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Università degli Studi di Roma “Roma tre” Facoltà di Scienze Politiche Tesi di Laurea Un mondo in movimento, cause e conseguenze economiche della migrazione internazionale. Il caso Italia: ieri noi, oggi loro Relatore Laureando Chiar.mo Prof. Valentina Pizzella Lilia Cavallari matr. n. 10780061

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Università degli Studi di Roma “Roma tre”Facoltà di Scienze Politiche

Tesi di Laurea

Un mondo in movimento, cause e conseguenze economiche della migrazione internazionale.

Il caso Italia: ieri noi, oggi loro

Relatore LaureandoChiar.mo Prof. Valentina PizzellaLilia Cavallari matr. n. 10780061

Anno Accademico 2003 – 2004

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Indice

Introduzione……………………………………………………………

…………………1

Il Fenomeno della Migrazione Internazionale

La decisione di emigrare…………………...

………………………… 12

Evoluzione dei movimenti migratori……………………….

…………..19

Politiche di gestione della Migrazione……………………….…..

…….30

L’economia della Migrazione…………………..

…………………….…31

La mobilità internazionale del Fattore

Lavoro……………………..…35

Gli effetti della Migrazione sul benessere economico e

sociale…...60

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Immigrazione e mercato del lavoro

Complementarità o

sostituzione………………………………………..83

Il sindacato……...…………………………………………...89

La competizione indiretta…………………….…..………...95

Il Capitale Umano……………..…………………….…………………

104

Assimilazione Salariale……………..…….………………105

Migrazione selettiva e Disoccupazione…………….……..

…………109

Migrazione Temporanea……………………..

……………………….113

Integrazione economica e salariale degli immigrati nei paesi

di destinazione: evidenze empiriche

La metodologia di analisi….……………..

……………………………117

L’esperienza

d’oltreoceano……………………………………………127

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Risultati

europei………………………………………………………...140

Migrazione Temporanea……………...…………………..143

Gli effetti della disoccupazione sull’integrazione economica

degli immigrati nel paese di destinazione....148

I Paesi del sud Europa……………………………...

…………………159

Evoluzione del Fenomeno Migratorio in Italia

Gli italiani nel

mondo…………………………………………………..177

L’Italia come paese di

immigrazione…………………………………182

Inserimento territoriale e integrazione sociale degli

immigrati…….190

Il mercato del lavoro italiano ed il livello di integrazione

degli

stranieri……………………………………………………………197

Le assunzioni dei lavoratori immigrati per settori di

produzione e ripartizione territoriale……..………………204

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Assunzioni dei lavoratori immigrati per nazionalità…....219

Gli Immigrati e il lavoro nero………….…..……………..224

La politica migratoria italiana……………………………………..

….235

Conclusioni……………………………………………………………

…………..….249

Bibliografia……………………………………………………………

……………....262

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Indice

Introduzione…………………………………………………………………………

……1

1. Il Fenomeno della Migrazione Internazionale

1.1 La decisione di emigrare…………………...………………………… 12

1.2 Evoluzione dei movimenti migratori……………………….…………..19

1.3 Politiche di gestione della Migrazione……………………….…..…….30

1.4 L’economia della Migrazione…………………..…………………….…31

1.5 La mobilità internazionale del Fattore Lavoro……………………..…35

1.6 Gli effetti della Migrazione sul benessere economico e sociale…...60

2. Immigrazione e mercato del lavoro2.1 Complementarità o sostituzione………………………………………..83

2.1.1. Il sindacato……...…………………………………………...89

2.1.2. La competizione indiretta…………………….…..………...95

2.2 Il Capitale Umano……………..…………………….…………………104

2.2.1. Assimilazione Salariale……………..…….………………105

2.3 Migrazione selettiva e Disoccupazione…………….……..…………109

2.4 Migrazione Temporanea……………………..……………………….113

3. Integrazione economica e salariale degli immigrati nei paesi di destinazione: evidenze empiriche

3.1 La metodologia di analisi….……………..……………………………117

3.2 L’esperienza d’oltreoceano……………………………………………127

3.3 Risultati europei………………………………………………………...140

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3.3.1. Migrazione Temporanea……………...…………………..143

3.3.2. Gli effetti della disoccupazione sull’integrazione economica degli immigrati nel paese di

destinazione....1483.4 I Paesi del sud Europa……………………………...

…………………159

4. Evoluzione del Fenomeno Migratorio in Italia4.1 Gli italiani nel

mondo…………………………………………………..1774.2 L’Italia come paese di

immigrazione…………………………………1824.3 Inserimento territoriale e integrazione sociale degli

immigrati…….1904.4 Il mercato del lavoro italiano ed il livello di integrazione

degli stranieri……………………………………………………………197

4.4.1. Le assunzioni dei lavoratori immigrati per settori di produzione e ripartizione territoriale……..

………………2044.4.2. Assunzioni dei lavoratori immigrati per

nazionalità…....2194.4.3. Gli Immigrati e il lavoro nero………….…..

……………..2244.5 La politica migratoria

italiana……………………………………..….235Conclusioni………………………………………………………………………..

….249Bibliografia…………………………………………………………………………....

262

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Introduzione

Lo scopo di questo lavoro è analizzare le cause della migrazione

internazionale ed analizzarne gli effetti sull’economia dei paesi di

destinazione.

Il movimento, inteso nella sua accezione più ampia di merci, di servizi, di

capitali, di idee, di cultura ed infine di persone è l’elemento distintivo del

secolo appena trascorso e lo sarà anche del XXI.

Parlando di mobilità territoriale, quindi di migrazione, spesso si

percepisce il fenomeno come un problema, una malattia del

mondo.

In realtà, l’analisi approfondita delle cause e delle dinamiche della mobilità

territoriale dovrebbe condurre ad identificare la migrazione come sintomo dei

diversi mali che indeboliscono il nostro pianeta.

Lo sforzo di comprendere il fenomeno migratorio internazionale offre degli

spunti di riflessione a più livelli e abbraccia numerosi campi quali la storia, la

politica, la sociologia, la demografia e l’economia.

Uno studio interdisciplinare della materia, quindi, permette delle possibilità

interessanti, sebbene la necessità di approfondire l’argomento limiti

inevitabilmente il campo ed obblighi ad una scelta chiara e netta riguardo

all’ambito di analisi entro cui far ricadere lo studio della migrazione

internazionale.

La scelta di studiare il fenomeno della migrazione internazionale dal punto di

vista esclusivamente economico risponde ad alcune esigenze personali

quali, le inclinazioni naturali e gli interessi culturali e nasce da un’attenta

riflessione circa la personale percezione della realtà e del mondo in cui

viviamo.

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Sento di appartenere ad un’epoca di contraddizioni in cui convivono, da un

lato, l’accettazione del pluralismo etnico, culturale, religioso e politico visto

come il naturale evolversi dei tempi.

Dall’altro, avverto l’esistenza di un certo grado di chiusura culturale per cui il

diverso e tutto ciò che non si comprende, viene allontanato, temuto e troppo

spesso combattuto.

Si ha la chiara sensazione che, ora più che mai, dal momento

che l’Europa, come molti auspicano, potrebbe diventare a tutti

gli effetti un unico grande paese con comuni principi, leggi e

mercati dei beni e del lavoro, l’inserimento nel mondo del lavoro

non può prescindere dalla considerazione che la competizione,

a tutti i livelli, è diventata tanto grande quanto lo è l’Europa e

che si sta allargando sempre di più, fino a comprendere i

lavoratori non europei che sperano di trovare nel nostro

continente e, in ciascun paese che lo compone, un posto dove

poter crescere, studiare, lavorare e vivere dignitosamente.

Ritengo che conoscere quali siano le cause e le conseguenze di un simile

fenomeno possa essere utile per affrontarlo e gestirlo nel comune interesse

di chi emigra e di chi ne è coinvolto, se pur indirettamente.

L’esigenza di sviluppare un lavoro che abbia l’obiettivo di esplorare la realtà

del fenomeno migratorio e di studiarne le conseguenze, in particolare sui

paesi di destinazione e in Italia, nasce, dunque, da queste riflessioni e

considerazioni.

L’argomento oggetto della tesi è stato sviluppato in quattro capitoli: nel primo

si è inteso dare un quadro generale dei fattori che determinano, regolano e

che sono diretta conseguenza del fenomeno migratorio. Sono state

individuate, nei differenziali economici e di dotazione delle risorse produttive

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tra paesi, le cause della migrazione internazionale i cui effetti sono stati

analizzati nel resto del lavoro.

Nel secondo capitolo è stato analizzato l’effetto di un flusso migratorio non

previsto sul mercato del lavoro del paese di destinazione, evidenziando il

ruolo dell’immigrato nel paese d’accoglienza messo a confronto con quello

del lavoratore nazionale. Da questo punto di vista ci si pone la domanda se

l’immigrato ha un ruolo competitivo (negativo) o complementare (positivo),

rispetto al lavoratore nazionale. E’ stato, poi, analizzato il livello di

integrazione salariale dell’immigrato in funzione del livello di capitale umano

posseduto, della sua trasferibilità e del tempo trascorso nel paese di

accoglienza.

Nel terzo capitolo sono state messe a confronto alcune significative analisi

empiriche svolte in tre realtà diverse per tradizione migratoria, caratteristiche

del mercato del lavoro e politiche migratorie. I tre gruppi di paesi confrontati

sono: USA, Canada e Australia da un lato, alcuni paesi dell’Europa

continentale ed infine i paesi del sud-Europa.

Nel capitolo quarto è stato riportato il quadro della situazione immigratoria in

Italia nei suoi aspetti economici, sociali e normativi. Nella descrizione del

quadro è stato rilevato che alcuni dati cruciali relativi agli effetti economici

dell’immigrazione, quali il grado di scolarità o di professionalità degli

immigrati e i loro livelli salariali, sono risultati irreperibili. I dati messi a

disposizione dagli istituti nazionali competenti (ISTAT e Ministero

dell’Interno), infatti, sono particolareggiati solo relativamente ai paesi di

provenienza, alla distribuzione territoriale e al grado di inserimento nei

diversi settori dell’economia italiana.

Questo è da considerare un fattore limitante la completezza dei risultati cui si

è pervenuto con questo lavoro e può essere visto anche come un possibile

campo di ricerca futura.

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Gli aspetti socio-culturali della migrazione sono stati i primi ad essere

considerati.

Da un punto di vista sociale la mobilità territoriale si è sempre configurata

come un elemento di democrazia reale in quanto, grazie ad essa, tutti

virtualmente sono in grado di sfruttare le proprie potenzialità senza essere

costretti dal contesto umano ed ambientale in cui ognuno si trova inserito,

inevitabilmente, dal momento della nascita.

E’ facile immaginare come un individuo, nato in un paese che offre scarse

possibilità economiche, libertà politiche o culturali sia attratto da un ambiente

che, al contrario, tutte queste cose non solo le offre ma le garantisce.

I paesi più ricchi, allora, rappresentano un’attrattiva: cultura e formazione per

studenti e lavoratori, sicurezza, libertà di scelta, accesso ai servizi pubblici

essenziali ed infine, condizioni di salute e speranza di vita superiori.

Nella prima parte della tesi, inoltre, è stato mostrato il crescente

invecchiamento della popolazione dei Paesi più industrializzati, a fronte della

pressione demografica esercitata dai Paesi in Via di Sviluppo. In questa

ottica la migrazione è la risultante di due forze contrapposte: di spinta, legata

alla crescita demografica dei paesi più poveri. Di attrazione, legata al calo

demografico della parte ricca del Pianeta.

In una simile situazione, supporre l’assenza della migrazione e la chiusura

totale della società industrializzata, significherebbe assistere al declino di

quest’ultima generato da una mancanza di ricambio della popolazione attiva

e da un debole flusso di nascite che, in molte parti dell’Europa, è già stato

superato dal flusso dei decessi.

Dal lato opposto, la crescita demografica dei paesi in via di sviluppo

influenza la loro offerta potenziale di lavoro: in mancanza di sbocchi

occupazionali, l’espansione demografica peggiora le condizioni dei mercati

del lavoro locali determinando un aumento della disoccupazione e fornendo

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un incentivo all’abbandono del paese d’origine verso la ricerca di migliori

opportunità.

I dati a disposizione sulla distribuzione della popolazione e della ricchezza

mondiale confermano lo scenario presentato.

L’ultima proiezione sulla popolazione mondiale effettuata dalla

Population Division delle Nazioni Unite e presentata nel

Febbraio 2003, prevede che la popolazione mondiale nel 2050

potrebbe raggiungere un livello variabile tra i 7,4 e i 10,6

miliardi di persone, secondo la forbice potenziale tra la variante

di crescita minima e massima.

Notevole è il contributo dei Paesi in Via di Sviluppo destinati a

raggiungere nel 2050 l’86,3% della popolazione mondiale o il

90,7% nel caso in cui la fertilità rimanesse costante.

Il crescente differenziale di ricchezza e di tenore di vita che si

registra tra i paesi di origine della migrazione ed i paesi di

destinazione è un ulteriore fattore fondamentale che determina

il flusso migratorio.

In accordo con la teoria moderna del commercio internazionale

(Eli Heckscher e Bertil Ohlin 1933) è stato ipotizzato che il gap

economico tra le due aree del mondo possa essere ridotto in

due modi: o con lo sviluppo del commercio internazionale,

oppure con il movimento dei fattori produttivi.

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Nella prima ipotesi, l’eliminazione delle barriere doganali

spingerebbe ogni economia a specializzarsi nelle produzioni

caratterizzate da più alta intensità del fattore di cui

quell’economia presenta maggiore disponibilità relativa.

Il conseguente pareggiamento del saggio del salario e del

profitto limiterebbe lo spostamento di manodopera e di capitale

da un paese all’altro.

Nella seconda ipotesi, la mobilità di lavoro e capitale, verso le

aree dove sono relativamente più scarsi, determinerebbe la

modifica del rapporto capitale/lavoro e il livellamento del saggio

del salario e del profitto nelle diverse economie

Le due soluzioni operano in maniera molto diversa e pongono altrettanti

problemi.

Sempre nella prima parte del lavoro, si analizza la rilevanza che assumono,

per l’economia, gli effetti delle migrazioni sulla spesa sociale del paese di

destinazione.

Gli studi condotti a riguardo affrontano questa tematica sotto due aspetti: da

un lato, tentano di valutare quanto ricevono gli immigrati in termini di

prestazioni di welfare rispetto a quanto ricevono i nativi, dall’altro, cercano di

ricavare un bilancio di quanto gli immigrati pagano in termini di imposte e

contributi e quanto ricevono in termini di prestazioni e trasferimenti, allo

scopo di capire se l’immigrazione produca un effetto positivo o negativo sui

bilanci pubblici di sicurezza sociale.

Nella seconda parte della tesi ci si è posta la domanda se il fenomeno

migratorio sia sufficiente ad eliminare i differenziali esistenti tra paesi di

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origine e paesi di destinazione e, in che modo gli immigrati agiscano nei

mercati del lavoro dei paesi di destinazione.

I differenziali economici tra i due paesi sarebbero eliminati all’interno di un

modello neoclassico standard di mercato del lavoro. Ma tale assunzione è

decisamente poco realistica poiché non vi è perfetta flessibilità dei salari e

mancano le esternalità positive che, nei paesi avanzati, tendono ad

aumentare i ritmi di crescita rispetto ai paesi arretrati.

Per comprendere in che modo gli immigrati si inseriscono nel contesto

occupazionale dei paesi di destinazione, sempre in questa parte di lavoro, si

esaminano le caratteristiche del mercato del lavoro dei paesi ospitanti.

Si analizzano mercati del lavoro in cui l’influenza dei sindacati è molto

marcata, così come avviene in Europa, e si considera l’ipotesi in cui, in

parallelo al mercato regolare, esista un segmento di mercato sommerso, che

influenza le performances degli immigrati.

Viene, altresì, sottolineata l’importanza del capitale umano (inteso in termini

di istruzione e di qualifiche professionali dei lavoratori) di cui l’immigrato è

dotato al momento del suo inserimento nel mercato del lavoro del paese

ospitante, nonché si studiano le relazioni tra tale livello di capitale umano e il

differenziale salariale esistente tra lavoratore immigrato e lavoratore

nazionale.

In fine, si illustra l’importanza che assume la durata del periodo di

migrazione, sempre in relazione al livello salariale raggiungibile

dall’immigrato.

All’illustrazione teorica delle cause e degli effetti della migrazione

internazionale sul paese di destinazione, è stata fatta seguire la rassegna

dei lavori di B. Chiswick (1978), G.J. Borjas (1985, 2003), Zimmermann

(1994), C. Dustmann (1993) e A. Venturini, C. Villosio (1999) che sono stati

considerati i lavori empirici più significativi ai fini dell’analisi.

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In questa terza parte si è proceduto ad un confronto tra i risultati ottenuti nei

paesi d’oltre oceano, con una lunga storia immigratoria alle spalle, e quelli

registrati nei paesi europei con altrettanta tradizione in quanto paesi di

destinazione, ma con fondamentali differenze normative e gestionali nei

mercati interni del lavoro.

Le esperienze di entrambi questi blocchi di paesi vengono, poi, messe a

confronto con i primi studi fatti sui paesi sud-europei che, solo da venti anni

a questa parte, sono stati interessati dal fenomeno migratorio in quanto

paesi di immigrazione e non di emigrazione.

L’ultima parte del lavoro è dedicata ad un’analisi della situazione italiana.

Alla luce dei risultati ottenuti dai lavori empirici presentati, risalenti agli inizi

degli anni ’90, con i dati a disposizione si è cercato di dare un quadro il più

possibile completo e particolareggiato della situazione attuale.

L’Italia è geograficamente in una posizione di crocevia che permette ad un

migrante l’approdo nel nostro paese sia in quanto meta definitiva del suo

“pellegrinaggio” sia come ponte verso l’Europa continentale.

Questo è confermato dal forte policentrismo che caratterizza il nostro paese,

che ospita 191 nazionalità diverse d’immigrati.

A partire da ciò vengono esposti, prima di tutto, i motivi che spingono gli

immigrati a stabilirsi nel nostro paese. In seguito, è stata illustrata la

distribuzione territoriale. Si è cercato di valutare il grado di integrazione degli

immigrati sia a livello sociale che nel mercato del lavoro. Quindi è stato

analizzato, per settori, province e regioni, il loro livello di occupazione.

Nell’analisi dell’immigrazione in Italia risulta molto importante la valutazione

del lavoro nero e dello sfruttamento della manodopera immigrata sia

regolare che irregolare. I dati statistici al riguardo sono, comprensibilmente,

molto scarsi e variegati e non permettono un giudizio definitivo sulla reale

entità del fenomeno del lavoro irregolare ma possono, comunque, fornire

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una base di partenza per la pianificazione di politiche di gestione che

abbiano l’obbiettivo di arginare lo sviluppo del lavoro nero.

Infine, è stato ripercorso il tracciato legislativo che, dagli anni ’80 ad oggi, ha

cercato di arginare e gestire un fenomeno cui il paese non era preparato.

Tale percorso ha messo in risalto il carattere “riparatorio”, più che

preventivo, degli interventi e delle leggi dello Stato in materia di

immigrazione.

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1. Il fenomeno della Migrazione Internazionale

1.1 La decisione di emigrare

Le migrazioni sono state un elemento determinante per l’evoluzione della

civiltà e si concretizzano in due momenti sostanziali: il momento

dell’abbandono dell’ambiente d’origine, ossia l’emigrazione e il momento

dell’integrazione nella nuova realtà d’accoglienza, ossia l’immigrazione.

Molti e diversi sono stati i fattori che, nel tempo, hanno influenzato i

movimenti migratori.

Fin dalle sue origini, la storia dell’uomo è stata una storia di movimento e di

viaggi: in epoca antica è fuggito dalla natura e dalle sue condizioni

climatiche avverse, ha scoperto nuove terre e le ha popolate. Ha tracciato le

vie del commercio e le ha intraprese. Ha scatenato conflitti e ne è scappato.

Interi continenti sono stati investiti da flussi migratori e senza di essi i centri

urbani moderni e le metropoli non sarebbero sorti.

Tutti gli spostamenti degli uomini sono sempre stati finalizzati, in principio,

alla sopravvivenza ed in seguito al raggiungimento del benessere.

Un’analisi approfondita del fenomeno ci porta a scoprire che benessere non

significa solo maggior ricchezza e, in generale, migliori condizioni

economiche. Il concetto di benessere risponde all’esigenza, per l’individuo,

di migliori condizioni personali, sociali, demografiche e politiche. L’insieme di

tutti questi fattori determina la scelta di emigrare.

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La decisione di lasciare il proprio paese di origine, infatti, è influenzata

fortemente da molteplici circostanze come i vincoli familiari, l’età e la

posizione nella gerarchia sociale.

Inoltre i volumi, la composizione e le destinazioni del flusso migratorio sono

condizionati dalla presenza di reti di contatto tra le comunità emigrate e i

paesi di origine e dai vincoli storici, culturali e geografici tra i diversi paesi.

Non meno importanti sono gli assetti istituzionali sia dei paesi di

destinazione che dei paesi di origine: i sistemi di controllo, le regole e le

politiche di integrazione, nei primi, nonché le politiche di esportazione di

manodopera nei secondi, completano l’analisi dei costi e dei benefici che

determinano la decisione del potenziale emigrante.

La grande varietà dei fattori che inducono alla mobilità internazionale ci

portano a considerare che non ha senso una rigida classificazione in

categorie delle diverse fattispecie delle migrazioni.1

Il flusso migratorio, visto come flusso di movimento, può essere permanente

o provvisorio, spontaneo o forzato, include diversi tipi di persone con

motivazioni diverse, ha differenti ruoli e metodi di inserimento nelle società di

destinazione ed è influenzato e gestito da diverse agenzie e istituzioni.

Cosa si intende per migrazione permanente, per esempio, non è sempre

chiaro: quando la si definisce tale, spesso, non è altro che lo sviluppo di una

originaria migrazione a carattere temporaneo, di un ricongiungimento

familiare o della costituzione di una nuova famiglia.

Ancora, molti degli stanziamenti permanenti possono essere associati a

migrazioni di ritorno: emigranti per motivi di lavoro o gruppi etnici e nazionali

che ritornano nelle loro regioni d’origine.

Un gran numero di migrazioni volontarie, poi, nell’ultima decade, sono state

a carattere temporaneo e, anche in questo caso, le caratteristiche di tale

1 Cfr. John Salt, Current Trends in International Migration in Europe, CDMG (2001)33 Council of Europe

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migrazione sono diverse: ci sono i lavoratori domestici, alla pari, i lavoratori

agricoli, del settore industriale e del turismo. Molti di questi sono stagionali

altri, lavoratori di frontiera e alcuni sono professionisti altamente specializzati

impiegati in multinazionali.

Infine, una moltitudine di emigranti sono rifugiati, richiedenti asilo politico

studenti e giovani che lavorano durante il periodo estivo.

E’ importante, quindi, che questi gruppi di emigranti non siano considerati

rigidamente separati gli uni dagli altri. Verosimile è che uno studente

all’estero decida di sposarsi e rimanere nel paese di accoglienza oppure che

un rifugiato politico decida di ritornare in patria.

Ai flussi di ingressi regolari, con visto e con permessi di lavoro, inoltre, si

aggiungono le presenze irregolari e illegali alimentate anche dai trafficanti di

manodopera. E’ una sensazione comune, infatti, che l’aumento della

migrazione irregolare che si va sempre più registrando, sia associato alla

crescita del fenomeno del traffico e dello sfruttamento umano.

Le migrazioni internazionali sono diventate, quindi, un fenomeno ampio e

irreversibile che riguarda quasi tutti i paesi del mondo.

In una realtà in cui la diseguale distribuzione della ricchezza e della

popolazione separa in modo sempre più netto il Nord del mondo dal Sud,

l’emigrazione rappresenta l’unica via di sopravvivenza per milioni di persone.

Il fenomeno costringerà a rivedere assetti istituzionali, modelli

sociali, modi di produrre e sistemi di organizzazione del

mercato del lavoro.

I dati a disposizione sulla distribuzione della popolazione e della

ricchezza mondiale confermano lo scenario presentato2.

L’ultima proiezione sulla popolazione mondiale effettuata dalla

Population Division delle Nazioni Unite e presentata nel 2 Cfr. Dati del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione - Unfpa

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Febbraio 2003, prevede che la popolazione mondiale nel 2050

potrebbe raggiungere un livello variabile tra i 7,4 e i 10,6

miliardi di persone, secondo la forbice potenziale tra la variante

di crescita minima e massima.

Notevole è il contributo dei Paesi in Via di Sviluppo destinati a

raggiungere nel 2050 l’86,3% della popolazione mondiale o il

90,7% nel caso in cui la fertilità rimanesse costante (Figure 1-

4).

Figura 1

Figura 2

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Figura 3

Figura 4

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Fonte: World Population prospects, the 2002 Revision, ONU, New York

2003

Inoltre nei PVS la popolazione detiene appena il 45% della ricchezza

mondiale. Il reddito medio pro capite di questi paesi è di 3.500 dollari l’anno,

contro i 25.600 dei paesi ricchi. Circa 1,5 miliardi di persone, concentrato

nell’Africa Sub sahariana e nel sub continente indiano, vive con un reddito

pro capite di 1 dollaro al giorno, mentre 2.8 milioni di persone vivono con

meno di 2 dollari al giorno. Questo conferma il rapporto inversamente

proporzionale tra popolazione e reddito, con l’Europa e l’America

Settentrionale, cioè il 18% della popolazione mondiale, che detengono la

metà della ricchezza mondiale e, dall’altra parte, l’Asia – ovvero il 60% della

popolazione mondiale – che detiene solo il 35% del reddito mondiale.

Tutto lascia pensare che molti dei paesi di origine di emigrazione

supereranno a breve il livello della povertà assoluta e che la migrazione

conquisterà il centro della scena3 (Fig 5).

3 Elaborazioni su dati Unpfa (2002), stime ONU – Pop. Div (2003), World Bank (2002)

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Figura 5

Fonte: World Bank 20021.2 Evoluzione dei movimenti migratori

Le implicazioni sociali, politiche ed economiche della migrazione sono

sempre più rilevanti ma spesso i decisori politici e l’opinione pubblica non

posseggono tutte le informazioni adeguate ad un giusto approccio al

problema, sia dal punto di vista sociale che economico.

Nel mondo un individuo su trentacinque è nato in un paese diverso da quello

in cui risiede e la popolazione immigrata si è raddoppiata nell’arco di 35

anni.

Secondo l’ultimo censimento fatto dall’ONU, risalente all’ottobre 2002, i

migranti nel mondo al 2000 erano circa 176 milioni con una incidenza sulla

popolazione mondiale del 2,9%.

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Comunque, il criterio seguito dall’ONU nella rilevazione si basa sulla nascita

all’estero dei residenti nei vari paesi e ciò porta ad una sopravvalutazione

del numero dei migranti dei quali una quota consistente ha, nel frattempo,

assunto la cittadinanza del paese di accoglienza. Ed è proprio per questo

motivo che alcune volte i dati dell’ONU non coincidono con quelli europei di

Eurostat, Consiglio d’Europa e OCSE.

Nei primi anni novanta, e più precisamente nell’arco temporale 1990 – 1995,

l’America del Nord è stato il paese che ha attratto maggiormente i flussi

migratori con 1,4 milioni di immigrati l’anno seguito dall’Europa con 800 mila

e dall’Oceania con 90 mila ingressi all’anno.

In termini di previsioni sulle popolazioni viene stimato che tra il 2000 e il

2050 le regioni del mondo più sviluppate dovrebbero ricevere immigrati con

un incremento medio pari a 2 milioni all’anno.

Gli stessi dati portano a stimare che i principali paesi di destinazione

saranno gli Stati Uniti, la Germania, il Canada, il Regno Unito e l’Australia,

mentre i principali paesi di provenienza saranno la Cina, il Messico, l’India le

Filippine e l’Indonesia 4(Fig.6).

4 Cfr. Internation Migration Report 2002, Un Population Division, New York Cfr. World Migration 2003. Managing Migrations. Challanges and responses for people on the Move, Geneva, 2003

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Figura 6

Fonte: ONU – population Division 2002

Questi sono i dati che riguardano esclusivamente la “migrazione regolare” e

cioè la migrazione degli stranieri regolarmente residenti e registrati,

escludendo la quota di quelli presenti illegalmente o che sfuggono ai sistemi

statistici di rilevazione.

Concentrandosi sulla presenza straniera nella sola Unione Europea, si

evidenzia che negli ultimi 5 anni questa sembra essersi stabilizzata attorno

ai 20 milioni di individui ed in particolare, al primo gennaio 2001, gli stranieri

risultavano essere il 5,2% della popolazione complessiva.

Naturalmente, la popolazione straniera presente in Europa è ripartita tra i

diversi paesi in modo eterogeneo. La maggioranza relativa si trova in

Germania con il 37,3% di stranieri sulla popolazione totale, segue la Francia

con il 16,7% ed il Regno Unito con il 12,5%.

Nel complesso, i paesi con una lunga storia di immigrazione alle spalle ai

quali, oltre ai tre citati, si aggiungono anche Belgio, Paesi Bassi e

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Lussemburgo, ospitano il 75% degli stranieri presenti nell’Unione Europea.

Dall’altro lato, i paesi del Sud Europa, quali Italia, Spagna, Portogallo e

Grecia, considerati fino agli anni ’80 paesi di emigrazione, nonostante

ospitino nel complesso solo il 15% degli stranieri, stanno registrando una

notevole crescita della presenza straniera. In Spagna, ad esempio, questa è

più che triplicata, in Portogallo raddoppiata mentre in Italia è passata dai

780.000 dei primi anni ’90 a circa un milione e mezzo del 20005.

Un’attenta osservazione dei paesi di provenienza degli stranieri residenti in

Europa porta alla conclusione che la maggior parte di questi fa parte della

Unione Europea o di altri paesi europei non ancora membri al 1° Maggio

2004.

I cittadini comunitari di origine straniera rappresentano circa un terzo del

totale della popolazione e si trovano per la maggior parte in Lussemburgo,

Irlanda e Belgio e, in misura minore, in Francia, Spagna, Regno Unito e

Svezia.

I restanti paesi europei, invece, sono caratterizzati da una forte

presenza di stranieri non comunitari, come l’Italia con l’89%,

l’Austria con l’86% e la Grecia6.

E’ necessario evidenziare che tra gli stranieri non comunitari si

annoverano sia quelli non europei che quelli europei, questi

ultimi intesi come provenienti da paesi ancora non facenti parte

dell’Unione Europea.

Da ciò deriva che i numeri ad oggi registrati subiranno significative modifiche

nella loro qualità dal momento in cui l’Unione Europea, il 1°Maggio 2004, ha

allargato la partecipazione ad altri dieci paesi: Repubblica Ceca, Repubblica

5 Cfr. Caritas – Dossier Statistico Immigrazione 2003 Pag 39-516 Elaborazioni su dati del Council of Europe e SOPEMI

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slovacca, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovenia, Ungheria, Cipro e

Malta (fig. 7).

Figura 7

Fonte: European Council e Sopemi

Per quanto riguarda la migrazione extraeuropea, il continente

africano è sicuramente il bacino da cui provengono la maggior

parte degli immigrati in Europa registrando un 16,3% del totale,

segue subito dopo l’Asia con l’11% dei residenti.

Anche nel caso dell’Unione Europea, i dati riportati si riferiscono alla

migrazione regolare.

La componente dell’immigrazione illegale o irregolare, tuttavia, non è da

sottovalutare. Nei paesi dell’Unione Europea, secondo le stime dell’ OIM

(IOM- Migration Policy and Research Programme) nel 2003 si va da un

minimo di 120 mila ingressi all’anno ad un massimo di 500 mila.

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Questo aspetto dell’immigrazione assume importanza primaria e strategica

soprattutto nei paesi dell’Europa mediterranea con una scarsa tradizione

immigratoria e con poca esperienza nell’affrontare questioni legali ed

economiche legate al fenomeno migratorio.

Anche i paesi di vecchia immigrazione, comunque, a seguito di politiche

restrittive che hanno origine negli anni ‘70, hanno sperimentato una crescita

del fenomeno della migrazione illegale anche se in modo piuttosto

contenuto.

In tutti i casi, i dati sull’immigrazione illegale vanno letti con cautela poiché

non esistono strumenti idonei a catturarne la reale entità.

Uno dei modi che fino ad oggi è stato considerato, se non altro indicativo del

fenomeno, è la raccolta dei dati sulle regolarizzazioni degli immigrati che

periodicamente vengono effettuate nei vari paesi di accoglienza. Proprio la

presenza di un alto numero di irregolari ha spinto diversi governi dell’Unione

ad attivare dei mezzi per legalizzare la presenza degli stranieri,

introducendo dei criteri quali il numero di anni di permanenza nel paese

ospitante e il possesso di un posto di lavoro.

I paesi in cui queste regolarizzazioni hanno avuto i maggiori effetti sono stati,

prevedibilmente, quelli mediterranei. Per quanto riguarda l’Italia, le domande

accolte nelle quattro regolarizzazioni avvenute tra il 1987 e il 1998 sono

state complessivamente circa 798.000, mentre le domande presentate

nell’ultima regolarizzazione del 2002 sono state circa 702.000 e cioè quasi

quanto il totale delle prime quattro7. C’è da dire che i processi di

legalizzazione degli immigrati influiscono anche sulla futura immigrazione

che spesso, in seguito alla raggiunta stabilità della posizione dell’immigrato

residente nel paese ospitante, avvengono per ricongiungimenti familiari.

7 Dati del Ministero dell’Interno

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Altra conseguenza della regolarizzazione è lo sviluppo di comunità di

immigrati con la stessa origine etnica. Dalla creazione di questi gruppi si

originano dei networks tra le comunità di immigrati ed i paesi di origine.

Tali networks offrono gli aiuti necessari ai futuri immigrati per poter lasciare i

loro paesi, assicurando finanziamenti per il viaggio, sistemazioni e alloggi

nonché la ricerca di un lavoro adeguato.

Proprio il lavoro è uno dei principali motori delle migrazioni internazionali.

Come già evidenziato, la ricerca di un miglioramento della posizione

economica e lavorativa, per persone che spesso fuggono da realtà di

estrema povertà e disagio, è ciò che spinge milioni di persone ad

allontanarsi dalla propria famiglia, creando nei paesi destinatari di tali flussi

migratori problematiche politiche ed economiche rilevanti.

Alla fine del 2000 la popolazione attiva straniera presente nell’UE

ammontava a circa 8 milioni di persone con un’incidenza sulla popolazione

attiva totale del 6%.

Anche in questo caso, la distribuzione nel continente europeo si presenta

non omogenea andando dal caso del Portogallo e dell’Italia in cui,

rispettivamente, i lavoratori stranieri hanno un’incidenza del 3% e 2% sul

totale dei lavoratori, al Lussemburgo dove oltre la metà dei lavoratori

stranieri risultano essere per la maggior parte cittadini europei (Fig 8).

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Figura 8

Comunque sia distribuita la forza lavoro straniera, la sua importanza sul

mercato del lavoro appare rilevante e, nonostante il periodo di recessione

economica, i permessi di lavoro ed i relativi ingressi stanno aumentando.

Malgrado ciò, nella maggior parte dei paesi europei i tassi di disoccupazione

degli stranieri sono circa il doppio di quelli della popolazione nazionale.

Le cause vanno ricondotte a previsioni legislative che limitano il ricorso a tali

risorse o che le concentrano in attività poco remunerative e ad alto rischio di

disoccupazione.

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Un caso emblematico è quello della Francia che impedisce l’assunzione di

cittadini non comunitari, per esempio, nella società elettrica statale.

Il tasso di disoccupazione degli immigrati viene influenzato

anche dall’alto livello di lavoro nero che non permette agli

stranieri legalmente presenti di risultare impiegati come forza

lavoro.

In tale contesto si inserisce l’elemento del mismatch tra domanda e offerta di

lavoro degli immigrati la cui dimensione risulta maggiore rispetto a quella

relativa ai lavoratori nazionali o comunitari. Ciò è particolarmente evidente in

settori produttivi che richiedono manodopera altamente specializzata come,

ad esempio, la tecnologia dell’informazione.

Proprio per questa ragione alcuni paesi, come Inghilterra e Germania, hanno

introdotto misure per incoraggiare la mobilità del lavoro qualificato.

Al di là di queste misure, tuttavia, la migrazione continua ad

interessare maggiormente il lavoro poco o per nulla

specializzato, ponendo dei problemi di collocazione ed

integrazione non indifferenti.

In realtà il lavoro degli immigrati non può essere definito, in

assoluto e per tutti, non specializzato. Quello che è sicuramente

vero è che il tipo di professionalità di cui è portatore l’immigrato

è differente da quella diffusa nel paese di accoglienza.

Spesso il vero fattore discriminante è che la cultura

professionale dell’immigrato non viene facilmente individuata

dai datori di lavoro o, peggio, non viene considerata alla pari di

quella di un lavoratore nazionale con simili caratteristiche.

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Infatti, in via generale, la valutazione del contenuto delle

professionalità degli immigrati e della consistenza del loro

contributo alla crescita economica, viene effettuata

confrontando le misure annuali di scolarità dei paesi da cui gli

immigrati provengono con gli indici dei paesi ospitanti, fermo

restando che i dati riguardano sempre i flussi immigratori legali

che non corrispondono a quelli effettivi.

Tuttavia, la scolarità non è l’unico modo per classificare il livello

di capitale umano che l’immigrato porta con sé: è molto

importante anche il livello di esperienza professionale effettiva.

Questo, comunque, rimane un fattore osservato per lo più con

sospetto, date le profonde differenze tra le economie dei paesi

di origine e di destinazione. Ne consegue che la forza lavoro

straniera anche se specializzata viene impiegata in attività

prettamente manuali dei settori dell’edilizia, dell’agricoltura e dei

servizi domestici8.

Oltre che per ragioni occupazionali, gli individui decidono di

lasciare i propri paesi di origine anche per altre motivazioni. Tra

queste molto importante è la migrazione per motivi di

ricongiungimento familiare e quella, a carattere politico, dei

rifugiati e dei richiedenti asilo politico.

8 Cfr. Chiswick B.R, Human Capital and the Labour Market Adjustment of Immigrants: Testing Alternative Hypotheses, in “Research in Human Capital and Development”, [1986] 4, pp 1-26Cfr. Dolado J., Goria A., Ichino A. Immigration, human capital and growth in the host country in Journal of Population Economics, 1994

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Fin dagli anni ’70, da quando cioè la migrazione di lungo periodo ha preso

piede, la migrazione del primo tipo è stata un fenomeno molto importante dal

punto di vista numerico, creando problemi di integrazione delle diverse e

nuove culture con quelle del paese ospitante. Il problema dell’integrazione

di culture diverse, pur nella sua complessità ed importanza, non ha trovato

ad oggi riscontri in precisi e numerosi dati statistici, ma comunque è stato ed

è oggetto di massima attenzione, assumendo rilevanza prettamente di

carattere politico-sociale.

Per quanto riguarda i richiedenti asilo politico, le domande sono aumentate

nei primi anni novanta a causa dei conflitti regionali provocati dalla caduta

del sistema comunista nei paesi dell’Est europeo.

Stando ai dati statistici, al 2001 la dimensione complessiva dei rifugiati nel

mondo è rimasta invariata attorno ai 12 milioni di individui. Di questi solo 2,2

milioni sono presenti in Europa mentre la quota maggiore è ospitata in Asia.

In termini di nazionalità il numero maggiore di richieste, nel 2001, è arrivato

da afgani, iracheni, turchi, iugoslavi e cinesi. Il paese europeo che ha

ricevuto più domande è stato il Regno Unito seguito dalla Germania.

In generale la gran parte dei paesi ha registrato un aumento delle domande,

mentre in Italia le richieste sono diminuite così come in Belgio e in Olanda.

1.3 Politiche di gestione della migrazione

Alle questioni sociali ed economiche che la migrazione internazionale pone,

si affiancano problemi di ordine politico e gestionale.

Le politiche comunitarie in materia di immigrazione, infatti, sono state,

assieme alla bozza di Costituzione presentata dalla Convenzione, uno dei

temi centrali del Consiglio Europeo di Salonicco (19-20 giugno 2003).

Al termine del vertice, i quindici capi di Stato e di governo dell’Unione hanno

approvato un documento che, ribadendo l’esigenza di una politica

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dell’Unione maggiormente strutturata, ha sottolineato la necessità di

combattere i flussi illegali, di aiutare gli immigrati legali ad integrarsi nella

società europea e, non da ultimo, di cooperare con i paesi di origine.

L’impegno di rendere comunitarie le politiche migratorie entro il 2004 risale

all’entrata in vigore del trattato di Amsterdam del maggio 1999, ma il vertice

tenuto in Finlandia (Tampere, ottobre 1999) lo stesso anno ha segnato la

vera svolta con il passaggio da un approccio difensivo e restrittivo verso la

migrazione ad una maggiore apertura.

Nel vertice del Consiglio Europeo si auspicava una nuova visione

dell’immigrazione. L’obiettivo era quello di dare la possibilità agli immigrati di

accedere alle strutture economiche e umanitarie, di fissare regole per

garantire il rigore e il controllo sui flussi irregolari (con maggiori controlli alle

frontiere, politiche di rimpatrio ed eventuali regolarizzazioni per gli irregolari

già presenti sul territorio) e rendere coerenti le politiche per l’integrazione.

Il tutto dando ai cittadini dei paesi esterni all’Unione gli stessi diritti e doveri

dei cittadini comunitari in un quadro di cooperazione con i paesi di origine.

Alle linee guida tracciate in Finlandia hanno fatto seguito una serie di

documenti programmatici e proposte normative da parte della Commissione

Europea ma a questa vasta produzione di documenti non sono corrisposti

risultati concreti.

In sostanza, lo sforzo di armonizzare le politiche dei paesi europei si è

concentrato quasi esclusivamente sulle politiche di asilo.

Di certo, col vertice di Salonicco i paesi dell’UE hanno

compreso che la questione dell’immigrazione è un problema

della Comunità e non solo interno ai singoli paesi. Ed inoltre

che, alla repressione del fenomeno illegale, deve seguire una

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positiva ed effettiva cooperazione in termini di mezzi per

l’integrazione economica e sociale dei cittadini extracomunitari9.

1.4 L’economia della migrazione

Delineate le principali caratteristiche delle cause del fenomeno migratorio,

emerge chiaramente che lo studio della migrazione può essere affrontato

sotto molteplici aspetti e con diversi metodi.

Tutte le questioni che il fenomeno migratorio pone sono importanti.

E’ importante l’aspetto sociale e culturale, è importante l’aspetto

demografico così come l’aspetto politico. Tuttavia, il punto che sembra

preoccupare di più l’opinione pubblica e i governi è rappresentato

dall’incognita sugli effetti che l’immigrazione può avere sull’economia dei

paesi di ospitalità e di origine, sul benessere sociale generale e, in

particolare, sul benessere dei lavoratori.

La scienza economica è lo strumento che analizza tali questioni e

nell’ambito di uno studio economico è possibile affrontare i vari aspetti.

La migrazione può essere considerata, dunque, come un fattore che frena o

favorisce lo sviluppo di un paese o, può essere vista come la mobilità di un

fattore produttivo nell’ambito del commercio internazionale.

Si possono, inoltre studiare le manovre di politica economica atte a gestire il

fenomeno migratorio e, limitando l’analisi al solo mercato del lavoro del

paese ospitante, possono essere analizzati gli effetti che la migrazione può

avere sul livello di occupazione e sui salari dei lavoratori nazionali10.

9 Cfr. Commissione delle Comunità Europee, Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni su immigrazione, integrazione e occupazione, Bruxelles, 3.6.2003 COM (2003)336 definitivo10 Cfr. Venturini A., Rassegna degli approcci economici allo studio dei fenomeni migratori in Economia & Lavoro, 1991

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Per dare sistematicità all’analisi economica, è pertanto necessario ricondurre

i diversi aspetti nell’ambito dello studio macroeconomico e microeconomico.

L’approccio macroeconomico analizza il ruolo svolto dalle migrazioni sia nel

commercio internazionale sia nel processo di crescita economica che ne

può derivare. Si analizza il fenomeno, quindi, da un punto di vista di

equilibrio economico generale. In un simile contesto gli argomenti oggetto di

analisi sono i motivi che si trovano alla base della mobilità della forza lavoro

e i suoi effetti.

Tale mobilità si può verificare sia da un punto di vista settoriale, sia da un

punto di vista geografico.

I flussi migratori, infatti, possono essere studiati sia come flussi

di lavoratori da un mercato del lavoro ad un altro mercato del

lavoro, quindi , all’interno di uno stesso paese da un settore

produttivo ad un altro, sia come flussi di popolazione da

un’area geografica verso un’altra. In questi casi viene

analizzato come la migrazione possa contribuire ad una

migliore allocazione delle risorse ed al miglior benessere

collettivo.

Un esempio classico di migrazione settoriale11 analizza i trasferimenti di

manodopera dal settore agricolo più arretrato e a più bassa produttività,

verso il settore industriale, capitalistico ad elevata produttività e salario.

Secondo tale modello, la migrazione cesserà quando il salario del settore

agricolo avrà uguagliato quello del settore industriale, al netto dei costi di

trasferimento, e avrà generato uno sviluppo economico. Lo stesso processo,

inoltre, potrà subire un rallentamento se la crescita demografica del settore

agricolo non è più in grado di soddisfare l’espansione del settore industriale.

11 Cfr. Lewis A.W., Economic Development with Unlimited Supplies of Labor, “The Manchester School of Economic and Social Studies”, 22, pp.139-91, 1954

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Quest’ultimo, infatti, non si troverà più davanti ad una offerta di lavoro

infinitamente elastica, ma crescente al crescere dei salari del settore

capitalistico.

Per quanto riguarda l’estensione dell’analisi aggregata a livello geografico-

internazionale, si prende in esame l’effetto delle migrazioni internazionali sui

mercati del lavoro dei paesi di origine e di destinazione.

I movimenti della forza lavoro vengono, quindi, inquadrati in una analisi di

scambi internazionali di beni e fattori di produzione.

Il secondo tipo di approccio, quello microeconomico, invece, studia le cause

del trasferimento di forza lavoro. Analizza il processo di scelta che porta

l’individuo alla decisione di emigrare e, infine, a scelta avvenuta, analizza il

ruolo del lavoratore straniero nel mercato del lavoro del paese di

accoglienza, nonché l’impatto che la migrazione ha sui salari dei nazionali e

sul loro livello di occupazione.

Un’altra importante distinzione dal punto di vista teorico-analitico riguarda,

sia nell’ambito macroeconomico che in quello microeconomico, la distinzione

tra un’analisi del fenomeno migratorio da un punto di vista statico e da un

punto di vista dinamico.

Se la migrazione viene considerata da un punto di vista statico,

le principali motivazioni che spingono un individuo ad emigrare

sono le differenze retributive per uno stesso lavoro in due paesi

diversi.

