di, succursali, agenzie etc. Secondo Basta la funzione di controllo svolta da questi
vigilanti interni sui subordinati, sarebbe andata ad integrare quella svolta dal Col-
legio Sindacale nei confronti degli organi direttivi, garantendo lo svolgimento dei
compiti esecutivi nel pieno rispetto delle direttive impartite.
Affinché tale azione ispettiva fosse efficace, secondo il parere di Basta, essa do-
veva avvenire senza preavviso e ogni qualvolta venisse rilevato un conflitto di in-
teressi tra controllato e controllore.91 È evidente come, nel pensiero dell’Autore, la
funzione di IA fosse concepita prima di tutto come un mezzo per ridurre al mini-
mo il rischio di frodi o di sottrazioni indebite di denaro, attraverso una costante
88
90 “La vigilanza è uno dei tre mezzi di controllo antecedente insieme alla creazione di interessi opposti e all’uso di documenti e congegni automatici che hanno lo scopo di im-pedire le sottrazioni colpevoli e gli inutili consumi” Besta F., La Ragioneria, vol. II, II ed., Vallardi, Milano, 1920, p.178
91 Besta F., La Ragioneria, vol. II, II ed., Vallardi, Milano, 1920, p.180-183
attività di controllo mirato a scoprire le irregolarità e a punire, eventualmente, i
trasgressori dei regolamenti e delle direttive fornite dai vertici aziendali.
Malinverni92 invece, è tra i primi a parlare dello stretto legame di complementari-
tà esistente tra revisione interna ed esterna, sottolinenando come la natura endo-
gena dell’attività di IA, consenta ai revisori interni, rispetto a quelli esterni, di co-
noscere più nel dettaglio i fatti di gestione, garantendo così un controllo più snel-
lo, rapido ed efficace.
Tenuto conto di quanto sopra, possiamo dire che, in generale, nei primi anni del
XX secolo, la maggior parte degli studiosi tendeva a fare coincidere l’IA con
l’ispettorato, legando saldamente l’attività dei revisori interni all’accertamento di
frodi e di irregolarità nella gestione delle aziende.
A tal proposito, un ulteriore interessante contributo è quello fornito da Zappa93, il
quale riteneva che nelle aziende di grandi dimensioni e nei gruppi di imprese po-
teva essere creata una funzione con un “ispettore capo (...), con una funzione di-
rezionale, che coadiuvato da altri soggetti ha il compito di redigere i programmi
di produzione, vigilare sull’esecuzione dei programmi che regolano lo svolgimen-
to dei processi produttivi e raccogliere i dati relativi all’attività di produzione”.
89
92 Malinverni R., La Tecnica della Revisione, Utet, Torino, 1929, p.13
93 Zappa G., Le produzioni nell’economia delle imprese, tomo II, Giuffré, Milano,1957, p. 63
Zappa per primo fa confluire nelle mani di un unico soggetto sia le funzioni di
controllo sia le responsabilità gestionali volte alla programmazione della produ-
zione, introducendo così l’idea di un controller dei processi produttivi.
La sovrapposizione tra ispettorato e revisione interna si riscontra anche nell’opera
intitolata “La Verifica Interna Aziendale”94, in cui gli Autori descrivono la funzio-
ne di IA prevalentemente come una forma di ispettorato amministrativo-contabile,
indirizzato ai principali cicli operativi della gestione aziendale quali: vendite, ac-
quisti e gestione del magazzino.
Per rintracciare i primi segni della svolta in merito al concetto di IA, dobbiamo
rifarci alla letteratura anglosassone, ed in particolar modo agli autori Koontz e
O’Donnell che inquadrano l’attività di IA all’interno del controllo direzionale,
collegandola saldamente agli obiettivi aziendali e ai sistemi di controllo posti in
essere all’interno dell’azienda.
A partire da questo momento si inizia lentamente a non considerare più l’IA come
una funzione aziendale esclusivamente financial oriented, bensì come un’attività
operational oriented, capace di fornire supporto strategico ai vertici aziendali, fa-
cilitando il raggiungimento degli obiettivi pianificati e contribuendo a migliorare
l’efficacia dei sistemi di controllo e a ridurre od eliminare le inefficienze presenti
nei processi gestionali.
90
94 Carnevali G., Ferandini C., Internal Auditing. Le verifiche amministrative nelle aziende italiane, Kompass, Milano, 1966, p. 6
Nel corso degli anni ’70, ispirati dalla dottrina anglosassone, anche gli studiosi
italiani iniziano ad abbandonare l’idea di IA come mera attività di ispettorato, per
avvicinarsi a una concezione più ampia, che abbraccia molteplici ambiti del si-
stema aziendale e, in particolare, quello del controllo interno.
Viganò95considera l’IA come un fattore fondamentale del sistema di controllo in-
terno, capace di rendere più efficace la revisione esterna di bilancio attraverso il
miglioramento ed il potenziamento delle procedure di controllo di natura ammini-
strativo-contabile e della funzionalità dei processi aziendali.
Altra novità che inizia a prendere piedi in questi anni, è quella relativa al fatto che
l’IA non viene più vista come un’attività finalizzata al controllo sull’operato delle
persone, bensì come una funzione preposta al supporto dei vertici aziendali nei
processi di pianificazione, di gestione e di controllo.96
Altro autorevole parere in merito è quello dello studioso Troina97,il quale, concen-
trando la propria attenzione sul legame esistente tra funzione di IA e processi di-
rezionali, spiega come tale attività possa svolgere un ruolo fondamentale nei c.d.
91
95 Viganò E., Rapporti fra revisione esterna e controlli interni d’azienda, Giannini, Napo-li, 1973, pp. 31-35
96 Bruni G., La Revisione Aziendale, Isedi, Milano, 1973, pp. 15-16
97 Troina G., Auditing: Note Varie. II edizione riveduta ed ampliata, Edizioni Nuova Cul-tura, Roma, 1995, pp. 11-12
processi di management auditing98, analizzando l’efficacia dell’attività direziona-
le, partendo da una verifica della qualità delle informazioni utilizzate a supporto
delle scelte, finendo poi ad esaminare il processo decisorio e quello organizzativo.
Volendo riassumere brevemente quanto detto finora, si può quindi affermare che
agli inizi del XX secolo l’attività di IA era esclusivamente rivolta alla verifica de-
gli aspetti amministrativi e contabili e che solo verso la fine degli anni ’50 gli stu-
diosi iniziano a collocare la funzione di IA tra i controlli di secondo livello, attri-
buendo agli auditors, non la responsabilità di sostituirsi ai soggetti a presidio dei
processi aziendali eseguendo direttamente i controlli, bensì quella di valutare e
migliorare l’efficacia dei controlli di primo livello. Dobbiamo poi arrivare sino
agli anni ’70 per avvicinarci a un’idea di IA non più legata agli aspetti contabili e
finanziari, bensì alle c.d operations e quindi ai processi organizzativi e gestionali.
È a questo punto che risulta ormai indissolubile il vincolo esistente tra la funzione
di IA ed i sistemi di controllo interno, ed è in questi anni che viene del tutto supe-
rata la sovrapposizione precedentemente esistente tra auditor ed ispettore, passan-
do da una forma di controllo ex post dei fatti gestionali ed amministrativi, ad un
92
98 Troina G., Le Revisioni Aziendali, Franco Angeli, Milano, 2005, p.24 “La revisione direzionale può essere definita come quella particolare investigazione che attraversa dal vertice sino al livello più basso l’impresa al fine di verificare se questa ha un adeguato sistemi dei controlli per cui può essere retta con validi criteri di direzione e può promuo-vere duraturi e significativi legami con l’ambiente ad essa esterno, mantenendo un’orga-nizzazione efficiente ed una gestione che rispetti i principi di economicità. La revisione direzionale non solo effettua le analisi dei processi e dei risultati, ma entra anche nelle merito delle decisioni della direzione per verificare l’efficacia dei controlli ed il loro gra-do di tempestività”.
controllo di tipo ex ante, orientato a migliore l’intero sistema dei controlli posti in
essere nell’azienda.
Secondo Troina99la figura del revisore interno deve essere individuata come quel-
la di un professionista dei sistemi di controllo aziendali che ha il preciso compito
di verificare, in nome e per conto del vertice aziendale, l’adeguatezza tecnico-e-
conomica del sistema interno dei controlli nonché la conformità di detto sistema
nel suo operare con quanto manualisticamente previsto. (...) La revisione interna
è tale perché viene svolta per fini interni, che sono quelli di informare e documen-
tare il vertice aziendale sullo status e sull’operatività del sistema dei controlli che
sono stati attivati per fronteggiare i rischi specifici dell’impresa.
Dopo questo excursus sugli aspetti evolutivi che hanno caratterizzato il concetto
di IA nel secolo scorso, diamo una definizione precisa di questa funzione azienda-
le, rifacendoci a quanto affermato nel 1999 dall’Institute of Internal Auditors: “si
tratta di un’attività indipendente ed obiettiva di assurance e consulenza, finalizza-
ta a creare valore e migliorare le operazioni dell’organizzazione. Tale unità in-
tende supportare l’organizzazione nel perseguimento dei propri obiettivi tramite
un approccio professionale sistematico, che genera valore aggiunto in quanto fi-
nalizzato a valutare e migliorare i processi di controllo, di gestione dei rischi e di
corporate governance”.
93
99 Troina G., Le Revisioni Aziendali, Franco Angeli, Milano, 2005, pp. 19-20
La definizione sopra proposta è indubbiamente quella che, ad oggi, meglio rispec-
chia la natura dell’IA, delineandone i confini d’azione, definendone le finalità ed
introducendo, per la prima volta, l’idea che tale funzione possa assumere un ruolo
di primaria importanza non solo nei confronti del sistema dei controlli interni, ma
anche rispetto ai sistemi di gestione dei rischi e di corporate governance.
3.3 Internal auditing e creazione del valore
Dopo aver trattato la questione legata all’evoluzione del concetto di IA, cer-
chiamo di comprendere come tale funzione può contribuire concretamente a crea-
re valore aggiunto all’interno di un’azienda.
Prima di tutto, possiamo dire che sono sempre più numerose le realtà aziendali
che utilizzano un approccio value based nelle politiche gestionali, considerando il
valore aggiunto generato per gli stakeholder come l’obiettivo istituzionale princi-
pale che deve indirizzare tutti i processi decisionali.
Copeland, Koller e Murrin100 definiscono il Value Based Management come un
approccio al management sulla base del quale gli obiettivi dell'impresa, le tecni-
che e i processi di gestione sono coordinati allo scopo di massimizzare il valore
dell'impresa stessa. Gli obiettivi sono raggiunti concentrando le decisioni del ma-
nagement sui "drivers" del valore.
94
100 Copeland T.E., Koller T., Murrin J.,Valuation: Measuring and Managing the Value of Companies, Wiley, 2000
Il Value Based Management si fonda quindi sul principio che qualsiasi investi-
mento in azienda deve, per creare valore, generare un ritorno superiore al costo
del capitale investito, per cui qualunque decisione di natura strategica, operativa e
finanziaria deve essere basata su parametri direttamente collegabili alla genera-
zione di cash-flow nel lungo periodo.
Tutto ciò vale per qualsiasi processo o iniziativa che viene intrapresa all’interno di
un’azienda, ivi compresa l’attività di IA che non può in alcun caso sottrarsi alla
necessità di creare valore per gli interlocutori della realtà aziendale in cui viene
implementata.
