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Università degli Studi di Roma “Roma tre”Facoltà di Scienze Politiche
Tesi di Laurea
Un mondo in movimento, cause e conseguenze economiche della migrazione internazionale.
Il caso Italia: ieri noi, oggi loro
Relatore LaureandoChiar.mo Prof. Valentina PizzellaLilia Cavallari matr. n. 10780061
Anno Accademico 2003 – 2004
Indice
Introduzione……………………………………………………………
…………………1
Il Fenomeno della Migrazione Internazionale
La decisione di emigrare…………………...
………………………… 12
Evoluzione dei movimenti migratori……………………….
…………..19
Politiche di gestione della Migrazione……………………….…..
…….30
L’economia della Migrazione…………………..
…………………….…31
La mobilità internazionale del Fattore
Lavoro……………………..…35
Gli effetti della Migrazione sul benessere economico e
sociale…...60
Immigrazione e mercato del lavoro
Complementarità o
sostituzione………………………………………..83
Il sindacato……...…………………………………………...89
La competizione indiretta…………………….…..………...95
Il Capitale Umano……………..…………………….…………………
104
Assimilazione Salariale……………..…….………………105
Migrazione selettiva e Disoccupazione…………….……..
…………109
Migrazione Temporanea……………………..
……………………….113
Integrazione economica e salariale degli immigrati nei paesi
di destinazione: evidenze empiriche
La metodologia di analisi….……………..
……………………………117
L’esperienza
d’oltreoceano……………………………………………127
Risultati
europei………………………………………………………...140
Migrazione Temporanea……………...…………………..143
Gli effetti della disoccupazione sull’integrazione economica
degli immigrati nel paese di destinazione....148
I Paesi del sud Europa……………………………...
…………………159
Evoluzione del Fenomeno Migratorio in Italia
Gli italiani nel
mondo…………………………………………………..177
L’Italia come paese di
immigrazione…………………………………182
Inserimento territoriale e integrazione sociale degli
immigrati…….190
Il mercato del lavoro italiano ed il livello di integrazione
degli
stranieri……………………………………………………………197
Le assunzioni dei lavoratori immigrati per settori di
produzione e ripartizione territoriale……..………………204
Assunzioni dei lavoratori immigrati per nazionalità…....219
Gli Immigrati e il lavoro nero………….…..……………..224
La politica migratoria italiana……………………………………..
….235
Conclusioni……………………………………………………………
…………..….249
Bibliografia……………………………………………………………
……………....262
Indice
Introduzione…………………………………………………………………………
……1
1. Il Fenomeno della Migrazione Internazionale
1.1 La decisione di emigrare…………………...………………………… 12
1.2 Evoluzione dei movimenti migratori……………………….…………..19
1.3 Politiche di gestione della Migrazione……………………….…..…….30
1.4 L’economia della Migrazione…………………..…………………….…31
1.5 La mobilità internazionale del Fattore Lavoro……………………..…35
1.6 Gli effetti della Migrazione sul benessere economico e sociale…...60
2. Immigrazione e mercato del lavoro2.1 Complementarità o sostituzione………………………………………..83
2.1.1. Il sindacato……...…………………………………………...89
2.1.2. La competizione indiretta…………………….…..………...95
2.2 Il Capitale Umano……………..…………………….…………………104
2.2.1. Assimilazione Salariale……………..…….………………105
2.3 Migrazione selettiva e Disoccupazione…………….……..…………109
2.4 Migrazione Temporanea……………………..……………………….113
3. Integrazione economica e salariale degli immigrati nei paesi di destinazione: evidenze empiriche
3.1 La metodologia di analisi….……………..……………………………117
3.2 L’esperienza d’oltreoceano……………………………………………127
3.3 Risultati europei………………………………………………………...140
3.3.1. Migrazione Temporanea……………...…………………..143
3.3.2. Gli effetti della disoccupazione sull’integrazione economica degli immigrati nel paese di
destinazione....1483.4 I Paesi del sud Europa……………………………...
…………………159
4. Evoluzione del Fenomeno Migratorio in Italia4.1 Gli italiani nel
mondo…………………………………………………..1774.2 L’Italia come paese di
immigrazione…………………………………1824.3 Inserimento territoriale e integrazione sociale degli
immigrati…….1904.4 Il mercato del lavoro italiano ed il livello di integrazione
degli stranieri……………………………………………………………197
4.4.1. Le assunzioni dei lavoratori immigrati per settori di produzione e ripartizione territoriale……..
………………2044.4.2. Assunzioni dei lavoratori immigrati per
nazionalità…....2194.4.3. Gli Immigrati e il lavoro nero………….…..
……………..2244.5 La politica migratoria
italiana……………………………………..….235Conclusioni………………………………………………………………………..
….249Bibliografia…………………………………………………………………………....
262
Introduzione
Lo scopo di questo lavoro è analizzare le cause della migrazione
internazionale ed analizzarne gli effetti sull’economia dei paesi di
destinazione.
Il movimento, inteso nella sua accezione più ampia di merci, di servizi, di
capitali, di idee, di cultura ed infine di persone è l’elemento distintivo del
secolo appena trascorso e lo sarà anche del XXI.
Parlando di mobilità territoriale, quindi di migrazione, spesso si
percepisce il fenomeno come un problema, una malattia del
mondo.
In realtà, l’analisi approfondita delle cause e delle dinamiche della mobilità
territoriale dovrebbe condurre ad identificare la migrazione come sintomo dei
diversi mali che indeboliscono il nostro pianeta.
Lo sforzo di comprendere il fenomeno migratorio internazionale offre degli
spunti di riflessione a più livelli e abbraccia numerosi campi quali la storia, la
politica, la sociologia, la demografia e l’economia.
Uno studio interdisciplinare della materia, quindi, permette delle possibilità
interessanti, sebbene la necessità di approfondire l’argomento limiti
inevitabilmente il campo ed obblighi ad una scelta chiara e netta riguardo
all’ambito di analisi entro cui far ricadere lo studio della migrazione
internazionale.
La scelta di studiare il fenomeno della migrazione internazionale dal punto di
vista esclusivamente economico risponde ad alcune esigenze personali
quali, le inclinazioni naturali e gli interessi culturali e nasce da un’attenta
riflessione circa la personale percezione della realtà e del mondo in cui
viviamo.
Sento di appartenere ad un’epoca di contraddizioni in cui convivono, da un
lato, l’accettazione del pluralismo etnico, culturale, religioso e politico visto
come il naturale evolversi dei tempi.
Dall’altro, avverto l’esistenza di un certo grado di chiusura culturale per cui il
diverso e tutto ciò che non si comprende, viene allontanato, temuto e troppo
spesso combattuto.
Si ha la chiara sensazione che, ora più che mai, dal momento
che l’Europa, come molti auspicano, potrebbe diventare a tutti
gli effetti un unico grande paese con comuni principi, leggi e
mercati dei beni e del lavoro, l’inserimento nel mondo del lavoro
non può prescindere dalla considerazione che la competizione,
a tutti i livelli, è diventata tanto grande quanto lo è l’Europa e
che si sta allargando sempre di più, fino a comprendere i
lavoratori non europei che sperano di trovare nel nostro
continente e, in ciascun paese che lo compone, un posto dove
poter crescere, studiare, lavorare e vivere dignitosamente.
Ritengo che conoscere quali siano le cause e le conseguenze di un simile
fenomeno possa essere utile per affrontarlo e gestirlo nel comune interesse
di chi emigra e di chi ne è coinvolto, se pur indirettamente.
L’esigenza di sviluppare un lavoro che abbia l’obiettivo di esplorare la realtà
del fenomeno migratorio e di studiarne le conseguenze, in particolare sui
paesi di destinazione e in Italia, nasce, dunque, da queste riflessioni e
considerazioni.
L’argomento oggetto della tesi è stato sviluppato in quattro capitoli: nel primo
si è inteso dare un quadro generale dei fattori che determinano, regolano e
che sono diretta conseguenza del fenomeno migratorio. Sono state
individuate, nei differenziali economici e di dotazione delle risorse produttive
tra paesi, le cause della migrazione internazionale i cui effetti sono stati
analizzati nel resto del lavoro.
Nel secondo capitolo è stato analizzato l’effetto di un flusso migratorio non
previsto sul mercato del lavoro del paese di destinazione, evidenziando il
ruolo dell’immigrato nel paese d’accoglienza messo a confronto con quello
del lavoratore nazionale. Da questo punto di vista ci si pone la domanda se
l’immigrato ha un ruolo competitivo (negativo) o complementare (positivo),
rispetto al lavoratore nazionale. E’ stato, poi, analizzato il livello di
integrazione salariale dell’immigrato in funzione del livello di capitale umano
posseduto, della sua trasferibilità e del tempo trascorso nel paese di
accoglienza.
Nel terzo capitolo sono state messe a confronto alcune significative analisi
empiriche svolte in tre realtà diverse per tradizione migratoria, caratteristiche
del mercato del lavoro e politiche migratorie. I tre gruppi di paesi confrontati
sono: USA, Canada e Australia da un lato, alcuni paesi dell’Europa
continentale ed infine i paesi del sud-Europa.
Nel capitolo quarto è stato riportato il quadro della situazione immigratoria in
Italia nei suoi aspetti economici, sociali e normativi. Nella descrizione del
quadro è stato rilevato che alcuni dati cruciali relativi agli effetti economici
dell’immigrazione, quali il grado di scolarità o di professionalità degli
immigrati e i loro livelli salariali, sono risultati irreperibili. I dati messi a
disposizione dagli istituti nazionali competenti (ISTAT e Ministero
dell’Interno), infatti, sono particolareggiati solo relativamente ai paesi di
provenienza, alla distribuzione territoriale e al grado di inserimento nei
diversi settori dell’economia italiana.
Questo è da considerare un fattore limitante la completezza dei risultati cui si
è pervenuto con questo lavoro e può essere visto anche come un possibile
campo di ricerca futura.
Gli aspetti socio-culturali della migrazione sono stati i primi ad essere
considerati.
Da un punto di vista sociale la mobilità territoriale si è sempre configurata
come un elemento di democrazia reale in quanto, grazie ad essa, tutti
virtualmente sono in grado di sfruttare le proprie potenzialità senza essere
costretti dal contesto umano ed ambientale in cui ognuno si trova inserito,
inevitabilmente, dal momento della nascita.
E’ facile immaginare come un individuo, nato in un paese che offre scarse
possibilità economiche, libertà politiche o culturali sia attratto da un ambiente
che, al contrario, tutte queste cose non solo le offre ma le garantisce.
I paesi più ricchi, allora, rappresentano un’attrattiva: cultura e formazione per
studenti e lavoratori, sicurezza, libertà di scelta, accesso ai servizi pubblici
essenziali ed infine, condizioni di salute e speranza di vita superiori.
Nella prima parte della tesi, inoltre, è stato mostrato il crescente
invecchiamento della popolazione dei Paesi più industrializzati, a fronte della
pressione demografica esercitata dai Paesi in Via di Sviluppo. In questa
ottica la migrazione è la risultante di due forze contrapposte: di spinta, legata
alla crescita demografica dei paesi più poveri. Di attrazione, legata al calo
demografico della parte ricca del Pianeta.
In una simile situazione, supporre l’assenza della migrazione e la chiusura
totale della società industrializzata, significherebbe assistere al declino di
quest’ultima generato da una mancanza di ricambio della popolazione attiva
e da un debole flusso di nascite che, in molte parti dell’Europa, è già stato
superato dal flusso dei decessi.
Dal lato opposto, la crescita demografica dei paesi in via di sviluppo
influenza la loro offerta potenziale di lavoro: in mancanza di sbocchi
occupazionali, l’espansione demografica peggiora le condizioni dei mercati
del lavoro locali determinando un aumento della disoccupazione e fornendo
un incentivo all’abbandono del paese d’origine verso la ricerca di migliori
opportunità.
I dati a disposizione sulla distribuzione della popolazione e della ricchezza
mondiale confermano lo scenario presentato.
L’ultima proiezione sulla popolazione mondiale effettuata dalla
Population Division delle Nazioni Unite e presentata nel
Febbraio 2003, prevede che la popolazione mondiale nel 2050
potrebbe raggiungere un livello variabile tra i 7,4 e i 10,6
miliardi di persone, secondo la forbice potenziale tra la variante
di crescita minima e massima.
Notevole è il contributo dei Paesi in Via di Sviluppo destinati a
raggiungere nel 2050 l’86,3% della popolazione mondiale o il
90,7% nel caso in cui la fertilità rimanesse costante.
Il crescente differenziale di ricchezza e di tenore di vita che si
registra tra i paesi di origine della migrazione ed i paesi di
destinazione è un ulteriore fattore fondamentale che determina
il flusso migratorio.
In accordo con la teoria moderna del commercio internazionale
(Eli Heckscher e Bertil Ohlin 1933) è stato ipotizzato che il gap
economico tra le due aree del mondo possa essere ridotto in
due modi: o con lo sviluppo del commercio internazionale,
oppure con il movimento dei fattori produttivi.
Nella prima ipotesi, l’eliminazione delle barriere doganali
spingerebbe ogni economia a specializzarsi nelle produzioni
caratterizzate da più alta intensità del fattore di cui
quell’economia presenta maggiore disponibilità relativa.
Il conseguente pareggiamento del saggio del salario e del
profitto limiterebbe lo spostamento di manodopera e di capitale
da un paese all’altro.
Nella seconda ipotesi, la mobilità di lavoro e capitale, verso le
aree dove sono relativamente più scarsi, determinerebbe la
modifica del rapporto capitale/lavoro e il livellamento del saggio
del salario e del profitto nelle diverse economie
Le due soluzioni operano in maniera molto diversa e pongono altrettanti
problemi.
Sempre nella prima parte del lavoro, si analizza la rilevanza che assumono,
per l’economia, gli effetti delle migrazioni sulla spesa sociale del paese di
destinazione.
Gli studi condotti a riguardo affrontano questa tematica sotto due aspetti: da
un lato, tentano di valutare quanto ricevono gli immigrati in termini di
prestazioni di welfare rispetto a quanto ricevono i nativi, dall’altro, cercano di
ricavare un bilancio di quanto gli immigrati pagano in termini di imposte e
contributi e quanto ricevono in termini di prestazioni e trasferimenti, allo
scopo di capire se l’immigrazione produca un effetto positivo o negativo sui
bilanci pubblici di sicurezza sociale.
Nella seconda parte della tesi ci si è posta la domanda se il fenomeno
migratorio sia sufficiente ad eliminare i differenziali esistenti tra paesi di
origine e paesi di destinazione e, in che modo gli immigrati agiscano nei
mercati del lavoro dei paesi di destinazione.
I differenziali economici tra i due paesi sarebbero eliminati all’interno di un
modello neoclassico standard di mercato del lavoro. Ma tale assunzione è
decisamente poco realistica poiché non vi è perfetta flessibilità dei salari e
mancano le esternalità positive che, nei paesi avanzati, tendono ad
aumentare i ritmi di crescita rispetto ai paesi arretrati.
Per comprendere in che modo gli immigrati si inseriscono nel contesto
occupazionale dei paesi di destinazione, sempre in questa parte di lavoro, si
esaminano le caratteristiche del mercato del lavoro dei paesi ospitanti.
Si analizzano mercati del lavoro in cui l’influenza dei sindacati è molto
marcata, così come avviene in Europa, e si considera l’ipotesi in cui, in
parallelo al mercato regolare, esista un segmento di mercato sommerso, che
influenza le performances degli immigrati.
Viene, altresì, sottolineata l’importanza del capitale umano (inteso in termini
di istruzione e di qualifiche professionali dei lavoratori) di cui l’immigrato è
dotato al momento del suo inserimento nel mercato del lavoro del paese
ospitante, nonché si studiano le relazioni tra tale livello di capitale umano e il
differenziale salariale esistente tra lavoratore immigrato e lavoratore
nazionale.
In fine, si illustra l’importanza che assume la durata del periodo di
migrazione, sempre in relazione al livello salariale raggiungibile
dall’immigrato.
All’illustrazione teorica delle cause e degli effetti della migrazione
internazionale sul paese di destinazione, è stata fatta seguire la rassegna
dei lavori di B. Chiswick (1978), G.J. Borjas (1985, 2003), Zimmermann
(1994), C. Dustmann (1993) e A. Venturini, C. Villosio (1999) che sono stati
considerati i lavori empirici più significativi ai fini dell’analisi.
In questa terza parte si è proceduto ad un confronto tra i risultati ottenuti nei
paesi d’oltre oceano, con una lunga storia immigratoria alle spalle, e quelli
registrati nei paesi europei con altrettanta tradizione in quanto paesi di
destinazione, ma con fondamentali differenze normative e gestionali nei
mercati interni del lavoro.
Le esperienze di entrambi questi blocchi di paesi vengono, poi, messe a
confronto con i primi studi fatti sui paesi sud-europei che, solo da venti anni
a questa parte, sono stati interessati dal fenomeno migratorio in quanto
paesi di immigrazione e non di emigrazione.
L’ultima parte del lavoro è dedicata ad un’analisi della situazione italiana.
Alla luce dei risultati ottenuti dai lavori empirici presentati, risalenti agli inizi
degli anni ’90, con i dati a disposizione si è cercato di dare un quadro il più
possibile completo e particolareggiato della situazione attuale.
L’Italia è geograficamente in una posizione di crocevia che permette ad un
migrante l’approdo nel nostro paese sia in quanto meta definitiva del suo
“pellegrinaggio” sia come ponte verso l’Europa continentale.
Questo è confermato dal forte policentrismo che caratterizza il nostro paese,
che ospita 191 nazionalità diverse d’immigrati.
A partire da ciò vengono esposti, prima di tutto, i motivi che spingono gli
immigrati a stabilirsi nel nostro paese. In seguito, è stata illustrata la
distribuzione territoriale. Si è cercato di valutare il grado di integrazione degli
immigrati sia a livello sociale che nel mercato del lavoro. Quindi è stato
analizzato, per settori, province e regioni, il loro livello di occupazione.
Nell’analisi dell’immigrazione in Italia risulta molto importante la valutazione
del lavoro nero e dello sfruttamento della manodopera immigrata sia
regolare che irregolare. I dati statistici al riguardo sono, comprensibilmente,
molto scarsi e variegati e non permettono un giudizio definitivo sulla reale
entità del fenomeno del lavoro irregolare ma possono, comunque, fornire
una base di partenza per la pianificazione di politiche di gestione che
abbiano l’obbiettivo di arginare lo sviluppo del lavoro nero.
Infine, è stato ripercorso il tracciato legislativo che, dagli anni ’80 ad oggi, ha
cercato di arginare e gestire un fenomeno cui il paese non era preparato.
Tale percorso ha messo in risalto il carattere “riparatorio”, più che
preventivo, degli interventi e delle leggi dello Stato in materia di
immigrazione.
1. Il fenomeno della Migrazione Internazionale
1.1 La decisione di emigrare
Le migrazioni sono state un elemento determinante per l’evoluzione della
civiltà e si concretizzano in due momenti sostanziali: il momento
dell’abbandono dell’ambiente d’origine, ossia l’emigrazione e il momento
dell’integrazione nella nuova realtà d’accoglienza, ossia l’immigrazione.
Molti e diversi sono stati i fattori che, nel tempo, hanno influenzato i
movimenti migratori.
Fin dalle sue origini, la storia dell’uomo è stata una storia di movimento e di
viaggi: in epoca antica è fuggito dalla natura e dalle sue condizioni
climatiche avverse, ha scoperto nuove terre e le ha popolate. Ha tracciato le
vie del commercio e le ha intraprese. Ha scatenato conflitti e ne è scappato.
Interi continenti sono stati investiti da flussi migratori e senza di essi i centri
urbani moderni e le metropoli non sarebbero sorti.
Tutti gli spostamenti degli uomini sono sempre stati finalizzati, in principio,
alla sopravvivenza ed in seguito al raggiungimento del benessere.
Un’analisi approfondita del fenomeno ci porta a scoprire che benessere non
significa solo maggior ricchezza e, in generale, migliori condizioni
economiche. Il concetto di benessere risponde all’esigenza, per l’individuo,
di migliori condizioni personali, sociali, demografiche e politiche. L’insieme di
tutti questi fattori determina la scelta di emigrare.
La decisione di lasciare il proprio paese di origine, infatti, è influenzata
fortemente da molteplici circostanze come i vincoli familiari, l’età e la
posizione nella gerarchia sociale.
Inoltre i volumi, la composizione e le destinazioni del flusso migratorio sono
condizionati dalla presenza di reti di contatto tra le comunità emigrate e i
paesi di origine e dai vincoli storici, culturali e geografici tra i diversi paesi.
Non meno importanti sono gli assetti istituzionali sia dei paesi di
destinazione che dei paesi di origine: i sistemi di controllo, le regole e le
politiche di integrazione, nei primi, nonché le politiche di esportazione di
manodopera nei secondi, completano l’analisi dei costi e dei benefici che
determinano la decisione del potenziale emigrante.
La grande varietà dei fattori che inducono alla mobilità internazionale ci
portano a considerare che non ha senso una rigida classificazione in
categorie delle diverse fattispecie delle migrazioni.1
Il flusso migratorio, visto come flusso di movimento, può essere permanente
o provvisorio, spontaneo o forzato, include diversi tipi di persone con
motivazioni diverse, ha differenti ruoli e metodi di inserimento nelle società di
destinazione ed è influenzato e gestito da diverse agenzie e istituzioni.
Cosa si intende per migrazione permanente, per esempio, non è sempre
chiaro: quando la si definisce tale, spesso, non è altro che lo sviluppo di una
originaria migrazione a carattere temporaneo, di un ricongiungimento
familiare o della costituzione di una nuova famiglia.
Ancora, molti degli stanziamenti permanenti possono essere associati a
migrazioni di ritorno: emigranti per motivi di lavoro o gruppi etnici e nazionali
che ritornano nelle loro regioni d’origine.
Un gran numero di migrazioni volontarie, poi, nell’ultima decade, sono state
a carattere temporaneo e, anche in questo caso, le caratteristiche di tale
1 Cfr. John Salt, Current Trends in International Migration in Europe, CDMG (2001)33 Council of Europe
migrazione sono diverse: ci sono i lavoratori domestici, alla pari, i lavoratori
agricoli, del settore industriale e del turismo. Molti di questi sono stagionali
altri, lavoratori di frontiera e alcuni sono professionisti altamente specializzati
impiegati in multinazionali.
Infine, una moltitudine di emigranti sono rifugiati, richiedenti asilo politico
studenti e giovani che lavorano durante il periodo estivo.
E’ importante, quindi, che questi gruppi di emigranti non siano considerati
rigidamente separati gli uni dagli altri. Verosimile è che uno studente
all’estero decida di sposarsi e rimanere nel paese di accoglienza oppure che
un rifugiato politico decida di ritornare in patria.
Ai flussi di ingressi regolari, con visto e con permessi di lavoro, inoltre, si
aggiungono le presenze irregolari e illegali alimentate anche dai trafficanti di
manodopera. E’ una sensazione comune, infatti, che l’aumento della
migrazione irregolare che si va sempre più registrando, sia associato alla
crescita del fenomeno del traffico e dello sfruttamento umano.
Le migrazioni internazionali sono diventate, quindi, un fenomeno ampio e
irreversibile che riguarda quasi tutti i paesi del mondo.
In una realtà in cui la diseguale distribuzione della ricchezza e della
popolazione separa in modo sempre più netto il Nord del mondo dal Sud,
l’emigrazione rappresenta l’unica via di sopravvivenza per milioni di persone.
Il fenomeno costringerà a rivedere assetti istituzionali, modelli
sociali, modi di produrre e sistemi di organizzazione del
mercato del lavoro.
I dati a disposizione sulla distribuzione della popolazione e della
ricchezza mondiale confermano lo scenario presentato2.
L’ultima proiezione sulla popolazione mondiale effettuata dalla
Population Division delle Nazioni Unite e presentata nel 2 Cfr. Dati del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione - Unfpa
Febbraio 2003, prevede che la popolazione mondiale nel 2050
potrebbe raggiungere un livello variabile tra i 7,4 e i 10,6
miliardi di persone, secondo la forbice potenziale tra la variante
di crescita minima e massima.
Notevole è il contributo dei Paesi in Via di Sviluppo destinati a
raggiungere nel 2050 l’86,3% della popolazione mondiale o il
90,7% nel caso in cui la fertilità rimanesse costante (Figure 1-
4).
Figura 1
Figura 2
Figura 3
Figura 4
Fonte: World Population prospects, the 2002 Revision, ONU, New York
2003
Inoltre nei PVS la popolazione detiene appena il 45% della ricchezza
mondiale. Il reddito medio pro capite di questi paesi è di 3.500 dollari l’anno,
contro i 25.600 dei paesi ricchi. Circa 1,5 miliardi di persone, concentrato
nell’Africa Sub sahariana e nel sub continente indiano, vive con un reddito
pro capite di 1 dollaro al giorno, mentre 2.8 milioni di persone vivono con
meno di 2 dollari al giorno. Questo conferma il rapporto inversamente
proporzionale tra popolazione e reddito, con l’Europa e l’America
Settentrionale, cioè il 18% della popolazione mondiale, che detengono la
metà della ricchezza mondiale e, dall’altra parte, l’Asia – ovvero il 60% della
popolazione mondiale – che detiene solo il 35% del reddito mondiale.
Tutto lascia pensare che molti dei paesi di origine di emigrazione
supereranno a breve il livello della povertà assoluta e che la migrazione
conquisterà il centro della scena3 (Fig 5).
3 Elaborazioni su dati Unpfa (2002), stime ONU – Pop. Div (2003), World Bank (2002)
Figura 5
Fonte: World Bank 20021.2 Evoluzione dei movimenti migratori
Le implicazioni sociali, politiche ed economiche della migrazione sono
sempre più rilevanti ma spesso i decisori politici e l’opinione pubblica non
posseggono tutte le informazioni adeguate ad un giusto approccio al
problema, sia dal punto di vista sociale che economico.
Nel mondo un individuo su trentacinque è nato in un paese diverso da quello
in cui risiede e la popolazione immigrata si è raddoppiata nell’arco di 35
anni.
Secondo l’ultimo censimento fatto dall’ONU, risalente all’ottobre 2002, i
migranti nel mondo al 2000 erano circa 176 milioni con una incidenza sulla
popolazione mondiale del 2,9%.
Comunque, il criterio seguito dall’ONU nella rilevazione si basa sulla nascita
all’estero dei residenti nei vari paesi e ciò porta ad una sopravvalutazione
del numero dei migranti dei quali una quota consistente ha, nel frattempo,
assunto la cittadinanza del paese di accoglienza. Ed è proprio per questo
motivo che alcune volte i dati dell’ONU non coincidono con quelli europei di
Eurostat, Consiglio d’Europa e OCSE.
Nei primi anni novanta, e più precisamente nell’arco temporale 1990 – 1995,
l’America del Nord è stato il paese che ha attratto maggiormente i flussi
migratori con 1,4 milioni di immigrati l’anno seguito dall’Europa con 800 mila
e dall’Oceania con 90 mila ingressi all’anno.
In termini di previsioni sulle popolazioni viene stimato che tra il 2000 e il
2050 le regioni del mondo più sviluppate dovrebbero ricevere immigrati con
un incremento medio pari a 2 milioni all’anno.
Gli stessi dati portano a stimare che i principali paesi di destinazione
saranno gli Stati Uniti, la Germania, il Canada, il Regno Unito e l’Australia,
mentre i principali paesi di provenienza saranno la Cina, il Messico, l’India le
Filippine e l’Indonesia 4(Fig.6).
4 Cfr. Internation Migration Report 2002, Un Population Division, New York Cfr. World Migration 2003. Managing Migrations. Challanges and responses for people on the Move, Geneva, 2003
Figura 6
Fonte: ONU – population Division 2002
Questi sono i dati che riguardano esclusivamente la “migrazione regolare” e
cioè la migrazione degli stranieri regolarmente residenti e registrati,
escludendo la quota di quelli presenti illegalmente o che sfuggono ai sistemi
statistici di rilevazione.
Concentrandosi sulla presenza straniera nella sola Unione Europea, si
evidenzia che negli ultimi 5 anni questa sembra essersi stabilizzata attorno
ai 20 milioni di individui ed in particolare, al primo gennaio 2001, gli stranieri
risultavano essere il 5,2% della popolazione complessiva.
Naturalmente, la popolazione straniera presente in Europa è ripartita tra i
diversi paesi in modo eterogeneo. La maggioranza relativa si trova in
Germania con il 37,3% di stranieri sulla popolazione totale, segue la Francia
con il 16,7% ed il Regno Unito con il 12,5%.
Nel complesso, i paesi con una lunga storia di immigrazione alle spalle ai
quali, oltre ai tre citati, si aggiungono anche Belgio, Paesi Bassi e
Lussemburgo, ospitano il 75% degli stranieri presenti nell’Unione Europea.
Dall’altro lato, i paesi del Sud Europa, quali Italia, Spagna, Portogallo e
Grecia, considerati fino agli anni ’80 paesi di emigrazione, nonostante
ospitino nel complesso solo il 15% degli stranieri, stanno registrando una
notevole crescita della presenza straniera. In Spagna, ad esempio, questa è
più che triplicata, in Portogallo raddoppiata mentre in Italia è passata dai
780.000 dei primi anni ’90 a circa un milione e mezzo del 20005.
Un’attenta osservazione dei paesi di provenienza degli stranieri residenti in
Europa porta alla conclusione che la maggior parte di questi fa parte della
Unione Europea o di altri paesi europei non ancora membri al 1° Maggio
2004.
I cittadini comunitari di origine straniera rappresentano circa un terzo del
totale della popolazione e si trovano per la maggior parte in Lussemburgo,
Irlanda e Belgio e, in misura minore, in Francia, Spagna, Regno Unito e
Svezia.
I restanti paesi europei, invece, sono caratterizzati da una forte
presenza di stranieri non comunitari, come l’Italia con l’89%,
l’Austria con l’86% e la Grecia6.
E’ necessario evidenziare che tra gli stranieri non comunitari si
annoverano sia quelli non europei che quelli europei, questi
ultimi intesi come provenienti da paesi ancora non facenti parte
dell’Unione Europea.
Da ciò deriva che i numeri ad oggi registrati subiranno significative modifiche
nella loro qualità dal momento in cui l’Unione Europea, il 1°Maggio 2004, ha
allargato la partecipazione ad altri dieci paesi: Repubblica Ceca, Repubblica
5 Cfr. Caritas – Dossier Statistico Immigrazione 2003 Pag 39-516 Elaborazioni su dati del Council of Europe e SOPEMI
slovacca, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovenia, Ungheria, Cipro e
Malta (fig. 7).
Figura 7
Fonte: European Council e Sopemi
Per quanto riguarda la migrazione extraeuropea, il continente
africano è sicuramente il bacino da cui provengono la maggior
parte degli immigrati in Europa registrando un 16,3% del totale,
segue subito dopo l’Asia con l’11% dei residenti.
Anche nel caso dell’Unione Europea, i dati riportati si riferiscono alla
migrazione regolare.
La componente dell’immigrazione illegale o irregolare, tuttavia, non è da
sottovalutare. Nei paesi dell’Unione Europea, secondo le stime dell’ OIM
(IOM- Migration Policy and Research Programme) nel 2003 si va da un
minimo di 120 mila ingressi all’anno ad un massimo di 500 mila.
Questo aspetto dell’immigrazione assume importanza primaria e strategica
soprattutto nei paesi dell’Europa mediterranea con una scarsa tradizione
immigratoria e con poca esperienza nell’affrontare questioni legali ed
economiche legate al fenomeno migratorio.
Anche i paesi di vecchia immigrazione, comunque, a seguito di politiche
restrittive che hanno origine negli anni ‘70, hanno sperimentato una crescita
del fenomeno della migrazione illegale anche se in modo piuttosto
contenuto.
In tutti i casi, i dati sull’immigrazione illegale vanno letti con cautela poiché
non esistono strumenti idonei a catturarne la reale entità.
Uno dei modi che fino ad oggi è stato considerato, se non altro indicativo del
fenomeno, è la raccolta dei dati sulle regolarizzazioni degli immigrati che
periodicamente vengono effettuate nei vari paesi di accoglienza. Proprio la
presenza di un alto numero di irregolari ha spinto diversi governi dell’Unione
ad attivare dei mezzi per legalizzare la presenza degli stranieri,
introducendo dei criteri quali il numero di anni di permanenza nel paese
ospitante e il possesso di un posto di lavoro.
I paesi in cui queste regolarizzazioni hanno avuto i maggiori effetti sono stati,
prevedibilmente, quelli mediterranei. Per quanto riguarda l’Italia, le domande
accolte nelle quattro regolarizzazioni avvenute tra il 1987 e il 1998 sono
state complessivamente circa 798.000, mentre le domande presentate
nell’ultima regolarizzazione del 2002 sono state circa 702.000 e cioè quasi
quanto il totale delle prime quattro7. C’è da dire che i processi di
legalizzazione degli immigrati influiscono anche sulla futura immigrazione
che spesso, in seguito alla raggiunta stabilità della posizione dell’immigrato
residente nel paese ospitante, avvengono per ricongiungimenti familiari.
7 Dati del Ministero dell’Interno
Altra conseguenza della regolarizzazione è lo sviluppo di comunità di
immigrati con la stessa origine etnica. Dalla creazione di questi gruppi si
originano dei networks tra le comunità di immigrati ed i paesi di origine.
Tali networks offrono gli aiuti necessari ai futuri immigrati per poter lasciare i
loro paesi, assicurando finanziamenti per il viaggio, sistemazioni e alloggi
nonché la ricerca di un lavoro adeguato.
Proprio il lavoro è uno dei principali motori delle migrazioni internazionali.
Come già evidenziato, la ricerca di un miglioramento della posizione
economica e lavorativa, per persone che spesso fuggono da realtà di
estrema povertà e disagio, è ciò che spinge milioni di persone ad
allontanarsi dalla propria famiglia, creando nei paesi destinatari di tali flussi
migratori problematiche politiche ed economiche rilevanti.
Alla fine del 2000 la popolazione attiva straniera presente nell’UE
ammontava a circa 8 milioni di persone con un’incidenza sulla popolazione
attiva totale del 6%.
Anche in questo caso, la distribuzione nel continente europeo si presenta
non omogenea andando dal caso del Portogallo e dell’Italia in cui,
rispettivamente, i lavoratori stranieri hanno un’incidenza del 3% e 2% sul
totale dei lavoratori, al Lussemburgo dove oltre la metà dei lavoratori
stranieri risultano essere per la maggior parte cittadini europei (Fig 8).
Figura 8
Comunque sia distribuita la forza lavoro straniera, la sua importanza sul
mercato del lavoro appare rilevante e, nonostante il periodo di recessione
economica, i permessi di lavoro ed i relativi ingressi stanno aumentando.
Malgrado ciò, nella maggior parte dei paesi europei i tassi di disoccupazione
degli stranieri sono circa il doppio di quelli della popolazione nazionale.
Le cause vanno ricondotte a previsioni legislative che limitano il ricorso a tali
risorse o che le concentrano in attività poco remunerative e ad alto rischio di
disoccupazione.
Un caso emblematico è quello della Francia che impedisce l’assunzione di
cittadini non comunitari, per esempio, nella società elettrica statale.
Il tasso di disoccupazione degli immigrati viene influenzato
anche dall’alto livello di lavoro nero che non permette agli
stranieri legalmente presenti di risultare impiegati come forza
lavoro.
In tale contesto si inserisce l’elemento del mismatch tra domanda e offerta di
lavoro degli immigrati la cui dimensione risulta maggiore rispetto a quella
relativa ai lavoratori nazionali o comunitari. Ciò è particolarmente evidente in
settori produttivi che richiedono manodopera altamente specializzata come,
ad esempio, la tecnologia dell’informazione.
Proprio per questa ragione alcuni paesi, come Inghilterra e Germania, hanno
introdotto misure per incoraggiare la mobilità del lavoro qualificato.