In un assetto statico, quindi, la decisione di emigrare dipende sia dalle

considerazioni su una possibile differenza di guadagno corrente, sia dalle

aspettative su un futuro guadagno. Inoltre, la decisione di emigrare, in un

simile contesto è supposta permanente e non si prende in considerazione

l’ipotesi di un ritorno in patria dell’emigrato.

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Da un punto di vista dinamico, invece, la migrazione può essere temporanea

o permanente e la durata del periodo di immigrazione è una variabile

fondamentale per comprendere alcuni cambiamenti nei comportamenti di

ciascun immigrato.

Nel caso in cui la migrazione sia a carattere temporaneo, è importante

sapere quali fattori portano l’immigrato a scegliere di re-emigrare nel proprio

paese di origine e quali a scegliere di restare in modo definitivo nel paesi di

accoglienza, poiché tali fattori generano risultati diversi nell’economia del

paese ospitante.

In questo capitolo viene affrontato ed analizzato il fenomeno migratorio dal

punto di vista macroeconomico, utilizzando sia l’approccio statico che quello

dinamico.

1.5 Mobilità internazionale del fattore lavoro

Se si osserva il fenomeno migratorio in una prospettiva storica,

l’analisi macroeconomica individua come principale

determinante della migrazione internazionale del lavoro, le

differenze di reddito fra aree, generate dalla diversità nella

dotazione dei fattori della produzione e dalla conseguente

differenza nella loro remunerazione.

A partire dalla metà dell’ottocento e fino alla prima guerra

mondiale i paesi dell’Europa continentale e delle isole

britanniche furono interessati da una vasta emigrazione

intercontinentale verso Stati Uniti, Brasile, Australia e Nuova

Zelanda.

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Tale emigrazione può definirsi “emigrazione dell’età liberista”

essendosi svolta in assenza di sostanziali vincoli ai movimenti

della popolazione sia nei paesi di partenza che in quelli di arrivo

e fu possibile grazie alle innovazioni nei trasporti e nelle

comunicazioni dell’epoca. I flussi migratori che si mossero a

cavallo tra ‘800 e ‘900, inoltre, possono essere visti come il

risultato di alcune particolari circostanze come il rapido

aumento della popolazione e la sua crescente mobilità in

coincidenza con lo sviluppo economico nei vari paesi europei,

la lenta espansione delle possibilità di lavoro nei nuovi settori

industriali, soprattutto in quei paesi dove il processo di

industrializzazione si avviò con ritardo (Italia e Germania) e non

ultima, la ricchezza di risorse naturali e lo scarso numero di

abitanti nei paesi di destinazione.

In questo periodo ciò che inizialmente distinse le migrazioni

internazionali da quelle intercontinentali fu che, nelle prime, il

lavoro si muoveva dai paesi più poveri, all’interno dello stesso

continente europeo, verso aree in cui si stava affermando una

forte accumulazione di capitale, mentre nelle le seconde, sia il

lavoro che il capitale si muovevano verso aree ricche di risorse

naturali.

In seguito, il rapido sviluppo dell’economia dei paesi di

destinazione ed in particolare dell’economia statunitense,

trasformò rapidamente quest’ultimo in un’area ricca non solo di

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risorse naturali, ma anche di capitali, per cui la forza di

attrazione delle risorse naturali sul lavoro venne presto

sostituita dall’accumulazione dei beni capitali.

Più tardi, nel periodo tra le due guerre mondiali, dominato dalle

crisi economiche, le migrazioni dall’Europa alle Americhe

continuarono ma a ritmi ridotti per poi diminuire drasticamente

negli anni ’50 e ’60.

Quest’ultimo fenomeno fu una conseguenza dell’intenso

processo di sviluppo economico che caratterizzò i paesi

dell’Europa occidentale in quegli anni.

In questi paesi, la domanda di lavoro generata da tale processo

fu soddisfatta dalle fonti nazionali a cui cominciarono ad

aggiungersi lavoratori stranieri provenienti sostanzialmente dai

paesi dell’Europa meridionale.

Tali migrazioni internazionali ma intra-europee, non

rappresentarono altro che l’estensione, oltre i confini nazionali,

delle migrazioni interne dell’Ottocento dalle campagne alle città:

in entrambe era sempre il lavoro che si muoveva verso le aree

in cui si accumulava capitale.

Sempre negli anni ’50 e ’60, si avviarono cambiamenti anche

nei flussi migratori verso gli Stati Uniti. La diminuzione dei

tradizionali flussi provenienti dall’Europa si accompagnò ad un

aumento di quelli provenienti dal Messico, America centrale e

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Asia. Tendenza, questa, che andò consolidandosi negli anni ’70

e ’80.

In questo stesso periodo, un nuovo e significativo fenomeno

migratorio andava crescendo e, in particolare, riguardava le

migrazioni dai paesi meno sviluppati del Mediterraneo e dei più

lontani paesi africani, verso i paesi europei, inclusi alcuni

dell’Europa meridionale come la Spagna, l’Italia e la Grecia.

Anche questi flussi avevano molto in comune con la migrazione

verso gli stati Uniti e, nel caso dell’Europa Nord Occidentale,

presero il posto delle correnti migratorie provenienti dal Sud

Europa rallentatesi dalla metà degli anni ’70.

Queste correnti migratorie provenienti dai paesi in via di

sviluppo verso l’Europa, furono determinate da diversi fattori tra

i quali vanno menzionati il crescente divario tra lo sviluppo

economico delle due aree durante gli anni ’80 e la crescita della

popolazione nei paesi più poveri, vista come causa indiretta del

rallentamento del loro sviluppo economico.

Attualmente, nell’ultimo decennio del ‘900 poi, il crollo della

“cortina di ferro” e l’aumentare dei conflitti interetnici nei paesi

ex-comunisti dell’Europa centrale ed orientale, ha aumentato la

libertà di movimento delle persone che vivono in quelle aree e

ha indotto parte di quella popolazione a rifugiarsi nell’Europa

occidentale.

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Le motivazioni economiche delle migrazioni dall’est Europa

verso l’’ovest, avvenute negli anni ’90, sembrano essere

analoghe a quelle attualmente in corso verso il sud Europa e a

quelle avvenute negli anni ’50 e ’60 dal sud verso il nord dell’

Europa. L’entità di tali flussi dipende sia dal grande divario nella

dotazione di fattori produttivi tra i paesi di partenza e di arrivo

della migrazione, sia dalla disponibilità di posti di lavoro nei

segmenti meno qualificati dei sistemi produttivi dei paesi

dell’Europa occidentale12.

Il percorso tracciato dai molteplici flussi migratori susseguitisi

nei secoli, ha portato ad individuare un ideale sentiero comune

che si origina nei paesi con una relativa povertà di capitali ed

abbondanza di forza lavoro, per raggiungere paesi con una

maggiore ricchezza di capitali ma con relativa scarsità del

fattore lavoro.

Tale andamento del fenomeno migratorio permette di

analizzare le sue dinamiche ed i suoi effetti sul benessere dei

paesi, in termini di differenti dotazioni nazionali delle risorse e

permette, inoltre, di inquadrare l’analisi nell’ottica della teoria

del commercio internazionale13.

L’analisi della teoria del commercio internazionale (Eli

Heckscher e Bertil Ohlin 1933) considera le differenze nelle

12 Cfr. Zimmermann K.L., Talking the European Migration Problem in Journal of Economic Perspectives- Volume 9, Number 2 – pp. 45-62 [1995] 13 Cfr. Either W.J., International Trade and Labour Migration in The American Economic Review – September 1985

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dotazioni delle risorse produttive dei paesi, come la causa dei

loro vantaggi comparati14.

Tali differenze, presenti in ciascun paese, si riflettono nei loro

schemi produttivi. Un paese relativamente ricco di capitale,

infatti, si specializza nella produzione e nel commercio del bene

per la cui creazione è necessaria una maggiore quantità di

capitale, mentre il contrario accade in un paese relativamente

ricco del fattore lavoro.

L’abbondanza di un fattore produttivo può essere misurata sia

in termini di unità fisiche che in termini di prezzo. Secondo la

prima accezione, l’accento viene posto sulle diverse quantità di

lavoro e capitale che ciascun paese ha a disposizione,

considerando, quindi, solo l’offerta dei fattori. Alternativamente,

la dotazione fattoriale può essere considerata sia dal lato

dell’offerta che da quello della domanda. In questo senso,

diventa rilevante il prezzo, interno ai diversi paesi, dei fattori di

produzione.

Un paese, ad esempio, è più ricco di capitale se, nel suo

mercato interno, il rapporto del prezzo del servizio del capitale

(solitamente identificato con il tasso di interesse r) ed il prezzo

14 La legge dei vantaggi comparati è esposta da David Ricardo nel suo Principi di economia politica e della tassazione 1817. Secondo la legge dei vantaggi comparati anche se un paese è meno efficiente (ha uno svantaggio assoluto) nella produzione di entrambi i beni (assumendo un mondo a due paesi e due beni), c’è ancora una base per il commercio reciprocamente vantaggioso. Il paese meno efficiente dovrebbe specializzarsi nella produzione e nell’esportazione del bene in cui il suo svantaggio assoluto è minore. La teoria di Ricardo, dei vantaggi comparati, spiega la base del commercio e i guadagni che da esso derivano completando il lavoro di Adam Smith secondo il quale il commercio internazionale è basato su vantaggi assoluti.

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di un’unità di lavoro (indicato dal saggio del salario w) è più

basso rispetto ad un altro paese. Viceversa, se nel mercato

interno di un paese, il rapporto tra il saggio del salario e il tasso

di interesse è inferiore a quello di un altro paese, il paese

considerato sarà più ricco del fattore lavoro.

Date tali differenze fattoriali, è importante sottolineare che i

paesi devono usare con intensità diversa i fattori di produzione

che hanno a disposizione per la produzione dei beni. In

particolare, non è la quantità assoluta di capitale e lavoro

impiegata nella produzione dei beni ad essere importante. Ciò

che interessa è la quantità di capitale usato per ogni unità di

lavoro, quindi, il rapporto capitale/lavoro: ciascun paese usa,

per la produzione di uno stesso bene, un rapporto

capitale/lavoro differente.

Il modello del commercio internazionale prevede, inoltre, che i

paesi presi in considerazione abbiano rendimenti di scala

costanti15 e che vi sia concorrenza perfetta sia nel mercato dei

beni che in quello dei fattori della produzione.

Quando si verificano le ipotesi appena descritte, in base al

teorema di Heckscher-Ohlin, si verificano le condizioni per lo

sviluppo del commercio internazionale in termini di intensità

fattoriali relative e dotazioni fattoriali relative.15 Rendimenti di scala costanti stanno ad indicare che all’aumento proporzionale di lavoro e capitale di uno qualsiasi dei beni, la produzione di tale bene aumenta in proporzione. Nella realtà, tuttavia, le moderne economie producono con rendimenti di scala crescenti per cui la quantità prodotta aumenta più che proporzionalmente rispetto alla crescita dei fattori di produzione. Anche in questo caso, tuttavia, esistono le basi per un commercio internazionale reciprocamente vantaggioso.

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Il paese relativamente ricco di capitale, quindi, esporta il bene

ad alta intensità di capitale ed importa il bene ad alta intensità

di lavoro e, viceversa per il paese in cui il lavoro è il fattore più

abbondante.

Tale teoria, in questo modo, spiega i vantaggi comparati ed

individua nella differenza delle dotazioni fattoriali e dei loro

prezzi relativi la causa che, in assenza di commercio

internazionale, rende diversi i prezzi relativi dei beni tra paesi.

La differenza genera, a sua volta, l’opportunità di un commercio

internazionale dei beni.

L’effetto che il commercio internazionale ha sui paesi interessati

è la riduzione, fino alla loro scomparsa, delle differenze relative

o assolute delle remunerazioni dei fattori di produzione nei due

paesi.

Si può affermare, quindi che, in presenza di concorrenza perfetta, esiste una

relazione biunivoca tra prezzi dei fattori e prezzi dei beni e che il commercio

agisce da sostituto della mobilità internazionale dei fattori della produzione.

Per spiegare quanto detto, si può osservare che, in assenza di commercio

internazionale nel paese in cui il fattore lavoro è relativamente più

abbondante e meno costoso, il prezzo del bene la cui produzione è ad alta

intensità di lavoro è inferiore rispetto al prezzo di un bene equivalente

prodotto nel paese ricco di capitale. Quando però, per via del commercio, il

paese ricco di lavoro, si specializza nella produzione del bene che usa

intensivamente il fattore lavoro, riduce contemporaneamente la produzione

del bene ad alta intensità di capitale. In tale situazione, la domanda relativa

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di lavoro aumenta e ciò corrisponde ad una crescita della remunerazione di

tale fattore rispetto alla remunerazione del capitale.

L’opposto, ovviamente, accade al paese ricco di capitale ove aumenta la

remunerazione del fattore più a buon mercato mentre, diminuisce quella del

lavoro.

L’effetto di riduzione può spingersi fino al completo pareggiamento dei prezzi

dei beni e dei fattori della produzione. Questo avviene perché fintanto che i

prezzi dei fattori differiscono tra loro, anche i prezzi dei beni sono differenti e

ciò stimola scambi mutuamente profittevoli.

Il commercio di per sé è spinto da tali differenze e continuerà ad aver

ragione di esistere fino a che non verranno eliminate le differenze nei prezzi

dei beni, il che presuppone il pareggiamento completo dei prezzi dei fattori

della produzione.

Il commercio internazionale, rispettate tutte le ipotesi, porta al

pareggiamento anche dei prezzi assoluti dei fattori. In questi termini si

uguagliano i salari reali corrispondenti ad uno stesso tipo di lavoro in due

paesi diversi e si uguaglia altresì la remunerazione reale per uno stesso tipo

di capitale.

Tutto questo basta ad affermare che il commercio internazionale dei beni si

comporta come sostituto della mobilità internazionale dei fattori della

produzione e, quindi, anche della migrazione.

Se le condizioni appena descritte non si verificassero e il commercio

internazionale non avesse luogo, infatti, in condizioni di perfetta mobilità dei

fattori produttivi, il lavoro migrerebbe dal paese a bassi salari verso il paese

con salari maggiori e lo stesso farebbe il capitale. Tale processo si

concluderebbe solo quando i salari ed i saggi di interesse del capitale non

siano divenuti uguali in tutti i paesi.

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Gli effetti della migrazione internazionale sul benessere16 della collettività

possono essere analizzati considerando l’aumento o la diminuzione del

prodotto totale dei paesi, interessati da un flusso migratorio rispettivamente

in entrata e in uscita. Per fare ciò si utilizza uno schema17 in cui si

confrontano i due paesi di origine e di destinazione.

Se in un paese l’offerta di lavoro è maggiore rispetto a quella di un secondo

paese, il suo salario reale sarà inferiore comparato con quello del secondo

paese.

Se immaginiamo un flusso migratorio, questo si originerà dal paese con

salari più bassi, verso il paese con salari maggiori. La migrazione

proseguirà finché non si arriverà al pareggiamento dei salari. In questo modo

16 In economia si definisce il benessere come il grado di soddisfazione dei bisogni umani. Tale concetto è stato delineato con sufficiente precisione per i singoli individui ma è molto labile se applicato ad una collettività. Il pensiero utilitarista (J.Bentham, J.S. Mill e H. Sidgwick) poggia sull’idea che la soddisfazione degli individui possa essere calcolata e comparata utilizzando un metro di misura comune per tutti. Il benessere collettivo è allora rappresentato semplicemente dalla somma algebrica dell’utilità goduta dai singoli individui. Tale approccio utilitarista ha delle implicazioni dirette di politica economica: lo Stato ha il dovere di stimolare gli operatori economici a utilizzare le risorse in modo da massimizzare il benessere collettivo. Se poi, il sistema di mercato massimizza spontaneamente l’utilità totale ( grazie alla “mano invisibile” di A. Smith), l’intervento pubblico è perfettamente inutile.L’idea degli utilitaristi di benessere collettivo, non attribuisce alcuna importanza alla distribuzione dell’utilità.Nel 1938 A. Bergson propose di misurare il benessere sociale tramite un indice calcolato in base a una serie di elementi che è ragionevole ritenere rilevanti. Secondo tale impostazione (precisata da P. Samuelson) ciò che è rilevante per la società lo è anche per gli individui ed entra nelle loro funzioni di utilità: l’indice del benessere è dunque calcolabile come funzione (non necessariamente somma) dell’utilità dei singoli.Nella economia moderna il termine utilità viene sostituito dal termine preferenze: ciascun individuo può stabilire se un paniere di beni è preferibile a un secondo e, con l’aggiunta di alcune ipotesi sulla razionalità delle scelte, ciò è sufficiente per elaborare un modello interpretativo del comportamento all’interno dei mercati.Negli studi empirici l’indicatore di benessere collettivo maggiormente usato è il reddito nazionale (netto o lordo). Tale indicatore è indipendente dalla variabilità della distribuzione del reddito o dalla presenza di sacche di povertà. Un aumento del reddito nazionale, quindi, (tenuta costante la sua distribuzione) coincide con un aumento del benessere collettivo, ma questo è tutto quello che si può affermare senza introdurre giudizi di valore.La moderna economia del benessere ha abbandonato lo studio degli indici di benessere collettivo per dedicarsi alla ricerca di regole di scelta collettiva che, utilizzate al fine di risolvere problemi comuni all’intera collettività, possano soddisfare taluni requisiti di equità.

17 Cfr. Salvatore. D., Movimenti internazionali delle risorse in Economia Internazionale pp 475-481, 2000

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i salari reali aumenteranno nel primo paese e diminuiranno nel secondo e il

risultato finale sarà un aumento netto nella produzione mondiale.

Nel paese di emigrazione, inoltre, si genererà una re-distribuzione del

reddito a favore del fattore lavoro, mentre, nel paese di immigrazione il

reddito si ridistribuirà a favore delle risorse di produzione, diverse dal lavoro.

L’aumento della produzione mondiale avverrà solo se la quota di lavoratori

emigranti non è, nel paese di origine, disoccupata. Se così fosse, infatti,

dopo la loro migrazione, l’aumento della produzione andrebbe tutto a favore

del solo paese di destinazione. La figura 9) illustra quanto detto.

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Fig. 9) Effetti della migrazione internazionale del lavoro

sulla produzione e sul benessere.

Dove, OO’ è l’offerta totale di lavoro sia nel paese 1 che nel paese 2.

OF e O’J rappresentano, per ciascun paese, il valore del prodotto marginale del lavoro che, in concorrenza perfetta, coincide con il saggio del salario reale.

Nel paese 1, l’offerta di lavoro è dato da OA e il saggio del salario reale da OC.O’A è l’offerta di lavoro del paese 2 e il salario reale è OH.

Il prodotto totale per ciascun paese è dato da OFGA per il paese 1 e O’JMA per il secondo paese.

La quota di immigrati dal paese 1 verso il paese 2 è data da AB e i livelli dei salari, di conseguenza, arriveranno ad eguagliarsi al livello di BE=ON=O’T.

Il prodotto totale si riduce nel paese 1 (da OFGA ad OFEB) mentre aumenta nel paese 2 (da O’JMA ad O’JEB) generando un guadagno netto nella produzione

mondiale pari a EGM.Se la quota AB, emigrata dal paese 1, fosse stata disoccupata prima della

migrazione, il saggio del salario sarebbe stato al livello di ON e il prodotto pari a OFEB (minore di OFGA). In questo caso, dopo la migrazione, il prodotto mondiale

sarebbe stato ABEM tutto a favore del paese di destinazione.

L’analisi degli effetti sul benessere sociale, inteso in termini di

prodotto totale, quindi, porta a individuare un effetto netto

positivo se i lavoratori emigrati non sono disoccupati nel paese

EN

C

O

F

M H

J

T

B A O’

G

VMPL1

VMPL2

Paese 1 Paese 2

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di origine e decidono di migrare in base al calcolo del

differenziale salariale che esiste tra i due paesi

Le conclusioni fin qui riportate si riferiscono, in un’ottica di natura statica, ad

una situazione in cui non avvengono mutamenti nei modelli produttivi dei

paesi interessati dal commercio internazionale.

Nel tempo, tuttavia, le condizioni che determinano i vantaggi comparati dei

paesi possono mutare e, in particolare, possono mutare le dotazioni

fattoriali.

In generale se il lavoro e il capitale crescono nella stessa misura e nella

produzione di entrambi i beni, con rendimenti di scala costanti, la produttività

e quindi la remunerazione di tali fattori rimangono immutate.

Allo stesso modo, se il rapporto tra lavoratori occupati e

popolazione totale rimane immutato, allora il reddito pro capite

ed il benessere del paese rimangono immutati.

Diversamente, se cresce solo il fattore lavoro o cresce proporzionalmente

più del capitale, allora, la produttività del lavoro si ridurrà e altrettanto farà la

sua remunerazione e il reddito reale pro capite. Se, al contrario, cresce solo

il capitale, la produttività del lavoro aumenterà ed aumenterà anche la

remunerazione del lavoro e quindi, il reddito reale pro capite.

A tale proposito il teorema di Rybczynski18, stabilisce che, a prezzi dei beni

costanti, un aumento nella dotazione relativa di un fattore causa un

incremento più che proporzionale nella produzione del bene che lo utilizza

intensivamente e un calo in assoluto nella produzione dell’altro bene.

Essendo fissi i prezzi dei beni, l’aumento della dotazione, ad esempio del

lavoro, porta all’aumento più che proporzionale del bene che usa

intensivamente tale fattore, mentre la produzione del bene ad alta intensità

18 Cfr. Salvatore D., Crescita economica e commercio internazionale in Economia Internazionale pp 241-274, 2000

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di capitale si riduce. Questo si può spiegare osservando che, se i prezzi dei

beni sono costanti anche i prezzi dei fattori di produzione devono essere

costanti. Questi rimangono costanti solo se il rapporto capitale/lavoro rimane

costante e la produttività di lavoro e capitale rimangono costanti nella

produzione di entrambi i beni. Per impiegare pienamente un aumento di

lavoro e lasciare immutato il rapporto capitale/lavoro l’unico modo è di

contrarre la produzione del bene ad alta intensità di capitale per liberare

tanto capitale quanto basta per assorbire l’aumento del fattore lavoro.

Nel caso in cui i prezzi non siano fissi, la remunerazione del fattore varia in

misura proporzionale alla variazione della produzione.

Il teorema di Stolper-Samuelson19 afferma, infatti, che un aumento del

prezzo relativo di un bene accresce la remunerazione reale del fattore usato

intensivamente nella produzione di tale bene (magnification effect).

Se ad esempio, un paese ricco di capitale impone un dazio all’importazione

di un bene ad alta intensità di lavoro, il prezzo relativo di tale bene aumenta

e aumenta anche il salario reale del lavoro, che è il fattore relativamente più

scarso nel paese considerato. Questo accade perché se il prezzo del bene

ad alta intensità di lavoro aumenta per effetto del dazio, il paese preso in

considerazione aumenterà la produzione interna di tale bene e diminuirà

quella del bene ad alta intensità di capitale. L’aumento della produzione del

bene ad alta intensità di lavoro richiede un rapporto lavoro/capitale

maggiore. Ne consegue che il rapporto tra il saggio del salario e il tasso di

interesse aumenta e il capitale (fattore più abbondante) verrà sostituito al

lavoro così che, il rapporto capitale/lavoro sarà maggiore nella produzione di

entrambi i beni. Siccome ogni unità di lavoro è combinata con una maggiore

quantità di capitale, la produttività del lavoro aumenta e quindi aumenta

anche la sua remunerazione.

19 Cfr. Salvatore D. Restrizione al commercio: i dazi in Economia Internazionale pp 277-312, 2000

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Lo stretto legame tra prezzi dei beni e prezzi dei fattori che si è andato

delineando fino ad ora sottolinea l’aspetto più importante della teoria del

commercio internazionale ai fini della nostra analisi: il rapporto di

sostituibilità tra commercio dei beni e movimento internazionale dei fattori

della produzione.

All’aumentare dei legami commerciali tra i paesi si dovrebbe assistere ad

una diminuzione dei flussi migratori.

Nella realtà, però, non si verifica il completo pareggiamento dei prezzi dei

beni né tanto meno di quelli dei fattori. Questo dipende da alcune ipotesi su

cui si fonda la teoria del commercio internazionale, che non sono rispettate

nella realtà. Molte industrie, infatti, operano in condizioni diverse dalla

concorrenza perfetta e con rendimenti di scala non costanti, i paesi non

usano identica tecnologia per la loro produzione. Ed in più, i costi di

trasporto e le barriere tariffarie al commercio impediscono il libero

commercio ed il pareggiamento dei prezzi dei beni.

Il commercio internazionale può, quindi, aver ridotto le differenze nei

rendimenti dei fattori, ma sicuramente non le ha eliminate.

Il fatto, però, che alcune delle ipotesi previste dal modello non si verifichino

nella realtà, non inficia la teoria stessa ma, al contrario, la correzione di

talune ipotesi rende il modello più aderente alla realtà.

Innanzi tutto, la stragrande maggioranza degli scambi mondiali si basa sul

commercio di prodotti differenziati e non omogenei. Lo scambio di prodotti

appartenenti ad un unico grande gruppo ma differenti in alcune

caratteristiche è tipico del commercio intra-industriale che, in sostanza, si

basa sull’esistenza di economie di scala e sulla differenziazione del prodotto.

Un commercio di questo tipo è più ampio quanto più analoghe sono le

caratteristiche dei paesi e le loro dotazioni fattoriali, quindi, è maggiore tra

paesi industrializzati.

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Al contrario, il commercio che si basa sullo scambio di prodotti

omogenei è detto inter-industriale ed è più ampio quanto più

grandi sono le differenze dei paesi nelle loro dotazioni fattoriali,

quindi, tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo.

Essenzialmente, è tale tipo di commercio ad essere spiegato

dalla teoria di H-O.

Un analogo discorso si può fare per quanto riguarda i

rendimenti di scala costanti. La maggior parte delle moderne

economie, infatti, produce beni con rendimenti di scala

crescenti20 e questo si verifica per diversi motivi: operando su

vasta scala è possibile una maggiore divisione del lavoro e una

maggiore specializzazione del lavoratore il che, porta ad una

sua maggiore produttività. Lo stesso si può dire dell’utilizzo dei

macchinari che possono essere più specializzati e di

conseguenza più produttivi. In tutti i casi, anche con rendimenti

di scala crescenti due paesi identici sotto ogni aspetto possono

dar luogo al commercio reciprocamente vantaggioso. Ciascun

paese, infatti, si specializzerà completamente nella produzione

del bene per cui possiede un vantaggio comparato. I benefici

del commercio, in questo caso, derivano dal fatto che in

assenza di commercio entrambi i paesi non avrebbero potuto

specializzarsi completamente nella produzione di entrambi i

20 Situazione della produzione per cui il prodotto cresce proporzionalmente di più dell’aumento negli imput o fattori di produzione.

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beni e quindi avrebbero prodotto e consumato quantità inferiori

di entrambi i beni.

I diversi stadi di sviluppo tecnologico e produttivo dei paesi, poi,

sono un ulteriore stimolo al commercio internazionale ma,

contemporaneamente, rallentano il processo del completo

pareggiamento dei prezzi.

Alcuni studiosi (Posner 1961, modello del gap tecnologico)

hanno intuito che molto del commercio tra paesi industrializzati

è originato dall’introduzione di nuovi prodotti e nuovi processi

produttivi i quali danno all’impresa produttrice un provvisorio

monopolio internazionale.

Tale monopolio, garantito da brevetti e copyright, consente un momentaneo

vantaggio al paese che lo detiene che, quindi, esporta i beni altamente

tecnologici.

Vernon (1966, modello del ciclo del prodotto), inoltre, spiega che esistono

alcuni beni che, per essere prodotti, hanno bisogno di manodopera molto

specializzata e per questo vengono prodotti inizialmente solo da alcuni

paesi. Dopo un certo periodo di tempo il processo produttivo viene

standardizzato e può essere prodotto con tecniche meno sofisticate e

manodopera meno qualificata. Il vantaggio comparato, a questo punto,

passa dal paese avanzato in cui il prodotto è stato ideato a quello meno

avanzato la cui forza lavoro è a più buon mercato21.

In sostanza, entrambi i modelli mirano a spiegare che una parte

del commercio internazionale, causata dal vantaggio che alcuni

paesi industrializzati hanno su altri meno industrializzati, 21 Cfr. Salvatore D. Economie di scala, concorrenza imperfetta e commercio internazionale in Economia Internazionale pp 203-239, 2000

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consiste nell’esportazione di prodotti non standardizzati e

nell’importazione di prodotti meno sofisticati.

In fine, per via dei costi di trasporto e delle barriere tariffarie, un

bene omogeneo sarà scambiato internazionalmente solo se tra

paesi la differenza nei prezzi, in assenza di commercio, supera

il costo di trasferimento del bene da un paese all’altro.

L’esistenza di costi di trasporto riduce, dunque, il volume del

commercio ed il livello di specializzazione di un paese nella

produzione di un determinato bene.

In tutti questi casi i prezzi dei beni non saranno pareggiati

internazionalmente.

Quando il commercio è insufficiente a produrre il

pareggiamento dei prezzi dei beni e dei fattori, in assenza di

mobilità di capitale, la mobilità del fattore lavoro, quindi la

migrazione, sostituisce il commercio stesso.

Il mancato pareggiamento dei prezzi relativi dei beni e dei fattori

stimola la mobilità internazionale dei fattori e, quindi, la

migrazione22.

Se si ipotizza che i lavoratori immigrati siano privi di qualifiche,

quindi di capitale fisico e umano, e siano omogenei ai lavoratori

nativi, l’immigrazione rappresenta un incremento nella

dotazione del fattore lavoro nel paese di destinazione. Questo,

secondo il teorema di Rybczynski, incentiva la produzione del 22 Cfr. Venturini A. Daveri F. Gli effetti economici dell’immigrazione sul paese di destinazione in Economia & Lavoro, pp 93-100 [1993]

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bene intensivo di lavoro a danno di quella del bene intensivo di

capitale, per dati prezzi relativi dei beni. Inoltre, il paese

industrializzato, con un aumento del fattore lavoro nel suo

mercato, subisce un effetto anti-trade nel commercio con il

paese da cui è partita l’immigrazione. Ciò significa che diventa

più competitivo nella produzione interna del bene ad alta

intensità di lavoro così che diminuiscono le sue importazioni

(esportazioni del PVS) e diminuisce anche la produzione del

bene ad alta intensità di capitale esportato (importato dal PVS).

Con ragioni di scambio23 internazionali immutate, ossia con

prezzi relativi dei fattori e rapporto capitale/lavoro immutati, non

si hanno problemi distributivi, quindi, non si crea

disoccupazione.

In un caso simile, per usufruire del modello del commercio

internazionale di H-O, viene considerata l’ipotesi di scambio di

beni e fattori di produzione tra due paesi con profonde

differenze strutturali e di dotazioni fattoriali.

Il teorema di H-O, tuttavia, consente di capire anche quali effetti può avere la

migrazione sull’interscambio tra due paesi entrambi industrializzati con uno

in cui è abbondante il fattore lavoro e con l’altro più ricco di captale.

In tal caso, se si suppone un afflusso di lavoro proveniente da un PVS verso

il paese industrializzato con abbondante lavoro, questa iniezione di nuova

forza lavoro rafforza il vantaggio comparato del paese che ha ricevuto

23 Rapporto tra indice dei prezzi delle esportazioni di un paese e quello delle importazioni

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l’immigrazione, nei confronti del paese industrializzato abbondate, invece, di

capitale e l’interscambio tra i due paesi industrializzati aumenta.

Viceversa, se l’afflusso di forza lavoro investe il paese industrializzato

relativamente più ricco di capitale, lo scambio commerciale tra i due paesi

industrializzati tenderà a diminuire. La maggiore disponibilità di lavoro, infatti,

lo porterà ad aumentare la produzione dei beni ad uso intensivo di lavoro

accrescendo, quindi, la sua competitività nei confronti del paese rispetto al

quale soffre lo svantaggio relativo in termini di abbondanza di forza lavoro.

Ancora un elemento di novità può essere incluso nello schema

se si considerano beni non commerciati internazionalmente,

ovvero, beni commerciati solo all’interno di ciascun paese. Il

prezzo di tali beni è dato da i livelli di domanda e offerta interne

ed è supposto perfettamente flessibile. Ipotizzando che il bene

non commerciato sia intensivo del fattore lavoro, una

immissione di lavoro (immigrazione) fa aumentare la

produzione del bene ad alta intensità di lavoro e diminuisce

quella dei beni commerciati (teorema di Rybczynski).

Tuttavia, la flessibilità dei prezzi dei beni non commerciati rende

endogene le ragioni di scambio interne e l’aumento dell’offerta

dei beni non commerciati ne fa calare il prezzo relativo. Gli

effetti di quanto sopra sono una diminuzione del prezzo relativo

del lavoro, un aumento della remunerazione del capitale e l’uso

più intensivo del fattore lavoro nella produzione di entrambi i

beni.

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Se i beni non commerciati, invece, sono intermedi e non finali,

un aumento della forza lavoro si traduce in una diminuzione del

prezzo dei beni non commerciati e questo aumenta il valore

aggiunto dei beni commerciati e quindi il commercio

internazionale.

Le conclusioni appena riportate sull’effetto che la crescita della

forza lavoro può portare in un paese si riferivano al caso in cui

le ragioni di scambio dei paesi rimanevano costanti. In realtà,

quando un paese è in grado di influire sui prezzi internazionali,

le sue ragioni di scambio possono mutare proprio in

conseguenza della crescita del paese.

Se la crescita, sia essa dovuta alla tecnologia o ad un mutamento delle

risorse, espande il volume del commercio a prezzi costanti, le ragioni di

scambio di un paese tendono a peggiorare. Al contrario, se la crescita riduce

il volume del commercio, a prezzi costanti, le ragioni di scambio tendono a

migliorare.

L’effetto della crescita sul benessere del paese, tuttavia, non dipende solo

dalle ragioni di scambio ma anche dal così detto effetto ricchezza.

In particolare, l’effetto ricchezza si riferisce al cambiamento che si realizza

nella produzione, per lavoratore, in seguito alla crescita: Il risultato netto tra

effetto ragione di scambio ed effetto ricchezza determina la qualità

dell’effetto della crescita sul paese in oggetto.

Quando l’effetto ricchezza è positivo questo, tende ad accrescere il

benessere del paese e, se le ragioni di scambio migliorano, allora il

benessere del paese verrà sicuramente aumentato. Se effetto ricchezza ed

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effetto ragioni di scambio si muovono in maniera opposta, il risultato sul

benessere del paese dipende da quale delle due forze prevale.

Anche se l’effetto ricchezza porta, di per sé, alla crescita del paese, esiste

l’eventualità che le ragioni di scambio possano peggiorare tanto da portare

ad una riduzione netta del benessere24 .

Se si ipotizza un progresso tecnico che accresce, in eguale misura, la

produttività di lavoro e del capitale esclusivamente nella produzione del bene

esportabile, a prezzi costanti, l’effetto ricchezza aumenta il benessere del

paese poiché la sua produttività aumenta con forza lavoro e popolazione

invariate. Questo tipo di commercio, tuttavia, tende ad espandere il volume

del commercio e quindi a peggiorare le ragioni di scambio del paese.

Con un drastico peggioramento delle ragioni di scambio il paese,

internamente, aumenta i suoi livelli di produzione e di esportazione, ma

importa e consuma minori quantità di entrambi i beni, rispetto al periodo

precedente la crescita.

Il fenomeno della crescita che impoverisce è più probabile che avvenga se:

- la crescita tende ad aumentare notevolmente le esportazioni a ragioni di

scambio costanti;

- il paese è grande al punto che il tentativo di aumentare le sue

esportazioni provoca un peggioramento delle ragioni di scambio;

- l’elasticità, in rapporto al reddito, della domanda, da parte del

resto del mondo, delle esportazioni del paese considerato è

molto scarsa sicché le ragioni di scambio peggiorano

notevolmente;

- il paese è così dipendente dal commercio internazionale che il

peggioramento delle sue ragioni di scambio porta ad una riduzione del

benessere nazionale.

24Cfr. J.Bhagwati 1958 Immiserizing growth in Salvatore D. Economia Interazionale, 2000

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In generale è molto probabile che la crescita che impoverisce si manifesti nei

paesi in via di sviluppo piuttosto che in quelli altamente sviluppati.

Infine, quanto più endogene alle decisioni di scambio e di consumo sono le

ragioni di scambio internazionali, tanto più seri sono i problemi distributivi

conseguenti all’immigrazione. In questo caso, un aumento del fattore lavoro

porta ad una riduzione del prezzo relativo di tale fattore e quindi, ad un

aumento dell’utilizzo di lavoro nella produzione di entrambi i beni. L’aumento

nella produzione del bene intensivo di lavoro porta ad un calo del suo prezzo

relativo, spostando la domanda interna verso il bene intensivo di lavoro,

mantenendo l’equilibrio in tutti i mercati.

La moderna teoria del commercio internazionale è considerata opportuna

per analizzare la migrazione dai paesi in via di sviluppo verso quelli

industrializzati in quanto identifica, come causa principale dello scambio e

della mobilità dei fattori di produzione, la rilevante differenza nella dotazione

assoluta e relativa dei fattori tra i paesi di partenza e di arrivo della

migrazione.

Tale diversità ha caratterizzato i rapporti tra i paesi industrializzati e quelli più

poveri o in via di sviluppo, sin dal primo dopoguerra. A medio termine,

questo tipo di flussi migratori, continuerà a caratterizzare i rapporti tra i paesi

del Mediterraneo e quelli dell’Unione Europea, data la sostenuta crescita

demografica nei paesi di partenza e la loro scarsità di capitale.

A conferma di ciò, nell’ultimo ventennio, si è osservato come la caratteristica

principale dei movimenti di popolazione verso l’Europa sia stata il crescente

peso che hanno assunto gli emigrati extracomunitari ed in particolare quelli

provenienti dal Nord Africa25.

Già prima degli anni settanta si erano manifestati flussi di questo tipo, che si

erano distribuiti nei paesi di inserimento in base alla vicinanza geografica o

25 Cfr. Ancona G.(a cura di), Migrazioni mediterranee e mercato del Lavoro, Bari Cacucci Editore, 1990

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ad antecedenti rapporti politici e culturali. Per citare alcuni esempi, in Francia

si erano verificate ondate migratorie provenienti da Algeria, Marocco e

Tunisia. In Germania erano già presenti numerose comunità provenienti

dalla Turchia e nel Regno Unito vi erano emigrati provenienti soprattutto

dall’Asia. Il fenomeno, poi, si è reso ancora più evidente ed importante,

quando, a partire dagli anni ottanta, le migrazioni extracomunitarie hanno

interessato anche i paesi del Sud Europa che, in tempi moderni, non

avevano avuto flussi migratori diretti verso di essi. In Italia la prevalenza di

extracomunitari è di provenienza nordafricana, così come in Spagna e

Portogallo, mentre in Grecia si sono registrati massicci afflussi dalla Turchia

e da Cipro26.

La realtà osservata, oltre a confermare l’utilità del modello H-O

per descrivere la migrazione, è centrale nel dibattito che vede

l’Europa di fronte alla scelta tra una riduzione di barriere

tariffarie verso i prodotti dei paesi di emigrazione e/o una

politica di aiuto finanziario diretto a questi paesi con l’obiettivo

di frenare la pressione migratoria.

Se si aumentassero, o più semplicemente si liberalizzassero, gli

scambi commerciali questi porterebbero una riduzione delle

differenze dei prezzi dei fattori della produzione e ciò

diminuirebbe la necessità di una loro mobilità internazionale. Al

contrario, quando un fattore di produzione si sposta dal paese

dove è relativamente più abbondante ad un altro dove è

relativamente scarso, si riducono le differenze nelle dotazioni e

26 Cfr. Banca d’Italia, Migrazioni in Europa: andamenti, prospettive, indicazioni di politica economica in Temi di discussione Numero 161, 1992

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perciò si attenuano i possibili benefici derivanti dal commercio

internazionale.

Proprio in questa chiave può essere letto il fenomeno migratorio tra i paesi

comunitari: inizialmente c’è stata l’emigrazione dai paesi del Sud Europa,

verso quelli del Nord, dove l’offerta di lavoro era minore e i salari relativi più

alti.

Con la creazione del mercato unico che ha eliminato le barriere tariffarie al

commercio, lo scambio dei beni sta sostituendo la migrazione intra-europea

attraverso il pareggiamento dei prezzi relativi dei fattori.

Tale realtà non fa che confermare le ipotesi alla base della teoria del

commercio internazionale per cui, se si effettuassero maggiori scambi

commerciali tra i paesi di partenza e di accoglienza della migrazione, questi

potrebbero andare a sostituire i movimenti dei fattori di produzione e, in

particolare, del fattore lavoro.

Le altre ipotesi alla base del modello possono ancora dimostrare la sua

adattabilità al caso europeo. L’omoteticità delle preferenze, infatti, implica la

scelta di consumo della stessa proporzione di beni a qualsiasi livello di

reddito per entrambi i paesi. Questo potrebbe trovare conferma proprio nella

migrazione che si muove alla ricerca di modelli di consumo non disponibili

nel paese di origine ma in quello di destinazione. Se nel paese di partenza

fossero disponibili i beni che richiedono gli emigrati (intensivi di capitale e

prodotti, quindi, nei paesi di destinazione) non si avrebbe questo tipo di

migrazione.

Si è sottolineata, fino ad ora, la sostituibilità tra migrazione internazionale e

commercio internazionale. La realtà dei fatti, però, non ha escluso l’ipotesi

opposta di complementarità dei due fenomeni. Negli anni ’70 e ’80, infatti, la

complementarità tra migrazione e commercio internazionale, è stata una

consuetudine per gli scambi sia tra paesi industrializzati (vedi il caso

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dell’Italia da cui continuano a partire, se pur in maniera sostanzialmente

decrescente, lavoratori verso L’America o l’Europa del nord, nonostante i

grandi flussi di esportazioni dei prodotti italiani) sia per le relazioni

commerciali tra quelli in via di sviluppo e quelli industrializzati.

In alcuni casi, la riduzione del flusso migratorio ha dato origine ad una

produzione interna sostitutiva delle importazioni (vedi il caso della Cina).

In altri casi, a fronte della crescita del commercio tra i paesi

industrializzati e ad una conseguente stagnazione del

commercio con i paesi meno industrializzati del Mediterraneo,

si è assistito ad una crescita dell’emigrazione27.

1.6 Gli effetti della migrazione sul benessere economico e

sociale

Lavori degli anni ’50 e ’60 hanno contribuito a diffondere l’idea

che la forza lavoro straniera possa fare da motore per lo

sviluppo economico.

Questi studi si basavano sull’analisi della migrazione dal settore

agricolo a bassi salari verso quello industriale ad alti salari

(Lewis 1954) e sull’esperienza dello sviluppo del secondo

dopoguerra visto come frutto della altissima migrazione che, a

partire dalla fine della seconda guerra mondiale, ha investito

tutta l’Europa sia in entrata che in uscita28.

27 Cfr. Markusen J.R., Factor Movements and Commodity Trade as Complements, in Journal of International Economics, n 13 198328 Cfr. Kindelberger 1967 in Venturini A. Effetti dell’immigrazione nel paese di destinazione-Le Migrazioni dei paesi sud europei – UTET, 2001

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In questo senso, la questione è stata analizzata nell’ambito del

legame esistente tra il livello della popolazione e lo sviluppo

economico, e più precisamente, all’interno dell’analisi

dell’impatto che la popolazione ha sul tasso di accumulazione e

sullo sviluppo tecnologico.

Gli studi che analizzano l’effetto dell’immigrazione sul

benessere della popolazione nazionale usano come unico

metro di misura l’impatto che essa può avere sul reddito pro-

capite. Una riduzione del reddito pro-capite, tuttavia, non

implica necessariamente una riduzione del reddito percepito dai

nazionali se gli stranieri hanno un reddito pro-capite inferiore.

Allo stesso tempo, una valutazione positiva della migrazione

per il sistema economico si può basare, spesso, su

argomentazioni a volte poco economiche e più sociali.

Per analizzare l’impatto della migrazione sullo sviluppo

dell’economia bisogna tener presente, allora, i vincoli a cui è

sottoposto il sistema economico e il livello di capitale umano

portato dai lavoratori stranieri.

I lavori che associano l’immigrazione alla crescita della

popolazione e che ne studiano gli effetti sull’economia29

necessitano di una prima puntualizzazione: gli immigrati non si

comportano come dei nuovi nati, accrescendo semplicemente

la popolazione e per ciò diminuendo il benessere pro-capite.

29 Cfr. Dolado, Ichino, Goria, Immigration, human capital and growth in the host country, Evidence from pooled country data in Journal Population Economics, 1994

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Quando questi entrano nel paese ospitante portano con se un

certo grado di capitale umano accumulato nel loro paese di

origine ed in più, dopo il loro arrivo, essi accumulano il capitale

umano e contribuiscono alla sua accumulazione, in modo

diverso da quello dei nazionali.

Si può analizzare, allora, il contributo che gli immigrati

apportano all’economia del paese di destinazione quando

questi arrivano con qualche tipo di professionalità.

Data la sostanziale differenza, appena menzionata, tra un

afflusso di immigrati in un determinato paese ed una crescita

demografica interna allo stesso paese, è necessario ai fini

dell’analisi, individuare il contenuto e la qualità dei livelli di

professionalità acquisiti dagli immigrati nei loro paesi di origine.

A tale scopo, le fonti professionali a cui si fa generalmente

riferimento sono le misure di scolarità del paese di origine degli

immigrati.

Le principali fonti di informazione sui dati scolastici sono quelle

della Banca mondiale, con dati sulla frequenza della scuola

secondaria, l’indice costruito da Kyriacou (1991),

sull’acquisizione effettiva di capacità derivante dalla scuola e un

terzo indice, dello stesso tipo, costruito da Barro-Lee (1992)30. 30 Per una completa esposizione della metodologia seguita da Barro-Lee e Kyriacou si vedano i lavori: Barro RJ, Lee JW, International comparison of educational attainment. Harvard University Press, Cambridge, 1992.Kyriacou G.A, Level and growth effect of Human Capital. A cross country study of the convergence Hypotesys. NY University

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Mentre la prima misura costituisce un investimento in capitale

umano, le seconde sono considerate come misure di uno stock

già acquisito di capitale umano.

In particolare, se viene definita hit la scolarità del paese i al

tempo t e Mjit il numero degli immigrati nel paese ospitante j di

origine i nel periodo t, per ciascun paese di arrivo e per

ciascuna misura di scolarità si possono costruire i due indicatori

seguenti :

1) Hjt = Σi hit Mjit / Σi Mjit la media di capitale umano degli

immigrati che arrivano dal paese j al tempo t e

2 ) Εjt = Hjt / hjt, il rapporto tra capitale umano degli immigrati e

capitale umano dei nativi nel paese j al tempo t.

Questi indicatori sono basati sull’ipotesi che gli immigrati siano

selezionati casualmente dalla popolazione d’origine. La

questione su come siano selezionati gli immigrati dal paese di

origine nella realtà, non è di secondaria importanza.