Quanto detto sopra assume ancora maggior rilievo se lo si legge tenendo conto
della crisi economica che ha caratterizzato il mercato mondiale negli ultimi anni,
e che ha costretto la maggior parte delle aziende a ridimensionarsi e riorganizzar-
si, riducendo drasticamente i costi fissi di struttura, eliminando le funzioni azien-
dali incapaci di produrre effettivamente valore.
La creazione di valore aggiunto di cui si parla nella definizione fornita nel prece-
dente paragrafo, é possibile, solo e soltanto se, tutte le azioni di assurance e di
consulenza vengono portate avanti tenendo sempre a mente gli obiettivi aziendali,
quali: l’efficienza gestionale; gli obiettivi commerciali; la qualità; l’affidabilità
delle informazioni e dei sistemi informativi; la responsabilità sociale ed etica; il
rispetto delle leggi e la conformità alla normativa sia interna che esterna.101
95
101 Dittmeier C.A., Internal Auditing, Egea, 2011 p. 10-11
La creazione di valore diventa in questo modo la mission e la finalità primaria del-
l’IA, che persegue tale obiettivo fornendo un supporto professionale, sistematico
e costante al management responsabile dell’area oggetto di audit. Per fare ciò l’in-
ternal auditor deve essere capace di osservare e comprendere le reali esigenze
dell’organizzazione, le sue specificità strutturali e di processo, i suoi fattori critici
di successo e le caratteristiche dell’ambiente in cui opera, e di predisporre gli in-
terventi più opportuni per il perseguimento degli obiettivi di governo e di busi-
ness.
Ma come si può quantificare l’effettivo valore aggiunto generato dall’IA? Per ri-
spondere a questo quesito dobbiamo mettere a confronto due diverse teorie.102
Secondo il primo approccio la creazione del valore dipende dalla capacità dell’IA
di contribuire al miglioramento della qualità di altri processi e/o di altri sistemi
che caratterizzano il funzionamento dell’azienda, in particolar modo di quello di
controllo interno, di risk management e di corporate governance.
In generale possiamo dire che le attività che un’azienda pone in essere per creare
valore per il cliente sono tra loro interdipendenti. Il valore non dipende solo dal-
l’abilità nello svolgere una determinata attività ma anche dall’abilità nel gestire i
legami tra le attività.
96
102 D’Onza G., L’Internal Auditing. Profili organizzativi, dinamica di funzionamento e creazione del valore, Giappichelli Editore, Torino, 2013
La teoria sulla catena del valore di Porter, identifica quali sono queste attività,
quale ruolo svolgono e quali interazioni tra le stesse sono in grado di creare di va-
lore.
Considerando tale modello organizzativo, potremmo inserire la funzione di IA tra
le c.d aree infrastrutturali, progettate a supporto di tutti gli altri processi aziendali,
che utilizzano le informazioni deducibili dai report relativi alle attività di audit
svolte per migliorarsi in termini di efficienza.
L’approccio sopra presentato è però criticabile, poiché appare evidente la difficol-
tà insita nell’individuare quale percentuale del miglioramento rilevato nelle per-
formance di un processo sia realmente riferibile all’intervento di audit, senza tener
conto del fatto che non sempre nelle aziende vengono impiegati key performance
indicators di processo.
Il secondo approccio, invece, si basa sull’analisi del livello di soddisfazione degli
stakeholder a cui l’unità rivolge la sua offerta di servizi di assurance e di consu-
lenza. Si tratta di un’analisi fondata sul valore percepito da parte dei beneficiari e
sulla capacità dell’IA di soddisfare le aspettative dei diversi soggetti a cui rivolge
la propria attività.
La principale criticità di questa seconda teoria risiede nel rischio di effettuare una
valutazione troppo influenzata da percezioni soggettive e, pertanto, incapace di
rappresentare correttamente il reale contributo che l’IA è in grado di assicurare ai
processi aziendali.
97
Tale criticità potrebbe però essere superata attraverso l’analisi e la gestione del
c.d. expectation gap103 esistente tra stakeholder e auditors, ovvero la differenza
che potrebbe sussistere tra ciò che gli interlocutori si aspettano e ciò che i respon-
sabili della revisione interna possono o riescono a soddisfare.
Per quanto riguarda l’analisi dei gap, la prima tipologia è quella conosciuta come
“gap di ragionevolezza”, legata al fatto che gli stakeholder potrebbero avere irra-
gionevoli aspettative in merito ai benefici e all’aiuto ottenibile dagli output gene-
rati dall’attività di IA. La causa principale alla base di questo divario va individua-
ta nella scarsa informazione in merito alle effettive responsabilità e competenze
spettanti ai soggetti incaricati della revisione interna e, pertanto, lo strumento più
efficace per ridurlo è sostenere iniziative mirate ad informare gli stakeholder circa
le reali potenzialità e i limiti dell’IA.
Una seconda divergenza tra aspettative potrebbe essere quella che prende il nome
di “gap delle risorse”, che consiste nella differenza esistente tra quello che gli sta-
keholder ragionevolmente si aspettano e quello che, invece, i responsabili della
revisione interna possono realizzare utilizzando efficientemente tutte le risorse a
loro disposizione. La scarsità delle risorse è senza dubbio una delle principali cau-
se all’origine del gap sopra citato, il quale può quindi essere scongiurato o quan-
tomeno limitato, stimolando il maggior supporto possibile da parte del vertice
98
103 Porter B.A., An Empirical Study of the Audit Expectation-Performance Gap, in Ac-counting and Business Reasearch, vol. 24, n. 9, pp. 49-68
aziendale, così da garantire una più congrua dotazione di risorse atta a consentire
alla funzione di IA di svolgere la propria attività in modo più efficace.
Infine, potrebbe verificarsi il c.d. gap delle performance, legato alla differenza
che può esserci tra quanto in teoria potrebbe essere realizzato considerando le ri-
sorse disponibili, e quando viene effettivamente realizzato dagli auditors e perce-
pito dagli stakeholders. Quest’ultima possibile divergenza di aspettative deriva
soprattutto dall’incapacità di gestire adeguatamente le risorse umane, finanziarie e
tecniche date in dotazione ai responsabili dell’IA, e per ridurre tale gap risulta uti-
le la formulazione di piani di audit strutturati, capaci di pianificare tutte le attività
da svolgere, quantificando i tempi e i costi previsti per l’esecuzione dei diversi
interventi, ma soprattutto coerenti con i piani strategici e gli obiettivi aziendali
stabiliti dal top management.
Tenendo conto dei possibili metodi utili a ridurre i gap nelle aspettative, il secon-
do approccio sulla quantificazione dell’effettivo valore aggiunto prodotto dall’at-
tività di IA, è da ritenersi maggiormente efficace ed applicabile.
Inoltre, considerando le caratteristiche proprie delle aziende oggetto del nostro
studio, ovvero quelle nonprofit e, ricordando lo stretto legame esistente tra queste
ultime e i propri stakeholder, l’approccio di cui sopra risulta a maggior ragione il
più idoneo.
99
3.4 Rilevanza della funzione di internal auditing nel nonprofit: Il Social Internal Auditing
Nel presente paragrafo cerchiamo di capire perché ed in che modo l’introdu-
zione di una funzione di IA potrebbe assumere un ruolo rilevante per migliorare le
performance delle aziende nonprofit, rivolgendo la nostra attenzione a come la
revisione interna sarebbe capace di aiutare queste ultime a consolidare il rapporto
di stima e di fiducia con gli stakeholder esterni.
Innanzitutto, riprendendo quanto detto in merito all’evoluzione che il concetto di
IA ha subito negli anni, possiamo affermare che il responsabile della revisione
interna assume sempre di più un ruolo strategico nei processi decisionali e gestio-
nali delle aziende, diventando una sorta di consulente strategico e analista del bu-
siness, attivo al di sopra delle linee operative e sempre in stretto contatto con il top
management.
Dal punto di vista degli internal auditors, creare valore significa migliorare alcuni
processi aziendali come il controllo, la gestione dei rischi e la corporate gover-
nance, fornendo agli organi di governo aziendale una valutazione obiettiva del
livello di efficacia di tali sistemi, suggerendo soluzioni adeguate rispetto ai pro-
blemi eventualmente riscontrati.
D’altra parte creare valore significa anche assicurare maggiori garanzie di affida-
bilità, nonché una maggiore trasparenza nei confronti degli stakeholder, special-
mente quelli esterni. Per tale motivo la funzione di IA assume un ruolo di primaria
100
importanza nell’identificazione e nella valutazione dei c.d rischi strategici, i quali
possono ostacolare il raggiungimento degli obiettivi pianificati, ma anche e so-
prattutto nel processo di valutazione dei controlli posti a presidio di tali rischi.
Inoltre, sarebbe particolarmente importante per le aziende nonprofit l’azione eser-
citata dai revisori interni sui sistemi di controllo che verificano la correttezza dei
processi amministrativo-contabili e di formazione dei bilanci (si rimanda al para-
grafo 3.7 per ulteriori approfondimenti in merito), nonché su quelli rivolti a pre-
venire le frodi.
Ancora più importante è il contributo fornito dall’IA ai vertici aziendali in materia
di risk management, attraverso lo svolgimento di un’attività di assurance e di
consulenza indipendente ed obiettiva nell’ambito del processo di gestione dei ri-
schi. Soprattutto nel caso delle aziende nonprofit, dove solo negli ultimi anni è
iniziata a farsi pressante la necessità di studiare a fondo le attività svolte e i rischi
ad esse connesse, l’IA potrebbe ricoprire, nelle prime fasi di adozione, un ruolo
cruciale nella creazione di un efficiente sistema di risk management, indispensabi-
le per salvaguardare una reputazione positiva, garantendo buone prospettive di
continuità e di sopravvivenza.
Alcune possibili attività di consulenza realizzabili dall’internal auditing, soprat-
tutto nella fase di introduzione dei processi di gestione dei rischi sono104:
101
104 Dittmeier C.A., Internal Auditing, Egea, 2011 p. 142
• sviluppare strumenti metodologici di risk assessment, mettendoli a disposi-
zione del management per un uso interno;
• favorire la diffusione di un modello comune per la gestione dei rischi;
• sviluppare, insieme al vertice aziendale, modelli organizzativi di gestione
dei rischi;
• fornire al management valido supporto riguardo all’identificazione e alla
valutazione dei rischi, nonché in merito alla valutazione dei sistemi di con-
trollo posti in essere, suggerendo eventuali modifiche necessarie;
• svolgere direttamente servizi di coordinamento e monitoraggio del processo
di risk assessment.
Qualunque sia in concreto il contributo fornito dall’IA al management di un’orga-
nizzazione nonprofit, esso dovrebbe in ogni caso essere finalizzato ad incrementa-
re il rapporto di fiducia tra quest’ultima e i suoi stakeholder, consentendo una co-
municazione più chiara e trasparente riguardo le attività svolte e l’impiego dei
fondi ricevuti, nonché aumentando le garanzie relative all’effettivo perseguimento
della mission istituzionale, nel pieno rispetto delle leggi e dei regolamenti, sia in-
terni che esterni, e dei valori etici.
In merito a questo punto, ricollegandoci al dibattito sull’evoluzione che ha caratte-
rizzato l’IA, negli ultimi anni si è iniziato a parlare del c.d social internal audi-
102
ting105, ovvero una tipologia di revisione interna che si colloca tra l’audit di tipo
procedurale e organizzativo (operational audit) e l’audit strategico-direzionale
(management audit). Non si tratta, come erroneamente si potrebbe pensare, di una
mera revisione interna degli strumenti di rendicontazione sociale quali il bilancio
sociale o il bilancio di sostenibilità, bensì il social internal auditing, in concreto,
si occupa di verificare se l’orientamento dell’organizzazione sia socialmente re-
sponsabile, contribuendo a far sì che l’azienda prosegua lungo questo sentiero.