Al di là di queste misure, tuttavia, la migrazione continua ad
interessare maggiormente il lavoro poco o per nulla
specializzato, ponendo dei problemi di collocazione ed
integrazione non indifferenti.
In realtà il lavoro degli immigrati non può essere definito, in
assoluto e per tutti, non specializzato. Quello che è sicuramente
vero è che il tipo di professionalità di cui è portatore l’immigrato
è differente da quella diffusa nel paese di accoglienza.
Spesso il vero fattore discriminante è che la cultura
professionale dell’immigrato non viene facilmente individuata
dai datori di lavoro o, peggio, non viene considerata alla pari di
quella di un lavoratore nazionale con simili caratteristiche.
Infatti, in via generale, la valutazione del contenuto delle
professionalità degli immigrati e della consistenza del loro
contributo alla crescita economica, viene effettuata
confrontando le misure annuali di scolarità dei paesi da cui gli
immigrati provengono con gli indici dei paesi ospitanti, fermo
restando che i dati riguardano sempre i flussi immigratori legali
che non corrispondono a quelli effettivi.
Tuttavia, la scolarità non è l’unico modo per classificare il livello
di capitale umano che l’immigrato porta con sé: è molto
importante anche il livello di esperienza professionale effettiva.
Questo, comunque, rimane un fattore osservato per lo più con
sospetto, date le profonde differenze tra le economie dei paesi
di origine e di destinazione. Ne consegue che la forza lavoro
straniera anche se specializzata viene impiegata in attività
prettamente manuali dei settori dell’edilizia, dell’agricoltura e dei
servizi domestici8.
Oltre che per ragioni occupazionali, gli individui decidono di
lasciare i propri paesi di origine anche per altre motivazioni. Tra
queste molto importante è la migrazione per motivi di
ricongiungimento familiare e quella, a carattere politico, dei
rifugiati e dei richiedenti asilo politico.
8 Cfr. Chiswick B.R, Human Capital and the Labour Market Adjustment of Immigrants: Testing Alternative Hypotheses, in “Research in Human Capital and Development”, [1986] 4, pp 1-26Cfr. Dolado J., Goria A., Ichino A. Immigration, human capital and growth in the host country in Journal of Population Economics, 1994
Fin dagli anni ’70, da quando cioè la migrazione di lungo periodo ha preso
piede, la migrazione del primo tipo è stata un fenomeno molto importante dal
punto di vista numerico, creando problemi di integrazione delle diverse e
nuove culture con quelle del paese ospitante. Il problema dell’integrazione
di culture diverse, pur nella sua complessità ed importanza, non ha trovato
ad oggi riscontri in precisi e numerosi dati statistici, ma comunque è stato ed
è oggetto di massima attenzione, assumendo rilevanza prettamente di
carattere politico-sociale.
Per quanto riguarda i richiedenti asilo politico, le domande sono aumentate
nei primi anni novanta a causa dei conflitti regionali provocati dalla caduta
del sistema comunista nei paesi dell’Est europeo.
Stando ai dati statistici, al 2001 la dimensione complessiva dei rifugiati nel
mondo è rimasta invariata attorno ai 12 milioni di individui. Di questi solo 2,2
milioni sono presenti in Europa mentre la quota maggiore è ospitata in Asia.
In termini di nazionalità il numero maggiore di richieste, nel 2001, è arrivato
da afgani, iracheni, turchi, iugoslavi e cinesi. Il paese europeo che ha
ricevuto più domande è stato il Regno Unito seguito dalla Germania.
In generale la gran parte dei paesi ha registrato un aumento delle domande,
mentre in Italia le richieste sono diminuite così come in Belgio e in Olanda.
1.3 Politiche di gestione della migrazione
Alle questioni sociali ed economiche che la migrazione internazionale pone,
si affiancano problemi di ordine politico e gestionale.
Le politiche comunitarie in materia di immigrazione, infatti, sono state,
assieme alla bozza di Costituzione presentata dalla Convenzione, uno dei
temi centrali del Consiglio Europeo di Salonicco (19-20 giugno 2003).
Al termine del vertice, i quindici capi di Stato e di governo dell’Unione hanno
approvato un documento che, ribadendo l’esigenza di una politica
dell’Unione maggiormente strutturata, ha sottolineato la necessità di
combattere i flussi illegali, di aiutare gli immigrati legali ad integrarsi nella
società europea e, non da ultimo, di cooperare con i paesi di origine.
L’impegno di rendere comunitarie le politiche migratorie entro il 2004 risale
all’entrata in vigore del trattato di Amsterdam del maggio 1999, ma il vertice
tenuto in Finlandia (Tampere, ottobre 1999) lo stesso anno ha segnato la
vera svolta con il passaggio da un approccio difensivo e restrittivo verso la
migrazione ad una maggiore apertura.
Nel vertice del Consiglio Europeo si auspicava una nuova visione
dell’immigrazione. L’obiettivo era quello di dare la possibilità agli immigrati di
accedere alle strutture economiche e umanitarie, di fissare regole per
garantire il rigore e il controllo sui flussi irregolari (con maggiori controlli alle
frontiere, politiche di rimpatrio ed eventuali regolarizzazioni per gli irregolari
già presenti sul territorio) e rendere coerenti le politiche per l’integrazione.
Il tutto dando ai cittadini dei paesi esterni all’Unione gli stessi diritti e doveri
dei cittadini comunitari in un quadro di cooperazione con i paesi di origine.
Alle linee guida tracciate in Finlandia hanno fatto seguito una serie di
documenti programmatici e proposte normative da parte della Commissione
Europea ma a questa vasta produzione di documenti non sono corrisposti
risultati concreti.
In sostanza, lo sforzo di armonizzare le politiche dei paesi europei si è
concentrato quasi esclusivamente sulle politiche di asilo.
Di certo, col vertice di Salonicco i paesi dell’UE hanno
compreso che la questione dell’immigrazione è un problema
della Comunità e non solo interno ai singoli paesi. Ed inoltre
che, alla repressione del fenomeno illegale, deve seguire una
positiva ed effettiva cooperazione in termini di mezzi per
l’integrazione economica e sociale dei cittadini extracomunitari9.
1.4 L’economia della migrazione
Delineate le principali caratteristiche delle cause del fenomeno migratorio,
emerge chiaramente che lo studio della migrazione può essere affrontato
sotto molteplici aspetti e con diversi metodi.
Tutte le questioni che il fenomeno migratorio pone sono importanti.
E’ importante l’aspetto sociale e culturale, è importante l’aspetto
demografico così come l’aspetto politico. Tuttavia, il punto che sembra
preoccupare di più l’opinione pubblica e i governi è rappresentato
dall’incognita sugli effetti che l’immigrazione può avere sull’economia dei
paesi di ospitalità e di origine, sul benessere sociale generale e, in
particolare, sul benessere dei lavoratori.
La scienza economica è lo strumento che analizza tali questioni e
nell’ambito di uno studio economico è possibile affrontare i vari aspetti.
La migrazione può essere considerata, dunque, come un fattore che frena o
favorisce lo sviluppo di un paese o, può essere vista come la mobilità di un
fattore produttivo nell’ambito del commercio internazionale.
Si possono, inoltre studiare le manovre di politica economica atte a gestire il
fenomeno migratorio e, limitando l’analisi al solo mercato del lavoro del
paese ospitante, possono essere analizzati gli effetti che la migrazione può
avere sul livello di occupazione e sui salari dei lavoratori nazionali10.
9 Cfr. Commissione delle Comunità Europee, Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni su immigrazione, integrazione e occupazione, Bruxelles, 3.6.2003 COM (2003)336 definitivo10 Cfr. Venturini A., Rassegna degli approcci economici allo studio dei fenomeni migratori in Economia & Lavoro, 1991
Per dare sistematicità all’analisi economica, è pertanto necessario ricondurre
i diversi aspetti nell’ambito dello studio macroeconomico e microeconomico.
L’approccio macroeconomico analizza il ruolo svolto dalle migrazioni sia nel
commercio internazionale sia nel processo di crescita economica che ne
può derivare. Si analizza il fenomeno, quindi, da un punto di vista di
equilibrio economico generale. In un simile contesto gli argomenti oggetto di
analisi sono i motivi che si trovano alla base della mobilità della forza lavoro
e i suoi effetti.
Tale mobilità si può verificare sia da un punto di vista settoriale, sia da un
punto di vista geografico.
I flussi migratori, infatti, possono essere studiati sia come flussi
di lavoratori da un mercato del lavoro ad un altro mercato del
lavoro, quindi , all’interno di uno stesso paese da un settore
produttivo ad un altro, sia come flussi di popolazione da
un’area geografica verso un’altra. In questi casi viene
analizzato come la migrazione possa contribuire ad una
migliore allocazione delle risorse ed al miglior benessere
collettivo.
Un esempio classico di migrazione settoriale11 analizza i trasferimenti di
manodopera dal settore agricolo più arretrato e a più bassa produttività,
verso il settore industriale, capitalistico ad elevata produttività e salario.
Secondo tale modello, la migrazione cesserà quando il salario del settore
agricolo avrà uguagliato quello del settore industriale, al netto dei costi di
trasferimento, e avrà generato uno sviluppo economico. Lo stesso processo,
inoltre, potrà subire un rallentamento se la crescita demografica del settore
agricolo non è più in grado di soddisfare l’espansione del settore industriale.
11 Cfr. Lewis A.W., Economic Development with Unlimited Supplies of Labor, “The Manchester School of Economic and Social Studies”, 22, pp.139-91, 1954
Quest’ultimo, infatti, non si troverà più davanti ad una offerta di lavoro
infinitamente elastica, ma crescente al crescere dei salari del settore
capitalistico.
Per quanto riguarda l’estensione dell’analisi aggregata a livello geografico-
internazionale, si prende in esame l’effetto delle migrazioni internazionali sui
mercati del lavoro dei paesi di origine e di destinazione.
I movimenti della forza lavoro vengono, quindi, inquadrati in una analisi di
scambi internazionali di beni e fattori di produzione.
Il secondo tipo di approccio, quello microeconomico, invece, studia le cause
del trasferimento di forza lavoro. Analizza il processo di scelta che porta
l’individuo alla decisione di emigrare e, infine, a scelta avvenuta, analizza il
ruolo del lavoratore straniero nel mercato del lavoro del paese di
accoglienza, nonché l’impatto che la migrazione ha sui salari dei nazionali e
sul loro livello di occupazione.
Un’altra importante distinzione dal punto di vista teorico-analitico riguarda,
sia nell’ambito macroeconomico che in quello microeconomico, la distinzione
tra un’analisi del fenomeno migratorio da un punto di vista statico e da un
punto di vista dinamico.
Se la migrazione viene considerata da un punto di vista statico,
le principali motivazioni che spingono un individuo ad emigrare
sono le differenze retributive per uno stesso lavoro in due paesi
diversi.
In un assetto statico, quindi, la decisione di emigrare dipende sia dalle
considerazioni su una possibile differenza di guadagno corrente, sia dalle
aspettative su un futuro guadagno. Inoltre, la decisione di emigrare, in un
simile contesto è supposta permanente e non si prende in considerazione
l’ipotesi di un ritorno in patria dell’emigrato.
Da un punto di vista dinamico, invece, la migrazione può essere temporanea
o permanente e la durata del periodo di immigrazione è una variabile
fondamentale per comprendere alcuni cambiamenti nei comportamenti di
ciascun immigrato.
Nel caso in cui la migrazione sia a carattere temporaneo, è importante
sapere quali fattori portano l’immigrato a scegliere di re-emigrare nel proprio
paese di origine e quali a scegliere di restare in modo definitivo nel paesi di
accoglienza, poiché tali fattori generano risultati diversi nell’economia del
paese ospitante.
In questo capitolo viene affrontato ed analizzato il fenomeno migratorio dal
punto di vista macroeconomico, utilizzando sia l’approccio statico che quello
dinamico.
1.5 Mobilità internazionale del fattore lavoro
Se si osserva il fenomeno migratorio in una prospettiva storica,
l’analisi macroeconomica individua come principale
determinante della migrazione internazionale del lavoro, le
differenze di reddito fra aree, generate dalla diversità nella
dotazione dei fattori della produzione e dalla conseguente
differenza nella loro remunerazione.
A partire dalla metà dell’ottocento e fino alla prima guerra
mondiale i paesi dell’Europa continentale e delle isole
britanniche furono interessati da una vasta emigrazione
intercontinentale verso Stati Uniti, Brasile, Australia e Nuova
Zelanda.
Tale emigrazione può definirsi “emigrazione dell’età liberista”
essendosi svolta in assenza di sostanziali vincoli ai movimenti
della popolazione sia nei paesi di partenza che in quelli di arrivo
e fu possibile grazie alle innovazioni nei trasporti e nelle
comunicazioni dell’epoca. I flussi migratori che si mossero a
cavallo tra ‘800 e ‘900, inoltre, possono essere visti come il
risultato di alcune particolari circostanze come il rapido
aumento della popolazione e la sua crescente mobilità in
coincidenza con lo sviluppo economico nei vari paesi europei,
la lenta espansione delle possibilità di lavoro nei nuovi settori
industriali, soprattutto in quei paesi dove il processo di
industrializzazione si avviò con ritardo (Italia e Germania) e non
ultima, la ricchezza di risorse naturali e lo scarso numero di
abitanti nei paesi di destinazione.
In questo periodo ciò che inizialmente distinse le migrazioni
internazionali da quelle intercontinentali fu che, nelle prime, il
lavoro si muoveva dai paesi più poveri, all’interno dello stesso
continente europeo, verso aree in cui si stava affermando una
forte accumulazione di capitale, mentre nelle le seconde, sia il
lavoro che il capitale si muovevano verso aree ricche di risorse
naturali.
In seguito, il rapido sviluppo dell’economia dei paesi di
destinazione ed in particolare dell’economia statunitense,
trasformò rapidamente quest’ultimo in un’area ricca non solo di
risorse naturali, ma anche di capitali, per cui la forza di
attrazione delle risorse naturali sul lavoro venne presto
sostituita dall’accumulazione dei beni capitali.
Più tardi, nel periodo tra le due guerre mondiali, dominato dalle
crisi economiche, le migrazioni dall’Europa alle Americhe
continuarono ma a ritmi ridotti per poi diminuire drasticamente
negli anni ’50 e ’60.
Quest’ultimo fenomeno fu una conseguenza dell’intenso
processo di sviluppo economico che caratterizzò i paesi
dell’Europa occidentale in quegli anni.
In questi paesi, la domanda di lavoro generata da tale processo
fu soddisfatta dalle fonti nazionali a cui cominciarono ad
aggiungersi lavoratori stranieri provenienti sostanzialmente dai
paesi dell’Europa meridionale.
Tali migrazioni internazionali ma intra-europee, non
rappresentarono altro che l’estensione, oltre i confini nazionali,
delle migrazioni interne dell’Ottocento dalle campagne alle città:
in entrambe era sempre il lavoro che si muoveva verso le aree
in cui si accumulava capitale.
Sempre negli anni ’50 e ’60, si avviarono cambiamenti anche
nei flussi migratori verso gli Stati Uniti. La diminuzione dei
tradizionali flussi provenienti dall’Europa si accompagnò ad un
aumento di quelli provenienti dal Messico, America centrale e
Asia. Tendenza, questa, che andò consolidandosi negli anni ’70
e ’80.
In questo stesso periodo, un nuovo e significativo fenomeno
migratorio andava crescendo e, in particolare, riguardava le
migrazioni dai paesi meno sviluppati del Mediterraneo e dei più
lontani paesi africani, verso i paesi europei, inclusi alcuni
dell’Europa meridionale come la Spagna, l’Italia e la Grecia.
Anche questi flussi avevano molto in comune con la migrazione
verso gli stati Uniti e, nel caso dell’Europa Nord Occidentale,
presero il posto delle correnti migratorie provenienti dal Sud
Europa rallentatesi dalla metà degli anni ’70.
Queste correnti migratorie provenienti dai paesi in via di
sviluppo verso l’Europa, furono determinate da diversi fattori tra
i quali vanno menzionati il crescente divario tra lo sviluppo
economico delle due aree durante gli anni ’80 e la crescita della
popolazione nei paesi più poveri, vista come causa indiretta del
rallentamento del loro sviluppo economico.
Attualmente, nell’ultimo decennio del ‘900 poi, il crollo della
“cortina di ferro” e l’aumentare dei conflitti interetnici nei paesi
ex-comunisti dell’Europa centrale ed orientale, ha aumentato la
libertà di movimento delle persone che vivono in quelle aree e
ha indotto parte di quella popolazione a rifugiarsi nell’Europa
occidentale.
Le motivazioni economiche delle migrazioni dall’est Europa
verso l’’ovest, avvenute negli anni ’90, sembrano essere
analoghe a quelle attualmente in corso verso il sud Europa e a
quelle avvenute negli anni ’50 e ’60 dal sud verso il nord dell’
Europa. L’entità di tali flussi dipende sia dal grande divario nella
dotazione di fattori produttivi tra i paesi di partenza e di arrivo
della migrazione, sia dalla disponibilità di posti di lavoro nei
segmenti meno qualificati dei sistemi produttivi dei paesi
dell’Europa occidentale12.
Il percorso tracciato dai molteplici flussi migratori susseguitisi
nei secoli, ha portato ad individuare un ideale sentiero comune
che si origina nei paesi con una relativa povertà di capitali ed
abbondanza di forza lavoro, per raggiungere paesi con una
maggiore ricchezza di capitali ma con relativa scarsità del
fattore lavoro.
Tale andamento del fenomeno migratorio permette di
analizzare le sue dinamiche ed i suoi effetti sul benessere dei
paesi, in termini di differenti dotazioni nazionali delle risorse e
permette, inoltre, di inquadrare l’analisi nell’ottica della teoria
del commercio internazionale13.
L’analisi della teoria del commercio internazionale (Eli
Heckscher e Bertil Ohlin 1933) considera le differenze nelle
12 Cfr. Zimmermann K.L., Talking the European Migration Problem in Journal of Economic Perspectives- Volume 9, Number 2 – pp. 45-62 [1995] 13 Cfr. Either W.J., International Trade and Labour Migration in The American Economic Review – September 1985
dotazioni delle risorse produttive dei paesi, come la causa dei
loro vantaggi comparati14.
Tali differenze, presenti in ciascun paese, si riflettono nei loro
schemi produttivi. Un paese relativamente ricco di capitale,
infatti, si specializza nella produzione e nel commercio del bene
per la cui creazione è necessaria una maggiore quantità di
capitale, mentre il contrario accade in un paese relativamente
ricco del fattore lavoro.
L’abbondanza di un fattore produttivo può essere misurata sia
in termini di unità fisiche che in termini di prezzo. Secondo la
prima accezione, l’accento viene posto sulle diverse quantità di
lavoro e capitale che ciascun paese ha a disposizione,
considerando, quindi, solo l’offerta dei fattori. Alternativamente,
la dotazione fattoriale può essere considerata sia dal lato
dell’offerta che da quello della domanda. In questo senso,
diventa rilevante il prezzo, interno ai diversi paesi, dei fattori di
produzione.
Un paese, ad esempio, è più ricco di capitale se, nel suo
mercato interno, il rapporto del prezzo del servizio del capitale
(solitamente identificato con il tasso di interesse r) ed il prezzo
14 La legge dei vantaggi comparati è esposta da David Ricardo nel suo Principi di economia politica e della tassazione 1817. Secondo la legge dei vantaggi comparati anche se un paese è meno efficiente (ha uno svantaggio assoluto) nella produzione di entrambi i beni (assumendo un mondo a due paesi e due beni), c’è ancora una base per il commercio reciprocamente vantaggioso. Il paese meno efficiente dovrebbe specializzarsi nella produzione e nell’esportazione del bene in cui il suo svantaggio assoluto è minore. La teoria di Ricardo, dei vantaggi comparati, spiega la base del commercio e i guadagni che da esso derivano completando il lavoro di Adam Smith secondo il quale il commercio internazionale è basato su vantaggi assoluti.
di un’unità di lavoro (indicato dal saggio del salario w) è più
basso rispetto ad un altro paese. Viceversa, se nel mercato
interno di un paese, il rapporto tra il saggio del salario e il tasso
di interesse è inferiore a quello di un altro paese, il paese
considerato sarà più ricco del fattore lavoro.
Date tali differenze fattoriali, è importante sottolineare che i
paesi devono usare con intensità diversa i fattori di produzione
che hanno a disposizione per la produzione dei beni. In
particolare, non è la quantità assoluta di capitale e lavoro
impiegata nella produzione dei beni ad essere importante. Ciò
che interessa è la quantità di capitale usato per ogni unità di
lavoro, quindi, il rapporto capitale/lavoro: ciascun paese usa,
per la produzione di uno stesso bene, un rapporto
capitale/lavoro differente.
Il modello del commercio internazionale prevede, inoltre, che i
paesi presi in considerazione abbiano rendimenti di scala
costanti15 e che vi sia concorrenza perfetta sia nel mercato dei
beni che in quello dei fattori della produzione.
Quando si verificano le ipotesi appena descritte, in base al
teorema di Heckscher-Ohlin, si verificano le condizioni per lo
sviluppo del commercio internazionale in termini di intensità
fattoriali relative e dotazioni fattoriali relative.15 Rendimenti di scala costanti stanno ad indicare che all’aumento proporzionale di lavoro e capitale di uno qualsiasi dei beni, la produzione di tale bene aumenta in proporzione. Nella realtà, tuttavia, le moderne economie producono con rendimenti di scala crescenti per cui la quantità prodotta aumenta più che proporzionalmente rispetto alla crescita dei fattori di produzione. Anche in questo caso, tuttavia, esistono le basi per un commercio internazionale reciprocamente vantaggioso.
Il paese relativamente ricco di capitale, quindi, esporta il bene
ad alta intensità di capitale ed importa il bene ad alta intensità
di lavoro e, viceversa per il paese in cui il lavoro è il fattore più
abbondante.
Tale teoria, in questo modo, spiega i vantaggi comparati ed
individua nella differenza delle dotazioni fattoriali e dei loro
prezzi relativi la causa che, in assenza di commercio
internazionale, rende diversi i prezzi relativi dei beni tra paesi.
La differenza genera, a sua volta, l’opportunità di un commercio
internazionale dei beni.
L’effetto che il commercio internazionale ha sui paesi interessati
è la riduzione, fino alla loro scomparsa, delle differenze relative
o assolute delle remunerazioni dei fattori di produzione nei due
paesi.
Si può affermare, quindi che, in presenza di concorrenza perfetta, esiste una
relazione biunivoca tra prezzi dei fattori e prezzi dei beni e che il commercio
agisce da sostituto della mobilità internazionale dei fattori della produzione.
Per spiegare quanto detto, si può osservare che, in assenza di commercio
internazionale nel paese in cui il fattore lavoro è relativamente più
abbondante e meno costoso, il prezzo del bene la cui produzione è ad alta
intensità di lavoro è inferiore rispetto al prezzo di un bene equivalente
prodotto nel paese ricco di capitale. Quando però, per via del commercio, il
paese ricco di lavoro, si specializza nella produzione del bene che usa
intensivamente il fattore lavoro, riduce contemporaneamente la produzione
del bene ad alta intensità di capitale. In tale situazione, la domanda relativa
di lavoro aumenta e ciò corrisponde ad una crescita della remunerazione di
tale fattore rispetto alla remunerazione del capitale.
L’opposto, ovviamente, accade al paese ricco di capitale ove aumenta la
remunerazione del fattore più a buon mercato mentre, diminuisce quella del
lavoro.
L’effetto di riduzione può spingersi fino al completo pareggiamento dei prezzi
dei beni e dei fattori della produzione. Questo avviene perché fintanto che i
prezzi dei fattori differiscono tra loro, anche i prezzi dei beni sono differenti e
ciò stimola scambi mutuamente profittevoli.
Il commercio di per sé è spinto da tali differenze e continuerà ad aver
ragione di esistere fino a che non verranno eliminate le differenze nei prezzi
dei beni, il che presuppone il pareggiamento completo dei prezzi dei fattori
della produzione.
Il commercio internazionale, rispettate tutte le ipotesi, porta al
pareggiamento anche dei prezzi assoluti dei fattori. In questi termini si
uguagliano i salari reali corrispondenti ad uno stesso tipo di lavoro in due
paesi diversi e si uguaglia altresì la remunerazione reale per uno stesso tipo
di capitale.
Tutto questo basta ad affermare che il commercio internazionale dei beni si
comporta come sostituto della mobilità internazionale dei fattori della
produzione e, quindi, anche della migrazione.
Se le condizioni appena descritte non si verificassero e il commercio
internazionale non avesse luogo, infatti, in condizioni di perfetta mobilità dei
fattori produttivi, il lavoro migrerebbe dal paese a bassi salari verso il paese
con salari maggiori e lo stesso farebbe il capitale. Tale processo si
concluderebbe solo quando i salari ed i saggi di interesse del capitale non
siano divenuti uguali in tutti i paesi.
Gli effetti della migrazione internazionale sul benessere16 della collettività
possono essere analizzati considerando l’aumento o la diminuzione del
prodotto totale dei paesi, interessati da un flusso migratorio rispettivamente
in entrata e in uscita. Per fare ciò si utilizza uno schema17 in cui si
confrontano i due paesi di origine e di destinazione.
Se in un paese l’offerta di lavoro è maggiore rispetto a quella di un secondo
paese, il suo salario reale sarà inferiore comparato con quello del secondo
paese.
Se immaginiamo un flusso migratorio, questo si originerà dal paese con
salari più bassi, verso il paese con salari maggiori. La migrazione
proseguirà finché non si arriverà al pareggiamento dei salari. In questo modo
16 In economia si definisce il benessere come il grado di soddisfazione dei bisogni umani. Tale concetto è stato delineato con sufficiente precisione per i singoli individui ma è molto labile se applicato ad una collettività. Il pensiero utilitarista (J.Bentham, J.S. Mill e H. Sidgwick) poggia sull’idea che la soddisfazione degli individui possa essere calcolata e comparata utilizzando un metro di misura comune per tutti. Il benessere collettivo è allora rappresentato semplicemente dalla somma algebrica dell’utilità goduta dai singoli individui. Tale approccio utilitarista ha delle implicazioni dirette di politica economica: lo Stato ha il dovere di stimolare gli operatori economici a utilizzare le risorse in modo da massimizzare il benessere collettivo. Se poi, il sistema di mercato massimizza spontaneamente l’utilità totale ( grazie alla “mano invisibile” di A. Smith), l’intervento pubblico è perfettamente inutile.L’idea degli utilitaristi di benessere collettivo, non attribuisce alcuna importanza alla distribuzione dell’utilità.Nel 1938 A. Bergson propose di misurare il benessere sociale tramite un indice calcolato in base a una serie di elementi che è ragionevole ritenere rilevanti. Secondo tale impostazione (precisata da P. Samuelson) ciò che è rilevante per la società lo è anche per gli individui ed entra nelle loro funzioni di utilità: l’indice del benessere è dunque calcolabile come funzione (non necessariamente somma) dell’utilità dei singoli.Nella economia moderna il termine utilità viene sostituito dal termine preferenze: ciascun individuo può stabilire se un paniere di beni è preferibile a un secondo e, con l’aggiunta di alcune ipotesi sulla razionalità delle scelte, ciò è sufficiente per elaborare un modello interpretativo del comportamento all’interno dei mercati.Negli studi empirici l’indicatore di benessere collettivo maggiormente usato è il reddito nazionale (netto o lordo). Tale indicatore è indipendente dalla variabilità della distribuzione del reddito o dalla presenza di sacche di povertà. Un aumento del reddito nazionale, quindi, (tenuta costante la sua distribuzione) coincide con un aumento del benessere collettivo, ma questo è tutto quello che si può affermare senza introdurre giudizi di valore.La moderna economia del benessere ha abbandonato lo studio degli indici di benessere collettivo per dedicarsi alla ricerca di regole di scelta collettiva che, utilizzate al fine di risolvere problemi comuni all’intera collettività, possano soddisfare taluni requisiti di equità.
17 Cfr. Salvatore. D., Movimenti internazionali delle risorse in Economia Internazionale pp 475-481, 2000
i salari reali aumenteranno nel primo paese e diminuiranno nel secondo e il
risultato finale sarà un aumento netto nella produzione mondiale.
Nel paese di emigrazione, inoltre, si genererà una re-distribuzione del
reddito a favore del fattore lavoro, mentre, nel paese di immigrazione il
reddito si ridistribuirà a favore delle risorse di produzione, diverse dal lavoro.
L’aumento della produzione mondiale avverrà solo se la quota di lavoratori
emigranti non è, nel paese di origine, disoccupata. Se così fosse, infatti,
dopo la loro migrazione, l’aumento della produzione andrebbe tutto a favore
del solo paese di destinazione. La figura 9) illustra quanto detto.
Fig. 9) Effetti della migrazione internazionale del lavoro
sulla produzione e sul benessere.
Dove, OO’ è l’offerta totale di lavoro sia nel paese 1 che nel paese 2.
OF e O’J rappresentano, per ciascun paese, il valore del prodotto marginale del lavoro che, in concorrenza perfetta, coincide con il saggio del salario reale.
Nel paese 1, l’offerta di lavoro è dato da OA e il saggio del salario reale da OC.O’A è l’offerta di lavoro del paese 2 e il salario reale è OH.
Il prodotto totale per ciascun paese è dato da OFGA per il paese 1 e O’JMA per il secondo paese.
La quota di immigrati dal paese 1 verso il paese 2 è data da AB e i livelli dei salari, di conseguenza, arriveranno ad eguagliarsi al livello di BE=ON=O’T.
Il prodotto totale si riduce nel paese 1 (da OFGA ad OFEB) mentre aumenta nel paese 2 (da O’JMA ad O’JEB) generando un guadagno netto nella produzione
mondiale pari a EGM.Se la quota AB, emigrata dal paese 1, fosse stata disoccupata prima della
migrazione, il saggio del salario sarebbe stato al livello di ON e il prodotto pari a OFEB (minore di OFGA). In questo caso, dopo la migrazione, il prodotto mondiale
sarebbe stato ABEM tutto a favore del paese di destinazione.
L’analisi degli effetti sul benessere sociale, inteso in termini di
prodotto totale, quindi, porta a individuare un effetto netto
positivo se i lavoratori emigrati non sono disoccupati nel paese
EN
C
O
F
M H
J
T
B A O’
G
VMPL1
VMPL2
Paese 1 Paese 2
di origine e decidono di migrare in base al calcolo del
differenziale salariale che esiste tra i due paesi
Le conclusioni fin qui riportate si riferiscono, in un’ottica di natura statica, ad
una situazione in cui non avvengono mutamenti nei modelli produttivi dei
paesi interessati dal commercio internazionale.
Nel tempo, tuttavia, le condizioni che determinano i vantaggi comparati dei
paesi possono mutare e, in particolare, possono mutare le dotazioni
fattoriali.
In generale se il lavoro e il capitale crescono nella stessa misura e nella
produzione di entrambi i beni, con rendimenti di scala costanti, la produttività
e quindi la remunerazione di tali fattori rimangono immutate.
Allo stesso modo, se il rapporto tra lavoratori occupati e
popolazione totale rimane immutato, allora il reddito pro capite
ed il benessere del paese rimangono immutati.
Diversamente, se cresce solo il fattore lavoro o cresce proporzionalmente
più del capitale, allora, la produttività del lavoro si ridurrà e altrettanto farà la
sua remunerazione e il reddito reale pro capite. Se, al contrario, cresce solo
il capitale, la produttività del lavoro aumenterà ed aumenterà anche la
remunerazione del lavoro e quindi, il reddito reale pro capite.
A tale proposito il teorema di Rybczynski18, stabilisce che, a prezzi dei beni
costanti, un aumento nella dotazione relativa di un fattore causa un
incremento più che proporzionale nella produzione del bene che lo utilizza
intensivamente e un calo in assoluto nella produzione dell’altro bene.
Essendo fissi i prezzi dei beni, l’aumento della dotazione, ad esempio del
lavoro, porta all’aumento più che proporzionale del bene che usa
intensivamente tale fattore, mentre la produzione del bene ad alta intensità
18 Cfr. Salvatore D., Crescita economica e commercio internazionale in Economia Internazionale pp 241-274, 2000
di capitale si riduce. Questo si può spiegare osservando che, se i prezzi dei
beni sono costanti anche i prezzi dei fattori di produzione devono essere
costanti. Questi rimangono costanti solo se il rapporto capitale/lavoro rimane
costante e la produttività di lavoro e capitale rimangono costanti nella
produzione di entrambi i beni. Per impiegare pienamente un aumento di
lavoro e lasciare immutato il rapporto capitale/lavoro l’unico modo è di
contrarre la produzione del bene ad alta intensità di capitale per liberare
tanto capitale quanto basta per assorbire l’aumento del fattore lavoro.
Nel caso in cui i prezzi non siano fissi, la remunerazione del fattore varia in
misura proporzionale alla variazione della produzione.
Il teorema di Stolper-Samuelson19 afferma, infatti, che un aumento del
prezzo relativo di un bene accresce la remunerazione reale del fattore usato
intensivamente nella produzione di tale bene (magnification effect).
Se ad esempio, un paese ricco di capitale impone un dazio all’importazione
di un bene ad alta intensità di lavoro, il prezzo relativo di tale bene aumenta
e aumenta anche il salario reale del lavoro, che è il fattore relativamente più
scarso nel paese considerato. Questo accade perché se il prezzo del bene
ad alta intensità di lavoro aumenta per effetto del dazio, il paese preso in
considerazione aumenterà la produzione interna di tale bene e diminuirà
quella del bene ad alta intensità di capitale. L’aumento della produzione del
bene ad alta intensità di lavoro richiede un rapporto lavoro/capitale
maggiore. Ne consegue che il rapporto tra il saggio del salario e il tasso di
interesse aumenta e il capitale (fattore più abbondante) verrà sostituito al
lavoro così che, il rapporto capitale/lavoro sarà maggiore nella produzione di
entrambi i beni. Siccome ogni unità di lavoro è combinata con una maggiore
quantità di capitale, la produttività del lavoro aumenta e quindi aumenta
anche la sua remunerazione.
19 Cfr. Salvatore D. Restrizione al commercio: i dazi in Economia Internazionale pp 277-312, 2000
Lo stretto legame tra prezzi dei beni e prezzi dei fattori che si è andato
delineando fino ad ora sottolinea l’aspetto più importante della teoria del
commercio internazionale ai fini della nostra analisi: il rapporto di
sostituibilità tra commercio dei beni e movimento internazionale dei fattori
della produzione.
All’aumentare dei legami commerciali tra i paesi si dovrebbe assistere ad
una diminuzione dei flussi migratori.
Nella realtà, però, non si verifica il completo pareggiamento dei prezzi dei
beni né tanto meno di quelli dei fattori. Questo dipende da alcune ipotesi su
cui si fonda la teoria del commercio internazionale, che non sono rispettate
nella realtà. Molte industrie, infatti, operano in condizioni diverse dalla
concorrenza perfetta e con rendimenti di scala non costanti, i paesi non
usano identica tecnologia per la loro produzione. Ed in più, i costi di
trasporto e le barriere tariffarie al commercio impediscono il libero
commercio ed il pareggiamento dei prezzi dei beni.
Il commercio internazionale può, quindi, aver ridotto le differenze nei
rendimenti dei fattori, ma sicuramente non le ha eliminate.
Il fatto, però, che alcune delle ipotesi previste dal modello non si verifichino
nella realtà, non inficia la teoria stessa ma, al contrario, la correzione di
talune ipotesi rende il modello più aderente alla realtà.
Innanzi tutto, la stragrande maggioranza degli scambi mondiali si basa sul
commercio di prodotti differenziati e non omogenei. Lo scambio di prodotti
appartenenti ad un unico grande gruppo ma differenti in alcune
caratteristiche è tipico del commercio intra-industriale che, in sostanza, si
basa sull’esistenza di economie di scala e sulla differenziazione del prodotto.
Un commercio di questo tipo è più ampio quanto più analoghe sono le
caratteristiche dei paesi e le loro dotazioni fattoriali, quindi, è maggiore tra
paesi industrializzati.