Il discorso riguarda in modo particolare la diversa

composizione, in termini di qualifiche professionali, delle coorti

degli immigrati e dei motivi che generano tali differenze31.

La diversa composizione di qualifiche e professionalità può

essere dovuta alla mutazione nella composizione dei flussi

migratori. A sua volta, tale composizione viene influenzata da

vari motivi.

31 Cfr. Borjas G.J. Assimilation, Changes in cohort quality and the earning of immigrants in Journal of Labour Economics, 1985

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E’ possibile che il grado di trasferibilità delle qualifiche ottenute

in un dato paese, verso un altro paese, sia così basso che,

mantenendo costante il livello di istruzione, immigrati

provenienti da paesi differenti possano integrarsi in modi diversi

nel paese di destinazione.

La qualità delle coorti, inoltre, può cambiare nel tempo perché

la composizione delle abilità dello stesso paese d’origine

cambia nel tempo a seconda di come cambiano gli indicatori

economici. Per cui, se mutano le condizioni economiche del

paese d’origine rispetto a quello di destinazione, per alcuni

lavoratori può essere conveniente emigrare mentre per altri

meno.

In fine, si possono verificare diverse composizioni delle

qualifiche dei lavoratori immigrati a causa dell’autoselezione32

dove per autoselezione si intende l’esclusione volontaria di

alcuni individui dalle possibili e diverse coorti di immigrati.

In particolare, gli immigrati si autoselezionano in base a diversi

parametri.

Un fattore importante che determina la positività o negatività

della selezione, oltre alla trasferibilità della professionalità, è la

differenza nella dispersione della distribuzione dei salari tra i

diversi paesi.

32Cfr. Borjas G.J, Self selection and the earnings of immigrants in American Economic Review, 1987

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Assumendo la perfetta trasferibilità delle qualifiche

professionali, se nel paese di partenza la dispersione è tale che

il reddito di quelli che guadagnano poco è molto basso e il

reddito di quelli che guadagnano molto è comparativamente

molto elevato, allora, questa è da considerarsi una dispersione

poco concentrata33 e la migrazione interesserà prevalentemente

il personale meno qualificato generando, così, una selezione

negativa. Viceversa, se il paese d’origine ha una dispersione

del reddito più concentrata rispetto al paese di arrivo e cioè, se

il reddito di chi guadagna poco non è di molto inferiore al

reddito di chi guadagna molto, la migrazione interesserà

maggiormente i lavoratori dotati di qualifiche più elevate e

porterà ad una selezione positiva degli immigrati.

Detto ciò, con gli indici sopra descritti, si può dare una

descrizione del tipo di flusso migratorio che si verificherebbe in

condizioni di salari più compressi nel paese di destinazione.

C’è da dire che il tasso di scolarità a cui si è fatto esclusivo

riferimento non è comparabile e trasferibile per tutti i paesi,

date le differenze dei sistemi educativi. Né, la scuola può

essere considerata l’unica fonte di apprendimento delle

qualifiche lavorative (acquisibili anche in apprendistati o corsi di

formazione specifici). Tuttavia, nella letteratura empirica il tasso

33 La concentrazione è l’attitudine di un fenomeno a distribuirsi prevalentemente su poche unità statistiche. Si dice che un fenomeno ha concentrazione nulla se è distribuito in modo uniforme su tutte le unità della popolazione. Al contrario, si dice che la concentrazione è massima se un’unica unità possiede l’intensità totale mentre le restanti unità hanno tutte intensità nulla.

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di scolarità viene usato largamente come una buona

approssimazione del livello di capitale umano.

Al fine di descrivere il tipo di flussi migratori che si generano,

usando i tre indici sopra riportati, si considerino nove tra i

maggiori paesi OECD di destinazione: Australia, Belgio,

Canada, Germania, Olanda, Svezia, Svizzera, Regno Unito e

Stati Uniti, in un arco temporale che va dal 19960 al 1985

(Dolado 1993).

Per i paesi e i periodi considerati, la media di capitale umano

degli immigrati a confronto con quella dei nativi, è descritta dai

seguenti grafici (fig. 10-12).

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Fig. 10) Indice di frequenza della scuola secondaria dal

1960 al 1985. Fonte Banca Mondiale.

Nel grafico riportato in figura 10, ottenuto dallo studio della

banca mondiale sulla frequenza della scuola secondaria negli

anni che vanno dal 1960 al 1985, si evidenzia che:

a) In generale, il rapporto tra immigrati e nativi è diminuito nel

corso del periodo considerato.

b) Il rapporto tra gli immigrati e nativi appartenenti al gruppo di

lavoratori più specializzati è sostanzialmente rimasto costante

nel tempo subendo, tuttavia, variazioni temporanee.

c) Il rapporto tra immigrati e nativi appartenenti al gruppo di

lavoratori poco specializzati è aumentato nel tempo anche se in

modo non sostanziale.

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Fig. 11) Indice di Kyriaco sull’acquisizione effettiva di

professionalità derivante dalla scuola nel periodo

1960/1985.

Nel grafico riportato in figura 11, costruito mediante l’indice di

Kyriaco, sull’acquisizione effettiva di capacità derivante dalla

scuola e sempre riferito al periodo 1960/1985, notiamo che:

a) il rapporto tra immigrati e lavoratori nazionali ha subito

andamenti discontinui, raggiungendo un picco massimo in

corrispondenza del 1975, per poi diminuire negli anni

successivi.

b) il rapporto tra lavoratori stranieri e lavoratori nazionali

appartenenti al gruppo con maggiori livelli di professionalità è

rimasto sostanzialmente costante fino al 1975 per poi

aumentare nel tempo mantenendosi ad elevati livelli.

c) il rapporto tra immigrati e nazionali appartenenti al gruppo di

lavoratori meno specializzati è aumentato in modo maggiore a

quanto suggerito dalla Banca Mondiale con un picco massimo

in corrispondenza del 1980.

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Fig. 12) Indice di Barro-Lee sull’acquisizione effettiva di

professionalità derivante dalla scuola nel periodo

1960/1985.

Infine, nel grafico della figura 12 costruito con l’indice di Barro-

Lee, notiamo che:

a) il rapporto tra immigrati e nazionali è diminuito dal ’60 al ’65 per

poi risalire fino ad un picco massimo nel 1970 e scendere di

nuovo. Si è poi stabilizzato ad un livello, circa, dello 0,8 nella

metà degli anni ’80.

b) il rapporto tra lavoratori immigrati e nazionali specializzati è

rimasto sostanzialmente costante nel tempo a livelli molto

elevati.

c) Il rapporto tra immigrati e lavoratori nazionali entrambi poco

qualificati ha subito un aumento nel tempo crescendo

costantemente fino al 1985.

Le differenze nei risultati tra i tre diversi indici non sono

significative. Ognuno dei tre indicatori mostra come, nel tempo,

il rapporto immigrato/lavoratore nazionale sia diminuito e come

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sia aumentato il rapporto tra i lavoratori appartenenti alla fascia

meno professionale. Queste conclusioni non fanno che

confermare le ipotesi teoriche della maggior parte degli studi

che assumono che il lavoro immigrato sia non specializzato.

La centralità del ruolo giocato dal capitale umano portato dagli

immigrati nel paese di destinazione viene confermata negli

studi teorici che analizzano l’effetto della migrazione sulla

crescita economica. Il modello utilizzato a tale proposito è

quello della crescita della popolazione elaborato da Solow

(1956), aumentato della migrazione, e rivisto nella versione di

Lucas (1988) che tiene conto della crescita del capitale umano

e della migrazione.

Un tale approccio di analisi, ipotizza una funzione di produzione

in cui il capitale umano è esplicitamente presente per cui:

a) Y = Hª (Legt )1-a con 0 < a < 1

Dove Y rappresenta il livello di output, H è il livello di capitale

umano, L rappresenta la popolazione attiva totale, composta

da nativi e nuovi immigrati netti M e g è la produttività del

lavoro.

L’ammontare effettivo di lavoratori cresce per l’aggiunta di

lavoratori immigrati nell’economia e per lo sviluppo tecnologico

che essi incorporano.

Il capitale umano, a sua volta, cresce in funzione della quota di

output, in esso investito s, per la quota b dello stock di capitale

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umano già esistente e introdotto dall’immigrato e si riduce,

invece, per via del deprezzamento, d. Quindi:

b) H = sY – dH + mbH

dove m = M / L.

Con d) y = hª = (H/L)a = ( H0 + Mb H0/L0 )α

( L0 + M )α

Utilizzando le variabili minuscole per le unità di lavoro nel modo

seguente

y = hª; y = Y / Legt; h = H /Legt

risulta che l’effetto della migrazione netta sarà positivo o

negativo se b, la quota di capitale umano portata dall’immigrato,

è maggiore o minore di 1.

e) δy / δM = αhα-1 H0 (b – 1) > o < 0 L2

Da ciò discende che con un dato livello di b, maggiore

immigrazione farà crescere il livello corrente di reddito pro-

capite se b è maggiore di 1. Viceversa, se b è minore di 1,

maggiore immigrazione farà decrescere il livello corrente del

reddito pro-capite.

In conclusione, la letteratura individua un effetto positivo sulla

crescita dell’economia e, in particolare del reddito pro-capite del

paese di destinazione, se il capitale umano dello straniero è

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superiore a quello del lavoratore nazionale. Viceversa se è

inferiore.

Nell’analisi del fenomeno migratorio in un’ottica di equilibrio

economico generale, è interessante andare ad indagare quali

siano le conseguenze della migrazione sulla spesa sociale del

paese di destinazione. A tale proposito sono stati sviluppati

numerosi studi, sia a livello teorico che empirico, su particolari

argomenti come: contributi fiscali e riscossione delle pensioni,

contributi sanitari e utilizzo dei servizi34.

Nei paesi in cui il fenomeno migratorio ha origini più antiche,

quali ad esempio gli Stati Uniti, i vari studi (Borjas 1995, Hilton

and Borjas 1996, borjas 1999) hanno evidenziato il fatto che, a

parità di caratteristiche, gli immigrati tendono a partecipare in

modo minore, rispetto ai nazionali, ai programmi di welfare sia

nella fase iniziale della vita lavorativa che in quella finale. Tra le

varie tipologie di immigrati, però, i rifugiati politici sono tra quelli

che sfruttano maggiormente le strutture dei servizi sociali,

rispetto agli immigrati per motivi di lavoro, incidendo in modo

crescente sulla spesa sociale.

Un ulteriore caratteristica del rapporto tra comunità immigrate e

servizi sociali, riscontrata negli USA, è che l’utilizzo del welfare

è differente a seconda del gruppo etnico di appartenenza

34 Cfr. Venturini A. Effetti dell’immigrazione nel paese di destinazione-Le Migrazioni dei paesi sud europei – UTET, 2001

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dell’immigrato e spesso le informazioni e l’uso di tali servizi

sono filtrati dalla comunità di riferimento.

Le differenze con la realtà europea, però, non permettono di

fare un parallelo immediato con le esperienze appena

osservate.

I problemi riguardano, infatti, le diverse caratteristiche delle

garanzie sociali e dell’organizzazione di tali garanzie per i

cittadini nazionali. Il diverso modo di accesso ai servizi sociali,

la differente estensione di tali diritti sociali verso gli immigrati

nei vari paese e, infine, il diverso utilizzo del welfare fortemente

influenzato dalle comunità di riferimento.

Gli studi effettuati in Europa (Straubhaar, Weber 1999),

comunque, permettono un confronto tra alcuni paesi, come la

Germania e la Svizzera, e altri quali USA, Australia e Canada

che evidenziano come l’effetto della migrazione sulla finanza

pubblica non sia necessariamente negativo, ansi, nella maggior

parte dei casi esso è nullo e in alcuni casi positivo (per la

Svizzera Weber 1993; per la Svezia Gusaffson 1990; per la

Germania Ulrich).

Tentativi di analisi dell’impatto della migrazione sulla spesa

sociale nei paesi dell’Europa meridionale sono solo all’inizio

poiché il fenomeno di immigrazione è molto recente. Mancano,

in queste aree, i dati per replicare le analisi statunitensi ed è

ancora difficile seguire e valutare il livello di integrazione

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economica degli immigrati. Quello che è certo è che in questi

paesi è molto gravoso, per la spesa sociale, sia il controllo della

migrazione illegale, sia la gestione del fenomeno caratterizzata

dalle spese per l’espulsione degli immigrati illegali e da quelle

per il soggiorno di tali immigrati nei centri di accoglienza. Si

aggiungono a tali costi quelli dell’utilizzo dei servizi sanitari e di

assistenza da parte degli immigrati illegali sfuggiti ai controlli e

presenti sul territorio. Sull’importanza di tali costi, inoltre, i

confronti con gli studi Nord europei o statunitensi non sono

molto significativi giacché, tali studi, si focalizzano sulla

migrazione regolare.

Rimanendo nell’ambito del sistema dei diritti sociali, la

migrazione, influendo sulle caratteristiche demografiche del

paese di destinazione, apporta anche dei cambiamenti di

organizzazione e gestione economica della popolazione.

Attualmente i paesi di destinazione sono paesi a bassa fertilità

o peggio, a fertilità decrescente con coorti di giovani in età

lavorativa inferiori rispetto alle coorti di anziani in età

pensionabile. Essendo ormai diffuso, nei paesi industrializzati,

un finanziamento dei fondi pensione a ripartizione (i contributi

che entrano nel bilancio dell’istituto vengono usati per coprire le

uscite pensionistiche) è necessario che la dimensione della

forza lavoro attiva sia superiore a quella della forza lavoro

pensionabile per garantire l’equilibrio delle prestazioni.

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A fronte della situazione dei paesi di destinazione in cui i

lavoratori in età pensionabile, per l’allungamento della

prospettiva di vita, stanno diventando più numerosi dei

lavoratori attivi, la migrazione, costituita per la maggior parte da

giovani con un tasso di fertilità superiore rispetto ai nativi,

diventa quindi un canale importante di accrescimento

demografico.

Per valutare se e quanto la migrazione possa funzionare da

contrasto all’invecchiamento della popolazione, sono stati fatti

numerosi studi.

Per quanto riguarda la realtà europea, la ricerca mostra che,

per assicurare una crescita costante dell’1% l’anno, la

migrazione dovrebbe ammontare a circa un milione l’anno di

persone (Lesthaeghe 1991), valore superiore a quello più alto

mai riscontrato.

Se invece l’obbiettivo fosse quello di contrastare

l’invecchiamento, così da mantenere costante il rapporto tra la

popolazione in età lavorativa e quella in età pensionabile,

sarebbero necessari flussi in entrata tanto numerosi da poter

raddoppiare la popolazione nell’arco di 60 anni e che

alimenterebbero la domanda di nuovi flussi in entrata ai fini di

contrastare l’invecchiamento anche degli stessi immigrati.

La soluzione che, nel lungo periodo, sembra garantire un

ringiovanimento della popolazione dei paesi di destinazione,

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sembra essere quella di accogliere un tasso costante di

immigrati così da non rischiare di stravolgere gli equilibri interni

di un paese.

Nel caso italiano, in particolare, si è stimato35 che la quota di

immigrati, necessaria per raggiungere una popolazione

stazionaria, dovrebbe essere pari al 30% della popolazione

nazionale con un flusso annuale netto di 389.000 immigrati36.

In una analisi dei conti generazionali37, poi, si è sottolineata

l’importanza, per il nostro paese, dell’impatto positivo degli

immigrati che potrebbe ridurre il disavanzo dei conti pubblici

anche se, accanto a questo si è altresì evidenziata la necessità

di riforme strutturali, senza le quali, si arriverebbe ad aver

bisogno di un flusso di immigrati pari ad 1 milione l’anno solo in

Italia.

Le conclusioni a cui si giunge in seguito a tali analisi sono che,

innanzi tutto, nel lungo periodo, la soluzione migliore da molti

punti di vista (demografico, politico ed economico) sembra

essere quella di individuare un tasso fisso di immigrati da

ammettere nel paese. In più, è emerso che la migrazione

temporanea è certamente poco o per nulla influente, rispetto a

35 Cfr. Gesano G. Mobilità e strutture demografiche. Continuità e discontinuità nei processi demografici, 199536 Molti di questi esercizi usano l’ipotesi di fertilità degli stranieri uguali ai nazionali che, come è ben noto, non è realistica e rende difficile una realistica previsione dell’impatto dei flussi di immigrazione. Essi pervengono in generale ad una sottostima dell’effetto demografico dell’immigrazione ed a una sovrastima dei flussi in entrata necessari per mantenere stazionaria la popolazione.37 Cfr. Coda F. The effects of Immigrants’ Inflows on the Italian Welfare State Sustantiability: a Generation Accounts Perspective Study, CEPR Warking Papers, 2001

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quella permanente, poiché il suo contributo positivo, in termini

di fertilità, andrebbe presto perduto.

In termini di benessere collettivo, altre considerazioni che si

possono fare sugli effetti della migrazione, riguardano i paesi di

origine e, in particolare, le rimesse che questi ricevono dagli

emigrati e gli effetti che una migrazione di lavoro specializzato

può avere su tali paesi.

Un rapido accenno ai paesi da cui si originano i flussi migratori, conduce

all’osservazione che, nei paesi in via di sviluppo le difficoltà che si incontrano

nel coprire il fabbisogno di risorse esterne, attraverso l’esportazione di beni o

l’afflusso di investimenti, portano spesso le autorità a considerare il lavoro

dei migranti un mezzo per aumentare le risorse in valuta estera.

Le migrazioni e le rimesse hanno giocato, infatti, un ruolo molto importante

nella crescita dei paesi di origine e hanno portato i responsabili politici di

alcuni paesi, a basso e medio reddito, a promuovere l’emigrazione per

lavoro.

Le rimesse dei migranti esercitano quindi un impatto profondo e positivo

sull’economia dei paesi di origine della migrazione e devono essere prese in

considerazione nei piani di sviluppo. Infatti, le spese, rese possibili dalle

entrate aggiuntive provenienti dall’estero, sia per i consumi che per gli

investimenti, esercitano un effetto moltiplicatore che si riflette sull’intera

economia dei paesi beneficiari. Dall’altra parte, però, questi effetti possono

anche innescare un livello di inflazione che potrebbe essere difficile

controllare. In tutti i casi, è stato stimato, dal Fondo Monetario

Internazionale38, che nel 1995 le rimesse dei migranti a livello mondiale

siano ammontate a 70 miliardi di dollari, somma che si avvicina al valore

38 Cfr. Caritas di Roma, Il risparmio degli immigrati e i paesi di origine: Il caso italiano, 2002

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monetario del commercio del petrolio, e che tali flussi di denaro siano entrate

in competizione con le entrate derivanti dalle esportazioni di prodotti agricoli

e manifatturieri e abbiano facilitato lo scambio con l’estero per un processo

di industrializzazione.

Un ulteriore effetto dell’emigrazione può essere individuato nella variazione

della composizione demografica che influenza così, sia la qualità che la

quantità della forza lavoro dei paesi da cui si originano i flussi migratori.

Uno degli aspetti più preoccupanti del fenomeno migratorio, è l’abbandono

del paese di origine di lavoratori altamente specializzati. Questo fenomeno

è generalmente conosciuto con il nome di brain drain39.

L’emigrazione di lavoratori altamente specializzati dai paesi in via di sviluppo

è andata aumentando nell’ultima decade.

Da una parte c’è stato un aumento consistente della domanda di lavoro

specializzato da parte dei paesi sviluppati. Dall’altra i salari migliori di questi

paesi, le migliori condizioni di lavoro, la migliore informazione, i sistemi di

reclutamento dei lavoratori e i costi minori dei trasporti, hanno incoraggiato

l’emigrazione dei lavoratori specializzati e la loro ricerca di posti di lavoro nei

paesi sviluppati.

Questi grandi volumi di lavoratori specializzati che emigrano

pongono la questione su quali siano gli effetti di questi flussi sui

paesi che lasciano.

Gli schemi neoclassici sulla crescita economica portano a predire che il

fenomeno del brain drain abbia un effetto negativo sullo sviluppo dei paesi di

origine. In particolare, alti livelli di emigrazione di lavoratori specializzati

rallentano la crescita economica (in termini di prodotto totale) e influenzano

negativamente il benessere di coloro che rimangono in patria.

39 Cfr. Lindsay Lowell B, Findlay A. Migration of High Skilled Persons from Developing Countries: impact and Policy Responses in International Migration Papers n 44- ILO (International Labour Office) Geneve

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Come naturale conseguenza la povertà e la disuguaglianza nei paesi in via

di sviluppo è destinata ad aumentare.

Questa visione viene rafforzata da studi recenti (Barro- Sala I Martin, 1995;

Topel 1998) che hanno dimostrato che un alto livello medio di capitale

umano in una società, influenza positivamente la produttività e la crescita

del paese.

Tali studi hanno riscontrato che, in 111 paesi tra il 1960 e il 1990, l’aumento,

per ogni anno, della media del livello dell’educazione della forza lavoro di

una nazione, aumenta il prodotto, per ogni lavoratore, di un livello che varia

dal 5 al 15 %.

Di conseguenza, la migrazione di personale altamente qualificato porta con

se il rallentamento della crescita del paese dal quale i lavoratori si

allontanano.

Una variante di tale ragionamento indica, però, che a certi livelli

ottimali di migrazione i paesi di origine ne potrebbero

beneficiare: la possibilità, per un lavoratore, di poter emigrare in

un paese con più alti livelli salariai, lo stimolerebbe ad acquisire

maggiore educazione nella prospettiva di partire.

Alcuni studi suggeriscono che, a certi livelli di migrazione specializzata, la

quota di lavoratori specializzati che rimangono nel paese di origine cresce e

lo sviluppo del paese stesso verrebbe, così, stimolato (Haque- Aziz 1999:

Wong- Yip 1999; Straubhaar- Wolburg, 1998).

Ciò suggerisce che esisterebbe un livello ottimale di emigrazione dei

lavoratori specializzati al di sotto del quale i lavoratori sono meno incentivati

ad acquisire capitale umano. Al contrario, superare la soglia di migrazione

ottima, danneggia lo stock di capitale umano del paese e ne frena lo

sviluppo.

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Il maggior danno che lamentano, quindi, i paesi dai quali si

origina la così detta “fuga dei cervelli” è che essi sostengono gli

elevati costi di addestramento dei lavori specializzati, per poi

non poter beneficiare della loro professionalità. A questo si

aggiungono le politiche di alcuni paesi di destinazione (Canada,

Australia, Regno Unito e Germania) che tendono ad incentivare

l’immigrazione di personale specializzato e a frenare quella dei

lavoratori non specializzati.

La questione, quindi, su quali siano le politiche migratorie

migliori, sia per i paesi di origine che per quelli ospitanti, è

ancora aperta.

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2. Immigrazione e Mercato del Lavoro

Dopo aver analizzato la migrazione del lavoro, in termini di

equilibrio economico generale, sia nell’ambito del commercio

internazionale sia riguardo agli effetti che tale fenomeno può

avere sulla crescita e sul benessere, guardiamo ora agli effetti

della migrazione sul funzionamento del mercato del lavoro.

In particolare, nell’analisi dei costi e dei benefici dei flussi migratori uno dei

temi più trattati riguarda il dibattito sull’effetto che la migrazione può avere

sul salario e sull’occupazione dei lavoratori del paese d’arrivo.

Il mercato del lavoro racchiude tutto l’insieme dei meccanismi che

riguardano il modo in cui domanda e offerta di lavoro entrano in contatto,

ovvero come certi lavoratori si rendono disponibili e vengono assunti dalle

imprese e come si fissa la retribuzione per ogni lavoratore.

In sintesi, il mercato del lavoro condiziona la variazione delle retribuzioni, la

mobilità dei lavoratori, le variazioni dei livelli occupazionali e della

disoccupazione40.

Appare, allora, di fondamentale importanza analizzare quale sia

l’effetto di un afflusso di lavoratori, non previsto, su un

determinato mercato del lavoro e sui meccanismi e le regole

che lo compongono.

40 Cfr. Baici E., Samek Ludovici M, La Disoccupazione. Modelli, diagnosi e strategie per il mercato del lavoro in Italia, Carocci, 2001

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Il nucleo del dibattito sul tema si basa essenzialmente sul ruolo del

lavoratore immigrato che è visto, alternativamente, come una minaccia per

la stabilità della posizione del lavoratore nazionale o come ininfluente sui

salari e sui livelli dell’occupazione dei nativi.

Una tesi importante sostiene41 che i flussi migratori non spiazzano

retribuzione ed occupazione nel mercato del lavoro del paese di

destinazione, ed è assente anche la riduzione delle retribuzioni dei lavoratori

nazionali omogenei (con le stesse caratteristiche dei lavoratori immigrati) e

di quelli più qualificati e quindi complementari.

Il mancato spiazzamento si verifica quando il mercato del lavoro è

fortemente segmentato. Infatti, secondo un’ipotesi interpretativa che si è

andata affermando in questi ultimi anni, il mercato del lavoro, presenta una

forte dicotomia nella qualità e nei tipi di posti di lavoro disponibili sul

mercato. Esistono, cioè, “buoni” posti di lavoro e “cattivi” posti di lavoro. I

posti buoni costituiscono il settore “primario” mentre, i posti cattivi

costituiscono il settore “secondario”. In quest’ultimo i posti di lavoro sono

sempre sufficienti per occupare tutti i lavoratori disponibili ma sono di qualità

scadente: sono mal retribuiti, precari e poco attraenti sotto il profilo della loro

pericolosità, scarsità di responsabilità e mancata prospettiva di carriera.

Sono proprio questi i lavori, definiti internazionalmente con le 3D (Dirty,

Dangerous e Demanding), che gli stranieri vanno ad occupare poiché i

nazionali non vogliono più occuparli o è troppo costoso modernizzarli.

Ancora a sostegno dell’impatto positivo degli immigrati sul mercato del

lavoro del paese ospitante, si sostiene, che i lavoratori immigrati possano

contribuire in modo rilevante al progresso tecnologico del paese in cui si

insediano. Essi, infatti, qualora riducano il salario dei lavoratori non

qualificati, aumentano l’intensità del lavoro usato nel settore poco qualificato

41 Cfr. Frey. L, Liviraghi, The jobs and effects of migrant workers in Italy- Three essays, pp 1-25 International Migration Papers,11 (ILO) Geneva

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e liberano capitale da investire nel settore produttivo più avanzato che usa

lavoro specializzato, aumentando così il progresso e lo sviluppo di

produzioni ad alto contenuto tecnologico.

Infine, la migrazione avrebbe anche benefici antinflattivi per i consumatori

poiché, riducendo il costo del lavoro nel settore in cui sono impiegati, riduce

anche i prezzi dei beni prodotti dal medesimo settore e favorisce un

aumento della domanda e dell’occupazione totale42 .

Il legame, tuttavia, potrebbe essere inverso. I lavoratori stranieri,

generalmente poco qualificati, potrebbero ridurre il valore del fattore lavoro

nel settore meno specializzato e favorire investimenti intensivi di lavoro.

Ciò aumenterebbe la remunerazione del capitale in tale settore e

diminuirebbe la competitività dei prodotti intensivi di capitale. Di

conseguenza questo potrebbe portare a far diminuire le occasioni di lavoro

per i lavoratori più qualificati43. Da qui la considerazione, da parte di un filone

della letteratura, del ruolo competitivo degli immigrati rispetto ai lavoratori

nazionali.

Oltre alle caratteristiche interne del mercato del lavoro e dei suoi lavoratori, a

determinare un effetto positivo o negativo dell’ingresso degli immigrati, può

essere la situazione del suo ciclo economico.

In una fase espansiva di eccesso di domanda di lavoro, ovviamente, non si

presenta immediatamente una competizione tra le due classi di lavoratori.

Tuttavia, l’eccesso di domanda di lavoro può creare una pressione sui salari

degli occupati per cui, la presenza di immigrati che soddisfano l’eccesso di

domanda, peggiora le remunerazioni potenziali degli occupati creando un

certo grado di competizione. E’ anche possibile, però, che gli aumenti dei

42 Cfr. Gavosto A, Venturini A, Villosio C, Do Immigrants Compete with Natives?, in Labour 13 (3), 199943 Cfr. Dell’Aringa C, Neri F, Illegal Immigrants and the Informal Economy in Italy, in Labour 1 (2), 1987

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prezzi dei beni, generati dagli aumenti dei salari, erodano i benefici derivanti

dal nuovo salario reale non creando nessun beneficio netto per gli occupati.

Moltissimi sono, quindi, i fattori che possono influenzare sia il reale effetto

del flusso migratorio sul mercato del lavoro del paese ospitante, sia le

convinzioni economiche, politiche e sociali di un osservatore del fenomeno.

E’ necessario, allora, analizzare alcuni dei più importanti studi

analitici per poter comprendere quale ruolo economico gioca

l’immigrato nei vari mercati del lavoro in cui decide di insediarsi.

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2.1 Complementarità o sostituzione

Due inputs si definiscono sostituti se un aumento dell’offerta o della dotazione di uno dei due riduce il prezzo dell’altro. Sono complementari, invece, se l’aumento dell’offerta di un input aumenta il prezzo dell’altro input.

La complementarità o sostituzione del lavoratore immigrato, rispetto ai

lavoratori nazionali, dipende dalle sue caratteristiche professionali.

Quanto più queste sono simili a quelle del lavoratore nazionale, tanto più il

suo lavoro sarà omogeneo, il suo ruolo competitivo e il suo ingresso nel

paese di destinazione avrà un effetto negativo sul salario e l’occupazione dei

nativi. Viceversa, se il livello di professionalità differisce tra lavoratori

immigrati e nazionali, allora il ruolo dell’immigrato è complementare a quello

dei lavoratori interni e l’effetto del suo ingresso nel nuovo mercato del lavoro

sarà positivo.

L’attenta osservazione della realtà ha mostrato che la stragrande

maggioranza degli immigrati è composta da lavoratori poco o per nulla

qualificati. Ne discende che gli immigrati sono sostituti dei lavoratori

nazionali non qualificati mentre sono complementari ai lavoratori nazionali

qualificati o al capitale, che a sua volta è complementare al lavoro

qualificato.

Gli elementi chiave per valutare la complementarità o la sostituzione degli

immigrati, rispetto ai lavoratori nazionali, vanno ricercati all’interno

dell’organizzazione e delle regole politiche ed economiche a cui rispondono i

mercati del lavoro nella realtà.

Nel caso di un mercato del lavoro neoclassico44 le caratteristiche che lo

contraddistinguono sono il salario perfettamente flessibile, così come il livello

di occupazione.

44 Cfr. Venturini A, The jobs and effects of migrant workers in Italy- Three essays, pp 1-25 International Migration Papers,11 (ILO) Geneva

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Fig.13 Mercato del lavoro neoclassico con offerta del lavoro rigida

Sni = offerta i di lavoratori nazionali di qualità iMi = ammontare di immigrati di qualità iDi = domanda di lavoro di tipo iW/P = salario realeNi = occupazione dei nazionali del tipo iEi = occupazione totale dopo l’immigrazione

In una realtà simile, se l’offerta di lavoro è rigida (fig.13), la crescita

dell’offerta di lavoro, in un mercato che utilizza lavoratori omogenei agli

stranieri, produce solo una riduzione del salario di equilibrio.

WP

W0

P

W1

P

0 NiNi Ei

Di

B

A

CG

F

Sni Sni + Mi

Mi

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Se l’offerta di lavoro è elastica alla remunerazione ovvero, aumenta

all’aumentare dei livelli salariali, si riducono sia il salario sia l’occupazione

(fig. 14 dove l’occupazione si riduce da ONi a ON’i )

Fig. 14 Mercato del lavoro neoclassico con offerta di lavoro elastica

Sni = offerta i di lavoratori nazionali di qualità iMi = ammontare di immigrati di qualità iDi = domanda di lavoro di tipo iW/P = salario realeNi = occupazione dei nazionali del tipo iEi = occupazione totale dopo l’immigrazione

In queste due possibili situazioni la domanda di lavoro è rimasta

invariata.

Risultati simili si ottengono se alla crescita dell’offerta segue

una crescita della domanda di lavoro, omogeneo, ad essa

inferiore. Tale crescita fa ridurre le variabili di equilibrio al punto

A’’ delle figure 15 e 16. In questi due casi, tanto più l’offerta di

lavoro è rigida e tanto maggiore sarà la riduzione salariale e

minore la riduzione dell’occupazione mentre, tanto più la

WP

W0

P

W1

P

0 EiN’i Ni

Di

B

A

CG

F

Sni

Sni + Mi

Mi

Ni

D

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domanda di lavoro è rigida, maggiore sarà sia la riduzione

salariale sia lo spiazzamento occupazionale.

Fig. 15 Mercato del lavoro neoclassico con offerta di lavoro

rigida

A’

Sni = offerta i di lavoratori nazionali di qualità iMi = ammontare di immigrati di qualità iDi = domanda di lavoro di tipo iW/P = salario realeNi = occupazione dei nazionali del tipo iEi = occupazione totale dopo l’immigrazione

Fif. 16 Mercato del lavoro neoclassico con offerta di lavoro

elastica

Sni = offerta i di lavoratori nazionali di qualità iMi = ammontare di immigrati di qualità iDi = domanda di lavoro di tipo iW/P = salario realeNi = occupazione dei nazionali del tipo iEi, E’i = occupazione totale dopo l’immigrazioneTuttavia, se la crescita della domanda è superiore alla crescita dell’offerta -

dovuta all’immigrazione - prevale un rapporto di complementarità con un

WP

W0

P

W1

P

0 EiNi

Di

Sni Sni + M’i

N’i Ni

Sni + Mi

D’i

A’A

A’’

WP

W0

P

W1

P

0

A’

Ni

Sni

Sni + M’i

E’i Ni

Sni + Mi

A

D’iDi

Ei

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aumento dei salari (punto A’ nella figura 16) ed un aumento dell’occupazione

(punto A’ della figura 15 che passa da ONi a ON’i con in aumento di NiN’i).

La complementarità, inoltre, si realizza soprattutto tra fattori non omogenei

della produzione (ad esempio lavoro qualificato e lavoro non qualificato). In

questo caso la crescita dell’immigrazione porta alla crescita della domanda

del fattore non omogeneo il quale, sperimenta un aumento dei salari

( fig.17 ) e dell’occupazione ( fig.18 N’j - Nj).

Fig. 17 Mercato del lavoro neoclassico con offerta di lavoro

rigida e crescita della domanda di fattori eterogenei.

Snj= offerta i di lavoratori nazionali di qualità i non omogenei ai nazionaliDj = domanda di lavoro di tipo jW/P = salario realeNj = occupazione dei nazionali del tipo jDi = domanda di lavoro di tipo i

WP

W0

P

W1

P

0

Sj

Nj Nj

D’jDj

A

B

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Fig. 18 Mercato del lavoro neoclassico con offerta di lavoro elastica e

crescita della domanda di fattori eterogenei

Snj= offerta i di lavoratori nazionali di qualità i non omogenei ai nazionaliDj = domanda di lavoro di tipo jW/P = salario realeNj = occupazione dei nazionali del tipo jDi = domanda di lavoro di tipo i

WP

W0

P

W1

P

0 Nj Nj

D’j

Dj

N’j

Sj

B

A

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2.1.1 Il sindacato

Il funzionamento del mercato appena descritto ben si adatta a mercati del

lavoro fortemente flessibili e con una scarsa presenza di sindacati. Tuttavia,

è poco aderente alla realtà dei mercati del lavoro europei caratterizzati, al

contrario, da poca flessibilità e da una forte influenza dei sindacati.

Un modello45 maggiormente rispondente alla struttura e all’organizzazione

dei mercati europei ipotizza un mercato del lavoro caratterizzato dalla

presenza di un sindacato monopolista. I fattori combinati nella produzione

(con rendimenti di scala costanti) di un unico bene, Y, sono il capitale, K, il

lavoro specializzato, S, ed il lavoro non specializzato, L.

Il prezzo dell’unico bene prodotto è predeterminato e i due fattori lavoro sono

complementari. In un simile contesto è presente, altresì, un Governo che

fissa periodicamente la quota di lavoratori immigrati, M, da immettere nel

mercato. I lavoratori stranieri ammessi non portano capitale con sé

contribuendo, perciò, ad aumentare l’offerta di lavoro unicamente non

qualificato ed in più, la loro presenza non influenza la domanda aggregata

dell’economia.

Il modello di contrattazione tra sindacato ed imprese si riferisce al particolare

caso (right to manage) in cui il sindacato ha il potere di contrattare

unicamente il livello dei salari dei lavoratori non qualificati (WL) mentre, le

imprese ne decidono il livello di occupazione. Nel caso dei lavoratori

qualificati, invece, le forze del mercato determinano il loro salario di equilibrio

(WS).

Date le premesse si possono presentare due scenari: il primo in cui gli

immigrati sono perfetti sostituti dei lavoratori nazionali non qualificati. Il

secondo in cui, tali immigrati, sono sostituti dei lavoratori nazionali qualificati.

45 Cfr. Schmidt C.M., Stilz A., Zimmermann K.F, Mass Migration, unions and government intervention in Journal of Public Economics-55, 1994

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Nel primo caso, i lavoratori nazionali non qualificati occupati sono una quota

g del totale dei lavoratori non qualificati, N = gL

dove g = N°/(N°+ M°).

Gli obiettivi del sindacato si misurano sia in termini di livelli salariali, sia in

termini di alti livelli di occupazione. Nella sua funzione obiettivo, compaiono

dunque, con il peso δ, il salario dei lavoratori qualificati (WS) e quello dei

lavoratori non specializzati (WL) e con il peso Φ, i disoccupati non qualificati,

dati da NU = (N° - gL), che ricevono il sussidio alla disoccupazione z.

1) MAXWLΩ = δ WS S° + (WL – z)gL + zN° + Φ/2 (N° - gL)2

Dove S° e N° indicano i valori dei lavoratori qualificati e non

qualificati, nazionali.

Il sindacato, fissa un salario, per i lavoratori non qualificati,

superiore a quello di equilibrio (WL0). Ciò provoca un certo

livello di disoccupazione (L – L).

Se il governo fissa l’ingresso di una quota di immigrati non

qualificati e per questo competitivi ai nazionali, il sindacato sarà

spinto a rivedere il salario dei lavoratori nazionali verso il basso

al fine di evitare l’aumento della disoccupazione. Questa

manovra porterà il mercato del lavoro non qualificato verso un

equilibrio più competitivo e indurrà, perciò, ad una crescita

dell’occupazione (L1) che influenzerà positivamente anche i

lavoratori nazionali. Tuttavia, il risultato finale riguardante i livelli

di occupazione o disoccupazione dei lavoratori nazionali non

qualificati, dipenderà dai pesi assegnati dal sindacato, a

seconda che questo attribuisca maggiore importanza al numero

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degli occupati o al livello dei salari. Nel caso illustrato, Fig. 19),

il nuovo equilibrio A1, individua la riduzione della disoccupazione

nazionale.

Figura 19) Mercato del lavoro in presenza di un sindacato.

Immigrazione di lavoro non qualificato ed effetti sul lavoro

non qualificato

WL0 = salario monetario iniziale

WL1 = salario monetario dopo la migrazione

L = occupazioneL – L = disoccupazioneL1 = occupazione dopo il flusso migratorio

W

WL0

WL1

0L L

B1

D

L

S’

L1

B0

Simmigrazione

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Per quanto riguarda, invece, l’effetto che un flusso di immigrati

non qualificati può avere sul lavoro nazionale qualificato, data la

complementarità tra lavoro non qualificato e lavoro

specializzato, si avrà la crescita del salario dei lavoratori

qualificati (fig 20).

Figura 20) Mercato del lavoro in presenza di un sindacato.

Immigrazione di lavoro non qualificato ed effetti sul lavoro

qualificato

WS0 = salario monetario dei lavoratori qualificati iniziale

WS1 = salario monetario dei lavoratori qualificati dopo la migrazione

S0 = lavoro qualificato

Nel secondo caso, quando gli immigrati sono costituiti da

lavoratori qualificati, assimilabili ai lavoratori nazionali

qualificati, il salario di questi ultimi scenderà, essendo definito in

un mercato competitivo (fig. 21), mentre è incerto l’effetto sul

salario dei lavoratori non qualificati (fig.22) che, anche in questo

W

Ws1

Ws0

0 S

A0

D

S0

A2

S

D’

A1

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caso, dipende dai pesi attribuiti dal sindacato all’occupazione e

al salario. Positivo è l’effetto sull’occupazione dei nazionali non

qualificati giacché prevale l’effetto di complementarità tra i due

fattori della produzione.

Figura 21) Mercato del lavoro in presenza di un sindacato.

Immigrazione di lavoro qualificato ed effetti sul lavoro

qualificato

WS0 = salario monetario iniziale

WS1 = salario monetario dopo la migrazione

S0 = lavoro qualificato

Figura 22) Mercato del lavoro in presenza di un sindacato.

Immigrazione di lavoro qualificato ed effetti sul lavoro non

qualificato

W

Ws0

Ws

2

0 S

C2

D

S0

C0

S

D’

S’

Ws

1

S1

C1

immigrazione

W

WL0

0 L

D

L0

D1WL

1

L1 L

D0

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WL0 = salario monetario iniziale

WL1 = salario monetario dopo la migrazione

L0 = occupazioneL – L = disoccupazioneL1 = occupazione dopo il flusso migratorio

Concludendo, questo modello è utile per avvicinarsi alla realtà

dei mercati del lavoro che caratterizzano gran parte

dell’Europa. L’introduzione di un sindacato, l’offerta di lavoro

inelastica al salario e un governo che gestisce le quote di

immigrati da ammettere nel paese, sono ipotesi cruciali per

osservare ciò che può accadere in un mercato del lavoro a

seguito di un flusso migratorio. Anche in questo caso, le ipotesi

di complementarità o sostituzione degli immigrati, rispetto ai

lavoratori nazionali, sono decisive sia per la reazione naturale

del mercato, sia per le manovre del sindacato che ha il potere

di attribuire diversi pesi alternativamente ai salari o a i livelli di

occupazione dei lavoratori non specializzati.

In entrambi i casi, tuttavia, nella funzione obiettivo del

sindacato, il ruolo degli immigrati non assume alcun peso se

non in quanto “input esterno di riferimento”.

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2.1.2 La competizione indiretta

I flussi migratori che negli ultimi anni hanno investito i diversi

paesi di destinazione sono stati, spesso, caratterizzati da una

forte componente di illegalità. L’analisi degli effetti della mobilità

internazionale del lavoro non può prescindere tale aspetto del

fenomeno.

Come è stato sottolineato in precedenza, l’analisi teorica sulle

conseguenze della migrazione nei mercati dei paesi ospitanti, si

concentra su due opposte posizioni: da un lato la migrazione è

considerata la conseguenza della forza di espulsione dal paese

di origine (push effect) e tale forza è tanto maggiore quanto più

è grande il differenziale salariale a favore dei paesi di

destinazione.

In tale situazione gli immigrati rivestono il ruolo di competitori

rispetto alla forza lavoro nazionale ed esercitano, su questi

ultimi, un “displacemrnt wage effect”.

L’opposta interpretazione del fenomeno migratorio enfatizza,

invece, la forza di attrazione (pull effect) dei paesi di

destinazione, che trova origine nella mancanza di manodopera

nazionale disposta ad occupare taluni posti di lavoro. In tale

interpretazione, che si basa sulla segmentazione del mercato

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del lavoro, la migrazione è considerata complementare alla

forza lavoro nazionale.46

Il possibile effetto di sostituzione o complementarità della

migrazione rispetto alla forza lavoro nazionale è da rintracciare,

quindi, nella struttura settoriale de mercato del lavoro del paese

ospitante e nel sistema di relazioni esistente tra i differenti

settori.

La tipologia settoriale del mercato del lavoro dei paesi ospitanti,

pertanto, può essere basata sulla dicotomia: economia legale -

economia sommersa.

Nei sistemi economici moderni esistono tutto un insieme di

attività economiche che fanno parte della cosiddetta economia

non direttamente osservata (ENO). Di questo tipo di attività se

ne individuano essenzialmente tre tipi: l’economia illegale,

l’economia sommersa e l’economia informale.

In breve, le attività illegali sono quelle proibite dalla legge dove

c’è un reciproco consenso, tra produttore e consumatore, ad

agire al di fuori della legge.

L’economia sommersa, in senso stretto, comprende tutte le

attività, legali, di cui la pubblica amministrazione non ha

conoscenza a causa di vari fattori quali: evasione fiscale e

contributiva, inosservanza delle norme relative ai livelli

retributivi, agli orari di lavoro e, più in generale, a tutte le norme

46 Cfr. Priore M.J. Birds of Passage: Migrant Labor and Industrial Societies, Cambridge University Press, 1979

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che regolano i rapporti tra datore di lavoro e dipendente nonché

tra datore di lavoro e Stato.

Infine, l’economia informale comprende le attività a basso livello

organizzativo caratterizzate da poca o nessuna divisione tra

lavoro e capitale. Vi rientrano attività per cui non è previsto

nessun obbligo di registrazione presso le autorità pubbliche,

rapporti di lavoro occasionali o basati su relazioni familiari.

L’informalità di tali attività non è necessariamente legata

all’evasione di imposte e contributi fiscali, tuttavia, data la

dimensione e l’importanza di queste attività, è facilmente

riscontrabile un certo grado di elusione delle norme che

regolano i rapporti di lavoro.

Alla luce di una simile realtà, è importante prendere in

considerazione la presenza di tali attività nel mercato del lavoro

in cui si verifica uno spostamento del capitale, dal settore

ufficiale al settore dell’economia sommersa, dovuto alla

presenza di lavoratori immigrati47.

La tesi alla base di questo tipo di lettura del fenomeno

migratorio muove dalla considerazione che gli immigrati, una

volta giunti nel paese di destinazione, lavorano nel settore

dell’economia sommersa contribuendo alla sua crescita e

all’aggravarsi dei problemi legati alla sua esistenza.

47 Cfr. Dell’Aringa C, Neri F, Illegal Immigrants and the Informal Economy in Italy, in Labour 1 (2), 1987

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L’aumento dell’offerta di lavoro, reso possibile dalla presenza

degli immigrati, costituisce uno stimolo per le imprese a

spostare la produzione dal settore legale al settore

dell’underground economy.

Il vantaggio che le imprese traggono da questa manovra deriva

dal fatto che nel settore ufficiale i costi del lavoro sono,

generalmente, molto alti mentre, il fattore che determina

l’esistenza dell’economia sommersa è proprio quello di

abbassare i costi della manodopera impiegata.

Tuttavia, in quest’ultimo settore l’efficienza produttiva è inferiore

a quella del settore ufficiale, non potendo usufruire di

investimenti di capitale considerevoli e di tecnologia avanzata.

Il trasferimento di capitale e di lavoro nel settore informale, che

si genera in seguito alla migrazione, dunque, non porta benefici

per l’economia del paese ospitante nel suo complesso.