Un’azienda per definirsi socialmente responsabile, dovrebbe istituire un sistema di
controllo interno basato su procedure e su audit del comportamento etico, con lo
scopo di:
• verificare l’orientamento dell’azienda alla responsabilità sociale ;
• assicurare la conformità del suo operato, delle sue politiche e delle sue stra-
tegie tramite azioni di ispezione, di monitoraggio e di controllo.
Il responsabile di questa attività di verifica è il social internal auditor, figura indi-
pendente che svolge un’attività di controllo finalizzata a migliorare l’efficacia e
l’efficienza dell’organizzazione nel complesso delle sue attività di responsabilità
103
105 Bragalone G. (2003), “Social Auditing. Uno strumento di rendicontazione ecertificazione etica e sociale”, in De Qualitate, 5, pp. 55-65
sociale, essendo a conoscenza dei diversi standard etico-sociali applicati dall’or-
ganizzazione (ISO 14000, SA 8000, ecc.)106.
Per poter svolgere correttamente un’attività di social internal auditing sono neces-
sari due presupposti:
• la codifica dei principi di riferimento, vale a dire la codifica dei comporta-
menti che un’organizzazione deve tenere (standard procedures), che devono
comprendere gli atteggiamenti etici e sociali da tenere in una gestione orien-
tata alla responsabilità sociale;
• la codifica delle procedure di controllo, che devono essere conformi a stan-
dard riconosciuti (audit standard) che consentano una verifica da parte dei
soggetti chiamati a questa funzione in maniera oggettiva e meno personaliz-
zata possibile, eliminando gli atteggiamenti troppo discrezionali o autorefe-
renti.
Nello specifico, la funzione del social internal auditor ricopre i seguenti ambiti di
azione e di responsabilità:
104
106 Le norme ISO serie 14000 rispecchiano, a livello internazionale, il generale consen-so circa le attuali buone pratiche rivolte alla protezione dell'ambiente, applicabili a qua-lunque organizzazione e in qualunque parte del globo. L'intera serie ISO 14000 fornisce strumenti manageriali per le organizzazioni che vogliano porre sotto controllo i propri aspetti ed impatti ambientali e migliorare le proprie prestazioni in tale campo.La norma SA8000, invece, è uno standard internazionale che elenca i requisiti per un comportamento eticamente corretto delle imprese e della filiera di produzione verso i la-voratori. Il SA8000 contiene nove requisiti sociali orientati all'incremento della capacità competitiva di quelle organizzazioni che volontariamente forniscono garanzia di eticità della propria filiera produttiva e del proprio ciclo produttivo.
• l’analisi dei rischi etici in cui l’organizzazione potrebbe incorrere;
• la rilevazione delle performance etiche dell’impresa, che ha luogo tramite la
verifica dell’integrità dei comportamenti etici dell’organizzazione;
• il controllo dei sistemi messi in atto per assicurare la corretta implementa-
zione di politiche, piani, procedure e regolamenti posti in essere sulla base
del codice etico;
• la stesura del rapporto annuale di social auditing;
• le attività preparatorie all’intervento del certificatore esterno, qualora siano
previste delle certificazioni etiche.
Infine, ulteriori modalità di attuazione del social internal auditing potrebbero es-
sere:
• un sistema di segnalazioni, talora attraverso una linea telefonica dedicata,
che offre la possibilità a qualunque stakeholder di “rivolgere quesiti”, non-
ché di riferire ai responsabili del social internal auditing qualunque compor-
tamento potenzialmente non conforme al codice etico o ai valori etici del-
l’organizzazione;
• un sistema di incentivi e di sanzioni, che ha luogo attraverso l’inserimento
nel sistema di valutazione delle performance dei dipendenti dell’organizza-
105
zione di voci relative alla conformità dei comportamenti individuali ai valori
e ai principi del codice etico.
Occorre dire che il social internal auditing ha iniziato in questi anni a prender
piede soprattutto nelle aziende profit che rivolgono particolare attenzione a quella
che viene chiamata Corporate Social Responsibility (CSR)107, ma si auspica che
lo stesso fenomeno cominci a diffondersi sempre più anche nelle organizzazioni
nonprofit che, per la loro stessa natura, fondano il proprio operato sull’adesione e
sul rispetto di particolari valori etici, avendo come fine ultimo quello di migliorare
il livello di benessere dei soggetti a cui rivolgono le proprie iniziative.
Questa particolare forma di verifica potrebbe aiutare enormemente le aziende
nonprofit a raggiungere in maniera efficiente i propri obiettivi, contribuendo a
soddisfare il bisogno sempre maggiore di trasparenza, eliminando i possibili gap
presenti nelle aspettative degli stakeholder, ed incrementendo il grado di soddisfa-
zione e di fiducia di questi ultimi.
Inoltre, come già accennato quando si è parlato dei sistemi di ERM nelle organiz-
zazioni nonprofit, il principale problema riscontrabile in tali realtà in materia di
106
107 Il concetto di CSR non trova una definizione univoca in letteratura. Tra le definizioni, la più nota è quella contenuta nel Libro Verde: "integrazione su base volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei rapporti con le parti interessate". Il documento precisa che "essere socialmente re-sponsabili significa non solo soddisfare pienamente gli obblighi, ma anche andare al di là investendo di più nel capitale umano, nell'ambiente e nei rapporti con le altre parti inte-ressate". Un’altra definizione particolarmente interessante é quella fornita dal World Bu-siness Council for Sustainable Development, (www.wbcsd.ch) per il quale “la Responsa-bilità sociale d'impresa è il continuo impegno a comportarsi in maniera etica e a contri-buire allo sviluppo economico, migliorando la qualità della vita dei dipendenti e delle loro famiglie, della comunità locale e in generale della società"
controllo e di gestione del rischio è quello della scarsa cultura aziendale diffusa su
questi aspetti. La “cultura di controllo” è un elemento che condiziona fortemente
il funzionamento di qualsiasi sistema di controllo interno e che si riflette nell’am-
biente interno che, inoltre, rispecchia le politiche dei vertici nella gestione del ri-
schio, l’orientamento comportamentale delle persone operanti a tutti i livelli
aziendali, lo stile manageriale, i valori etici, la definizione di ambiti di autorità e
di responsabilità, le competenze in relazione alle responsabilità, l’esistenza di po-
litiche e procedure.
A parere di chi scrive, uno strumento adatto a facilitare la diffusione della sopraci-
tata cultura di controllo nelle aziende nonprofit, nonchè il soddisfacimento delle
aspettative dei soggetti che intrattengono relazioni con queste ultime, potrebbe
essere quella che viene chiamata “formazione etica”.
Si tratta di un particolare tipo di formazione aziendale il cui obiettivo consiste nel
sensibilizzare tutti gli stakeholder di un’organizzazione, interni ed esterni, per
condividere i principi, sintetizzati nel manifesto dei valori o carta dei valori e nel
codice etico, che costituiscono il fondamento del contratto sociale tra azienda
nonprofit e stakeholder, tra dipendenti e azienda nonprofit e tra stakeholder interni
e stakeholder esterni.
La necessità di portare avanti percorsi di formazione etica si basa su una conce-
zione dell’organizzazione che pone al centro le risorse umane, che con il loro im-
107
pegno, la loro esperienza e la loro conoscenza rappresentano la vera ricchezza del-
l’azienda nonprofit.
Concretamente, la formazione etica consiste nel fornire istruzioni sulle abilità co-
gnitive e operative che sono necessarie per formulare un giudizio morale su prati-
che e comportamenti aziendali, ed è diretta a sviluppare e adeguare nel tempo le
capacità delle persone di riconoscere, analizzare e risolvere i dilemmi etici che si
presentano sia a livello organizzativo, sia a livello gestionale. Essa si realizza con
workshop, convegni, convention e seminari incentrati sulla visione etica del-
l’azienda e sui valori e i principi del codice etico, preparando i manager ad appli-
care i principi etici nelle decisioni strategiche, ed il personale ad individuare e ge-
stire le fonti dei dilemmi etici che possono scaturire da rapporti con gli stakehol-
der.
La formazione etica dovrebbe quindi consentire al personale a ogni livello:
• di comprendere, interiorizzare e contribuire con il proprio lavoro all’impe-
gno etico e sociale dell’azienda;
• di percepire la consapevolezza di uno scopo comune;
• di padroneggiare gli strumenti necessari per discutere e per affrontare i pro-
blemi etici legati all’organizzazione;
108
• di disporre degli strumenti e delle conoscenze necessarie per rimanere al
passo con i cambiamenti imposti dal mercato e per rafforzare spirito im-
prenditoriale e senso di appartenenza all’organizzazione;
• di alimentare il continuo apprendimento, rendendolo parte integrante della
cultura aziendale;
• di stimolare e incoraggiare lo sviluppo individuale.
In un simile contesto organizzativo, il social internal auditing rivestirebbe un ruo-
lo strategico nell’ideazione e nell’implementazione di un sistema capace di dif-
fondere una cultura etica tra tutti i livelli di management, assicurando così un
completo allineamento dei comportamenti ai valori etici e alla mission aziendale,
elemento imprescindibile per il successo delle organizzazioni nonprofit, che basa-
no la propria esistenza sull’adesione da parte di stakeholder diversi a una stessa
causa di rilevanza sociale.
D’altra parte, verificando e valutando l’efficacia e l’effettivo funzionamento del
sistema atto a garantire la formazione etica, il social internal auditing favorirebbe
anche una comunicazione più chiara verso l’esterno, aumentando la consapevo-
lezza e la fiducia su temi quali il fine istituzionale perseguito, le iniziative portate
a termine e l’utilizzo delle risorse raccolte per adempiere alla propria mission so-
ciale.
109
3.5 La funzione di internal auditing nel nonprofit: il caso Save the Chil-dren
3.5.1 L’organizzazione Save the Children
Save the Children è la più grande organizzazione internazionale indipendente che
lavora per migliorare concretamente la vita dei bambini in Italia e nel mondo.
La sede italiana, Save the Children Italia, è stata costituita alla fine del 1998 come
Onlus ed ha iniziato le sue attività nel 1999. Oggi è un’ONG (Organizzazione
Non Governativa) riconosciuta dal Ministero degli Affari Esteri che, porta avanti
attività e progetti rivolti sia ai bambini e alle bambine dei cosiddetti paesi in via di
sviluppo che a quelli che vivono sul territorio italiano.
Nel corso degli anni, Save the Children si è occupata dei maggiori problemi che
hanno afflitto l'infanzia e l'adolescenza, contraddistinguendosi per la propria indi-
pendenza, laicità e internazionalità. Opera in 119 paesi del mondo con programmi
di salute, risposta alle emergenze, educazione e protezione dei bambini dagli abusi
e dallo sfruttamento, con uno staff di circa 14 mila persone.
Save the Children Italia lavora per la piena attuazione dei diritti dei bambini, delle
bambine e degli adolescenti, rinforzando l'impatto degli interventi concreti realiz-
zati in Italia e nel mondo, attraverso un'attività di sensibilizzazione dell'opinione
110
pubblica (campaigning), ed attività di advocacy108 a livello istituzionale, spesso in
sinergia con altre organizzazioni (networking).