Al contrario, il commercio che si basa sullo scambio di prodotti
omogenei è detto inter-industriale ed è più ampio quanto più
grandi sono le differenze dei paesi nelle loro dotazioni fattoriali,
quindi, tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo.
Essenzialmente, è tale tipo di commercio ad essere spiegato
dalla teoria di H-O.
Un analogo discorso si può fare per quanto riguarda i
rendimenti di scala costanti. La maggior parte delle moderne
economie, infatti, produce beni con rendimenti di scala
crescenti20 e questo si verifica per diversi motivi: operando su
vasta scala è possibile una maggiore divisione del lavoro e una
maggiore specializzazione del lavoratore il che, porta ad una
sua maggiore produttività. Lo stesso si può dire dell’utilizzo dei
macchinari che possono essere più specializzati e di
conseguenza più produttivi. In tutti i casi, anche con rendimenti
di scala crescenti due paesi identici sotto ogni aspetto possono
dar luogo al commercio reciprocamente vantaggioso. Ciascun
paese, infatti, si specializzerà completamente nella produzione
del bene per cui possiede un vantaggio comparato. I benefici
del commercio, in questo caso, derivano dal fatto che in
assenza di commercio entrambi i paesi non avrebbero potuto
specializzarsi completamente nella produzione di entrambi i
20 Situazione della produzione per cui il prodotto cresce proporzionalmente di più dell’aumento negli imput o fattori di produzione.
beni e quindi avrebbero prodotto e consumato quantità inferiori
di entrambi i beni.
I diversi stadi di sviluppo tecnologico e produttivo dei paesi, poi,
sono un ulteriore stimolo al commercio internazionale ma,
contemporaneamente, rallentano il processo del completo
pareggiamento dei prezzi.
Alcuni studiosi (Posner 1961, modello del gap tecnologico)
hanno intuito che molto del commercio tra paesi industrializzati
è originato dall’introduzione di nuovi prodotti e nuovi processi
produttivi i quali danno all’impresa produttrice un provvisorio
monopolio internazionale.
Tale monopolio, garantito da brevetti e copyright, consente un momentaneo
vantaggio al paese che lo detiene che, quindi, esporta i beni altamente
tecnologici.
Vernon (1966, modello del ciclo del prodotto), inoltre, spiega che esistono
alcuni beni che, per essere prodotti, hanno bisogno di manodopera molto
specializzata e per questo vengono prodotti inizialmente solo da alcuni
paesi. Dopo un certo periodo di tempo il processo produttivo viene
standardizzato e può essere prodotto con tecniche meno sofisticate e
manodopera meno qualificata. Il vantaggio comparato, a questo punto,
passa dal paese avanzato in cui il prodotto è stato ideato a quello meno
avanzato la cui forza lavoro è a più buon mercato21.
In sostanza, entrambi i modelli mirano a spiegare che una parte
del commercio internazionale, causata dal vantaggio che alcuni
paesi industrializzati hanno su altri meno industrializzati, 21 Cfr. Salvatore D. Economie di scala, concorrenza imperfetta e commercio internazionale in Economia Internazionale pp 203-239, 2000
consiste nell’esportazione di prodotti non standardizzati e
nell’importazione di prodotti meno sofisticati.
In fine, per via dei costi di trasporto e delle barriere tariffarie, un
bene omogeneo sarà scambiato internazionalmente solo se tra
paesi la differenza nei prezzi, in assenza di commercio, supera
il costo di trasferimento del bene da un paese all’altro.
L’esistenza di costi di trasporto riduce, dunque, il volume del
commercio ed il livello di specializzazione di un paese nella
produzione di un determinato bene.
In tutti questi casi i prezzi dei beni non saranno pareggiati
internazionalmente.
Quando il commercio è insufficiente a produrre il
pareggiamento dei prezzi dei beni e dei fattori, in assenza di
mobilità di capitale, la mobilità del fattore lavoro, quindi la
migrazione, sostituisce il commercio stesso.
Il mancato pareggiamento dei prezzi relativi dei beni e dei fattori
stimola la mobilità internazionale dei fattori e, quindi, la
migrazione22.
Se si ipotizza che i lavoratori immigrati siano privi di qualifiche,
quindi di capitale fisico e umano, e siano omogenei ai lavoratori
nativi, l’immigrazione rappresenta un incremento nella
dotazione del fattore lavoro nel paese di destinazione. Questo,
secondo il teorema di Rybczynski, incentiva la produzione del 22 Cfr. Venturini A. Daveri F. Gli effetti economici dell’immigrazione sul paese di destinazione in Economia & Lavoro, pp 93-100 [1993]
bene intensivo di lavoro a danno di quella del bene intensivo di
capitale, per dati prezzi relativi dei beni. Inoltre, il paese
industrializzato, con un aumento del fattore lavoro nel suo
mercato, subisce un effetto anti-trade nel commercio con il
paese da cui è partita l’immigrazione. Ciò significa che diventa
più competitivo nella produzione interna del bene ad alta
intensità di lavoro così che diminuiscono le sue importazioni
(esportazioni del PVS) e diminuisce anche la produzione del
bene ad alta intensità di capitale esportato (importato dal PVS).
Con ragioni di scambio23 internazionali immutate, ossia con
prezzi relativi dei fattori e rapporto capitale/lavoro immutati, non
si hanno problemi distributivi, quindi, non si crea
disoccupazione.
In un caso simile, per usufruire del modello del commercio
internazionale di H-O, viene considerata l’ipotesi di scambio di
beni e fattori di produzione tra due paesi con profonde
differenze strutturali e di dotazioni fattoriali.
Il teorema di H-O, tuttavia, consente di capire anche quali effetti può avere la
migrazione sull’interscambio tra due paesi entrambi industrializzati con uno
in cui è abbondante il fattore lavoro e con l’altro più ricco di captale.
In tal caso, se si suppone un afflusso di lavoro proveniente da un PVS verso
il paese industrializzato con abbondante lavoro, questa iniezione di nuova
forza lavoro rafforza il vantaggio comparato del paese che ha ricevuto
23 Rapporto tra indice dei prezzi delle esportazioni di un paese e quello delle importazioni
l’immigrazione, nei confronti del paese industrializzato abbondate, invece, di
capitale e l’interscambio tra i due paesi industrializzati aumenta.
Viceversa, se l’afflusso di forza lavoro investe il paese industrializzato
relativamente più ricco di capitale, lo scambio commerciale tra i due paesi
industrializzati tenderà a diminuire. La maggiore disponibilità di lavoro, infatti,
lo porterà ad aumentare la produzione dei beni ad uso intensivo di lavoro
accrescendo, quindi, la sua competitività nei confronti del paese rispetto al
quale soffre lo svantaggio relativo in termini di abbondanza di forza lavoro.
Ancora un elemento di novità può essere incluso nello schema
se si considerano beni non commerciati internazionalmente,
ovvero, beni commerciati solo all’interno di ciascun paese. Il
prezzo di tali beni è dato da i livelli di domanda e offerta interne
ed è supposto perfettamente flessibile. Ipotizzando che il bene
non commerciato sia intensivo del fattore lavoro, una
immissione di lavoro (immigrazione) fa aumentare la
produzione del bene ad alta intensità di lavoro e diminuisce
quella dei beni commerciati (teorema di Rybczynski).
Tuttavia, la flessibilità dei prezzi dei beni non commerciati rende
endogene le ragioni di scambio interne e l’aumento dell’offerta
dei beni non commerciati ne fa calare il prezzo relativo. Gli
effetti di quanto sopra sono una diminuzione del prezzo relativo
del lavoro, un aumento della remunerazione del capitale e l’uso
più intensivo del fattore lavoro nella produzione di entrambi i
beni.
Se i beni non commerciati, invece, sono intermedi e non finali,
un aumento della forza lavoro si traduce in una diminuzione del
prezzo dei beni non commerciati e questo aumenta il valore
aggiunto dei beni commerciati e quindi il commercio
internazionale.
Le conclusioni appena riportate sull’effetto che la crescita della
forza lavoro può portare in un paese si riferivano al caso in cui
le ragioni di scambio dei paesi rimanevano costanti. In realtà,
quando un paese è in grado di influire sui prezzi internazionali,
le sue ragioni di scambio possono mutare proprio in
conseguenza della crescita del paese.
Se la crescita, sia essa dovuta alla tecnologia o ad un mutamento delle
risorse, espande il volume del commercio a prezzi costanti, le ragioni di
scambio di un paese tendono a peggiorare. Al contrario, se la crescita riduce
il volume del commercio, a prezzi costanti, le ragioni di scambio tendono a
migliorare.
L’effetto della crescita sul benessere del paese, tuttavia, non dipende solo
dalle ragioni di scambio ma anche dal così detto effetto ricchezza.
In particolare, l’effetto ricchezza si riferisce al cambiamento che si realizza
nella produzione, per lavoratore, in seguito alla crescita: Il risultato netto tra
effetto ragione di scambio ed effetto ricchezza determina la qualità
dell’effetto della crescita sul paese in oggetto.
Quando l’effetto ricchezza è positivo questo, tende ad accrescere il
benessere del paese e, se le ragioni di scambio migliorano, allora il
benessere del paese verrà sicuramente aumentato. Se effetto ricchezza ed
effetto ragioni di scambio si muovono in maniera opposta, il risultato sul
benessere del paese dipende da quale delle due forze prevale.
Anche se l’effetto ricchezza porta, di per sé, alla crescita del paese, esiste
l’eventualità che le ragioni di scambio possano peggiorare tanto da portare
ad una riduzione netta del benessere24 .
Se si ipotizza un progresso tecnico che accresce, in eguale misura, la
produttività di lavoro e del capitale esclusivamente nella produzione del bene
esportabile, a prezzi costanti, l’effetto ricchezza aumenta il benessere del
paese poiché la sua produttività aumenta con forza lavoro e popolazione
invariate. Questo tipo di commercio, tuttavia, tende ad espandere il volume
del commercio e quindi a peggiorare le ragioni di scambio del paese.
Con un drastico peggioramento delle ragioni di scambio il paese,
internamente, aumenta i suoi livelli di produzione e di esportazione, ma
importa e consuma minori quantità di entrambi i beni, rispetto al periodo
precedente la crescita.
Il fenomeno della crescita che impoverisce è più probabile che avvenga se:
- la crescita tende ad aumentare notevolmente le esportazioni a ragioni di
scambio costanti;
- il paese è grande al punto che il tentativo di aumentare le sue
esportazioni provoca un peggioramento delle ragioni di scambio;
- l’elasticità, in rapporto al reddito, della domanda, da parte del
resto del mondo, delle esportazioni del paese considerato è
molto scarsa sicché le ragioni di scambio peggiorano
notevolmente;
- il paese è così dipendente dal commercio internazionale che il
peggioramento delle sue ragioni di scambio porta ad una riduzione del
benessere nazionale.
24Cfr. J.Bhagwati 1958 Immiserizing growth in Salvatore D. Economia Interazionale, 2000
In generale è molto probabile che la crescita che impoverisce si manifesti nei
paesi in via di sviluppo piuttosto che in quelli altamente sviluppati.
Infine, quanto più endogene alle decisioni di scambio e di consumo sono le
ragioni di scambio internazionali, tanto più seri sono i problemi distributivi
conseguenti all’immigrazione. In questo caso, un aumento del fattore lavoro
porta ad una riduzione del prezzo relativo di tale fattore e quindi, ad un
aumento dell’utilizzo di lavoro nella produzione di entrambi i beni. L’aumento
nella produzione del bene intensivo di lavoro porta ad un calo del suo prezzo
relativo, spostando la domanda interna verso il bene intensivo di lavoro,
mantenendo l’equilibrio in tutti i mercati.
La moderna teoria del commercio internazionale è considerata opportuna
per analizzare la migrazione dai paesi in via di sviluppo verso quelli
industrializzati in quanto identifica, come causa principale dello scambio e
della mobilità dei fattori di produzione, la rilevante differenza nella dotazione
assoluta e relativa dei fattori tra i paesi di partenza e di arrivo della
migrazione.
Tale diversità ha caratterizzato i rapporti tra i paesi industrializzati e quelli più
poveri o in via di sviluppo, sin dal primo dopoguerra. A medio termine,
questo tipo di flussi migratori, continuerà a caratterizzare i rapporti tra i paesi
del Mediterraneo e quelli dell’Unione Europea, data la sostenuta crescita
demografica nei paesi di partenza e la loro scarsità di capitale.
A conferma di ciò, nell’ultimo ventennio, si è osservato come la caratteristica
principale dei movimenti di popolazione verso l’Europa sia stata il crescente
peso che hanno assunto gli emigrati extracomunitari ed in particolare quelli
provenienti dal Nord Africa25.
Già prima degli anni settanta si erano manifestati flussi di questo tipo, che si
erano distribuiti nei paesi di inserimento in base alla vicinanza geografica o
25 Cfr. Ancona G.(a cura di), Migrazioni mediterranee e mercato del Lavoro, Bari Cacucci Editore, 1990
ad antecedenti rapporti politici e culturali. Per citare alcuni esempi, in Francia
si erano verificate ondate migratorie provenienti da Algeria, Marocco e
Tunisia. In Germania erano già presenti numerose comunità provenienti
dalla Turchia e nel Regno Unito vi erano emigrati provenienti soprattutto
dall’Asia. Il fenomeno, poi, si è reso ancora più evidente ed importante,
quando, a partire dagli anni ottanta, le migrazioni extracomunitarie hanno
interessato anche i paesi del Sud Europa che, in tempi moderni, non
avevano avuto flussi migratori diretti verso di essi. In Italia la prevalenza di
extracomunitari è di provenienza nordafricana, così come in Spagna e
Portogallo, mentre in Grecia si sono registrati massicci afflussi dalla Turchia
e da Cipro26.
La realtà osservata, oltre a confermare l’utilità del modello H-O
per descrivere la migrazione, è centrale nel dibattito che vede
l’Europa di fronte alla scelta tra una riduzione di barriere
tariffarie verso i prodotti dei paesi di emigrazione e/o una
politica di aiuto finanziario diretto a questi paesi con l’obiettivo
di frenare la pressione migratoria.
Se si aumentassero, o più semplicemente si liberalizzassero, gli
scambi commerciali questi porterebbero una riduzione delle
differenze dei prezzi dei fattori della produzione e ciò
diminuirebbe la necessità di una loro mobilità internazionale. Al
contrario, quando un fattore di produzione si sposta dal paese
dove è relativamente più abbondante ad un altro dove è
relativamente scarso, si riducono le differenze nelle dotazioni e
26 Cfr. Banca d’Italia, Migrazioni in Europa: andamenti, prospettive, indicazioni di politica economica in Temi di discussione Numero 161, 1992
perciò si attenuano i possibili benefici derivanti dal commercio
internazionale.
Proprio in questa chiave può essere letto il fenomeno migratorio tra i paesi
comunitari: inizialmente c’è stata l’emigrazione dai paesi del Sud Europa,
verso quelli del Nord, dove l’offerta di lavoro era minore e i salari relativi più
alti.
Con la creazione del mercato unico che ha eliminato le barriere tariffarie al
commercio, lo scambio dei beni sta sostituendo la migrazione intra-europea
attraverso il pareggiamento dei prezzi relativi dei fattori.
Tale realtà non fa che confermare le ipotesi alla base della teoria del
commercio internazionale per cui, se si effettuassero maggiori scambi
commerciali tra i paesi di partenza e di accoglienza della migrazione, questi
potrebbero andare a sostituire i movimenti dei fattori di produzione e, in
particolare, del fattore lavoro.
Le altre ipotesi alla base del modello possono ancora dimostrare la sua
adattabilità al caso europeo. L’omoteticità delle preferenze, infatti, implica la
scelta di consumo della stessa proporzione di beni a qualsiasi livello di
reddito per entrambi i paesi. Questo potrebbe trovare conferma proprio nella
migrazione che si muove alla ricerca di modelli di consumo non disponibili
nel paese di origine ma in quello di destinazione. Se nel paese di partenza
fossero disponibili i beni che richiedono gli emigrati (intensivi di capitale e
prodotti, quindi, nei paesi di destinazione) non si avrebbe questo tipo di
migrazione.
Si è sottolineata, fino ad ora, la sostituibilità tra migrazione internazionale e
commercio internazionale. La realtà dei fatti, però, non ha escluso l’ipotesi
opposta di complementarità dei due fenomeni. Negli anni ’70 e ’80, infatti, la
complementarità tra migrazione e commercio internazionale, è stata una
consuetudine per gli scambi sia tra paesi industrializzati (vedi il caso
dell’Italia da cui continuano a partire, se pur in maniera sostanzialmente
decrescente, lavoratori verso L’America o l’Europa del nord, nonostante i
grandi flussi di esportazioni dei prodotti italiani) sia per le relazioni
commerciali tra quelli in via di sviluppo e quelli industrializzati.
In alcuni casi, la riduzione del flusso migratorio ha dato origine ad una
produzione interna sostitutiva delle importazioni (vedi il caso della Cina).
In altri casi, a fronte della crescita del commercio tra i paesi
industrializzati e ad una conseguente stagnazione del
commercio con i paesi meno industrializzati del Mediterraneo,
si è assistito ad una crescita dell’emigrazione27.
1.6 Gli effetti della migrazione sul benessere economico e
sociale
Lavori degli anni ’50 e ’60 hanno contribuito a diffondere l’idea
che la forza lavoro straniera possa fare da motore per lo
sviluppo economico.
Questi studi si basavano sull’analisi della migrazione dal settore
agricolo a bassi salari verso quello industriale ad alti salari
(Lewis 1954) e sull’esperienza dello sviluppo del secondo
dopoguerra visto come frutto della altissima migrazione che, a
partire dalla fine della seconda guerra mondiale, ha investito
tutta l’Europa sia in entrata che in uscita28.
27 Cfr. Markusen J.R., Factor Movements and Commodity Trade as Complements, in Journal of International Economics, n 13 198328 Cfr. Kindelberger 1967 in Venturini A. Effetti dell’immigrazione nel paese di destinazione-Le Migrazioni dei paesi sud europei – UTET, 2001
In questo senso, la questione è stata analizzata nell’ambito del
legame esistente tra il livello della popolazione e lo sviluppo
economico, e più precisamente, all’interno dell’analisi
dell’impatto che la popolazione ha sul tasso di accumulazione e
sullo sviluppo tecnologico.
Gli studi che analizzano l’effetto dell’immigrazione sul
benessere della popolazione nazionale usano come unico
metro di misura l’impatto che essa può avere sul reddito pro-
capite. Una riduzione del reddito pro-capite, tuttavia, non
implica necessariamente una riduzione del reddito percepito dai
nazionali se gli stranieri hanno un reddito pro-capite inferiore.
Allo stesso tempo, una valutazione positiva della migrazione
per il sistema economico si può basare, spesso, su
argomentazioni a volte poco economiche e più sociali.
Per analizzare l’impatto della migrazione sullo sviluppo
dell’economia bisogna tener presente, allora, i vincoli a cui è
sottoposto il sistema economico e il livello di capitale umano
portato dai lavoratori stranieri.
I lavori che associano l’immigrazione alla crescita della
popolazione e che ne studiano gli effetti sull’economia29
necessitano di una prima puntualizzazione: gli immigrati non si
comportano come dei nuovi nati, accrescendo semplicemente
la popolazione e per ciò diminuendo il benessere pro-capite.
29 Cfr. Dolado, Ichino, Goria, Immigration, human capital and growth in the host country, Evidence from pooled country data in Journal Population Economics, 1994
Quando questi entrano nel paese ospitante portano con se un
certo grado di capitale umano accumulato nel loro paese di
origine ed in più, dopo il loro arrivo, essi accumulano il capitale
umano e contribuiscono alla sua accumulazione, in modo
diverso da quello dei nazionali.
Si può analizzare, allora, il contributo che gli immigrati
apportano all’economia del paese di destinazione quando
questi arrivano con qualche tipo di professionalità.
Data la sostanziale differenza, appena menzionata, tra un
afflusso di immigrati in un determinato paese ed una crescita
demografica interna allo stesso paese, è necessario ai fini
dell’analisi, individuare il contenuto e la qualità dei livelli di
professionalità acquisiti dagli immigrati nei loro paesi di origine.
A tale scopo, le fonti professionali a cui si fa generalmente
riferimento sono le misure di scolarità del paese di origine degli
immigrati.
Le principali fonti di informazione sui dati scolastici sono quelle
della Banca mondiale, con dati sulla frequenza della scuola
secondaria, l’indice costruito da Kyriacou (1991),
sull’acquisizione effettiva di capacità derivante dalla scuola e un
terzo indice, dello stesso tipo, costruito da Barro-Lee (1992)30. 30 Per una completa esposizione della metodologia seguita da Barro-Lee e Kyriacou si vedano i lavori: Barro RJ, Lee JW, International comparison of educational attainment. Harvard University Press, Cambridge, 1992.Kyriacou G.A, Level and growth effect of Human Capital. A cross country study of the convergence Hypotesys. NY University
Mentre la prima misura costituisce un investimento in capitale
umano, le seconde sono considerate come misure di uno stock
già acquisito di capitale umano.
In particolare, se viene definita hit la scolarità del paese i al
tempo t e Mjit il numero degli immigrati nel paese ospitante j di
origine i nel periodo t, per ciascun paese di arrivo e per
ciascuna misura di scolarità si possono costruire i due indicatori
seguenti :
1) Hjt = Σi hit Mjit / Σi Mjit la media di capitale umano degli
immigrati che arrivano dal paese j al tempo t e
2 ) Εjt = Hjt / hjt, il rapporto tra capitale umano degli immigrati e
capitale umano dei nativi nel paese j al tempo t.
Questi indicatori sono basati sull’ipotesi che gli immigrati siano
selezionati casualmente dalla popolazione d’origine. La
questione su come siano selezionati gli immigrati dal paese di
origine nella realtà, non è di secondaria importanza.
Il discorso riguarda in modo particolare la diversa
composizione, in termini di qualifiche professionali, delle coorti
degli immigrati e dei motivi che generano tali differenze31.
La diversa composizione di qualifiche e professionalità può
essere dovuta alla mutazione nella composizione dei flussi
migratori. A sua volta, tale composizione viene influenzata da
vari motivi.
31 Cfr. Borjas G.J. Assimilation, Changes in cohort quality and the earning of immigrants in Journal of Labour Economics, 1985
E’ possibile che il grado di trasferibilità delle qualifiche ottenute
in un dato paese, verso un altro paese, sia così basso che,
mantenendo costante il livello di istruzione, immigrati
provenienti da paesi differenti possano integrarsi in modi diversi
nel paese di destinazione.
La qualità delle coorti, inoltre, può cambiare nel tempo perché
la composizione delle abilità dello stesso paese d’origine
cambia nel tempo a seconda di come cambiano gli indicatori
economici. Per cui, se mutano le condizioni economiche del
paese d’origine rispetto a quello di destinazione, per alcuni
lavoratori può essere conveniente emigrare mentre per altri
meno.
In fine, si possono verificare diverse composizioni delle
qualifiche dei lavoratori immigrati a causa dell’autoselezione32
dove per autoselezione si intende l’esclusione volontaria di
alcuni individui dalle possibili e diverse coorti di immigrati.
In particolare, gli immigrati si autoselezionano in base a diversi
parametri.
Un fattore importante che determina la positività o negatività
della selezione, oltre alla trasferibilità della professionalità, è la
differenza nella dispersione della distribuzione dei salari tra i
diversi paesi.
32Cfr. Borjas G.J, Self selection and the earnings of immigrants in American Economic Review, 1987
Assumendo la perfetta trasferibilità delle qualifiche
professionali, se nel paese di partenza la dispersione è tale che
il reddito di quelli che guadagnano poco è molto basso e il
reddito di quelli che guadagnano molto è comparativamente
molto elevato, allora, questa è da considerarsi una dispersione
poco concentrata33 e la migrazione interesserà prevalentemente
il personale meno qualificato generando, così, una selezione
negativa. Viceversa, se il paese d’origine ha una dispersione
del reddito più concentrata rispetto al paese di arrivo e cioè, se
il reddito di chi guadagna poco non è di molto inferiore al
reddito di chi guadagna molto, la migrazione interesserà
maggiormente i lavoratori dotati di qualifiche più elevate e
porterà ad una selezione positiva degli immigrati.
Detto ciò, con gli indici sopra descritti, si può dare una
descrizione del tipo di flusso migratorio che si verificherebbe in
condizioni di salari più compressi nel paese di destinazione.
C’è da dire che il tasso di scolarità a cui si è fatto esclusivo
riferimento non è comparabile e trasferibile per tutti i paesi,
date le differenze dei sistemi educativi. Né, la scuola può
essere considerata l’unica fonte di apprendimento delle
qualifiche lavorative (acquisibili anche in apprendistati o corsi di
formazione specifici). Tuttavia, nella letteratura empirica il tasso
33 La concentrazione è l’attitudine di un fenomeno a distribuirsi prevalentemente su poche unità statistiche. Si dice che un fenomeno ha concentrazione nulla se è distribuito in modo uniforme su tutte le unità della popolazione. Al contrario, si dice che la concentrazione è massima se un’unica unità possiede l’intensità totale mentre le restanti unità hanno tutte intensità nulla.
di scolarità viene usato largamente come una buona
approssimazione del livello di capitale umano.
Al fine di descrivere il tipo di flussi migratori che si generano,
usando i tre indici sopra riportati, si considerino nove tra i
maggiori paesi OECD di destinazione: Australia, Belgio,
Canada, Germania, Olanda, Svezia, Svizzera, Regno Unito e
Stati Uniti, in un arco temporale che va dal 19960 al 1985
(Dolado 1993).
Per i paesi e i periodi considerati, la media di capitale umano
degli immigrati a confronto con quella dei nativi, è descritta dai
seguenti grafici (fig. 10-12).
Fig. 10) Indice di frequenza della scuola secondaria dal
1960 al 1985. Fonte Banca Mondiale.
Nel grafico riportato in figura 10, ottenuto dallo studio della
banca mondiale sulla frequenza della scuola secondaria negli
anni che vanno dal 1960 al 1985, si evidenzia che:
a) In generale, il rapporto tra immigrati e nativi è diminuito nel
corso del periodo considerato.
b) Il rapporto tra gli immigrati e nativi appartenenti al gruppo di
lavoratori più specializzati è sostanzialmente rimasto costante
nel tempo subendo, tuttavia, variazioni temporanee.
c) Il rapporto tra immigrati e nativi appartenenti al gruppo di
lavoratori poco specializzati è aumentato nel tempo anche se in
modo non sostanziale.
Fig. 11) Indice di Kyriaco sull’acquisizione effettiva di
professionalità derivante dalla scuola nel periodo
1960/1985.
Nel grafico riportato in figura 11, costruito mediante l’indice di
Kyriaco, sull’acquisizione effettiva di capacità derivante dalla
scuola e sempre riferito al periodo 1960/1985, notiamo che:
a) il rapporto tra immigrati e lavoratori nazionali ha subito
andamenti discontinui, raggiungendo un picco massimo in
corrispondenza del 1975, per poi diminuire negli anni
successivi.
b) il rapporto tra lavoratori stranieri e lavoratori nazionali
appartenenti al gruppo con maggiori livelli di professionalità è
rimasto sostanzialmente costante fino al 1975 per poi
aumentare nel tempo mantenendosi ad elevati livelli.
c) il rapporto tra immigrati e nazionali appartenenti al gruppo di
lavoratori meno specializzati è aumentato in modo maggiore a
quanto suggerito dalla Banca Mondiale con un picco massimo
in corrispondenza del 1980.
Fig. 12) Indice di Barro-Lee sull’acquisizione effettiva di
professionalità derivante dalla scuola nel periodo
1960/1985.
Infine, nel grafico della figura 12 costruito con l’indice di Barro-
Lee, notiamo che:
a) il rapporto tra immigrati e nazionali è diminuito dal ’60 al ’65 per
poi risalire fino ad un picco massimo nel 1970 e scendere di
nuovo. Si è poi stabilizzato ad un livello, circa, dello 0,8 nella
metà degli anni ’80.
b) il rapporto tra lavoratori immigrati e nazionali specializzati è
rimasto sostanzialmente costante nel tempo a livelli molto
elevati.
c) Il rapporto tra immigrati e lavoratori nazionali entrambi poco
qualificati ha subito un aumento nel tempo crescendo
costantemente fino al 1985.
Le differenze nei risultati tra i tre diversi indici non sono
significative. Ognuno dei tre indicatori mostra come, nel tempo,
il rapporto immigrato/lavoratore nazionale sia diminuito e come
sia aumentato il rapporto tra i lavoratori appartenenti alla fascia
meno professionale. Queste conclusioni non fanno che
confermare le ipotesi teoriche della maggior parte degli studi
che assumono che il lavoro immigrato sia non specializzato.
La centralità del ruolo giocato dal capitale umano portato dagli
immigrati nel paese di destinazione viene confermata negli
studi teorici che analizzano l’effetto della migrazione sulla
crescita economica. Il modello utilizzato a tale proposito è
quello della crescita della popolazione elaborato da Solow
(1956), aumentato della migrazione, e rivisto nella versione di
Lucas (1988) che tiene conto della crescita del capitale umano
e della migrazione.
Un tale approccio di analisi, ipotizza una funzione di produzione
in cui il capitale umano è esplicitamente presente per cui:
a) Y = Hª (Legt )1-a con 0 < a < 1
Dove Y rappresenta il livello di output, H è il livello di capitale
umano, L rappresenta la popolazione attiva totale, composta
da nativi e nuovi immigrati netti M e g è la produttività del
lavoro.
L’ammontare effettivo di lavoratori cresce per l’aggiunta di
lavoratori immigrati nell’economia e per lo sviluppo tecnologico
che essi incorporano.
Il capitale umano, a sua volta, cresce in funzione della quota di
output, in esso investito s, per la quota b dello stock di capitale
umano già esistente e introdotto dall’immigrato e si riduce,
invece, per via del deprezzamento, d. Quindi:
b) H = sY – dH + mbH
dove m = M / L.
Con d) y = hª = (H/L)a = ( H0 + Mb H0/L0 )α
( L0 + M )α
Utilizzando le variabili minuscole per le unità di lavoro nel modo
seguente
y = hª; y = Y / Legt; h = H /Legt
risulta che l’effetto della migrazione netta sarà positivo o
negativo se b, la quota di capitale umano portata dall’immigrato,
è maggiore o minore di 1.
e) δy / δM = αhα-1 H0 (b – 1) > o < 0 L2
Da ciò discende che con un dato livello di b, maggiore
immigrazione farà crescere il livello corrente di reddito pro-
capite se b è maggiore di 1. Viceversa, se b è minore di 1,
maggiore immigrazione farà decrescere il livello corrente del
reddito pro-capite.
In conclusione, la letteratura individua un effetto positivo sulla
crescita dell’economia e, in particolare del reddito pro-capite del
paese di destinazione, se il capitale umano dello straniero è
superiore a quello del lavoratore nazionale. Viceversa se è
inferiore.
Nell’analisi del fenomeno migratorio in un’ottica di equilibrio
economico generale, è interessante andare ad indagare quali
siano le conseguenze della migrazione sulla spesa sociale del
paese di destinazione. A tale proposito sono stati sviluppati
numerosi studi, sia a livello teorico che empirico, su particolari
argomenti come: contributi fiscali e riscossione delle pensioni,
contributi sanitari e utilizzo dei servizi34.
Nei paesi in cui il fenomeno migratorio ha origini più antiche,
quali ad esempio gli Stati Uniti, i vari studi (Borjas 1995, Hilton
and Borjas 1996, borjas 1999) hanno evidenziato il fatto che, a
parità di caratteristiche, gli immigrati tendono a partecipare in
modo minore, rispetto ai nazionali, ai programmi di welfare sia
nella fase iniziale della vita lavorativa che in quella finale. Tra le
varie tipologie di immigrati, però, i rifugiati politici sono tra quelli
che sfruttano maggiormente le strutture dei servizi sociali,
rispetto agli immigrati per motivi di lavoro, incidendo in modo
crescente sulla spesa sociale.
Un ulteriore caratteristica del rapporto tra comunità immigrate e
servizi sociali, riscontrata negli USA, è che l’utilizzo del welfare
è differente a seconda del gruppo etnico di appartenenza
34 Cfr. Venturini A. Effetti dell’immigrazione nel paese di destinazione-Le Migrazioni dei paesi sud europei – UTET, 2001
dell’immigrato e spesso le informazioni e l’uso di tali servizi
sono filtrati dalla comunità di riferimento.
Le differenze con la realtà europea, però, non permettono di
fare un parallelo immediato con le esperienze appena
osservate.
I problemi riguardano, infatti, le diverse caratteristiche delle
garanzie sociali e dell’organizzazione di tali garanzie per i
cittadini nazionali. Il diverso modo di accesso ai servizi sociali,
la differente estensione di tali diritti sociali verso gli immigrati
nei vari paese e, infine, il diverso utilizzo del welfare fortemente
influenzato dalle comunità di riferimento.
Gli studi effettuati in Europa (Straubhaar, Weber 1999),
comunque, permettono un confronto tra alcuni paesi, come la
Germania e la Svizzera, e altri quali USA, Australia e Canada
che evidenziano come l’effetto della migrazione sulla finanza
pubblica non sia necessariamente negativo, ansi, nella maggior
parte dei casi esso è nullo e in alcuni casi positivo (per la
Svizzera Weber 1993; per la Svezia Gusaffson 1990; per la
Germania Ulrich).
Tentativi di analisi dell’impatto della migrazione sulla spesa
sociale nei paesi dell’Europa meridionale sono solo all’inizio
poiché il fenomeno di immigrazione è molto recente. Mancano,
in queste aree, i dati per replicare le analisi statunitensi ed è
ancora difficile seguire e valutare il livello di integrazione
economica degli immigrati. Quello che è certo è che in questi
paesi è molto gravoso, per la spesa sociale, sia il controllo della
migrazione illegale, sia la gestione del fenomeno caratterizzata
dalle spese per l’espulsione degli immigrati illegali e da quelle
per il soggiorno di tali immigrati nei centri di accoglienza. Si
aggiungono a tali costi quelli dell’utilizzo dei servizi sanitari e di
assistenza da parte degli immigrati illegali sfuggiti ai controlli e
presenti sul territorio. Sull’importanza di tali costi, inoltre, i
confronti con gli studi Nord europei o statunitensi non sono
molto significativi giacché, tali studi, si focalizzano sulla
migrazione regolare.
Rimanendo nell’ambito del sistema dei diritti sociali, la
migrazione, influendo sulle caratteristiche demografiche del
paese di destinazione, apporta anche dei cambiamenti di
organizzazione e gestione economica della popolazione.
Attualmente i paesi di destinazione sono paesi a bassa fertilità
o peggio, a fertilità decrescente con coorti di giovani in età
lavorativa inferiori rispetto alle coorti di anziani in età
pensionabile. Essendo ormai diffuso, nei paesi industrializzati,
un finanziamento dei fondi pensione a ripartizione (i contributi
che entrano nel bilancio dell’istituto vengono usati per coprire le
uscite pensionistiche) è necessario che la dimensione della
forza lavoro attiva sia superiore a quella della forza lavoro
pensionabile per garantire l’equilibrio delle prestazioni.
A fronte della situazione dei paesi di destinazione in cui i
lavoratori in età pensionabile, per l’allungamento della
prospettiva di vita, stanno diventando più numerosi dei
lavoratori attivi, la migrazione, costituita per la maggior parte da
giovani con un tasso di fertilità superiore rispetto ai nativi,
diventa quindi un canale importante di accrescimento
demografico.
Per valutare se e quanto la migrazione possa funzionare da
contrasto all’invecchiamento della popolazione, sono stati fatti
numerosi studi.
Per quanto riguarda la realtà europea, la ricerca mostra che,
per assicurare una crescita costante dell’1% l’anno, la
migrazione dovrebbe ammontare a circa un milione l’anno di
persone (Lesthaeghe 1991), valore superiore a quello più alto
mai riscontrato.