Le ipotesi alla base di un simile modello interpretativo

assumono che gli immigrati entrino in un economia che produce

un solo bene, Q, il quale viene prodotto sia dal settore ufficiale,

u, sia dal settore informale, i (in cui sia le imprese che i

lavoratori non pagano le tasse e quindi hanno un costo del

lavoro minore). I fattori impiegati nella produzione sono il

capitale e il lavoro non specializzato, composto in parte da

lavoratori nazionali e in parte da immigrati. Nel settore informale

il costo del lavoro (wi) è inferiore ma la tecnica di produzione è

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meno efficiente. Le funzioni di produzione nei due settori

presentano rendimenti di scala costanti:

1) Qu = Fu (Ku, Lu)

2) Qi = Fi (Ki, Li) = c Qu (0 < c < 1)

Dove c è un parametro di efficienza correlato inversamente ai

rischi dell’impresa informale di essere scoperta.

Il salario del settore ufficiale è fissato esogenamente ad un

livello tale da creare un eccesso di offerta di lavoro in questo

settore, dunque, un certo livello di disoccupazione.

L’impresa, come è noto, massimizza i profitti quando la

produttività marginale è uguale ai costi dei fattori:

3 a) dFu/ dLu = wu; 3 b) dFu/ dKu = r

nel settore ufficiale;

4 a) dFi/ dLi = wi /c 4 b) dFi/ dKi = r/c

nel settore informale;

Nel caso del salario del settore ufficiale, (wu), i costi dei fattori

sono esogeni, mentre, per quanto riguarda il salario del settore

informale, (wi / c), questo, è correlato inversamente ai rischi che

l’impresa informale corre se viene scoperta, c.

Tali equazioni vengono poi messe a sistema con le equazioni

che impongono il pieno impiego:

5) K= Ku + Ki

6) L= Lu + Li

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Da tale sistema si ricavano sei incognite: r, wi, Ku, Lu, Ki, Li.

La condizione sufficiente, affinché si ottengano soluzioni

positive è che, per ciascuna funzione di produzione, quando il

Lavoro tende all’infinito, allora il Capitale tende a zero. E

viceversa.

Dalla 3 a) si ricava la combinazione ottimale di capitale nel

settore legale: k*u = K*u/L*u

Dalla 3 b) si ricava il singolo valore ottimale di r* che permette

di determinare il valore ottimale di capitale nel settore informale:

k*i = K*i/L*i.

Risolvendo l’intero sistema si arriva alla conclusione che la

condizione necessaria e sufficiente per una soluzione positiva,

sia per il lavoro del settore ufficiale (L*u) che per il lavoro del

settore informale (L*i), è data da:

7) k*u > k > k*i dove k = K / L

Per dati valori di K e L, quindi, esiste l’equilibrio se k*u è

sufficientemente grande e, k*i sufficientemente piccolo.

Siccome il capitale del settore ufficiale è funzione crescente del

salario (wu) e il capitale del settore informale è funzione

crescente del parametro di efficienza (c), è necessario che wu

sia sufficientemente grande e c sufficientemente piccolo.

Il modello può essere riscritto sostituendo:

8) K*u = m

9) K*i = tm ,abbiamo

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dove m è funzione del salario del settore ufficiale wu e dei

parametri della funzione di produzione e t (minore di 1)

dipende da c e dai parametri della funzione di produzione. La

7) diviene allora:

7 a) m > k < tm

Dal sistema tra le equazioni 5), 6), 8) e 9) si possono

determinare i livelli di occupazione di equilibrio del settore

informale e del settore ufficiale:

10) L*u = (K – tmL) / m (1 - t)

da cui si ricava l’effetto di una variazione della forza lavoro

totale sull’occupazione:

11) dL*u / dL = - t / 1 - t < 0.

La 11) ci dice che un aumento dell’offerta di lavoro determina,

non solo, un aumento nella proporzione dei livelli di

occupazione del settore informale rispetto al totale

dell’occupazione, ma anche una riduzione assoluta dei livelli di

occupazione del settore ufficiale.

Al contrario, un aumento dell’ammontare di capitale (o una

diminuzione della quantità di lavoro) rende molto più

vantaggioso, per le imprese, operare nel settore più efficiente e

produttivo: il settore ufficiale.

L’aumento dell’offerta di lavoro, nel nostro caso determinata

dalla migrazione, o una diminuzione di capitale, causa dunque il

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trasferimento di entrambi i fattori dal settore ufficiale al settore

informale.

Gli effetti che la migrazione illegale (o l’impiego degli immigrati

nel settore dell’economia sommersa) ha sui mercati del lavoro

dei paesi ospitanti dipendono, quindi, dalla scarsa disponibilità

di capitale che incontra l’aumento dell’offerta di lavoro. Inoltre,

una simile situazione è resa ancora più problematica dai costi

del lavoro che, negli ultimi anni, hanno raggiunto livelli tanto alti

da non poter garantire la piena occupazione.

Anche per questi alti costi, le imprese, soprattutto quelle di

piccole e medie dimensioni, sono tentate ad indirizzarsi verso il

settore informale dove la tecnologia e la produzione sono meno

efficienti ma i costi della forza lavoro sono minori rispetto al

settore ufficiale.

Le conclusioni a cui si giunge, considerando il fenomeno

migratorio come fattore che alimenta unicamente il settore

informale, portano a concludere che il lavoro straniero causa

gravi danni all’economia del paese ospitante: la migrazione,

infatti, provoca un effetto di spiazzamento salariale rispetto alla

forza lavoro nazionale.

Questo tipo di effetto, tuttavia, non è diretto ma opera

attraverso la mobilità interna del capitale che, gli immigrati

illegali, attraggono verso il settore informale dell’economia.

Quando il capitale viene trasferito dal settore ufficiale al settore

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dell’economia sommersa, non solo si perde il vantaggio

dell’utilizzo di una migliore tecnologia e di maggiori livelli di

produttività, legati all’economia legale, ma anche una parte

della forza lavoro impiegata regolarmente (e con alti salari)

viene, giocoforza, trascinata verso il settore informale.

In questo modo il paese perde di produttività, diviene meno

competitivo rispetto alla concorrenza estera, poiché investe di

meno e, non da ultimo, le condizioni dei lavoratori peggiorano,

in termini di qualità e protezione sociale.

Dopo aver fotografato alcune delle realtà più rappresentative

dei mercati del lavoro dei paesi di destinazione, si può

comprendere come il ruolo complementare o sostitutivo del

lavoratore immigrato, rispetto al lavoratore nazionale, dipenda

proprio dai diversi modelli economici che rappresentano mercati

del lavoro con differenti caratteristiche.

Gli elementi che generano l’effetto di complementarità o

competitività tra lavoratori sono da ricercarsi sempre nel grado

di specializzazione e professionalità che caratterizzano, prima

di tutti, i lavoratori stranieri.

Il grado e la misura degli effetti sui salari e sulla disoccupazione

dei lavoratori nazionali, invece, dipendono dalle condizione

particolari che vigono nel paese di destinazione.

Un mercato del lavoro più flessibile è certo in grado di

accogliere l’immigrazione e di modificare la sua struttura, molto

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più velocemente di un mercato del lavoro rigido e controllato sia

dallo Stato che dai sindacati.

E’ opportuno, allora, che alle teorie economiche seguano delle

verifiche empiriche che possano confermare o smentire gli

assunti e che riescano a cogliere ulteriori aspetti della realtà

che la semplificazione teorica può, talvolta, trascurare.

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2.2 Il capitale umano

Nell’analizzare il ruolo complementare o sostitutivo degli

immigrati, rispetto ai lavoratori nazionali, è di fondamentale

importanza individuare il rapporto tra le loro qualifiche

professionali e i potenziali impieghi disponibili.

La professionalità dell’immigrato, acquisita nel paese di origine

o in quello di destinazione, essendo legata alle caratteristiche

del lavoro, è di conseguenza legata anche al livello salariale.

L’assimilazione economica, sociale e culturale degli immigrati

alla nazione ospitante è una delle aree di maggiore interesse

dello studio del fenomeno migratorio.

L’interesse circa questo filone di studi è largamente diffuso non

solo nelle scienze economiche ma anche nella politica e, più in

generale, nel dibattito pubblico.

La letteratura empirica su questo argomento è più ricca di

quella teorica e i risultati ai quali sono giunti i diversi autori

variano a seconda dei modelli utilizzati e dei periodi storici presi

a riferimento. E’ possibile, tuttavia, introdurre l’argomento con

un modello (Dustmann C, Fabbri F. 1999) che riesca a chiarire i

termini del problema.

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2.2.1 Assimilazione salariale

Fissiamo l’attenzione su un immigrato appena arrivato nel

paese ospitante.

Dividiamo il suo periodo di permanenza in due diversi momenti,

entrambi di durata unitaria: il primo è dedicato all’acquisizione

delle capacità professionali mentre, nel secondo, tali capacità

vengono utilizzate in una determinata attività lavorativa.

Nel primo periodo, l’immigrato possiede un certo livello di

specializzazione, o di qualifica professionale, adattabile anche

nel paese ospitante e che si può denominare H. Il salario che

ottiene l’immigrato in questo periodo è W= Hω dove ω indica il

tasso di rendimento delle qualifiche produttive, H, del lavoratore

straniero.

L’immigrato può inoltre acquisire, nella stessa unità temporale,

qualifiche professionali più adatte al paese che lo ha accolto e

per questo investirà alcune unità di tempo, chiamate s, in tale

attività.

Il tempo dedicato alla acquisizione di nuove qualifiche viene

sottratto al lavoro così che il salario del primo periodo è dato da

(1- s) W.

Nel secondo periodo il tempo speso per l’accumulazione delle

qualifiche si traduce in produttività, processo descritto dalla

funzione che indica il livello di produttività che l’immigrato

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raggiunge grazie alle sue capacità personali, A, ed in seguito

all’investimento in professionalità:

1) f ( s; H; A )= 1/α (s H)α A ; con α Є (0,1);

Un altro aspetto importante da sottolineare è che, la produzione

di specializzazione è auto - riproduttiva: il lavoratore straniero

che arriva con un maggiore stock di specializzazione acquisisce

più facilmente e velocemente nuova specializzazione.

Nell’arco dei due periodi considerati l’obbiettivo dell’immigrato è

quello di scegliere un dato livello di s (tempo da investire in

acquisizione di professionalità) tale da massimizzare il reddito

percepito durante tutta la vita.

Se indichiamo il reddito dell’immigrato con la funzione seguente

dove il fattore di sconto sia uguale a 1.

2) y = ( 1- s ) W + W + f(s; H; A );

primo periodo secondo periodo

la condizione del primo ordine è data da:

fs (s; H; A ) = As H = W = ω H

risolvendo per s:

s* = (ω /A)1/(α-1) 1/H

Di conseguenza, dato che α < 1, gli investimenti in

professionalità, s, quindi i salari del secondo periodo,

aumentano con A e diminuiscono con s e H.

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Dunque, maggiore è il livello di abilità personali A, maggiore

l’investimento del primo periodo e maggiori i salari del secondo

periodo.

Inoltre, maggiore è il rendimento della specializzazione, ω,

minore sarà l’investimento nel primo periodo. Maggiore è la

qualifica iniziale, minori saranno l’investimento in qualifiche

professionali e il salario del secondo periodo.

Questo avviene per due motivi: innanzi tutto, maggiore è la

professionalità iniziale che l’immigrato porta con se e maggiori

sono i costi opportunità dell’investimento. Infatti, l’immigrato nel

momento in cui investe in maggiore specializzazione non

lavora. Inoltre, maggiore è la specializzazione iniziale, più

basso è il rendimento di una unità addizionale investita. Questo

perché la tecnologia di produzione ha tassi di rendimento

decrescenti.

Una volta considerate le scelte dell’immigrato per ottimizzare il

proprio salario di una vita, si consideri il salario stesso e la sua

crescita nel tempo.

La crescita del salario tra periodo uno e periodo due è data da:

3) ∆W = [ 1/α (s*H) α A+ s* ω H ]

Operazioni di statica comparata rivelano che l’effetto di un

aumento di capitale umano è positivo sulla crescita del salario.

Infatti, per ogni unità investita nel primo periodo, maggior

capitale umano porta ad una maggiore specializzazione nel

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secondo periodo, (perché il capitale umano aumenta la

produttività) e a maggiori investimenti nel primo periodo.

Ciascuno di questi effetti, contribuisce alla differenza tra il

salario del primo e del secondo periodo.

Dall’altro lato, uno stock di capitale umano elevato al momento

dell’arrivo dell’immigrato comporta che i salari del primo periodo

siano più elevati senza necessità di ulteriori investimenti. La

crescita dei salari, quindi, diviene più sostanziosa sia

all’aumento delle capacità personali che all’aumento del tasso

di rendimento del livello di specializzazione.

Le conclusioni a cui si giunge sono che, innanzi tutto, in media

i salari degli immigrati sono inizialmente più bassi dei salari dei

residenti, quando i residenti hanno un maggiore stock di

specializzazione o capitale umano.

In secondo luogo, i salari dei primi crescono all’aumentare del

tempo trascorso nel paese ospite e, gli immigrati con un livello

elevato di capacità personali, riscontrano una crescita del

salario più vigorosa.

Questo comporta che, se gli immigrati che arrivano nel paese di

destinazione appartenessero al gruppo di lavoratori più abili e

specializzati della loro nazione, allora, in media, il loro livello di

abilità sarebbe più elevato di quello dei lavoratori nazionali,

composti, invece, da ogni tipo di lavoratore con diversi gradi di

capacità professionali.

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Questo porta a dire che i loro salari crescerebbero più

velocemente di quelli dei nazionali

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2.3 Migrazione selettiva e disoccupazione

In relazione all’ipotesi dell’esistenza della migrazione selettiva,

nel senso che gli immigrati sono incentivati a lasciare il loro

paese in base alle loro capacità e professionalità, Dustmann

(1993) 48 dà un’ulteriore interpretazione della migrazione con

riferimento alla migrazione avvenuta nel periodo tra gli anni ’50

e ’70 dall’Europa meridionale verso l’Europea settentrionale e in

particolare, dalla Turchia verso la Germania.

Questo tipo di flusso migratorio non è stato spinto solo dalle

condizioni più favorevoli dell’economia del paese di

destinazione, ma anche dalle pessime condizioni del paese

d’origine. Gli emigrati, perciò, hanno considerato, non solo il

differenziale salariale tra i due paesi, ma anche la probabilità di

trovare lavoro nel paese ospitante. Anche in questo caso,

quindi, le qualifiche o l’abilità dell’emigrato sono importanti per

inserire nel ragionamento la selettività della migrazione.

L’autore, innanzi tutto, prende come riferimento il modello di

Chiswick (1978;1986)49 che mostra come la migrazione negli

Stati Uniti d’America sia stata, nell’arco degli anni ‘80,

positivamente selettiva.

48 Cfr. Dustmann C. Writing fluency, speaking fluency and earnings of migrants in Discussion Paper n 246, University of Bielfeld, 199349 Cfr. Chiswick BR. The effect of Americanization on the earnings of foreign-born men in Journal of Political Economic,1978 e Human Capital and the labor maket adjustment of immigrants: Testing alternative Hypoteses, 1986

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Le ipotesi da cui muove il modello di Chiswick sono, innanzi

tutto, che i salari dei lavoratori non variano rispetto alla loro

esperienza, che la loro vita lavorativa è lunga e che i costi

dell’immigrazione sono sostenuti solo nel periodo iniziale.

L’autore, inoltre, indica un tasso di rendimento della

decisione di emigrare dato da:

1) r = ( WI - WE)( 1+ A ) = WI - WE

( 1+ A) c0 + cD c0+ (1 / 1+A )cD

Contribuiscono a determinare tale tasso di rendimento il salario

che è possibile guadagnare nel paese ospitante, Wi, il salario

che si guadagna nel paese d’origine, We, i costi diretti, cD,

relativi alla decisione di emigrare e i costi opportunità50, cO, della

migrazione intesi in termini di tempo.

E’ presente, inoltre, nel calcolo del tasso di rendimento della

decisione di emigrare, la deviazione percentuale dal livello di

abilità media in patria, indicata con la lettera A.

La posizione dell’abilità nell’equazione [1] indica, per ipotesi,

che una persona più abile, o più qualificata, può guadagnare di

più in entrambi i paesi di una persona meno abile. Quindi,

siccome i costi opportunità sono indicati in termini di tempo,

50 In generale, quando si parla di costo, si indica ciò a cui bisogna rinunciare per ottenere un bene o un servizio. Quando si parla di costo opportunità, si indica il valore del bene a cui si è rinunciato. In questo caso, parlare di costi opportunità in termini di tempo, significa considerare la convenienza ad emigrare in base alla quantità di tempo a cui il lavoratore è disposto a rinunciare per emigrare. Tempo che dovrebbe utilizzare sia in patria sia all’estero, per cercare un lavoro non specializzato o per specializzarsi.

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essi aumenteranno all’aumentare dell’abilità o della

professionalità.

Quando i costi diretti sono maggiori di zero, allora, la

migrazione sarà più vantaggiosa per le persone con un elevato

livello di abilità. Poiché il tasso di rendimento aumenta

all’aumentare dell’abilità, Chiswick conclude che l’incentivo ad

emigrare è più alto per le persone più abili. Giungendo a questa

conclusione, l’autore afferma che, se le abilità sono distribuite in

modo simile tra paesi, gli immigrati avranno, in media, livelli di

abilità maggiori dei lavoratori residenti e che, in più, maggiori

sono i costi diretti della migrazione, maggiormente positiva sarà

la selezione.

Dustmann, sostiene che tali conclusioni valgono solo in alcune

condizioni del mercato del lavoro.

Le condizioni necessarie alla validità del suo ragionamento

sono che, esiste un eccesso di domanda di lavoro nel paese

ospite e un eccesso di offerta di lavoro nel paese di origine

(condizione che ha caratterizzato le migrazioni di lavoro intra-

europee tra gli anni ’50 e ’70) e che un lavoratore più abile, in

patria, trova lavoro più facilmente di un lavoratore meno abile.

Dustmann, alla luce di queste ulteriori ipotesi inserisce nel

calcolo del tasso di rendimento della decisione di migrare, la

probabilità che un lavoratore con abilità A lavori in patria, Pr(A).

Tale probabilità è direttamente proporzionale alla sua abilità.

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Un ulteriore aggiunta sta nell’inserimento dell’indennità di

disoccupazione in patria, B, che è minore del salario ottenibile

in patria.

Il tasso di rendimento r relativo alla decisione se emigrare o

meno sarà, quindi, il seguente:

2) r = WI – WE Pr (A ) + [1 – Pr (A)] B

c0+ (1 / 1+A )cD

l’impatto dell’abilità del lavoratore sulla decisione di migrare o

meno ora è ambiguo: un suo aumento fa crescere il vantaggio

per il lavoratore ad emigrare (come dimostra il modello di

Chiswick). Tuttavia, come stabiliscono le condizioni del mercato

del lavoro ipotizzate all’aumentare delle abilità, aumentano

anche le probabilità, per il potenziale emigrante, di trovare

lavoro in patria. Ciò, di conseguenza, fa diminuire il tasso di

rendimento della decisione di emigrare.

Quindi, date le probabilità che il lavoratore trovi lavoro in patria,

dati i livelli di abilità A, dati i valori del salario in patria, il costo

opportunità e il sussidio alla disoccupazione B, il tasso di

rendimento della migrazione potrebbe essere alto anche per i

lavoratori con bassa abilità. Quindi, in questo caso, la

migrazione sarebbe negativamente selettiva.

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La selettività della migrazione, inoltre, può dipendere da altri

fattori oltre alla distribuzione del reddito. Sarà negativamente

selettiva se l’indennità di disoccupazione in patria è più bassa

sia del salario in patria sia di quello che l’emigrante si aspetta di

guadagnare all’estero. Questo spingerà il lavoratore ad

affrontare i costi della migrazione nella prospettiva di un salario

maggiore all’estero.

Se i costi diretti della migrazione sono bassi il tasso di

rendimento della decisione di emigrare cresce anche per i

lavoratori con bassa o nulla professionalità, data la loro scarsa

possibilità di trovare lavoro in patria e l’alta probabilità di

rimanere disoccupati.

2.4 Migrazione temporanea

Come è stato detto nell’introduzione il fattore tempo e, in

particolare, il carattere permanente o temporaneo della

migrazione, è un aspetto importante nell’analisi della

migrazione internazionale del lavoro.

Fino ad ora si è sempre ragionato ipotizzando che ogni flusso di

immigrati fosse permanente. In realtà molti immigrati decidono

di tornare nei loro paesi natii.

Stime riguardo le migrazioni avvenute tra gli anni ’60 e ’80

indicano che, per esempio, circa i due terzi dei lavoratori

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stranieri ammessi nella Repubblica Federale tedesca sono

tornati in patria e più di quattro quinti sono ritornati dalla

Svizzera (Bohning 1987). L’85% dei greci emigrati nella

Germania dell’Ovest sono, anch’essi ritornati in patria (Glytsos

1988) e anche negli Stati Uniti la migrazione di ritorno è stata

una realtà forte, con circa 5 milioni di stranieri che sono

riemigrati in patria gradualmente (Jasso e Rosenzweig 1982)51.

Possiamo individuare due diversi tipi di migrazione temporanea:

la migrazione legata ad un contratto di lavoro a tempo

determinato che condiziona il permesso di soggiorno alla

scadenza del contratto nonché la migrazione, così detta, di

ritorno. In questo caso l’immigrato ha la facoltà di scegliere se

tornare o meno nel proprio paese e sceglie di ritornare.

Per analizzare le caratteristiche della migrazione temporanea

da un punto di vista di equilibrio economico parziale e, quindi

per focalizzare i suoi effetti sul mercato del lavoro, è

necessario osservare le attitudini dei lavoratori che migrano.

Il primo aspetto importante che distingue il comportamento

dell’immigrato temporaneo da quello permanente, è il diverso

incentivo che i due tipi di immigrati hanno nell’acquisizione di

professionalità. Chi decide di rimanere solo temporaneamente

nel paese d’accoglienza è meno interessato ad investire in

51 Cfr. Dustmann C, Earnings Adjustment of Temporary Migrants, in Journal of Population Economics, 1993

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specializzazioni professionali. Questo è tanto più vero quanto

più

le specializzazioni professionali specifiche richieste dal paese

ospite, sono meno richieste nel paese d’origine.

In più, acquisire determinate professionalità ha un costo sia in

termini di salario non percepito (durante la specializzazione) sia

in termini monetari diretti. Quindi più è breve il periodo di

permanenza nel paese ospite più è basso il guadagno

dell’investimento in professionalità.

Di conseguenza, si arguisce che, la natura temporanea

dell’immigrazione, riduce l’incentivo per l’immigrato ad investire

in professionalità. L’incentivo, poi, è tanto minore, quanto

minore è la trasferibilità della professionalità nel paese di

origine. Di conseguenza gli immigrati temporanei, acquisendo

meno capitale umano specifico, dovrebbero avere profili

salariali più bassi rispetto agli immigrati permanenti.

Un discorso parallelo si può fare per gli immigrati permanenti se

si inserisce come variabile significativa l’età di entrata degli

immigrati nel paese ospite. L’età all’entrata determina il periodo

di rendimento per il capitale umano specifico al mercato del

lavoro. Infatti, più è lungo il tempo che l’immigrato ha a

disposizione per specializzarsi e per usufruire poi della

professionalità acquisita, più l’emigrato sarà spinto ad investire

il suo tempo nell’attività di acquisizione di professionalità. Un

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immigrato che arriva già adulto nel nuovo paese e si inserisce

nel mercato del lavoro non ha a disposizione le stesse

prospettive di un giovane lavoratore. Se poi, il capitale umano

non è completamente trasferibile, il giovane immigrato

dovrebbe avere una crescita salariale più intensa di quelli meno

giovani.

Questo ragionamento vale quando la decisione di tornare in

patria è imposta dall’esterno quindi è esogena. Tuttavia, i motivi

che spingono gli immigrati a ritornare in patria possono essere

svariati. Dustmann52 (1995) offre tre ragioni: innanzi tutto vivere

in patria è complementare al consumo, cioè, l’utilità marginale

del consumo è maggiore in patria che all’estero. In secondo

luogo se i prezzi al consumo in patria sono più bassi,

l’immigrato può considerare di tornare in patria per consumare

ciò che ha guadagnato all’estero sfruttando il suo maggior

potere d’acquisto. Terzo, l’immigrato, all’estero, può acquisire

delle qualifiche che migliorano la sua posizione in patria più di

quanto lo facciano nel paese ospite e quindi è spinto a tornare

in patria per vendere la sua professionalità più avanzata

rispetto ad i connazionali. Sarà, quindi, vantaggioso per lui

ritornare.

Un altro motivo si aggiunge alla decisione di tornare: l’immigrato può

considerare di diventare un lavoratore autonomo dopo il suo ritorno in patria

52 Cfr. Dustmann C. Saving Behaviour of temporary Migrants. A Life Cycle Analysis, in Zeitschrift fur Wirtschafts und Sozialwissenschaften, 1995

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quando i tassi di rendimento nelle attività autonome sono più elevati in

patria53.

Quando si considera la migrazione temporanea, dunque, le

decisioni di investimento in capitale umano non sono più prese

in considerazione del solo calcolo del mancato guadagno

durante il periodo di specializzazione, ma sono prese

simultaneamente alla prospettiva di un rientro in patria. Queste

decisioni assumono quindi un peso diverso nella funzione di

utilità dell’immigrato.

53 Cfr. Dustmann,-Kirchkamp The Optimal Migration Duration and Activity Choice after Remigration, in Journal of Development Economics 2001

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3. Integrazione economica e salariale degli immigrati nei paesi di destinazione: evidenze empiriche

3.1 La metodologia di analisi

Esiste uno scarto tra l’analisi teorica degli effetti della migrazione e la sua

analisi empirica.

La conoscenza parziale delle reali dinamiche dei diversi mercati del lavoro

porta a concludere che il mezzo più efficiente per studiare i reali effetti del

fenomeno migratorio, sia quello di verificare empiricamente il rapporto tra i

fattori della produzione interessati dal fenomeno.

Alla luce dei diversi percorsi storici e dei mutamenti di rotta che

il flusso migratorio ha subito negli ultimi venti anni circa i paesi

che sperimentano il fenomeno, in entrata, presentano alcune

immediate differenze nei loro approcci di analisi.

In generale, gli studi condotti in paesi quali gli Stati Uniti, il

Canada, l’Australia e i paesi del Nord Europa, che hanno un

lungo passato di immigrazione alle spalle, tendono a

concentrare l’analisi sul livello di integrazione salariale che gli

immigrati, stanziatisi ormai da anni, hanno raggiunto nel paese

di accoglienza ed a confrontare i livelli salariali degli immigrati

sia con i lavoratori nazionali sia tra gruppi di immigrati, che si

differenziano tra di loro per varie caratteristiche tra le quali,

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sono molto importanti, l’anno di arrivo e la durata del periodo

totale di soggiorno.

Al contrario, analisi condotte in paesi come l’Italia, la Spagna, Il Portogallo o

la Grecia, che solo negli ultimi venti anni hanno cominciato a sperimentare il

fenomeno migratorio in quanto paesi di accoglienza, si concentrano

maggiormente in studi tesi a comprendere se l’immigrazione abbia un

impatto positivo o negativo per l’economia del paese, in particolare per i

lavoratori nazionali, e come gestire, nel modo migliore, un fenomeno che è

destinato ad espandersi sempre di più.

Nell’ambito di un gran numero di ricerche, che mirano ad osservare lo stesso

aspetto del fenomeno migratorio è possibile, quindi, a seconda del paese

che viene studiato e della sua storia economica e sociale, fare ipotesi

diverse e introdurre specificazioni ad hoc, proprio per meglio fotografare la

realtà da studiare.

Se ipotesi e tesi sono più suscettibili ai cambiamenti, ciò che rimane

sostanzialmente invariato nel suo schema base, è lo strumento con cui si

analizza la realtà e tramite il quale si arriva a determinati risultati.

Come per ogni branca dell’economia, anche le teorie che analizzano i flussi

migratori vengono formalizzate in modelli matematici. Tali modelli servono,

tra le altre cose, a descrivere la realtà e spesso anche a prevederla.

In genere i modelli econometrici mettono in relazione, tra loro, un certo

numero di variabili, dipendenti ed indipendenti. Mirano a studiare se esistono

e quali siano le relazioni tra tali variabili, allo scopo di indagare in che modo,

queste relazioni, influiscano sui comportamenti del fenomeno oggetto di

studio.

L’attività di costruzione dei modelli econometrici si articola nelle tre fasi della

specificazione, della stima e del test. Durante la prima fase si cerca di

tradurre in equazioni le relazioni funzionali suggerite dalla teoria economica.

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La stima54 dei parametri del modello, poi, ha lo scopo di assegnare specifici

valori agli, sconosciuti, parametri del problema di interesse. Il momento della

stima si giustifica poiché ogni osservazione economica empirica presuppone

l’influenza, simultanea, di una molteplicità di variabili ed i metodi di stima

servono ad analizzare in che misura, ciascuna variabile, influisce sulla

grandezza da osservare.

In fine, la fase del test55 risponde ad una serie di domande fondamentali che

hanno a che vedere con le scelte di specificazione del modello (che devono

essere coerenti con i dati del problema che si sta affrontando) e con la

correttezza dei valori assegnati ai parametri56.

Le strade da percorrere per arrivare ai risultati di interesse possono essere

molteplici. Molti studi nel campo dell’analisi degli effetti economici della

migrazione sul mercato del lavoro del paese di destinazione, usano come

schema base l’osservazione di dati in panel.

54 Assegnazione, sulla base dei dati campionari, di uno o più valori numerici ad un ignoto parametro che caratterizza una popolazione. I metodi di stima più utilizzati sono: il metodo dei momenti, il metodo della massima verosimiglianza e il metodo dei minimi quadrati. Qualunque sia il metodo utilizzato la stima ottenuta dipende dai dati campionari e varia con essi.55 Il test è una procedura inferenziale che utilizza le osservazioni campionarie per accettare o respingere un’ ipotesi statistica. La procedura di verifica di una ipotesi statistica è la seguente: si supponga che una caratteristica di una popolazione sia ignota. Su di essa viene formulata un’ipotesi detta ipotesi nulla convenzionalmente indicata con H0. Per verificare la plausibilità di tale ipotesi si estrae un campione dalla popolazione e, se i risultati osservati differiscono in modo notevole da quelli attesi sulla base dell’ipotesi formulata, si dirà che le differenze osservate sono significative e si rifiuterà l’ipotesi emessa; in caso contrario la si accetterà. Per poter stabilire quando la differenza tra l’ipotesi formulata e il risultato ottenuto possa ritenersi non casuale, e quindi significativa, è necessario tener conto del rischio di un’errata decisione. Ogni volta che si prende una decisione nei confronti dell’ipotesi nulla si corrono due diversi rischi: quello di rifiutarla benché vera (rischi di prima specie) o quello di accettarla benché falsa (rischio di seconda specie). La probabilità di rifiutare erroneamente H0 è detta livello di significatività o ampiezza del test e viene indicata con α, mentre quella di rifiutarla giustamente perché falsa è detta potenza del test e viene indicata con β-1. L’insieme dei risultati campionari che portano all’accettazione di H0 prende il nome di regione di accettazione, quello che porta al suo rifiuto è detto regione critica. I valori di confine fra le due regioni sono detti valori critici. Fra i test più usati figurano: il t-test; l’F-test e il test del chi-quadrato. Un test è corretto se la probabilità di rifiutare H0 quando è falsa è maggiore della probabilità di rifiutarla quando è vera. 56 Cfr. Cottarelli C. Regressioni lineari con Panel Data: una guida alla letteratura, in Temi di discussione, Servizio Studi della Banca d’Italia, 1984

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I panel data sono un pooling di dati sezionali57 e serie storiche58 e le

osservazioni sono bidimensionali, in quanto variano sia per individuo (o

aggregato) sia nel periodo temporale di riferimento. Due dei più rilevanti

esempi di panel data sono il National Longitudinal Surveys of Labour Market

Experience (NLS) del Center for Human Resource Research dell’Ohio State

University e, lo University of Michigan’s Panel Study of Income Dynamics

(PSID). Questi panels sono stati elaborati per studiare la natura e le cause

della povertà negli Stati Uniti nonché, per monitorare e spiegare i

cambiamenti dell’andamento economico e gli effetti dei programmi di

intervento economici e sociali. L’NLS considera cinque diversi segmenti

della forza lavoro e per ogni segmento sono considerate una serie di variabili

(nell’ordine delle migliaia) che pongono l’accento sul lato dell’offerta di

lavoro. Il PSID raccoglie informazioni da un campione rappresentativo di

circa 6.000 famiglie e 15.000 individui. Il data set contiene circa 5.000

variabili che includono, l’occupazione, il reddito, gli spostamenti per motivi di

lavoro, la mobilità interna al mercato del lavoro, ecc.

Una spiegazione del perché vengano usati proprio i dati panel può essere

data descrivendo i benefici dell’uso di tale strumento59:

Con i dati panel si controlla l’eterogeneità degli individui

delle imprese o delle aree geografiche prese in esame.

In una analisi statistica, infatti, vi sono molte variabili da

osservare, sia qualitative che temporali, relative a

ciascun oggetto di osservazione che possono

influenzare i risultati dell’analisi ma che sono di difficile

57 Nei dati sezionali o cross-section, le osservazioni si riferiscono a diversi individui (paesi, famiglie, imprese, ecc.) rilevate nello stesso periodo (ad esempio nel 1990).58 Nelle serie storiche le osservazioni sono relative allo stesso individuo, o allo stesso aggregato, misurate in diversi periodi (ad esempio: il livello di inflazione in Italia dal 1980 al 1990).59 Cgr. Hsiao C, Analysis of Panel Data, Econometric review, 1986 e Baltagi BH, Econometric Alalysis of Panel Data, John Wiley & Sons, 1995

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individuazione (educazione, religione, livelli di

professionalità, etc..). Omettere certe variabili

significherebbe ottenere dei risultati distorti60. I dati panel

sono in grado di controllare le variabili qualitative e

temporali mentre, le cross-section e le serie temporali,

non controllando tali caratteristiche, corrono il rischio di

pervenire a dati distorti.

I dati panel sono in grado di dare più informazioni, più

variabilità, meno collinearità61 tra le variabili e maggiori

gradi di libertà ed efficienza degli stimatori. Le serie

temporali, al contrario, sono affette dalla

multicollinearità62 . Per esempio, nello studio sul

consumo di un determinato bene, le variabili prezzo e

reddito sono molto correlate tra loro. Nei panel data

queste due variabili possono essere osservate in più

dimensioni. Possono essere aggiunte più informazioni e

60 Un esempio empirico è riportato in Baltagi and Levin (1992).Essi considerano la domanda di sigarette in 46 paesi americani in un arco temporale che va dal 1963 al 1988. Il consumo è considerato funzione del reddito e del prezzo delle sigarette. Tali variabili cambiano sia per Stato che nel tempo. Tuttavia, vi sono ulteriori variabili, che influenzano il consumo, che possono essere fisse sia negli Stati che nel tempo: rispettivamente, Zi e Wt. Esempi di Zi possono essere la religione e l’educazione. Esempi di Wt possono includere la pubblicità del prodotto nelle TV o alla radio. L’omissione di tali variabili, rende distorti i risultati della stima. Con i dati panel, il ricercatore può, prima, liberarsi di tutte le variabili di tipo Zi e quindi, controllare tutte le caratteristiche di ciascuno Stato. Questo se le variabili Zi sono controllabili. In alternativa la variabile dummy, specifica per uno Stato, controlla le osservazioni di tutti gli altri Stati.61 Legame tra due variabili o nel senso di interdipendenza fra le variabili o nel senso di dipendenza di una variabile dall’altra. Tra due variabili esiste collinearità quando, in un legame lineare, al variare di una anche l’altra varia non casualmente.62 Relazione lineare fra due o più variabili esplicative di un modello regressivo. L’accertamento dell’assenza della multicollinearità è molo importante perché se in un modello regressivo due o più variabili sono multicollineari le stime dei coefficienti dell’equazione ottenute col metodo OLS, sono poco attendibili.

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la correlazione può essere scomposta a più livelli: a

seconda delle diverse aree geografiche, per regioni.

All’interno delle regioni, per province. All’interno delle

province, per comune, fino ad arrivare alle differenze

individuali.

I dati panel sono lo strumento migliore anche per

studiare le dinamiche dell’aggiustamento. Le distribuzioni

cross-section, dal canto loro, nascondo una moltitudine

di cambiamenti: periodi di disoccupazione, turnover,

mobilità residenziale, variazioni di reddito. Tutti questi

aspetti sono studiati meglio con i dati panel. Così come

sono fotografate meglio alcune condizioni economiche di

tipo macro come la disoccupazione e la povertà, anche

la velocità degli aggiustamenti in seguito a politiche

economiche può essere studiata in modo più efficiente

con i dati panel. Questo strumento è inoltre necessario

per stimare i cicli della vita e i modelli intergenerazionali

poiché mette in relazione comportamenti ed esperienze

individuali in un punto nel tempo, con comportamenti ed

esperienze individuali, in altri punti nel tempo.

I dati panel sono più indicati anche per costruire e

misurare i più complicati modelli di comportamento a

livello microeconomico e, i risultati distorti che

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risulterebbero da un’analisi aggregata sono, così,

eliminati.

A fronte di tanti vantaggi che seguono all’uso dei panel data,

esistono però anche alcuni svantaggi. Brevemente, queste

limitazioni includono:

Problemi di raccolta dei dati e di progettazione. Questi comprendono

problemi di copertura incompleta della popolazione di interesse, di

mancata cooperazione da parte degli intervistati o di errori degli

intervistatori. Problemi che riguardano la frequenza dell’intervista, il

periodo preso a riferimento. L’uso di strumenti come il bounding

(usato per prevenire il cambiamento degli eventi nel periodo che

intercorre tra la prima e la seconda intervista) e il time-in-sample

bias (osservato quando interviene una caratteristica molto diversa

nella seconda intervista rispetto alla prima, mentre, il ricercatore si

aspettava di osservare la stessa caratteristica).

Distorsioni nella misura ed errori. Gli errori possono avvenire

quando le risposte alle interviste sono false, quando le domande

non sono formulate chiaramente o le informazioni non sono

appropriate.

Problemi di selezione. Questi includono :

i. self-selectivity. Vi sono degli individui che si auto escludono dal

campione di studio perché non rispondono a tutti i requisiti

necessari allo studio63. Non considerare affatto tali individui

porterebbe ad avere un campione incompleto ma considerare solo

alcune caratteristiche comunque, porta ad un campione censurato.

63 Un esempio (Baltagi 1995) è il New Jersey Negative income Tax Experiment. In questo studio si è interessati solo al livello della povertà e tutti gli individui con un reddito superiore, di una volta e mezzo, il livello di povertà sono esclusi dal campione. Il procedimento di generalizzazione dei risultati ottenuti da una tale osservazione troncata, produce delle distorsioni.

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ii. Nonresponse. Accade nel momento iniziale dello studio quando

l’intervistato non risponde ai questionari per qualunque motivo.

iii. Attrition. Se il nonresponse è tipico anche delle analisi cross-section

pure, questo problema è più serio nei dati panel perché interviste

seguenti possono essere soggette ad ulteriori nonresponse.

Infine, un ulteriore problema riguarda la dimensione dei dati temporali inclusi

nei panel data. I tipici panels contengono dati che si riferiscono a brevi

intervalli di tempo per ciascun individuo e ciò vuol dire che i dati significativi

si basano sul numero degli individui e sui relativi dati temporali. Aumentare

gli intervalli di tempo del panel è importante ma allo stesso tempo presenta

problemi di costo dell’analisi e aumenta la possibilità che si verifichino tutti i

problemi sopra menzionati.

Una volta stabilito quale tipo di forma dare ai dati disponibili, il

metodo più usato nell’elaborazione dei dati è quello della

regressione. In generale, la regressione rappresenta il livello

più elevato di qualificazione della dipendenza fra due caratteri

quantitativi. La sua finalità è quella di tradurre in forma

funzionale il legame di dipendenza di un carattere dall’altro.

Quindi, posta la X come variabile indipendente e la Y come

variabile dipendente, si ricava una espressione analitica che

indica l’intensità e il senso del variare di Y al variare di X.

Nel caso più semplice di un legame lineare tra le variabili:

y = α + βx + u

dove α e β sono i parametri da stimare, detti anche coefficienti

di regressione, si pongono alcuni problemi di stima di tali

parametri.

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Innanzi tutto, è possibile che all’interno di un modello le diverse variabili che

compaiono nella relazione non siano legate solo da quella relazione. In un

caso del genere, la stima dei parametri, per mezzo del metodo classico e più

semplice dei i minimi quadrati ordinari (OLS), porta a commettere un errore

detto di simultaneità. Per evitare un simile errore sarebbe necessario,

stimare contemporaneamente i parametri di tutte le equazioni del modello

col metodo di massima verosimiglianza. Tuttavia questo è praticamente

impossibile quando i parametri sono troppi rispetto al numero delle

osservazioni.

Sono stati elaborati, quindi, metodi diversi come quello dei minimi quadrati a

due stadi che, pur stimando una singola equazione alla volta, riescono ad

ovviare all’errore di simultaneità ricorrendo all’uso delle variabili esogene del

modello (variabili che in un modello interpretativo di un fenomeno sono

determinate esternamente al modello).

Un ulteriore problema che si presenta nella stima dei parametri si ha quando

le due variabili sono fortemente correlate fra loro. Questo problema è detto

di multicollinearità. In questa circostanza, la stima dei coefficienti relativi alle

variabili correlate e del loro contributo alla spiegazione del fenomeno è molto

incerta. Per ovviare al problema della multicollinearità di solito si usa

modificare, per quanto è possibile, la specificazione delle relazioni di cui si

vogliono stimare i parametri. In pratica si sostituiscono alcune variabili con

altre variabili o con loro trasformazioni.

Una volta elaborato il modello, è importante la fase della sua

valutazione in cui è essenziale la verifica statistica delle ipotesi

esplicitamente o implicitamente considerate nonché, l’analisi

del comportamento del modello nel riprodurre la realtà passata.

Sempre in generale, esiste un indice detto di determinazione

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della retta di regressione che misura la bontà di adattamento

della funzione nel descrivere la realtà. Questo indice è indicato

con R2 ed assume valori compresi tra zero ed uno. Il giudizio di

adattamento sarà tanto migliore quanto più elevato è il valore di

R2.

L’indagine econometria ha portato poi all’individuazione di altri

particolari test con lo scopo di controllare la bontà delle

assunzioni prese come base di indagine e della loro funzionalità

nell’osservazione e descrizione della realtà. Tali test possono

studiare la costanza delle relazioni stimate nel tempo (test di

costanza dei parametri), la variabilità dei parametri nel tempo

(test di eteroschedasticità). Si può capire se sia appropriata la

relazione dinamica tra le variabili (test di autoregressione) e

può essere necessario verificare che alcune variabili non siano

correlate con i residui dell’equazione nella quale compaiono

(test di esogenità) o che al contrario con i residui siano

correlate variabili eventualmente omesse dall’equazione (test di

errata specificazione).

In tutti i casi l’econometria cerca sempre di suggerire dei metodi

per eliminare i singoli problemi, o indicando una diversa

specificazione del modello, o usando diversi metodi di stima.

3.2 L’esperienza d’oltre oceano

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Per una corretta e completa rassegna dei lavori empirici in materia di

migrazione, è necessario muovere dai primi studi che sono stati fatti in

materia. Tali analisi si sono concentrate in quei paesi come Stati Uniti,

Canada e Australia, in cui il fenomeno è più antico e i dati a disposizione

sono più numerosi.

A dare inizio alla letteratura economica sull’immigrazione fu, nel 1978, il

lavoro di Berry Chiswick sull’assimilazione salariale dei lavoratori immigrati.

L’autore, in base ai dati del censimento statunitense del 1970,

stimò le equazioni salariali degli immigrati e dei lavoratori

nazionali con una semplice regressione lineare:

logYi = + Xi α +β1YSMi + β2 YSMi2 + β3FORi + ui

dove, logYi rappresenta il salario dell’individuo i, X i è un vettore di

caratteristiche individuali (istruzione, professionalità, esperienza lavorativa).

YSMi rappresenta gli anni di soggiorno dell’immigrato nel paese di

destinazione e FORi è una variabile dummy uguale ad 1 se si riferisce agli

immigrati e, a zero se si riferisce ai lavoratori nazionali.

Il termine di errore è dato da ui

Questo tipo di equazione, sostanzialmente, mette in relazione la variazione

del salario degli immigrati con le loro caratteristiche qualitative e gli anni di

soggiorno trascorsi nel paese ospitante. I parametri da stimare, che indicano

quanto e, in che modo, Y i varia al variare di Xi , YSMi e FORi , sono α, β1 , β2

e β3.

L’ equazione è identica sia per i lavoratori nazionali che per quelli immigrati.

Chiswick evidenzia che gli immigrati entrano nel mercato del

lavoro del paese di destinazione con un salario più basso

rispetto ai nazionali ma che i loro percorsi salariali sono più

veloci. L’iniziale livello più basso di capitale umano degli

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immigrati, secondo l’autore, spiega il loro svantaggio salariale

iniziale e la crescita più rapida dei loro salari. In più, una

migrazione positivamente selettiva, porta a dei percorsi più

inclinati dei salari degli immigrati che alla fine superano quelli

dei nazionali con le stesse caratteristiche.

Questo schema relativamente semplice viene criticato da un altro studioso

fondamentale per l’analisi economica della migrazione: George J. Borjas64.

Egli, infatti, ritiene che i risultati degli studi di Chiswick siano ingannevoli

perché le sue stime non distinguono l’effetto periodo di soggiorno dall’effetto

coorte. La coorte rappresenta gruppi distinti di individui che si differenziano

tra loro in base ad aspetti temporali come l’anno di nascita o, come in questo

caso, in base all’anno di arrivo nel paese ospitante.

Borjas basa la sua critica sul fatto che è possibile che le coorti differiscano

tra loro per qualità, ossia che i livelli di capitale umano degli immigrati

appartenenti alle diverse coorti siano diversi.

Se, come ha fatto Chiswick, si studia una cross-section di immigrati che

differiscono tra loro solo in base all’anno di arrivo nel paese ospitante e si

tracciano i loro salari in base al tempo, allora si avrà un profilo positivamente

inclinato.

Ciò su cui punta l’accento Borjas, invece, è che non solo le coorti possono

differire tra loro per quanto riguarda i livelli di professionalità degli immigrati,

ma che nel tempo, la professionalità è andata via via diminuendo e ciò

significa che le coorti più recenti sono peggiorate rispetto a quelle

antecedenti65.

64 Cfr. Borjas CJ, Assimilation, Chages in Cohort Qualità, and the Earnings of Immigrants, in Journal of Labour Economics 3, pp 463-489,198565 Vedi capitolo primo paragrafo 1.6 Gli Effetti della Migrazione sul Benessere Economico e Sociale per i motivi del peggioramento della qualità delle coorti.

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Il problema, quindi, è che la variabile anni di soggiorno, YSM, misura due

aspetti: gli anni di soggiorno, appunto, e la coorte a cui appartengono gli

immigrati.