A detta del Presidente Claudio Tesauro, la governance di Save the Children somi-
glia molto a quella di una media azienda italiana.109 Sono organi dell’associazio-
ne: l’assemblea, il Consiglio direttivo, il Presidente, il Tesoriere e il Collegio sin-
dacale. Il Consiglio direttivo, composto al massimo da 15 persone, è investito dei
più ampi poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione ed elegge tra i suoi
membri il Presidente e il Tesoriere. Il primo ha il potere di eseguire le delibere del
Consiglio e ha la legale rappresentanza dell’associazione.
Il secondo ha il compito di assistere e sovrintendere alla gestione economica e fi-
nanziaria. Insieme, Presidente e Tesoriere, promuovono ogni anno un processo di
autovalutazione del Consiglio nel suo insieme e di ogni singolo membro indivi-
dualmente. Al Consiglio riporta il Direttore generale, che ha sotto di sé quattro
primi riporti: marketing e comunicazione programmi, distinti tra nazionali, che
vengono realizzati sul territorio italiano direttamente ovvero in joint venture con
partner locali, e internazionali gestiti da Save the Children International. In que-
111
108 Si tratta di un’intensa attività di pressione sulle istituzioni (governi, Nazioni Unite, organizzazioni multilaterali a livello internazionale, nazionale e locale) affinché vengano migliorate le norme, le politiche e le prassi a favore dei diritti dei bambini e degli adole-scenti.
109 AIIA, Non Profit chi lo controlla?, Internal Audit: corporate governance, risk mana-gement e controllo interno., n.79, ottobre-dicembre 2013, p. 6-7
st’area rientrano anche le attività di advocacy. Ci sono poi l’amministrazione e
controllo, che fa capo al Chief financial officer (Cfo), e le risorse umane.
3.5.2 Il sistema di controllo interno ed il ruolo dell’internal auditor
Save the Children International é nata e continua ad esistere per aiutare i bambini,
operando nei paesi e nei contesti a più alto rischio del mondo. L’organizzazione
con l’intento di salvaguardare il proprio staff, soddisfare le aspettative di chi so-
stiene finanziariamente le attività, ma soprattutto realizzare il proprio fine istitu-
zionale nella maniera più efficace possibile, ha maturato una profonda consapevo-
lezza della necessità di dover gestire in maniera strutturata e costante i rischi con-
nessi ai propri processi e alle iniziative realizzate.
Save the Children International sta in questi anni prendendo provvedimenti per
garantire che, a tutti i livelli dell'organizzazione, i membri dello staff abbiano ac-
cesso agli strumenti e alle informazioni di cui hanno bisogno per identificare e
gestire efficacemente i rischi.
I rischi più significativi nel 2012 includevano:
• tutela dei bambini;
• ambienti politici avversi;
• rischi di frode legati all’impiego delle risorse e alla realizzazione dei pro-
grammi;
112
• la sicurezza del personale, in particolare di quelle persone che operano in
ambienti instabili;
• sufficienti finanziamenti non vincolati a sostegno di Save the Children a li-
vello globale;
• recente trasferimento della gestione e realizzazione dei programmi interna-
zionali nelle mani di Save the Children International.110
Per quanto riguarda la Child Safeguarding, l’organizzazione ha implementato pro-
cedure tali da garantire la sicurezza di tutti i bambini coinvolti nei propri pro-
grammi. Tutto il personale che si trova nella condizione di lavorare frequentemen-
te a diretto contatto con i bambini, riceve una formazione specifica in materia di
tutela dell’infanzia e, viene sottoposto periodicamente a stringenti controlli e valu-
tazioni. Consapevole che il rischio di abuso su un minore può esistere anche nel-
l’ambito di un proprio programma, Save the Children é stata tra i primi ad adotta-
re una Child Safeguarding Policy, ovvero una policy adottata a livello internazio-
nale, molto rigorosa, dettagliata e puntuale, la quale prevede che qualora un mi-
nore sia vittima di un abuso, non solo sessuale, ma anche fisico, emotivo o di co-
involgimento in attività illecite (ad esempio spaccio di droga) possa segnalarlo, in
modo anonimo e protetto, consentendo così di intervenire in tempi molto brevi.
113
110 Le varie organizzazioni nazionali mantengono l’attività di fund-raising e di gestione dei progetti sul loro territorio, decidendo in quali aree investire tenendo conto delle inten-zioni dei donatori e anche delle indicazioni del Consiglio sui progetti da finanziare e le aree geografiche nelle quali intervenire.
Inoltre, come già detto, Save the Children opera in un certo numero di paesi dove
il clima politico può diventare particolarmente avverso, incidendo notevolmente
sulla possibilità di operare in quello specifico territorio. Queste situazioni vengo-
no attentamente monitorate e, se necessario, un team dedicato alla gestione delle
crisi viene convocato per affrontare il rischio critico individuato.
In materia di gestione del rischio di frode, invece, é stato nominato un responsabi-
le anti-frode ed è stato implementato un programma di sensibilizzazione per indi-
viduare e prevenire le frodi.
Per quanto riguarda la raccolta fondi, Save the Children dispone di una policy ri-
gorosa, condivisa a livello internazionale, sulla tipologia di donatore che non può
essere accettato. L’organizzazione, ad esempio, non opera con aziende che produ-
cono alcolici, tabacco, armi, e non accetta donazioni cash, perché non tracciabili.
In materia di gestione dei flussi di cassa, invece, Save the Children Italia ha adot-
tato una politica di investimenti selettiva, identificando gli strumenti finanziari a
bassissimo rischio nei quali investire. Sul fronte della spesa, bisogna poi distin-
guere i fondi che vanno a finanziare programmi internazionali e che, in tal caso,
seguono una procedura internazionale consolidata: il direttore dei programmi in-
ternazionali è responsabile di verificare l’effettiva spesa eseguita. Al contrario, per
l’Italia, la responsabile dei programmi nazionali gestisce, di concerto con il Cfo, i
fondi destinati al progetto. In entrambi i casi comunque, è costante l’attività di
informazione ai donatori.
114
Infine, nel perseguimento della sua missione, che include l’essere presenti ed ope-
rativi in ambienti insicuri, Save the Children, per garantire la sicurezza del proprio
personale, ha sviluppato una strategia di global safety & security, attuata a livello
globale grazie al supporto di un team specializzato in materia si sicurezza del per-
sonale.
Oltre che per le diverse procedure di controllo poste in essere, che sono state bre-
vemente descritte in questo paragrafo, si è deciso di presentare il caso di Save the
Children perché tale organizzazione è una delle pochissime realtà nonprofit ad
aver costituito, sia a livello internazionale che nazionale, una vera e propria fun-
zione di Internal Auditing.
La funzione di Global Assurance è stato istituita al fine di fornire un parere indi-
pendente e obiettivo al vertice dell’organizzazione, agli amministratori e ai mem-
bri, sull’adeguatezza e l'efficacia dei sistemi di risk management, di governance e
di controllo posti in essere da Save the Children. Questa funzione si concretizza in
una serie di verifiche trasversali che coinvolgono molteplici attività, processi, di-
partimenti, programmi e strutture, fornendo inoltre supporto e consulenza in meri-
to alla gestione.
A seguito di questi controlli la Global Assurance sviluppa e concorda piani di
azione per affrontare eventuali carenze di controllo, collaborando con l’Audit &
Finance Committee. Essa inoltre rappresenta un fondamentale strumento di garan-
zia per rassicurare gli stakeholder in merito all’impiego dei fondi nei progetti in-
115
ternazionali, specialmente da quando non sono più le sedi nazionali a gestirli di-
rettamente, bensì Save the Children international.
Per quanto riguarda la sede italiana, anche qui negli ultimi anni sono stati presi
particolari provvedimenti per migliorare i sistemi di controllo interno e per au-
mentare il generale livello di trasparenza.
In particolare, a partire dal 2013, è stato avviato un processo finalizzato alla crea-
zione di una vera e propria funzione di internal auditing risk based.
In Save the Children Italia l’internal auditor gestisce e coordina un team composto
da quattro persone, un rappresentante per ciascuna diversa funzione aziendale
(area marketing, risorse umane, programmi nazionali e programmi internazionali),
che apportano periodicamente il loro contributo per individuare i rischi tipici dei
processi di cui sono responsabili. Non si limitano solo ad individuare e a valutare
le criticità presenti, ma, abbandonando l’operatività quotidiana trovano il tempo
per riflettere e analizzare i processi e le attività poste sotto la loro responsabilità,
proponendo anche interventi volti a migliorare la strategia mitigativa da attuare
per eliminare o quantomeno ridurre i rischi e le problematicità che affliggono
l’organizzazione. Si tratta di un gruppo trasversale che fornisce una preziosa con-
sulenza al vertice direttivo, contribuendo al miglioramento della struttura organiz-
zativa attraverso lo sviluppo di strategie e procedure trasversali. Oltre a coordinare
questo team consultivo ed inter-funzionale, l’internal auditor verifica direttamente
116
la presenza di sistemi controllo a presidio dei rischi, valutandone l’effettivo fun-
zionamento e l’efficacia.
La raccolta delle informazioni utili a generare una completa mappatura sia dei ri-
schi che dei sistemi di controllo viene effettuata attraverso un procedimento di self
risk assessment, intervistando i soggetti che ricoprono un ruolo chiave all’interno
dell’organizzazione. I dati raccolti vengono per ora analizzati facendo ricorso a
una classica matrice impatto-probabilità, ma l’obiettivo di breve termine é quello
di iniziare a fare ricorso ai c.d. “alberi dei rischi”, per mettere ancor più in eviden-
za le relazioni causa-effetto esistenti tra il verificarsi di determinati eventi e l’inci-
denza di questi ultimi sugli obiettivi programmati.
Save the Children Italia ha deciso di investire nell’implementazione della funzio-
ne di IA per migliorare le proprie performance economiche-finanziarie, incremen-
tando i livelli di trasparenza e le garanzie per gli stakeholder, diventando di con-
seguenza più competitiva nel mercato delle nonprofit grazie alla maggiore fiducia
conquistata.
Nei prossimi anni il focus dell’attività di IA sarà rivolto in particolar modo a due
processi critici: il procurement e la scelta ed il controllo dei partner locali, perché
l’organizzazione per essere vicina al territorio, agire rapidamente e non duplicare i
costi, opera attraverso soggetti diversi che utilizzano i fondi di Save the Children,
senza però avere gli stessi sistemi di controllo né gli stessi metodi e strumenti di
rendicontazione.
117
3.6 La funzione di internal auditing nel nonprofit: il caso AIESEC
3.6.1 L’associazione AIESECQuella che nel 1948 nacque come un’organizzazione per aiutare lo sviluppo di
“relazioni amichevoli” tra i Paesi membri è ora un’organizzazione nonprofit, apo-
litica ed internazionale che svolge numerose attività in 124 differenti Paesi e terri-
tori, e che coinvolge oltre 100.000 studenti universitari e circa 8.000 partner
esterni.
I membri fondatori di AIESEC incominciarono a dar vita all’organizzazione tra il
1946 e il 1948, ma un’identità chiara fu definita nel 1948 e più tardi, nel 1949, la
mobilità internazionale fu definita come l’attività principale dell’organizzazione.
Tale mission viene realizzata attraverso un network internazionale che fornisce
ogni anno circa 27.500 occasioni di leadership, 5.500 opportunità di stage profes-
sionali all’estero, 22.500 esperienze di volontariato internazionale, 500 conferen-
ze, e molteplici strumenti formativi virtuali.
La sede internazionale di AIESEC, con sede a Rotterdam, ricopre un ruolo di co-
ordinamento delle sedi nazionali collocate nei vari paesi membri, definendo stra-
tegie, linee guida e policy valide per tutti coloro che fanno parte del network del-
l’organizzazione.