Se invece l’obbiettivo fosse quello di contrastare
l’invecchiamento, così da mantenere costante il rapporto tra la
popolazione in età lavorativa e quella in età pensionabile,
sarebbero necessari flussi in entrata tanto numerosi da poter
raddoppiare la popolazione nell’arco di 60 anni e che
alimenterebbero la domanda di nuovi flussi in entrata ai fini di
contrastare l’invecchiamento anche degli stessi immigrati.
La soluzione che, nel lungo periodo, sembra garantire un
ringiovanimento della popolazione dei paesi di destinazione,
sembra essere quella di accogliere un tasso costante di
immigrati così da non rischiare di stravolgere gli equilibri interni
di un paese.
Nel caso italiano, in particolare, si è stimato35 che la quota di
immigrati, necessaria per raggiungere una popolazione
stazionaria, dovrebbe essere pari al 30% della popolazione
nazionale con un flusso annuale netto di 389.000 immigrati36.
In una analisi dei conti generazionali37, poi, si è sottolineata
l’importanza, per il nostro paese, dell’impatto positivo degli
immigrati che potrebbe ridurre il disavanzo dei conti pubblici
anche se, accanto a questo si è altresì evidenziata la necessità
di riforme strutturali, senza le quali, si arriverebbe ad aver
bisogno di un flusso di immigrati pari ad 1 milione l’anno solo in
Italia.
Le conclusioni a cui si giunge in seguito a tali analisi sono che,
innanzi tutto, nel lungo periodo, la soluzione migliore da molti
punti di vista (demografico, politico ed economico) sembra
essere quella di individuare un tasso fisso di immigrati da
ammettere nel paese. In più, è emerso che la migrazione
temporanea è certamente poco o per nulla influente, rispetto a
35 Cfr. Gesano G. Mobilità e strutture demografiche. Continuità e discontinuità nei processi demografici, 199536 Molti di questi esercizi usano l’ipotesi di fertilità degli stranieri uguali ai nazionali che, come è ben noto, non è realistica e rende difficile una realistica previsione dell’impatto dei flussi di immigrazione. Essi pervengono in generale ad una sottostima dell’effetto demografico dell’immigrazione ed a una sovrastima dei flussi in entrata necessari per mantenere stazionaria la popolazione.37 Cfr. Coda F. The effects of Immigrants’ Inflows on the Italian Welfare State Sustantiability: a Generation Accounts Perspective Study, CEPR Warking Papers, 2001
quella permanente, poiché il suo contributo positivo, in termini
di fertilità, andrebbe presto perduto.
In termini di benessere collettivo, altre considerazioni che si
possono fare sugli effetti della migrazione, riguardano i paesi di
origine e, in particolare, le rimesse che questi ricevono dagli
emigrati e gli effetti che una migrazione di lavoro specializzato
può avere su tali paesi.
Un rapido accenno ai paesi da cui si originano i flussi migratori, conduce
all’osservazione che, nei paesi in via di sviluppo le difficoltà che si incontrano
nel coprire il fabbisogno di risorse esterne, attraverso l’esportazione di beni o
l’afflusso di investimenti, portano spesso le autorità a considerare il lavoro
dei migranti un mezzo per aumentare le risorse in valuta estera.
Le migrazioni e le rimesse hanno giocato, infatti, un ruolo molto importante
nella crescita dei paesi di origine e hanno portato i responsabili politici di
alcuni paesi, a basso e medio reddito, a promuovere l’emigrazione per
lavoro.
Le rimesse dei migranti esercitano quindi un impatto profondo e positivo
sull’economia dei paesi di origine della migrazione e devono essere prese in
considerazione nei piani di sviluppo. Infatti, le spese, rese possibili dalle
entrate aggiuntive provenienti dall’estero, sia per i consumi che per gli
investimenti, esercitano un effetto moltiplicatore che si riflette sull’intera
economia dei paesi beneficiari. Dall’altra parte, però, questi effetti possono
anche innescare un livello di inflazione che potrebbe essere difficile
controllare. In tutti i casi, è stato stimato, dal Fondo Monetario
Internazionale38, che nel 1995 le rimesse dei migranti a livello mondiale
siano ammontate a 70 miliardi di dollari, somma che si avvicina al valore
38 Cfr. Caritas di Roma, Il risparmio degli immigrati e i paesi di origine: Il caso italiano, 2002
monetario del commercio del petrolio, e che tali flussi di denaro siano entrate
in competizione con le entrate derivanti dalle esportazioni di prodotti agricoli
e manifatturieri e abbiano facilitato lo scambio con l’estero per un processo
di industrializzazione.
Un ulteriore effetto dell’emigrazione può essere individuato nella variazione
della composizione demografica che influenza così, sia la qualità che la
quantità della forza lavoro dei paesi da cui si originano i flussi migratori.
Uno degli aspetti più preoccupanti del fenomeno migratorio, è l’abbandono
del paese di origine di lavoratori altamente specializzati. Questo fenomeno
è generalmente conosciuto con il nome di brain drain39.
L’emigrazione di lavoratori altamente specializzati dai paesi in via di sviluppo
è andata aumentando nell’ultima decade.
Da una parte c’è stato un aumento consistente della domanda di lavoro
specializzato da parte dei paesi sviluppati. Dall’altra i salari migliori di questi
paesi, le migliori condizioni di lavoro, la migliore informazione, i sistemi di
reclutamento dei lavoratori e i costi minori dei trasporti, hanno incoraggiato
l’emigrazione dei lavoratori specializzati e la loro ricerca di posti di lavoro nei
paesi sviluppati.
Questi grandi volumi di lavoratori specializzati che emigrano
pongono la questione su quali siano gli effetti di questi flussi sui
paesi che lasciano.
Gli schemi neoclassici sulla crescita economica portano a predire che il
fenomeno del brain drain abbia un effetto negativo sullo sviluppo dei paesi di
origine. In particolare, alti livelli di emigrazione di lavoratori specializzati
rallentano la crescita economica (in termini di prodotto totale) e influenzano
negativamente il benessere di coloro che rimangono in patria.
39 Cfr. Lindsay Lowell B, Findlay A. Migration of High Skilled Persons from Developing Countries: impact and Policy Responses in International Migration Papers n 44- ILO (International Labour Office) Geneve
Come naturale conseguenza la povertà e la disuguaglianza nei paesi in via
di sviluppo è destinata ad aumentare.
Questa visione viene rafforzata da studi recenti (Barro- Sala I Martin, 1995;
Topel 1998) che hanno dimostrato che un alto livello medio di capitale
umano in una società, influenza positivamente la produttività e la crescita
del paese.
Tali studi hanno riscontrato che, in 111 paesi tra il 1960 e il 1990, l’aumento,
per ogni anno, della media del livello dell’educazione della forza lavoro di
una nazione, aumenta il prodotto, per ogni lavoratore, di un livello che varia
dal 5 al 15 %.
Di conseguenza, la migrazione di personale altamente qualificato porta con
se il rallentamento della crescita del paese dal quale i lavoratori si
allontanano.
Una variante di tale ragionamento indica, però, che a certi livelli
ottimali di migrazione i paesi di origine ne potrebbero
beneficiare: la possibilità, per un lavoratore, di poter emigrare in
un paese con più alti livelli salariai, lo stimolerebbe ad acquisire
maggiore educazione nella prospettiva di partire.
Alcuni studi suggeriscono che, a certi livelli di migrazione specializzata, la
quota di lavoratori specializzati che rimangono nel paese di origine cresce e
lo sviluppo del paese stesso verrebbe, così, stimolato (Haque- Aziz 1999:
Wong- Yip 1999; Straubhaar- Wolburg, 1998).
Ciò suggerisce che esisterebbe un livello ottimale di emigrazione dei
lavoratori specializzati al di sotto del quale i lavoratori sono meno incentivati
ad acquisire capitale umano. Al contrario, superare la soglia di migrazione
ottima, danneggia lo stock di capitale umano del paese e ne frena lo
sviluppo.
Il maggior danno che lamentano, quindi, i paesi dai quali si
origina la così detta “fuga dei cervelli” è che essi sostengono gli
elevati costi di addestramento dei lavori specializzati, per poi
non poter beneficiare della loro professionalità. A questo si
aggiungono le politiche di alcuni paesi di destinazione (Canada,
Australia, Regno Unito e Germania) che tendono ad incentivare
l’immigrazione di personale specializzato e a frenare quella dei
lavoratori non specializzati.
La questione, quindi, su quali siano le politiche migratorie
migliori, sia per i paesi di origine che per quelli ospitanti, è
ancora aperta.
2. Immigrazione e Mercato del Lavoro
Dopo aver analizzato la migrazione del lavoro, in termini di
equilibrio economico generale, sia nell’ambito del commercio
internazionale sia riguardo agli effetti che tale fenomeno può
avere sulla crescita e sul benessere, guardiamo ora agli effetti
della migrazione sul funzionamento del mercato del lavoro.
In particolare, nell’analisi dei costi e dei benefici dei flussi migratori uno dei
temi più trattati riguarda il dibattito sull’effetto che la migrazione può avere
sul salario e sull’occupazione dei lavoratori del paese d’arrivo.
Il mercato del lavoro racchiude tutto l’insieme dei meccanismi che
riguardano il modo in cui domanda e offerta di lavoro entrano in contatto,
ovvero come certi lavoratori si rendono disponibili e vengono assunti dalle
imprese e come si fissa la retribuzione per ogni lavoratore.
In sintesi, il mercato del lavoro condiziona la variazione delle retribuzioni, la
mobilità dei lavoratori, le variazioni dei livelli occupazionali e della
disoccupazione40.
Appare, allora, di fondamentale importanza analizzare quale sia
l’effetto di un afflusso di lavoratori, non previsto, su un
determinato mercato del lavoro e sui meccanismi e le regole
che lo compongono.
40 Cfr. Baici E., Samek Ludovici M, La Disoccupazione. Modelli, diagnosi e strategie per il mercato del lavoro in Italia, Carocci, 2001
Il nucleo del dibattito sul tema si basa essenzialmente sul ruolo del
lavoratore immigrato che è visto, alternativamente, come una minaccia per
la stabilità della posizione del lavoratore nazionale o come ininfluente sui
salari e sui livelli dell’occupazione dei nativi.
Una tesi importante sostiene41 che i flussi migratori non spiazzano
retribuzione ed occupazione nel mercato del lavoro del paese di
destinazione, ed è assente anche la riduzione delle retribuzioni dei lavoratori
nazionali omogenei (con le stesse caratteristiche dei lavoratori immigrati) e
di quelli più qualificati e quindi complementari.
Il mancato spiazzamento si verifica quando il mercato del lavoro è
fortemente segmentato. Infatti, secondo un’ipotesi interpretativa che si è
andata affermando in questi ultimi anni, il mercato del lavoro, presenta una
forte dicotomia nella qualità e nei tipi di posti di lavoro disponibili sul
mercato. Esistono, cioè, “buoni” posti di lavoro e “cattivi” posti di lavoro. I
posti buoni costituiscono il settore “primario” mentre, i posti cattivi
costituiscono il settore “secondario”. In quest’ultimo i posti di lavoro sono
sempre sufficienti per occupare tutti i lavoratori disponibili ma sono di qualità
scadente: sono mal retribuiti, precari e poco attraenti sotto il profilo della loro
pericolosità, scarsità di responsabilità e mancata prospettiva di carriera.
Sono proprio questi i lavori, definiti internazionalmente con le 3D (Dirty,
Dangerous e Demanding), che gli stranieri vanno ad occupare poiché i
nazionali non vogliono più occuparli o è troppo costoso modernizzarli.
Ancora a sostegno dell’impatto positivo degli immigrati sul mercato del
lavoro del paese ospitante, si sostiene, che i lavoratori immigrati possano
contribuire in modo rilevante al progresso tecnologico del paese in cui si
insediano. Essi, infatti, qualora riducano il salario dei lavoratori non
qualificati, aumentano l’intensità del lavoro usato nel settore poco qualificato
41 Cfr. Frey. L, Liviraghi, The jobs and effects of migrant workers in Italy- Three essays, pp 1-25 International Migration Papers,11 (ILO) Geneva
e liberano capitale da investire nel settore produttivo più avanzato che usa
lavoro specializzato, aumentando così il progresso e lo sviluppo di
produzioni ad alto contenuto tecnologico.
Infine, la migrazione avrebbe anche benefici antinflattivi per i consumatori
poiché, riducendo il costo del lavoro nel settore in cui sono impiegati, riduce
anche i prezzi dei beni prodotti dal medesimo settore e favorisce un
aumento della domanda e dell’occupazione totale42 .
Il legame, tuttavia, potrebbe essere inverso. I lavoratori stranieri,
generalmente poco qualificati, potrebbero ridurre il valore del fattore lavoro
nel settore meno specializzato e favorire investimenti intensivi di lavoro.
Ciò aumenterebbe la remunerazione del capitale in tale settore e
diminuirebbe la competitività dei prodotti intensivi di capitale. Di
conseguenza questo potrebbe portare a far diminuire le occasioni di lavoro
per i lavoratori più qualificati43. Da qui la considerazione, da parte di un filone
della letteratura, del ruolo competitivo degli immigrati rispetto ai lavoratori
nazionali.
Oltre alle caratteristiche interne del mercato del lavoro e dei suoi lavoratori, a
determinare un effetto positivo o negativo dell’ingresso degli immigrati, può
essere la situazione del suo ciclo economico.
In una fase espansiva di eccesso di domanda di lavoro, ovviamente, non si
presenta immediatamente una competizione tra le due classi di lavoratori.
Tuttavia, l’eccesso di domanda di lavoro può creare una pressione sui salari
degli occupati per cui, la presenza di immigrati che soddisfano l’eccesso di
domanda, peggiora le remunerazioni potenziali degli occupati creando un
certo grado di competizione. E’ anche possibile, però, che gli aumenti dei
42 Cfr. Gavosto A, Venturini A, Villosio C, Do Immigrants Compete with Natives?, in Labour 13 (3), 199943 Cfr. Dell’Aringa C, Neri F, Illegal Immigrants and the Informal Economy in Italy, in Labour 1 (2), 1987
prezzi dei beni, generati dagli aumenti dei salari, erodano i benefici derivanti
dal nuovo salario reale non creando nessun beneficio netto per gli occupati.
Moltissimi sono, quindi, i fattori che possono influenzare sia il reale effetto
del flusso migratorio sul mercato del lavoro del paese ospitante, sia le
convinzioni economiche, politiche e sociali di un osservatore del fenomeno.
E’ necessario, allora, analizzare alcuni dei più importanti studi
analitici per poter comprendere quale ruolo economico gioca
l’immigrato nei vari mercati del lavoro in cui decide di insediarsi.
2.1 Complementarità o sostituzione
Due inputs si definiscono sostituti se un aumento dell’offerta o della dotazione di uno dei due riduce il prezzo dell’altro. Sono complementari, invece, se l’aumento dell’offerta di un input aumenta il prezzo dell’altro input.
La complementarità o sostituzione del lavoratore immigrato, rispetto ai
lavoratori nazionali, dipende dalle sue caratteristiche professionali.
Quanto più queste sono simili a quelle del lavoratore nazionale, tanto più il
suo lavoro sarà omogeneo, il suo ruolo competitivo e il suo ingresso nel
paese di destinazione avrà un effetto negativo sul salario e l’occupazione dei
nativi. Viceversa, se il livello di professionalità differisce tra lavoratori
immigrati e nazionali, allora il ruolo dell’immigrato è complementare a quello
dei lavoratori interni e l’effetto del suo ingresso nel nuovo mercato del lavoro
sarà positivo.
L’attenta osservazione della realtà ha mostrato che la stragrande
maggioranza degli immigrati è composta da lavoratori poco o per nulla
qualificati. Ne discende che gli immigrati sono sostituti dei lavoratori
nazionali non qualificati mentre sono complementari ai lavoratori nazionali
qualificati o al capitale, che a sua volta è complementare al lavoro
qualificato.
Gli elementi chiave per valutare la complementarità o la sostituzione degli
immigrati, rispetto ai lavoratori nazionali, vanno ricercati all’interno
dell’organizzazione e delle regole politiche ed economiche a cui rispondono i
mercati del lavoro nella realtà.
Nel caso di un mercato del lavoro neoclassico44 le caratteristiche che lo
contraddistinguono sono il salario perfettamente flessibile, così come il livello
di occupazione.
44 Cfr. Venturini A, The jobs and effects of migrant workers in Italy- Three essays, pp 1-25 International Migration Papers,11 (ILO) Geneva
Fig.13 Mercato del lavoro neoclassico con offerta del lavoro rigida
Sni = offerta i di lavoratori nazionali di qualità iMi = ammontare di immigrati di qualità iDi = domanda di lavoro di tipo iW/P = salario realeNi = occupazione dei nazionali del tipo iEi = occupazione totale dopo l’immigrazione
In una realtà simile, se l’offerta di lavoro è rigida (fig.13), la crescita
dell’offerta di lavoro, in un mercato che utilizza lavoratori omogenei agli
stranieri, produce solo una riduzione del salario di equilibrio.
WP
W0
P
W1
P
0 NiNi Ei
Di
B
A
CG
F
Sni Sni + Mi
Mi
Se l’offerta di lavoro è elastica alla remunerazione ovvero, aumenta
all’aumentare dei livelli salariali, si riducono sia il salario sia l’occupazione
(fig. 14 dove l’occupazione si riduce da ONi a ON’i )
Fig. 14 Mercato del lavoro neoclassico con offerta di lavoro elastica
Sni = offerta i di lavoratori nazionali di qualità iMi = ammontare di immigrati di qualità iDi = domanda di lavoro di tipo iW/P = salario realeNi = occupazione dei nazionali del tipo iEi = occupazione totale dopo l’immigrazione
In queste due possibili situazioni la domanda di lavoro è rimasta
invariata.
Risultati simili si ottengono se alla crescita dell’offerta segue
una crescita della domanda di lavoro, omogeneo, ad essa
inferiore. Tale crescita fa ridurre le variabili di equilibrio al punto
A’’ delle figure 15 e 16. In questi due casi, tanto più l’offerta di
lavoro è rigida e tanto maggiore sarà la riduzione salariale e
minore la riduzione dell’occupazione mentre, tanto più la
WP
W0
P
W1
P
0 EiN’i Ni
Di
B
A
CG
F
Sni
Sni + Mi
Mi
Ni
D
domanda di lavoro è rigida, maggiore sarà sia la riduzione
salariale sia lo spiazzamento occupazionale.
Fig. 15 Mercato del lavoro neoclassico con offerta di lavoro
rigida
A’
Sni = offerta i di lavoratori nazionali di qualità iMi = ammontare di immigrati di qualità iDi = domanda di lavoro di tipo iW/P = salario realeNi = occupazione dei nazionali del tipo iEi = occupazione totale dopo l’immigrazione
Fif. 16 Mercato del lavoro neoclassico con offerta di lavoro
elastica
Sni = offerta i di lavoratori nazionali di qualità iMi = ammontare di immigrati di qualità iDi = domanda di lavoro di tipo iW/P = salario realeNi = occupazione dei nazionali del tipo iEi, E’i = occupazione totale dopo l’immigrazioneTuttavia, se la crescita della domanda è superiore alla crescita dell’offerta -
dovuta all’immigrazione - prevale un rapporto di complementarità con un
WP
W0
P
W1
P
0 EiNi
Di
Sni Sni + M’i
N’i Ni
Sni + Mi
D’i
A’A
A’’
WP
W0
P
W1
P
0
A’
Ni
Sni
Sni + M’i
E’i Ni
Sni + Mi
A
D’iDi
Ei
aumento dei salari (punto A’ nella figura 16) ed un aumento dell’occupazione
(punto A’ della figura 15 che passa da ONi a ON’i con in aumento di NiN’i).
La complementarità, inoltre, si realizza soprattutto tra fattori non omogenei
della produzione (ad esempio lavoro qualificato e lavoro non qualificato). In
questo caso la crescita dell’immigrazione porta alla crescita della domanda
del fattore non omogeneo il quale, sperimenta un aumento dei salari
( fig.17 ) e dell’occupazione ( fig.18 N’j - Nj).
Fig. 17 Mercato del lavoro neoclassico con offerta di lavoro
rigida e crescita della domanda di fattori eterogenei.
Snj= offerta i di lavoratori nazionali di qualità i non omogenei ai nazionaliDj = domanda di lavoro di tipo jW/P = salario realeNj = occupazione dei nazionali del tipo jDi = domanda di lavoro di tipo i
WP
W0
P
W1
P
0
Sj
Nj Nj
D’jDj
A
B
Fig. 18 Mercato del lavoro neoclassico con offerta di lavoro elastica e
crescita della domanda di fattori eterogenei
Snj= offerta i di lavoratori nazionali di qualità i non omogenei ai nazionaliDj = domanda di lavoro di tipo jW/P = salario realeNj = occupazione dei nazionali del tipo jDi = domanda di lavoro di tipo i
WP
W0
P
W1
P
0 Nj Nj
D’j
Dj
N’j
Sj
B
A
2.1.1 Il sindacato
Il funzionamento del mercato appena descritto ben si adatta a mercati del
lavoro fortemente flessibili e con una scarsa presenza di sindacati. Tuttavia,
è poco aderente alla realtà dei mercati del lavoro europei caratterizzati, al
contrario, da poca flessibilità e da una forte influenza dei sindacati.
Un modello45 maggiormente rispondente alla struttura e all’organizzazione
dei mercati europei ipotizza un mercato del lavoro caratterizzato dalla
presenza di un sindacato monopolista. I fattori combinati nella produzione
(con rendimenti di scala costanti) di un unico bene, Y, sono il capitale, K, il
lavoro specializzato, S, ed il lavoro non specializzato, L.
Il prezzo dell’unico bene prodotto è predeterminato e i due fattori lavoro sono
complementari. In un simile contesto è presente, altresì, un Governo che
fissa periodicamente la quota di lavoratori immigrati, M, da immettere nel
mercato. I lavoratori stranieri ammessi non portano capitale con sé
contribuendo, perciò, ad aumentare l’offerta di lavoro unicamente non
qualificato ed in più, la loro presenza non influenza la domanda aggregata
dell’economia.
Il modello di contrattazione tra sindacato ed imprese si riferisce al particolare
caso (right to manage) in cui il sindacato ha il potere di contrattare
unicamente il livello dei salari dei lavoratori non qualificati (WL) mentre, le
imprese ne decidono il livello di occupazione. Nel caso dei lavoratori
qualificati, invece, le forze del mercato determinano il loro salario di equilibrio
(WS).
Date le premesse si possono presentare due scenari: il primo in cui gli
immigrati sono perfetti sostituti dei lavoratori nazionali non qualificati. Il
secondo in cui, tali immigrati, sono sostituti dei lavoratori nazionali qualificati.
45 Cfr. Schmidt C.M., Stilz A., Zimmermann K.F, Mass Migration, unions and government intervention in Journal of Public Economics-55, 1994
Nel primo caso, i lavoratori nazionali non qualificati occupati sono una quota
g del totale dei lavoratori non qualificati, N = gL
dove g = N°/(N°+ M°).
Gli obiettivi del sindacato si misurano sia in termini di livelli salariali, sia in
termini di alti livelli di occupazione. Nella sua funzione obiettivo, compaiono
dunque, con il peso δ, il salario dei lavoratori qualificati (WS) e quello dei
lavoratori non specializzati (WL) e con il peso Φ, i disoccupati non qualificati,
dati da NU = (N° - gL), che ricevono il sussidio alla disoccupazione z.
1) MAXWLΩ = δ WS S° + (WL – z)gL + zN° + Φ/2 (N° - gL)2
Dove S° e N° indicano i valori dei lavoratori qualificati e non
qualificati, nazionali.
Il sindacato, fissa un salario, per i lavoratori non qualificati,
superiore a quello di equilibrio (WL0). Ciò provoca un certo
livello di disoccupazione (L – L).
Se il governo fissa l’ingresso di una quota di immigrati non
qualificati e per questo competitivi ai nazionali, il sindacato sarà
spinto a rivedere il salario dei lavoratori nazionali verso il basso
al fine di evitare l’aumento della disoccupazione. Questa
manovra porterà il mercato del lavoro non qualificato verso un
equilibrio più competitivo e indurrà, perciò, ad una crescita
dell’occupazione (L1) che influenzerà positivamente anche i
lavoratori nazionali. Tuttavia, il risultato finale riguardante i livelli
di occupazione o disoccupazione dei lavoratori nazionali non
qualificati, dipenderà dai pesi assegnati dal sindacato, a
seconda che questo attribuisca maggiore importanza al numero
degli occupati o al livello dei salari. Nel caso illustrato, Fig. 19),
il nuovo equilibrio A1, individua la riduzione della disoccupazione
nazionale.
Figura 19) Mercato del lavoro in presenza di un sindacato.
Immigrazione di lavoro non qualificato ed effetti sul lavoro
non qualificato
WL0 = salario monetario iniziale
WL1 = salario monetario dopo la migrazione
L = occupazioneL – L = disoccupazioneL1 = occupazione dopo il flusso migratorio
W
WL0
WL1
0L L
B1
D
L
S’
L1
B0
Simmigrazione
Per quanto riguarda, invece, l’effetto che un flusso di immigrati
non qualificati può avere sul lavoro nazionale qualificato, data la
complementarità tra lavoro non qualificato e lavoro
specializzato, si avrà la crescita del salario dei lavoratori
qualificati (fig 20).
Figura 20) Mercato del lavoro in presenza di un sindacato.
Immigrazione di lavoro non qualificato ed effetti sul lavoro
qualificato
WS0 = salario monetario dei lavoratori qualificati iniziale
WS1 = salario monetario dei lavoratori qualificati dopo la migrazione
S0 = lavoro qualificato
Nel secondo caso, quando gli immigrati sono costituiti da
lavoratori qualificati, assimilabili ai lavoratori nazionali
qualificati, il salario di questi ultimi scenderà, essendo definito in
un mercato competitivo (fig. 21), mentre è incerto l’effetto sul
salario dei lavoratori non qualificati (fig.22) che, anche in questo
W
Ws1
Ws0
0 S
A0
D
S0
A2
S
D’
A1
caso, dipende dai pesi attribuiti dal sindacato all’occupazione e
al salario. Positivo è l’effetto sull’occupazione dei nazionali non
qualificati giacché prevale l’effetto di complementarità tra i due
fattori della produzione.
Figura 21) Mercato del lavoro in presenza di un sindacato.
Immigrazione di lavoro qualificato ed effetti sul lavoro
qualificato
WS0 = salario monetario iniziale
WS1 = salario monetario dopo la migrazione
S0 = lavoro qualificato
Figura 22) Mercato del lavoro in presenza di un sindacato.
Immigrazione di lavoro qualificato ed effetti sul lavoro non
qualificato
W
Ws0
Ws
2
0 S
C2
D
S0
C0
S
D’
S’
Ws
1
S1
C1
immigrazione
W
WL0
0 L
D
L0
D1WL
1
L1 L
D0
WL0 = salario monetario iniziale
WL1 = salario monetario dopo la migrazione
L0 = occupazioneL – L = disoccupazioneL1 = occupazione dopo il flusso migratorio
Concludendo, questo modello è utile per avvicinarsi alla realtà
dei mercati del lavoro che caratterizzano gran parte
dell’Europa. L’introduzione di un sindacato, l’offerta di lavoro
inelastica al salario e un governo che gestisce le quote di
immigrati da ammettere nel paese, sono ipotesi cruciali per
osservare ciò che può accadere in un mercato del lavoro a
seguito di un flusso migratorio. Anche in questo caso, le ipotesi
di complementarità o sostituzione degli immigrati, rispetto ai
lavoratori nazionali, sono decisive sia per la reazione naturale
del mercato, sia per le manovre del sindacato che ha il potere
di attribuire diversi pesi alternativamente ai salari o a i livelli di
occupazione dei lavoratori non specializzati.
In entrambi i casi, tuttavia, nella funzione obiettivo del
sindacato, il ruolo degli immigrati non assume alcun peso se
non in quanto “input esterno di riferimento”.
2.1.2 La competizione indiretta
I flussi migratori che negli ultimi anni hanno investito i diversi
paesi di destinazione sono stati, spesso, caratterizzati da una
forte componente di illegalità. L’analisi degli effetti della mobilità
internazionale del lavoro non può prescindere tale aspetto del
fenomeno.
Come è stato sottolineato in precedenza, l’analisi teorica sulle
conseguenze della migrazione nei mercati dei paesi ospitanti, si
concentra su due opposte posizioni: da un lato la migrazione è
considerata la conseguenza della forza di espulsione dal paese
di origine (push effect) e tale forza è tanto maggiore quanto più
è grande il differenziale salariale a favore dei paesi di
destinazione.
In tale situazione gli immigrati rivestono il ruolo di competitori
rispetto alla forza lavoro nazionale ed esercitano, su questi
ultimi, un “displacemrnt wage effect”.
L’opposta interpretazione del fenomeno migratorio enfatizza,
invece, la forza di attrazione (pull effect) dei paesi di
destinazione, che trova origine nella mancanza di manodopera
nazionale disposta ad occupare taluni posti di lavoro. In tale
interpretazione, che si basa sulla segmentazione del mercato
del lavoro, la migrazione è considerata complementare alla
forza lavoro nazionale.46
Il possibile effetto di sostituzione o complementarità della
migrazione rispetto alla forza lavoro nazionale è da rintracciare,
quindi, nella struttura settoriale de mercato del lavoro del paese
ospitante e nel sistema di relazioni esistente tra i differenti
settori.
La tipologia settoriale del mercato del lavoro dei paesi ospitanti,
pertanto, può essere basata sulla dicotomia: economia legale -
economia sommersa.
Nei sistemi economici moderni esistono tutto un insieme di
attività economiche che fanno parte della cosiddetta economia
non direttamente osservata (ENO). Di questo tipo di attività se
ne individuano essenzialmente tre tipi: l’economia illegale,
l’economia sommersa e l’economia informale.
In breve, le attività illegali sono quelle proibite dalla legge dove
c’è un reciproco consenso, tra produttore e consumatore, ad
agire al di fuori della legge.
L’economia sommersa, in senso stretto, comprende tutte le
attività, legali, di cui la pubblica amministrazione non ha
conoscenza a causa di vari fattori quali: evasione fiscale e
contributiva, inosservanza delle norme relative ai livelli
retributivi, agli orari di lavoro e, più in generale, a tutte le norme
46 Cfr. Priore M.J. Birds of Passage: Migrant Labor and Industrial Societies, Cambridge University Press, 1979
che regolano i rapporti tra datore di lavoro e dipendente nonché
tra datore di lavoro e Stato.
Infine, l’economia informale comprende le attività a basso livello
organizzativo caratterizzate da poca o nessuna divisione tra
lavoro e capitale. Vi rientrano attività per cui non è previsto
nessun obbligo di registrazione presso le autorità pubbliche,
rapporti di lavoro occasionali o basati su relazioni familiari.
L’informalità di tali attività non è necessariamente legata
all’evasione di imposte e contributi fiscali, tuttavia, data la
dimensione e l’importanza di queste attività, è facilmente
riscontrabile un certo grado di elusione delle norme che
regolano i rapporti di lavoro.
Alla luce di una simile realtà, è importante prendere in
considerazione la presenza di tali attività nel mercato del lavoro
in cui si verifica uno spostamento del capitale, dal settore
ufficiale al settore dell’economia sommersa, dovuto alla
presenza di lavoratori immigrati47.
La tesi alla base di questo tipo di lettura del fenomeno
migratorio muove dalla considerazione che gli immigrati, una
volta giunti nel paese di destinazione, lavorano nel settore
dell’economia sommersa contribuendo alla sua crescita e
all’aggravarsi dei problemi legati alla sua esistenza.
47 Cfr. Dell’Aringa C, Neri F, Illegal Immigrants and the Informal Economy in Italy, in Labour 1 (2), 1987
L’aumento dell’offerta di lavoro, reso possibile dalla presenza
degli immigrati, costituisce uno stimolo per le imprese a
spostare la produzione dal settore legale al settore
dell’underground economy.
Il vantaggio che le imprese traggono da questa manovra deriva
dal fatto che nel settore ufficiale i costi del lavoro sono,
generalmente, molto alti mentre, il fattore che determina
l’esistenza dell’economia sommersa è proprio quello di
abbassare i costi della manodopera impiegata.
Tuttavia, in quest’ultimo settore l’efficienza produttiva è inferiore
a quella del settore ufficiale, non potendo usufruire di
investimenti di capitale considerevoli e di tecnologia avanzata.
Il trasferimento di capitale e di lavoro nel settore informale, che
si genera in seguito alla migrazione, dunque, non porta benefici
per l’economia del paese ospitante nel suo complesso.
Le ipotesi alla base di un simile modello interpretativo
assumono che gli immigrati entrino in un economia che produce
un solo bene, Q, il quale viene prodotto sia dal settore ufficiale,
u, sia dal settore informale, i (in cui sia le imprese che i
lavoratori non pagano le tasse e quindi hanno un costo del
lavoro minore). I fattori impiegati nella produzione sono il
capitale e il lavoro non specializzato, composto in parte da
lavoratori nazionali e in parte da immigrati. Nel settore informale
il costo del lavoro (wi) è inferiore ma la tecnica di produzione è
meno efficiente. Le funzioni di produzione nei due settori
presentano rendimenti di scala costanti:
1) Qu = Fu (Ku, Lu)
2) Qi = Fi (Ki, Li) = c Qu (0 < c < 1)
Dove c è un parametro di efficienza correlato inversamente ai
rischi dell’impresa informale di essere scoperta.
Il salario del settore ufficiale è fissato esogenamente ad un
livello tale da creare un eccesso di offerta di lavoro in questo
settore, dunque, un certo livello di disoccupazione.
L’impresa, come è noto, massimizza i profitti quando la
produttività marginale è uguale ai costi dei fattori:
3 a) dFu/ dLu = wu; 3 b) dFu/ dKu = r
nel settore ufficiale;
4 a) dFi/ dLi = wi /c 4 b) dFi/ dKi = r/c
nel settore informale;
Nel caso del salario del settore ufficiale, (wu), i costi dei fattori
sono esogeni, mentre, per quanto riguarda il salario del settore
informale, (wi / c), questo, è correlato inversamente ai rischi che
l’impresa informale corre se viene scoperta, c.
Tali equazioni vengono poi messe a sistema con le equazioni
che impongono il pieno impiego:
5) K= Ku + Ki
6) L= Lu + Li
Da tale sistema si ricavano sei incognite: r, wi, Ku, Lu, Ki, Li.
La condizione sufficiente, affinché si ottengano soluzioni
positive è che, per ciascuna funzione di produzione, quando il
Lavoro tende all’infinito, allora il Capitale tende a zero. E
viceversa.
Dalla 3 a) si ricava la combinazione ottimale di capitale nel
settore legale: k*u = K*u/L*u
Dalla 3 b) si ricava il singolo valore ottimale di r* che permette
di determinare il valore ottimale di capitale nel settore informale:
k*i = K*i/L*i.
Risolvendo l’intero sistema si arriva alla conclusione che la
condizione necessaria e sufficiente per una soluzione positiva,
sia per il lavoro del settore ufficiale (L*u) che per il lavoro del
settore informale (L*i), è data da:
7) k*u > k > k*i dove k = K / L
Per dati valori di K e L, quindi, esiste l’equilibrio se k*u è
sufficientemente grande e, k*i sufficientemente piccolo.
Siccome il capitale del settore ufficiale è funzione crescente del
salario (wu) e il capitale del settore informale è funzione
crescente del parametro di efficienza (c), è necessario che wu
sia sufficientemente grande e c sufficientemente piccolo.
Il modello può essere riscritto sostituendo:
8) K*u = m
9) K*i = tm ,abbiamo
dove m è funzione del salario del settore ufficiale wu e dei
parametri della funzione di produzione e t (minore di 1)
dipende da c e dai parametri della funzione di produzione. La
7) diviene allora:
7 a) m > k < tm
Dal sistema tra le equazioni 5), 6), 8) e 9) si possono
determinare i livelli di occupazione di equilibrio del settore
informale e del settore ufficiale:
10) L*u = (K – tmL) / m (1 - t)
da cui si ricava l’effetto di una variazione della forza lavoro
totale sull’occupazione:
11) dL*u / dL = - t / 1 - t < 0.