Per avere una stima corretta di ciò che è successo nella realtà è necessario,

secondo l’autore, distinguere l’effetto sulla crescita dei salari dovuto al tempo

da quello dovuto all’appartenenza a diverse coorti.

Risultati non distorti si ottengono con un metodo che stima la variazione del

salario mettendo in relazione il salario medio degli individui, osservati in un

certo anno e appartenenti a diverse coorti, con il tempo trascorso nel paese

ospitante :

Wd = W t0t2 + Wt1

t2

t2 – t1

Questa stima deve essere poi scomposta in due parti: la prima

parte rappresenta la stima della variazione del salario di una

coorte osservata in due diversi periodi e, rappresenta l’effetto

anni di soggiorno.

La seconda parte è la stima di due diverse coorti osservate in due diversi

momenti e, genera l’effetto coorte.

Questi sono due esempi di come uno stesso oggetto di studio possa essere

esaminato in modi diversi a seconda delle assunzioni e delle ipotesi che si

trovano alla base di due teorie simili, ma non uguali. Nel primo caso tutte le

assunzioni fatte vengono racchiuse in un'unica semplice relazione lineare

mentre, nel secondo caso quelle che era una sola variabile nella prima

analisi, YSM, viene osservata da due punti di vista e di conseguenza, la

specificazione analitica per osservare i due nuovi caratteri è stata

trasformata66.

66 Cfr. Altri lavori che presentano l’approccio di Borjas quale il più attendibile sono: Friedberg R.M. Hunt J., The impact of Immigrants on Host Country Wages, Employment and Gowth, Journal of

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In anni più recenti G.J. Borjas67 continua i suoi studi sugli effetti dei flussi

migratori negli USA e sviluppa nuovi approcci per stimare i cambiamenti

nell’educazione e nell’esperienza lavorativa, riscontrati all’interno delle coorti

dei lavoratori immigrati, rispetto ai lavoratori nazionali.

La prevalenza degli studi empirici, soprattutto di quelli statunitensi, analizza

l’impatto degli immigrati in mercati del lavoro locali (o settori), che si

ipotizzano chiusi, con un’analisi cross-section tra aree (o settori) a diversa

intensità di immigrazione. Si perviene, in questo modo, ad una diversa

elasticità tra numero di immigrati, o quota di immigrati, e salario o

occupazione, dei lavoratori nazionali distinti per gruppi omogenei.

L’autore stabilisce, però, che un semplice confronto tra quello che accade

nelle diverse aree geografiche in termini di flussi migratori, non è efficace per

studiare l’impatto che questi possono avere sul mercato del lavoro. Questo

tipo di analisi, infatti, trascura gli effetti degli scambi commerciali e dei flussi

economici tra le diverse aree geografiche che portano ad eguagliare le

condizioni economiche delle diverse zone, coprendo l’effetto netto

dell’entrata degli immigrati e portando a risultati distorti.

Detto ciò, il metodo migliore, secondo l’autore, è quello di porre l’accento

sulle caratteristiche che qualificano i diversi gruppi di lavoratori.

Le qualifiche dei lavoratori vengono misurate da due indici:

livello di scolarità ed esperienza lavorativa.

Lavoratori con lo stesso livello di educazione ma con un diverso livello di

esperienza lavorativa non sono considerati perfetti sostituti, cioè, le due

caratteristiche assumono diverso significato e importanza all’interno

dell’analisi. In un gruppo con un dato livello di educazione ma con un diverso

livello di esperienza lavorativa, infatti, la migrazione non genera gli stessi

effetti. Nel corso dell’analisi, poi, l’autore fa riferimento ad un livello fisso di

67 Cfr. Borjas CJ. The Labor Demand Curve is Downward Sloping: Reexamining The Impact of Immigration on the Labor Market, in Quarterly Journal of Economics, pp 1335-1369, 2003

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forza lavoro nazionale contro i diversi livelli di immigrati che cambiano nel

corso del tempo (questo per attribuire ogni cambiamento economico proprio

agli immigrati).

L’obbiettivo dello studio è quello di dimostrare se gli immigrati riducono o

aumentano le opportunità di lavoro dei nazionali.

I dati a cui si fa riferimento coprono gli anni che vanno dal 1960 al 2000.

Gli individui analizzati sono uomini in età compresa tra i 18 e i 64 anni che

partecipano alla forza lavoro. Immigrato viene definito colui che è nato

all’estero, non è cittadino o è cittadino naturalizzato.

In base alle ipotesi sopra esplicitate, si indicano quattro classi

riguardanti la scolarità:

1. Gli High School Dropouts (con meno di 12 anni di frequenza scolastica).

2. Gli High school graduates (con 12 anni di frequenza scolastica).

3. I Some College (con frequenza scolastica che oscilla tra i 13 e i 15 anni).

4. I College Graduates (con almeno 16 anni di frequenza scolastica).

Il livello di esperienza lavorativa, invece, viene calcolato

facendo la differenza tra l’età del lavoratore, al momento dello

studio, e quella in cui è entrato nel mercato del lavoro (si

ipotizza che siano 17 anni per il gruppo H.S.D.; 19 anni per gli

H.S.G.; 21 per i S.C. e 23 per i C.G.).

L’analisi considera gli individui con un’esperienza lavorativa che va da 1 a

40 anni quindi vi sono, per ogni gruppo indicante il livello di scolarità, otto

sottogruppi che indicano gli anni di esperienza lavorativa.

I livelli dei salari sono stati calcolati per tutti coloro che hanno lavorato a

tempo pieno nell’anno precedente lo studio e sono stati deflazionati per

essere riportati ai valori attuali.

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La prima grandezza che viene calcolata è la quota di immigrati appartenente

a ogni gruppo di scolarità i, di esperienza lavorativa j, al tempo t.

1) Pijt = Mijt / ( Mijt + Nijt )

Dove Pijt è la quota di immigrati, Mijt sono il numero di immigrati per ogni

gruppo i e j al tempo t e Nijt sono i lavoratori nazionali in ogni gruppo i e j al

tempo t.

Una prima relazione studia il legame tra i salari settimanali e la quota di

immigrati in ogni gruppo di scolarità e di esperienza lavorativa.

Per condurre tale analisi vengono usati i dati sui salari, deflazionati, per ogni

gruppo e in ogni periodo, che servono a calcolare i cambiamenti decennali di

tali salari in ogni gruppo. Questi dati vengono messi in relazione, tramite una

regressione, con i dati sulle quote di immigrati presenti in ogni gruppo e per

ogni periodo considerato.

La retta di regressione che ne deriva illustra una relazione negativa tra

crescita salariale e afflusso di immigrati in ciascun gruppo: i salari crescono

più velocemente nei gruppi meno interessati dai flussi migratori.

Risulta inoltre che per dati livelli di educazione, immigrati e lavoratori

nazionali con simili livelli di esperienza lavorativa sono più competitivi

rispetto a quelli con diversi livelli di esperienza lavorativa.

Una seconda relazione che si studia riguarda il grado di

similitudine tra la distribuzione del lavoro degli immigrati e dei

lavoratori nazionali all’interno dei vari gruppi. Per ottenere una

tale misura si usa l’indice di congruenza di Welch (1999). Per

due gruppi con professionalità, rispettivamente k e l, l’indice è il

seguente:

2) Gkl = Σc ( qkc – qc ) (qlc - qc) / qc

√ Sci ( qkc – qc )2/ qc Σc (qlc - qc) / qc

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dove qhc è la frazione del gruppo h (h = l, k) impiegata nell’occupazione c e

qc è la frazione dell’intera forza lavoro occupata nel lavoro c.

L’indice è uguale a 1 se i due gruppi svolgono identiche occupazioni, è

uguale a -1 se i gruppi si dedicano a lavori del tutto diversi.

I risultati indicano che, per dati livelli di educazione, la distribuzione delle

occupazioni risulta essere molto simile tra immigrati e lavoratori nazionali

quando hanno livelli di esperienza lavorativa simili.

Infine, lo scopo dell’analisi è quello di osservare tre variabili:

il valore medio del log del salario annuale dei nazionali;

il valore medio del log del salario settimanale dei nazionali;

il valore medio della frazione delle ore lavorative dei nazionali.

Queste variabili dipendenti vengono messe in relazione, tramite una

regressione con:

1. la quota di immigrati presenti in ogni gruppo di scolarità e esperienza

lavorativa in un periodo t, Pijt.

2. il vettore che indica gli effetti del livello di scolarità del gruppo si

3. il vettore che indica gli effetti del livello di esperienza lavorativa del gruppo x j

4. il vettore che indica gli effetti del tempo πt.

Questi vettori controllano le differenze nei risultati del mercato

del lavoro per ciascun gruppo di scolarità, esperienza lavorativa

e nel tempo yijt.

3) Yijt = θpijt + si + xj + πt + ( si x xj ) + (si x πt ) + (xj x πt ) + φijt

dove le interazioni (si x πt) e (xj x πt) controllano la possibilità che l’impatto

dei livelli di scolarità ed esperienza lavorativa cambino nel tempo.

L’interazione (si x xj) controlla il variare dell’esperienza

lavorativa per diversi andamenti del mercato del lavoro e,

attraverso i vari gruppi di livello di scolarità.

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Le interrelazioni tra educazione ed esperienza lavorativa

rivelano che l’impatto della migrazione sul mercato del lavoro si

riflette nei cambiamenti che apporta tra i gruppi designati e

durante i periodi considerati.

I coefficienti stimati risultano tutti negativi e significativi (i livelli

del margine di errore, o l’indice di determinazione della

regressione, ci permettono di considerare la regressione adatta

a descrivere la realtà). Ciò significa che l’aumento dell’offerta

del lavoro, conseguente al flusso migratorio, riduce i salari dei

nazionali e la quota di ore lavorative.

Allo scopo di verificare ulteriormente l’affidabilità dei risultati,

l’autore introduce alcune nuove variabili nell’analisi di

regressione:

1. sviluppa la regressione senza ponderarla con le misure dei

campioni dei vari gruppi.

2. introduce anche le donne nel campione osservato dei lavoratori

3. include le variazioni, per ogni gruppo, dell’ammontare dei

lavoratori nazionali (in principio, per ipotesi, il livello di lavoratori

nazionali era stato considerato fisso) per considerare non solo

l’aumento delle quote di immigrati, ma anche una possibile

diminuzione delle quote di lavoratori nazionali.

Anche in questi tre casi, i risultati dimostrano l’impatto negativo

che gli immigrati hanno sulle performances del mercato del

lavoro che accoglie il flusso migratorio.

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Risultati lievemente diversi si rilevano in altri lavori68, come

quello di Briggs e Tenda (1984), dove gli immigrati sono

complementari a tutte le categorie di lavoratori e la

competizione arriva solo dalla forza lavoro femminile.

Simili a quest’ultimo studio sono i risultati che si rilevano dallo

studio di Muller e Espenshade (1985) in cui gli immigrati

messicani e i lavoratori neri risultano essere complementari e

ansi, questi ultimi sembrano essere il gruppo di lavoratori che

guadagnano di più dall’immigrazione.

Altri studi americani si concentrano, invece, su i gruppi specifici

di lavoratori più a rischio mostrando una leggera competizione

tra questi e gli immigrati (Llonde e Topel 1992). In tale studio,

l’impatto della crescita dell’1% dei lavoratori stranieri, in un’area

o settore che impiega prevalentemente lavoratori nazionali

giovani, riduce il salario annuale dei lavoratori ispanici giovani

del – 0,2% e dei giovani neri del – 0,6%.

Allo stesso modo influenze debolmente negative della

migrazione sui lavoratori stranieri le riscontrano altri studi

(Altonji e Card 1991) che rilevano un impatto molto modesto

della migrazione sull’occupazione dei lavoratori nazionali poco

qualificati mentre, sul loro salario, l’impatto rilevato varia con

valori di poco maggiori, a secondo della specificazione di stima.

68 Crf. Venturini A. Le Migrazioni e i paesi sudeuropei, UTET, 2001

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Tale trend dell’immigrazione negli USA, viene confermato

quando si tiene conto della straordinaria emigrazione dei

cubani, avvenuta nel settembre del 1980 quando Fidel Castro

lasciò liberi di emigrare i cittadini cubani. Questo evento

rappresentò una crescita della forza lavoro di Miami del 7% e,

come mostrano gli studi (Card 1990), l’effetto sul salario e

sull’occupazione dei nazionali non fu significativo e l’evoluzione

del salario e dell’occupazione della città di Miami non fu diversa

da quella di altre città, che non avevano subito un tale flusso

migratorio.

Negli studi canadesi e australiani i risultati non sono diversi.

In una ricerca dell’Economic Council of Canada (Swan 1991) si

analizza l’effetto dell’immigrazione sul tasso di disoccupazione

pervenendo a risultati poco determinanti: al crescere della forza

lavoro cresce, di un terzo, il livello di disoccupazione. Tali

risultati potrebbero essere interpretati come l’effetto della

crescita della migrazione che induce una crescita della

disoccupazione. I commenti dell’autore, però, sono scettici

poiché i risultati non specificano su chi ricada la disoccupazione

e perché il legame positivo tra immigrazione e disoccupazione

non è stato rilevato in modo diretto.

Anche negli studi australiani non si rileva un legame nettamente

negativo tra immigrazione, occupazione e livelli salariali dei

lavoratori nazionali.

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In conclusione, l’evidenza empirica per i paesi considerati in

questa prima rassegna mostra un effetto negativo, ma molto

limitato, della migrazione sui salari dei diversi gruppi di

lavoratori nazionali ed un effetto pressoché nullo sui loro livelli

di occupazione, soprattutto dei gruppi più a rischio quali i

giovani, i poco qualificati o le minoranze etniche.

La spiegazione che forniscono gli autori è diversa se si

considerano gli USA o se si parla di Canada e Australia.

Nel caso degli Stati Uniti la tesi prevalente è che gli immigrati

non influiscono in modo fortemente negativo sul mercato del

lavoro americano per via della alta mobilità dei lavoratori

nazionali. Questi, infatti, possono spostarsi, con relativa facilità,

dove esistono alternative occupazionali e salariali più

interessanti. Tale interpretazione è rafforzata dalla ricerca di

Filer (1992) che analizza l’impatto sulla mobilità dei nazionali

che un flusso di immigrati crea in uno specifico mercato del

lavoro locale. Egli riscontra una relazione negativa tra

immigrazione e flusso netto di migrazione dei nazionali (la

migrazione netta dei nazionali cresce se i flussi in entrata sono

maggiori di quelli in uscita) attribuendola ad un peggioramento

delle prospettive di lavoro dei nazionali.

Al contrario, il maggior impatto negativo degli immigrati sui

precedenti lavoratori immigrati, viene attribuito alla loro scarsa

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mobilità interna, spinta dalla tendenza a stabilirsi in luoghi in cui

esistono comunità etniche numerose ed organizzate.

Nel caso canadese ed australiano, invece, la mancanza di un

effetto significativamente negativo degli immigrati sui lavoratori

nazionali viene attribuito, oltre che alla mobilità interna dei

nazionali, anche alla selettività delle politiche migratorie di

entrambi i paesi.

Canada e Australia, per permettere l’ingresso agli immigrati,

usano un sistema di autorizzazioni a punti legati alle richieste

del mercato del lavoro interno e all’età della popolazione.

Questo sistema favorisce i lavoratori di cui il mercato del lavoro

ha effettivamente bisogno.

Mentre la politica migratoria americana, con l’Amendament Act

del 1965, è stata incentrata sui ricongiungimenti familiari, quella

canadese, con l’Immigration Act del 1962 ha rimosso le

restrizioni in base ai criteri nazionali e ha imposto quelle a

carattere professionale concentrandosi sugli “skills

requirements”.

E’ proprio con tali normative che Australia e Canada sono

riuscite a selezionare gli immigrati in base alle reali necessità

dei mercati del lavoro interni limitando, così, i conflitti tra

lavoratori immigrati e lavoratori nazionali.

3.3 Risultati europei

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Gli studi appena descritti, in particolare Borjas (2003),

rilevavano gli effetti che un certo tipo di immigrati, distinti in

base all’educazione e all’esperienza lavorativa, possono avere

sul mercato del lavoro. Inoltre, tali studi, si riferiscono a mercati

del lavoro (statunitense, canadese ed australiano)

particolarmente flessibili in cui la mobilità dei lavoratori

permetteva loro di far fronte alla nuova offerta di lavoro,

provocata dall’immigrazione.

I confronti tra gli studi americani e quelli europei non sono

immediati per via delle diverse caratteristiche strutturali dei

mercati del lavoro e per via dei diversi periodi storici in cui il

fenomeno migratorio ha preso piede nei rispettivi paesi. Né,

tanto meno, sono facili i confronti tra gli stessi paesi europei per

la differenza dei dati a disposizione e per le differenze storiche

temporali e strutturali che, anche questi paesi, hanno tra di loro.

Se da un lato abbiamo una forte flessibilità e mobilità del

mercato del lavoro americano, dall’altro, molti dei mercati del

lavoro dei paesi europei sono caratterizzati da forte presenza

sindacale, scarsa mobilità della forza lavoro e non da ultimo, un

elevato livello di disoccupazione. Inoltre, per via della posizione

geografica, che vede molte nazioni europee confinanti con

paesi ad alto tasso di povertà ed emigrazione, anche le

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caratteristiche dei lavoratori immigrati differiscono dalla realtà

americana.

Se pur difficilmente confrontabili tra di loro, i risultati degli studi

europei mostrano, in generale, la presenza di competizione tra

stranieri e nazionali, soprattutto nazionali non qualificati.

Nel solo caso tedesco i risultati sono discordanti:

Nello studio di De New e Zimmermann (1994) si rileva, con un

modello random effect ed una specificazone settoriale, nel

periodo 1984-1989 con dati provenienti dal German Social

Economic Panel, che un aumento dell’1% della forza lavoro

straniera produce una riduzione del salario orario dei nazionali,

in media, del –4%, con punte del –5,4% per i blue collars

(contro lo 0,2% del caso statunitense).

In un altro studio tedesco (Pischke e Velling 1995) si analizza,

con una cross section di distretti, un periodo lievemente

differente (1985-1989) con dati provenienti da una fonte diversa

(Ufficio di Statistica Federale). In questa analisi gli autori, dopo

aver controllato l’evoluzione temporale del tasso di

disoccupazione, mostrano una mancanza di effetto

dell’immigrazione sul salario e sull’occupazione dei nazionali.

Essi attribuiscono la diversità dei loro risultati rispetto allo studio

di De New e Zimmermann, al diverso periodo esaminato: di

espansione il loro, di recessione il primo.

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Un ulteriore risultato interessante che presentano gli autori è

l’assenza dell’effetto della migrazione sulla mobilità dei

lavoratori tedeschi, in contrasto con i risultati americani (Filer

1992).

L’effetto negativo della migrazione, seppure con dimensioni

inferiori, viene riscontrato da un altro studio condotto su alcuni

paesi dell’UE (Gang e Rivera-Batiz 1994).

In tale studio, mettendo in relazione il salario individuale con il

lavoro, l’istruzione e l’esperienza e usando i dati dell’UE

Eurobarometro, si calcolano i rapporti tra le varie componenti

del salario e l’impatto dei vari tipi di immigrati sui nazionali, con

diverse caratteristiche. Da ciò risulta che in Olanda, Francia,

Inghilterra e Germania, prevale una relazione negativa tra

immigrati di differenti nazionalità e lavoratore medio nazionale.

Il risultato rilevante, però, è che tale relazione negativa non è

mai superiore allo 0,1% e in Francia e Germania la relazione

scende allo 0,02%.

3.3.1 Migrazione temporanea

Le analisi empiriche precedentemente introdotte, condotte negli

USA, hanno cercato di dimostrare che i guadagni degli

immigrati superano quelli dei nazionali dopo un certo periodo di

adattamento. Questo fenomeno viene spiegato da una

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migrazione positivamente selettiva che porterebbe, nel paese

ospitante, immigrati con un alto livello di abilità nell’acquisire gli

skill adatti al nuovo mercato del lavoro e con forti motivazioni

tali, da farli uscire dalla loro situazione di iniziale svantaggio (B.

Chiswick 1978). In tutti gli studi osservati, però, si faceva

riferimento ad una migrazione a carattere permanente.

In Europa, le particolari condizioni economiche che hanno

caratterizzato il mercato del lavoro, in particolare quello

tedesco, negli anni subito posteriori alla seconda guerra

mondiale, hanno spinto il paese ad attuare particolari politiche

di gestione della migrazione.

Negli anni ’60, infatti, furono conclusi degli accordi economici

tra la Germania e tutti i paesi che rappresentavano la sua

maggior fonte di emigrazione.

Tali accordi facilitavano l’immigrazione dei lavoratori stranieri

garantendogli un contratto di lavoro di un anno appena arrivati

in Germania, tutti i pagamenti per il viaggio e la sistemazione e,

infine, la garanzia di non essere licenziati durante tutto il primo

anno di lavoro.

In tali circostanze, la migrazione che caratterizzò la Germania

fino al 1973, anno in cui il boom economico tedesco e mondiale

declinò, fu legata a contratti di lavoro a termine, quindi a brevi

periodi di tempo, venendo definita migrazione temporanea69.

69 Cfr. Dustmann C, Earnings Adjustments of Temporary Migration, in Journal of Population Economics, 1993

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Lo studio sviluppato in Germania da Dustmann (1993) è

interessante perché considera nella fase della determinazione

delle ipotesi proprio la particolare condizione della migrazione

temporanea.

La domanda che si pone l’autore è se i risultati delle precedenti

analisi rimarrebbero uguali anche nel caso di migrazione

temporanea e anche se gli immigrati non fossero spinti solo

dalle buone condizioni del mercato del lavoro del paese

ospitante, ma anche dalle pessime condizioni del mercato del

lavoro della loro madre patria.

Le ipotesi che formula l’autore affermano che, innanzi tutto, il

lavoratore, in generale, dopo aver terminato il proprio corso di

studi continua a dedicare un certo periodo di tempo e di risorse

per acquisire professionalità e conoscenze, adatte ad un certo

tipo di lavoro.

Nel caso degli immigrati il percorso è più lungo perché, finché il

capitale umano da loro acquisito nel paese di origine non sarà

perfettamente trasferibile nel paese ospitante, questi dovranno

investire ancora in capitale umano adatto al nuovo paese.

Detto ciò, la funzione che individua il salario degli immigrati è la

seguente:

1) Ln Yit = lnEit + ln ( 1- Kit – μit )

Dove Yit sono i guadagni dell’immigrato i al tempo t, E it indica il

potenziale guadagno complessivo, Kit e μit sono le quote

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potenziali di guadagno destinate all’investimento in capitale

umano ( μit specifico del paese di destinazione).

Se è vera l’ipotesi per cui la quota di guadagno destinata

all’investimento si riduce nell’arco della vita lavorativa e rispetto

alla permanenza nel paese di destinazione, allora, il potenziale

guadagno complessivo, Eit, dell’immigrato dipende dal

guadagno che accumula prima e dopo la migrazione.

In base a queste assunzioni, l’autore, può costruire la relazione

che lega il salario degli immigrati ai diversi percorsi scolastici, ai

diversi livelli di esperienze professionali e alla durata del

periodo di soggiorno nel paese di destinazione:

2) Ln Yit = ln Ei + ln ( 1- Kit – μit ) + ri Si + ri Ki0 Ji – (ri ki0 / 2Ti) Ji2+ ρi μi0

Hi – (ρiμi0/2θi)Hi2

Dove Ei rappresenta il salario totale senza alcun investimento

in capitale umano, ri , ri e ρi sono rispettivamente, i tassi di

ritorno degli investimenti in capitale umano acquisito a scuola,

capitale umano generale e capitale umano specifico del paese

ospitante e insieme a K0 e μ0 sono assunte costanti tra gli

individui. Si sono i percorsi scolastici, Ji sono le differenti

esperienze lavorative e Hi la durata di residenza nel paese

ospitante.

La relazione indica quindi che le differenze dei salari degli

immigrati sono spiegate da differenti percorsi scolastici, da

differenti esperienze lavorative e dalla durata di soggiorno nel

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paese straniero. Da ciò, il tipo di investimenti in capitale umano

degli immigrati e quindi i loro salari, dipendono da quanto gli

immigrati si aspettano di rimanere nel paese di destinazione

(dove θ indica quanto gli immigrati si aspettano di rimanere

all’estero).

Se θ varia molto tra ciascun individuo, come avviene nel caso

della migrazione temporanea, questa variabile può spiegare,

secondo l’autore, le differenze salariali degli immigrati. Quindi,

investimento in capitale umano e salario dell’immigrato

dipendono entrambi da θ.

Una volta chiarite le ipotesi che hanno portato l’autore a

costruire la relazione tra le variabili, questi elabora i dati a sui

disposizione riguardanti il suo paese: la Germania.

Il campione in oggetto copre tutti gli uomini stranieri e nazionali

in un’età compresa tra i 16 e 65 anni, impiegati a tempo pieno

al momento dell’intervista.

Le variabili riguardanti il percorso educativo sono la misura del

periodo trascorso a scuola SCH; la variabile TRAIN che misura

gli anni di apprendistato per un particolare lavoro. Le variabili

che indicano l’età dell’individuo, AGE e quella che indica

l’esperienza lavorativa effettiva, EXP, che viene misurata dagli

anni durante i quali l’individuo è stato impiegato in un lavoro a

tempo pieno.

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Altre variabili incluse nell’analisi sono gli anni di soggiorno nel

paese ospitante, YSM, gli anni che l’immigrato intende ancora

trascorrere nel paese, YSTAY e il totale della durata di

residenza, TOTSTAY.

Riprendendo la relazione costruita in precedenza (n.1) l’autore

si pone due domande:

1. I salari degli immigrati, raggiungono quelli dei lavoratori

nazionali nella realtà empirica?

2. La breve durata di residenza nel paese ospitante, riduce i profili

salariali degli immigrati a causa degli scarsi investimenti in

capitale umano che ne derivano?

Per rispondere a queste domande l’autore stima la relazione

lineare con il metodo ordinario dei minimi quadrati (OLS). Le

stime vengono prima effettuate su un campione di soli lavoratori

nazionali e poi, inserendo una variabile dummy uguale ad 1 per

indicare i lavoratori stranieri, anche sui lavoratori immigrati.

L’autore ha rilevato per mezzo del test del chi-quadrato, che le

stime riguardanti i lavoratori stranieri soffrono di

eteroschedasticità che indica che le componenti casuali del

modello regressivo hanno varianze diverse. Quando ciò

avviene e si usa il metodo OLS, le varianze dei coefficienti di

regressione risultano sottostimate il che porta a rifiutare l’ipotesi

nulla ad un livello di significatività diverso da quello prefissato70.

70 Vedi nota 1 per la procedura di verifica di un’ipotesi statistica.

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Per ottenere appropriati stimatori delle varianze dei parametri

stimati, l’autore, usa un metodo suggerito da White (1980) il

quale usa una stima della matrice della covarianza

consistente71 e permette di estrarre le inferenze72 dai risultati

ottenuti con l’OLS senza specificare necessariamente la forma

dell’eteroschedasticità.

I risultati dell’analisi empirica indicano che, a dispetto di ciò che

accade per la migrazione permanente, la migrazione

temporanea mostra dei risultati non favorevoli per i salari degli

immigrati e non agevola la selezione positiva degli immigrati.

Inoltre, l’analisi mostra che la durata totale del soggiorno nel

paese ospitante influisce positivamente sugli investimenti in

capitale umano specifico del paese di accoglienza e quindi sul

salario degli immigrati.

Risulta importante, quindi, nello studio del fenomeno migratorio

distinguere tra migrazione temporanea e migrazione

permanente.

3.3.2 Gli effetti della disoccupazione sull’integrazione

economica degli immigrati nel paese di destinazione

71 La consistenza è una proprietà di cui gode uno stimatore quando al crescere dell’ampiezza campionaria fornisce ,con probabilità prossima ad 1, stime puntuali che tendono a coincidere col valore vero ma ignoto del parametro oggetto di stima.72 L’inferenza è il procedimento di generalizzazione dei risultati ottenuti dall’osservazione di un campione all’intera popolazione da cui il campione è estratto.

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La forte disoccupazione che caratterizza la maggior parte dei

paesi europei, come accennato in precedenza, porta a

considerare con particolare attenzione tale aspetto e ad

analizzare l’effetto che periodi di disoccupazione ripetuti

possono avere sull’andamento del mercato del lavoro e, in

particolare, sulle performances degli immigrati in un simile

contesto.

Per fare ciò è necessaria la costruzione di indici opportuni in

grado di formalizzare tale ipotesi e di inserirla all’interno della

relazione funzionale che mira, anche in questo caso, a

descrivere se esistano o meno differenziali salariali tra

immigrati e nazionali e se questi differenziali siano influenzati, e

in che misura, dalla disoccupazione.

Uno studio simile è stato elaborato per la Norvegia73, paese con

una storia di immigrazione relativamente recente che ha le sue

origini a partire dagli anni ’60.

La prima importante assunzione da cui parte l’analisi è che gli

studi con panel data sull’assimilazione salariale degli immigrati

devono separare l’effetto coorte dall’effetto anno di arrivo e dal

così detto period effect .

73 Cfr. Longva P. Raaum O, Uneployment and Earnings Assimilation of Immigrants, in Labour 16 (3), 2002

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Si può ipotizzare l’equal-period effect solo “se cambiamenti

nelle condizioni economiche del paese non hanno impatti

differenti sui guadagni degli immigrati e dei nazionali”74 .

Molti studi, quindi, sono partiti da tale semplificazione per non

trascurare dall’analisi i cambiamenti avvenuti, soprattutto

all’interno delle diverse coorti.

Nella realtà europea, però, tra gli anni ’70 e ’80 si è vissuto un

lungo periodo di disoccupazione che sicuramente ha generato

un qualche tipo di effetto sia sui salari dei lavoratori nazionali, si

su quelli dei lavoratori immigrati.

Gli studi sull’immigrazione devono porre attenzione al

fenomeno della disoccupazione e devono inserirlo nell’analisi

sui differenziali salariali tra immigrati e nazionali per capire se la

disoccupazione influisce diversamente sui due gruppi di

lavoratori e in che misura.

In uno studio Blanchflower e Oswald (1994) hanno stimato,

usando dati riguardanti numerosi paesi, una relazione negativa

tra la quota regionale di disoccupazione e il livello salariale

individuale. In generale, quindi si assume che la

disoccupazione regionale influisca sia sulle ore lavorative sia

sul livello orario del salario.

Si assume inoltre che i lavoratori immigrati siano più esposti

agli effetti della disoccupazione perché hanno meno esperienza

74 Cfr. G.J.Borjas Immigrant and Emigrant Earnings : A Longitudinal Sudy, in Economic Inquiry, 1989

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lavorativa nel paese di destinazione e possono essere soggetti

a discriminazione. Questo avviene per diversi ordini di motivi:

innanzi tutto il problema della ridondanza per gli immigrati è più

alto e la possibilità di essere reinseriti nel vecchio posto di

lavoro è più bassa per gli immigrati. Gli immigrati, poi, hanno un

potere contrattuale decisamente più basso dei lavoratori

nazionali e così hanno scarsi, se non nulli, strumenti per

difendere i propri posti di lavoro.

Terzo, l’incertezza, da parte del datore del lavoro, sul reale

livello di professionalità dell’immigrato, porta a salari inferiori

per gli immigrati. Tale premio (il salario inferiore) per il rischio

sostenuto dai datori di lavoro, aumenta quando aumenta la

disoccupazione perché aumentano anche i lavoratori nazionali

disponibili per coprire eventuali posti vacanti.

In fine, la possibilità che l’immigrato lasci il paese ospitante per

tornare nel suo paese di origine, rende meno appetibile la sua

assunzione rispetto alla possibilità di assumere un lavoratore

nazionale con pari qualità.

Dati questi presupposti, lo scopo dello studio è quello di

osservare in che modo la disoccupazione influisce sui salari dei

lavoratori immigrati.

I dati utilizzati nell’analisi coprono un periodo di dieci anni che

va dal 1980 al 1990.

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Si considerano età, sesso, stato civile, municipalità, o area

geografica in cui lavora l’individuo, ed il salario.

Gli immigrati sono definiti in base al loro paese di nascita e si

distinguono quelli provenienti da paesi OECD (Nordici, Nord

America, paesi europei OECD, Australia e Nuova Zelanda) e

quelli provenienti da paesi Non OECD (Europa dell’Est, Asia ,

Africa e America Latina).

Per guadagno mensile si fa riferimento a tutte le entrate da

lavoro, alle pensioni per malattia e ai sussidi di disoccupazione.

Il primo e fondamentale indice che si prende in considerazione

è la quota di disoccupazione regionale che misura le

opportunità lavorative per i partecipanti alla forza lavoro ed è

misurato per gli individui residenti nella municipalità i: u i = Σj eij

uj

Dove eij è la quota di lavoratori che lavorano nella municipalità i

ma vivono nella municipalità j.

Questo indice di disoccupazione regionale viene messo in

relazione con la quota di guadagno annuale di ciascun

individuo e con le classiche variabili individuali ( sesso, età,

livello di scolarità…) che influenzano il reddito:

1 ) log Yi = γ + α log ui + β Xi + εi

dove, Yi è il reddito annuale di ciascun individuo, i, u i è la quota

di disoccupazione regionale, Xi è il vettore di variabili qualitative

che influenzano il reddito, εi è l’errore.

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γ, α e β sono i parametri da stimare che indicano in che misura

le variabili ad essi associate influenzano Yi. In particolare, il

coefficiente che interessa in questa prima fase di studio è α che

indica l’elasticità del reddito del lavoro alla disoccupazione

Si assuma che α dipenda dalla reale composizione del reddito

annuale e che wi sia la quota di salario orario, si ha una nuova

relazione lineare:

2 ) Yi = wi hi ( 12- MUi ) + bwihi MUi

Dove, hi sono le ore lavorative mensili dell’individuo i, MU i è il

numero dei mesi di disoccupazione per ciascun individuo i, b

(compreso tra zero e uno) è il rapporto tra il contributo alla

disoccupazione e il ricollocamento al lavoro ed è costante e

indipendente dallo status di disoccupazione.

Facendo dei semplici passaggi matematici l’equazione n. 2 può

essere riscritta nel modo seguente:

3 ) log Yi = log wi + log hi + log [ 12- ( 1-b ) MUi ]

In questo modo l’elasticità alla disoccupazione ottenuta dai dati

sui salari annuali è la somma di tre effetti di disoccupazione

regionale:

L’effetto sul salario orario

L’effetto sulle ore lavorative per ogni mese (che riflette la scelta

del lavoro a tempo pieno o part-time)

L’effetto sulla disoccupazione individuale (effetto che può

essere interpretato come correlazione tra l’esperienza

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individuale di disoccupazione e il livello di disoccupazione

regionale).

La cosa migliore da fare per individuare l’effetto della

disoccupazione regionale sul livello del salario orario, sarebbe

quella di calcolare wi dall’equazione N. 3. Siccome a questo

punto si presentano dei problemi tecnici per cui hi non viene

osservato e MUi non è accuratamente misurato, l’autore

inserisce nella equazione N. 1 le informazioni sull’esperienza di

disoccupazione individuale:

4 ) log Yi = γ + α log ui + λ0H0i + λ1H1i + βXi + εi

dove, H0 è un vettore di variabili qualitative che indicano

l’incidenza della disoccupazione in quattro diversi casi

specifici75

H1 è un vettore, corrispondente ad H0, che raggruppa i numeri

dei mesi di durata di disoccupazione per ciascuno dei quattro

casi e serve a misurare la durata della disoccupazione.

La durata della disoccupazione calcolata in termini di mesi non

occupati è introdotta per eliminare l’effetto dell’ultimo termine

dell’equazione N.3

([ 12- ( 1-b ) MUi ] ) dove MUi non è accuratamente misurato.

In sintesi, nell’equazione N.1, l’elasticità alla disoccupazione, α,

è interpretata come un mix degli effetti della disoccupazione

75 I quattro stati di disoccupazione sono: disoccupazione a tempo pieno con e senza benefici, con l’inserimento in un programma nel mercato del lavoro e senza ricevere alcuna entrata retributiva. (Longva e Raaum 1998).

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regionale sulla disoccupazione individuale e sul reddito degli

individui occupati, mentre, nell’equazione N. 4, è solo uno degli

ultimi effetti.

Considerando εi, distribuito normalmente e indipendentemente,

con una deviazione standard costante, le equazioni 1 e 4

possono essere stimate con il metodo ordinario dei minimi

quadrati (OLS).

Tuttavia, i dati a disposizione, riguardanti la popolazione, sono

strutturati in gruppi e le alterazioni individuali sono

verosimilmente correlate tra ciascuna municipalità. Se tale

correlazione è trascurata gli errori standard sarebbero distorti.

Al contrario, per ottenere degli errori che tengano conto

completamente delle correlazioni tra individui nelle stesse

municipalità, l’autore suggerisce una procedura a due-step:

1. Si stimano le equazioni 1 e 4 a livello individuale di variabili e

con costanti specifiche per ciascuna municipalità

2. Si fa una regressione sul salario stimato per ciascuna

municipalità, correlandolo alla quota di disoccupazione

regionale ui, e ad altre caratteristiche delle municipalità.

I risultati dell’analisi, a questo livello di studio, portano a dire

che l’elasticità alla disoccupazione per gli immigrati provenienti

dai paesi OECD è simile a quella dei lavoratori nazionali,

mentre, il valore dell’elasticità degli immigrati provenienti da

paesi NON-OECD è tre volte superiore: la sensibilità del salario

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di questa categoria di immigrati, al variare dei tassi di

disoccupazione, è tre volte superiore rispetto a quella dei

lavoratori nazionali o degli immigrati provenienti dai paesi

OECD.

Una volta acquisita l’informazione che i livelli di disoccupazione

influiscono differentemente sui lavoratori nazionali rispetto ad

un certo tipo di immigrati, l’autore trova interessante inserire gli

effetti della disoccupazione regionale, nella sua analisi sui

differenziali salariali tra nazionali e immigrati, come proxy76 per

gli effetti dei diversi periodi.

Si ritorna, a questo punto, all’ipotesi iniziale per cui l’aumento

della disoccupazione, avvenuto durante il periodo che va dagli

anni ’80 agli anni ’90, presumibilmente abbia avuto un effetto

negativo sulla crescita media generale dei redditi.

I risultati dei primi test, poi, hanno dimostrato che l’influenza è

stata diversa a seconda dei gruppi di popolazione presi in

oggetto. Proprio questo aspetto può essere, secondo l’autore,

un fattore importante per analizzare i differenziali salariali degli

immigrati (in particolare di quelli provenienti da paesi NON-

OECD).

Per verificare il livello di assimilazione salariale degli immigrati

in un contesto di disoccupazione, l’autore usa l’ipotesi

76 La variabile proxy viene introdotta in un modello economico in quanto fornisce delle indicazioni sull’andamento di un’altra variabile, importante per il modello ma di per se stessa sconosciuta o di difficile quantificazione.

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semplificatrice dell’equal-period-effect ed in seguito, studia la

correttezza delle stime ottenute controllando le variazioni del

livello della disoccupazione regionale e il suo effetto

sull’assimilazione salariale degli immigrati. Si distinguono allora

due equazioni:

1 ) Log Yt = πt γI + βI Xt +αI log ut +τzt +ΦC + εIt Equazione

salariale per gli immigrati NON-OECD dove,

πt è una variabile dicotomica uguale ad 1 per il 1990 e zero per

il 1980;

γI è il period-effect ;

zt rappresenta gli anni di immigrazione;

C è il vettore di variabili qualitative per ciascuna coorte di

immigrati;

τ e Φ sono i parametri da stimare che indicano quanto e come il

periodo di immigrazione e la diversa coorte di appartenenza

influenzano il salario degli immigrati.

ε è l’errore.

2 ) Log Yt = πt γN + βN Xt +αN log ut + εNt Equazione

salariale per i lavoratori nazionali.

In particolare, nell’equazione riguardante gli immigrati, zt che

rappresenta gli anni di immigrazione, è una combinazione

lineare di periodo e coorte. Quindi, i tre effetti (periodo, anni di

immigrazione e coorte) non sono identificati separatamente.

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Unendo le due equazioni e indicando con I i una variabile

dummy uguale ad 1 per gli immigrati e zero per i nazionali, si

ottiene la seguente nuova equazione:

3 ) logY90 – logY80 = γN + βI I(X90 - X 80) + βN (1 – I)( X90 - X 80) + αI

I(logu90 logu80) + αN(1 – I)(logu90 - logu80) + δI + I(εI90 – εI80 ) + (1

–I)( εN90 – εN80).

Dove, δ = τ10 + (γI - γN ).

Se, come per ipotesi, γI = γN allora, δ misura l’effetto totale di

residenza di 10 anni nel paese ospitante per gli immigrati NON-

OECD.

δ viene quindi stimato con il metodo ordinario dei minimi

quadrati (OLS) con l’assunzione che l’errore sia zero e la

differenza dei termini di errore lungo il periodo abbia una

varianza costante.

I risultati portano ad osservare un declino dei salari degli

immigrati nel decennio ’80-’90 spiegato dalle differenti reazioni

dei salari all’aumentare della disoccupazione.

I risultati finali dell’analisi possono essere riassunti brevemente:

L’elasticità dei salari alla disoccupazione regionale è

sensibilmente maggiore per gli immigrati provenienti dai paesi

non OECD mentre, quella dei lavoratori stranieri OECD è simile

a quella dei lavoratori nazionali. In definitiva, alti livelli di

disoccupazione nel paese di destinazione riducono i salari degli

immigrati non OECD.

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Il declino dei salari relativi agli immigrati non OECD, tra gli anni

’80 e ’90, può essere spiegato dalle differenti reazioni dei loro

salari al crescere della disoccupazione.

In conclusione, il confronto tra i risultati del caso europeo e

quelli del caso americano mostra che l’immigrazione tende a

sostituire, sia pur debolmente, il lavoro dei nazionali nei paesi

dell’Europa continentale, mentre nel caso statunitense

l’immigrazione è prevalentemente complementare ai lavoratori

nazionali.

La prima spiegazione che viene spontaneo avanzare è che, tali

risultati sono determinati dal differente livello di mobilità interna

dei due mercati del lavoro: elevato in quello statunitense,

scarso in quello europeo. La scarsa mobilità dei lavoratori

europei è dovuta, in particolare, dagli elevati costi di

trasferimento, dalla rigidità del mercato immobiliare e dalle

barriere linguistiche per i lavori impiegatizi.

Tale interpretazione viene confermata da un lavoro austriaco

(Winter-Ebmer e Zweimuller 1999)77 in cui si rileva che l’effetto

dei lavoratori stranieri sul salario dei nazionali è trascurabile

quando lo si studia per settori. Tuttavia, quando i lavoratori

nazionali sono distinti in lavoratori disposti a muoversi (job-

changers) e lavoratori non disposti a muoversi (job-stayers),

77 Cfr. Winter-Ebmer e Zweimuller, Do Immigrants Displace Young Native Workers ? The Austrian Experience, in Journal of Population Economics 12 (2) pp 327-340, 1999

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l’impatto sui primi è positivo mentre è negativo l’impatto sui

secondi.

Le differenze sulla mobilità interna dei lavoratori nei mercati del

lavoro statunitense ed europeo sono note: uno studio

dell’OECD78 mostra che la quota di persone disposte a

muoversi all’interno di un paese è diminuita nel tempo ma,

assume valori più che doppi negli USA rispetto all’Europa.

Anche Canada e Australia hanno una mobilità interna superiore

a quella dell’UE ma inferiore a quella degli USA. Le migliori

performances degli immigrati in questi paesi risentono inoltre

delle politiche migratorie selettive.

A tale proposito, la Svizzera, con la sua politica selettiva, può

essere allineata a Canada e Australia e, in questo senso, si

stanno muovendo anche l’Inghilterra e la Germania non senza

critiche da parte dei paesi poveri da cui si origina la migrazione

3.4 I paesi del Sud Europa

Per i paesi sudeuropei esistono solo poche analisi empiriche confrontabili

con quelle dei paesi del Nord Europa e degli USA.

Il motivo di ciò è immediatamente comprensibile: il fenomeno migratorio in

questi paesi è ancora troppo recente.

78 Cfr. OECD, Employment Outlook, Paris, 1990

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Le indagini sulle forze lavoro sottostimano gli stranieri e forniscono

informazioni non rappresentative e questo perché la continua evoluzione del

fenomeno fa cambiare il quadro di riferimento in poco tempo.

Un esempio è fornito da uno studio italiano sull’area di Trento79.

Tale studio mostra che nel giro di un anno l’immigrazione di rifugiati jugoslavi

ha indotto lo sviluppo di attività irregolari che in precedenza non erano mai

state offerte dai lavoratori immigrati, provenienti dal continente africano.

Per analizzare il ruolo dei lavoratori stranieri nel mercato del lavoro dei paesi

del Sud Europa, può essere utile far riferimento alle esperienze e alle

conclusioni a cui sono giunti gli studi precedenti in USA e Nord Europa: tanto

più la politica migratoria di un paese è selettiva e si basa sugli skill

requirements, tanto più i lavoratori stranieri si integrano nel mercato del

lavoro del paese ospitante e hanno opportunità di avere successo. I

noltre, tanto più il mercato del lavoro del paese di destinazione è flessibile,

tanto più velocemente il mercato si adatta alla nuova situazione e tanto

meno competitivi saranno i lavoratori stranieri nei confronti dei nazionali.

Per quanto riguarda la politica migratoria di paesi come Spagna, Italia,

Portogallo e Grecia, le numerose e successive regolarizzazioni non sono

state né selettive né programmatiche. Se la normativa ha previsto, sulla

carta, un coordinamento tra necessità del mercato del lavoro interno e flusso

migratorio, la realtà ha dimostrato che l’accesso legale degli immigrati è

stato ristretto rispetto alla domanda80 e il collegamento tra domanda ed

offerta è esistito solo nel mercato informale.

Le caratteristiche, poi, del mercato del lavoro di questi paesi mostrano una

mobilità notevolmente inferiore sia rispetto al mercato statunitense, sia

rispetto ai mercati dei paesi nordeuropei.

79 Cfr. Borzaga, Carpita, Covi , Gli Immigrati ed il Lavoro in Trentino. Un tentativo di interpretazione dell’evoluzione più recente dl fenomeno, Dipartimento di Economia dell’Università di Trento, Working Papers,199580 In Italia nel 1995 era possibile un’autorizzazione all’accesso al lavoro solo per il personale domestico e poi, successivamente, è stato definito un tetto annuale di permessi stagionali ed annuali.

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In Italia, per esempio, lo studio dell’OECD (1990) prima citato, mostra che la

mobilità interregionale interessa solo lo 0,6% della popolazione.

Allo stesso modo, in Spagna dagli anni ’80 in poi, la mobilità interna riguarda

solo lo 0,4% della popolazione (Bentolila, Dolado 1991).

I motivi di questa scarsa mobilità vanno spesso ricondotti alla possibilità, per

il disoccupato, di godere del sostegno familiare che andrebbe perso nel caso

di uno spostamento. In più, a scoraggiare lo spostamento dei lavoratori in

presenza di elevatissimi differenziali di disoccupazione tra aree, sono anche

i costi maggiori della vita quotidiana nelle aree di destinazione.