Attualmente AIESEC Italia è un’associazione riconosciuta avente personalità giu-
ridica, presente in 16 città, da Trento a Palermo, e conta 18 sedi Locali.
118
L’ executive board nazionale, con sede a Milano, è formato da un Presidente
(MCP), un Amministratore (MCVPF), un numero massimo di dieci Vice Presiden-
ti (MCVPs) e, a seconda delle esigenze strategiche dell’Associazione, da un nu-
mero non predeterminato di collaboratori full-time o part-time.
Il Comitato Nazionale indirizza l'attività dei Comitati Locali, partecipando alla
definizione del piano annuale, contenente gli obiettivi e le strategie necessarie al
loro perseguimento.
Inoltre è responsabile di coordinare i flussi informativi, i programmi, la gestione
delle banche dati, le iniziative di formazione interna dell'Associazione, le iniziati-
ve rivolte a promuovere l'immagine esterna dell'Associazione e le politiche di Ex-
pansion territoriale.
Il Presidente viene eletto dall’Assemblea dei soci, costituita dai rappresentanti di
ciascuna sede locale e, è al Presidente che spetta il compito di nominare, previa
fiducia da parte dell’Assemblea, i vicepresidenti delle diverse aree funzionali.
Il diritto di voto spettante alle sedi locali dipende dal possesso di una serie di cri-
teri di membership, concordati e condivisi dall’organizzazione, che fanno riferi-
mento sia al rispetto delle norme e dei regolamenti, sia al raggiungimento di de-
terminati obiettivi e livelli di performance.
Nelle diverse sedi locali, il direttivo ricalca la struttura dell’executive board na-
zionale ed è responsabile:
• di coordinare il processo di pianificazione del Comitato Locale;
119
• di coordinare il processo di formazione dei soci e del take-over;
• di attuare le delibere dell'Assemblea, e gli adempimenti stabiliti dallo Statu-
to, dal Compendium e dai Regolamenti;
• di coordinare le relazioni esterne e le attività di promozione dell'immagine
associativa.
Il Presidente della sede locale viene eletto dalla plenaria locale formata da tutti i
soci del comitato. I soci si dividono in ordinari ed effettivi, e solo a questi ultimi
spetta il diritto di voto.
In merito alla qualifica di socio, rileva sottolineare che l’adesione all’organizza-
zione é assolutamente volontaria, non richiede il versamento di alcuna quota asso-
ciativa, ma richiede il superamento di un processo di selezione iniziale, volto a
verificare la compatibilità del soggetto richiedente con i valori e la mission di
AIESEC.
Particolarità del modello organizzativo adottato è che tutte le cariche hanno una
durata massima di dodici mesi, comportando un annuale mutamento della compo-
sizione degli organi di governance sia a livello nazionale che locale, nonché nu-
merose criticità in materia di Know-How e Knowledge transition. La rielezione
non è vietata, ma, poiché l’organizzazione persegue, tra gli altri, l’obiettivo di mi-
gliorarsi continuamente formando i propri membri in maniera tale da renderli più
competenti delle generazioni precedenti, si tratta di una pratica insolita e legata a
casi eccezionali.
120
Ad oggi, l’unico organo esterno che fornisce supporto e consulenza è il c.d. “Su-
pervisory Group” che, tramite l’esperienza dei propri membri in ambito universi-
tario, imprenditoriale e sociale, offre un supporto alle scelte del direttivo naziona-
le in termini di continuità, consulenza strategica, organizzazione di attività ed
eventi correlati; si occupa inoltre di fornire contatti rilevanti per lo svolgimento
delle attività organizzative e per la sostenibilità di AIESEC.
3.6.2 Implementazione della funzione di internal auditing
Da diversi anni l’organizzazione ha implementato, sia a livello internazionale
che nazionale, una funzione di internal auditing. In questo paragrafo viene trattata
l’evoluzione di cui è stata protagonista la figura dell’internal auditor in AIESEC
Italia, con particolare attenzione alle novità che sono state introdotte nel corso del
2013.
Sin dalla sua introduzione, l’internal auditor è sempre stato visto e considerato
come un organo terzo, autonomo ed indipendente dal direttivo nazionale, il cui
scopo ultimo doveva essere quello di salvaguardare il valore esistente dell'orga-
nizzazione e contribuire al suo miglioramento, fornendo garanzie oggettive relati-
ve alla governance, alla gestione dei rischi e al rispetto dei processi interni dell'as-
sociazione.
L’internal auditor doveva valutare l’esposizione ai rischi di AIESEC Italia, ri-
spondendo in modo adeguato e con controlli efficaci ai rischi in materia di:
121
• affidabilità ed integrità delle informazioni finanziarie;
• efficacia ed efficienza delle operazioni e dei processi;
• salvaguardia delle attività panificate;
• rispetto di leggi, regolamenti e contratti.
Inoltre, prima del Luglio 2013, il campo di applicazione dell’internal auditor
comprendeva le seguenti attività:
• controllare l’amministrazione di AIESEC Italia;
• vigilare sull’osservanza della legge italiana e dello Statuto di AIESEC Italia
• accertare la regolare tenuta contabile di tutti i Comitati Locali e del Comita-
to Nazionale, nonché la corrispondenza del bilancio alle risultanze dei libri e
delle scritture contabili e l’osservanza delle norme stabilite dal’ art 2426 del
C.C per la valutazione del patrimonio associativo;
• gestire il processo di revisione contabile interna e di verifica della qualità
dei prodotti e/o servizi offerti da AIESEC Italia;
• applicazione delle sanzioni.
Venivano in oltre conferiti all’internal auditor i seguenti poteri:
• qualora l’Internal Auditor, nell’esercizio delle sue funzioni, avesse ri-
scontrato irregolarità nell’operato dei singoli membri e degli organi del-
l’Associazione, doveva provvedere all’applicazione delle relative sanzioni;
122
• nell’espletamento di specifiche operazioni attinenti al controllo della re-
golare tenuta della contabilità e della corrispondenza del bilancio alle ri-
sultanze dei libri e delle scritture contabili, l’Internal Auditor poteva avva-
lersi di ausiliari, sotto la propria responsabilità attingendo dal fondo di cui
era responsabile;
• l’Internal Auditor aveva la facoltà di convocare un massimo di 3 Control-
li annuali ed era libero di deciderne le date e i luoghi;
• nel momento in cui veniva eletto, l'IA aveva il potere di strutturare l'Or-
gano di Controllo in accordo con quelle che erano le necessità e le risorse
umane;
• in caso di fondati sospetti di gravi irregolarità l’Internal Auditor poteva
in qualsiasi momento procedere, anche indipendentemente, ad atti d’ispe-
zione e di controllo sui Comitati Locali e sul Comitato Nazionale. L’Inter-
nal Auditor poteva chiedere agli amministratori di Comitato Locale e di
Comitato Nazionale, notizie sull’andamento delle operazioni associative o
su determinati affari;
• nell’esercizio delle sue funzioni l’Internal Auditor aveva la facoltà di re-
carsi in visita al Comitato Nazionale e ai Comitati Locali per effettuare
eventuali controlli a sorpresa.
Era poi previsto un altro organo di controllo, chiamato Auditing Team, che aveva
il compito di coadiuvare l’internal Auditor nelle sue attività.
123
Da quanto sopra descritto, prima del 2013, l’internal auditing in AIESEC Italia
rivestiva pressapoco il ruolo affidato dal nostro Codice Civile al Collegio Sinda-
cale111e, nulla aveva a che fare con quanto prescritto dagli standard internazionali
e di cui abbiamo parlato precedentemente.
Concretamente, l’unica vera attività svolta dall’internal auditor, eventualmente
supportato dall’auditing team, era quella relativa alla revisione contabile ed alla
verifica del rispetto della legge e dei regolamenti. Il motivo per cui tale intervento
da parte dell’internal auditor era ritenuto di primaria importanza, risiedeva nelle
criticità caratterizzanti il sistema amministrativo-contabile adottato dall’organiz-
zazione.
124
111 L’Art. 2403 c.c., in materia di doveri del collegio sindacale, afferma: [1] Il collegio sindacale vigila sull'osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione ed in particolare sull'adeguatezza dell'assetto orga-nizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società sul suo concreto funziona-mento.[2] Esercita inoltre il controllo contabile nel caso previsto dall'articolo 2409-bis, terzo comma. L’Art. 2403-bis prosegue indicando i poteri del collegio sindacale:- [1] I sindaci possono in qualsiasi momento procedere, anche individualmente, ad atti di ispezione e di controllo.- [2] Il collegio sindacale può chiedere agli amministratori notizie, anche con riferimento a società controllate, sull'andamento delle operazioni sociali o su determinati affari. Può altresì scambiare informazioni con i corrispondenti organi delle società controllate in me-rito ai sistemi di amministrazione e controllo ed all'andamento generale dell'attività socia-le.- [3] Gli accertamenti eseguiti devono risultare dal libro previsto dall'articolo 2421, primo comma, n. 5.- [4] Nell'espletamento di specifiche operazioni di ispezione e di controllo i sindaci sotto la propria responsabilità ed a proprie spese possono avvalersi di propri dipendenti ed au-siliari che non si trovino in una delle condizioni previste dall'articolo 2399.- [5] L'organo amministrativo può rifiutare agli ausiliari e ai dipendenti dei sindaci l'ac-cesso a informazioni riservate.
Bisogna premettere che la sede di AIESEC Italia è l’unica ad avere personalità
giuridica ed una partita IVA e, che tutte le altre 18 sedi locali devono fare riferi-
mento a quest’ultima nelle loro attività aventi carattere commerciale.
Sino alla prima metà del 2013, la regolare tenuta contabile avveniva attraverso un
software elementare e non integrato, adottato da tutti i responsabili amministrativi
delle diverse sedi. Per quanto si facesse riferimento ad uno stesso piano dei conti,
a causa della scarsa esperienza dei soggetti su chi ricadeva la responsabilità di re-
digere il bilancio e, la totale mancanza di procedure di controllo ex-ante e durante
la rilevazione contabile dei fatti di gestione, era molto alto il rischio di errate
esposizioni, specie dopo l’introduzione della partita IVA, avvenuta nel 2010.
Inoltre, per via di una policy adottata da AIESEC a livello internazionale, il bilan-
cio di AIESEC Italia deve essere sottoposto annualmente alla revisione da parte di
un revisore esterno per ottenere la certificazione di conformità, necessaria al man-
tenimento del diritto di voto nella plenaria internazionale dell’organizzazione.
Per tutti questi motivi era indispensabile un controllo preventivo sull’informativa
di bilancio da parte di un organo interno.
Nel 2013 AIESEC Italia è stata però protagonista di un importante cambiamento
che ha reso possibile una radicale revisione del ruolo che la funzione di internal
auditing avrebbe dovuto assumere nell’organizzazione: per la prima volta il pro-
cesso di rendicontazione contabile è stato esternalizzato, affidandolo ad una socie-
tà di professionisti.
125
Questo provvedimento ha aumentato notevolmente le garanzie in merito ad una
corretta redazione del bilancio, riducendo drasticamente i rischi connessi, specie
quelli di natura fiscale, consentendo di attribuire all’internal auditor un ruolo che
non fosse più quello di ispettore/controller, bensì quello di consulente per l’organo
direttivo.
Con la nomina del nuovo responsabile di internal auditing, avvenuta nel Luglio
2013, è stato avviato un processo di profonda ristrutturazione della funzione, mi-
rato soprattutto a modificare la cultura del controllo presente nell’organizzazione,
nonché l’approccio di questa ultima alla gestione dei rischi.