La 11) ci dice che un aumento dell’offerta di lavoro determina,
non solo, un aumento nella proporzione dei livelli di
occupazione del settore informale rispetto al totale
dell’occupazione, ma anche una riduzione assoluta dei livelli di
occupazione del settore ufficiale.
Al contrario, un aumento dell’ammontare di capitale (o una
diminuzione della quantità di lavoro) rende molto più
vantaggioso, per le imprese, operare nel settore più efficiente e
produttivo: il settore ufficiale.
L’aumento dell’offerta di lavoro, nel nostro caso determinata
dalla migrazione, o una diminuzione di capitale, causa dunque il
trasferimento di entrambi i fattori dal settore ufficiale al settore
informale.
Gli effetti che la migrazione illegale (o l’impiego degli immigrati
nel settore dell’economia sommersa) ha sui mercati del lavoro
dei paesi ospitanti dipendono, quindi, dalla scarsa disponibilità
di capitale che incontra l’aumento dell’offerta di lavoro. Inoltre,
una simile situazione è resa ancora più problematica dai costi
del lavoro che, negli ultimi anni, hanno raggiunto livelli tanto alti
da non poter garantire la piena occupazione.
Anche per questi alti costi, le imprese, soprattutto quelle di
piccole e medie dimensioni, sono tentate ad indirizzarsi verso il
settore informale dove la tecnologia e la produzione sono meno
efficienti ma i costi della forza lavoro sono minori rispetto al
settore ufficiale.
Le conclusioni a cui si giunge, considerando il fenomeno
migratorio come fattore che alimenta unicamente il settore
informale, portano a concludere che il lavoro straniero causa
gravi danni all’economia del paese ospitante: la migrazione,
infatti, provoca un effetto di spiazzamento salariale rispetto alla
forza lavoro nazionale.
Questo tipo di effetto, tuttavia, non è diretto ma opera
attraverso la mobilità interna del capitale che, gli immigrati
illegali, attraggono verso il settore informale dell’economia.
Quando il capitale viene trasferito dal settore ufficiale al settore
dell’economia sommersa, non solo si perde il vantaggio
dell’utilizzo di una migliore tecnologia e di maggiori livelli di
produttività, legati all’economia legale, ma anche una parte
della forza lavoro impiegata regolarmente (e con alti salari)
viene, giocoforza, trascinata verso il settore informale.
In questo modo il paese perde di produttività, diviene meno
competitivo rispetto alla concorrenza estera, poiché investe di
meno e, non da ultimo, le condizioni dei lavoratori peggiorano,
in termini di qualità e protezione sociale.
Dopo aver fotografato alcune delle realtà più rappresentative
dei mercati del lavoro dei paesi di destinazione, si può
comprendere come il ruolo complementare o sostitutivo del
lavoratore immigrato, rispetto al lavoratore nazionale, dipenda
proprio dai diversi modelli economici che rappresentano mercati
del lavoro con differenti caratteristiche.
Gli elementi che generano l’effetto di complementarità o
competitività tra lavoratori sono da ricercarsi sempre nel grado
di specializzazione e professionalità che caratterizzano, prima
di tutti, i lavoratori stranieri.
Il grado e la misura degli effetti sui salari e sulla disoccupazione
dei lavoratori nazionali, invece, dipendono dalle condizione
particolari che vigono nel paese di destinazione.
Un mercato del lavoro più flessibile è certo in grado di
accogliere l’immigrazione e di modificare la sua struttura, molto
più velocemente di un mercato del lavoro rigido e controllato sia
dallo Stato che dai sindacati.
E’ opportuno, allora, che alle teorie economiche seguano delle
verifiche empiriche che possano confermare o smentire gli
assunti e che riescano a cogliere ulteriori aspetti della realtà
che la semplificazione teorica può, talvolta, trascurare.
2.2 Il capitale umano
Nell’analizzare il ruolo complementare o sostitutivo degli
immigrati, rispetto ai lavoratori nazionali, è di fondamentale
importanza individuare il rapporto tra le loro qualifiche
professionali e i potenziali impieghi disponibili.
La professionalità dell’immigrato, acquisita nel paese di origine
o in quello di destinazione, essendo legata alle caratteristiche
del lavoro, è di conseguenza legata anche al livello salariale.
L’assimilazione economica, sociale e culturale degli immigrati
alla nazione ospitante è una delle aree di maggiore interesse
dello studio del fenomeno migratorio.
L’interesse circa questo filone di studi è largamente diffuso non
solo nelle scienze economiche ma anche nella politica e, più in
generale, nel dibattito pubblico.
La letteratura empirica su questo argomento è più ricca di
quella teorica e i risultati ai quali sono giunti i diversi autori
variano a seconda dei modelli utilizzati e dei periodi storici presi
a riferimento. E’ possibile, tuttavia, introdurre l’argomento con
un modello (Dustmann C, Fabbri F. 1999) che riesca a chiarire i
termini del problema.
2.2.1 Assimilazione salariale
Fissiamo l’attenzione su un immigrato appena arrivato nel
paese ospitante.
Dividiamo il suo periodo di permanenza in due diversi momenti,
entrambi di durata unitaria: il primo è dedicato all’acquisizione
delle capacità professionali mentre, nel secondo, tali capacità
vengono utilizzate in una determinata attività lavorativa.
Nel primo periodo, l’immigrato possiede un certo livello di
specializzazione, o di qualifica professionale, adattabile anche
nel paese ospitante e che si può denominare H. Il salario che
ottiene l’immigrato in questo periodo è W= Hω dove ω indica il
tasso di rendimento delle qualifiche produttive, H, del lavoratore
straniero.
L’immigrato può inoltre acquisire, nella stessa unità temporale,
qualifiche professionali più adatte al paese che lo ha accolto e
per questo investirà alcune unità di tempo, chiamate s, in tale
attività.
Il tempo dedicato alla acquisizione di nuove qualifiche viene
sottratto al lavoro così che il salario del primo periodo è dato da
(1- s) W.
Nel secondo periodo il tempo speso per l’accumulazione delle
qualifiche si traduce in produttività, processo descritto dalla
funzione che indica il livello di produttività che l’immigrato
raggiunge grazie alle sue capacità personali, A, ed in seguito
all’investimento in professionalità:
1) f ( s; H; A )= 1/α (s H)α A ; con α Є (0,1);
Un altro aspetto importante da sottolineare è che, la produzione
di specializzazione è auto - riproduttiva: il lavoratore straniero
che arriva con un maggiore stock di specializzazione acquisisce
più facilmente e velocemente nuova specializzazione.
Nell’arco dei due periodi considerati l’obbiettivo dell’immigrato è
quello di scegliere un dato livello di s (tempo da investire in
acquisizione di professionalità) tale da massimizzare il reddito
percepito durante tutta la vita.
Se indichiamo il reddito dell’immigrato con la funzione seguente
dove il fattore di sconto sia uguale a 1.
2) y = ( 1- s ) W + W + f(s; H; A );
primo periodo secondo periodo
la condizione del primo ordine è data da:
fs (s; H; A ) = As H = W = ω H
risolvendo per s:
s* = (ω /A)1/(α-1) 1/H
Di conseguenza, dato che α < 1, gli investimenti in
professionalità, s, quindi i salari del secondo periodo,
aumentano con A e diminuiscono con s e H.
Dunque, maggiore è il livello di abilità personali A, maggiore
l’investimento del primo periodo e maggiori i salari del secondo
periodo.
Inoltre, maggiore è il rendimento della specializzazione, ω,
minore sarà l’investimento nel primo periodo. Maggiore è la
qualifica iniziale, minori saranno l’investimento in qualifiche
professionali e il salario del secondo periodo.
Questo avviene per due motivi: innanzi tutto, maggiore è la
professionalità iniziale che l’immigrato porta con se e maggiori
sono i costi opportunità dell’investimento. Infatti, l’immigrato nel
momento in cui investe in maggiore specializzazione non
lavora. Inoltre, maggiore è la specializzazione iniziale, più
basso è il rendimento di una unità addizionale investita. Questo
perché la tecnologia di produzione ha tassi di rendimento
decrescenti.
Una volta considerate le scelte dell’immigrato per ottimizzare il
proprio salario di una vita, si consideri il salario stesso e la sua
crescita nel tempo.
La crescita del salario tra periodo uno e periodo due è data da:
3) ∆W = [ 1/α (s*H) α A+ s* ω H ]
Operazioni di statica comparata rivelano che l’effetto di un
aumento di capitale umano è positivo sulla crescita del salario.
Infatti, per ogni unità investita nel primo periodo, maggior
capitale umano porta ad una maggiore specializzazione nel
secondo periodo, (perché il capitale umano aumenta la
produttività) e a maggiori investimenti nel primo periodo.
Ciascuno di questi effetti, contribuisce alla differenza tra il
salario del primo e del secondo periodo.
Dall’altro lato, uno stock di capitale umano elevato al momento
dell’arrivo dell’immigrato comporta che i salari del primo periodo
siano più elevati senza necessità di ulteriori investimenti. La
crescita dei salari, quindi, diviene più sostanziosa sia
all’aumento delle capacità personali che all’aumento del tasso
di rendimento del livello di specializzazione.
Le conclusioni a cui si giunge sono che, innanzi tutto, in media
i salari degli immigrati sono inizialmente più bassi dei salari dei
residenti, quando i residenti hanno un maggiore stock di
specializzazione o capitale umano.
In secondo luogo, i salari dei primi crescono all’aumentare del
tempo trascorso nel paese ospite e, gli immigrati con un livello
elevato di capacità personali, riscontrano una crescita del
salario più vigorosa.
Questo comporta che, se gli immigrati che arrivano nel paese di
destinazione appartenessero al gruppo di lavoratori più abili e
specializzati della loro nazione, allora, in media, il loro livello di
abilità sarebbe più elevato di quello dei lavoratori nazionali,
composti, invece, da ogni tipo di lavoratore con diversi gradi di
capacità professionali.
Questo porta a dire che i loro salari crescerebbero più
velocemente di quelli dei nazionali
2.3 Migrazione selettiva e disoccupazione
In relazione all’ipotesi dell’esistenza della migrazione selettiva,
nel senso che gli immigrati sono incentivati a lasciare il loro
paese in base alle loro capacità e professionalità, Dustmann
(1993) 48 dà un’ulteriore interpretazione della migrazione con
riferimento alla migrazione avvenuta nel periodo tra gli anni ’50
e ’70 dall’Europa meridionale verso l’Europea settentrionale e in
particolare, dalla Turchia verso la Germania.
Questo tipo di flusso migratorio non è stato spinto solo dalle
condizioni più favorevoli dell’economia del paese di
destinazione, ma anche dalle pessime condizioni del paese
d’origine. Gli emigrati, perciò, hanno considerato, non solo il
differenziale salariale tra i due paesi, ma anche la probabilità di
trovare lavoro nel paese ospitante. Anche in questo caso,
quindi, le qualifiche o l’abilità dell’emigrato sono importanti per
inserire nel ragionamento la selettività della migrazione.
L’autore, innanzi tutto, prende come riferimento il modello di
Chiswick (1978;1986)49 che mostra come la migrazione negli
Stati Uniti d’America sia stata, nell’arco degli anni ‘80,
positivamente selettiva.
48 Cfr. Dustmann C. Writing fluency, speaking fluency and earnings of migrants in Discussion Paper n 246, University of Bielfeld, 199349 Cfr. Chiswick BR. The effect of Americanization on the earnings of foreign-born men in Journal of Political Economic,1978 e Human Capital and the labor maket adjustment of immigrants: Testing alternative Hypoteses, 1986
Le ipotesi da cui muove il modello di Chiswick sono, innanzi
tutto, che i salari dei lavoratori non variano rispetto alla loro
esperienza, che la loro vita lavorativa è lunga e che i costi
dell’immigrazione sono sostenuti solo nel periodo iniziale.
L’autore, inoltre, indica un tasso di rendimento della
decisione di emigrare dato da:
1) r = ( WI - WE)( 1+ A ) = WI - WE
( 1+ A) c0 + cD c0+ (1 / 1+A )cD
Contribuiscono a determinare tale tasso di rendimento il salario
che è possibile guadagnare nel paese ospitante, Wi, il salario
che si guadagna nel paese d’origine, We, i costi diretti, cD,
relativi alla decisione di emigrare e i costi opportunità50, cO, della
migrazione intesi in termini di tempo.
E’ presente, inoltre, nel calcolo del tasso di rendimento della
decisione di emigrare, la deviazione percentuale dal livello di
abilità media in patria, indicata con la lettera A.
La posizione dell’abilità nell’equazione [1] indica, per ipotesi,
che una persona più abile, o più qualificata, può guadagnare di
più in entrambi i paesi di una persona meno abile. Quindi,
siccome i costi opportunità sono indicati in termini di tempo,
50 In generale, quando si parla di costo, si indica ciò a cui bisogna rinunciare per ottenere un bene o un servizio. Quando si parla di costo opportunità, si indica il valore del bene a cui si è rinunciato. In questo caso, parlare di costi opportunità in termini di tempo, significa considerare la convenienza ad emigrare in base alla quantità di tempo a cui il lavoratore è disposto a rinunciare per emigrare. Tempo che dovrebbe utilizzare sia in patria sia all’estero, per cercare un lavoro non specializzato o per specializzarsi.
essi aumenteranno all’aumentare dell’abilità o della
professionalità.
Quando i costi diretti sono maggiori di zero, allora, la
migrazione sarà più vantaggiosa per le persone con un elevato
livello di abilità. Poiché il tasso di rendimento aumenta
all’aumentare dell’abilità, Chiswick conclude che l’incentivo ad
emigrare è più alto per le persone più abili. Giungendo a questa
conclusione, l’autore afferma che, se le abilità sono distribuite in
modo simile tra paesi, gli immigrati avranno, in media, livelli di
abilità maggiori dei lavoratori residenti e che, in più, maggiori
sono i costi diretti della migrazione, maggiormente positiva sarà
la selezione.
Dustmann, sostiene che tali conclusioni valgono solo in alcune
condizioni del mercato del lavoro.
Le condizioni necessarie alla validità del suo ragionamento
sono che, esiste un eccesso di domanda di lavoro nel paese
ospite e un eccesso di offerta di lavoro nel paese di origine
(condizione che ha caratterizzato le migrazioni di lavoro intra-
europee tra gli anni ’50 e ’70) e che un lavoratore più abile, in
patria, trova lavoro più facilmente di un lavoratore meno abile.
Dustmann, alla luce di queste ulteriori ipotesi inserisce nel
calcolo del tasso di rendimento della decisione di migrare, la
probabilità che un lavoratore con abilità A lavori in patria, Pr(A).
Tale probabilità è direttamente proporzionale alla sua abilità.
Un ulteriore aggiunta sta nell’inserimento dell’indennità di
disoccupazione in patria, B, che è minore del salario ottenibile
in patria.
Il tasso di rendimento r relativo alla decisione se emigrare o
meno sarà, quindi, il seguente:
2) r = WI – WE Pr (A ) + [1 – Pr (A)] B
c0+ (1 / 1+A )cD
l’impatto dell’abilità del lavoratore sulla decisione di migrare o
meno ora è ambiguo: un suo aumento fa crescere il vantaggio
per il lavoratore ad emigrare (come dimostra il modello di
Chiswick). Tuttavia, come stabiliscono le condizioni del mercato
del lavoro ipotizzate all’aumentare delle abilità, aumentano
anche le probabilità, per il potenziale emigrante, di trovare
lavoro in patria. Ciò, di conseguenza, fa diminuire il tasso di
rendimento della decisione di emigrare.
Quindi, date le probabilità che il lavoratore trovi lavoro in patria,
dati i livelli di abilità A, dati i valori del salario in patria, il costo
opportunità e il sussidio alla disoccupazione B, il tasso di
rendimento della migrazione potrebbe essere alto anche per i
lavoratori con bassa abilità. Quindi, in questo caso, la
migrazione sarebbe negativamente selettiva.
La selettività della migrazione, inoltre, può dipendere da altri
fattori oltre alla distribuzione del reddito. Sarà negativamente
selettiva se l’indennità di disoccupazione in patria è più bassa
sia del salario in patria sia di quello che l’emigrante si aspetta di
guadagnare all’estero. Questo spingerà il lavoratore ad
affrontare i costi della migrazione nella prospettiva di un salario
maggiore all’estero.
Se i costi diretti della migrazione sono bassi il tasso di
rendimento della decisione di emigrare cresce anche per i
lavoratori con bassa o nulla professionalità, data la loro scarsa
possibilità di trovare lavoro in patria e l’alta probabilità di
rimanere disoccupati.
2.4 Migrazione temporanea
Come è stato detto nell’introduzione il fattore tempo e, in
particolare, il carattere permanente o temporaneo della
migrazione, è un aspetto importante nell’analisi della
migrazione internazionale del lavoro.
Fino ad ora si è sempre ragionato ipotizzando che ogni flusso di
immigrati fosse permanente. In realtà molti immigrati decidono
di tornare nei loro paesi natii.
Stime riguardo le migrazioni avvenute tra gli anni ’60 e ’80
indicano che, per esempio, circa i due terzi dei lavoratori
stranieri ammessi nella Repubblica Federale tedesca sono
tornati in patria e più di quattro quinti sono ritornati dalla
Svizzera (Bohning 1987). L’85% dei greci emigrati nella
Germania dell’Ovest sono, anch’essi ritornati in patria (Glytsos
1988) e anche negli Stati Uniti la migrazione di ritorno è stata
una realtà forte, con circa 5 milioni di stranieri che sono
riemigrati in patria gradualmente (Jasso e Rosenzweig 1982)51.
Possiamo individuare due diversi tipi di migrazione temporanea:
la migrazione legata ad un contratto di lavoro a tempo
determinato che condiziona il permesso di soggiorno alla
scadenza del contratto nonché la migrazione, così detta, di
ritorno. In questo caso l’immigrato ha la facoltà di scegliere se
tornare o meno nel proprio paese e sceglie di ritornare.
Per analizzare le caratteristiche della migrazione temporanea
da un punto di vista di equilibrio economico parziale e, quindi
per focalizzare i suoi effetti sul mercato del lavoro, è
necessario osservare le attitudini dei lavoratori che migrano.
Il primo aspetto importante che distingue il comportamento
dell’immigrato temporaneo da quello permanente, è il diverso
incentivo che i due tipi di immigrati hanno nell’acquisizione di
professionalità. Chi decide di rimanere solo temporaneamente
nel paese d’accoglienza è meno interessato ad investire in
51 Cfr. Dustmann C, Earnings Adjustment of Temporary Migrants, in Journal of Population Economics, 1993
specializzazioni professionali. Questo è tanto più vero quanto
più
le specializzazioni professionali specifiche richieste dal paese
ospite, sono meno richieste nel paese d’origine.
In più, acquisire determinate professionalità ha un costo sia in
termini di salario non percepito (durante la specializzazione) sia
in termini monetari diretti. Quindi più è breve il periodo di
permanenza nel paese ospite più è basso il guadagno
dell’investimento in professionalità.
Di conseguenza, si arguisce che, la natura temporanea
dell’immigrazione, riduce l’incentivo per l’immigrato ad investire
in professionalità. L’incentivo, poi, è tanto minore, quanto
minore è la trasferibilità della professionalità nel paese di
origine. Di conseguenza gli immigrati temporanei, acquisendo
meno capitale umano specifico, dovrebbero avere profili
salariali più bassi rispetto agli immigrati permanenti.
Un discorso parallelo si può fare per gli immigrati permanenti se
si inserisce come variabile significativa l’età di entrata degli
immigrati nel paese ospite. L’età all’entrata determina il periodo
di rendimento per il capitale umano specifico al mercato del
lavoro. Infatti, più è lungo il tempo che l’immigrato ha a
disposizione per specializzarsi e per usufruire poi della
professionalità acquisita, più l’emigrato sarà spinto ad investire
il suo tempo nell’attività di acquisizione di professionalità. Un
immigrato che arriva già adulto nel nuovo paese e si inserisce
nel mercato del lavoro non ha a disposizione le stesse
prospettive di un giovane lavoratore. Se poi, il capitale umano
non è completamente trasferibile, il giovane immigrato
dovrebbe avere una crescita salariale più intensa di quelli meno
giovani.
Questo ragionamento vale quando la decisione di tornare in
patria è imposta dall’esterno quindi è esogena. Tuttavia, i motivi
che spingono gli immigrati a ritornare in patria possono essere
svariati. Dustmann52 (1995) offre tre ragioni: innanzi tutto vivere
in patria è complementare al consumo, cioè, l’utilità marginale
del consumo è maggiore in patria che all’estero. In secondo
luogo se i prezzi al consumo in patria sono più bassi,
l’immigrato può considerare di tornare in patria per consumare
ciò che ha guadagnato all’estero sfruttando il suo maggior
potere d’acquisto. Terzo, l’immigrato, all’estero, può acquisire
delle qualifiche che migliorano la sua posizione in patria più di
quanto lo facciano nel paese ospite e quindi è spinto a tornare
in patria per vendere la sua professionalità più avanzata
rispetto ad i connazionali. Sarà, quindi, vantaggioso per lui
ritornare.
Un altro motivo si aggiunge alla decisione di tornare: l’immigrato può
considerare di diventare un lavoratore autonomo dopo il suo ritorno in patria
52 Cfr. Dustmann C. Saving Behaviour of temporary Migrants. A Life Cycle Analysis, in Zeitschrift fur Wirtschafts und Sozialwissenschaften, 1995
quando i tassi di rendimento nelle attività autonome sono più elevati in
patria53.
Quando si considera la migrazione temporanea, dunque, le
decisioni di investimento in capitale umano non sono più prese
in considerazione del solo calcolo del mancato guadagno
durante il periodo di specializzazione, ma sono prese
simultaneamente alla prospettiva di un rientro in patria. Queste
decisioni assumono quindi un peso diverso nella funzione di
utilità dell’immigrato.
53 Cfr. Dustmann,-Kirchkamp The Optimal Migration Duration and Activity Choice after Remigration, in Journal of Development Economics 2001
3. Integrazione economica e salariale degli immigrati nei paesi di destinazione: evidenze empiriche
3.1 La metodologia di analisi
Esiste uno scarto tra l’analisi teorica degli effetti della migrazione e la sua
analisi empirica.
La conoscenza parziale delle reali dinamiche dei diversi mercati del lavoro
porta a concludere che il mezzo più efficiente per studiare i reali effetti del
fenomeno migratorio, sia quello di verificare empiricamente il rapporto tra i
fattori della produzione interessati dal fenomeno.
Alla luce dei diversi percorsi storici e dei mutamenti di rotta che
il flusso migratorio ha subito negli ultimi venti anni circa i paesi
che sperimentano il fenomeno, in entrata, presentano alcune
immediate differenze nei loro approcci di analisi.
In generale, gli studi condotti in paesi quali gli Stati Uniti, il
Canada, l’Australia e i paesi del Nord Europa, che hanno un
lungo passato di immigrazione alle spalle, tendono a
concentrare l’analisi sul livello di integrazione salariale che gli
immigrati, stanziatisi ormai da anni, hanno raggiunto nel paese
di accoglienza ed a confrontare i livelli salariali degli immigrati
sia con i lavoratori nazionali sia tra gruppi di immigrati, che si
differenziano tra di loro per varie caratteristiche tra le quali,
sono molto importanti, l’anno di arrivo e la durata del periodo
totale di soggiorno.
Al contrario, analisi condotte in paesi come l’Italia, la Spagna, Il Portogallo o
la Grecia, che solo negli ultimi venti anni hanno cominciato a sperimentare il
fenomeno migratorio in quanto paesi di accoglienza, si concentrano
maggiormente in studi tesi a comprendere se l’immigrazione abbia un
impatto positivo o negativo per l’economia del paese, in particolare per i
lavoratori nazionali, e come gestire, nel modo migliore, un fenomeno che è
destinato ad espandersi sempre di più.
Nell’ambito di un gran numero di ricerche, che mirano ad osservare lo stesso
aspetto del fenomeno migratorio è possibile, quindi, a seconda del paese
che viene studiato e della sua storia economica e sociale, fare ipotesi
diverse e introdurre specificazioni ad hoc, proprio per meglio fotografare la
realtà da studiare.
Se ipotesi e tesi sono più suscettibili ai cambiamenti, ciò che rimane
sostanzialmente invariato nel suo schema base, è lo strumento con cui si
analizza la realtà e tramite il quale si arriva a determinati risultati.
Come per ogni branca dell’economia, anche le teorie che analizzano i flussi
migratori vengono formalizzate in modelli matematici. Tali modelli servono,
tra le altre cose, a descrivere la realtà e spesso anche a prevederla.
In genere i modelli econometrici mettono in relazione, tra loro, un certo
numero di variabili, dipendenti ed indipendenti. Mirano a studiare se esistono
e quali siano le relazioni tra tali variabili, allo scopo di indagare in che modo,
queste relazioni, influiscano sui comportamenti del fenomeno oggetto di
studio.
L’attività di costruzione dei modelli econometrici si articola nelle tre fasi della
specificazione, della stima e del test. Durante la prima fase si cerca di
tradurre in equazioni le relazioni funzionali suggerite dalla teoria economica.
La stima54 dei parametri del modello, poi, ha lo scopo di assegnare specifici
valori agli, sconosciuti, parametri del problema di interesse. Il momento della
stima si giustifica poiché ogni osservazione economica empirica presuppone
l’influenza, simultanea, di una molteplicità di variabili ed i metodi di stima
servono ad analizzare in che misura, ciascuna variabile, influisce sulla
grandezza da osservare.
In fine, la fase del test55 risponde ad una serie di domande fondamentali che
hanno a che vedere con le scelte di specificazione del modello (che devono
essere coerenti con i dati del problema che si sta affrontando) e con la
correttezza dei valori assegnati ai parametri56.
Le strade da percorrere per arrivare ai risultati di interesse possono essere
molteplici. Molti studi nel campo dell’analisi degli effetti economici della
migrazione sul mercato del lavoro del paese di destinazione, usano come
schema base l’osservazione di dati in panel.
54 Assegnazione, sulla base dei dati campionari, di uno o più valori numerici ad un ignoto parametro che caratterizza una popolazione. I metodi di stima più utilizzati sono: il metodo dei momenti, il metodo della massima verosimiglianza e il metodo dei minimi quadrati. Qualunque sia il metodo utilizzato la stima ottenuta dipende dai dati campionari e varia con essi.55 Il test è una procedura inferenziale che utilizza le osservazioni campionarie per accettare o respingere un’ ipotesi statistica. La procedura di verifica di una ipotesi statistica è la seguente: si supponga che una caratteristica di una popolazione sia ignota. Su di essa viene formulata un’ipotesi detta ipotesi nulla convenzionalmente indicata con H0. Per verificare la plausibilità di tale ipotesi si estrae un campione dalla popolazione e, se i risultati osservati differiscono in modo notevole da quelli attesi sulla base dell’ipotesi formulata, si dirà che le differenze osservate sono significative e si rifiuterà l’ipotesi emessa; in caso contrario la si accetterà. Per poter stabilire quando la differenza tra l’ipotesi formulata e il risultato ottenuto possa ritenersi non casuale, e quindi significativa, è necessario tener conto del rischio di un’errata decisione. Ogni volta che si prende una decisione nei confronti dell’ipotesi nulla si corrono due diversi rischi: quello di rifiutarla benché vera (rischi di prima specie) o quello di accettarla benché falsa (rischio di seconda specie). La probabilità di rifiutare erroneamente H0 è detta livello di significatività o ampiezza del test e viene indicata con α, mentre quella di rifiutarla giustamente perché falsa è detta potenza del test e viene indicata con β-1. L’insieme dei risultati campionari che portano all’accettazione di H0 prende il nome di regione di accettazione, quello che porta al suo rifiuto è detto regione critica. I valori di confine fra le due regioni sono detti valori critici. Fra i test più usati figurano: il t-test; l’F-test e il test del chi-quadrato. Un test è corretto se la probabilità di rifiutare H0 quando è falsa è maggiore della probabilità di rifiutarla quando è vera. 56 Cfr. Cottarelli C. Regressioni lineari con Panel Data: una guida alla letteratura, in Temi di discussione, Servizio Studi della Banca d’Italia, 1984
I panel data sono un pooling di dati sezionali57 e serie storiche58 e le
osservazioni sono bidimensionali, in quanto variano sia per individuo (o
aggregato) sia nel periodo temporale di riferimento. Due dei più rilevanti
esempi di panel data sono il National Longitudinal Surveys of Labour Market
Experience (NLS) del Center for Human Resource Research dell’Ohio State
University e, lo University of Michigan’s Panel Study of Income Dynamics
(PSID). Questi panels sono stati elaborati per studiare la natura e le cause
della povertà negli Stati Uniti nonché, per monitorare e spiegare i
cambiamenti dell’andamento economico e gli effetti dei programmi di
intervento economici e sociali. L’NLS considera cinque diversi segmenti
della forza lavoro e per ogni segmento sono considerate una serie di variabili
(nell’ordine delle migliaia) che pongono l’accento sul lato dell’offerta di
lavoro. Il PSID raccoglie informazioni da un campione rappresentativo di
circa 6.000 famiglie e 15.000 individui. Il data set contiene circa 5.000
variabili che includono, l’occupazione, il reddito, gli spostamenti per motivi di
lavoro, la mobilità interna al mercato del lavoro, ecc.
Una spiegazione del perché vengano usati proprio i dati panel può essere
data descrivendo i benefici dell’uso di tale strumento59:
Con i dati panel si controlla l’eterogeneità degli individui
delle imprese o delle aree geografiche prese in esame.
In una analisi statistica, infatti, vi sono molte variabili da
osservare, sia qualitative che temporali, relative a
ciascun oggetto di osservazione che possono
influenzare i risultati dell’analisi ma che sono di difficile
57 Nei dati sezionali o cross-section, le osservazioni si riferiscono a diversi individui (paesi, famiglie, imprese, ecc.) rilevate nello stesso periodo (ad esempio nel 1990).58 Nelle serie storiche le osservazioni sono relative allo stesso individuo, o allo stesso aggregato, misurate in diversi periodi (ad esempio: il livello di inflazione in Italia dal 1980 al 1990).59 Cgr. Hsiao C, Analysis of Panel Data, Econometric review, 1986 e Baltagi BH, Econometric Alalysis of Panel Data, John Wiley & Sons, 1995
individuazione (educazione, religione, livelli di
professionalità, etc..). Omettere certe variabili
significherebbe ottenere dei risultati distorti60. I dati panel
sono in grado di controllare le variabili qualitative e
temporali mentre, le cross-section e le serie temporali,
non controllando tali caratteristiche, corrono il rischio di
pervenire a dati distorti.
I dati panel sono in grado di dare più informazioni, più
variabilità, meno collinearità61 tra le variabili e maggiori
gradi di libertà ed efficienza degli stimatori. Le serie
temporali, al contrario, sono affette dalla
multicollinearità62 . Per esempio, nello studio sul
consumo di un determinato bene, le variabili prezzo e
reddito sono molto correlate tra loro. Nei panel data
queste due variabili possono essere osservate in più
dimensioni. Possono essere aggiunte più informazioni e
60 Un esempio empirico è riportato in Baltagi and Levin (1992).Essi considerano la domanda di sigarette in 46 paesi americani in un arco temporale che va dal 1963 al 1988. Il consumo è considerato funzione del reddito e del prezzo delle sigarette. Tali variabili cambiano sia per Stato che nel tempo. Tuttavia, vi sono ulteriori variabili, che influenzano il consumo, che possono essere fisse sia negli Stati che nel tempo: rispettivamente, Zi e Wt. Esempi di Zi possono essere la religione e l’educazione. Esempi di Wt possono includere la pubblicità del prodotto nelle TV o alla radio. L’omissione di tali variabili, rende distorti i risultati della stima. Con i dati panel, il ricercatore può, prima, liberarsi di tutte le variabili di tipo Zi e quindi, controllare tutte le caratteristiche di ciascuno Stato. Questo se le variabili Zi sono controllabili. In alternativa la variabile dummy, specifica per uno Stato, controlla le osservazioni di tutti gli altri Stati.61 Legame tra due variabili o nel senso di interdipendenza fra le variabili o nel senso di dipendenza di una variabile dall’altra. Tra due variabili esiste collinearità quando, in un legame lineare, al variare di una anche l’altra varia non casualmente.62 Relazione lineare fra due o più variabili esplicative di un modello regressivo. L’accertamento dell’assenza della multicollinearità è molo importante perché se in un modello regressivo due o più variabili sono multicollineari le stime dei coefficienti dell’equazione ottenute col metodo OLS, sono poco attendibili.
la correlazione può essere scomposta a più livelli: a
seconda delle diverse aree geografiche, per regioni.
All’interno delle regioni, per province. All’interno delle
province, per comune, fino ad arrivare alle differenze
individuali.
I dati panel sono lo strumento migliore anche per
studiare le dinamiche dell’aggiustamento. Le distribuzioni
cross-section, dal canto loro, nascondo una moltitudine
di cambiamenti: periodi di disoccupazione, turnover,
mobilità residenziale, variazioni di reddito. Tutti questi
aspetti sono studiati meglio con i dati panel. Così come
sono fotografate meglio alcune condizioni economiche di
tipo macro come la disoccupazione e la povertà, anche
la velocità degli aggiustamenti in seguito a politiche
economiche può essere studiata in modo più efficiente
con i dati panel. Questo strumento è inoltre necessario
per stimare i cicli della vita e i modelli intergenerazionali
poiché mette in relazione comportamenti ed esperienze
individuali in un punto nel tempo, con comportamenti ed
esperienze individuali, in altri punti nel tempo.
I dati panel sono più indicati anche per costruire e
misurare i più complicati modelli di comportamento a
livello microeconomico e, i risultati distorti che
risulterebbero da un’analisi aggregata sono, così,
eliminati.
A fronte di tanti vantaggi che seguono all’uso dei panel data,
esistono però anche alcuni svantaggi. Brevemente, queste
limitazioni includono:
Problemi di raccolta dei dati e di progettazione. Questi comprendono
problemi di copertura incompleta della popolazione di interesse, di
mancata cooperazione da parte degli intervistati o di errori degli
intervistatori. Problemi che riguardano la frequenza dell’intervista, il
periodo preso a riferimento. L’uso di strumenti come il bounding
(usato per prevenire il cambiamento degli eventi nel periodo che
intercorre tra la prima e la seconda intervista) e il time-in-sample
bias (osservato quando interviene una caratteristica molto diversa
nella seconda intervista rispetto alla prima, mentre, il ricercatore si
aspettava di osservare la stessa caratteristica).
Distorsioni nella misura ed errori. Gli errori possono avvenire
quando le risposte alle interviste sono false, quando le domande
non sono formulate chiaramente o le informazioni non sono
appropriate.
Problemi di selezione. Questi includono :
i. self-selectivity. Vi sono degli individui che si auto escludono dal
campione di studio perché non rispondono a tutti i requisiti
necessari allo studio63. Non considerare affatto tali individui
porterebbe ad avere un campione incompleto ma considerare solo
alcune caratteristiche comunque, porta ad un campione censurato.
63 Un esempio (Baltagi 1995) è il New Jersey Negative income Tax Experiment. In questo studio si è interessati solo al livello della povertà e tutti gli individui con un reddito superiore, di una volta e mezzo, il livello di povertà sono esclusi dal campione. Il procedimento di generalizzazione dei risultati ottenuti da una tale osservazione troncata, produce delle distorsioni.
ii. Nonresponse. Accade nel momento iniziale dello studio quando
l’intervistato non risponde ai questionari per qualunque motivo.
iii. Attrition. Se il nonresponse è tipico anche delle analisi cross-section
pure, questo problema è più serio nei dati panel perché interviste
seguenti possono essere soggette ad ulteriori nonresponse.