In fine, quando il tasso di disoccupazione cresce anche nella zona di

potenziale destinazione, riducendo le opportunità di trovare un impiego, si

riduce ulteriormente la mobilità interna.

L’analisi precedente suggerisce che, generalmente, i lavoratori stranieri sono

complementari ai nazionali se è presente un eccesso di domanda di lavoro

non soddisfatta dai nazionali e se i loro skills sono complementari a quelli

dei nazionali.

Come ormai è noto, le caratteristiche dei lavoratori stranieri immigrati nei

paesi sudeuropei tra gli anni ’80 e ’90, sono quelle di essere poco o per nulla

qualificati e, se lo sono, non usano il loro titolo di studio nell’occupazione che

svolgono. Questi lavoratori, poi, si concentrano nei settori dell’agricoltura,

dell’industria tradizionale, delle costruzioni, dei servizi di ristorazione,

alberghieri e dei servizi alle famiglie.

Un tale tipo di lavoro, presumibilmente, compete con i lavoratori nazionali

così detti “deboli”: i giovani, le donne e i lavoratori manuale senza alcuna

professionalità.

A questo proposito, prima di analizzare gli studi empirici condotti nei paesi

del sud Europa, è utile inquadrare le condizione principali che caratterizzano

i mercati del lavoro dei paesi oggetto di analisi.

Il tasso di disoccupazione giovanile nei paesi sudeuropei è molto elevato.

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In Italia è passato dal 25,7% del 1990 al 33,6% del 1997 per poi scendere al

28,1% nel 2003. la Spagna, dal canto suo, è passata dal 32,3% nel 1990 al

37,1% nel 1997 fino a scendere notevolmente al 21,5% del 2003.

Diversamente dai primi due paesi, in Grecia la disoccupazione è salita dal

21,5% del 1990 al 31% nel 1997 fino a raggiungere il 28,1% nel 2003.

Anche il tasso di disoccupazione femminile in questi paesi è molto alto,

quasi il doppio di quello maschile: 6,1 per il Portogallo, 12,2 per l’Italia, 14,6

in Grecia e 16,3 in Spagna (dati OECD 2002).

Questi valori elevati della disoccupazione, sia giovanile che femminile, in

base ai risultati delle precedenti analisi per i paesi del Nord Europa e degli

USA e alle riflessioni che ne sono derivate, portano a pensare ad un

possibile effetto di spiazzamento degli immigrati sui segmenti deboli della

forza lavoro.

Un studio italiano che ha come obiettivo di verificare se gli

immigrati sono complementari o sostituti dei lavoratori nazionali

è quello effettuato da Venturini e Villosio nel 1999.

I dati raccolti dagli autori sono sistemati, all’interno di un arco

temporale che va dal 1990 al 1995, in una cross-section

composta da classi divise per: età dei lavoratori, livello

professionale, settore produttivo in cui sono impiegati i

lavoratori, dimensione delle industrie, area geografica in cui

sono impiegati i lavoratori.

Tali dati vengono elaborati secondo un procedimento a due stadi. Questo

tipo di procedura serve ad ovviare al problema della simultaneità che si

presenta quando le variabili di interesse non sono legate tra di loro solo dalla

relazione in oggetto:

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1) nella prima fase i dati a disposizione vengono messi in

relazione alla variazione del salario dei lavoratori nazionali e

non vengono considerati i lavoratori stranieri:

Δ log Wi = βXit + γDbr + ε

Wi è il salario individuale dei nazionali ed è la variabile dipendente;

Xit sono le caratteristiche personali (età e professionalità) dei lavoratori;

Dbr rappresenta le variabili qualitative di area geografica e settore di

produzione.

In questa prima fase, quindi, i coefficienti β e γ servono a capire quanto peso

hanno, nella variazione del salario, le variabili che considerano le

caratteristiche personali dei lavoratori e quelle di settore e area geografica.

2) Nel secondo stadio i coefficienti delle dummies corretti sono

spiegati, oltre che da variabili di controllo della variazione della

domanda, dalla quota di stranieri per regione e settore.

γ Δ F seγ b, r, t = ψ seγ b, r, t + φ seγ b, r, t + λT + vB + σR + U

la variabile dipendente, in questo caso, rappresenta i valori residui delle

dummies di area e settore.

La relazione che si vuole studiare è quella che intercorre tra la

quota media della crescita del salario dei nazionali nel tempo,

per regione e per settore produttivo e : il tasso di variazione del

prodotto per ogni settore produttivo e per ogni regione (Δ Y) e il

tasso del flusso di immigrazione all’interno del mercato del

lavoro F (questo viene calcolato come la differenza del rapporto

tra lavoratori immigrati e lavoratori nazionali in due periodi

nell’arco di cinque anni, dal 1990 al 1995).

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Vengono introdotte, poi, variabili T, per catturare i comuni shocks economici

e si separano le variabili qualitative di regione R e di branca produttiva B, per

catturare le variazioni residue del salario.

Per misurare la bontà della regressione si usa il coefficiente di Pearson R2

che, essendo un indice di determinazione, misura la bontà della regressione,

ossia, quanto la funzione di regressione si avvicina dalla realtà empirica

osservata.

La procedura a due stadi aiuta a prevenire i problemi di sottostima degli

errori quando alcune variabili esplicative appaiono a livelli superiori di

aggregazione. Quando si presenta un caso simile i coefficienti stimati sono

consistenti ma non efficienti81.

Un possibile problema che si può presentare nella stima della seconda

equazione sta nel fatto che gli immigrati sono tipicamente attratti dalle aree

geografiche e dai settori produttivi con salari maggiori. In questo caso una

tale equazione stimerebbe la distribuzione degli immigrati più che l’impatto

della loro presenza sui salari dei lavoratori nazionali. Per ovviare al problema

non bastano le osservazioni di ciò che è accaduto nel passato poiché

insieme al livello corrente del salario, ciò che attrae gli immigrati è la

prospettiva di futuri guadagni.

Un ulteriore studio (Venturini, Villosio 1999) tuttavia, ha analizzato il rapporto

di correlazione tra i salari e la quota di immigrati, per ogni anno a partire dal

1989 fino al 1995, e ha dimostrato che i coefficienti di correlazione che ne

risultano sono negativi e che quindi il livello del salario non è il solo motore

che spinge gli immigrati verso alcune aree piuttosto che altre. La prospettiva

di trovare un impiego, sembra essere un fattore più significativo rispetto al

livello dei salari che è possibile ottenere.

81 L’efficienza è una proprietà di uno stimatore. Se θ è il valore vero e ignoto di un parametro oggetto di stima e t è uno stimatore, t è detto efficiente se fornisce stime che in media sono più vicine a θ di quelle fornite da un altro stimatore (efficienza relativa) o da ogni altro stimatore ( efficienza assoluta).

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I risultati dell’analisi dimostrano un effetto positivo, quindi

complementare, degli immigrati sul mercato del lavoro italiano.

Questi effetti vengono amplificati tra i lavoratori così detti blu-collar che

lavorano nel nord del paese e in industrie di dimensioni medio-piccole. Nel

resto del paese l’effetto dei lavoratori immigrati è insignificante e soprattutto

lo è per i così detti white-collar.

Questo tipo di risultati si accosta a studi simili (Borjas 1990) negli USA ma è

molto diverso da ciò che si è osservato in altri studi europei (De New,

Zimmermann 1994 in Germania).

Per spiegare le differenze tra il presente studio sull’Italia e quelli condotti in

Germania, gli autori considerano innanzi tutto la particolare situazione di

mismatch tra domanda e offerta di lavoro in alcune aree dell’Italia e l’effetto

positivo che in una simile realtà avrebbe la presenza di manodopera

immigrata, che farebbe incontrare la domanda con l’offerta di lavoro. In un

secondo momento però, gli autori osservano anche che, col passare del

tempo e con nuovi flussi migratori, i lavoratori stranieri saturano il mercato

del lavoro e diventano competitivi, avendo quindi un effetto negativo sul

mercato del lavoro del paese che li ospita.

Questo spiega le differenze nei risultati degli studi condotti in Germania sul

medesimo argomento: l’Italia, infatti, è un paese di recente immigrazione

mentre, la Germania, ha una storia di immigrazione che risale alla Seconda

Guerra mondiale e ciò avrebbe influito negativamente sui risultati dei recenti

studi sugli effetti dell’immigrazione nel paese tedesco.

L’analisi, allora, prosegue per rispondere alla domanda se esista o meno un

effetto diverso da quello positivo a causa di flussi aggiuntivi di immigrati

(come per la Germania).

Per poter considerare i nuovi flussi migratori, gli autori, introducono una

variabile riguardante l’effetto di un flusso aggiuntivo di immigrati a partire dal

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1989 (così da includere la sanatoria del 1990/91). Il rapporto tra tale

variabile e l’ammontare dei lavoratori stranieri, per settore e regione,

costituisce il regressore Ebr utile a catturare l’effetto di flussi aggiuntivi di

immigrati che dovrebbero condurre alla saturazione del mercato del lavoro e

alla fine dell’effetto complementare degli immigrati rispetto ai lavoratori

nazionali.

Il metodo di analisi rimane quello a due stadi usato in precedenza.

I risultati dell’analisi dimostrano che l’effetto di un flusso aggiuntivo di

immigrati è positivo ma non lineare: cresce a tassi sempre minori.

Si osserva infatti che esiste un livello cruciale di immigrati oltre il quale

l’effetto, che questi hanno sul mercato del lavoro, diventa negativo.

La diminuzione dell’effetto complementare e l’inizio di quello sostitutivo si

avvertono per quote maggiori di immigrati tra i blu-collar del nord del paese

e nelle piccole industrie. Per le altre categorie di lavoratori e nelle altre zone

del paese l’effetto negativo si avverte per quote minori di immigrati.

Nel caso spagnolo, Dolado, Jimeno e Duce (1996)82 tentano di osservare

l’effetto della regolarizzazione del 1991 sull’occupazione totale nazionale,

sull’occupazione dei lavoratori poco qualificati nazionali e sul differenziale

salariale tra lavoratori qualificati e non-qualificati nazionali.

A tale scopo gli autori usano una cross-section di 50 province in un arco di

tempo che va dal 1990 al 1992.

La quota di lavoro straniero è ricavata confrontando i permessi di lavoro con

l’occupazione totale di ogni provincia.

I risultati mostrano che l’effetto dell’immigrazione sui salari dei lavoratori

non-qualificati è positivo mentre, è positivo e non significativo l’effetto sul

salario dei lavoratori qualificati. L’effetto dell’immigrazione sull’occupazione

82 Cfr. Dolado, Jimeno e Duce, The effect of Migration on the relative Demand of Skilled versus Unskilled Labour:Evidence from Spain, CEPR Discussion Paper, 1996

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dei lavoratori non qualificati è negativo, ma non significativo, mentre è

positivo e significativo sull’occupazione aggregata.

Anche in questo caso le ipotesi degli autori, inizialmente, sono che per

basse quote di immigrazione l’effetto è positivo ma che, con l’aumentare del

flusso, la complementarità diminuisce gradualmente soprattutto tra le classi

di lavoratori più deboli.

Un altro studio, effettuato sempre in Italia, ha come obiettivo

quello di identificare le variabili che giocano un ruolo

significativo nella determinazione del salario degli immigrati (in

particolare in due regioni: il Lazio e la Campania).

Per svolgere l’analisi econometrica sulle determinanti dei salari degli

immigrati in questo lavoro (Baldacci-Inglese-Strozza 1999)83 si è usata la

così detta statistical earning function per misurare gli effetti di diverse

covarianze individuali sui livelli salariali.

La forma generale di tale funzione è la seguente:

1 ) ln wi = f(si + hi + zi ) + ui

dove, wi è il salario, si è una variabile che rappresenta il livello di scolarità, h i

indica lo stock di capitale umano e zi è un vettore che racchiude variabili

individuali. ui è l’errore.

L’uso del logaritmo può essere spiegato da due punti di vista. Da un punto di

vista teorico tale modello (1) può essere derivato da una equazione generale

sul capitale umano che metta in relazione il numero di anni di frequenza

scolastica, s, con il livello di reddito, y e con il rendimento derivante

dall’investimento nell’istruzione, r:

2 ) lny = rs +u

tale equazione permette di stimare direttamente la quota di rendimento

dell’istruzione.83 Cfr. Baldacci E, Inglese L, Srozza S, Determinants of Foreign Workers’ Wages in Two Italian Regions with Illegal Immigration, in Labour, 1999

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Da un punto di vista statistico, l’uso del logaritmo è dovuto ad una possibile

distribuzione eteroschedastica dell’errore che porta a stime distorte. Se si

assume che la distribuzione delle quote dei salari ha un alto livello di

dispersione84, la forma logaritmica può far fronte parzialmente al problema.

Una volta scelta la funzione (1), seguendo la teoria del capitale umano,

vengono aggiunte al modello variabili sull’età e sulla durata dell’ultima

occupazione come proxy dell’esperienza lavorativa.

Lo stock di capitale umano viene approssimato con l’uso di un gruppo di

variabili che sono il numero degli anni di frequenza scolastica, variabili che

indicano l’acquisizione di un livello superiore di educazione e, infine, variabili

sull’esperienza lavorativa.

Per completare la specificazione, vengono introdotte una serie

di variabili che tentano di cogliere tutti gli effetti essenziali del

fenomeno immigratorio e che possano influire in qualche modo

sui livelli salariali:

a) variabili qualitative per individuare le caratteristiche dell’attuale lavoro

dell’individuo, 1 dummy per indicare i lavoratori dipendenti e non e due

indicatori per individuare le condizioni (povere) del lavoro rispetto agli orari e

alla location. Entrambe le ultime due variabili sono molto importanti per

verificare lo sfruttamento degli immigrati e sono ritenute a priori

negativamente correlate al livello salariale.

b) un gruppo di variabili socio-demografiche che influiscono sui livelli salariali

come il sesso e la variabile figli a carico.

84La dispersione è l’ attitudine di un fenomeno a manifestarsi secondo modalità diverse tra loro. La dispersione viene misurata attraverso indici di dispersione che prendono il nome di indici di dispersione o di variabilità. Gli indici di dispersione possono essere assoluti o relativi. I primi sono espressi nella stessa unità di misura impiegata nella rilevazione i secondi sono liberati dall’influenza dell’unità di misura adottata per la rilevazione e consentono il confronto tra le variabili di fenomeni diversi. A questo gruppo appartengono gli indici normalizzati essi variano tra zero e uno e questi due valori indicano i casi estremi di assenza di variabilità e di massima variabilità.

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c) tre variabili che riflettono il processo e il tipo di immigrazione:

durata totale di residenza in Italia; status di immigrato illegale;

un indice della conoscenza della lingua italiana.

d) un gruppo di variabili che indicano il settore produttivo in cui gli immigrati

sono impiegati: manifatturiero, commerciale e altri servizi.

La funzione del salario viene, infine, compattata in una funzione

matriciale con cinque matrici che includono le variabili

demografiche, le variabili sul processo di immigrazione,

indicatori di capitale umano, le condizioni del mercato del lavoro

e le condizioni n cui si trovano a lavorare gli immigrati:

3 ) y = α + X1 β1 + X2 β2 + X3 β3 + X4 β4 + X5 β5 + u

dove y è il vettore che indica il logaritmo naturale del salario mensile (ln W)

di ciascun individuo del campione, βj è un vettore di parametri per il gruppo

generico di variabili j e u è l’errore standard.

Alcuni problemi possono presentarsi nella stima dell’equazione (3) usando il

metodo ordinario ei minimi quadrati:

Prima di tutto, se le abilità personali non vengono considerate nelle analisi,

allora, le variabili omesse dalla funzione possono influenzare i risultati e

renderli distorti.

Un secondo problema che presenta la stima per mezzo dell’OLS è che i

residui85 possono avere distribuzione eteroschedastica anche dopo la

trasformazione in logaritmo della variabile dipendente. In questo caso lo

stimatore detto dei minimi quadrati generalizzati (GLS) potrebbe essere

adottato per avere una stima efficiente e un corretto test delle ipotesi.

In fine, il problema più rilevante è quello detto della sample selectivity.

85 Differenze tra i valori osservati della variabile dipendente e quelli teorici forniti dalla funzione.

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Questo problema sorge quando si deve stimare una funzione

del salario usando un sotto-campione in cui tutte le

osservazioni presentano un valore positivo della variabile

dipendente (il salario). Escludere dal campione coloro che non

lavorano può portare all’autoselezione del campione, rendendo

la media della distribuzione residuale, diversa da zero e

correlata con la variabile indipendente. Per ovviare a questo

problema che rende le stime dell’OLS inconsistenti e distorte

verso il basso si può usare una procedura a due stadi:

nel primo stadio viene applicato all’intero campione un modello

di probabilità lineare in cui la variabile dipendente è una dummy

che assume valore positivo per le unità con salario positivo,

mentre assume valore uguale a zero per tutte le altre variabili.

Le stime dell’OLS previste da questo tipo di modello vengono

trasformate sottraendole a ciascuna unità e la nuova variabile

viene usata nel modello della funzione salariale ristretto al

campione con valori solo positivi dei salari.

Quando viene usata la procedura a due stadi, lo stimatore

ordinario dei minimi quadrati diventa consistente e può essere

addirittura più affidabile di altri stimatori, specialmente quando il

campione è sufficientemente ampio.

Dall’analisi emergono chiaramente le differenze nell’integrazione al mercato

del lavoro, tra uomini e donne e per diverse aree geografiche. Lo stato di

legalità dell’immigrato, il sesso e il paese di origine sono fattori così

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significativi da non poter essere omessi nell’analisi così come lo sono le

condizioni in cui lavorano gli immigrati, il settore di produzione ed il tipo di

lavoro svolto dai lavoratori stranieri.

L’effetto del sesso del lavoratore, sui salari, non è significativamente diverso

da zero ma la nazionalità dell’immigrato è molto significativa (la provenienza

dall’Africa o dall’America Latina riduce sensibilmente il livello salariale

dell’immigrato). I livelli salariali, poi, sono positivamente correlati all’età e al

livello di esperienza professionale. In generale il capitale umano ha un

impatto positivo sui salari: un alto livello di educazione e la conoscenza della

lingua italiana hanno un effetto positivo e significativo sul salario. Per quanto

riguarda il settore produttivo emerge l’esistenza di bassi salari medi per il

settore dell’agricoltura e dei servizi domestici.

Infine, lo stato giuridico degli immigrati è determinante per il loro livello

salariale: gli immigrati legali mostrano un coefficiente positivo.

Riguardo questo ultimo aspetto, i paesi sud-europei hanno una lunga storia

di lavoro irregolare che, in parte, funziona da richiamo per l’immigrazione

illegale. E’ importante allora sottolineare, in un’analisi empirica, gli effetti

dell’immigrazione irregolare nel mercato del lavoro del paese di

destinazione.

Per valutare se esiste spiazzamento da parte dell’immigrazione irregolare,

rispetto all’occupazione regolare in Italia, Venturini (1999)86, usa stime

dell’Istat delle unità di lavoro irregolare. Tali stime comprendono varie voci

tra cui sono presenti gli stranieri che rappresentano la voce di componente

di lavoro irregolare in maggior crescita. La stima viene effettuata su di una

funzione di produzione differente per vari settori in un periodo che va dal

1980 al 1995.

L1it = a1 + b10 Yit + b11 W1it + b12 W2it + b13 W3it + e1it

86 Cfr. Venturini A. Do immigrants Working illegally Reduce the Native’s Legal Employmentin Italy? In Journal of Population Economics, 1999

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L2it = a2 + b20 Yit + b21 W1it + b22 W2it + b23 W3it + e2it

L3it = a3 + b30 Yit + b31it W1it + b32 W2it + b33W3it + e3it

Dove Ljit è la domanda di lavoro di tipo j ( con j = 1 per il lavoro regolare; j = 2

per il lavoro irregolare nazionale; j = 3 per il lavoro irregolare straniero), al

tempo t nel settore i.

I risultati aggregati mostrano che l’attività dei lavoratori nel settore informale,

in generale, spiazza l’occupazione formale ma l’impatto è trasurabile. In

particolare, un aumento dell’1% del lavoro irregolare degli stranieri riduce

dello 0,01% l’occupazione regolare.

Un aumento dell’attività irregolare dei nazionali ha un effetto più pronunciato

sul lavoro regolare (-0,02%).

Questo si spiega perché i nazionali che lavorano irregolarmente sono più

omogenei ai nazionali che lavorano nel mercato regolare e quindi sono più

competitivi.

L’effetto competitivo tra lavoratori stranieri irregolari e lavoratori nazionali

regolari non è uniforme per tutti i settori: settori come l’agricoltura e le

costruzioni sono maggiormente danneggiati dal fenomeno mentre, settori

come i servizi non destinabili alla vendita non subiscono nessun danno.

La competizione più elevata, in assoluto, è quella presente nell’agricoltura

dove l’effetto dei lavoratori irregolari nazionali sul lavoro regolare è pari a –

5,5% mentre quello degli stranieri al –3,8%.

In generale, da questa analisi si deduce che l’effetto del lavoro straniero

irregolare sul lavoro regolare dei nazionali è negativo ma varia da settore a

settore e che, in ogni modo, i danni maggiori li provoca il lavoro irregolare

nazionale.

La rassegna empirica presentata evidenzia come sia difficile generalizzare le

conclusioni in merito agli effetti economici della migrazione e, quindi,

estrarne regole da estendere a tutti i paesi interessati da tale fenomeno.

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Tale difficoltà deriva soprattutto dai diversi contesti storici, territoriali ed

economici in cui agisce il fenomeno migratorio.

I paesi del Sud Europa, date le premesse teoriche e le esperienze dei paesi

Nord Occidentali, avrebbero dovuto presentare una realtà fortemente

competitiva tra lavoratori immigrati e lavoratori nazionali.

Questo per via dell’alto livello di disoccupazione presente in tali paesi, la

scarsa flessibilità del mercato del lavoro e la bassa mobilità interna, senza

dimenticare le politiche migratorie poco selettive.

In realtà gli studi empirici effettuati hanno dimostrato che lo piazzamento è

poco significativo e che, in questi paesi, l’effetto più importante di

competizione si è riscontrato, in definitiva, all’interno della particolare realtà

dell’economia sommersa e in particolari settori, quali l’agricoltura e le

costruzioni, dove gli skills professionali richiesti sono praticamente assenti e

la mancanza di contratti e costi di licenziamento rendono minori i costi di

produzione.

Nell’economia regolare la competizione salariale può essere stata ridotta

dalla fissazione delle retribuzioni, attraverso la contrattazione nazionale

nonché, dalla discriminazione dei datori di lavoro che assumono stranieri

solo in assenza di lavoratori nazionali disponibili.

In generale, la visione che deriva da tale analisi è che, per i paesi del Sud

Europa, l’effetto ancora contenuto della migrazione è causato da una

incidenza limitata di questi lavoratori sul mercato del lavoro.

Nel contesto generale, il problema che si pone di fronte a tutti i

paesi di destinazione, ed in particolare ai nuovi paesi (Italia,

Spagna, Portogallo e Grecia) è quello di sviluppare una

adeguata politica migratoria che tenga conto sia dell’elevata

disoccupazione interna dei lavoratori nazionali, che li spinge

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verso politiche di chiusura, sia del progressivo invecchiamento

della popolazione attiva, dovuto al basso tasso di natalità che,

invece, li dovrebbe portare ad aprire il mercato del lavoro agli

immigrati.

Anche la grande segmentazione interna dei mercati del lavoro è un

elemento importante da considerare nella scelta di una buona politica

migratoria: la disoccupazione può essere generata non solo da fattori

quantitativi ma anche da fattori qualitativi. E’ verosimile, infatti, che il tasso di

disoccupazione possa crescere per effetto di un mismatch tra domanda e

offerta di lavoro e che questo mismatch possa essere alimentato dalla

presenza di lavoratori con qualifiche diverse da quelle dei nazionali che

disincentivano l’adeguamento della tecnologia produttiva all’offerta di lavoro.

Se nel breve periodo i test empirici, nei paesi sud-europei, non hanno

riscontrato un effetto totalmente negativo degli immigrati sul mercato del

lavoro nazionale, le caratteristiche delle politiche migratorie, poco selettive, e

dei mercati del lavoro, poco flessibili, possono trasformare il ruolo

dell’immigrazione da neutrale, o positivo, a negativo.

4. Evoluzione del fenomeno migratorio in Italia

4.1 Gli italiani nel mondo

Dopo il boom economico degli anni ’50, il nostro paese è

riuscito ad emergere da una condizione di pesante arretratezza

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economica che, per diversi decenni, aveva costretto molta parte

della popolazione ad emigrare verso paesi più ricchi ed in grado

di garantire, almeno sulla carta, prospettive di una vita migliore.

Tra la seconda metà del secolo XIX e la prima guerra mondiale,

Il lento e difficile sviluppo dell’economia del paese e dall’altro

lato, il rapido progresso dei paesi d’oltre oceano, spinsero i

lavoratori italiani ad emigrare, attratti dalle opportunità di lavoro

e da una vita più decorosa.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale il fenomeno migratorio

interessò l’Europa e negli stessi anni, anche i paesi del nord

dell’Italia, determinando in tale ultimo caso una migrazione

interna dalle aree meno sviluppate e prevalentemente agricole

del sud, verso il ricco nord industrializzato.

L’emigrazione italiana, pur essendo diminuita drasticamente

intorno agli anni ‘70, è ancora una realtà del nostro paese

anche se ha assunto caratteristiche differenti rispetto al

passato.

Infatti, nell’ultimo decennio si sono registrati esodi di lavoratori

specializzati verso paesi esteri che offrono migliori prospettive

di realizzazione professionale ed economica, determinando la

così detta fuga dei cervelli.

Tale definizione si riferisce in particolare a tutte le migrazioni di qualità come

le migrazioni intellettuali, quelle di lavoratori altamente o iper-specializzati e

quelle di particolari talenti dello sport e dell’arte.

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La fuga dei laureati italiani all’estero è un fenomeno di cui

spesso si discute senza, però, l’appoggio di dati significativi.

Analizzando i flussi di laureati italiani che vanno all’estero il

fenomeno appare drammatico ed in crescita. Mentre all’inizio

degli anni ’90 meno dell’1% dei nuovi laureati emigrava

all’estero, alla fine degli anni ’90 circa il 4% dei nuovi laureati

lascia l’Italia87 .

I dati più recenti evidenziano tre aspetti del fenomeno: innanzi

tutto, la percentuale di laureati che lascia il paese è

quadruplicata tra il 1990 e il 1999.

In secondo luogo, tale tendenza all’aumento, è comune a

laureati sia che provengono dal nord sia che provengono dal

sud dell’Italia. Tuttavia, in termini assoluti è il nord ad avere la

maggiore emorragia di laureati. Nel 1999 il 7% dei laureati del

nord ha lasciato il paese contro solo il 2% dei laureati del sud.

Da ultimo, negli anni ’90 sono aumentati non soltanto i laureati

(con un’età compresa tra i 26 e i 45 anni) che lasciano il paese,

ma anche la percentuale di emigranti con età superiore a 45

anni e con laurea è più che quadruplicata tra il 1991 e il 199988.

In particolare tale crescita non pare essere stata bilanciata da

laureati di altri paesi che si sono trasferiti in Italia.

87 analisi AIRE Anagrafe Italiani Residenti all’Estero88Cfr. Becker,Ichino e Peri "How Large is the Brain Drain from Italy ? 2000

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Le destinazioni di questi laureati sono all’interno dell’Europa per

lo più Francia, Germania e Regno Unito, gli USA tra i paesi

esteri.

Anche molti altri paesi dell’Unione Europea sono stati

interessati da questo tipo di esodo. L’Europa, infatti, nonostante

abbia il numero di dottorati più alto rispetto agli altri paesi,

proporzionalmente ha il numero di ricercatori minore: questi

sono il 5,36 per mille rispetto alla popolazione attiva contro

l’8,66 degli USA e il 9,72 del Giappone. Partendo da questi

numeri e da altre ricerche condotte su di un campione di 769

centri di ricerca pubblici, la Commissione europea ha deciso di

intraprendere nuove azioni al fine di arginare la fuga dei

cervelli.

Se si considera che autorevoli studi89 dimostrano che nei paesi

avanzati l’aumento del capitale umano è responsabile di una

importante fetta della crescita economica, emerge la gravità del

fenomeno ed i conseguenti problemi che possono derivare da

tale tipo di emigrazione.

Jones (2002)90 mostra che per gli USA un terzo della crescita

nel reddito pro-capite dal 1950 ad oggi è dovuto alla maggiore

istruzione. I laureati, infatti, sono la parte della forza lavoro che

89 Cfr. Lindsay Lowell B, Findlay A, Migration of High Skilled Persons from Developing Countries: impact and Policy Responses in International Migration Papers n. 44- ILO, Geneve90 Cfr. in Becker,Ichino e Peri "How Large is the Brain Drain from Italy ? 2000

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promuove la ricerca, l’innovazione e talvolta anche

l’imprenditoria.

L’Italia, dunque, a partire dalla metà degli anni ’90 ha perso un

ingente volume di capitale umano poiché, dal 1996, la

percentuale di laureati tra gli emigranti è risultata maggiore di

quella della popolazione residente, così che il capitale umano

pro-capite (non solo quello totale) si è ridotto a causa del flusso

migratorio.

La crescente perdita di cervelli può avere, quindi, conseguenze

gravi per la crescita di un paese.

Esaminando in generale il fenomeno dell’emigrazione italiana,

risulta che attualmente sono 4 milioni gli emigrati italiani che

risiedono all’estero e oltre 60 milioni gli oriundi, discendenti dei

vari flussi migratori che hanno caratterizzato l’Italia del secolo

scorso91.

Con i 4 milioni di connazionali sparsi in 198 paesi del mondo,

l’Italia, tra i paesi dell’UE, è quello con il più alto numero di

emigranti e, a livello mondiale, tra i paesi sviluppati, è quello

con la più alta incidenza di cittadini emigrati rispetto alla

popolazione presente nel paese: a fronte di 100 italiani che

vivono in patria ve ne sono 7 che risiedono all’estero,

rappresentando così il 2,5% dei 175 milioni di emigranti nel

mondo92.

91 Cfr. Caritas Dossier Statistico Immigrazione 2003 elaborazione dati Aire ed Anagrafe Consolare.92 Stime ONU- Population Division, NY

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In merito ai paesi di destinazione, l’emigrazione italiana ha

interessato maggiormente l’Europa con 2.236 milioni di

presenze. L’altro grande polo di attrazione per chi parte

dall’Italia è il continente americano nel quale sono presenti

attualmente 1.517 milioni di italiani. Rispetto al 2001, inoltre, vi

è stato un incremento di oltre 40 mila unità nei paesi

dell’Unione Europea ed un decremento di circa 10 mila per i

paesi dell’America Latina.

La Germania con 718.563 soggiornanti italiani è il paese che ne

ospita di più, seguita dall’Argentina con 587.434 e dalla

Svizzera con 521.146 [Grafico 1].

Grafico 1

Fonte: Aire-Anagrafe Consolare

Per quanto riguarda le regioni di origine degli emigranti italiani

nel mondo, per avere una visione di insieme si possono

suddividere le province italiane in tre fasce. Un primo gruppo di

province, 25, ha oltre 50 mila emigrati e comprende, da un lato,

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le province meridionali, caratterizzate storicamente dalla

migrazione, dall’altro, le province dei grandi centri urbani del

centro-nord.

Un secondo gruppo comprende 52 province con un numero di

emigrati maggiore di 10 mila unità. Si tratta di numerosi

capoluoghi di medio piccole dimensioni (ad esempio Vibo

Valentia, Benevento, Siracusa) che negli anni passati hanno

sperimentato un consistente flusso in uscita di migranti.

In questo caso gli emigrati, pur non essendo un numero alto in

assoluto, hanno avuto un’incidenza del 15% sui residenti, che

rappresenta il doppio della media nazionale.

Il terzo gruppo comprende un segmento di poche province che

hanno avuto un flusso di migranti in uscita inferiore alle 10 mila

unità e che sono state toccate dal fenomeno migratorio solo

marginalmente. La maggior parte di queste province si trova

nella zona nord-occidentale del paese.

Se fino agli anni ’70 l’Italia, è sempre stata, dunque, un paese

di partenza della migrazione, in quello stesso periodo si è

trovata, quasi inconsapevolmente, trasformata da paese di

emigrazione a paese di immigrazione.

4.2 L’Italia come paese di immigrazione

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Il repentino cambiamento che ha subito l’Italia diventando, da

paese di emigrazione, paese di immigrazione, è stato generato

da una molteplicità di cause.

Dalla metà del novecento, il paese ha vissuto una fase di

espansione economica che ha portato all’aumento del

benessere interno e al miglioramento della qualità della vita.

Conseguentemente c’è stata una diminuzione di interesse

all’emigrazione da parte dei connazionali ed un aumento di

attrattiva, verso il nostro paese, da parte dei lavoratori dei paesi

più poveri. Un ulteriore e determinante elemento di attrazione

verso l’Italia è stato il progressivo invecchiamento della

popolazione che, in generale, ha investito tutti i paesi ricchi del

Mondo.

Infatti, le società che invecchiano hanno bisogno di più forza

lavoro nel settore dei servizi personali e tale forza lavoro è,

sempre di più, rappresentata dagli immigrati. Accanto a questo

motivo prettamente demografico è sicuramente presente un

aspetto di carattere strettamente economico: la forte presenza,

nel nostro paese, di un doppio mercato, regolare ed irregolare,

ha stimolato la domanda di lavoro immigrato più a buon

mercato.

Infine, non è da sottovalutare, ai fini dell’espansione del

fenomeno immigratorio nella penisola, l’evoluzione di una

società nuova per stile di vita e di cultura. L’espandersi dei

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contatti culturali ed economici con gli altri paesi, infatti, ha

stimolato la mobilità internazionale trasformando il nostro paese

in un bacino di accoglienza per numerose e variegate

nazionalità.

Il numero dei residenti stranieri è aumentato, quindi, da 143.838

nel 1970 a 300.000 nel 1980 raggiungendo verso la metà degli

anni ’80 il mezzo milione. In seguito, negli anni ’90 il flusso di

popolazione straniera è cresciuto tanto da raggiungere la quota

di circa un milione e mezzo di stranieri [grafico 2].

Grafico 2

Fonte: ISTAT

I dati del Ministero dell’Interno, elaborati dall’Istituto Nazionale

di Statistica, permettono di descrivere un quadro generale delle

presenze degli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia,

controllandone la diversificazione e la continua evoluzione. Il

trend di crescita che si è andato delineando a partire dagli anni

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’90 viene confermato dalle oltre 700.000 domande di

regolarizzazione presentate fino a novembre 2002 e convertite

in permessi di soggiorno nell’arco del 2003. Ad oggi le

presenze regolari degli stranieri rappresentano circa il 4% della

popolazione, pari a 2.400.000 stranieri, compresi i 700.000 che

hanno presentato la domanda di regolarizzazione.

La particolare posizione geografica del nostro paese, fin dai

tempi più antichi, ha fatto si che l’Italia abbia rappresentato, da

sempre, l’approdo per una moltitudine di popolazioni

provenienti dai più diversi paesi del mondo.

Molto spesso la penisola non è stata altro che una via di

passaggio per mete più remote, altre volte, invece, ha

rappresentato la vera e propria destinazione di viaggi più o

meno lunghi. Questo valeva nel passato così come continua a

valere nel presente.

L’Italia costituisce, infatti, il crocevia per i flussi immigratori che

provengono sia dall’Africa settentrionale che da quella sub-

sahariana, dall’Europa Balcanica ed addirittura dalla più lontana

Asia.

Le ragioni della diversissima composizione degli immigrati in

Italia vanno ricercate anche in fattori socioculturali. Il caso degli

immigrati di nazionalità filippina ne è un esempio: essendo

legati questi cittadini al nostro paese dalla comune fede

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cattolica, trovano in Italia un ambiente accogliente, quanto

meno dal punto di vista culturale.

Al 31 dicembre 2002, i dati confermano che i cittadini stranieri

regolarmente soggiornanti nel nostro paese provengono da ben

191 Stati diversi e l’80% degli immigrati corrisponde a 30

nazionalità differenti.

A fronte di un tale policentrismo dell’Italia si assiste, però, ad un

fenomeno di stabilizzazione della migrazione solo relativamente

a sei paesi esteri che rappresentano, quindi, i principali poli di

spinta verso il paese.

Tra questi paesi il Marocco è il bacino maggiore di immigrati

che stazionano in modo permanente (172.834) seguito

dall’Albania (168.963), dalla Romania (95.834), dalle Filippine

(65.257) e dalla Cina (62.314).

Tale tendenza, inoltre, si è riscontrata non solo per il 2002, ma

per tutti gli anni precedenti a partire dal 1997 [grafico 3].

Grafico 3

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Fonti: ISTAT- Ministero dell’Interno

Il motivo di un simile andamento è da ricercare nella particolare

fase di consolidamento del fenomeno migratorio che sta

vivendo l’Italia, analogamente ai paesi del Sud Europa a

recente tradizione migratoria.

Tale consolidamento porta come immediate conseguenze i

ricongiungimenti familiari dei precedenti immigrati, la creazione

di comunità etniche organizzate che agevolano l’immigrazione

di individui della stessa nazionalità e, in parte, la stipulazione di

accordi governativi con alcuni paesi di origine. Tutte queste

attività, non fanno altro che ingrossare le fila delle comunità di

immigrati precedentemente stanziatesi sul territorio, facendo

mantenere, nel tempo, un certo equilibrio nella composizione

dei cittadini stranieri.

Inoltre, la ripartizione continentale degli immigrati conferma il

trend iniziato negli anni ’90, che registra un aumento degli

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immigrati provenienti dai paesi ad ex economia centralizzata

dell’Europa dell’Est ed in modo particolare, da Albania e

Romania che, da sole, rappresentano i due terzi del totale

dell’area dell’Europa orientale.

Gli europei, nel loro complesso rappresentano il primo

continente per numero di presenze con circa 600.000 immigrati,

seguiti dall’Africa, dall’Asia e dall’America.

Ritornando ai molteplici motivi che spingono gli immigrati a

lasciare i loro paesi di origine viene riconfermato il principio che

le migliori prospettive di vita in ciascuno dei diversi aspetti:

economici, sociali, politici, culturali e religiosi, determinano la

spinta principale per l’individuo a scegliere un paese estero,

abbandonano la madrepatria.

Se si fa una ripartizione dei cittadini stranieri, soggiornanti in

Italia, raggruppati per continenti o aree di provenienza e per

motivi di soggiorno, si osserva che La Russia e l’America

settentrionale spiccano per un’elevata incidenza dei motivi

familiari. Nel caso della Russia il dato è superiore al 55%

mentre, tra i due paesi dell’America settentrionale l’incidenza è

alta soprattutto per gli statunitensi (52,2%). Anche se con valori

inferiori, i paesi dell’Europa centro-orientale ed in particolare

Ucraina, Macedonia ed Albania, presentano un’alta

percentuale di immigrati che si ricongiungono ai familiari già

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presenti sul territorio italiano (rispettivamente del 43,9%; 40% e

38,8%) [grafico 4]

Grafico 4

Fonte: Ministero dell’Interno

Sono particolarmente accentuati, invece, i motivi di lavoro tra i

cittadini dell’Africa occidentale (90,1% per il Senegal),

dell’Africa settentrionale (70,7% per la Tunisia), dell’Asia

orientale (78,1 per i filippini e 64% per i cinesi) e dell’Asia

centro-meridionale (73,8% per il Bangladesh e 70,5% per il

Pakistan) [grafico 5].

Grafico 5

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Una piccola percentuale degli immigrati, poi, si trova in Italia per

motivi religiosi e tra questi spiccano la Spagna (26,9%), l’India

(16,5%) e il Brasile (12,7%) [grafico 6]

Grafico 6

Dati: Ministero dell’Interno

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Infine, sono molti anche gli immigrati che decidono di stabilirsi

nel nostro paese per motivi di studio tra cui spiccano, alcuni

maggiori paesi europei nonché Gli Usa, tra i paesi non

comunitari. [grafico 7].

Grafico 7

Fonte: Ministero dell’Interno

4.3 Inserimento territoriale e integrazione sociale degli

immigrati

Quando si osserva la migrazione in Italia ci si rende conto di

avere di fronte un fenomeno di dimensioni consistenti e diffuso

su tutto il territorio nazionale, compresi i piccoli centri e le zone

agricole. Tuttavia l’inserimento territoriale, all’interno delle

regioni del paese, non risulta essere omogeneo né ora, né lo è

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stato nel passato all’epoca dei primissimi insediamenti da parte

di immigrati.

Le regioni del nord del paese, così come hanno attirato e

continuano ad attirare gli stessi lavoratori nazionali provenienti

dal sud, sono il principale polo d’attrazione per i flussi migratori.

Nel 2002 la Lombardia si è confermata la regione con il più alto

numero di soggiornanti (348.298) seguita dal Lazio (238.918) in

cui la sola città di Roma e provincia, è l’epicentro di un flusso

consistente di immigrazione.

In ordine di grandezza le altre regioni che presentano un’alta

densità di popolazione straniera sono il Veneto, del ricco nord-

est (154.632) e, a sorpresa, la Toscana (111.458) che è

arrivata a superare il Piemonte (107.563) che, fino al 2001,

rappresentava la terza regione per presenze di soggiornanti

stranieri.

Questo tipo di distribuzione territoriale degli immigrati non fa

altro che confermare la caratteristica dell’immigrazione che

investe il nostro paese: il lavoro è la principale ragione della

presenza degli immigrati sul territorio e le regioni del centro-

nord offrono sicuramente migliori e maggiori prospettive rispetto

al Meridione.

Analizzando la distribuzione qualitativa e quantitativa, per aree

geografiche, troviamo che nel settentrione su 25,5 milioni di

abitanti, si stima che 1,4 milioni siano immigrati tra titolari di

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permessi di soggiorno, minori non registrati e persone che

abbiano fatto richiesta di regolarizzazione.

Questo significa che in media, ogni 17 abitanti del nord Italia,

uno è straniero.

La ricchezza della zona e la sua economia dinamica,

rappresentano per l’immigrato la possibilità di elaborare un

progetto a medio o lungo termine con la prospettiva di un

insediamento permanente. Progetti simili rafforzano le comunità

etniche presenti sul territorio e la loro organizzazione e questo,

a sua volta, rafforza il flusso costante e consistente dei nuovi

arrivi.

La maggior parte degli immigrati del nord vive nel nord-ovest

(835.000) con la Lombardia in testa alle regioni di destinazione,

come abbiamo visto.

Il nord-est, invece, complessivamente ospita una quantità di

poco superiore a quella della sola regione Lombarda. Entrambe

le zone settentrionali, tuttavia, condividono il primato nazionale

dei più elevati tassi di incremento annuo dei soggiornanti.

Per quanto riguarda la nazionalità degli immigrati, il grado di

differenziazione della popolazione straniera per nazionalità, è

più basso rispetto a quanto si osserva su scala nazionale. La

nazionalità estera più numerosa è quella dei marocchini, così

come lo è su tutto il territorio nazionale, e la loro prevalenza è

uniforme su tutto il settentrione.

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Un discorso a parte, comunque molto importante, riguarda la

loro integrazione culturale e l’inserimento sociale.

Gli indici di maggiore utilità per osservare tale aspetto sono: la

presenza femminile, la quota di coniugati, di coniugati con

prole, di matrimoni misti ed infine, la frequenza scolastica dei

figli degli immigrati ed il loro tasso di scolarizzazione.

Nel settentrione la presenza femminile è leggermente inferiore

rispetto alla media nazionale del 46,7% (45,3% nel nord-ovest e

44,1% nel nord-est).

Le quote di coniugati e di coniugati con prole sono invece

superiori alla media nazionale mentre, oltre la metà (55%) di

tutti i matrimoni misti celebrati in Italia nel 2000 hanno avuto

luogo proprio nel nord del paese.

Per quanto riguarda gli stranieri minori, questi hanno tassi di

scolarizzazione che sono, in assoluto, i più alti d’Italia: nel nord

gli iscritti a scuola sono 121.000 di cui oltre 68.000 solo nel

nord-ovest .

Grafico 8

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Fonte: ISTAT-Ministero dell’Interno

Grafico 9

Fonte: ISTAT-Ministero dell’Interno

Il confronto della realtà settentrionale con quella della zona

centrale del paese consente di osservare alcuni aspetti

peculiari di quest’ultima area.

Innanzi tutto, su di una popolazione complessiva di 10,9 milioni

di abitanti, i 705.000 stranieri soggiornanti rappresentano il

6,5% della popolazione. In media, uno straniero ogni 15

abitanti.

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Il centro, pur rappresentando un forte polo di attrazione, non è

sempre la meta definitiva di radicamento. A questo proposito il

ruolo del Lazio è quanto mai rappresentativo. Quest’area, ed in

particolare la provincia romana, vanta un elevato policentrismo

con 183 nazionalità diverse presenti sul territorio, a fronte delle

191 presenti in tutta la nazione.

In questo contesto altamente variegato, il grado di integrazione

risulta oscillante a seconda degli indicatori di volta in volta

considerati.

Le percentuali di stranieri coniugati (38,8%), di coniugati con

prole (8,4%) e di minori (19,4%) sono sensibilmente più basse

rispetto alla media nazionale (rispettivamente 43,1%; 11,5%; e

21,3%) ed ancora di più rispetto ai valori osservati nel nord del

paese. Questo testimonia due fenomeni: la probabile

temporaneità dello stanziamento ed un processo di inserimento

lento e difficoltoso. Di contro, si osserva una forte presenza di

stranieri ultrasessantenni (8,5%) che è notevolmente superiore

a quella di qualunque altra zona del paese, che non supera mai

il tetto del 6%.

Grafico 10

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Fonte: ISTAT-Ministero dell’Interno

Infine, la zona meridionale, comprendente sia le regioni

peninsulari del sud che le isole, secondo le stime, ospita

complessivamente oltre 361.000 soggiornanti stranieri pari ad

un settimo dell’intera popolazione straniera della penisola. Il

72% di questi immigrati soggiorna nel sud, il 28% nella isole.

La peculiarità del Meridione è che, da un lato rappresenta la

porta di ingresso per la quasi totalità degli immigrati provenienti

da tutto il mondo, dall’altro con le sue carenze strutturali non

permette agli immigrati di considerare il territorio come un

possibile candidato per uno stanziamento definitivo.

La così detta questione meridionale, quindi, ha investito non

solo i lavoratori nazionali del sud, ma anche i lavoratori stranieri

in cerca di fortuna nel nostro paese.

Da ciò deriva che l’incidenza della popolazione straniera sul

territorio del sud è la più bassa di tutta l’Italia. In media

nemmeno uno straniero per 50 abitanti.

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Allo stesso modo anche il tasso di diversificazione, a livello di

nazionalità degli immigrati, è più basso rispetto alle altre zone.