Nello specifico, il compito dell’Internal Auditor in AIESEC Italia è, ad oggi, quel-
lo di supportare il vertice e il management aziendale nell’assicurare un’efficace ed
efficiente sistema di governo dei processi, fornendo una consulenza strategica che
presenti uno specifico focus sulla ricerca dell’equilibrio tra il Sistema di Controllo
Interno (SCI) e la mitigazione dei rischi in ambito di risk management.
Inoltre all’Internal Auditor può essere richiesta una rilevazione e/o una conferma
indipendente dei fatti organizzativi e, qualora necessaria, un’obiettiva valutazione
degli stessi, al fine di esprimere un giudizio di affidabilità in merito ad informa-
zioni, processi, sistemi o altro. Gli interventi di assurance comprendono tutte
quelle attività che possono migliorare la qualità delle decisioni, procurando nuove
informazioni, oppure rendendo più tempestive quelle già disponibili, oppure anco-
ra assicurandone l’affidabilità o la rilevanza.
126
Nelle attività di consulenza facenti capo alla funzione di internal auditing di AIE-
SEC Italia rientrano invece:
• Il supporto nel ridisegno dei processi dell’organizzazione, con riferimento a
principi di controllo e di risk management nell’ambito di specifici progetti;
• Il supporto nella definizione dei principi di controllo in ambito di procedure
interne all’organizzazione;
• Le attività di Risk Assessment.
Infine, la funzione di Internal Auditing svolge un’attività di monitoraggio del
complessivo SCI e di risk management in modo coerente con gli obiettivi dell’or-
ganizzazione e dei singoli processi. Essa promuove il miglioramento continuo del
SCI, raccomandando miglioramenti ed innovazioni strutturali e gestionali, sulla
base di ragionevoli relazioni costo/beneficio.
Rifacendosi alle logiche insite nei modelli CoSO ed ERM, che sono state in pre-
cedenza descritte nel presente lavoro, AIESEC Italia ha deciso di adottare una me-
todologia per la valutazione dei controlli sviluppata secondo una logica risk ba-
sed. Un’attività di internal auditing risk based, si basa sulla preliminare identifica-
zione e valutazione degli eventi, esterni ed interni, che possono potenzialmente
pregiudicare il perseguimento degli obiettivi aziendali. Si tratta, quindi, di una
127
metodologia che fa propri i risultati dei processi di risk management per identifi-
care gli obiettivi di controllo per i processi che sono oggetto di analisi.112
Il primo risultato che la rinnovata funzione di internal auditing si è prefissata di
raggiungere, è stato quello di creare, per la prima volta nella storia di AIESEC Ita-
lia, una mappatura completa dei rischi caratteristici, evidenziando per ciascuno le
potenziali ripercussioni sui processi e sui risultati pianificati.
Preliminarmente è stata svolta un’analisi mirata a rappresentare in maniera chiara
e completa tutti i processi organizzativi, le attività svolte ed i progetti in realizza-
zione o in via di sviluppo. In seguito, dopo un attento studio dei piani annuali e
dei documenti di pianificazione economico-finanziaria, sulla base degli obiettivi
decisi dal direttivo nazionale, si è deciso di procedere con l’attività di risk asses-
sment ricorrendo al metodo dell’autovalutazione, altresì detto “risk self asses-
sment”.
La fase di assessment è stata condotta attraverso un’autovalutazione da parte dei
principali risk owner (coloro che gestiscono i processi e le operations) secondo un
duplice approccio: “una vista dall’alto verso il basso” che ha coinvolto esclusiva-
mente il direttivo nazionale; una vista “dal basso verso l’alto”, che è partita dal-
l’analisi dei rischi di processo/sub-processo e da un’autovalutazione da parte dei
singoli process owner di AIESEC Italia, attivi a livello locale. La finalità di tale
128
112 Dittmeier C.A., Internal Auditing, Egea, 2011 p. 395
processo di assessment, è stata quella di individuare, descrivere e comprendere i
principali fattori di rischio dei processi chiave di AIESEC Italia, utilizzando come
strumento principale la compilazione, da parte degli owner di processo, di una se-
rie di questionari differenziati in funzione dei rischi caratteristici del processo og-
getto d’esame.
I questionari sono stati ideati e diffusi dall’internal auditor il quale, per facilitare
la compilazione da parte dei direttivi locali, ha realizzato una preliminare classifi-
cazione dei potenziali rischi per AIESEC Italia.
Nel 2013 tra i rischi esterni figuravano:
• rischi finanziari quali: la mancata realizzazione dei crediti; le problematiche
legate all’esternalizzazione della contabilità; il mancato rinnovo di partners-
hip per cause non legate alla gestione delle stesse da parte di AIESEC Italia;
• rischi di mercato come l’esistenza di altri enti che forniscono gli stessi servi-
zi di AIESEC e, la nascita di programmi europei/internazionali per gli stage
all’estero;
• rischi legali e normativi tra cui la normativa in materia di stage; lo status
legale attuale dell’organizzazione ed eventuale modifica dello stesso; la con-
trattualistica adottata; la conformità dei documenti di informativa finanzia-
ria.
Tra i rischi interni sono invece stati individuati:
129
• Rischi legati alla Pianificazione quali: l’incoerenza tra pianificazione nazio-
nale e pianificazione delle singole sedi locali; l’incoerenza tra obiettivi e ri-
sorse disponibili e/o ragionevolmente acquisibili; l’incoerenza tra obiettivi
pianificati e obiettivi raggiunti; l’inefficacia delle campagne di Marketing
condotte; l’inefficacia delle strategie commerciali;
• Rischi Informativi come: la perdita da un anno all’altro della knowledge ac-
quisita; la dispersione delle informazioni in più sistemi informativi non inte-
grati; il malfunzionamento dei sistemi informativi adottati;
• Rischi legati all’organizzazione interna come ad esempio: la mancanza di
coordinamento/comunicazione tra i diversi livelli di management; sistema di
deleghe; cambiamento nella durata dell’incarico affidato ai direttivi locali
che passa da 12 a 9 mesi.
Oltre ai rischi generali sopra indicati, la funzione di internal auditing ha fornito
anche un dettagliato esame dei rischi specifici di ciascun macro processo e, in par-
ticolare, dei processi di scambio internazionale sia in entrata che in uscita e, dei
processi legati alla membership.
Il survey è stato somministrato sotto forma di file excel, condiviso su Google Dri-
ve113, e risultava composto da un foglio di lavoro dedicato al direttivo nazionale e
da un foglio per ciascuna sede locale. Il questionario é stato indirizzato a ciascun
130
113 Google Drive è un servizio web di storage e sincronizzazione online introdotto da Google il 24 aprile 2012 che permette il file hosting, file sharing ed editing collaborativo di documenti.
membro dei vari direttivi, prevedendo domande differenziate in base al ruolo ri-
coperto e alle responsabilità conferite.
Ai destinatari del questionario è stato richiesto di fornire una valutazione dei ri-
schi proposti, nell’ipotesi in cui li ritenessero applicabili, basandosi su una matrice
impatto-probabilità (vedi figure 8 e 9) e, di indicare gli ulteriori rischi da essi per-
cepiti.
Non ci si è però limitati a raccogliere informazioni sui rischi dell’organizzazione,
la funzione internal auditing ha infatti voluto, attraverso l’utilizzo dello stesso
questionario, interrogare i diversi livelli di management di AIESEC Italia in meri-
to all’esistenza, al funzionamento e all’efficacia dei sistemi di controllo posti a
presidio dei rischi in precedenza individuati.
A tal proposito é stata fornita una scala per la quantificazione dell’efficacia dei
sistemi di controllo esistenti da 0 a 4. Ogni valore assegnato corrispondeva ad una
percentuale di abbattimento del rischio potenziale da 0 a 70%. Nello specifico è
stato richiesto di indicare tutti i controlli che, a parere dell’intervistato, in quel
momento, risultavano posti in essere a presidio del rischio considerato, per poi
valutarne l’efficacia da 0 a 4. Inoltre è stato lasciato ampio spazio per fornire sug-
gerimenti in merito a forme di controllo mancanti e ritenute necessarie per abbat-
tere ulteriormente il rischio potenziale, nonché per indicare azioni volte a miglio-
rare i sistemi di controllo già esistenti.
131
Oltre che a raccogliere spunti e suggerimenti per implementare e migliorare il si-
stema di controllo interno di AIESEC Italia, l’indagine sopra descritta è stata utile
per evidenziare eventuali differenze relative alla percezione del rischio nei vari
livelli di management dell’organizzazione, verificando allo stesso tempo la consa-
pevolezza circa i sistemi di controllo esistenti e sul loro effettivo funzionamento.
Dopo aver concluso la raccolta dei dati forniti dai destinatari del questionario,
l’internal auditor ha prima di tutto condotto un’analisi critica delle informazioni,
realizzando in seguito un report finale di sintesi, finalizzato a supportare i vertici
dell’organizzazione nelle decisioni in merito alle procedure di controllo da adotta-
re.
Non pochi sono stati gli ostacoli che la funzione di internal auditing si è trovata a
dover fronteggiare nel processo di rinnovamento di cui è stata protagonista, primo
fra tutti quello relativo alla scarsa consapevolezza del management in merito al
ruolo e alle responsabilità dell’internal auditor. Per cercare di ridurre al minimo il
gap tra le aspettative dei membri dell’organizzazione circa l’attività della funzione
di IA e l’effettivo potenziale di quest’ultima, l’internal auditor ha provveduto, sin
dalla sua nomina, a fornire materiali educativi ed esplicativi, dimostrandosi dispo-
nibile per ulteriori chiarimenti e/o approfondimenti.
Nonostante ciò, non è stato per nulla facile scardinare il vecchio concetto di inter-
nal auditor, inteso come ispettore-controllore responsabile di sanzionare gli even-
tuali trasgressori dei regolamenti interni, per far spazio all’idea di una figura ca-
132
pace di fornire un concreto supporto all’organizzazione attraverso un’attività co-
stante di assurance e di consulenza. Tale difficoltà è stata aggravata dalla scarsa
collaborazione da parte del direttivo nazionale il quale, se in un primo momento
aveva posto tra le sue priorità la ristrutturazione della funzione di IA e del sistema
dei controlli interni in generale, è finito poi col dedicare scarso impegno ed inade-
guate risorse a tale progetto.
A prescindere dalle difficoltà incontrate e, a dire il vero, previste sin dalle prime
fasi di rinnovamento della funzione di internal auditing, l’attività svolta a partire
dal 2013 ha consentito di generare un output fondamentale per la crescita e lo svi-
luppo futuro della funzione di IA in AIESEC Italia.
La mappatura dei rischi e dei sistemi di controllo che è realizzata, sarà sicuramen-
te oggetto di continuo aggiornamento e, servirà da base per gli step successivi.
Nello specifico, AIESEC Italia si impegnerà a sostenere un processo di costante
miglioramento in termini di controllo e gestione dei rischi, attraverso colloqui di
approfondimento con i responsabili dei processi in cui è stata rilevata la criticità e,
attraverso la predisposizione di gruppi di lavoro specializzati, volti a proporre so-
luzioni concrete per il miglioramento del sistema di controllo interno dell’orga-
nizzazione.
3.7 Auditing finanziario e contabile
133
Considerando quanto detto nel paragrafo 2.4 in merito ai rischi caratteristici
delle aziende nonprofit, vogliamo ora concentrarci sulle problematiche legate al
sistema informativo-contabile tipiche di suddetti enti.