Infine, un ulteriore problema riguarda la dimensione dei dati temporali inclusi
nei panel data. I tipici panels contengono dati che si riferiscono a brevi
intervalli di tempo per ciascun individuo e ciò vuol dire che i dati significativi
si basano sul numero degli individui e sui relativi dati temporali. Aumentare
gli intervalli di tempo del panel è importante ma allo stesso tempo presenta
problemi di costo dell’analisi e aumenta la possibilità che si verifichino tutti i
problemi sopra menzionati.
Una volta stabilito quale tipo di forma dare ai dati disponibili, il
metodo più usato nell’elaborazione dei dati è quello della
regressione. In generale, la regressione rappresenta il livello
più elevato di qualificazione della dipendenza fra due caratteri
quantitativi. La sua finalità è quella di tradurre in forma
funzionale il legame di dipendenza di un carattere dall’altro.
Quindi, posta la X come variabile indipendente e la Y come
variabile dipendente, si ricava una espressione analitica che
indica l’intensità e il senso del variare di Y al variare di X.
Nel caso più semplice di un legame lineare tra le variabili:
y = α + βx + u
dove α e β sono i parametri da stimare, detti anche coefficienti
di regressione, si pongono alcuni problemi di stima di tali
parametri.
Innanzi tutto, è possibile che all’interno di un modello le diverse variabili che
compaiono nella relazione non siano legate solo da quella relazione. In un
caso del genere, la stima dei parametri, per mezzo del metodo classico e più
semplice dei i minimi quadrati ordinari (OLS), porta a commettere un errore
detto di simultaneità. Per evitare un simile errore sarebbe necessario,
stimare contemporaneamente i parametri di tutte le equazioni del modello
col metodo di massima verosimiglianza. Tuttavia questo è praticamente
impossibile quando i parametri sono troppi rispetto al numero delle
osservazioni.
Sono stati elaborati, quindi, metodi diversi come quello dei minimi quadrati a
due stadi che, pur stimando una singola equazione alla volta, riescono ad
ovviare all’errore di simultaneità ricorrendo all’uso delle variabili esogene del
modello (variabili che in un modello interpretativo di un fenomeno sono
determinate esternamente al modello).
Un ulteriore problema che si presenta nella stima dei parametri si ha quando
le due variabili sono fortemente correlate fra loro. Questo problema è detto
di multicollinearità. In questa circostanza, la stima dei coefficienti relativi alle
variabili correlate e del loro contributo alla spiegazione del fenomeno è molto
incerta. Per ovviare al problema della multicollinearità di solito si usa
modificare, per quanto è possibile, la specificazione delle relazioni di cui si
vogliono stimare i parametri. In pratica si sostituiscono alcune variabili con
altre variabili o con loro trasformazioni.
Una volta elaborato il modello, è importante la fase della sua
valutazione in cui è essenziale la verifica statistica delle ipotesi
esplicitamente o implicitamente considerate nonché, l’analisi
del comportamento del modello nel riprodurre la realtà passata.
Sempre in generale, esiste un indice detto di determinazione
della retta di regressione che misura la bontà di adattamento
della funzione nel descrivere la realtà. Questo indice è indicato
con R2 ed assume valori compresi tra zero ed uno. Il giudizio di
adattamento sarà tanto migliore quanto più elevato è il valore di
R2.
L’indagine econometria ha portato poi all’individuazione di altri
particolari test con lo scopo di controllare la bontà delle
assunzioni prese come base di indagine e della loro funzionalità
nell’osservazione e descrizione della realtà. Tali test possono
studiare la costanza delle relazioni stimate nel tempo (test di
costanza dei parametri), la variabilità dei parametri nel tempo
(test di eteroschedasticità). Si può capire se sia appropriata la
relazione dinamica tra le variabili (test di autoregressione) e
può essere necessario verificare che alcune variabili non siano
correlate con i residui dell’equazione nella quale compaiono
(test di esogenità) o che al contrario con i residui siano
correlate variabili eventualmente omesse dall’equazione (test di
errata specificazione).
In tutti i casi l’econometria cerca sempre di suggerire dei metodi
per eliminare i singoli problemi, o indicando una diversa
specificazione del modello, o usando diversi metodi di stima.
3.2 L’esperienza d’oltre oceano
Per una corretta e completa rassegna dei lavori empirici in materia di
migrazione, è necessario muovere dai primi studi che sono stati fatti in
materia. Tali analisi si sono concentrate in quei paesi come Stati Uniti,
Canada e Australia, in cui il fenomeno è più antico e i dati a disposizione
sono più numerosi.
A dare inizio alla letteratura economica sull’immigrazione fu, nel 1978, il
lavoro di Berry Chiswick sull’assimilazione salariale dei lavoratori immigrati.
L’autore, in base ai dati del censimento statunitense del 1970,
stimò le equazioni salariali degli immigrati e dei lavoratori
nazionali con una semplice regressione lineare:
logYi = + Xi α +β1YSMi + β2 YSMi2 + β3FORi + ui
dove, logYi rappresenta il salario dell’individuo i, X i è un vettore di
caratteristiche individuali (istruzione, professionalità, esperienza lavorativa).
YSMi rappresenta gli anni di soggiorno dell’immigrato nel paese di
destinazione e FORi è una variabile dummy uguale ad 1 se si riferisce agli
immigrati e, a zero se si riferisce ai lavoratori nazionali.
Il termine di errore è dato da ui
Questo tipo di equazione, sostanzialmente, mette in relazione la variazione
del salario degli immigrati con le loro caratteristiche qualitative e gli anni di
soggiorno trascorsi nel paese ospitante. I parametri da stimare, che indicano
quanto e, in che modo, Y i varia al variare di Xi , YSMi e FORi , sono α, β1 , β2
e β3.
L’ equazione è identica sia per i lavoratori nazionali che per quelli immigrati.
Chiswick evidenzia che gli immigrati entrano nel mercato del
lavoro del paese di destinazione con un salario più basso
rispetto ai nazionali ma che i loro percorsi salariali sono più
veloci. L’iniziale livello più basso di capitale umano degli
immigrati, secondo l’autore, spiega il loro svantaggio salariale
iniziale e la crescita più rapida dei loro salari. In più, una
migrazione positivamente selettiva, porta a dei percorsi più
inclinati dei salari degli immigrati che alla fine superano quelli
dei nazionali con le stesse caratteristiche.
Questo schema relativamente semplice viene criticato da un altro studioso
fondamentale per l’analisi economica della migrazione: George J. Borjas64.
Egli, infatti, ritiene che i risultati degli studi di Chiswick siano ingannevoli
perché le sue stime non distinguono l’effetto periodo di soggiorno dall’effetto
coorte. La coorte rappresenta gruppi distinti di individui che si differenziano
tra loro in base ad aspetti temporali come l’anno di nascita o, come in questo
caso, in base all’anno di arrivo nel paese ospitante.
Borjas basa la sua critica sul fatto che è possibile che le coorti differiscano
tra loro per qualità, ossia che i livelli di capitale umano degli immigrati
appartenenti alle diverse coorti siano diversi.
Se, come ha fatto Chiswick, si studia una cross-section di immigrati che
differiscono tra loro solo in base all’anno di arrivo nel paese ospitante e si
tracciano i loro salari in base al tempo, allora si avrà un profilo positivamente
inclinato.
Ciò su cui punta l’accento Borjas, invece, è che non solo le coorti possono
differire tra loro per quanto riguarda i livelli di professionalità degli immigrati,
ma che nel tempo, la professionalità è andata via via diminuendo e ciò
significa che le coorti più recenti sono peggiorate rispetto a quelle
antecedenti65.
64 Cfr. Borjas CJ, Assimilation, Chages in Cohort Qualità, and the Earnings of Immigrants, in Journal of Labour Economics 3, pp 463-489,198565 Vedi capitolo primo paragrafo 1.6 Gli Effetti della Migrazione sul Benessere Economico e Sociale per i motivi del peggioramento della qualità delle coorti.
Il problema, quindi, è che la variabile anni di soggiorno, YSM, misura due
aspetti: gli anni di soggiorno, appunto, e la coorte a cui appartengono gli
immigrati.
Per avere una stima corretta di ciò che è successo nella realtà è necessario,
secondo l’autore, distinguere l’effetto sulla crescita dei salari dovuto al tempo
da quello dovuto all’appartenenza a diverse coorti.
Risultati non distorti si ottengono con un metodo che stima la variazione del
salario mettendo in relazione il salario medio degli individui, osservati in un
certo anno e appartenenti a diverse coorti, con il tempo trascorso nel paese
ospitante :
Wd = W t0t2 + Wt1
t2
t2 – t1
Questa stima deve essere poi scomposta in due parti: la prima
parte rappresenta la stima della variazione del salario di una
coorte osservata in due diversi periodi e, rappresenta l’effetto
anni di soggiorno.
La seconda parte è la stima di due diverse coorti osservate in due diversi
momenti e, genera l’effetto coorte.
Questi sono due esempi di come uno stesso oggetto di studio possa essere
esaminato in modi diversi a seconda delle assunzioni e delle ipotesi che si
trovano alla base di due teorie simili, ma non uguali. Nel primo caso tutte le
assunzioni fatte vengono racchiuse in un'unica semplice relazione lineare
mentre, nel secondo caso quelle che era una sola variabile nella prima
analisi, YSM, viene osservata da due punti di vista e di conseguenza, la
specificazione analitica per osservare i due nuovi caratteri è stata
trasformata66.
66 Cfr. Altri lavori che presentano l’approccio di Borjas quale il più attendibile sono: Friedberg R.M. Hunt J., The impact of Immigrants on Host Country Wages, Employment and Gowth, Journal of
In anni più recenti G.J. Borjas67 continua i suoi studi sugli effetti dei flussi
migratori negli USA e sviluppa nuovi approcci per stimare i cambiamenti
nell’educazione e nell’esperienza lavorativa, riscontrati all’interno delle coorti
dei lavoratori immigrati, rispetto ai lavoratori nazionali.
La prevalenza degli studi empirici, soprattutto di quelli statunitensi, analizza
l’impatto degli immigrati in mercati del lavoro locali (o settori), che si
ipotizzano chiusi, con un’analisi cross-section tra aree (o settori) a diversa
intensità di immigrazione. Si perviene, in questo modo, ad una diversa
elasticità tra numero di immigrati, o quota di immigrati, e salario o
occupazione, dei lavoratori nazionali distinti per gruppi omogenei.
L’autore stabilisce, però, che un semplice confronto tra quello che accade
nelle diverse aree geografiche in termini di flussi migratori, non è efficace per
studiare l’impatto che questi possono avere sul mercato del lavoro. Questo
tipo di analisi, infatti, trascura gli effetti degli scambi commerciali e dei flussi
economici tra le diverse aree geografiche che portano ad eguagliare le
condizioni economiche delle diverse zone, coprendo l’effetto netto
dell’entrata degli immigrati e portando a risultati distorti.
Detto ciò, il metodo migliore, secondo l’autore, è quello di porre l’accento
sulle caratteristiche che qualificano i diversi gruppi di lavoratori.
Le qualifiche dei lavoratori vengono misurate da due indici:
livello di scolarità ed esperienza lavorativa.
Lavoratori con lo stesso livello di educazione ma con un diverso livello di
esperienza lavorativa non sono considerati perfetti sostituti, cioè, le due
caratteristiche assumono diverso significato e importanza all’interno
dell’analisi. In un gruppo con un dato livello di educazione ma con un diverso
livello di esperienza lavorativa, infatti, la migrazione non genera gli stessi
effetti. Nel corso dell’analisi, poi, l’autore fa riferimento ad un livello fisso di
67 Cfr. Borjas CJ. The Labor Demand Curve is Downward Sloping: Reexamining The Impact of Immigration on the Labor Market, in Quarterly Journal of Economics, pp 1335-1369, 2003
forza lavoro nazionale contro i diversi livelli di immigrati che cambiano nel
corso del tempo (questo per attribuire ogni cambiamento economico proprio
agli immigrati).
L’obbiettivo dello studio è quello di dimostrare se gli immigrati riducono o
aumentano le opportunità di lavoro dei nazionali.
I dati a cui si fa riferimento coprono gli anni che vanno dal 1960 al 2000.
Gli individui analizzati sono uomini in età compresa tra i 18 e i 64 anni che
partecipano alla forza lavoro. Immigrato viene definito colui che è nato
all’estero, non è cittadino o è cittadino naturalizzato.
In base alle ipotesi sopra esplicitate, si indicano quattro classi
riguardanti la scolarità:
1. Gli High School Dropouts (con meno di 12 anni di frequenza scolastica).
2. Gli High school graduates (con 12 anni di frequenza scolastica).
3. I Some College (con frequenza scolastica che oscilla tra i 13 e i 15 anni).
4. I College Graduates (con almeno 16 anni di frequenza scolastica).
Il livello di esperienza lavorativa, invece, viene calcolato
facendo la differenza tra l’età del lavoratore, al momento dello
studio, e quella in cui è entrato nel mercato del lavoro (si
ipotizza che siano 17 anni per il gruppo H.S.D.; 19 anni per gli
H.S.G.; 21 per i S.C. e 23 per i C.G.).
L’analisi considera gli individui con un’esperienza lavorativa che va da 1 a
40 anni quindi vi sono, per ogni gruppo indicante il livello di scolarità, otto
sottogruppi che indicano gli anni di esperienza lavorativa.
I livelli dei salari sono stati calcolati per tutti coloro che hanno lavorato a
tempo pieno nell’anno precedente lo studio e sono stati deflazionati per
essere riportati ai valori attuali.
La prima grandezza che viene calcolata è la quota di immigrati appartenente
a ogni gruppo di scolarità i, di esperienza lavorativa j, al tempo t.
1) Pijt = Mijt / ( Mijt + Nijt )
Dove Pijt è la quota di immigrati, Mijt sono il numero di immigrati per ogni
gruppo i e j al tempo t e Nijt sono i lavoratori nazionali in ogni gruppo i e j al
tempo t.
Una prima relazione studia il legame tra i salari settimanali e la quota di
immigrati in ogni gruppo di scolarità e di esperienza lavorativa.
Per condurre tale analisi vengono usati i dati sui salari, deflazionati, per ogni
gruppo e in ogni periodo, che servono a calcolare i cambiamenti decennali di
tali salari in ogni gruppo. Questi dati vengono messi in relazione, tramite una
regressione, con i dati sulle quote di immigrati presenti in ogni gruppo e per
ogni periodo considerato.
La retta di regressione che ne deriva illustra una relazione negativa tra
crescita salariale e afflusso di immigrati in ciascun gruppo: i salari crescono
più velocemente nei gruppi meno interessati dai flussi migratori.
Risulta inoltre che per dati livelli di educazione, immigrati e lavoratori
nazionali con simili livelli di esperienza lavorativa sono più competitivi
rispetto a quelli con diversi livelli di esperienza lavorativa.
Una seconda relazione che si studia riguarda il grado di
similitudine tra la distribuzione del lavoro degli immigrati e dei
lavoratori nazionali all’interno dei vari gruppi. Per ottenere una
tale misura si usa l’indice di congruenza di Welch (1999). Per
due gruppi con professionalità, rispettivamente k e l, l’indice è il
seguente:
2) Gkl = Σc ( qkc – qc ) (qlc - qc) / qc
√ Sci ( qkc – qc )2/ qc Σc (qlc - qc) / qc
dove qhc è la frazione del gruppo h (h = l, k) impiegata nell’occupazione c e
qc è la frazione dell’intera forza lavoro occupata nel lavoro c.
L’indice è uguale a 1 se i due gruppi svolgono identiche occupazioni, è
uguale a -1 se i gruppi si dedicano a lavori del tutto diversi.
I risultati indicano che, per dati livelli di educazione, la distribuzione delle
occupazioni risulta essere molto simile tra immigrati e lavoratori nazionali
quando hanno livelli di esperienza lavorativa simili.
Infine, lo scopo dell’analisi è quello di osservare tre variabili:
il valore medio del log del salario annuale dei nazionali;
il valore medio del log del salario settimanale dei nazionali;
il valore medio della frazione delle ore lavorative dei nazionali.
Queste variabili dipendenti vengono messe in relazione, tramite una
regressione con:
1. la quota di immigrati presenti in ogni gruppo di scolarità e esperienza
lavorativa in un periodo t, Pijt.
2. il vettore che indica gli effetti del livello di scolarità del gruppo si
3. il vettore che indica gli effetti del livello di esperienza lavorativa del gruppo x j
4. il vettore che indica gli effetti del tempo πt.
Questi vettori controllano le differenze nei risultati del mercato
del lavoro per ciascun gruppo di scolarità, esperienza lavorativa
e nel tempo yijt.
3) Yijt = θpijt + si + xj + πt + ( si x xj ) + (si x πt ) + (xj x πt ) + φijt
dove le interazioni (si x πt) e (xj x πt) controllano la possibilità che l’impatto
dei livelli di scolarità ed esperienza lavorativa cambino nel tempo.
L’interazione (si x xj) controlla il variare dell’esperienza
lavorativa per diversi andamenti del mercato del lavoro e,
attraverso i vari gruppi di livello di scolarità.
Le interrelazioni tra educazione ed esperienza lavorativa
rivelano che l’impatto della migrazione sul mercato del lavoro si
riflette nei cambiamenti che apporta tra i gruppi designati e
durante i periodi considerati.
I coefficienti stimati risultano tutti negativi e significativi (i livelli
del margine di errore, o l’indice di determinazione della
regressione, ci permettono di considerare la regressione adatta
a descrivere la realtà). Ciò significa che l’aumento dell’offerta
del lavoro, conseguente al flusso migratorio, riduce i salari dei
nazionali e la quota di ore lavorative.
Allo scopo di verificare ulteriormente l’affidabilità dei risultati,
l’autore introduce alcune nuove variabili nell’analisi di
regressione:
1. sviluppa la regressione senza ponderarla con le misure dei
campioni dei vari gruppi.
2. introduce anche le donne nel campione osservato dei lavoratori
3. include le variazioni, per ogni gruppo, dell’ammontare dei
lavoratori nazionali (in principio, per ipotesi, il livello di lavoratori
nazionali era stato considerato fisso) per considerare non solo
l’aumento delle quote di immigrati, ma anche una possibile
diminuzione delle quote di lavoratori nazionali.
Anche in questi tre casi, i risultati dimostrano l’impatto negativo
che gli immigrati hanno sulle performances del mercato del
lavoro che accoglie il flusso migratorio.
Risultati lievemente diversi si rilevano in altri lavori68, come
quello di Briggs e Tenda (1984), dove gli immigrati sono
complementari a tutte le categorie di lavoratori e la
competizione arriva solo dalla forza lavoro femminile.
Simili a quest’ultimo studio sono i risultati che si rilevano dallo
studio di Muller e Espenshade (1985) in cui gli immigrati
messicani e i lavoratori neri risultano essere complementari e
ansi, questi ultimi sembrano essere il gruppo di lavoratori che
guadagnano di più dall’immigrazione.
Altri studi americani si concentrano, invece, su i gruppi specifici
di lavoratori più a rischio mostrando una leggera competizione
tra questi e gli immigrati (Llonde e Topel 1992). In tale studio,
l’impatto della crescita dell’1% dei lavoratori stranieri, in un’area
o settore che impiega prevalentemente lavoratori nazionali
giovani, riduce il salario annuale dei lavoratori ispanici giovani
del – 0,2% e dei giovani neri del – 0,6%.
Allo stesso modo influenze debolmente negative della
migrazione sui lavoratori stranieri le riscontrano altri studi
(Altonji e Card 1991) che rilevano un impatto molto modesto
della migrazione sull’occupazione dei lavoratori nazionali poco
qualificati mentre, sul loro salario, l’impatto rilevato varia con
valori di poco maggiori, a secondo della specificazione di stima.
68 Crf. Venturini A. Le Migrazioni e i paesi sudeuropei, UTET, 2001
Tale trend dell’immigrazione negli USA, viene confermato
quando si tiene conto della straordinaria emigrazione dei
cubani, avvenuta nel settembre del 1980 quando Fidel Castro
lasciò liberi di emigrare i cittadini cubani. Questo evento
rappresentò una crescita della forza lavoro di Miami del 7% e,
come mostrano gli studi (Card 1990), l’effetto sul salario e
sull’occupazione dei nazionali non fu significativo e l’evoluzione
del salario e dell’occupazione della città di Miami non fu diversa
da quella di altre città, che non avevano subito un tale flusso
migratorio.
Negli studi canadesi e australiani i risultati non sono diversi.
In una ricerca dell’Economic Council of Canada (Swan 1991) si
analizza l’effetto dell’immigrazione sul tasso di disoccupazione
pervenendo a risultati poco determinanti: al crescere della forza
lavoro cresce, di un terzo, il livello di disoccupazione. Tali
risultati potrebbero essere interpretati come l’effetto della
crescita della migrazione che induce una crescita della
disoccupazione. I commenti dell’autore, però, sono scettici
poiché i risultati non specificano su chi ricada la disoccupazione
e perché il legame positivo tra immigrazione e disoccupazione
non è stato rilevato in modo diretto.
Anche negli studi australiani non si rileva un legame nettamente
negativo tra immigrazione, occupazione e livelli salariali dei
lavoratori nazionali.
In conclusione, l’evidenza empirica per i paesi considerati in
questa prima rassegna mostra un effetto negativo, ma molto
limitato, della migrazione sui salari dei diversi gruppi di
lavoratori nazionali ed un effetto pressoché nullo sui loro livelli
di occupazione, soprattutto dei gruppi più a rischio quali i
giovani, i poco qualificati o le minoranze etniche.
La spiegazione che forniscono gli autori è diversa se si
considerano gli USA o se si parla di Canada e Australia.
Nel caso degli Stati Uniti la tesi prevalente è che gli immigrati
non influiscono in modo fortemente negativo sul mercato del
lavoro americano per via della alta mobilità dei lavoratori
nazionali. Questi, infatti, possono spostarsi, con relativa facilità,
dove esistono alternative occupazionali e salariali più
interessanti. Tale interpretazione è rafforzata dalla ricerca di
Filer (1992) che analizza l’impatto sulla mobilità dei nazionali
che un flusso di immigrati crea in uno specifico mercato del
lavoro locale. Egli riscontra una relazione negativa tra
immigrazione e flusso netto di migrazione dei nazionali (la
migrazione netta dei nazionali cresce se i flussi in entrata sono
maggiori di quelli in uscita) attribuendola ad un peggioramento
delle prospettive di lavoro dei nazionali.
Al contrario, il maggior impatto negativo degli immigrati sui
precedenti lavoratori immigrati, viene attribuito alla loro scarsa
mobilità interna, spinta dalla tendenza a stabilirsi in luoghi in cui
esistono comunità etniche numerose ed organizzate.
Nel caso canadese ed australiano, invece, la mancanza di un
effetto significativamente negativo degli immigrati sui lavoratori
nazionali viene attribuito, oltre che alla mobilità interna dei
nazionali, anche alla selettività delle politiche migratorie di
entrambi i paesi.
Canada e Australia, per permettere l’ingresso agli immigrati,
usano un sistema di autorizzazioni a punti legati alle richieste
del mercato del lavoro interno e all’età della popolazione.
Questo sistema favorisce i lavoratori di cui il mercato del lavoro
ha effettivamente bisogno.
Mentre la politica migratoria americana, con l’Amendament Act
del 1965, è stata incentrata sui ricongiungimenti familiari, quella
canadese, con l’Immigration Act del 1962 ha rimosso le
restrizioni in base ai criteri nazionali e ha imposto quelle a
carattere professionale concentrandosi sugli “skills
requirements”.
E’ proprio con tali normative che Australia e Canada sono
riuscite a selezionare gli immigrati in base alle reali necessità
dei mercati del lavoro interni limitando, così, i conflitti tra
lavoratori immigrati e lavoratori nazionali.
3.3 Risultati europei
Gli studi appena descritti, in particolare Borjas (2003),
rilevavano gli effetti che un certo tipo di immigrati, distinti in
base all’educazione e all’esperienza lavorativa, possono avere
sul mercato del lavoro. Inoltre, tali studi, si riferiscono a mercati
del lavoro (statunitense, canadese ed australiano)
particolarmente flessibili in cui la mobilità dei lavoratori
permetteva loro di far fronte alla nuova offerta di lavoro,
provocata dall’immigrazione.
I confronti tra gli studi americani e quelli europei non sono
immediati per via delle diverse caratteristiche strutturali dei
mercati del lavoro e per via dei diversi periodi storici in cui il
fenomeno migratorio ha preso piede nei rispettivi paesi. Né,
tanto meno, sono facili i confronti tra gli stessi paesi europei per
la differenza dei dati a disposizione e per le differenze storiche
temporali e strutturali che, anche questi paesi, hanno tra di loro.
Se da un lato abbiamo una forte flessibilità e mobilità del
mercato del lavoro americano, dall’altro, molti dei mercati del
lavoro dei paesi europei sono caratterizzati da forte presenza
sindacale, scarsa mobilità della forza lavoro e non da ultimo, un
elevato livello di disoccupazione. Inoltre, per via della posizione
geografica, che vede molte nazioni europee confinanti con
paesi ad alto tasso di povertà ed emigrazione, anche le
caratteristiche dei lavoratori immigrati differiscono dalla realtà
americana.
Se pur difficilmente confrontabili tra di loro, i risultati degli studi
europei mostrano, in generale, la presenza di competizione tra
stranieri e nazionali, soprattutto nazionali non qualificati.
Nel solo caso tedesco i risultati sono discordanti:
Nello studio di De New e Zimmermann (1994) si rileva, con un
modello random effect ed una specificazone settoriale, nel
periodo 1984-1989 con dati provenienti dal German Social
Economic Panel, che un aumento dell’1% della forza lavoro
straniera produce una riduzione del salario orario dei nazionali,
in media, del –4%, con punte del –5,4% per i blue collars
(contro lo 0,2% del caso statunitense).
In un altro studio tedesco (Pischke e Velling 1995) si analizza,
con una cross section di distretti, un periodo lievemente
differente (1985-1989) con dati provenienti da una fonte diversa
(Ufficio di Statistica Federale). In questa analisi gli autori, dopo
aver controllato l’evoluzione temporale del tasso di
disoccupazione, mostrano una mancanza di effetto
dell’immigrazione sul salario e sull’occupazione dei nazionali.
Essi attribuiscono la diversità dei loro risultati rispetto allo studio
di De New e Zimmermann, al diverso periodo esaminato: di
espansione il loro, di recessione il primo.
Un ulteriore risultato interessante che presentano gli autori è
l’assenza dell’effetto della migrazione sulla mobilità dei
lavoratori tedeschi, in contrasto con i risultati americani (Filer
1992).
L’effetto negativo della migrazione, seppure con dimensioni
inferiori, viene riscontrato da un altro studio condotto su alcuni
paesi dell’UE (Gang e Rivera-Batiz 1994).
In tale studio, mettendo in relazione il salario individuale con il
lavoro, l’istruzione e l’esperienza e usando i dati dell’UE
Eurobarometro, si calcolano i rapporti tra le varie componenti
del salario e l’impatto dei vari tipi di immigrati sui nazionali, con
diverse caratteristiche. Da ciò risulta che in Olanda, Francia,
Inghilterra e Germania, prevale una relazione negativa tra
immigrati di differenti nazionalità e lavoratore medio nazionale.
Il risultato rilevante, però, è che tale relazione negativa non è
mai superiore allo 0,1% e in Francia e Germania la relazione
scende allo 0,02%.
3.3.1 Migrazione temporanea
Le analisi empiriche precedentemente introdotte, condotte negli
USA, hanno cercato di dimostrare che i guadagni degli
immigrati superano quelli dei nazionali dopo un certo periodo di
adattamento. Questo fenomeno viene spiegato da una
migrazione positivamente selettiva che porterebbe, nel paese
ospitante, immigrati con un alto livello di abilità nell’acquisire gli
skill adatti al nuovo mercato del lavoro e con forti motivazioni
tali, da farli uscire dalla loro situazione di iniziale svantaggio (B.
Chiswick 1978). In tutti gli studi osservati, però, si faceva
riferimento ad una migrazione a carattere permanente.
In Europa, le particolari condizioni economiche che hanno
caratterizzato il mercato del lavoro, in particolare quello
tedesco, negli anni subito posteriori alla seconda guerra
mondiale, hanno spinto il paese ad attuare particolari politiche
di gestione della migrazione.
Negli anni ’60, infatti, furono conclusi degli accordi economici
tra la Germania e tutti i paesi che rappresentavano la sua
maggior fonte di emigrazione.
Tali accordi facilitavano l’immigrazione dei lavoratori stranieri
garantendogli un contratto di lavoro di un anno appena arrivati
in Germania, tutti i pagamenti per il viaggio e la sistemazione e,
infine, la garanzia di non essere licenziati durante tutto il primo
anno di lavoro.
In tali circostanze, la migrazione che caratterizzò la Germania
fino al 1973, anno in cui il boom economico tedesco e mondiale
declinò, fu legata a contratti di lavoro a termine, quindi a brevi
periodi di tempo, venendo definita migrazione temporanea69.
69 Cfr. Dustmann C, Earnings Adjustments of Temporary Migration, in Journal of Population Economics, 1993
Lo studio sviluppato in Germania da Dustmann (1993) è
interessante perché considera nella fase della determinazione
delle ipotesi proprio la particolare condizione della migrazione
temporanea.
La domanda che si pone l’autore è se i risultati delle precedenti
analisi rimarrebbero uguali anche nel caso di migrazione
temporanea e anche se gli immigrati non fossero spinti solo
dalle buone condizioni del mercato del lavoro del paese
ospitante, ma anche dalle pessime condizioni del mercato del
lavoro della loro madre patria.
Le ipotesi che formula l’autore affermano che, innanzi tutto, il
lavoratore, in generale, dopo aver terminato il proprio corso di
studi continua a dedicare un certo periodo di tempo e di risorse
per acquisire professionalità e conoscenze, adatte ad un certo
tipo di lavoro.
Nel caso degli immigrati il percorso è più lungo perché, finché il
capitale umano da loro acquisito nel paese di origine non sarà
perfettamente trasferibile nel paese ospitante, questi dovranno
investire ancora in capitale umano adatto al nuovo paese.
Detto ciò, la funzione che individua il salario degli immigrati è la
seguente:
1) Ln Yit = lnEit + ln ( 1- Kit – μit )
Dove Yit sono i guadagni dell’immigrato i al tempo t, E it indica il
potenziale guadagno complessivo, Kit e μit sono le quote
potenziali di guadagno destinate all’investimento in capitale
umano ( μit specifico del paese di destinazione).
Se è vera l’ipotesi per cui la quota di guadagno destinata
all’investimento si riduce nell’arco della vita lavorativa e rispetto
alla permanenza nel paese di destinazione, allora, il potenziale
guadagno complessivo, Eit, dell’immigrato dipende dal
guadagno che accumula prima e dopo la migrazione.
In base a queste assunzioni, l’autore, può costruire la relazione
che lega il salario degli immigrati ai diversi percorsi scolastici, ai
diversi livelli di esperienze professionali e alla durata del
periodo di soggiorno nel paese di destinazione:
2) Ln Yit = ln Ei + ln ( 1- Kit – μit ) + ri Si + ri Ki0 Ji – (ri ki0 / 2Ti) Ji2+ ρi μi0
Hi – (ρiμi0/2θi)Hi2
Dove Ei rappresenta il salario totale senza alcun investimento
in capitale umano, ri , ri e ρi sono rispettivamente, i tassi di
ritorno degli investimenti in capitale umano acquisito a scuola,
capitale umano generale e capitale umano specifico del paese
ospitante e insieme a K0 e μ0 sono assunte costanti tra gli
individui. Si sono i percorsi scolastici, Ji sono le differenti
esperienze lavorative e Hi la durata di residenza nel paese
ospitante.
La relazione indica quindi che le differenze dei salari degli
immigrati sono spiegate da differenti percorsi scolastici, da
differenti esperienze lavorative e dalla durata di soggiorno nel
paese straniero. Da ciò, il tipo di investimenti in capitale umano
degli immigrati e quindi i loro salari, dipendono da quanto gli
immigrati si aspettano di rimanere nel paese di destinazione
(dove θ indica quanto gli immigrati si aspettano di rimanere
all’estero).
Se θ varia molto tra ciascun individuo, come avviene nel caso
della migrazione temporanea, questa variabile può spiegare,
secondo l’autore, le differenze salariali degli immigrati. Quindi,
investimento in capitale umano e salario dell’immigrato
dipendono entrambi da θ.
Una volta chiarite le ipotesi che hanno portato l’autore a
costruire la relazione tra le variabili, questi elabora i dati a sui
disposizione riguardanti il suo paese: la Germania.
Il campione in oggetto copre tutti gli uomini stranieri e nazionali
in un’età compresa tra i 16 e 65 anni, impiegati a tempo pieno
al momento dell’intervista.
Le variabili riguardanti il percorso educativo sono la misura del
periodo trascorso a scuola SCH; la variabile TRAIN che misura
gli anni di apprendistato per un particolare lavoro. Le variabili
che indicano l’età dell’individuo, AGE e quella che indica
l’esperienza lavorativa effettiva, EXP, che viene misurata dagli
anni durante i quali l’individuo è stato impiegato in un lavoro a
tempo pieno.
Altre variabili incluse nell’analisi sono gli anni di soggiorno nel
paese ospitante, YSM, gli anni che l’immigrato intende ancora
trascorrere nel paese, YSTAY e il totale della durata di
residenza, TOTSTAY.
Riprendendo la relazione costruita in precedenza (n.1) l’autore
si pone due domande:
1. I salari degli immigrati, raggiungono quelli dei lavoratori
nazionali nella realtà empirica?
2. La breve durata di residenza nel paese ospitante, riduce i profili
salariali degli immigrati a causa degli scarsi investimenti in
capitale umano che ne derivano?
Per rispondere a queste domande l’autore stima la relazione
lineare con il metodo ordinario dei minimi quadrati (OLS). Le
stime vengono prima effettuate su un campione di soli lavoratori
nazionali e poi, inserendo una variabile dummy uguale ad 1 per
indicare i lavoratori stranieri, anche sui lavoratori immigrati.
L’autore ha rilevato per mezzo del test del chi-quadrato, che le
stime riguardanti i lavoratori stranieri soffrono di
eteroschedasticità che indica che le componenti casuali del
modello regressivo hanno varianze diverse. Quando ciò
avviene e si usa il metodo OLS, le varianze dei coefficienti di
regressione risultano sottostimate il che porta a rifiutare l’ipotesi
nulla ad un livello di significatività diverso da quello prefissato70.
70 Vedi nota 1 per la procedura di verifica di un’ipotesi statistica.
Per ottenere appropriati stimatori delle varianze dei parametri
stimati, l’autore, usa un metodo suggerito da White (1980) il
quale usa una stima della matrice della covarianza
consistente71 e permette di estrarre le inferenze72 dai risultati
ottenuti con l’OLS senza specificare necessariamente la forma
dell’eteroschedasticità.
I risultati dell’analisi empirica indicano che, a dispetto di ciò che
accade per la migrazione permanente, la migrazione
temporanea mostra dei risultati non favorevoli per i salari degli
immigrati e non agevola la selezione positiva degli immigrati.
Inoltre, l’analisi mostra che la durata totale del soggiorno nel
paese ospitante influisce positivamente sugli investimenti in
capitale umano specifico del paese di accoglienza e quindi sul
salario degli immigrati.
Risulta importante, quindi, nello studio del fenomeno migratorio
distinguere tra migrazione temporanea e migrazione
permanente.
3.3.2 Gli effetti della disoccupazione sull’integrazione
economica degli immigrati nel paese di destinazione
71 La consistenza è una proprietà di cui gode uno stimatore quando al crescere dell’ampiezza campionaria fornisce ,con probabilità prossima ad 1, stime puntuali che tendono a coincidere col valore vero ma ignoto del parametro oggetto di stima.72 L’inferenza è il procedimento di generalizzazione dei risultati ottenuti dall’osservazione di un campione all’intera popolazione da cui il campione è estratto.