Le nazionalità presenti sul territorio sono 163 nel sud e 155

nelle isole.

La nazionalità più numerosa in tutte le regioni del sud è quella

Albanese, tranne che in Campania, dove gruppo più numeroso

è quello degli americani per la presenza della base NATO.

Nelle isole sono i tunisini che detengono il primato come

gruppo etnico più diffuso.

La situazione socio-economica del territorio di riferimento non

favorisce un elevato grado di integrazione degli immigrati

rispetto al resto del paese ed i dati lo confermano. Da un lato

abbiamo che il tasso di soggiornanti stranieri coniugati è molto

alto (46%) come lo è quello dei coniugati con prole (13,9%) e

quello dei minori (22,1%).

Dall’altro, è bassissima l’incidenza di matrimoni misti sul totale

di quelli celebrati nella zona (3% nel sud e 2,5% nelle isole) ed

è contenutissimo anche il tasso di scolarizzazione dei minori

immigrati con un’incidenza degli scolari stranieri su quelli

nazionali di quest’area, pari allo 0,6% nel sud e allo 0,5% nelle

isole.

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Grafico 11

Fonte: ISTAT-Ministero dell’Interno

4.4 Il mercato del lavoro italiano ed il livello di integrazione

degli stranieri

Al di là degli aspetti sociali e culturali, seppur molto importanti,

ciò che sembra alimentare maggiori conflitti nell’opinione

pubblica, è il grado di integrazione dei lavoratori immigrati

all’interno del mercato del lavoro italiano. La preoccupazione

dei lavoratori nazionali e dei decisori politici, che hanno il

compito di gestire e controllare che il livello di benessere

pubblico non diminuisca, deriva soprattutto dal particolare

andamento economico che in questi anni sta interessando

l’Italia ed il mondo in generale.

Nel 2002, infatti, l’economia mondiale ha continuato a

manifestare segnali di debolezza anche se ha fatto registrare

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un lieve incremento del relativo tasso di crescita, che è passato

dall’1,2% del 2001, all1,9% nel 2002.

Sulla situazione economica hanno sicuramente influito e

continuano ad influire, le difficoltà derivanti dalle grandi tensioni

politiche internazionali, la conseguente generale incertezza dei

mercati finanziari, aggravata dall’impennata del prezzo del

petrolio.

All’interno di una simile cornice la situazione italiana non mostra

di essere controcorrente: il tasso di sviluppo del nostro paese è

pari alla metà di quello dei paesi dell’Unione Europea. Peraltro

l’inflazione che ha raggiunto un picco del 2,5% è stata

aggravata dal passaggio dalla lira all’euro con conseguenti

arrotondamenti dei prezzi dei beni per eccesso.

Negli anni che vanno dal 1995 al 2002 il numero dei lavoratori

italiani è aumentato, in media, di 270.000 unità all’anno mentre,

solo nel 2002 l’aumento dell’occupazione è stato dell’1,1%.

Nello stesso arco di tempo la crescita media del PIL è stata

dell’1,7% mentre, nella precedente fase espansiva del periodo

1985-1991 il PIL era cresciuto del 2,7% e l’occupazione di

214.000 unità.

La maggior crescita dell’occupazione dell’ultimo periodo può

essere vista come il frutto della terziarizzazione

dell’occupazione (ossia dell’aumento del peso dei lavoratori

impiegati nel settore dei servizi e quindi a più bassa

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produttività) e della diffusione di tipologie contrattuali che hanno

abbassato il costo del lavoro. A tale proposito, nel Febbraio

2003 è stata approvata in via definitiva la riforma del mercato

del lavoro, recependo le indicazioni contenute nel “libro bianco”

a cura di Marco Biagi. Tale riforma ha come obiettivo quello di

conferire maggiore flessibilità alle forme contrattuali, di

liberalizzare il collocamento e di introdurre nuove norme sulla

collaborazione coordinata e continuativa. Tutte queste riforme

riguardano, ovviamente, anche i lavoratori immigrati (INDIS-

Unioncamere 2003).

In tale contesto va analizzata la situazione occupazionale in

Italia, considerando che nel 2002 gli occupati sono stati

21.829.000.

La ripartizione per settori di attività vede prevalere i servizi con

il 63,2% e, all’interno di ciascun settore, i lavoratori dipendenti

sono di gran lunga superiori ai lavoratori autonomi. L’incidenza

delle donne è del 31,9% in agricoltura, del 23,9% nell’industria

e del 45,2% nei servizi.

Tra la totalità degli occupati il 91,4% è occupato a tempo pieno

ed il 90,1% a tempo indeterminato.

Per quanto riguarda la particolare e nuova tipologia del lavoro

interinale, che riguarda quei contratti di lavoro con i quali i

lavoratori vengono assunti da un’agenzia interinale per essere

utilizzati temporaneamente dalle aziende che ne fanno

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richiesta, nel 2002 sono stati inseriti nel mondo del lavoro

869.000 risorse con un aumento del 39% rispetto al 2001.

Tra questi lavoratori il 30,3% ha meno di 25 anni, il 23,4% ha

un’età compresa tra i 25 e i 29 anni ed il 24,3% è tra i 30 e i 34

anni.

Quanto al grado di istruzione, il 44% ha un diploma e il 7,5%

una laurea. La durata degli incarichi è per l’87% di meno di sei

mesi e solo per il 4% di un intero anno.

L’altra faccia della medaglia è rappresentata dalla

disoccupazione. Prendendo a riferimento, in un primo

momento, solo la disoccupazione dei cittadini italiani, si può

osservare come nel periodo 1988-2002 il tasso di

disoccupazione sia stato mediamente del 10,6%, inferiore solo

a quello della Spagna con il 12,2%. Dalla metà degli anni ’90,

poi, il tasso di disoccupazione è andato riducendosi per

raggiungere un livello, nel 2002 del 9% [tabella 1].

Tabella 1

Tasso di disoccupazione in Italia

(1993-2002)

Anno Tasso Anno Tasso

1993 10,10% 1998 11,80%

1994 11,10% 1999 11,40%

1995 11,60% 2000 10,60%

1996 11,60% 2001 9,50%

1997 11,70% 2002 9%

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Fonte: ISTAT

Anche in questo ambito, è importante definire le categorie di

lavoratori ed osservare le relative differenze: il tasso di

disoccupazione femminile è del 12,2% mentre, quello maschile

è del 7%.

La disoccupazione di lunga durata ha un tasso del 4,1% a

livello nazionale mentre, a livello regionale si nota che, nel

nord-ovest è dell’1,2%, nel nord-est dello 0,6%, nel centro del

2,6% e nel Mezzogiorno del 9,3%.

Infine, i giovani (tra i 15 e i 24 anni) presentano un tasso di

disoccupazione del 24% (11,5% nel nord-ovest, 6,4% nel nord-

est, 18,7% nel centro e 42,6% nel Mezzogiorno).

A fronte di tali livelli di disoccupazione dei lavoratori nazionali è

interessante osservare quali sono i valori che caratterizzano la

disoccupazione degli stranieri residenti in Italia.

Innanzi tutto è importante specificare che la definizione della

forza lavoro immigrata e della sua disoccupazione è differente

rispetto a quella che si dà per i nazionali. La definizione della

forza lavoro immigrata, infatti, è basata su criteri prettamente

giuridici: sono forze lavoro i cittadini stranieri titolari di un

permesso di soggiorno per motivi di lavoro o per motivi ad esso

assimilabili

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(i coniugi che si sono ricongiunti per motivi familiari e gli

studenti autorizzati a svolgere un’attività lavorativa part-time).

Analogamente, la definizione di disoccupato per l’immigrato

comprende tutti quelli che sono registrati dalle questure in

attesa di occupazione e quelli iscritti alle liste di collocamento.

Così come i disoccupati italiani vanno rapportati alle forze

lavoro, anche il numero dei disoccupati immigrati va calcolato

sul numero dei cittadini stranieri, autorizzati a svolgere

un’attività lavorativa.

Al 31-12-2002 il numero degli stranieri senza lavoro era di

43.116 rapportato agli stranieri titolari di permesso di soggiorno

che, sempre nello stesso periodo, era di 834.478, con un tasso

di disoccupazione del 5,2%.

Anche nel caso degli immigrati le differenze per area geografica

sono consistenti: nel nord-ovest il tasso di disoccupazione è in

media del 4,9% [grafico 12].

Grafico 12

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Fonte: ISTAT-Ministero dell’Interno

Nel nord-est il tasso di disoccupazione degli immigrati è in

media del 3,9% [grafico 13].

Grafico 13

Fonte: ISTAT-Ministero dell’Interno

Al centro la disoccupazione degli immigrati raggiunge il tasso

medio del 4,5% [grafico 14]

Grafico 14

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Fonte: ISTAT-Ministero dell’Interno

Infine, nel sud (5,6%) e nelle isole (8,1%), il tasso di

disoccupazione medio degli immigrati è al di sopra della media

nazionale con punte del 18,8% in Calabria e un sorprendente

2,9% in Abruzzo [grafico 15].

Grafico 15

Fonte: ISTAT-Ministero dell’Interno

E’ importante sottolineare che i dati riportati fanno riferimento

agli immigrati regolari e soprattutto agli immigrati regolari

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impiegati regolarmente. Non è da sottovalutare l’impatto che la

migrazione illegale e l’impiego irregolare possano avere su tali

numeri.

4.4.1 Le assunzioni dei lavoratori immigrati per settori di

produzione e ripartizione territoriale

Il confronto tra il livello di disoccupazione dei nazionali e quello

degli immigrati mostra che, in rapporto alle due rispettive forze

lavoro, il livello di disoccupazione nazionale è più alto di quello

degli immigrati (9% per i primi contro il 5,2% dei secondi). Un

dato simile indurrebbe a considerare che non esista alcun tipo

di conflitto tra i lavoratori nazionali e quelli immigrati in quanto

l’offerta di lavoro degli immigrati sembra essere assorbita

adeguatamente dal mercato interno del nostro paese.

Le conclusioni in merito non possono, tuttavia, essere raggiunte

troppo in fretta fermo restando che ci troviamo di fronte ad una

continua e consistente crescita del flusso degli immigrati nel

nostro paese.

In proposito le Istituzioni giocano un ruolo determinante

attraverso le iniziative che intendono intraprendere.

Per fare una previsione sul fabbisogno della nuova

manodopera in generale, dal 1998 il Ministero degli Interni e

Unioncamere, hanno messo a punto un sistema chiamato

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Excelsior. Tale sistema deve fare da supporto alla

programmazione dei flussi da parte del Governo e, dal 1999 la

rilevazione è stata estesa anche ai lavoratori extracomunitari. A

questo scopo viene preso in considerazione l’universo delle

imprese private iscritte al Registro delle imprese delle Camere

di Commercio, ad esclusione di settori quali la Pubblica

Amministrazione, le aziende pubbliche del settore sanitario,

unità scolastiche ed universitarie pubbliche, organizzazioni

associative, lavoratori domestici e lavoratori stagionali. I dati di

previsione del Sistema informativo Excelsior confermano il

carattere strutturale del fabbisogno di lavoro immigrato. Tale

bisogno, inoltre, a causa del calo demografico e del suo impatto

sulle forze lavoro, tenderà ad aumentare coinvolgendo nuovi

settori occupazionali, non più ristretti ai livelli bassi della

gerarchia professionale.

Per il 2003 l’Excelsior ha previsto un livello della domanda di

lavoratori immigrati pari a 224.000 unità a fronte delle 164.000

unità del 2002 e delle 150.000 unità del 2001.

Tale aumento di domanda di lavoratori non comunitari sembra

essere dovuto alla carenza di manodopera locale nelle zone più

sviluppate e alla copertura di posti a bassa qualificazione. Nel

nord-est l’incidenza dei lavoratori stranieri sale al 37,2% di cui,

il 40% è impiegato nell’industria, settore in cui il sottosettore

delle costruzioni è al primo posto in termini di assorbimento

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della manodopera straniera. Il restante 60% dei posti di lavoro

previsti, va al settore dei servizi, tra i quali spiccano i servizi alle

imprese e quelli degli alberghi e ristoranti.

Il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, del 15

ottobre 2002, ha previsto che la programmazione annuale, del

Governo, dei flussi migratori deve tener conto del fabbisogno di

manodopera stimato dal Ministero del Lavoro, dell’andamento

occupazionale e dei tassi di disoccupazione a livello nazionale

e regionale, così come del numero dei cittadini non comunitari

iscritti nelle liste di collocamento.

Nel determinare le quote si deve tener conto, inoltre, dell’alto

fabbisogno di manodopera straniera, soprattutto per i lavori a

tempo determinato e stagionale nei settori turistico-alberghiero,

agricolo, dell’edilizia e dei servizi.

Di fatto, l’archivio dell’INAIL denominato Denuncia Nominativa

Assicurato, creato nel 2000, ha registrato che nel 2002 sono

stati assunti lavoratori non comunitari pari a 659.847 unità.

Le grandi aziende sono protagoniste nelle assunzioni degli

immigrati solo per il 41,6% mentre la restante quota di

assunzioni è divisa a metà tra le medie (da 11 a 50 dipendenti)

e le piccole imprese (fino a 10 dipendenti) [tabella 2].

Tabella 2

Assunzioni dei lavoratori immigrati per ampiezza delle aziende

(2002)

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2002Numero dei dipendenti % dei lavoratori non comunitari

Fino a 10 28,70%

Da 11 a 50 29,60%

Oltre 50 41,60% Fonte: INAIL/Denuncia Nominativa Assicurati

In media, nel 2002, una ogni nove assunzioni ha riguardato un

lavoratore immigrato (11,5%). Nel 2001 l’incidenza è stata del

9,9%.

I due terzi dei lavoratori assunti (66,5%) si colloca nella fascia

di età 19-35 anni e il 26,6% nella fascia 36-50 anni. Gli

ultracinquantenni assunti, che tra gli italiani sono l’8,5%, tra gli

immigrati sono solo il 2,6%. Anche i minori vengono assunti ma

in misura minore, con un’incidenza del 4,3% tra i quali, però,

non sono pochi i casi di assunzioni nel settore irregolare

[tabella 3]

Tabella 3

Movimento occupazionale degli immigrati per fasce d’età (2002)

Fasce di età % Assunzioni immigrati

% Cessazioni immigrati

Età <18 4,30% 3,50%

Età 19-35 66,50% 66,20%

Età 36-50 26,60% 27,50%

Età >50 2,60% 2,80%

Fonte: INAIL/Denuncia Nominativa Assicurati

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Per quanto riguarda la distribuzione geografica delle assunzioni

dei lavoratori immigrati, anche in questo caso il trend che si

registra per i lavoratori nazionali, viene confermato per quelli

stranieri: tali assunzioni avvengono per il 69% al nord, con la

prevalenza del nord-est che da solo assume il 37,8% degli

immigrati. Il 20,5% degli stranieri viene assunto al centro e solo

il 10,5% al sud del paese, di cui il 2,8% nelle isole.

Il numero delle assunzioni al nord è sette volte maggiore di

quelle del sud.

Nell’analizzare i livelli di assunzioni dei lavoratori stranieri, un

aspetto importante lo assume, non solo il loro numero in

assoluto, bensì l’incidenza di queste sul totale delle assunzioni.

A tale proposito, l’area territoriale in cui i lavoratori stranieri

sembrano essere più necessari è il nord-est con un incidenza

del 17,7% delle loro assunzioni sul totale. Ovviamente, subito

dopo, l’area in cui l’incidenza degli stranieri sui lavoratori totali è

maggiore, è il nord-ovest con il 14%. Nel Meridione viene

coinvolto un solo lavoratore straniero su 25 assunzioni [tabella

4].

Tabella 4

Assunzioni di lavoratori non comunitari per aree territoriali

Aree territoriali Incidenza % lavoratori non comunitari sul totale (2002)

Nord-ovest 14%

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Nord-est 17,70%

Centro 10,20%

Sud 4%

Isole 3,80%

Italia 11,50%

Fonte: INAIL/Denuncia Nominativa Assicurati

La ripartizione delle assunzioni per grandi aree geografiche

assume, tuttavia, valori differenti nei diversi settori economici.

Nel nord-est, non solo i lavoratori stranieri sono i più numerosi

di tutto il paese, ma lo sono anche in tutti i settori economici,

dall’industria all’agricoltura. Il centro mantiene un livello più o

meno costante di presenze in tutti i settori (20%), eccezion fatta

per l’agricoltura. Mentre, nel Meridione le maggiori presenze di

lavoratori stranieri si ha nel settore agricolo (13,8% al sud e

8,6% nelle isole) [tabella 5].

Tabella 5

Assunzioni di lavoratori non comunitari per aree territoriali e

settori economici

Aree territoriali tutti i settori Agricoltura Industria Servizi

Nord-ovest 31% 9,80% 32,70% 33,60%

Nord-est 37,80% 54% 38,30% 36,60%

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Centro 20,50% 14,10% 20,40% 22%

Sud 8% 13,80% 7,20% 5,90%

Isole 2,80% 8,60% 1,40% 1,90%

Fonte: INAIL/Denuncia Nominativa Assicurati

Proseguendo il discorso in termini di settori nei quali,

maggiormente, vengono impiegati i lavoratori comunitari nel

nostro paese, una ricerca condotta dall’ILO (International

Labour Organization) nei paesi del sud Europa ha posto in

evidenza come i migranti occupino i posti di lavoro che i

lavoratori nazionali rifiutano di occupare (E.Rayneri, 2001).

Tale affermazione viene confermata dall’osservazione di ciò

che accade nella realtà italiana. Se vengono prese in

considerazione le piccole e medie industrie, che come abbiamo

avuto modo di riscontrare, sono quelle che impiegano

maggiormente lavoratori immigrati, queste non avendo la

possibilità di delocalizzare all’estero le proprie attività, per

ridurre i costi di produzione, cercano di rendere più flessibile

l’impiego di manodopera e di impiegare lavoratori a bassa

qualificazione professionale. In questo modo cresce la loro

domanda di lavoro poco qualificato. I lavoratori locali non sono

in grado di soddisfare tale domanda, o perché non ne hanno

l’interesse, per via delle scarsa qualificazione del lavoro, o per

via del crescente mismatch strutturale che c’è nel nostro paese

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tra domanda di lavoro ed offerta, con l’immediata conseguenza

che ad essere impiegati, sono i lavoratori non comunitari (P.A.

Taran,E. Geronimi, 2003).

Le assunzioni dei lavoratori non comunitari, comparate con il

totale delle assunzioni avvenute in Italia, sono maggiormente

concentrate in agricoltura (con un’incidenza del 13,8% e 2,5

punti percentuali in più sul totale) e nell’industria (26,4% con 3,5

punti percentuali in più) contrariamente a quanto avviene nei

servizi in cui l’incidenza è del 39,2% con 8,5 punti percentuali in

meno rispetto al totale delle assunzioni.

I singoli rami lavorativi che si caratterizzano per un maggior

numero di assunzioni, incidendo in maniera significativa sul

totale, sono: alberghi e ristoranti (16,6%), costruzioni (9,6%),

attività immobiliari/pulizie (8,4%) e trasporti (4,6%).

Anche in questo caso non è importante solo il numero, in

assoluto, delle assunzioni, ma la loro incidenza percentuale sul

totale delle assunzioni.

Tale incidenza attesta il grado di fabbisogno degli immigrati nei

vari rami lavorativi.

Si possono individuare, quindi, tre tipi di settori: i settori con un

fabbisogno molto alto di manodopera immigrata, nei quali

l’incidenza delle loro assunzioni, sul totale, è maggiore al 15%.

Questi comprendono l’ industria conciaria, tessile, dei metalli, di

trasformazione. Ci sono, poi, i settori con un fabbisogno alto,

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nei quali l’incidenza delle assunzioni degli immigrati varia dal

10% al 15%: alberghi, ristoranti, costruzioni, trasporti, industria

meccanica.

In fine ci sono i settori con un fabbisogno medio di manodopera

straniera con un’incidenza delle loro assunzioni che varia dal

7% al 10%: industria alimentare, industria chimica, della carta,

industria elettrica, commercio all’ingrosso e sanità [tabella 6].

Tabella 6

Incidenza dei lavoratori non comunitari sulle assunzioni

complessive per settore (2002)

Molto alta Alta Media

I.conciaria 22,80% Agrindustria 14,10% i.alimentare 8,80%

i.tessile 17,70% Costruzioni 13,70% estr. minerali 7,70%

i.metalli 17,00% Trasporti 12,70% i.carta 7,60%

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i.gomma 16,90% i. mezzi di trasporto 12,30% i.chimica 7,50%

i.legno 16,70% i.meccanica 11,60% i.elettrica 7,40%

i.trasformazion 15,00% att. Immob./pulizie 10,80% commercio/ripar. Auto 7,40%

sanità 7,20%

commercio ingrosso 7,00%

Fonte: INAIL/Denuncia Nominativa Assicurati

In riferimento a questi valori, talvolta, si parla di fabbisogno

aggiuntivo di manodopera straniera e di tendenza alla

etnicizzazione di alcuni settori produttivi. Tali valori, infatti, non

solo sono andati aumentando nell’arco del tempo ma, la vera

novità, è che in alcuni settori le cessazioni dei rapporti, da parte

dei lavoratori italiani, sono maggiori delle assunzioni. Il contrario

avviene per gli immigrati e, addirittura, in alcuni settori, la

fuoriuscita dei lavoratori nazionali, non riesce ad essere

compensata dai lavoratori stranieri.

Sicuramente, i processi di ristrutturazione che sono avvenuti

negli ultimi anni, soprattutto nelle grandi industrie, hanno

diminuito i livelli di occupazione in generale. In alcuni settori,

tuttavia, a fronte di un crescente allontanamento dei lavoratori

italiani, si assiste ad un perdurare del fabbisogno di

manodopera che viene, quindi, coperto dai lavoratori non

comunitari. Nell’industria dei metalli, ad esempio, le cessazioni

degli italiani superano di 4.252 le loro assunzioni mentre, per i

lavoratori extracomunitari sono le assunzioni a prevalere sulle

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cessazioni con 3.107 unità. Un altro esempio è dato

dall’industria conciaria dove il saldo tra assunzioni e cessazioni

è negativo per gli italiani (-2.599) e positivo per gli immigrati

(1.579) [tabella 7]

Tabella 7

Settori con saldo negativo di lavoratori italiani tra assunzioni e

cessazioni (2002)

Settore Saldo lavoratori italiani Saldo lavoratori non comunitari

Industria tessile 21.739 954Industria conciaria -6.673 320Industria petrolio -182 23Industria metalli -4.252 3.107Industria meccanica -2.599 1.579industria elettrica -5.097 887Industria mezzi di trasporto -6.280 544Industria finanziaria -3.347 132

Fonte: INAIL/Denuncia Nominativa Assicurati

Una volta analizzati separatamente i due aspetti delle

assunzioni, per area geografica e per settore, è interessante

esaminare quali settori di impiego prevalgono ed in quali

province.

Per le assunzioni nel settore dell’agricoltura, la provincia in cui

queste sono le maggiori in assoluto è Bolzano con 13.886

assunzioni su 91.086 a livello nazionale (15,2% di incidenza). In

questo settore, in generale, il Meridione è meglio rappresentato

con Ragusa e Bari al 4° e 5° posto, rispettivamente con 4.019 e

2.882 assunzioni e se non esistesse il sommerso, il problema

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del fabbisogno delle assunzioni degli immigrati, al sud, sarebbe

più evidente ed i risultati più consistenti.

Per le assunzioni nell’Industria, al primo posto c’è la provincia di

Milano con 12.617 assunzioni, pari al 7,3% delle 174.057

assunzioni a livello nazionale. Nella graduatoria,

prevedibilmente, primeggiano le province del nord-est. Per il

centro c’è Roma, Firenze, Perugina e Prato. Il Mezzogiorno non

è rappresentato con alcuna provincia.

Nei Servizi, Milano è di nuovo la prima provincia per numero di

assunzioni: 42.638 su 258.553 a livello nazionale, con

un’incidenza del 16,5%.Roma, pur non avendo la stessa

consistenza di Milano, è meno distanziata, in questo settore,

rispetto agli altri due. Anche in questo caso, tuttavia, la

preminenza spetta alle province del settentrione che, tra nord-

ovest e nord-est, si spartiscono le quote maggiori di assunzioni

di lavoratori non comunitari. Sono assenti le province del

Mezzogiorno [tabella 8]

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Tabella 8

Prime 15 province per assunzioni in Agricoltura, Industria e

Servizi (2002)

Agricoltura Industria ServiziBolzano 13.886 Milano 12.677 Milano 42.638Trento 13.412 Brescia 10.053 Roma 24.403Verona 5.837 Treviso 8.714 Bolzano 13.270Ragusa 4.019 Vicenza 7.657 Vicenza 11.650

Bari 2.882 Modena 4.823 Firenze 7.877Perugia 2.824 Roma 4.576 Venezia 7.642

Ravenna 2.594 Verona 4.290 Brescia 7.457Modena 1.894 Firenze 4.245 Trento 7.286Bologna 1.744 Padova 4.238 Verona 6.832Trapani 1.722 Bologna 4.187 Bologna 6.584

Forlì-Cesena 1.652 Reggio Emilia 3.511 Torino 6.514Roma 1.402 Perugia 3.494 Ravenna 4.546

Ferrara 1.399 Ancona 3.146 Perugia 4.547L'Aquila 1.274 Venezia 3.149 Bergamo 4.537Foggia 1.137 Prato 2.991 Rimini 4.145ITALIA 91.086 ITALIA 174.057 ITALIA 258.553

Fonte: INAIL/Denuncia Nominativa Assicurati

Facendo la graduatoria delle prime 15 province per il numero

delle assunzioni complessivamente considerate, vediamo che

Milano risulta essere la prima provincia con l’assunzione di un

immigrato ogni 9 effettuate a livello nazionale. Roma risulta

essere la seconda con un’assunzione ogni 17 e seguono

Bolzano, Brescia e Vicenza. Non è, invece, inclusa alcuna

provincia del Mezzogiorno.

Oltre a prendere in considerazione i tre grandi settori produttivi

di Agricoltura, Industria e Servizi, è utile estrapolare i rami più

significativi dell’Industria e dei Servizi allo scopo di approfondire

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l’analisi del tipo di lavoro che gli immigrati svolgono nel nostro

paese. Per l’Industria abbiamo visto che questi sono

rappresentati da: costruzioni, metalli, industria alimentare e

tessile.

Per i servizi, i rami più significativi sono: alberghi, ristoranti,

attività immobiliare/pulizie, e commercio.

Nel settore dell’industria metalli, a collocarsi ai primi posti, con

oltre 1.000 assunzioni, sono le province di Brescia con 2.845

assunzioni su 25.757, Treviso con 1.505, Venezia (1.277),

Milano (1234), Bergamo con 1.351, e Torino (1.194).

Nell’industria alimentare la quota di 1.000 assunzioni è

raggiunta solo a Forlì con 1.579 su 15.686.

L’industria tessile supera le 1.000 assunzioni a Prato con 2.348

ed un’incidenza del 15% mentre le 1.000 assunzioni sono solo

sfiorate a Milano e Brescia.

Nelle costruzioni la prima provincia è Milano con 6.990

assunzioni su di un totale di 63.197 seguita da Brescia con

3.918 e Roma con 3.200. Il sud è completamente assente nella

graduatoria delle prime 15 province.

Nel settore edile, nel 2002 sono state effettuate 62.847

assunzioni di immigrati, per il 39,5% concentrate nel nord-

ovest, per il 27,7% nel nord-est e per il 21,3% nel centro. Il

Meridione detiene solo la quota residua ( 9,2% al sud e 2,2% le

isole).

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Di particolare interesse è il saldo tra assunzioni e cessazioni

che si ha nel settore delle costruzioni, sia per gli immigrati che

per i lavoratori italiani: il primo è pari al 19,3% ed il secondo al

18,2%, di pochissimo inferiore. Chiaramente, tale saldo è

notevolmente differenziato tra regioni, per cui, in Calabria, il

saldo tra assunzioni e cessazioni per i lavoratori non comunitari

è del 31% mentre, in Umbria è del 2%.

Questi valori inducono alla riflessione che, l’alta incidenza delle

assunzioni dei lavoratori stranieri, nel settore delle costruzioni in

particolare, denoti il loro carattere complementare o aggiuntivo,

rispetto all’insufficienza di forze lavoro italiane da impiegare in

certi particolari settori [tabella 9].

Tabella 9

Saldi differenziati tra assunzioni e cessazioni dei lavoratori non

comunitari nel settore delle costruzioni (2002)

Regione Saldo Regione SaldoCalabria 31% Friuli 15%Piemonte 27% Lazio 14%

Toscana, Basilicata 24% Sardegna 12%Liguria 23% Sicilia 11%

Lombardia 22% Valle d'Aosta, Puglia 10%Trentino Alto Adige 20% Umbria 2%

Campania 19%Emilia Romagna, Marche 18%

Veneto, Molise 17% ITALIA 21% Fonte: INAIL/Denuncia Nominativa Assicurati

Per quanto riguarda il settore dei Servizi, il ramo più diffuso è

quello degli alberghi e dei ristoranti e la provincia che detiene il

primato delle assunzioni è Milano (16.446 su 109.424), seguita

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da Roma e da Bolzano (rispettivamente 12.115 e 10.126

assunzioni). Nella graduatoria delle prime 15 province è

assente il Meridione anche se le assunzioni nel settore

alberghiero della sola città di Napoli, superano le 1.000 unità

[tabella 10].

Tabella 10

Prime 15 province per assunzioni di lavoratori non comunitari

negli alberghi/ristoranti (2002)

Provincia Assunzioni Provincia AssunzioniMilano 16.446 Ravenna 2.526Roma 12.115 Perugia 2.487

Bolzano 10.126 Verona 2.370Vicenza 8.776 Brescia 1.973Venezia 4.804 Udine 1.825Trento 4.352 Bologna 1.696Firenze 3.676 Genova 1.355Rimini 2.711 ITALIA 63.197

Fonte: INAIL/Denuncia Nominativa Assicurati

Il settore delle attività immobiliari/pulizie è funzionale alle

esigenze delle grandi città, quindi, le assunzioni sono alte a

Roma (4.082 su 55.190 nazionali) e a Torino (2.058).

Le province più significative per le assunzioni nel ramo del

commercio sono Milano con 3.417 assunzioni, Roma con 2.107

assunzioni, Bologna e Firenze (rispettivamente 1.215 e 1.049).

Come il ramo delle costruzioni per l’industria, così il ramo degli

alberghi e dei ristoranti per i servizi è quello in cui la presenza

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dei lavoratori immigrati è più significativa. Il saldo tra assunzioni

e cessazioni, per i lavoratori non comunitari, è del 7,9%, quasi

tre volte inferiore alla media dei saldi riscontrati per la generalità

di questi lavoratori. Questo indica che tale settore è soggetto ad

una forte precarietà, dovuta dalla stagionalità, che impedisce la

formazione di posti di lavoro permanenti. Il problema, tuttavia, è

meno accentuato per i lavoratori nazionali impiegati nel

medesimo settore, per cui il saldo è pari al 18,2%.

Un altro aspetto importante è quello riguardante il fabbisogno di

manodopera immigrata aggiuntiva di tale settore, con 109.189

assunzioni di immigrati su 905.003 complessive.

Le conclusioni a cui si giunge sono che, nelle regioni in cui è

diffuso il turismo, si avverte una grande necessità di lavoratori

immigrati (sia di quelli già presenti sul territorio, sia di quelli che

vengono appositamente), perché non è sufficiente la

manodopera italiana, anche se composta di quei disoccupati o

lavoratori stagionali che dal sud si spostano verso quelle regioni

in cui il settore turistico/alberghiero è particolarmente attivo.

4.4.2 Assunzioni dei lavoratori immigrati per nazionalità

Come si è fatto notare in precedenza, il forte policentrismo del

nostro paese ha portato in Italia immigrati di ben 191

nazionalità diverse. Grazie ai dati raccolti, durante gli anni, dal

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Ministero del Lavoro, dal Ministero dell’Interno, dall’INAIL e

dagli Uffici provinciali del lavoro, si possono osservare le

diverse potenzialità, nel mercato del lavoro, degli immigrati

rispetto alla loro nazionalità. Va detto, innanzi tutto, che i difetti

di registrazione sottostimano la reale entità delle assunzioni e

dei soggiorni e questo, porta a dover maggiorare i numeri

riportati per poter avere un quadro il più simile possibile alla

realtà.

In generale, per poter analizzare il diverso grado di accesso al

mercato occupazionale degli immigrati in base alla loro

nazionalità, non si deve far altro che confrontare, per ogni

collettività, la quota percentuale dei soggiorni e la quota

percentuale delle assunzioni. La discrepanza può assumere

due significati: negativo se la collettività registra poche

assunzioni ed una scarsa stabilità dell’occupazione. Positivo se

il numero ridotto delle assunzioni dovesse significare un alto

livello di occupazione preesistente.

L’intera collettività degli immigrati ha avuto, nel 2002, a

disposizione un posto di lavoro ogni tre soggiornanti, il che è un

valore positivo se si pensa che una buona parte degli immigrati

è già occupata e che l’offerta riguarda quelli ancora disoccupati

e quelli in cerca di prima occupazione in Italia.

Può essere utile raggruppare le nazionalità in base alla loro

facilità di accesso al mercato occupazionale italiano: Alto

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accesso (oltre 40 assunzioni su 100 soggiornanti), Medio

accesso (tra 30 e 40 assunzioni su 100 soggiornanti), Basso

accesso (meno di 30 assunzioni su 100 soggiornanti) [tabella

11].

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Tabella 11

Ripartizione degli immigrati secondo l’indice di accesso alle

assunzioni (2002)

Accesso Alto Accesso Medio Accesso BassoAlbania Bangladesh BosniaAlgeria Brasile CroaziaBulgaria Cina FilippineEcuador Colombia RussiaEgitto Cuba Sri LankaJugoslavia Ghana UsaPolonia IndiaRomania MacedoniaSenegal MaroccoSvizzera Tunisia NigeriaUcraina Pakistan

PerùFonte: INAIL/Denuncia Nominativa Assicurati

I dati dimostrano come gli immigrati dei paesi dell’Europa

orientale, quelli dell’Africa e quelli dell’America Latina, sembrino

essere quelli maggiormente capaci di inserirsi nel mercato del

lavoro italiano. In particolare, i valori più alti riguardano

l’Ecuador con 1 assunzione ogni soggiornante, la Jugoslavia, la

Romania e la Polonia, con 1 assunzione ogni due soggiornanti.

Vi sono, poi, alcuni casi particolari come quello della collettività

Usa, in gran parte formata da familiari di dipendenti NATO, che

non hanno interesse ad accedere al mercato del lavoro italiano.

Altri casi particolari sono quelli della comunità filippina e dello

Sri Lanka: l’indice negativo non tiene conto del fatto che tali

immigrati vengono impiegati per la maggior parte come

lavoratori domestici, i quali non sono registrati dall’INAIL.

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Per avere un quadro più generale, è possibile raggruppare i

singoli paesi per aree di provenienza ed osservare come sia

caratterizzata la loro collocabilità nel mercato del lavoro

attraverso il tasso di accesso all’occupazione [tabella 12].

Tabella 12

Rapporto percentuale tra assunzioni e soggiornanti: indice di

accesso occupazionale (2002)

Continente Soggiornanti 1.1. 2002 Assunzione 2002 Indice di accesso

all'occupazioneEuropa* 416.390 211.529 50,80%

Africa 366.598 144.832 39,50%

Asia 259.783 74.932 28,80%

America 158.206 63.978 40,40%

Oceania 2.461 2.144 87,10%

Tutti i Paesi 1.215.135 497.415 40,90% Fonte: INAIL/Denuncia Nominativa Assicurati-Ministero dell’Interno

*Esclusi i cittadini comunitari

Come si nota dai dati tutte le opportunità lavorative vengono

offerte agli europei, da cui rimangono esclusi, nell’analisi, i

cittadini comunitari, e ai latino americani. Anche le poche

migliaia di cittadini dell’Oceania riescono ad inserirsi con

successo nel mercato del lavoro italiano. Questo dato potrebbe

portare a pensare che la somiglianza culturale influisca

positivamente sul livello di integrazione dei lavoratori. In questi

termini potrebbe essere considerato anche lo scarso successo

degli immigrati provenienti dall’Asia, che si attestano agli ultimi

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posti con un indice di accesso all’occupazione (28,8%) più

basso rispetto a tutti gli altri.

Lo stesso tipo di analisi si può effettuare a livello regionale,

domandandosi quali nazionalità hanno maggiore successo ed

in quali aree geografiche [tabella 13].

Tabella 13

Differenziale tra soggiorni e contratti di lavoro per continenti e

regioni (2002)

Europa Africa Asia America OceaniaValle d'Aosta 1,40% -1,00% -2,00% 1,00% 0,60%Piemonte 3,40% -2,10% -2,60% 1,30% 0,10%Lombardia -0,10% 4,40% -6,70% 2,70% 0,20%Liguria -2,20% 7,60% -3,40% 2,10% 0,10%Friulu V.G. -0,40% 7,20% 0,50% -8,00% -0,10%Trentino 22,10% -11,40% -7,40% -3,00%Veneto 4,00% -4,10% -0,30% 1,10% 0,40%Emilia R. 4,60% -2,00% -4,10% 2,70% 0,10%Toscana 3,30% 4,70% -4,60% -2,40% 0,20%Umbria 2,00% 6,00% -6,10% -1,80%Marche -4,20% 0,70% -1,10% 5,10% 0,40%Lazio 11,60% 2,40% -11,10% -2,90% 0,20%Abruzzo -2,00% 0,20% -5,20% 5,80% 1,20%Campania 18,90% 0,60% -8,00% -11,50% 0,60%Basilicata -7,60% 7,60% 1,80% 1,60% 0,10%Molise 3,80% -11,30% -4,80% 11,70% 1,70%Puglia 13,70% -5,50% -7,10% 2,30% 0,30%Calabria 22,40% -24,60% -13,80% 13,20% 2,70%Sicilia 12,50% 7,10% -19,50% -1,20% 1,10%Sardegna 17,20% -7,70% 7,10% -3,10% 0,80%

Fonte: INAIL/Denuncia Nominativa Assicurati

Definendo il differenziale occupazionale degli immigrati come lo

scostamento tra i contratti di lavoro e la quota percentuale di

soggiornanti, di un determinato continente in una determinata

regione, possiamo osservare che per gli immigrati provenienti

dall’Europa, tale differenziale è lievemente negativo solo in

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Lombardia, Liguria, Friuli ed Abruzzo. Lo è in maniera più

consistente, nelle Marche ed in Basilicata.

Per l’Africa sono 9 le regioni in cui il differenziale è negativo,

con la Calabria che mostra il valore più basso (- 24,6). Il valore

positivo più alto, invece, si riscontra in Friuli, Liguria, Basilicata

e Sicilia (7%).

Per quanto riguarda l’Asia, il differenziale è negativo per tutte le

regioni, talvolta con valori contenuti (2%), altre con valori che

superano il 10%.

Per l’America il differenziale è negativo in 8 regioni mentre, per

l’Oceania lo è solo in Friuli Venezia Giulia93 .

4.4.3. Gli Immigrati e il lavoro nero

Fra i decisori politici e ancor più nell'opinione pubblica, il lavoro

sommerso equivale a qualcosa di oscuro alla cui esistenza

concorrono diversi fattori: l’illegalità, criminale o elusiva, che si

combina con l'"arte di arrangiarsi", il degrado sociale, la

povertà, il generale scarso senso civico. Si aggiunge ancora, la

diffusa abitudine a non rispettare le regole necessarie a

garantire un'ordinata convivenza, la corruzione ed infine, gli

eccessi del potere burocratico sui cittadini.

93 Dossier statistico immigrazione 2003, Caritas

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Nell’analizzare il fenomeno del lavoro nero, da un punto di vista

dell'evoluzione dei sistemi economici e sociali, l'attenzione va

focalizzata sulla netta separazione tra economia criminale ed

economia informale.

La prima, infatti, produce beni e servizi illegali e anche quando

si inserisce in un contesto di "normalità", agendo come impresa

legale, opera con un'organizzazione e con metodi che la

caratterizzano come attività criminale.

In questi casi, per le politiche pubbliche, diviene prevalente

l'azione di repressione e contrasto alla criminalità economica

organizzata, rispetto a qualsiasi altra forma di possibile

intervento.

All'estremo opposto, invece, si colloca l'area delle attività

informali, generalmente legate a prestazioni elementari di

singoli o di unità produttive caratterizzate da: basso livello di

organizzazione, scarsa distinzione tra capitale e lavoro e

rapporti di lavoro occasionali basati su relazioni personali o

familiari.

Per quanto riguarda la nostra analisi sul lavoro nero, il

sommerso, da capire ed interpretare, è quello che interagisce

con i sistemi economici dei Paesi industriali. Questo è un

settore costituito da produzione e/o lavoro irregolare ma

collocato in contesti e settori produttivi ordinari, in grado di

partecipare alle dinamiche della moderna produzione.

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L’importanza di analizzare e arginare tale fenomeno è

giustificata dall’osservazione della realtà.

Il sommerso, per quanto fino ad ora mal stimato e quantificato,

copre in Europa una quota non marginale dell'economia,

valutabile fra il 5% e il 20%; In particolare nell'area dell'Euro

l'underground economy è cresciuta nell'ultimo quinquennio a

tassi più elevati dell'economia regolare.

Da qui l'esigenza di individuare modelli ed interventi per

contrastare tali tendenze che distorcono il mercato e

penalizzano gli introiti pubblici.

E' confermato che a determinare l'economia sotterranea sia la

volontà di sottrarsi agli obblighi fiscali, contributivi, contrattuali,

retributivi, normativi, di sicurezza, di affidabilità nonché di

responsabilità ambientale e sociale.

La situazione si aggrava se si considera, poi, l'ampia gamma

delle possibilità e le forti differenze d'intensità con cui si

manifestano i comportamenti irregolari.

E’ sempre più difficile tracciare una linea netta di confine tra

"regolare" e "irregolare", soprattutto nei sistemi economici che,

raggiungendo una notevole complessità e stabilità, si aprono

alla competizione globale.

Proprio nelle economie più avanzate, il sommerso tende a

configurarsi come una sorta di zona cuscinetto che serve per

attutire, in modo scorretto, gli effetti di un'eccessiva pressione

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fiscale o regolativa, per cercare di rispondere al nuovo

confronto competitivo proposto dalla globalizzazione e come

mezzo, per alcune aziende, per riuscire a sopravvive anche con

bassissimi livelli di competenza organizzativa, strumentale e

finanziaria.

L'effetto ultimo è di indebolimento dei sistemi economici che

difficilmente, in presenza di questo fenomeno, possono

compensare i ritardi nell'adeguare la struttura produttiva alla

nuova realtà di competizione internazionale.

Se all’avvio dei processi di modernizzazione, negli anni ’60,

l’iniziativa di singoli ha saputo evolversi in un sistema

imprenditoriale regolamentato e strutturato come è oggi,

nell’attuale contesto di commercio internazionale, l’economia

sommersa, nei paesi sviluppati, si insedia nei settori meno

produttivi e più arretrati, producendo uno spostamento del

capitale dai settori ad alta intensità di capitale verso i primi, che

lo impiegano in maniera meno efficente, provocando una

distorsione nella concorrenza.

La stessa valutazione negativa va fatta anche per i Paesi in

transizione, nei quali, il diffondersi dell’economia sommersa

alimenta l’intreccio tra corruzione ed attività economiche,

produce blocchi oligopolistici e, di conseguenza, frena lo

sviluppo delle naturali dinamiche di mercato.

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Le attuali forme che assume l'economia sommersa vanno

favorite dalle trasformazioni in atto sia nell'impresa che nel

mercato del lavoro.

La nuova forma di concorrenza, prevalentemente

internazionale, ha portato ad individuare un insieme di fattori

che indicano come la crescita nel numero di imprese, e quindi

della competizione, renda più facile lo sviluppo del sommerso.

Tali trasformazioni possono ricondursi a:

- destrutturazioni delle grandi imprese, con conseguente

formazione di organizzazioni che integrano unità produttive

diverse, piccole e anche piccolissime e con utilizzo diffuso l'out-

sourcing94. La produzione diventa flessibile e modificabile a

seconda dei mutevoli andamenti della domanda.

- una riduzione delle attività manifatturiere che modifica la

composizione settoriale dell'economia. Si ampliano gli spazi per

i servizi rivolti al mercato familiare o individuale, con modelli

operativi meno complessi e con basse necessità di

investimento (dai servizi personali, al piccolo commercio alla

ristorazione e al turismo);

- la delocalizzazione della produzione verso i Paesi a basso

costo di manodopera, che producendo una rottura nel rapporto

fra grande-media impresa e territorio, fa crescere lo spazio sul

94 Letteralmente “fonte di approvvigionamento all’esterno”. Indica il passaggio a terzi di attività che non costituiscono le competenze chiave dell’azienda. Sono frequentemente esternalizzati i servizi di pulizia, i servizi di trasporto, i servizi di manutenzione, di sicurezza. Detti servizi vengono affidati ad aziende specializzate con risparmi di costi e migliori risultati in termini di efficienza e di efficacia.

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territorio nazionale per le imprese più piccole e per le attività

orientate al consumatore.

Anche dal lato del mercato del lavoro, le ambiguità che lo

caratterizzano sono tanto rilevanti da sfociare nell’economia

sommersa per diverse ragioni:

- la necessità di rendere il lavoro più mobile e flessibile, infatti,

può determinare forme di elusione se l’obbiettivo è limitato alla

sola riduzione di costi aziendali e se non si accompagna ad una

crescita della produttività, ad un premio per la competenza e la

responsabilità, ad un allargamento della partecipazione nonché

allo sviluppo di nuove forme di lavoro;

- l'afflusso di immigrati irregolari e la mancanza delle condizioni

per poter essere occupati legalmente porta inevitabilmente al

lavoro sommerso;

- gli eccessivi oneri fiscali e contributivi sulle retribuzioni lorde,

rendono collusivo l'interesse fra imprenditore e lavoratore al fine

di evaderli totalmente o parzialmente.

A fronte di tale realtà, tuttavia, non tutto il sommerso può

essere portato ad una condizione di normalità, in quanto in

taluni casi l'emersione eliminerebbe alla radice ogni possibilità

di sopravvivenza per le aziende seguono mezzi illegali.

Questo accade perché le unità produttive dei settori sommersi

hanno un’intrinseca fragilità economica che non è in grado di

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assorbire i costi, seppur agevolati, dei processi di

regolarizzazione.

Un ulteriore motivo risiede nel fatto che spesso non può essere

sanato l’ambito di insediamento ove è ubicata l’impresa illegale,

o infine, perché ci sarebbe perdita di convenienza da parte

della clientela.

È necessario, pertanto, conoscere all'interno di ciascuna

economia nazionale quali tipologie di attività sia possibile

accompagnare verso la regolarizzazione e quali,

inevitabilmente, verrebbero eliminate da un intervento volto a

ridurre i settori anomali dell'economia.