Di seguito vengono definiti i caratteri principali dell’attività di auditing di tipo
finanziario e contabile, sottolineando come la funzione di IA può ricoprire un ruo-
lo chiave nel controllo e nella gestione dei rischi di carattere reputazionale, stret-
tamente legati alla funzionalità del sopra citato sistema informativo-contabile.
In particolare, l’auditing finanziario e contabile, da non confondere con la revisio-
ne esterna volta all’espressione di un giudizio professionale sull’attendibilità so-
stanziale del bilancio, si pone l’obiettivo di verificare l’esistenza e l’adeguatezza
di un sistema di controllo interno idoneo a valutare l’attendibilità delle informa-
zioni desumibili dal bilancio. Esso consiste nell’insieme degli interventi di accer-
tamento rivolti alla verifica delle operazioni aziendali, sotto il profilo contabile e
finanziario. Tuttavia, nell’ottica dell’internal auditor l’aspetto contabile deve es-
sere considerato soltanto il punto di avvio dell’attività in questione.
L’auditor interno che svolge attività di financial auditing, a differenza di quello
esterno, “non ha il dovere di verificare l’attendibilità dei dati del sistema contabi-
le, né deve accertare la rispondenza dei dati contabili alle operazioni effettiva-
mente svolte dall’impresa”114, bensì ha il compito di accertare l’esistenza, l’opera-
tività e l’adeguatezza del sistema di controllo contabile interno.
134
114 Troina G., Le Revisioni Aziendali, Franco Angeli, Milano, 2005, p. 26
In tema di Audit al bilancio, l’internal auditor si concentra solo sulle poste di bi-
lancio piu significative e, nella maggior parte dei casi, soprattutto su quelle con-
siderate più rilevanti dal vertice aziendale, che richiede al responsabile della revi-
sione interna una ragionevole rassicurazione sulla correttezza delle stesse. L’Audit
al sistema dei controlli interni, invece, concentra l’attenzione sull’adeguatezza del
sistema generale dei controlli istituiti ed operanti presso le diverse funzioni azien-
dali, con particolare attenzione a quelli aventi natura amministrativo-contabile.
Andando a verificare la funzionalità del sistema interno di controllo, il soggetto
preposto all’attività di internal auditing assolve alla funzione andando a valuta-
re115:
• l’adeguatezza dei controlli contabili, amministrativo-finanziari e gestionali,
rivolgendo particolare attenzione alle misure necessarie alla conservazione
del patrimonio, all’efficacia e all’efficienza delle attività di pianificazione e
programmazione, nonché al corretto funzionamento del sistema organizzati-
vo, operativo ed informativo;
• l’adeguatezza generale del sistema dei controlli interni, tenendo a mente gli
specifici rischi rilevati attraverso le attività di risk assessment ed il trade off
costi-benefici;
• l’attendibilità e l’integrità delle informazioni rivolte al vertice aziendale;
135
115 Giansante P., Internal Auditing. Contenuto, struttura e processo., Edizioni Universita-rie Romane, 2009
• la congruità tra i comportamenti e le operazioni aziendali alle procedure
interne stabilite;
• la congruità delle procedure di controllo rispetto agli obiettivi prefissati e
alla struttura organizzativa.
Senza dubbio questa seconda tipologia di attività svolta dall’internal auditor gio-
ca un ruolo strategico di gran lunga più rilevante rispetto alla mera verifica di de-
terminate voci di bilancio, contribuendo in maniera consistente alla creazione di
un maggior valore aggiunto all’interno dell’organizzazione.
Inoltre, Troina116 ci dice che il revisore interno non deve sostituirsi in nessun caso
al revisore esterno e che, quindi, l’utilizzo dei revisori interni a mero supporto
operativo delle società di revisione è da ritenersi improprio e alla base di potenzia-
li e significative contraddizioni all’interno del sistema aziendale, quali:
• qualora l’internal financial auditor fornisse il suo supporto al revisore con-
tabile esterno, effettuando in prima persona i controlli di legittimità e di na-
tura patrimoniale, sottrarrebbe, di fatto, l’indelegabile responsabilità di quei
controlli al capo della contabilità, al quale tali controlli competono istituzio-
nalmente;
• il risparmio che potrebbe derivare dalla collaborazione dell’internal audit
all’attività di revisione esterna, rappresenta l’unica motivazione che potreb-
be giustificare “l’improprio utilizzo” della funzione di IA. In ogni caso sa-
136
116 Troina G., Le Revisioni Aziendali, Franco Angeli, Milano, 2005, p. 26
rebbe necessario analizzare in termini di costi-benefici l’impiego alternativo
di questa funzione a cui istituzionalmente sono, o dovrebbero essere, attri-
buiti compiti di maggior respiro e di un più adeguato ritorno economico.
3.8 Il sistema informativo-contabile delle aziende nonprofit: il caso AIL
Il sistema informativo-contabile riveste per qualsiasi azienda, ed in particola-
re per quelle nonprofit, un ruolo fondamentale, perché garantisce la corretta ge-
stione delle risorse e un impiego delle stesse coerente con gli obiettivi ed il fine
istituzionale.
La principale fonte informativa è costituita dal bilancio, inteso come insieme di
prospetti contabili quantitativi e qualitativi che rappresentano la posizione finan-
ziario-patrimoniale ed il risultato economico del periodo a cui si riferiscono.
Tale documento, se redatto in maniera corretta, chiara ed esaustiva e, se corredato
di una dettagliata relazione sulla gestione e sulle attività portate avanti, rappresen-
ta il mezzo più idoneo a soddisfare le esigenze conoscitive degli stakeholder della
nonprofit.
Tale particolare tipologia, presentando caratteri propri e distinti rispetto alla gene-
ralità delle aziende, richiede un sistema informativo adeguato al fabbisogno di co-
noscenze necessarie per governare consapevolmente l’organizzazione e i suoi
137
processi117; per questo esso deve essere progettato in coerenza con le finalità isti-
tuzionali, le strategie perseguite e la struttura organizzativa adottata.
Peraltro, come già accennato nel primo capitolo, mentre per le imprese con finali-
tà di lucro il reddito è una misura in grado di rappresentare in maniera piuttosto
verosimile l’entità della ricchezza prodotta in un determinato periodo, per le orga-
nizzazioni nonprofit il reddito non risulta essere un indicatore particolarmente
preciso e significativo, dal momento che il fine ultimo di tali organizzazioni con-
siste nella massimizzazione dell’utilità prodotta per la comunità. Pertanto l’impie-
go di parametri monetari non è pienamente capace di rilevare e misurare corretta-
mente i benefici derivanti dall’attività svolta dalla nonprofit e, quindi, il valore
aggiunto da quest’ultima prodotto. Questo non vuole però significare, come già
sottolineato in precedenza, che sia concessa alle aziende nonprofit la possibilità di
non operare secondo corretti principi di gestione orientati all’efficacia e all’effi-
cienza dei processi e, finalizzati al perseguimento dell’obiettivo di economicità.
Proprio considerando quanto sopra detto, una corretta redazione del bilancio ed, in
particolare, una puntuale rilevazione del reddito di esercizio, assumono particolare
rilievo evidenziando l’esistenza o meno dell’equilibrio generale dell’azienda.
Dopo aver appurato l’importanza dell’adozione di un sistema informativo struttu-
rato e correttamente progettato, bisogna però osservare che in realtà, nella mag-
138
117 Zangrandi A. (a cura di), Aziende non profit. Le condizioni di sviluppo, Egea, Milano, 2000
gior parte dei casi, le aziende nonprofit, specie quelle di piccoli dimensioni, pre-
sentano sistemi di rilevazione elementari e scarsamente adeguati.
I motivi della suddetta inefficienza organizzativa sono riconducibili a diversi fat-
tori quali:
• La scarsa cultura manageriale e la carente professionalità di coloro che ge-
stiscono una buona parte delle nonprofit;
• Un sistema normativo lacunoso che non ha fino ad ora previsto obblighi
giuridici di rendicontazione.
Secondo la dottrina economico-aziendale prevalente, il sistema informativo delle
non profit dovrebbe utilizzare le conoscenze sviluppate, in tema di metodologie
contabili di rilevazione e di rappresentazione dei valori in documenti di sintesi
periodici, opportunamente orientate in relazione alla natura delle finalità istituzio-
nali perseguite. L’analisi dei processi gestionali delle organizzazioni nonprofit,
infatti, mette in luce alcune operazioni che possono sfuggire alla rilevazione del
sistema contabile “tradizionale”; si pensi, ad esempio, all’acquisizione di condi-
zioni produttive a titolo gratuito, alla cessione senza diretto corrispettivo di beni e
servizi prodotti, ai vincoli di utilizzo dei fondi pervenuti a titolo di liberalità, al-
l’iscrizione e correlata valorizzazione delle diverse tipologie di liberalità nel pa-
trimonio delle non profit, etc.118
139
118 Bandini F. (a cura di), Economia e management delle aziende nonprofit e delle impre-se sociali, CEDAM, 2013 pag. 153
Preso atto dello scarso intervento da parte del Legislatore in materia di bilancio
per le aziende nonprofit, hanno provveduto a colmare tale vuoto il Consiglio Na-
zionale dei Dottori Commercialisti nel 2002 con un documento di presentazione
di un sistema rappresentativo dei risultati di sintesi delle aziende non profit119 e
l’Agenzia per le Onlus nel 2009 con un atto di indirizzo contenente “Linee guida
e schemi per la redazione dei bilanci di esercizio degli enti non profit”.
Tenendo conto della necessità per una nonprofit di garantire la trasparenza, la coe-
renza e la completezza delle informazioni attraverso le quali comunica ai propri
interlocutori i risultati dell’azione svolta e dell’attività posta in essere, l’ Agenzia
per le Onlus ha specificato l’importanza per le organizzazioni nonprofit di redige-
re, oltre ad un bilancio contabile, il bilancio di missione, ovvero una relazione re-
datta dagli amministratori, il cui obiettivo è quello di rappresentare: le attività
svolte dall’organizzazione, le risorse impiegate e gli obiettivi raggiunti. Far perce-
pire all’esterno l’utilità prodotta per la collettività, consente di mantenere vivo nel
tempo il rapporto fiduciario con la stessa, che é da un lato destinataria dei servizi
offerti e, dall’altro, la principale erogatrice dei fondi ricevuti e del lavoro volonta-
rio.