La forte disoccupazione che caratterizza la maggior parte dei
paesi europei, come accennato in precedenza, porta a
considerare con particolare attenzione tale aspetto e ad
analizzare l’effetto che periodi di disoccupazione ripetuti
possono avere sull’andamento del mercato del lavoro e, in
particolare, sulle performances degli immigrati in un simile
contesto.
Per fare ciò è necessaria la costruzione di indici opportuni in
grado di formalizzare tale ipotesi e di inserirla all’interno della
relazione funzionale che mira, anche in questo caso, a
descrivere se esistano o meno differenziali salariali tra
immigrati e nazionali e se questi differenziali siano influenzati, e
in che misura, dalla disoccupazione.
Uno studio simile è stato elaborato per la Norvegia73, paese con
una storia di immigrazione relativamente recente che ha le sue
origini a partire dagli anni ’60.
La prima importante assunzione da cui parte l’analisi è che gli
studi con panel data sull’assimilazione salariale degli immigrati
devono separare l’effetto coorte dall’effetto anno di arrivo e dal
così detto period effect .
73 Cfr. Longva P. Raaum O, Uneployment and Earnings Assimilation of Immigrants, in Labour 16 (3), 2002
Si può ipotizzare l’equal-period effect solo “se cambiamenti
nelle condizioni economiche del paese non hanno impatti
differenti sui guadagni degli immigrati e dei nazionali”74 .
Molti studi, quindi, sono partiti da tale semplificazione per non
trascurare dall’analisi i cambiamenti avvenuti, soprattutto
all’interno delle diverse coorti.
Nella realtà europea, però, tra gli anni ’70 e ’80 si è vissuto un
lungo periodo di disoccupazione che sicuramente ha generato
un qualche tipo di effetto sia sui salari dei lavoratori nazionali, si
su quelli dei lavoratori immigrati.
Gli studi sull’immigrazione devono porre attenzione al
fenomeno della disoccupazione e devono inserirlo nell’analisi
sui differenziali salariali tra immigrati e nazionali per capire se la
disoccupazione influisce diversamente sui due gruppi di
lavoratori e in che misura.
In uno studio Blanchflower e Oswald (1994) hanno stimato,
usando dati riguardanti numerosi paesi, una relazione negativa
tra la quota regionale di disoccupazione e il livello salariale
individuale. In generale, quindi si assume che la
disoccupazione regionale influisca sia sulle ore lavorative sia
sul livello orario del salario.
Si assume inoltre che i lavoratori immigrati siano più esposti
agli effetti della disoccupazione perché hanno meno esperienza
74 Cfr. G.J.Borjas Immigrant and Emigrant Earnings : A Longitudinal Sudy, in Economic Inquiry, 1989
lavorativa nel paese di destinazione e possono essere soggetti
a discriminazione. Questo avviene per diversi ordini di motivi:
innanzi tutto il problema della ridondanza per gli immigrati è più
alto e la possibilità di essere reinseriti nel vecchio posto di
lavoro è più bassa per gli immigrati. Gli immigrati, poi, hanno un
potere contrattuale decisamente più basso dei lavoratori
nazionali e così hanno scarsi, se non nulli, strumenti per
difendere i propri posti di lavoro.
Terzo, l’incertezza, da parte del datore del lavoro, sul reale
livello di professionalità dell’immigrato, porta a salari inferiori
per gli immigrati. Tale premio (il salario inferiore) per il rischio
sostenuto dai datori di lavoro, aumenta quando aumenta la
disoccupazione perché aumentano anche i lavoratori nazionali
disponibili per coprire eventuali posti vacanti.
In fine, la possibilità che l’immigrato lasci il paese ospitante per
tornare nel suo paese di origine, rende meno appetibile la sua
assunzione rispetto alla possibilità di assumere un lavoratore
nazionale con pari qualità.
Dati questi presupposti, lo scopo dello studio è quello di
osservare in che modo la disoccupazione influisce sui salari dei
lavoratori immigrati.
I dati utilizzati nell’analisi coprono un periodo di dieci anni che
va dal 1980 al 1990.
Si considerano età, sesso, stato civile, municipalità, o area
geografica in cui lavora l’individuo, ed il salario.
Gli immigrati sono definiti in base al loro paese di nascita e si
distinguono quelli provenienti da paesi OECD (Nordici, Nord
America, paesi europei OECD, Australia e Nuova Zelanda) e
quelli provenienti da paesi Non OECD (Europa dell’Est, Asia ,
Africa e America Latina).
Per guadagno mensile si fa riferimento a tutte le entrate da
lavoro, alle pensioni per malattia e ai sussidi di disoccupazione.
Il primo e fondamentale indice che si prende in considerazione
è la quota di disoccupazione regionale che misura le
opportunità lavorative per i partecipanti alla forza lavoro ed è
misurato per gli individui residenti nella municipalità i: u i = Σj eij
uj
Dove eij è la quota di lavoratori che lavorano nella municipalità i
ma vivono nella municipalità j.
Questo indice di disoccupazione regionale viene messo in
relazione con la quota di guadagno annuale di ciascun
individuo e con le classiche variabili individuali ( sesso, età,
livello di scolarità…) che influenzano il reddito:
1 ) log Yi = γ + α log ui + β Xi + εi
dove, Yi è il reddito annuale di ciascun individuo, i, u i è la quota
di disoccupazione regionale, Xi è il vettore di variabili qualitative
che influenzano il reddito, εi è l’errore.
γ, α e β sono i parametri da stimare che indicano in che misura
le variabili ad essi associate influenzano Yi. In particolare, il
coefficiente che interessa in questa prima fase di studio è α che
indica l’elasticità del reddito del lavoro alla disoccupazione
Si assuma che α dipenda dalla reale composizione del reddito
annuale e che wi sia la quota di salario orario, si ha una nuova
relazione lineare:
2 ) Yi = wi hi ( 12- MUi ) + bwihi MUi
Dove, hi sono le ore lavorative mensili dell’individuo i, MU i è il
numero dei mesi di disoccupazione per ciascun individuo i, b
(compreso tra zero e uno) è il rapporto tra il contributo alla
disoccupazione e il ricollocamento al lavoro ed è costante e
indipendente dallo status di disoccupazione.
Facendo dei semplici passaggi matematici l’equazione n. 2 può
essere riscritta nel modo seguente:
3 ) log Yi = log wi + log hi + log [ 12- ( 1-b ) MUi ]
In questo modo l’elasticità alla disoccupazione ottenuta dai dati
sui salari annuali è la somma di tre effetti di disoccupazione
regionale:
L’effetto sul salario orario
L’effetto sulle ore lavorative per ogni mese (che riflette la scelta
del lavoro a tempo pieno o part-time)
L’effetto sulla disoccupazione individuale (effetto che può
essere interpretato come correlazione tra l’esperienza
individuale di disoccupazione e il livello di disoccupazione
regionale).
La cosa migliore da fare per individuare l’effetto della
disoccupazione regionale sul livello del salario orario, sarebbe
quella di calcolare wi dall’equazione N. 3. Siccome a questo
punto si presentano dei problemi tecnici per cui hi non viene
osservato e MUi non è accuratamente misurato, l’autore
inserisce nella equazione N. 1 le informazioni sull’esperienza di
disoccupazione individuale:
4 ) log Yi = γ + α log ui + λ0H0i + λ1H1i + βXi + εi
dove, H0 è un vettore di variabili qualitative che indicano
l’incidenza della disoccupazione in quattro diversi casi
specifici75
H1 è un vettore, corrispondente ad H0, che raggruppa i numeri
dei mesi di durata di disoccupazione per ciascuno dei quattro
casi e serve a misurare la durata della disoccupazione.
La durata della disoccupazione calcolata in termini di mesi non
occupati è introdotta per eliminare l’effetto dell’ultimo termine
dell’equazione N.3
([ 12- ( 1-b ) MUi ] ) dove MUi non è accuratamente misurato.
In sintesi, nell’equazione N.1, l’elasticità alla disoccupazione, α,
è interpretata come un mix degli effetti della disoccupazione
75 I quattro stati di disoccupazione sono: disoccupazione a tempo pieno con e senza benefici, con l’inserimento in un programma nel mercato del lavoro e senza ricevere alcuna entrata retributiva. (Longva e Raaum 1998).
regionale sulla disoccupazione individuale e sul reddito degli
individui occupati, mentre, nell’equazione N. 4, è solo uno degli
ultimi effetti.
Considerando εi, distribuito normalmente e indipendentemente,
con una deviazione standard costante, le equazioni 1 e 4
possono essere stimate con il metodo ordinario dei minimi
quadrati (OLS).
Tuttavia, i dati a disposizione, riguardanti la popolazione, sono
strutturati in gruppi e le alterazioni individuali sono
verosimilmente correlate tra ciascuna municipalità. Se tale
correlazione è trascurata gli errori standard sarebbero distorti.
Al contrario, per ottenere degli errori che tengano conto
completamente delle correlazioni tra individui nelle stesse
municipalità, l’autore suggerisce una procedura a due-step:
1. Si stimano le equazioni 1 e 4 a livello individuale di variabili e
con costanti specifiche per ciascuna municipalità
2. Si fa una regressione sul salario stimato per ciascuna
municipalità, correlandolo alla quota di disoccupazione
regionale ui, e ad altre caratteristiche delle municipalità.
I risultati dell’analisi, a questo livello di studio, portano a dire
che l’elasticità alla disoccupazione per gli immigrati provenienti
dai paesi OECD è simile a quella dei lavoratori nazionali,
mentre, il valore dell’elasticità degli immigrati provenienti da
paesi NON-OECD è tre volte superiore: la sensibilità del salario
di questa categoria di immigrati, al variare dei tassi di
disoccupazione, è tre volte superiore rispetto a quella dei
lavoratori nazionali o degli immigrati provenienti dai paesi
OECD.
Una volta acquisita l’informazione che i livelli di disoccupazione
influiscono differentemente sui lavoratori nazionali rispetto ad
un certo tipo di immigrati, l’autore trova interessante inserire gli
effetti della disoccupazione regionale, nella sua analisi sui
differenziali salariali tra nazionali e immigrati, come proxy76 per
gli effetti dei diversi periodi.
Si ritorna, a questo punto, all’ipotesi iniziale per cui l’aumento
della disoccupazione, avvenuto durante il periodo che va dagli
anni ’80 agli anni ’90, presumibilmente abbia avuto un effetto
negativo sulla crescita media generale dei redditi.
I risultati dei primi test, poi, hanno dimostrato che l’influenza è
stata diversa a seconda dei gruppi di popolazione presi in
oggetto. Proprio questo aspetto può essere, secondo l’autore,
un fattore importante per analizzare i differenziali salariali degli
immigrati (in particolare di quelli provenienti da paesi NON-
OECD).
Per verificare il livello di assimilazione salariale degli immigrati
in un contesto di disoccupazione, l’autore usa l’ipotesi
76 La variabile proxy viene introdotta in un modello economico in quanto fornisce delle indicazioni sull’andamento di un’altra variabile, importante per il modello ma di per se stessa sconosciuta o di difficile quantificazione.
semplificatrice dell’equal-period-effect ed in seguito, studia la
correttezza delle stime ottenute controllando le variazioni del
livello della disoccupazione regionale e il suo effetto
sull’assimilazione salariale degli immigrati. Si distinguono allora
due equazioni:
1 ) Log Yt = πt γI + βI Xt +αI log ut +τzt +ΦC + εIt Equazione
salariale per gli immigrati NON-OECD dove,
πt è una variabile dicotomica uguale ad 1 per il 1990 e zero per
il 1980;
γI è il period-effect ;
zt rappresenta gli anni di immigrazione;
C è il vettore di variabili qualitative per ciascuna coorte di
immigrati;
τ e Φ sono i parametri da stimare che indicano quanto e come il
periodo di immigrazione e la diversa coorte di appartenenza
influenzano il salario degli immigrati.
ε è l’errore.
2 ) Log Yt = πt γN + βN Xt +αN log ut + εNt Equazione
salariale per i lavoratori nazionali.
In particolare, nell’equazione riguardante gli immigrati, zt che
rappresenta gli anni di immigrazione, è una combinazione
lineare di periodo e coorte. Quindi, i tre effetti (periodo, anni di
immigrazione e coorte) non sono identificati separatamente.
Unendo le due equazioni e indicando con I i una variabile
dummy uguale ad 1 per gli immigrati e zero per i nazionali, si
ottiene la seguente nuova equazione:
3 ) logY90 – logY80 = γN + βI I(X90 - X 80) + βN (1 – I)( X90 - X 80) + αI
I(logu90 logu80) + αN(1 – I)(logu90 - logu80) + δI + I(εI90 – εI80 ) + (1
–I)( εN90 – εN80).
Dove, δ = τ10 + (γI - γN ).
Se, come per ipotesi, γI = γN allora, δ misura l’effetto totale di
residenza di 10 anni nel paese ospitante per gli immigrati NON-
OECD.
δ viene quindi stimato con il metodo ordinario dei minimi
quadrati (OLS) con l’assunzione che l’errore sia zero e la
differenza dei termini di errore lungo il periodo abbia una
varianza costante.
I risultati portano ad osservare un declino dei salari degli
immigrati nel decennio ’80-’90 spiegato dalle differenti reazioni
dei salari all’aumentare della disoccupazione.
I risultati finali dell’analisi possono essere riassunti brevemente:
L’elasticità dei salari alla disoccupazione regionale è
sensibilmente maggiore per gli immigrati provenienti dai paesi
non OECD mentre, quella dei lavoratori stranieri OECD è simile
a quella dei lavoratori nazionali. In definitiva, alti livelli di
disoccupazione nel paese di destinazione riducono i salari degli
immigrati non OECD.
Il declino dei salari relativi agli immigrati non OECD, tra gli anni
’80 e ’90, può essere spiegato dalle differenti reazioni dei loro
salari al crescere della disoccupazione.
In conclusione, il confronto tra i risultati del caso europeo e
quelli del caso americano mostra che l’immigrazione tende a
sostituire, sia pur debolmente, il lavoro dei nazionali nei paesi
dell’Europa continentale, mentre nel caso statunitense
l’immigrazione è prevalentemente complementare ai lavoratori
nazionali.
La prima spiegazione che viene spontaneo avanzare è che, tali
risultati sono determinati dal differente livello di mobilità interna
dei due mercati del lavoro: elevato in quello statunitense,
scarso in quello europeo. La scarsa mobilità dei lavoratori
europei è dovuta, in particolare, dagli elevati costi di
trasferimento, dalla rigidità del mercato immobiliare e dalle
barriere linguistiche per i lavori impiegatizi.
Tale interpretazione viene confermata da un lavoro austriaco
(Winter-Ebmer e Zweimuller 1999)77 in cui si rileva che l’effetto
dei lavoratori stranieri sul salario dei nazionali è trascurabile
quando lo si studia per settori. Tuttavia, quando i lavoratori
nazionali sono distinti in lavoratori disposti a muoversi (job-
changers) e lavoratori non disposti a muoversi (job-stayers),
77 Cfr. Winter-Ebmer e Zweimuller, Do Immigrants Displace Young Native Workers ? The Austrian Experience, in Journal of Population Economics 12 (2) pp 327-340, 1999
l’impatto sui primi è positivo mentre è negativo l’impatto sui
secondi.
Le differenze sulla mobilità interna dei lavoratori nei mercati del
lavoro statunitense ed europeo sono note: uno studio
dell’OECD78 mostra che la quota di persone disposte a
muoversi all’interno di un paese è diminuita nel tempo ma,
assume valori più che doppi negli USA rispetto all’Europa.
Anche Canada e Australia hanno una mobilità interna superiore
a quella dell’UE ma inferiore a quella degli USA. Le migliori
performances degli immigrati in questi paesi risentono inoltre
delle politiche migratorie selettive.
A tale proposito, la Svizzera, con la sua politica selettiva, può
essere allineata a Canada e Australia e, in questo senso, si
stanno muovendo anche l’Inghilterra e la Germania non senza
critiche da parte dei paesi poveri da cui si origina la migrazione
3.4 I paesi del Sud Europa
Per i paesi sudeuropei esistono solo poche analisi empiriche confrontabili
con quelle dei paesi del Nord Europa e degli USA.
Il motivo di ciò è immediatamente comprensibile: il fenomeno migratorio in
questi paesi è ancora troppo recente.
78 Cfr. OECD, Employment Outlook, Paris, 1990
Le indagini sulle forze lavoro sottostimano gli stranieri e forniscono
informazioni non rappresentative e questo perché la continua evoluzione del
fenomeno fa cambiare il quadro di riferimento in poco tempo.
Un esempio è fornito da uno studio italiano sull’area di Trento79.
Tale studio mostra che nel giro di un anno l’immigrazione di rifugiati jugoslavi
ha indotto lo sviluppo di attività irregolari che in precedenza non erano mai
state offerte dai lavoratori immigrati, provenienti dal continente africano.
Per analizzare il ruolo dei lavoratori stranieri nel mercato del lavoro dei paesi
del Sud Europa, può essere utile far riferimento alle esperienze e alle
conclusioni a cui sono giunti gli studi precedenti in USA e Nord Europa: tanto
più la politica migratoria di un paese è selettiva e si basa sugli skill
requirements, tanto più i lavoratori stranieri si integrano nel mercato del
lavoro del paese ospitante e hanno opportunità di avere successo. I
noltre, tanto più il mercato del lavoro del paese di destinazione è flessibile,
tanto più velocemente il mercato si adatta alla nuova situazione e tanto
meno competitivi saranno i lavoratori stranieri nei confronti dei nazionali.
Per quanto riguarda la politica migratoria di paesi come Spagna, Italia,
Portogallo e Grecia, le numerose e successive regolarizzazioni non sono
state né selettive né programmatiche. Se la normativa ha previsto, sulla
carta, un coordinamento tra necessità del mercato del lavoro interno e flusso
migratorio, la realtà ha dimostrato che l’accesso legale degli immigrati è
stato ristretto rispetto alla domanda80 e il collegamento tra domanda ed
offerta è esistito solo nel mercato informale.
Le caratteristiche, poi, del mercato del lavoro di questi paesi mostrano una
mobilità notevolmente inferiore sia rispetto al mercato statunitense, sia
rispetto ai mercati dei paesi nordeuropei.
79 Cfr. Borzaga, Carpita, Covi , Gli Immigrati ed il Lavoro in Trentino. Un tentativo di interpretazione dell’evoluzione più recente dl fenomeno, Dipartimento di Economia dell’Università di Trento, Working Papers,199580 In Italia nel 1995 era possibile un’autorizzazione all’accesso al lavoro solo per il personale domestico e poi, successivamente, è stato definito un tetto annuale di permessi stagionali ed annuali.
In Italia, per esempio, lo studio dell’OECD (1990) prima citato, mostra che la
mobilità interregionale interessa solo lo 0,6% della popolazione.
Allo stesso modo, in Spagna dagli anni ’80 in poi, la mobilità interna riguarda
solo lo 0,4% della popolazione (Bentolila, Dolado 1991).
I motivi di questa scarsa mobilità vanno spesso ricondotti alla possibilità, per
il disoccupato, di godere del sostegno familiare che andrebbe perso nel caso
di uno spostamento. In più, a scoraggiare lo spostamento dei lavoratori in
presenza di elevatissimi differenziali di disoccupazione tra aree, sono anche
i costi maggiori della vita quotidiana nelle aree di destinazione.
In fine, quando il tasso di disoccupazione cresce anche nella zona di
potenziale destinazione, riducendo le opportunità di trovare un impiego, si
riduce ulteriormente la mobilità interna.
L’analisi precedente suggerisce che, generalmente, i lavoratori stranieri sono
complementari ai nazionali se è presente un eccesso di domanda di lavoro
non soddisfatta dai nazionali e se i loro skills sono complementari a quelli
dei nazionali.
Come ormai è noto, le caratteristiche dei lavoratori stranieri immigrati nei
paesi sudeuropei tra gli anni ’80 e ’90, sono quelle di essere poco o per nulla
qualificati e, se lo sono, non usano il loro titolo di studio nell’occupazione che
svolgono. Questi lavoratori, poi, si concentrano nei settori dell’agricoltura,
dell’industria tradizionale, delle costruzioni, dei servizi di ristorazione,
alberghieri e dei servizi alle famiglie.
Un tale tipo di lavoro, presumibilmente, compete con i lavoratori nazionali
così detti “deboli”: i giovani, le donne e i lavoratori manuale senza alcuna
professionalità.
A questo proposito, prima di analizzare gli studi empirici condotti nei paesi
del sud Europa, è utile inquadrare le condizione principali che caratterizzano
i mercati del lavoro dei paesi oggetto di analisi.
Il tasso di disoccupazione giovanile nei paesi sudeuropei è molto elevato.
In Italia è passato dal 25,7% del 1990 al 33,6% del 1997 per poi scendere al
28,1% nel 2003. la Spagna, dal canto suo, è passata dal 32,3% nel 1990 al
37,1% nel 1997 fino a scendere notevolmente al 21,5% del 2003.
Diversamente dai primi due paesi, in Grecia la disoccupazione è salita dal
21,5% del 1990 al 31% nel 1997 fino a raggiungere il 28,1% nel 2003.
Anche il tasso di disoccupazione femminile in questi paesi è molto alto,
quasi il doppio di quello maschile: 6,1 per il Portogallo, 12,2 per l’Italia, 14,6
in Grecia e 16,3 in Spagna (dati OECD 2002).
Questi valori elevati della disoccupazione, sia giovanile che femminile, in
base ai risultati delle precedenti analisi per i paesi del Nord Europa e degli
USA e alle riflessioni che ne sono derivate, portano a pensare ad un
possibile effetto di spiazzamento degli immigrati sui segmenti deboli della
forza lavoro.
Un studio italiano che ha come obiettivo di verificare se gli
immigrati sono complementari o sostituti dei lavoratori nazionali
è quello effettuato da Venturini e Villosio nel 1999.
I dati raccolti dagli autori sono sistemati, all’interno di un arco
temporale che va dal 1990 al 1995, in una cross-section
composta da classi divise per: età dei lavoratori, livello
professionale, settore produttivo in cui sono impiegati i
lavoratori, dimensione delle industrie, area geografica in cui
sono impiegati i lavoratori.
Tali dati vengono elaborati secondo un procedimento a due stadi. Questo
tipo di procedura serve ad ovviare al problema della simultaneità che si
presenta quando le variabili di interesse non sono legate tra di loro solo dalla
relazione in oggetto:
1) nella prima fase i dati a disposizione vengono messi in
relazione alla variazione del salario dei lavoratori nazionali e
non vengono considerati i lavoratori stranieri:
Δ log Wi = βXit + γDbr + ε
Wi è il salario individuale dei nazionali ed è la variabile dipendente;
Xit sono le caratteristiche personali (età e professionalità) dei lavoratori;
Dbr rappresenta le variabili qualitative di area geografica e settore di
produzione.
In questa prima fase, quindi, i coefficienti β e γ servono a capire quanto peso
hanno, nella variazione del salario, le variabili che considerano le
caratteristiche personali dei lavoratori e quelle di settore e area geografica.
2) Nel secondo stadio i coefficienti delle dummies corretti sono
spiegati, oltre che da variabili di controllo della variazione della
domanda, dalla quota di stranieri per regione e settore.
γ Δ F seγ b, r, t = ψ seγ b, r, t + φ seγ b, r, t + λT + vB + σR + U
la variabile dipendente, in questo caso, rappresenta i valori residui delle
dummies di area e settore.
La relazione che si vuole studiare è quella che intercorre tra la
quota media della crescita del salario dei nazionali nel tempo,
per regione e per settore produttivo e : il tasso di variazione del
prodotto per ogni settore produttivo e per ogni regione (Δ Y) e il
tasso del flusso di immigrazione all’interno del mercato del
lavoro F (questo viene calcolato come la differenza del rapporto
tra lavoratori immigrati e lavoratori nazionali in due periodi
nell’arco di cinque anni, dal 1990 al 1995).
Vengono introdotte, poi, variabili T, per catturare i comuni shocks economici
e si separano le variabili qualitative di regione R e di branca produttiva B, per
catturare le variazioni residue del salario.
Per misurare la bontà della regressione si usa il coefficiente di Pearson R2
che, essendo un indice di determinazione, misura la bontà della regressione,
ossia, quanto la funzione di regressione si avvicina dalla realtà empirica
osservata.
La procedura a due stadi aiuta a prevenire i problemi di sottostima degli
errori quando alcune variabili esplicative appaiono a livelli superiori di
aggregazione. Quando si presenta un caso simile i coefficienti stimati sono
consistenti ma non efficienti81.
Un possibile problema che si può presentare nella stima della seconda
equazione sta nel fatto che gli immigrati sono tipicamente attratti dalle aree
geografiche e dai settori produttivi con salari maggiori. In questo caso una
tale equazione stimerebbe la distribuzione degli immigrati più che l’impatto
della loro presenza sui salari dei lavoratori nazionali. Per ovviare al problema
non bastano le osservazioni di ciò che è accaduto nel passato poiché
insieme al livello corrente del salario, ciò che attrae gli immigrati è la
prospettiva di futuri guadagni.
Un ulteriore studio (Venturini, Villosio 1999) tuttavia, ha analizzato il rapporto
di correlazione tra i salari e la quota di immigrati, per ogni anno a partire dal
1989 fino al 1995, e ha dimostrato che i coefficienti di correlazione che ne
risultano sono negativi e che quindi il livello del salario non è il solo motore
che spinge gli immigrati verso alcune aree piuttosto che altre. La prospettiva
di trovare un impiego, sembra essere un fattore più significativo rispetto al
livello dei salari che è possibile ottenere.
81 L’efficienza è una proprietà di uno stimatore. Se θ è il valore vero e ignoto di un parametro oggetto di stima e t è uno stimatore, t è detto efficiente se fornisce stime che in media sono più vicine a θ di quelle fornite da un altro stimatore (efficienza relativa) o da ogni altro stimatore ( efficienza assoluta).
I risultati dell’analisi dimostrano un effetto positivo, quindi
complementare, degli immigrati sul mercato del lavoro italiano.
Questi effetti vengono amplificati tra i lavoratori così detti blu-collar che
lavorano nel nord del paese e in industrie di dimensioni medio-piccole. Nel
resto del paese l’effetto dei lavoratori immigrati è insignificante e soprattutto
lo è per i così detti white-collar.
Questo tipo di risultati si accosta a studi simili (Borjas 1990) negli USA ma è
molto diverso da ciò che si è osservato in altri studi europei (De New,
Zimmermann 1994 in Germania).
Per spiegare le differenze tra il presente studio sull’Italia e quelli condotti in
Germania, gli autori considerano innanzi tutto la particolare situazione di
mismatch tra domanda e offerta di lavoro in alcune aree dell’Italia e l’effetto
positivo che in una simile realtà avrebbe la presenza di manodopera
immigrata, che farebbe incontrare la domanda con l’offerta di lavoro. In un
secondo momento però, gli autori osservano anche che, col passare del
tempo e con nuovi flussi migratori, i lavoratori stranieri saturano il mercato
del lavoro e diventano competitivi, avendo quindi un effetto negativo sul
mercato del lavoro del paese che li ospita.
Questo spiega le differenze nei risultati degli studi condotti in Germania sul
medesimo argomento: l’Italia, infatti, è un paese di recente immigrazione
mentre, la Germania, ha una storia di immigrazione che risale alla Seconda
Guerra mondiale e ciò avrebbe influito negativamente sui risultati dei recenti
studi sugli effetti dell’immigrazione nel paese tedesco.
L’analisi, allora, prosegue per rispondere alla domanda se esista o meno un
effetto diverso da quello positivo a causa di flussi aggiuntivi di immigrati
(come per la Germania).
Per poter considerare i nuovi flussi migratori, gli autori, introducono una
variabile riguardante l’effetto di un flusso aggiuntivo di immigrati a partire dal
1989 (così da includere la sanatoria del 1990/91). Il rapporto tra tale
variabile e l’ammontare dei lavoratori stranieri, per settore e regione,
costituisce il regressore Ebr utile a catturare l’effetto di flussi aggiuntivi di
immigrati che dovrebbero condurre alla saturazione del mercato del lavoro e
alla fine dell’effetto complementare degli immigrati rispetto ai lavoratori
nazionali.
Il metodo di analisi rimane quello a due stadi usato in precedenza.
I risultati dell’analisi dimostrano che l’effetto di un flusso aggiuntivo di
immigrati è positivo ma non lineare: cresce a tassi sempre minori.
Si osserva infatti che esiste un livello cruciale di immigrati oltre il quale
l’effetto, che questi hanno sul mercato del lavoro, diventa negativo.
La diminuzione dell’effetto complementare e l’inizio di quello sostitutivo si
avvertono per quote maggiori di immigrati tra i blu-collar del nord del paese
e nelle piccole industrie. Per le altre categorie di lavoratori e nelle altre zone
del paese l’effetto negativo si avverte per quote minori di immigrati.
Nel caso spagnolo, Dolado, Jimeno e Duce (1996)82 tentano di osservare
l’effetto della regolarizzazione del 1991 sull’occupazione totale nazionale,
sull’occupazione dei lavoratori poco qualificati nazionali e sul differenziale
salariale tra lavoratori qualificati e non-qualificati nazionali.
A tale scopo gli autori usano una cross-section di 50 province in un arco di
tempo che va dal 1990 al 1992.
La quota di lavoro straniero è ricavata confrontando i permessi di lavoro con
l’occupazione totale di ogni provincia.
I risultati mostrano che l’effetto dell’immigrazione sui salari dei lavoratori
non-qualificati è positivo mentre, è positivo e non significativo l’effetto sul
salario dei lavoratori qualificati. L’effetto dell’immigrazione sull’occupazione
82 Cfr. Dolado, Jimeno e Duce, The effect of Migration on the relative Demand of Skilled versus Unskilled Labour:Evidence from Spain, CEPR Discussion Paper, 1996
dei lavoratori non qualificati è negativo, ma non significativo, mentre è
positivo e significativo sull’occupazione aggregata.
Anche in questo caso le ipotesi degli autori, inizialmente, sono che per
basse quote di immigrazione l’effetto è positivo ma che, con l’aumentare del
flusso, la complementarità diminuisce gradualmente soprattutto tra le classi
di lavoratori più deboli.
Un altro studio, effettuato sempre in Italia, ha come obiettivo
quello di identificare le variabili che giocano un ruolo
significativo nella determinazione del salario degli immigrati (in
particolare in due regioni: il Lazio e la Campania).
Per svolgere l’analisi econometrica sulle determinanti dei salari degli
immigrati in questo lavoro (Baldacci-Inglese-Strozza 1999)83 si è usata la
così detta statistical earning function per misurare gli effetti di diverse
covarianze individuali sui livelli salariali.
La forma generale di tale funzione è la seguente:
1 ) ln wi = f(si + hi + zi ) + ui
dove, wi è il salario, si è una variabile che rappresenta il livello di scolarità, h i
indica lo stock di capitale umano e zi è un vettore che racchiude variabili
individuali. ui è l’errore.
L’uso del logaritmo può essere spiegato da due punti di vista. Da un punto di
vista teorico tale modello (1) può essere derivato da una equazione generale
sul capitale umano che metta in relazione il numero di anni di frequenza
scolastica, s, con il livello di reddito, y e con il rendimento derivante
dall’investimento nell’istruzione, r:
2 ) lny = rs +u
tale equazione permette di stimare direttamente la quota di rendimento
dell’istruzione.83 Cfr. Baldacci E, Inglese L, Srozza S, Determinants of Foreign Workers’ Wages in Two Italian Regions with Illegal Immigration, in Labour, 1999
Da un punto di vista statistico, l’uso del logaritmo è dovuto ad una possibile
distribuzione eteroschedastica dell’errore che porta a stime distorte. Se si
assume che la distribuzione delle quote dei salari ha un alto livello di
dispersione84, la forma logaritmica può far fronte parzialmente al problema.
Una volta scelta la funzione (1), seguendo la teoria del capitale umano,
vengono aggiunte al modello variabili sull’età e sulla durata dell’ultima
occupazione come proxy dell’esperienza lavorativa.
Lo stock di capitale umano viene approssimato con l’uso di un gruppo di
variabili che sono il numero degli anni di frequenza scolastica, variabili che
indicano l’acquisizione di un livello superiore di educazione e, infine, variabili
sull’esperienza lavorativa.
Per completare la specificazione, vengono introdotte una serie
di variabili che tentano di cogliere tutti gli effetti essenziali del
fenomeno immigratorio e che possano influire in qualche modo
sui livelli salariali:
a) variabili qualitative per individuare le caratteristiche dell’attuale lavoro
dell’individuo, 1 dummy per indicare i lavoratori dipendenti e non e due
indicatori per individuare le condizioni (povere) del lavoro rispetto agli orari e
alla location. Entrambe le ultime due variabili sono molto importanti per
verificare lo sfruttamento degli immigrati e sono ritenute a priori
negativamente correlate al livello salariale.
b) un gruppo di variabili socio-demografiche che influiscono sui livelli salariali
come il sesso e la variabile figli a carico.
84La dispersione è l’ attitudine di un fenomeno a manifestarsi secondo modalità diverse tra loro. La dispersione viene misurata attraverso indici di dispersione che prendono il nome di indici di dispersione o di variabilità. Gli indici di dispersione possono essere assoluti o relativi. I primi sono espressi nella stessa unità di misura impiegata nella rilevazione i secondi sono liberati dall’influenza dell’unità di misura adottata per la rilevazione e consentono il confronto tra le variabili di fenomeni diversi. A questo gruppo appartengono gli indici normalizzati essi variano tra zero e uno e questi due valori indicano i casi estremi di assenza di variabilità e di massima variabilità.
c) tre variabili che riflettono il processo e il tipo di immigrazione:
durata totale di residenza in Italia; status di immigrato illegale;
un indice della conoscenza della lingua italiana.
d) un gruppo di variabili che indicano il settore produttivo in cui gli immigrati
sono impiegati: manifatturiero, commerciale e altri servizi.
La funzione del salario viene, infine, compattata in una funzione
matriciale con cinque matrici che includono le variabili
demografiche, le variabili sul processo di immigrazione,
indicatori di capitale umano, le condizioni del mercato del lavoro
e le condizioni n cui si trovano a lavorare gli immigrati:
3 ) y = α + X1 β1 + X2 β2 + X3 β3 + X4 β4 + X5 β5 + u
dove y è il vettore che indica il logaritmo naturale del salario mensile (ln W)
di ciascun individuo del campione, βj è un vettore di parametri per il gruppo
generico di variabili j e u è l’errore standard.
Alcuni problemi possono presentarsi nella stima dell’equazione (3) usando il
metodo ordinario ei minimi quadrati:
Prima di tutto, se le abilità personali non vengono considerate nelle analisi,
allora, le variabili omesse dalla funzione possono influenzare i risultati e
renderli distorti.
Un secondo problema che presenta la stima per mezzo dell’OLS è che i
residui85 possono avere distribuzione eteroschedastica anche dopo la
trasformazione in logaritmo della variabile dipendente. In questo caso lo
stimatore detto dei minimi quadrati generalizzati (GLS) potrebbe essere
adottato per avere una stima efficiente e un corretto test delle ipotesi.
In fine, il problema più rilevante è quello detto della sample selectivity.
85 Differenze tra i valori osservati della variabile dipendente e quelli teorici forniti dalla funzione.
Questo problema sorge quando si deve stimare una funzione
del salario usando un sotto-campione in cui tutte le
osservazioni presentano un valore positivo della variabile
dipendente (il salario). Escludere dal campione coloro che non
lavorano può portare all’autoselezione del campione, rendendo
la media della distribuzione residuale, diversa da zero e
correlata con la variabile indipendente. Per ovviare a questo
problema che rende le stime dell’OLS inconsistenti e distorte
verso il basso si può usare una procedura a due stadi:
nel primo stadio viene applicato all’intero campione un modello
di probabilità lineare in cui la variabile dipendente è una dummy
che assume valore positivo per le unità con salario positivo,
mentre assume valore uguale a zero per tutte le altre variabili.