In generale, nei territori in cui il sommerso è presente secondo

modalità strutturali, non cicliche o marginali, le imprese

irregolari possono essere differenziate tra:

- imprese trasgressive, del tutto visibili e conformi alle principali

norme, ma con una elevata propensione ad organizzare

evasione ed elusione fiscale e contributiva, a forzare l'utilizzo

degli strumenti di flessibilità lavorativa e l'out-sourcing, ed a

praticare sistemi di retribuzione non conformi a quella legale;

- imprese minimaliste, che rispettano al minimo i requisiti di

regolarità come l’iscrizione al registro ditte, la posizione fiscale

e previdenziale, ma che utilizzano una quota degli occupati

totalmente in nero, che applicano una diffusa evasione fiscale

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con una copertura parziale, e spesso solo formale, dei diversi

obblighi a cui è sottoposta una regolare attività produttiva;

- imprese mimetiche, generalmente di piccole dimensioni,

attorno ai 5-10 addetti, totalmente sommerse, anche grazie al

tipo di attività (servizi, edilizia) che non impone una sede

visibile;

Allo stesso modo, nella prospettiva del mercato del lavoro

troviamo le seguenti categorie:

- lavoratori regolari, che svolgono prestazioni in nero, in forma

autonoma o subordinata, come seconda attività nello stesso

ambito lavorativo o in un diverso settore produttivo;

- occupati dipendenti con condizioni minime di regolarità, ma

con gran parte delle prestazioni non registrate sia ai fini fiscali

che contributivi (straordinari, premi etc.);

- lavoratori con contratti atipici o soci in cooperative di comodo,

le cui forme contrattuali eludono l'effettiva condizione di

occupati alle dipendenze;

- dipendenti che accettano retribuzioni inferiori a quelle

dichiarate;

- lavoratori autonomi e professionisti irregolari;

- dipendenti totalmente irregolari (non dichiarati, con retribuzioni

totalmente in nero);

- immigrati irregolari.

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In definitiva, per definire il sommerso, le principali variabili da

combinare riguardano le caratteristiche dell'impresa, i rapporti

di lavoro, il settore di attività e l'area locale di insediamento.95

In Italia, secondo l’Istat, l’economia sommersa, nel 1998,

avrebbe creato un valore aggiunto compreso tra il 14,7% e il

15,4% del Pil con particolare incidenza nell’agricoltura,

un’incidenza media nei servizi (17,5%) ed un’incidenza più

bassa nell’industria (8,3%). Per la misurazione di tali entità,

l’Istat utilizza l’unità di lavoro standardizzata (ULA), che

consiste nel numero teorico di occupati che si avrebbe se

ciascuno di essi lavorasse a tempo pieno, mentre in realtà

comprende anche persone che lavorano a tempo parziale o che

hanno un doppio lavoro. In ogni caso, la metodologia dell’Istat

per la stima del sommerso è stata validata da Eurostat e

raccomandata anche agli altri stati membri dell’UE.

Per il 1999 l’Istituto di statistica ha stimato la presenza di circa

3,5 milioni di unità di lavoro a tempo pieno in posizione non

regolare, pari al 15,1% delle unità lavorative. Sempre nello

stesso anno il lavoro nero è risultato localizzato per il 22% nel

nord-ovest, per il 16% nel nord-est, per il 21% al centro e per il

42% al sud.

Il settore a più alta incidenza di lavoro irregolare è l’agricoltura

(30,4%), mentre nel settore dei servizi l’incidenza è del 16,9%.

95 Cfr. Censis Tendenze generali e recenti dinamiche dell’economia sommersa in Italia tra il 1998 e il 2002.

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Nell’industria in senso stretto l’incidenza del lavoro irregolare

scende al 5,7%, mentre nelle costruzioni è del 16,9% [tabella

14]

Tabella 14

Stima del lavoro non regolare per settori (1999)

Settori LavoratoriAgricoltura e pesca 417,2Industria in senso stretto 299,1Costruzioni 241,2Commercio e riparazioni 333,2Alberghi e pubbl.servizi 397Trasporti e comunicazioni 419,8Istruzione 89,7Sanità e servizi sociali 88,1Altri servizi pubbl. 171,2Lavoro domestico 598,2Totale 3.488,40Fonte: Istat

Oltre all’Istat anche le ispezioni dell’INPS nel 2002 confermano

l’ampiezza del fenomeno del sommerso: su 148.707 aziende

controllate, oltre 81.000, tra aziende e lavoratori autonomi, sono

stati trovati in posizioni irregolari (55%). Circa il 15% del totale

delle aziende e dei lavoratori autonomi sono risultati

completamente in nero (+ 11,3% rispetto al 2001),

specialmente nel settore commerciale. Sono stati individuati

126.152 lavoratori dipendenti irregolari, di cui 111.526

completamente sconosciuti all’Istituto.

Nel 2002 l’Ispettorato del Lavoro del Comando dei Carabinieri

presso il Ministero del Lavoro, ha svolto un’attività ispettiva in

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21.431 aziende, in prevalenza di piccole dimensioni, suddivise

per attività: artigianato 27,4%, commercio 22,8%, ristoranti e

alberghi 13,9% ed imprese di pulizia 2,2%96.

Ad occupare lavoratori in nero, secondo l’indagine, sono state

11.859 imprese (4.693 industriali e 7.166 artigiane), pari al

55,3% di quelle ispezionate.

Dei 24.395 lavoratori in nero, i minori sono stati 1.175 (4,8%),

per lo più adolescenti impiegati nel commercio e

nell’artigianato, 12.350 sono stati i lavoratori non comunitari

trovati a lavorare in una posizione irregolare: il 19,4% erano

clandestini, il 26,5% lavoratori in nero, contro il 54,1% di

lavoratori stranieri regolari.

Esistono, poi, delle particolari esperienze, come quella delle

così dette “cooperitive in nero”, diffuse soprattutto al nord,

concepite per offrire manodopera a prezzi stracciati solitamente

gestite da stranieri, operando come delle vere e proprie agenzie

per la fornitura di lavoro interinale. Queste organizzazioni sono

molto flessibili e nascono e muoiono con molta facilità allo

scopo, ovviamente, di eludere la legge ed i relativi controlli.

Alcuni tipi di cooperative forniscono manodopera ad imprese

utilizzatrici e trattengono, poi, parte dei contributi previdenziali e

delle somme da versare alle imposte, sostituendosi

all’istituzione, come veri e propri esattori fiscali.

96 Le ispezioni sono state fatte con criteri specifici diversi da quelli del campionamento, per cui, i dati hanno più un valore indicativo che non analitico.

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Un confronto tra le ispezioni effettuate in aziende e quelle

riguardanti il lavoro domestico mostra che, in quest’ultimo

settore, l’incidenza, sia del lavoro nero che di quello

clandestino, è molto più alta.

La pratica dell’evasione contributiva è più diffusa nel nord-est (riguarda più

del 40% dei lavoratori) e più contenuta in altre zone dove rimane all’interno

di valori che vanno dal 23% al 27%.

Per quanto riguarda l’incidenza dei lavoratori sprovvisti del permesso di

soggiorno, si riscontra che questa è più contenuta nel nord (15,6% con

punte del 20-22% in Lombardia e in Emilia Romagna), più alta nel centro

(19,5%) e raggiunge il massimo al sud con il 31,4%.97

L’analisi del ruolo dei lavoratori immigrati all’interno

dell’economia sommersa è molto complessa per l’evidente

difficoltà di rilevazione dei relativi dati. Tuttavia, la diffusione

della pratica di assumere lavoratori senza garantire loro alcun

tipo di protezione sociale, sembra trovare nell’assunzione dei

lavoratori immigrati, la soluzione ottimale. Questi lavoratori,

infatti, spesso arrivano clandestinamente nel nostro paese e la

loro posizione, in tali casi, non è ne controllabile né tutelabile:

semplicemente non esistono e per questo sono a rischio di

sfruttamento.

Uno degli scopi principali della politica migratoria di un paese come l’Italia,

che si trova a dover fronteggiare flussi sempre più consistenti di immigrati, è

proprio quello di limitare il più possibile l’immigrazione clandestina.

97 Dossier satistico immigrazione 2003 Caritas.

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4.5 La politica migratoria italiana

L’identità nazionale e la sovranità degli Stati condizionano il fenomeno

migratorio nella sua più vasta complessità. I paesi di destinazione, avendo

pertanto interesse a gestire il fenomeno secondo le loro priorità politiche,

sociali ed economiche, agiscono nel loro pieno diritto poiché, secondo gli

accordi di Helsinki del 1977, esiste un diritto ad emigrare che non trova un

corrispondente diritto ad immigrare, ma anzi, l’accettazione di un immigrante

è lasciata alla “mercy of nation state” (Garson 1997).

In questo contesto si pongono le politiche migratorie dei vari Stati.

In generale, la politica migratoria è definita come l’insieme delle norme che

regolano l’entrata di uno straniero in un paese (sia che intenda lavorare o

non lavorare), la sua permanenza legale e l’insieme di provvedimenti che

perseguono l’illegalità in entrambe le circostanze.

La politica migratoria definisce anche le dimensioni del flusso in entrata che

il paese è disposto ad accogliere e cioè l’ammontare dei permessi.

Le formule adottate sono varie ed interessanti negli Usa, l’ammontare di

accessi annuali tiene conto della contingenza economica e politica,

l’Australia e il Canada, per condizionare l’immigrazione ad un progetto di

sviluppo interno, hanno adottato un sistema a punti che combina obiettivi

demografici di riequilibrio della popolazione con obiettivi economici che

favoriscono sia l’accesso di imprenditori con un loro proprio ammontare di

capitale sia lavoratori qualificati secondo le richieste del mercato del lavoro.

Nei paesi del sud Europa, invece, è più diffusa l’attenzione alle scelte dei

nazionali in tal modo l’assunzione di uno straniero è condizionata

dall’assenza di nazionali disposti ad accettare alcuni posti di lavoro.

La politica migratoria è in effetti lo strumento per condizionare la natura del

flusso migratorio all’interno del paese ed il suo successo è influenzato,

soprattutto, dalla capacità di inserire la migrazione all’interno dei canali

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previsti dalla legge, perseguendo la migrazione del lavoro illegale e sanando

i soggiorni illegali, attraverso la regolarizzazione.

In generale, una politica migratoria è definita aperta se l’accesso al paese è

relativamente semplice, la concessione di visti è facile e il rilascio dei

permessi di soggiorno è sottoposto a vincoli limitati.

Viceversa, una politica migratoria è definita restrittiva se cerca di contenere il

flusso migratorio con la definizione di un numero di permessi ridotto rispetto

all’offerta e sottoponendoli a numerosi vincoli.

La politica migratoria, inoltre, è detta selettiva, se combina l’apertura con la

specificazione di alcune caratteristiche necessarie per l’accesso al paese.

Il processo di trasformazione del “caso Italia” da paese di emigrazione a

paese di immigrazione è stato così repentino ed inaspettato che gli interventi

di politica migratoria si sono dovuti susseguire in modo numeroso e

successivo per regolarizzare situazioni createsi nel primo periodo di

sorpresa e vuoto normativo.

La legislazione preesistente,, infatti, era scarsa ed indefinita, le strutture

amministrative erano insufficienti e il supporto finanziario che avrebbe

dovuto sostenere le attività necessarie ad affrontare tale situazione, non era

stato pianificato. Le prime quattro regolarizzazioni, dunque, hanno cercato di

adattare le istituzioni al nuovo fenomeno.

La prima regolarizzazione risalente agli inizi degli anni ’80, viene disposta a

livello amministrativo nel 1982 con circolari del Ministero del Lavoro.

Il Ministro del lavoro blocca le assunzioni di nuovi lavoratori stranieri ed

impartisce disposizioni per regolarizzare le situazioni di fatto di persone

inserite nel mercato del lavoro senza permesso o con il permesso scaduto,

salvo il rispetto di una serie di condizioni: ingresso in Italia entro il 1981,

disponibilità, del datore di lavoro ad assumere il richiedente la

regolarizzazione, dimostrazione di aver svolto un’attività lavorativa continua

dal momento dell’ingresso, attestazione di non aver lasciato l’Italia per un

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periodo superiore ai due mesi e, infine, deposito da parte del datore di lavoro

del biglietto aereo per il ritorno del lavoratore nel paese d’origine.

Tali disposizioni rimangono in vigore fino all’approvazione della legge

943/1986 ma ottengono effetti limitati soprattutto per via dello strumento

adottato: una circolare ministeriale, invece di una legge dello Stato.

La legge 30 dicembre 1986, n. 493 è la prima norma sugli

stranieri approvata in Italia. La percezione di un’ampia sacca di

posizioni irregolari, da parte degli immigrati, porta il legislatore a

prevedere un buon grado di regolarizzazioni delle posizioni

lavorative precedenti sia da parte dei lavoratori che da quella

dei datori di lavoro, con la possibilità di poter ottenere o

l’autorizzazione al lavoro o l’iscrizione nelle liste di

collocamento.

Nel 1990, la così detta legge Martelli (39/1990) innova in misura consistente

la normativa sull’immigrazione e prevede una sanatoria generalizzata per chi

fosse entrato in Italia entro la fine del 1989. Lo scopo è quello di ridurre al

minimo l’area di irregolarità e di evitare che in futuro si ripeta il formarsi di tali

posizioni.

All’epoca, solo il 4% degli stranieri può dimostrare di avere un

rapporto di lavoro in atto, ma la novità della legge è che, chi

non ha ancora un posto di lavoro può trovarlo non solo nel

settore del lavoro dipendente, ma anche in quello autonomo e

delle cooperative. Gli interessati hanno due anni di tempo a

disposizione e allo scadere dei due anni, il permesso non verrà

più rinnovato.

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In quegli anni, l’Africa è il continente che più si avvantaggia da tali

provvedimenti, rappresentando la metà dei regolarizzati. Nel frattempo, i

nuovi corsi storici nell’Europa dell’est, cominciano a far sentire i propri effetti

anche sulla presenza degli immigrati in Italia, provenienti dai paesi ex-

comunisti.

Nel 1995 viene proposto, con decreto legge, un provvedimento di

regolarizzazione non convertito in legge. La legge 9 dicembre 1996, tuttavia,

conferisce efficacia definitiva alle istanze di regolarizzazione accolte dal

Ministero dell’Interno. Il provvedimento contempla tre ipotesi di

regolarizzazione:

- Lavoro subordinato: il datore di lavoro ha l’obbligo di pagare i contributi

previdenziali, anche arretrati, quando il rapporto presso lo stesso datore

di lavoro è già in atto da almeno 4 mesi. l’immigrato, può essere assunto

ex novo tramite apposite dichiarazioni e previo il pagamento di sei mesi

anticipati di contribuzione.

- Iscrizione alle liste di collocamento. Il lavoratore straniero disoccupato,

qualora dimostri di aver lavorato almeno 4 mesi presso lo stesso datore

di lavoro, riceve il permesso di soggiorno per l’iscrizione al collocamento

della durata di un anno e versa la quota contributiva a suo carico.

- Ricongiungimento familiare. Il permesso di soggiorno viene rilasciato al

coniuge e ai figli minori del cittadino straniero che sia titolare di un

permesso di soggiorno di almeno due anni, che risieda regolarmente in

Italia da almeno un anno e che abbia la disponibilità di un alloggio

idoneo.

Nel 1997 complessivamente sono state accolte 227.272 domande, respinte

2.737, pendenti 28.752. La percentuale delle domande accolte, di permessi

di soggiorno per motivi di lavoro subordinato, è stata del 82,4%. Quelle per

l’iscrizione alle liste di collocamento del 12,9% e per i ricongiungimenti

familiari del 4,7%.

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Successivamente, la legge 40/1998 prevede che una quota di ingressi

venga riservata a coloro che possono dimostrare di soggiornare in Italia da

prima dell’entrata in vigore della legge stessa. In seguito, viene percepita

con maggior chiarezza la distinzione tra l’ingresso dei lavoratori previsto

dalle quote (meccanismo preventivo) e il recupero degli immigrati già

presenti sul territorio ed interessati alla regolarizzazione (meccanismo di

recupero).

Le istanze presentate sono state 250.747 delle quali, all’inizio del 2001

risultavano sospese 2.209 ed in fase di accertamento 34.336.

Delle domande di regolarizzazione il 14,5% è stato presentato per l’esercizio

di un lavoro autonomo e il 3% per ricongiungimento familiare.

I primi quattro provvedimenti legislativi in materia di immigrati hanno

consentito la regolarizzazione di 790.000 cittadini stranieri e cioè il 50% della

popolazione immigrata proveniente dai paesi a forte pressione migratoria

(Istat).

Inoltre, hanno dimostrato di essere funzionali al fabbisogno del mercato

occupazionale tanto che, per ricerca di lavoro erano iscritti il 65% nel 1986 e

l’86,2% nel 1990 mentre, la percentuale scende a 21,3% nel 1995 e al 4,9%

nel 1998.

Nelle prime regolarizzazioni la comunità africana è risultata essere la più

numerosa mentre, nelle due successive si è registrato un aumento delle

richieste da parte degli immigrati provenienti dall’Est Europa.

Negli anni più recenti la legge Bossi Fini n. 189/2002 in materia di

immigrazione ha apportato significative modifiche ed integrazioni al Testo

Unico n. 286/1998. In particolare, per quanto riguarda la disciplina sul lavoro,

sono state introdotte le seguenti innovazioni :

- Dal punto di vista dei profili organizzativi, la nuova normativa ha

completamente ridisegnato la procedura per l’accesso al lavoro dei cittadini

stranieri. In ogni Provincia, infatti, è stato istituito, presso le Prefetture, lo

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sportello unico per l’immigrazione al fine di semplificare i rapporti con gli

utenti, riunendo in un unico organismo istituzionale tutte le competenze delle

amministrazioni coinvolte nella procedura dell’assunzione di un lavoratore

immigrato (Ministero dell’Interno, il Ministero degli Esteri, del Lavoro e delle

Politiche Sociali).

- Per quanto riguarda le modalità di ingresso, può stanziarsi in Italia, per

motivi di lavoro subordinato, solo lo straniero che ha già un contratto di

lavoro. Il datore di lavoro che voglia assumere un cittadino straniero, deve

presentare alle autorità competenti la richiesta di nulla osta al lavoro e, allo

stesso tempo, la documentazione relativa alla sistemazione alloggiativa per

il lavoratore. Fatti i dovuti accertamenti, lo Sportello unico concede il nulla

osta al lavoratore subordinato.

Il contratto di lavoro tra datore di lavoro e lavoratore non comunitario, poi,

deve contenere le garanzie di una adeguata sistemazione del lavoratore

immigrato e del pagamento, da parte del datore di lavoro, delle spese di

viaggio per il rientro dell’immigrato nel paese di provenienza.

Il permesso di soggiorno per lavoro ha la stessa durata del contratto di

lavoro e comunque non può superare i 9 mesi per i contratti di lavoro

stagionali;

1 anno per il lavoro subordinato a tempo determinato e 2 anni per il contratto

di lavoro subordinato a tempo indeterminato e per motivi familiari. Il rinnovo

del permesso di soggiorno è sottoposto alle stesse verifiche valide per il

rilascio.

Se un immigrato perde il posto di lavoro non è costretto a lasciare il paese,

né tanto meno lo sono i suoi familiari. Il lavoratore straniero, infatti, ha la

possibilità di essere iscritto alle liste di collocamento per il periodo di residua

validità del permesso di soggiorno e comunque per un periodo non inferiore

ai 6 mesi.

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Inoltre il datore di lavoro che impieghi lavoratori non comunitari privi del

permesso di soggiorno per lavoro, o con permesso scaduto e senza che sia

stato richiesto il rinnovo, è passibile di arresto da 3 mesi ad 1 anno ed è

soggetto a sanzioni pecuniarie fino a 5.000 euro per ogni lavoratore

irregolare.

- Dal punto di vista della formazione professionale, è possibile realizzare

progetti di formazione all’estero nell’ambito di programmi approvati dal

Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e dal Ministero dell’Istruzione e

realizzati da Regioni, Province autonome e altri Enti locali. Tale formazione è

finalizzata ad un inserimento mirato degli immigrati nei settori produttivi

italiani che operano all’interno dello Stato, ad un inserimento mirato nei

settori produttivi italiani che operano nel paese di origine dell’immigrato, ed

infine, allo sviluppo delle attività produttive o imprenditoriali autonome, nei

Paesi di origine dell’immigrazione.

- Per quanto riguarda la regolarizzazione, è prevista la possibilità, per i datori

di lavoro che ne abbiano fatto richiesta entro l’11 Novembre 2002, di

regolarizzare i rapporti di lavoro con cittadini non comunitari privi del

permesso di soggiorno per lavoro. La norma riguarda i lavoratori immigrati

occupati, da almeno tre mesi antecedenti l’entrata in vigore della legge,

come collaboratori domestici e per l’assistenza alle persone nonché in

qualità di lavoratori degli altri settori produttivi98 (L’estensione agli altri settori

produttivi è stata introdotta con l’entrata in vigore della legge n. 222/2002).

Tra i vari compiti della politica migratoria, abbiamo visto che c’è quello di

contrastare i flussi migratori irregolari. In generale, la presenza di un

lavoratore immigrato irregolare può avere due origini: l’entrata illegale,

dell’immigrato nel paese o l’entrata legale con permessi di soggiorno diversi

da quelli per motivi di lavoro, divenuti illegali al momento della scadenza e

98 Cfr. Semnario europeo, Immigrazione: Mercato del lavoro e Interazione, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e normesulla condizione dello straniero, Como 20-21 Novembre 2003

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della successiva permanenza dell’immigrato. Entrambi questi due casi

danno luogo al lavoro illegale.

I problemi che pone la pratica dell’immigrazione clandestina, oltre ad

alimentare l’attività ed il giro d’affari dell’economia sommersa, sono di natura

criminale alimentando, per esempio, il traffico di immigrati clandestini, che

non solo danneggiano lo sviluppo dell’economia, sia dei paesi di

destinazione che di origine, ma che soprattutto danno vita ad inaccettabili

forme di moderna schiavitù. Recentemente l’OIM (Organizzazione

Internazionale delle Migrazioni) ha divulgato le tariffe che i migranti pagano

ai trafficanti per giungere nei paesi europei o nel nord America: dai 200 ai

30.000 dollari per andare negli Usa e, dai 1.000 ai 10.000 dollari per

raggiungere l’Europa.

Per rendere più efficace, quindi, la selezione operata dalla politica di

accesso un paese deve essere in grado di contrastare i flussi illegali.

L’Italia, per far fronte a tali problemi, nell’arco del 2002, ha impegnato

nell’attività di controllo dei confini e di repressione dello status di irregolarità,

complessivamente 149.783 unità.

Le sole espulsioni di nuova introduzione hanno riguardato in totale, 10.618

persone incidendo del 10,0% sul totale delle espulsioni che alla fine del

2002 sono state 105.808 [tabella 15].

Tabella 15Tavola riassuntiva della pressione migratoria verso l’Italia (2001-

2002)

Respingimenti 43.795alle frontiere 37.656dai questori 6.139Espulsioni eseguite 42.245accomp. Alle frontiere 24.799provv. A.G. 427riammissioni 17.019Espulsioni intimate 53.125ottemperate 2.273

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non ottemperate 50.852Ordini del questore 10.618ottemperati 188non ottemperati 10.317arresti per mancato ottemperamento 113Totale persone coinvolte 149.783persone effettivamente allontanate 88.501Fonte: Ministero dell’Interno

Per via delle migliaia di chilometri di costa dell’Italia, gli sbarchi clandestini

dai paesi mediterranei sono stati il mezzo più diffuso per raggiungere il

nostro paese.

Al 31.12.2002 gli sbarchi rilevati sono stati 21.38099 e le regioni interessate

sono comprensibilmente la Sicilia, la Puglia e la Calabria.

Rispetto al 2001 si è riscontrato un aumento del 6,1%, pur rimanendo

notevolmente al di sotto delle cifre registrate nel corso del triennio 1998-

2002, quando solo nel 1999 arrivarono 49.999 immigrati.

Le nazionalità più coinvolte negli sbarchi sono quella irachena (17,2%),

seguita dallo Sri-lanka (12,3%), dalla Liberia (10%), dal Marocco (8,7%) e

dai curdi (7,3%).

La Sicilia è stata protagonista del 76,8% degli sbarchi clandestini, solo nel

2002. La propensione verso la Sicilia è un fenomeno recente su cui,

probabilmente, ha influito il rafforzamento dei controlli in Puglia.

I paesi da cui provengono i clandestini che sbarcano nell’Isola sono, per la

maggior parte, l’Iraq (14,4%), la Liberia (11,5%) il Marocco (10,1%) ed il

Sudan (6,9%).

La Puglia attualmente è la seconda regione italiana per numero

di sbarchi di clandestini con il 14,2% del totale. Al contrario, dal

1998 al 2000 la Puglia è stata letteralmente invasa dai

clandestini con un’incidenza pari al 74,6% nel ’98, del 93% nel

‘99 e del 70% nel ’00 e la nazionalità che prevalentemente è

99 Servizio Immigrazione e Ministero dell’Interno

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sbarcata sulle sue coste è quella albanese (37%) seguita da

quella irachena (30%).

La Calabria è la regione in cui, durante il 2002, sono sbarcati il minor

numero di clandestini (8,9% del totale). Generalmente, comunque, le coste

calabre sono meta soprattutto delle così dette rotte orientali ed in particolare

dei cittadini dello Sri.Lanka e del Pakistan.

Altri confini “a rischio” sono quelli nord-orientali ed in particolare quello con la

Slovenia tanto che nel 2002 sono state rintracciate 1.133 persone irregolari

nella fascia italo-slovena della sola provincia di Trieste.

Gli immigrati che scelgono la “rotta balcanica” sono per lo più provenienti dai

paesi dell’Europa dell’est (jugoslavi, rumeni, macedoni, bosniaci, ucraini) ma

è frequente che raggiungano tali confini, anche gli immigrati provenienti

dall’estremo oriente a partire dalla Cina.

Il quadro fin qui riportato fa pensare che il nostro paese non

può sperare di agganciare la ripresa mondiale senza accogliere

più immigrati.

Questi, serviranno a colmare le carenze di manodopera nel

nord-est, nel turismo e nell’agricoltura e più in generale,

l’immigrazione è indispensabile per far crescere un paese in

declino demografico e con forti squilibri regionali.

La forza lavoro immigrata opera già nelle regioni in cui la produttività del

lavoro è più alta e la durata della disoccupazione più bassa e per questo gli

immigrati sono già più produttivi dei lavoratori nazionali.

Se regolarizzata in fretta, questa forza lavoro può essere di grande aiuto

anche per migliorare i conti pubblici.100

100 Cfr. T. Boeri, Immigrati una terapia d’urgenza, in La Stampa 2003.

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Tuttavia, la maggior difficoltà che ha l’Italia, rispetto agli altri paesi del nord

Europa e d’oltre oceano, nel perseguire efficaci politiche migratorie, di

prevenzione e di repressione, è rafforzata dal richiamo che esercita il lavoro

irregolare. A tale richiamo rispondono, soprattutto, quegli individui il cui unico

interesse è quello di uscire da una situazione di estrema povertà per poter

accedere ad una qualsiasi fonte di reddito.

Quindi, L’ostacolo più grande che incontra il nostro paese nel gestire il

fenomeno, è rappresentato dal suo sistema produttivo e dal funzionamento

del mercato del lavoro, caratterizzato da una eccessiva rigidità

occupazionale e dalla segmentazione, cioè, da una forte presenza del

settore sommerso.

La politica migratoria dell’Italia, tenendo presente tali caratteristiche, deve

prevalentemente contrastare l’immigrazione irregolare sia nell’accesso

clandestino, sia nella presenza irregolare.

Le politiche adottate dai paesi, come Canada ed Australia, con una grande

tradizione alle spalle di paese di immigrazione, potrebbero essere un

esempio illuminante per la politica italiana.

Garantire l’accesso legale degli immigrati, in funzione della domanda di

lavoro presente nel paese, infatti, permette di selezionare, questo tipo di

lavoratori, secondo le esigenze del mercato del lavoro e della demografia e

consente di stimolare una politica di collaborazione da parte dei paesi di

origine, nel contenimento della migrazione illegale.

Conclusioni

Le conclusioni che si possono trarre riguardo alle varie problematiche che

sono state analizzate sono sintetizzabili come segue: in merito all’aspetto

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demografico, primo problema di cui si è discusso, gli studi disponibili

cercano di quantificare il flusso aggiuntivo che sarebbe necessario per

mantenere stabile la struttura, per età, della popolazione, in quei paesi che

presentano elevati livelli di invecchiamento e un tasso di fecondità inferiore a

quello di sostituibilità generazionale.

E’ emerso che si richiederebbe, ai paesi di destinazione, una politica

migratoria capace di regolare i flussi in ingresso verso le caratteristiche

desiderate, cioè essenzialmente verso immigrati giovani e capaci di inserirsi

rapidamente nel mercato del lavoro del paese che li accoglie e che, ai fini

dell’assistenza previdenziale, occorrerebbero flussi migratori massicci e

fortemente crescenti nel tempo, che risulterebbero realisticamente

incompatibili con la struttura politico-istituzionale dei paesi di destinazione.

In particolare lo studio di G. Gesano (1995) valuta nel 30% della popolazione

nazionale la quota di immigrati necessari per raggiungere una popolazione

stazionaria. Mentre, il lavoro di F.Coda (2001), valuta che per poter ridurre il

disavanzo dei conti pubblici, senza riforme strutturali, si arriverebbe ad aver

bisogno di un flusso di immigrati pari ad 1 milione l’anno, solo in Italia.

Il limite di analisi simili è che i risultati raggiunti dipendono in maniera

rilevante dagli scenari ipotizzati sui flussi migratori che presentano un

elevato grado di aleatorietà, non riscontrabile per altre variabili demografiche

come fecondità e natalità.

Per quanto riguarda l’abbattimento, o il livellamento, del differenziale

economico esistente tra Nord e Sud del mondo, le soluzioni ipotizzate,

dell’ampliamento del commercio internazionale, o in sostituzione, della

liberalizzazione del movimento dei fattori di produzione (capitale e lavoro),

trovano entrambe degli ostacoli.

Da un lato i paesi avanzati oppongono resistenza alla prospettiva di dover

rinunciare a posizioni di privilegio, in termini di commercio internazionale, a

favore dello sviluppo dei paesi meno evoluti.

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Dall’altro, spesso le condizioni politiche-istituzionali interne dei paesi in via di

sviluppo rendono difficile l’attuazione dei processi necessari di riforma

economica interna, nonché rischiosi gli investimenti diretti da parte delle

economie industrializzate, impedendo l’attuazione di quel processo di

globalizzazione che può portare ad attenuare il differenziale economico

esistente tra paesi in via di sviluppo e paesi più sviluppati.

Per quanto riguarda la mobilità del capitale fra paesi, la convenienza a

realizzare investimenti produttivi è spesso legata a fattori non solo

economici, ma anche politico-istituzionali, come la certezza dei diritti di

proprietà, l’esistenza di un libero mercato e la stabilità macroeconomica. Si

tratta di caratteristiche spesso mancanti nei paesi di origine del flusso

migratorio e ciò produce un’elevata incertezza sulla profittabilità di

investimenti diretti in questi paesi, pregiudicando, spesso, la realizzazione

del progetto di investimento; pertanto, la migrazione può supplire

all’insufficiente operare dei canali legati alla mobilità del capitale e allo

sviluppo del commercio internazionale.

Relativamente all’inserimento dei lavoratori stranieri all’interno del mercato

del lavoro dei paesi di destinazione le conclusioni a cui si giunge fanno

riferimento a tre scenari differenti.

All’interno di un ipotetico mercato del lavoro neoclassico, nel breve periodo,

l’aumento dell’offerta di lavoro nel paese d’accoglienza provoca un aumento

della disoccupazione ed una pressione verso il basso sui salari. Una

domanda di lavoro sufficientemente elastica al salario determina un aumento

dell’occupazione che, nel lungo periodo, porta al riassorbimento completo

della disoccupazione. Pertanto nel lungo periodo, in assenza di vincoli

nazionali sui flussi migratori e in presenza di salari perfettamente flessibili, i

movimenti migratori portano ad un livellamento dei salari sia del paese di

origine che di quello di destinazione e ad un’occupazione totale pari

all’offerta complessiva.

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Se questo tipo d’andamento dei salari e dell’occupazione ben si adatta ai

mercati del lavoro statunitensi o canadesi, nei paesi europei i mercati del

lavoro non sono così flessibili né caratterizzati da mobilità occupazionale.

Nel caso in cui esista un sindacato che influenza la contrattazione salariale

dei lavoratori non qualificati e un governo che decida il numero di immigrati

da ammettere nel paese, un flusso di lavoro straniero porta al ribasso dei

salari dei lavoratori nazionali, non qualificati, e ad un aumento della

domanda di lavoro qualificato (i cui livelli salariali sono decisi dal mercato

competitivo). In questo caso, i lavoratori immigrati, supposti privi di qualifiche

professionali, sono perfettamente sostituti dei lavoratori nazionali non

qualificati e complementari ai lavoratori nazionali qualificati.

Relativamente all’esistenza di un settore informale accanto al settore

ufficiale dell’economia, si è evidenziato il ruolo negativo che gli immigrati,

impiegati nel settore informale, hanno sull’economia del paese

d’accoglienza.

Il ruolo competitivo che questi assumono, nei confronti dei lavoratori

nazionali, si concretizza con lo spostamento del capitale dal settore ufficiale

più produttivo al settore informale meno produttivo.

Il danno sostanziale è rappresentato dal trasferimento conseguente di parte

della forza lavoro nazionale nel settore informale e in una perdita totale di

efficienza di tutta l’economia del paese di destinazione che diventa meno

competitivo e produttivo rispetto alla situazione pre-immigrazione e rispetto

ai paesi esteri. In un simile scenario la competizione che si stabilisce tra i

lavoratori stranieri e quelli nazionali può essere definita indiretta, operando

essenzialmente attraverso lo spostamento di capitale dal settore regolare al

settore informale.

Per quanto riguarda il ruolo che il lavoratore straniero assume nel mercato

del lavoro del paese d’accoglienza, è risultato molto importante il livello di

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capitale umano che questi porta con se al momento dello stanziamento nel

paese ospitante.

E’ risultato che più il lavoratore straniero è qualificato, o in

grado di acquisire qualifiche nel paese di destinazione, più egli

sarà in grado di inserirsi nel nuovo mercato del lavoro e sarà in

grado di avere successo, in termini salariali, analogamente ai

lavoratori nazionali.

Ad influire sulle performances dei lavoratori stranieri concorre, inoltre, il

grado di adattabilità del loro capitale umano al mercato del lavoro del paese

di accoglienza e la conseguente autoselezione che gli immigrati compiono.

Legato al livello di capitale umano, poi, è il periodo che l’immigrato stima di

trascorrere nel paese ospitante. Siccome acquisire professionalità ha un

costo, più tempo l’immigrato è interessato a rimanere nel paese di

destinazione, maggiore sarà il suo investimento in professionalità e migliore

il suo inserimento nel mercato del lavoro.

Il discorso inverso si può fare per gli immigrati che decidono di restare per

un periodo relativamente breve nel paese d’accoglienza: le loro

performances sono meno efficienti.

Le conclusioni cui si perviene con l’analisi teorica a volte non coincidono con

quelle a cui portano le indagini empiriche. Un esempio interessante lo

fornisce proprio l’Italia: data la scarsa flessibilità del mercato del lavoro, la

poca mobilità interna dei lavoratori nazionali e gli alti livelli di

disoccupazione, ci si aspetterebbe una difficoltà di assorbimento degli

immigrati nel mercato del lavoro. In realtà, si è riscontrato che, per la

maggior parte dei casi, gli immigrati sono complementari ai lavoratori

nazionali.

Questo succede soprattutto nel nord-est d’Italia, zona altamente

industrializzata, e per i lavoratori mediamente specializzati.

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La spiegazione largamente accettata per questi risultati è che, in Italia il

fenomeno migratorio è relativamente nuovo e non ancora consolidato.

Lo studio prevede che, rimanendo costanti le caratteristiche del mercato del

lavoro italiano, le future eventuali entrate di immigrati porteranno ad un

grado di inserimento sempre minore.

L’analisi presa a riferimento esaminava dati che coprivano l’arco temporale

1990-1995.

Al fine di avere una conferma dei risultati dello studio sopra riportato,

nell’ultima parte della tesi, ho analizzato i dati relativi all’ultima

regolarizzazione avvenuta in Italia, che si riferisce all’anno 2002.

La conclusione che si può ricavare dai dati esaminati è che anche in questo

periodo, dopo dieci anni, resta fermo il carattere prevalentemente

complementare degli immigrati rispetto ai lavoratori nazionali.

Secondo l’ultima rilevazione ISTAT riferita al 2003 gli immigrati regolari in

Italia sono 2.400.000 vale a dire il 4% della popolazione italiana.

Sei sono i paesi esteri che rappresentano i principali poli di spinta

dell’immigrazione permanente, di questi il Marocco è il bacino maggiore,

seguono l’Albania, la Romania, le Filippine e la Cina.

Il fenomeno dell’immigrazione ha dimensioni consistenti ed è diffuso su tutto

il territorio nazionale compresi i piccoli centri e le zone agricole, tuttavia la

presenza degli stranieri all’interno delle regioni del paese non è omogenea.

Le zone del nord-ovest e del nord-est sono sicuramente quelle che attirano il

maggior numero di immigrati e la ragione risiede nella circostanza che la

ricchezza delle zone e la relativa economia dinamica rappresentano per

l’immigrato la possibilità di elaborare un progetto a medio – lungo termine

con la prospettiva di un insediamento permanente.

Di contro, le carenze strutturali del Meridione e la diversa realtà economica

non favoriscono l’insediamento degli immigrati in questa zona, pur

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rappresentando la porta di ingresso per la quasi totalità degli immigrati

provenienti da tutto il mondo.

Questo tipo di distribuzione territoriale porta a concludere che la maggior

parte degli immigrati che si stabiliscono nel paese è mossa dalla necessità di

trovarvi un lavoro, mentre i ricongiungimenti familiari o i motivi di carattere

politico, religioso e di studio, alimentano solo marginalmente il flusso

migratorio in Italia.

Relativamente all’inserimento degli immigrati nel mercato del

lavoro italiano, l’archivio dell’INAIL ha registrato che nel 2002

sono stati assunti lavoratori non comunitari per 659.847 unità

(in media una ogni nove assunzioni ha riguardato un lavoratore

immigrato).

Le grandi aziende sono protagoniste nelle assunzioni degli

immigrati per il 41,6% mentre la restante quota di assunzioni è

divisa a metà tra le medie (da 11 a 50 dipendenti) e le piccole

imprese (fino a 10 dipendenti).

I due terzi dei lavoratori assunti (66,5%), inoltre, si colloca nella

fascia d’età 19-35 anni e il 26,6% nella fascia 36-50 anni.

Per quanto riguarda la distribuzione geografica delle assunzioni

dei lavoratori immigrati, il 69% di questi trova lavoro al nord,

con la prevalenza del nord-est che da solo assume il 37,8%

degli immigrati. Il 20,5% degli stranieri è assunto al centro e

solo il 10,5% al sud del paese, di cui il 2,8% nelle isole.

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Il numero delle assunzioni al nord è sette volte maggiore di

quelle al sud.

La ripartizione delle assunzioni per grandi aree geografiche

assume valori differenti nei diversi settori economici. Nel nord-

est, non solo i lavoratori stranieri sono i più numerosi di tutto il

paese, ma lo sono anche in tutti i settori economici,

dall’industria all’agricoltura. Il centro mantiene un livello più o

meno costante di presenze in tutti i settori (20%), eccezion fatta

per l’agricoltura. Mentre, nel Meridione le maggiori presenze di

lavoratori stranieri si ha nel settore agricolo (13,8% al sud e

8,6% nelle isole).

Tra il settore dell’industria il ramo più significativo è quello delle costruzioni in

cui la grande rilevanza delle assunzioni dei lavoratori stranieri dimostra il loro

carattere complementare o aggiuntivo rispetto all’insufficienza di forze lavoro

italiane da impiegare in certi distretti economici.

Nel settore dei servizi il ramo più diffuso è quello degli alberghi e ristoranti,

sottolineando l’importanza, per il nostro paese, delle attività a carattere

stagionale che viene riconfermata anche dall’alta incidenza di lavoratori

agricoli stagionali che si concentrano, periodicamente, nel sud- Italia.

In generale, si possono individuare tre tipi di settori: i settori con

un fabbisogno molto alto di manodopera immigrata, nei quali

l’incidenza delle loro assunzioni, sul totale, è maggiore del 15%.

Questi comprendono

l’industria conciaria, tessile, dei metalli e di trasformazione.

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I settori con un fabbisogno alto, nei quali l’incidenza delle

assunzioni degli immigrati varia dal 10% al 15%: alberghi,

ristoranti, costruzioni, trasporti e industria meccanica.

Infine ci sono i settori con un fabbisogno medio di manodopera

straniera con un’incidenza delle loro assunzioni che varia dal

7% al 10%: industria alimentare, industria chimica, della carta,

industria elettrica, commercio all’ingrosso e sanità.

In riferimento a questi valori, talvolta, si parla di fabbisogno

aggiuntivo di manodopera straniera e di tendenza alla

etnicizzazione di alcuni comparti produttivi. Tali valori, infatti,

non solo sono andati aumentando nell’arco del tempo ma, la

vera novità, è che in alcuni di essi le cessazioni dei rapporti, da

parte dei lavoratori italiani, sono maggiori delle assunzioni. Il

contrario avviene per gli immigrati e, addirittura, in alcuni

distretti, la fuoriuscita dei lavoratori nazionali non riesce ad

essere compensata dai lavoratori stranieri.

Sicuramente, in generale, i processi di ristrutturazione che sono

avvenuti negli ultimi anni, soprattutto nelle grandi industrie,

hanno contribuito a diminuire i livelli di occupazione. Tuttavia, a

fronte di un crescente allontanamento dei lavoratori italiani, in

alcuni settori, si assiste ad un perdurare del fabbisogno di

manodopera che viene coperto dai lavoratori non comunitari.

Nell’industria dei metalli, ad esempio, le cessazioni degli italiani

superano di 4.252 le loro assunzioni mentre, per i lavoratori

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extracomunitari sono le assunzioni a prevalere sulle cessazioni

con 3.107 unità. Un altro esempio è dato dall’industria conciaria

dove il saldo tra assunzioni e cessazioni è negativo per gli

italiani (-2.599) e positivo per gli immigrati (1.579).

In definitiva, l’analisi della distribuzione della forza lavoro straniera nel nostro

paese ha dimostrato che in alcuni comparti economici (costruzioni, industria,

alberghi/ristoranti e agricoltura) e in alcune zone del paese (nord – est e

nord – ovest) il ruolo degli stranieri è decisamente complementare ai

lavoratori nazionali. Nel sud e nelle isole, l’arretratezza economica e i carenti

investimenti sul territorio, non permettono un insediamento degli immigrati

altrettanto numeroso. Tuttavia anche in queste zone, nel momento in cui gli

immigrati sono impiegati nel settore agricolo e dei lavori stagionali, risultano

complementari ai lavoratori nazionali.

Un ulteriore importante risultato emerso è che uno de principali problemi che

affligge il nostro paese è l’alta incidenza del lavoro irregolare.

Tale fenomeno riguarda sia i lavoratori nazionali sia i lavoratori stranieri e

per quanto riguarda questi ultimi, il problema sembra essere più grave

perché è spesso collegato ad attività criminali quali il traffico di clandestini o

lo sfruttamento di manodopera clandestina.

Per il 1999 l’ISTAT ha stimato la presenza di circa 3,5 milioni di unità di

lavoro in posizione non regolare tra lavoratori nazionali e non. Di questi è

difficile fare un’esatta stima di quanti siano gli immigrati irregolari per

l’evidente difficoltà di rilevazione dei dati.

Dalle stime dell’Ispettorato del Lavoro del Comando dei Carabinieri presso il

Ministero dell’Interno (2002) è emerso che sui 24.395 lavoratori in nero

12.350 erano non comunitari di cui il 19,4% clandestini e il 26,5% lavoratori

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stranieri, con regolare permesso di soggiorno, ma impiegati nell’economia

sommersa101.

Questo è uno dei problemi di maggiore importanza che il

governo italiano e gli organi per la sicurezza sociale si trovano

a dover affrontare.

In particolare tale questione pone incertezze di ordine

strettamente politico, di sicurezza sociale ed e economico che

devono necessariamente essere affrontate con la

programmazione preventiva, sia per quanto riguarda i tempi di

attuazione degli eventuali interventi, sia per quanto riguarda la

disponibilità dei mezzi necessari per svolgere l’attività di

controllo e repressione del fenomeno.

In generale, nei paesi del sud Europa la politica migratoria è sempre stata

orientata verso una maggiore attenzione ai lavoratori nazionali rispetto agli

immigrati, quindi l’assunzione di uno straniero è spesso generata

dall’assenza di nazionali disposti ad accettare alcuni posti di lavoro.

La politica migratoria italiana non si discosta da un simile atteggiamento e,

ad oggi, ha emanato dei provvedimenti più di tipo correttivo, di situazioni al

di fuori della legge, che di tipo organizzativo e gestionale preventivo.

In definitiva, venti anni di regolarizzazioni con cinque importanti

interventi legislativi, hanno avuto più il compito di affrontare una

situazione di emergenza piuttosto che regolamentare il

fenomeno della migrazione in base alle necessità del mercato

del lavoro italiano.

101 Le ispezioni sono state fatte con criteri specifici diversi da quelli del campionamento, per cui, i dati hanno più un valore simbolico che analitico.

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La maggior difficoltà che ha l’Italia, rispetto agli altri paesi dell’Europa

settentrionale e d’oltre oceano, nel perseguire efficaci politiche migratorie di

prevenzione e di repressione, è rafforzata dal richiamo che esercita il lavoro

irregolare.

L’ostacolo più grande che incontra il nostro paese nel gestire il fenomeno è

rappresentato dal suo sistema produttivo e dal funzionamento del mercato

del lavoro, caratterizzato da un’eccessiva rigidità occupazionale e dalla

segmentazione, vale a dire, da una forte presenza del settore sommerso.

Proprio questa sembra essere la sfida che l’immigrazione pone oggi all’Italia

e a tutti i paesi dell’UE.

L’obiettivo da cogliere, da parte dell’UE, in conformità alle esigenze di ogni

singolo paese che la compone, è quello di sviluppare delle politiche di

cooperazione con i paesi a forte spinta emigratoria per rendere coerenti le

esigenze di tutte le parti interessate dal fenomeno.

A tal proposito, oltre a considerare il particolare funzionamento di ciascun

mercato del lavoro, sarebbe utile osservare ed analizzare le politiche

migratorie adottate dai paesi con una lunga esperienza di immigrazione alle

spalle quali USA, Canada e Australia, i quali, condizionano l’ingresso degli

immigrati alle loro caratteristiche professionali ed alle reali esigenze

demografiche ed occupazionali dei relativi mercati del lavoro interessati

dall’immigrazione.

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