2.8.1 L’associazione AIL
140
119 CNDC, Sistema di verifica della responsabilità e della trasparenza nelle aziende non profit, 2002
L’AIL - Associazione Italiana contro le Leucemie-linfomi e mieloma - è stata
fondata l’8 aprile del 1969, a Roma; è una associazione avente personalità giuridi-
ca riconosciuta con DPR n. 481 del 19 settembre 1975 ed è iscritta al n. 263/75
del Registro delle Persone Giuridiche presso il tribunale di Roma. L’AIL non ha
fini di lucro e persegue esclusivamente finalità di solidarietà sociale: per tale ra-
gione è iscritta all’anagrafe ONLUS dal 12/06/1998 e gode del regime fiscale
agevolato previsto dal D.Lgs. n. 460/97 e s.i.. L'Associazione ha lo scopo di pro-
muovere in Italia lo sviluppo e la diffusione delle ricerche scientifiche nel campo
delle leucemie e delle altre emopatie, e di favorire il miglioramento dei servizi e
dell'assistenza socio-sanitaria in favore dei leucemici ed altri emopatici e delle
loro famiglie, con la conseguente progressiva collaborazione con le associazioni o
istituti operanti in Italia o in altri Paesi e il reciproco adeguamento ottimale delle
attività del settore. L'Associazione persegue il suo scopo:
a) coordinando e indirizzando su tutto il territorio nazionale le attività che
le Sezioni AIL svolgono in ambito provinciale;
b) provvedendo direttamente, o attraverso le Sezioni AIL ad erogare fondi
destinati alla ricerca scientifica nel campo delle leucemie e delle altre
emopatie, nonché all'assistenza in favore dei leucemici e altri emopatici
e delle loro famiglie;
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c) contribuendo agli impegni necessari per l'esecuzione di ricerche tenden-
ti a risolvere i problemi della eziologia, epidemiologia, patogenesi, pre-
venzione, diagnosi e terapia delle leucemie;
d) promuovendo il contatto e la collaborazione tra i gruppi di ricerca esi-
stenti e incoraggiando un sempre maggior numero di ricercatori ad indi-
rizzare la loro attività allo studio delle leucemie;
e) potenziando i nuclei di ricerca esistenti e promuovendo l'istituzione di
centri pilota per indagini particolarmente avanzate, nei quali sia possibi-
le la formazione di nuove leve di ricercatori;
f) facilitando gli scambi di informazione scientifica a livello nazionale e
internazionale mediante soggiorni di ricercatori nei vari centri italiani e
stranieri, patrocinando e organizzando corsi di aggiornamento, convegni
e congressi, sollecitando l'intervento e la collaborazione delle Autorità,
di Enti, Istituzioni, Società e privati cittadini mediante la divulgazione
delle conoscenze relative alle leucemie, alla loro importanza sociale e al
ruolo che esse rivestono come fronte d'avanguardia nella lotta contro i
tumori maligni;
g) incentivando e realizzando l'attività del volontariato senza fini di lucro;
h) collaborando con gli organi legislativi e di governo, statali, regionali, e
degli altri enti locali per la corretta applicazione delle norme vigenti,
per la formulazione di piani e programmi di studio, di nuove leggi,
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provvedimenti e linee guida, esplicando, ove occorra, opera di persua-
sione e stimolo;
i) collaborando a livello nazionale con le Autorità, con i centri universitari
e ospedalieri e con le altre Istituzioni competenti nella gestione, nell'or-
ganizzazione e nel miglioramento sia dei servizi, delle strutture e delle
attrezzature, sia dell'assistenza sanitaria che di quella sociale, in favore
dei leucemici ed altri emopatici e delle loro famiglie, fermo restando la
competenza territoriale esclusiva delle Sezioni dell'AIL, ove esistenti;
l) attuando ogni altro mezzo e attività finalizzata agli scopi sociali.
L’AIL è giuridicamente una Associazione di Associazioni. Le Sezioni sono i Soci
dell’AIL Nazionale: si tratta di Associazioni con piena autonomia giuridica, pa-
trimoniale ed economico-finanziaria, che operano nei loro ambiti provinciali. Le
Sezioni sono riconosciute dall’Assemblea Nazionale sulla base del possesso di
determinati requisiti, e si obbligano al rispetto di regole condivise, tra cui in pri-
mis la partecipazione allo stesso scopo. Nel 2013 risultavano costituite e operative
82 Sezioni AIL.
La sede nazionale ricopre un ruolo di coordinamento tra le varie sezioni locali, ma
soprattutto svolge un’azione di controllo interno specie in materia di compliance e
quindi di aderenza ai regolamenti interni che sono stati adottati dai soci. Tale con-
trollo interno è finalizzato da una parte alla valutazione dell’attività operativa
condotta dalle diverse sedi, e dall’altra alla determinazione dell’eventuale esclu-
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sione di quei soci che non rispettano i criteri di membership stabiliti dall’assem-
blea.
2.8.2 Il sistema contabile-gestionale adottato in AIL
La particolare configurazione di AIL quale associazione di associazioni, ha da
sempre comportato un problema legato all’incapacità di comunicare all’esterno, in
maniera puntuale ed esaustiva, il volume complessivo delle attività svolte e dei
relativi risultati conseguiti, impedendo così di rispondere efficacemente all’esi-
genza di trasparenza da parte dei suoi sostenitori.
Come già ampiamente trattato nei paragrafi precedenti, elemento imprescindibile
per garantire la sostenibilità economico finanziaria delle aziende nonprofit, è la
capacità di queste ultime di migliorare il grado di fidelizzazione dei propri donato-
ri. Tale obiettivo non può essere raggiunto se non si predispongono sufficienti
strumenti e procedure, atte a garantire la massima trasparenza nei flussi comunica-
tivi verso l’esterno.
Del resto, come sappiamo, il principale strumento informativo di una qualsiasi
azienda è rappresentato dal bilancio e, proprio per tale motivo, a partire dal 2009,
l’ AIL ha intrapreso un cammino, peraltro ancora in atto, orientato al potenziamen-
to e al miglioramento del sistema informativo contabile in precedenza adottato.
Per la prima volta l’associazione ha iniziato a lavorare su un progetto di ristruttu-
razione che consentisse la redazione di un bilancio consolidato, capace di espri-
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mere, sia in termini quantitativi che qualitativi, l’effettivo valore prodotto su scala
nazionale. Inoltre, per fornire ulteriori garanzie a tutti i propri stakeholder, sempre
a partire dal 2009, l’AIL ha deciso volontariamente di sottoporre il proprio bilan-
cio al giudizio professionale di conformità da parte di una società di revisione
esterna.
Cerchiamo di capire più nel dettaglio quali provvedimenti sono stati adottati per
rendere più significativa l’informativa economica e gestionale, partendo dalla re-
cente introduzione del bilancio consolidato.
Bisogna dire che il principale ostacolo riscontrato è stato quello legato alla manca-
ta adozione di un sistema integrato e condiviso di contabilità e pertanto alla con-
seguente non uniformità dei criteri di redazione di bilancio impiegati, ricordando
che la totale autonomia delle diverse sezioni ha da sempre implicato anche una
profonda differenza tra le stesse, sia in termini di professionalità acquisita e di ca-
pacità gestionali che ovviamente di risultati conseguiti. Per far fronte a tale pro-
blema, la sede nazionale dell’AIL ha richiesto a tutte le associazioni locali di far
pervenire ogni anno, entro certi termini, i bilanci, così da consentire una riclassifi-
cazione omogenea degli stessi. Il consolidamento, non solo ha consentito di co-
municare all’esterno in maniera non più sottodimensionata l’effettivo volume di
attività svolte, ma ha anche permesso di maturare un’idea più oggettivamente mi-
surabile delle diverse realtà locali, consentendo di acquisire dai dati di bilancio
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informazioni indispensabili per la pianificazione strategica e per il controllo inter-
no.
Il cambiamento più rilevante è stato però quello che ha coinvolto l’amministra-
zione della sede nazionale dell’AIL, la quale, per prima, ha adottato un nuovo si-
stema gestionale e contabile che verrà nei prossimi anni esteso gradualmente an-
che alle sedi locali.
Negli ultimi anni si era presentata in maniera sempre più incisiva l’esigenza di
creare un sistema capace di monitorare l’intero processo delle donazioni, dal mo-
mento in cui queste ultime venivano effettuate dai soggetti terzi fino all’effettiva
registrazione e contabilizzazione in bilancio.
Trattandosi di un’associazione che per natura e tradizione fonda la propria so-
pravvivenza e continuità operativa proprio sulle elargizioni a titolo gratuito da
parte di soggetti terzi, ci si è adoperati per individuare uno strumento in grado di
analizzare i flussi delle donazioni in maniera sistematica ed integrata, così da di-
sporre di tutta una serie di informazioni indispensabili al miglioramento delle stra-
tegie di fund raising e di direct marketing120.
Il rischio principale riscontrato è infatti rappresentato proprio dalla natura dei pro-
venti, dal modo attraverso il quale l’associazione raccoglie i fondi, dalla capacità
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120 Il Direct Marketing è un insieme di tecniche di marketing attraverso le quali aziende coàmmerciali, ma anche organizzazioni pubbliche ed enti nonprofit, comunicano diretta-mente con clienti ed utenti finali consentendo di raggiungere un target definito, con azioni mirate che utilizzino una serie di strumenti, anche interattivi, ottenendo in tal modo delle risposte misurabili, quantificabili e qualificabili.
di dare evidenza della destinazione delle risorse, nonché dal cambio culturale a
cui si è assistito negli ultimi anni e, per il quale, è sempre più richiesta da parte dei
soggetti finanziatori una rendicontazione puntuale delle attività portate a termine.
Nello specifico, l’associazione si è dotata di un database chiamato MyDonor, di-
rettamente collegato al software utilizzato per la gestione contabile e ai conti cor-
renti postali e bancari, eliminando la necessità di dover svolgere un’attività ma-
nuale di data entry, rendendo possibile un tracking e un monitoring diretto ed au-
tomatico dei flussi delle donazioni, ed eliminando quasi del tutto il rischio di erra-
te esposizioni in bilancio.
Attraverso questo metodo automatico di contabilizzazione, ogni euro donato viene
immediatamente fatto corrispondere in bilancio alla specifica attività o progetto
per il quale la liberalità è stata effettuata, consentendo un reporting chiaro e preci-
so di come le risorse vengono impiegate, coerentemente con i fini istituzionali
propri dell’associazione.
Rispetto a quanto avveniva in precedenza, non è più l’Amministrazione ad analiz-
zare i risultati conseguiti da ciascuna iniziativa o campagna di raccolta fondi, ben-
sì è lo stesso responsabile finale di queste ultime ad avere accesso ai dati relativi
agli oneri sostenuti e ai proventi conseguiti e quindi, a disporre di tutta una serie
di evidenze utilissime per valutare l’efficacia delle strategie adottate e l’eventuale
necessità di rivedere quanto pianificato, al fine di ottenere una maggior risposta da
parte del target di donatori di riferimento.
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3.9 Conclusioni
Considerato quanto trattato in questo capitolo, possiamo dire che nel caso del-
le organizzazioni nonprofit, il ruolo della funzione di internal auditing può rivelar-
si fondamentale in tema di creazione del valore, specialmente riguardo al contri-
buto che essa può fornire per garantire una maggiore trasparenza nei confronti de-
gli stakeholders.
In Italia i sistemi di controllo sugli enti nonprofit non sono adeguati, mancando
sia una regolamentazione chiara in merito al loro funzionamento, sia un’autorità
specializzata, preposta al suddetto controllo. Nello specifico, quello che manca è
una forma sistematica di controllo ex-ante, finalizzato a verificare sin dall’origine,
ovvero dal momento dell’iscrizione dell’ente nei diversi registri, che sussista una
coerenza sostanziale tra l’attività svolta e il fine istituzionale dell’organizzazione.
Tale carenza nelle forme di controllo esterno ex-ante, unita alla mancanza di ob-
blighi in materia di pubblicazione e di certificazione dei bilanci o anche di con-
trollo della qualità, contribuisce ad aumentare l’importanza che un buon sistema
di controllo interno e, soprattutto, di internal auditing, può rivestire per fornire
ragionevoli garanzie circa l’affidabilità delle organizzazioni nonprofit.
Sono sempre di più le realtà nonprofit che cominciano a comprendere l’importan-
za di investire nell’implementazione di una funzione di internal audit al fine di
migliorare la propria reputazione e quindi, di conseguenza, le proprie probabilità
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di sopravvivenza. Sicuramente la strada da percorrere è ancora lunga, ma ci si au-
spica che nell’arco di pochi anni molte altre realtà prendano esempio da chi, come
i casi presentati in precedenza, ha già intrapreso questo processo di miglioramento
strutturale, mirato ad incrementare le proprie performance, agendo sul sistema e
sulle procedure di controllo interno.
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