Le stime dell’OLS previste da questo tipo di modello vengono
trasformate sottraendole a ciascuna unità e la nuova variabile
viene usata nel modello della funzione salariale ristretto al
campione con valori solo positivi dei salari.
Quando viene usata la procedura a due stadi, lo stimatore
ordinario dei minimi quadrati diventa consistente e può essere
addirittura più affidabile di altri stimatori, specialmente quando il
campione è sufficientemente ampio.
Dall’analisi emergono chiaramente le differenze nell’integrazione al mercato
del lavoro, tra uomini e donne e per diverse aree geografiche. Lo stato di
legalità dell’immigrato, il sesso e il paese di origine sono fattori così
significativi da non poter essere omessi nell’analisi così come lo sono le
condizioni in cui lavorano gli immigrati, il settore di produzione ed il tipo di
lavoro svolto dai lavoratori stranieri.
L’effetto del sesso del lavoratore, sui salari, non è significativamente diverso
da zero ma la nazionalità dell’immigrato è molto significativa (la provenienza
dall’Africa o dall’America Latina riduce sensibilmente il livello salariale
dell’immigrato). I livelli salariali, poi, sono positivamente correlati all’età e al
livello di esperienza professionale. In generale il capitale umano ha un
impatto positivo sui salari: un alto livello di educazione e la conoscenza della
lingua italiana hanno un effetto positivo e significativo sul salario. Per quanto
riguarda il settore produttivo emerge l’esistenza di bassi salari medi per il
settore dell’agricoltura e dei servizi domestici.
Infine, lo stato giuridico degli immigrati è determinante per il loro livello
salariale: gli immigrati legali mostrano un coefficiente positivo.
Riguardo questo ultimo aspetto, i paesi sud-europei hanno una lunga storia
di lavoro irregolare che, in parte, funziona da richiamo per l’immigrazione
illegale. E’ importante allora sottolineare, in un’analisi empirica, gli effetti
dell’immigrazione irregolare nel mercato del lavoro del paese di
destinazione.
Per valutare se esiste spiazzamento da parte dell’immigrazione irregolare,
rispetto all’occupazione regolare in Italia, Venturini (1999)86, usa stime
dell’Istat delle unità di lavoro irregolare. Tali stime comprendono varie voci
tra cui sono presenti gli stranieri che rappresentano la voce di componente
di lavoro irregolare in maggior crescita. La stima viene effettuata su di una
funzione di produzione differente per vari settori in un periodo che va dal
1980 al 1995.
L1it = a1 + b10 Yit + b11 W1it + b12 W2it + b13 W3it + e1it
86 Cfr. Venturini A. Do immigrants Working illegally Reduce the Native’s Legal Employmentin Italy? In Journal of Population Economics, 1999
L2it = a2 + b20 Yit + b21 W1it + b22 W2it + b23 W3it + e2it
L3it = a3 + b30 Yit + b31it W1it + b32 W2it + b33W3it + e3it
Dove Ljit è la domanda di lavoro di tipo j ( con j = 1 per il lavoro regolare; j = 2
per il lavoro irregolare nazionale; j = 3 per il lavoro irregolare straniero), al
tempo t nel settore i.
I risultati aggregati mostrano che l’attività dei lavoratori nel settore informale,
in generale, spiazza l’occupazione formale ma l’impatto è trasurabile. In
particolare, un aumento dell’1% del lavoro irregolare degli stranieri riduce
dello 0,01% l’occupazione regolare.
Un aumento dell’attività irregolare dei nazionali ha un effetto più pronunciato
sul lavoro regolare (-0,02%).
Questo si spiega perché i nazionali che lavorano irregolarmente sono più
omogenei ai nazionali che lavorano nel mercato regolare e quindi sono più
competitivi.
L’effetto competitivo tra lavoratori stranieri irregolari e lavoratori nazionali
regolari non è uniforme per tutti i settori: settori come l’agricoltura e le
costruzioni sono maggiormente danneggiati dal fenomeno mentre, settori
come i servizi non destinabili alla vendita non subiscono nessun danno.
La competizione più elevata, in assoluto, è quella presente nell’agricoltura
dove l’effetto dei lavoratori irregolari nazionali sul lavoro regolare è pari a –
5,5% mentre quello degli stranieri al –3,8%.
In generale, da questa analisi si deduce che l’effetto del lavoro straniero
irregolare sul lavoro regolare dei nazionali è negativo ma varia da settore a
settore e che, in ogni modo, i danni maggiori li provoca il lavoro irregolare
nazionale.
La rassegna empirica presentata evidenzia come sia difficile generalizzare le
conclusioni in merito agli effetti economici della migrazione e, quindi,
estrarne regole da estendere a tutti i paesi interessati da tale fenomeno.
Tale difficoltà deriva soprattutto dai diversi contesti storici, territoriali ed
economici in cui agisce il fenomeno migratorio.
I paesi del Sud Europa, date le premesse teoriche e le esperienze dei paesi
Nord Occidentali, avrebbero dovuto presentare una realtà fortemente
competitiva tra lavoratori immigrati e lavoratori nazionali.
Questo per via dell’alto livello di disoccupazione presente in tali paesi, la
scarsa flessibilità del mercato del lavoro e la bassa mobilità interna, senza
dimenticare le politiche migratorie poco selettive.
In realtà gli studi empirici effettuati hanno dimostrato che lo piazzamento è
poco significativo e che, in questi paesi, l’effetto più importante di
competizione si è riscontrato, in definitiva, all’interno della particolare realtà
dell’economia sommersa e in particolari settori, quali l’agricoltura e le
costruzioni, dove gli skills professionali richiesti sono praticamente assenti e
la mancanza di contratti e costi di licenziamento rendono minori i costi di
produzione.
Nell’economia regolare la competizione salariale può essere stata ridotta
dalla fissazione delle retribuzioni, attraverso la contrattazione nazionale
nonché, dalla discriminazione dei datori di lavoro che assumono stranieri
solo in assenza di lavoratori nazionali disponibili.
In generale, la visione che deriva da tale analisi è che, per i paesi del Sud
Europa, l’effetto ancora contenuto della migrazione è causato da una
incidenza limitata di questi lavoratori sul mercato del lavoro.
Nel contesto generale, il problema che si pone di fronte a tutti i
paesi di destinazione, ed in particolare ai nuovi paesi (Italia,
Spagna, Portogallo e Grecia) è quello di sviluppare una
adeguata politica migratoria che tenga conto sia dell’elevata
disoccupazione interna dei lavoratori nazionali, che li spinge
verso politiche di chiusura, sia del progressivo invecchiamento
della popolazione attiva, dovuto al basso tasso di natalità che,
invece, li dovrebbe portare ad aprire il mercato del lavoro agli
immigrati.
Anche la grande segmentazione interna dei mercati del lavoro è un
elemento importante da considerare nella scelta di una buona politica
migratoria: la disoccupazione può essere generata non solo da fattori
quantitativi ma anche da fattori qualitativi. E’ verosimile, infatti, che il tasso di
disoccupazione possa crescere per effetto di un mismatch tra domanda e
offerta di lavoro e che questo mismatch possa essere alimentato dalla
presenza di lavoratori con qualifiche diverse da quelle dei nazionali che
disincentivano l’adeguamento della tecnologia produttiva all’offerta di lavoro.
Se nel breve periodo i test empirici, nei paesi sud-europei, non hanno
riscontrato un effetto totalmente negativo degli immigrati sul mercato del
lavoro nazionale, le caratteristiche delle politiche migratorie, poco selettive, e
dei mercati del lavoro, poco flessibili, possono trasformare il ruolo
dell’immigrazione da neutrale, o positivo, a negativo.
4. Evoluzione del fenomeno migratorio in Italia
4.1 Gli italiani nel mondo
Dopo il boom economico degli anni ’50, il nostro paese è
riuscito ad emergere da una condizione di pesante arretratezza
economica che, per diversi decenni, aveva costretto molta parte
della popolazione ad emigrare verso paesi più ricchi ed in grado
di garantire, almeno sulla carta, prospettive di una vita migliore.
Tra la seconda metà del secolo XIX e la prima guerra mondiale,
Il lento e difficile sviluppo dell’economia del paese e dall’altro
lato, il rapido progresso dei paesi d’oltre oceano, spinsero i
lavoratori italiani ad emigrare, attratti dalle opportunità di lavoro
e da una vita più decorosa.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale il fenomeno migratorio
interessò l’Europa e negli stessi anni, anche i paesi del nord
dell’Italia, determinando in tale ultimo caso una migrazione
interna dalle aree meno sviluppate e prevalentemente agricole
del sud, verso il ricco nord industrializzato.
L’emigrazione italiana, pur essendo diminuita drasticamente
intorno agli anni ‘70, è ancora una realtà del nostro paese
anche se ha assunto caratteristiche differenti rispetto al
passato.
Infatti, nell’ultimo decennio si sono registrati esodi di lavoratori
specializzati verso paesi esteri che offrono migliori prospettive
di realizzazione professionale ed economica, determinando la
così detta fuga dei cervelli.
Tale definizione si riferisce in particolare a tutte le migrazioni di qualità come
le migrazioni intellettuali, quelle di lavoratori altamente o iper-specializzati e
quelle di particolari talenti dello sport e dell’arte.
La fuga dei laureati italiani all’estero è un fenomeno di cui
spesso si discute senza, però, l’appoggio di dati significativi.
Analizzando i flussi di laureati italiani che vanno all’estero il
fenomeno appare drammatico ed in crescita. Mentre all’inizio
degli anni ’90 meno dell’1% dei nuovi laureati emigrava
all’estero, alla fine degli anni ’90 circa il 4% dei nuovi laureati
lascia l’Italia87 .
I dati più recenti evidenziano tre aspetti del fenomeno: innanzi
tutto, la percentuale di laureati che lascia il paese è
quadruplicata tra il 1990 e il 1999.
In secondo luogo, tale tendenza all’aumento, è comune a
laureati sia che provengono dal nord sia che provengono dal
sud dell’Italia. Tuttavia, in termini assoluti è il nord ad avere la
maggiore emorragia di laureati. Nel 1999 il 7% dei laureati del
nord ha lasciato il paese contro solo il 2% dei laureati del sud.
Da ultimo, negli anni ’90 sono aumentati non soltanto i laureati
(con un’età compresa tra i 26 e i 45 anni) che lasciano il paese,
ma anche la percentuale di emigranti con età superiore a 45
anni e con laurea è più che quadruplicata tra il 1991 e il 199988.
In particolare tale crescita non pare essere stata bilanciata da
laureati di altri paesi che si sono trasferiti in Italia.
87 analisi AIRE Anagrafe Italiani Residenti all’Estero88Cfr. Becker,Ichino e Peri "How Large is the Brain Drain from Italy ? 2000
Le destinazioni di questi laureati sono all’interno dell’Europa per
lo più Francia, Germania e Regno Unito, gli USA tra i paesi
esteri.
Anche molti altri paesi dell’Unione Europea sono stati
interessati da questo tipo di esodo. L’Europa, infatti, nonostante
abbia il numero di dottorati più alto rispetto agli altri paesi,
proporzionalmente ha il numero di ricercatori minore: questi
sono il 5,36 per mille rispetto alla popolazione attiva contro
l’8,66 degli USA e il 9,72 del Giappone. Partendo da questi
numeri e da altre ricerche condotte su di un campione di 769
centri di ricerca pubblici, la Commissione europea ha deciso di
intraprendere nuove azioni al fine di arginare la fuga dei
cervelli.
Se si considera che autorevoli studi89 dimostrano che nei paesi
avanzati l’aumento del capitale umano è responsabile di una
importante fetta della crescita economica, emerge la gravità del
fenomeno ed i conseguenti problemi che possono derivare da
tale tipo di emigrazione.
Jones (2002)90 mostra che per gli USA un terzo della crescita
nel reddito pro-capite dal 1950 ad oggi è dovuto alla maggiore
istruzione. I laureati, infatti, sono la parte della forza lavoro che
89 Cfr. Lindsay Lowell B, Findlay A, Migration of High Skilled Persons from Developing Countries: impact and Policy Responses in International Migration Papers n. 44- ILO, Geneve90 Cfr. in Becker,Ichino e Peri "How Large is the Brain Drain from Italy ? 2000
promuove la ricerca, l’innovazione e talvolta anche
l’imprenditoria.
L’Italia, dunque, a partire dalla metà degli anni ’90 ha perso un
ingente volume di capitale umano poiché, dal 1996, la
percentuale di laureati tra gli emigranti è risultata maggiore di
quella della popolazione residente, così che il capitale umano
pro-capite (non solo quello totale) si è ridotto a causa del flusso
migratorio.
La crescente perdita di cervelli può avere, quindi, conseguenze
gravi per la crescita di un paese.
Esaminando in generale il fenomeno dell’emigrazione italiana,
risulta che attualmente sono 4 milioni gli emigrati italiani che
risiedono all’estero e oltre 60 milioni gli oriundi, discendenti dei
vari flussi migratori che hanno caratterizzato l’Italia del secolo
scorso91.
Con i 4 milioni di connazionali sparsi in 198 paesi del mondo,
l’Italia, tra i paesi dell’UE, è quello con il più alto numero di
emigranti e, a livello mondiale, tra i paesi sviluppati, è quello
con la più alta incidenza di cittadini emigrati rispetto alla
popolazione presente nel paese: a fronte di 100 italiani che
vivono in patria ve ne sono 7 che risiedono all’estero,
rappresentando così il 2,5% dei 175 milioni di emigranti nel
mondo92.
91 Cfr. Caritas Dossier Statistico Immigrazione 2003 elaborazione dati Aire ed Anagrafe Consolare.92 Stime ONU- Population Division, NY
In merito ai paesi di destinazione, l’emigrazione italiana ha
interessato maggiormente l’Europa con 2.236 milioni di
presenze. L’altro grande polo di attrazione per chi parte
dall’Italia è il continente americano nel quale sono presenti
attualmente 1.517 milioni di italiani. Rispetto al 2001, inoltre, vi
è stato un incremento di oltre 40 mila unità nei paesi
dell’Unione Europea ed un decremento di circa 10 mila per i
paesi dell’America Latina.
La Germania con 718.563 soggiornanti italiani è il paese che ne
ospita di più, seguita dall’Argentina con 587.434 e dalla
Svizzera con 521.146 [Grafico 1].
Grafico 1
Fonte: Aire-Anagrafe Consolare
Per quanto riguarda le regioni di origine degli emigranti italiani
nel mondo, per avere una visione di insieme si possono
suddividere le province italiane in tre fasce. Un primo gruppo di
province, 25, ha oltre 50 mila emigrati e comprende, da un lato,
le province meridionali, caratterizzate storicamente dalla
migrazione, dall’altro, le province dei grandi centri urbani del
centro-nord.
Un secondo gruppo comprende 52 province con un numero di
emigrati maggiore di 10 mila unità. Si tratta di numerosi
capoluoghi di medio piccole dimensioni (ad esempio Vibo
Valentia, Benevento, Siracusa) che negli anni passati hanno
sperimentato un consistente flusso in uscita di migranti.
In questo caso gli emigrati, pur non essendo un numero alto in
assoluto, hanno avuto un’incidenza del 15% sui residenti, che
rappresenta il doppio della media nazionale.
Il terzo gruppo comprende un segmento di poche province che
hanno avuto un flusso di migranti in uscita inferiore alle 10 mila
unità e che sono state toccate dal fenomeno migratorio solo
marginalmente. La maggior parte di queste province si trova
nella zona nord-occidentale del paese.
Se fino agli anni ’70 l’Italia, è sempre stata, dunque, un paese
di partenza della migrazione, in quello stesso periodo si è
trovata, quasi inconsapevolmente, trasformata da paese di
emigrazione a paese di immigrazione.
4.2 L’Italia come paese di immigrazione
Il repentino cambiamento che ha subito l’Italia diventando, da
paese di emigrazione, paese di immigrazione, è stato generato
da una molteplicità di cause.
Dalla metà del novecento, il paese ha vissuto una fase di
espansione economica che ha portato all’aumento del
benessere interno e al miglioramento della qualità della vita.
Conseguentemente c’è stata una diminuzione di interesse
all’emigrazione da parte dei connazionali ed un aumento di
attrattiva, verso il nostro paese, da parte dei lavoratori dei paesi
più poveri. Un ulteriore e determinante elemento di attrazione
verso l’Italia è stato il progressivo invecchiamento della
popolazione che, in generale, ha investito tutti i paesi ricchi del
Mondo.
Infatti, le società che invecchiano hanno bisogno di più forza
lavoro nel settore dei servizi personali e tale forza lavoro è,
sempre di più, rappresentata dagli immigrati. Accanto a questo
motivo prettamente demografico è sicuramente presente un
aspetto di carattere strettamente economico: la forte presenza,
nel nostro paese, di un doppio mercato, regolare ed irregolare,
ha stimolato la domanda di lavoro immigrato più a buon
mercato.
Infine, non è da sottovalutare, ai fini dell’espansione del
fenomeno immigratorio nella penisola, l’evoluzione di una
società nuova per stile di vita e di cultura. L’espandersi dei
contatti culturali ed economici con gli altri paesi, infatti, ha
stimolato la mobilità internazionale trasformando il nostro paese
in un bacino di accoglienza per numerose e variegate
nazionalità.
Il numero dei residenti stranieri è aumentato, quindi, da 143.838
nel 1970 a 300.000 nel 1980 raggiungendo verso la metà degli
anni ’80 il mezzo milione. In seguito, negli anni ’90 il flusso di
popolazione straniera è cresciuto tanto da raggiungere la quota
di circa un milione e mezzo di stranieri [grafico 2].
Grafico 2
Fonte: ISTAT
I dati del Ministero dell’Interno, elaborati dall’Istituto Nazionale
di Statistica, permettono di descrivere un quadro generale delle
presenze degli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia,
controllandone la diversificazione e la continua evoluzione. Il
trend di crescita che si è andato delineando a partire dagli anni
’90 viene confermato dalle oltre 700.000 domande di
regolarizzazione presentate fino a novembre 2002 e convertite
in permessi di soggiorno nell’arco del 2003. Ad oggi le
presenze regolari degli stranieri rappresentano circa il 4% della
popolazione, pari a 2.400.000 stranieri, compresi i 700.000 che
hanno presentato la domanda di regolarizzazione.
La particolare posizione geografica del nostro paese, fin dai
tempi più antichi, ha fatto si che l’Italia abbia rappresentato, da
sempre, l’approdo per una moltitudine di popolazioni
provenienti dai più diversi paesi del mondo.
Molto spesso la penisola non è stata altro che una via di
passaggio per mete più remote, altre volte, invece, ha
rappresentato la vera e propria destinazione di viaggi più o
meno lunghi. Questo valeva nel passato così come continua a
valere nel presente.
L’Italia costituisce, infatti, il crocevia per i flussi immigratori che
provengono sia dall’Africa settentrionale che da quella sub-
sahariana, dall’Europa Balcanica ed addirittura dalla più lontana
Asia.
Le ragioni della diversissima composizione degli immigrati in
Italia vanno ricercate anche in fattori socioculturali. Il caso degli
immigrati di nazionalità filippina ne è un esempio: essendo
legati questi cittadini al nostro paese dalla comune fede
cattolica, trovano in Italia un ambiente accogliente, quanto
meno dal punto di vista culturale.
Al 31 dicembre 2002, i dati confermano che i cittadini stranieri
regolarmente soggiornanti nel nostro paese provengono da ben
191 Stati diversi e l’80% degli immigrati corrisponde a 30
nazionalità differenti.
A fronte di un tale policentrismo dell’Italia si assiste, però, ad un
fenomeno di stabilizzazione della migrazione solo relativamente
a sei paesi esteri che rappresentano, quindi, i principali poli di
spinta verso il paese.
Tra questi paesi il Marocco è il bacino maggiore di immigrati
che stazionano in modo permanente (172.834) seguito
dall’Albania (168.963), dalla Romania (95.834), dalle Filippine
(65.257) e dalla Cina (62.314).
Tale tendenza, inoltre, si è riscontrata non solo per il 2002, ma
per tutti gli anni precedenti a partire dal 1997 [grafico 3].
Grafico 3
Fonti: ISTAT- Ministero dell’Interno
Il motivo di un simile andamento è da ricercare nella particolare
fase di consolidamento del fenomeno migratorio che sta
vivendo l’Italia, analogamente ai paesi del Sud Europa a
recente tradizione migratoria.
Tale consolidamento porta come immediate conseguenze i
ricongiungimenti familiari dei precedenti immigrati, la creazione
di comunità etniche organizzate che agevolano l’immigrazione
di individui della stessa nazionalità e, in parte, la stipulazione di
accordi governativi con alcuni paesi di origine. Tutte queste
attività, non fanno altro che ingrossare le fila delle comunità di
immigrati precedentemente stanziatesi sul territorio, facendo
mantenere, nel tempo, un certo equilibrio nella composizione
dei cittadini stranieri.
Inoltre, la ripartizione continentale degli immigrati conferma il
trend iniziato negli anni ’90, che registra un aumento degli
immigrati provenienti dai paesi ad ex economia centralizzata
dell’Europa dell’Est ed in modo particolare, da Albania e
Romania che, da sole, rappresentano i due terzi del totale
dell’area dell’Europa orientale.
Gli europei, nel loro complesso rappresentano il primo
continente per numero di presenze con circa 600.000 immigrati,
seguiti dall’Africa, dall’Asia e dall’America.
Ritornando ai molteplici motivi che spingono gli immigrati a
lasciare i loro paesi di origine viene riconfermato il principio che
le migliori prospettive di vita in ciascuno dei diversi aspetti:
economici, sociali, politici, culturali e religiosi, determinano la
spinta principale per l’individuo a scegliere un paese estero,
abbandonano la madrepatria.
Se si fa una ripartizione dei cittadini stranieri, soggiornanti in
Italia, raggruppati per continenti o aree di provenienza e per
motivi di soggiorno, si osserva che La Russia e l’America
settentrionale spiccano per un’elevata incidenza dei motivi
familiari. Nel caso della Russia il dato è superiore al 55%
mentre, tra i due paesi dell’America settentrionale l’incidenza è
alta soprattutto per gli statunitensi (52,2%). Anche se con valori
inferiori, i paesi dell’Europa centro-orientale ed in particolare
Ucraina, Macedonia ed Albania, presentano un’alta
percentuale di immigrati che si ricongiungono ai familiari già
presenti sul territorio italiano (rispettivamente del 43,9%; 40% e
38,8%) [grafico 4]
Grafico 4
Fonte: Ministero dell’Interno
Sono particolarmente accentuati, invece, i motivi di lavoro tra i
cittadini dell’Africa occidentale (90,1% per il Senegal),
dell’Africa settentrionale (70,7% per la Tunisia), dell’Asia
orientale (78,1 per i filippini e 64% per i cinesi) e dell’Asia
centro-meridionale (73,8% per il Bangladesh e 70,5% per il
Pakistan) [grafico 5].
Grafico 5
Una piccola percentuale degli immigrati, poi, si trova in Italia per
motivi religiosi e tra questi spiccano la Spagna (26,9%), l’India
(16,5%) e il Brasile (12,7%) [grafico 6]
Grafico 6
Dati: Ministero dell’Interno
Infine, sono molti anche gli immigrati che decidono di stabilirsi
nel nostro paese per motivi di studio tra cui spiccano, alcuni
maggiori paesi europei nonché Gli Usa, tra i paesi non
comunitari. [grafico 7].
Grafico 7
Fonte: Ministero dell’Interno
4.3 Inserimento territoriale e integrazione sociale degli
immigrati
Quando si osserva la migrazione in Italia ci si rende conto di
avere di fronte un fenomeno di dimensioni consistenti e diffuso
su tutto il territorio nazionale, compresi i piccoli centri e le zone
agricole. Tuttavia l’inserimento territoriale, all’interno delle
regioni del paese, non risulta essere omogeneo né ora, né lo è
stato nel passato all’epoca dei primissimi insediamenti da parte
di immigrati.
Le regioni del nord del paese, così come hanno attirato e
continuano ad attirare gli stessi lavoratori nazionali provenienti
dal sud, sono il principale polo d’attrazione per i flussi migratori.
Nel 2002 la Lombardia si è confermata la regione con il più alto
numero di soggiornanti (348.298) seguita dal Lazio (238.918) in
cui la sola città di Roma e provincia, è l’epicentro di un flusso
consistente di immigrazione.
In ordine di grandezza le altre regioni che presentano un’alta
densità di popolazione straniera sono il Veneto, del ricco nord-
est (154.632) e, a sorpresa, la Toscana (111.458) che è
arrivata a superare il Piemonte (107.563) che, fino al 2001,
rappresentava la terza regione per presenze di soggiornanti
stranieri.
Questo tipo di distribuzione territoriale degli immigrati non fa
altro che confermare la caratteristica dell’immigrazione che
investe il nostro paese: il lavoro è la principale ragione della
presenza degli immigrati sul territorio e le regioni del centro-
nord offrono sicuramente migliori e maggiori prospettive rispetto
al Meridione.
Analizzando la distribuzione qualitativa e quantitativa, per aree
geografiche, troviamo che nel settentrione su 25,5 milioni di
abitanti, si stima che 1,4 milioni siano immigrati tra titolari di
permessi di soggiorno, minori non registrati e persone che
abbiano fatto richiesta di regolarizzazione.
Questo significa che in media, ogni 17 abitanti del nord Italia,
uno è straniero.
La ricchezza della zona e la sua economia dinamica,
rappresentano per l’immigrato la possibilità di elaborare un
progetto a medio o lungo termine con la prospettiva di un
insediamento permanente. Progetti simili rafforzano le comunità
etniche presenti sul territorio e la loro organizzazione e questo,
a sua volta, rafforza il flusso costante e consistente dei nuovi
arrivi.
La maggior parte degli immigrati del nord vive nel nord-ovest
(835.000) con la Lombardia in testa alle regioni di destinazione,
come abbiamo visto.
Il nord-est, invece, complessivamente ospita una quantità di
poco superiore a quella della sola regione Lombarda. Entrambe
le zone settentrionali, tuttavia, condividono il primato nazionale
dei più elevati tassi di incremento annuo dei soggiornanti.
Per quanto riguarda la nazionalità degli immigrati, il grado di
differenziazione della popolazione straniera per nazionalità, è
più basso rispetto a quanto si osserva su scala nazionale. La
nazionalità estera più numerosa è quella dei marocchini, così
come lo è su tutto il territorio nazionale, e la loro prevalenza è
uniforme su tutto il settentrione.
Un discorso a parte, comunque molto importante, riguarda la
loro integrazione culturale e l’inserimento sociale.
Gli indici di maggiore utilità per osservare tale aspetto sono: la
presenza femminile, la quota di coniugati, di coniugati con
prole, di matrimoni misti ed infine, la frequenza scolastica dei
figli degli immigrati ed il loro tasso di scolarizzazione.
Nel settentrione la presenza femminile è leggermente inferiore
rispetto alla media nazionale del 46,7% (45,3% nel nord-ovest e
44,1% nel nord-est).
Le quote di coniugati e di coniugati con prole sono invece
superiori alla media nazionale mentre, oltre la metà (55%) di
tutti i matrimoni misti celebrati in Italia nel 2000 hanno avuto
luogo proprio nel nord del paese.
Per quanto riguarda gli stranieri minori, questi hanno tassi di
scolarizzazione che sono, in assoluto, i più alti d’Italia: nel nord
gli iscritti a scuola sono 121.000 di cui oltre 68.000 solo nel
nord-ovest .
Grafico 8
Fonte: ISTAT-Ministero dell’Interno
Grafico 9
Fonte: ISTAT-Ministero dell’Interno
Il confronto della realtà settentrionale con quella della zona
centrale del paese consente di osservare alcuni aspetti
peculiari di quest’ultima area.
Innanzi tutto, su di una popolazione complessiva di 10,9 milioni
di abitanti, i 705.000 stranieri soggiornanti rappresentano il
6,5% della popolazione. In media, uno straniero ogni 15
abitanti.
Il centro, pur rappresentando un forte polo di attrazione, non è
sempre la meta definitiva di radicamento. A questo proposito il
ruolo del Lazio è quanto mai rappresentativo. Quest’area, ed in
particolare la provincia romana, vanta un elevato policentrismo
con 183 nazionalità diverse presenti sul territorio, a fronte delle
191 presenti in tutta la nazione.
In questo contesto altamente variegato, il grado di integrazione
risulta oscillante a seconda degli indicatori di volta in volta
considerati.
Le percentuali di stranieri coniugati (38,8%), di coniugati con
prole (8,4%) e di minori (19,4%) sono sensibilmente più basse
rispetto alla media nazionale (rispettivamente 43,1%; 11,5%; e
21,3%) ed ancora di più rispetto ai valori osservati nel nord del
paese. Questo testimonia due fenomeni: la probabile
temporaneità dello stanziamento ed un processo di inserimento
lento e difficoltoso. Di contro, si osserva una forte presenza di
stranieri ultrasessantenni (8,5%) che è notevolmente superiore
a quella di qualunque altra zona del paese, che non supera mai
il tetto del 6%.
Grafico 10
Fonte: ISTAT-Ministero dell’Interno
Infine, la zona meridionale, comprendente sia le regioni
peninsulari del sud che le isole, secondo le stime, ospita
complessivamente oltre 361.000 soggiornanti stranieri pari ad
un settimo dell’intera popolazione straniera della penisola. Il
72% di questi immigrati soggiorna nel sud, il 28% nella isole.
La peculiarità del Meridione è che, da un lato rappresenta la
porta di ingresso per la quasi totalità degli immigrati provenienti
da tutto il mondo, dall’altro con le sue carenze strutturali non
permette agli immigrati di considerare il territorio come un
possibile candidato per uno stanziamento definitivo.
La così detta questione meridionale, quindi, ha investito non
solo i lavoratori nazionali del sud, ma anche i lavoratori stranieri
in cerca di fortuna nel nostro paese.
Da ciò deriva che l’incidenza della popolazione straniera sul
territorio del sud è la più bassa di tutta l’Italia. In media
nemmeno uno straniero per 50 abitanti.
Allo stesso modo anche il tasso di diversificazione, a livello di
nazionalità degli immigrati, è più basso rispetto alle altre zone.
Le nazionalità presenti sul territorio sono 163 nel sud e 155
nelle isole.
La nazionalità più numerosa in tutte le regioni del sud è quella
Albanese, tranne che in Campania, dove gruppo più numeroso
è quello degli americani per la presenza della base NATO.
Nelle isole sono i tunisini che detengono il primato come
gruppo etnico più diffuso.
La situazione socio-economica del territorio di riferimento non
favorisce un elevato grado di integrazione degli immigrati
rispetto al resto del paese ed i dati lo confermano. Da un lato
abbiamo che il tasso di soggiornanti stranieri coniugati è molto
alto (46%) come lo è quello dei coniugati con prole (13,9%) e
quello dei minori (22,1%).
Dall’altro, è bassissima l’incidenza di matrimoni misti sul totale
di quelli celebrati nella zona (3% nel sud e 2,5% nelle isole) ed
è contenutissimo anche il tasso di scolarizzazione dei minori
immigrati con un’incidenza degli scolari stranieri su quelli
nazionali di quest’area, pari allo 0,6% nel sud e allo 0,5% nelle
isole.
Grafico 11
Fonte: ISTAT-Ministero dell’Interno
4.4 Il mercato del lavoro italiano ed il livello di integrazione
degli stranieri
Al di là degli aspetti sociali e culturali, seppur molto importanti,
ciò che sembra alimentare maggiori conflitti nell’opinione
pubblica, è il grado di integrazione dei lavoratori immigrati
all’interno del mercato del lavoro italiano. La preoccupazione
dei lavoratori nazionali e dei decisori politici, che hanno il
compito di gestire e controllare che il livello di benessere
pubblico non diminuisca, deriva soprattutto dal particolare
andamento economico che in questi anni sta interessando
l’Italia ed il mondo in generale.
Nel 2002, infatti, l’economia mondiale ha continuato a
manifestare segnali di debolezza anche se ha fatto registrare
un lieve incremento del relativo tasso di crescita, che è passato
dall’1,2% del 2001, all1,9% nel 2002.
Sulla situazione economica hanno sicuramente influito e
continuano ad influire, le difficoltà derivanti dalle grandi tensioni
politiche internazionali, la conseguente generale incertezza dei
mercati finanziari, aggravata dall’impennata del prezzo del
petrolio.
All’interno di una simile cornice la situazione italiana non mostra
di essere controcorrente: il tasso di sviluppo del nostro paese è
pari alla metà di quello dei paesi dell’Unione Europea. Peraltro
l’inflazione che ha raggiunto un picco del 2,5% è stata
aggravata dal passaggio dalla lira all’euro con conseguenti
arrotondamenti dei prezzi dei beni per eccesso.
Negli anni che vanno dal 1995 al 2002 il numero dei lavoratori
italiani è aumentato, in media, di 270.000 unità all’anno mentre,
solo nel 2002 l’aumento dell’occupazione è stato dell’1,1%.
Nello stesso arco di tempo la crescita media del PIL è stata
dell’1,7% mentre, nella precedente fase espansiva del periodo
1985-1991 il PIL era cresciuto del 2,7% e l’occupazione di
214.000 unità.
La maggior crescita dell’occupazione dell’ultimo periodo può
essere vista come il frutto della terziarizzazione
dell’occupazione (ossia dell’aumento del peso dei lavoratori
impiegati nel settore dei servizi e quindi a più bassa
produttività) e della diffusione di tipologie contrattuali che hanno
abbassato il costo del lavoro. A tale proposito, nel Febbraio
2003 è stata approvata in via definitiva la riforma del mercato
del lavoro, recependo le indicazioni contenute nel “libro bianco”
a cura di Marco Biagi. Tale riforma ha come obiettivo quello di
conferire maggiore flessibilità alle forme contrattuali, di
liberalizzare il collocamento e di introdurre nuove norme sulla
collaborazione coordinata e continuativa. Tutte queste riforme
riguardano, ovviamente, anche i lavoratori immigrati (INDIS-
Unioncamere 2003).
In tale contesto va analizzata la situazione occupazionale in
Italia, considerando che nel 2002 gli occupati sono stati
21.829.000.
La ripartizione per settori di attività vede prevalere i servizi con
il 63,2% e, all’interno di ciascun settore, i lavoratori dipendenti
sono di gran lunga superiori ai lavoratori autonomi. L’incidenza
delle donne è del 31,9% in agricoltura, del 23,9% nell’industria
e del 45,2% nei servizi.
Tra la totalità degli occupati il 91,4% è occupato a tempo pieno
ed il 90,1% a tempo indeterminato.
Per quanto riguarda la particolare e nuova tipologia del lavoro
interinale, che riguarda quei contratti di lavoro con i quali i
lavoratori vengono assunti da un’agenzia interinale per essere
utilizzati temporaneamente dalle aziende che ne fanno
richiesta, nel 2002 sono stati inseriti nel mondo del lavoro
869.000 risorse con un aumento del 39% rispetto al 2001.
Tra questi lavoratori il 30,3% ha meno di 25 anni, il 23,4% ha
un’età compresa tra i 25 e i 29 anni ed il 24,3% è tra i 30 e i 34
anni.
Quanto al grado di istruzione, il 44% ha un diploma e il 7,5%
una laurea. La durata degli incarichi è per l’87% di meno di sei
mesi e solo per il 4% di un intero anno.
L’altra faccia della medaglia è rappresentata dalla
disoccupazione. Prendendo a riferimento, in un primo
momento, solo la disoccupazione dei cittadini italiani, si può
osservare come nel periodo 1988-2002 il tasso di
disoccupazione sia stato mediamente del 10,6%, inferiore solo
a quello della Spagna con il 12,2%. Dalla metà degli anni ’90,
poi, il tasso di disoccupazione è andato riducendosi per
raggiungere un livello, nel 2002 del 9% [tabella 1].
Tabella 1
Tasso di disoccupazione in Italia
(1993-2002)
Anno Tasso Anno Tasso
1993 10,10% 1998 11,80%
1994 11,10% 1999 11,40%
1995 11,60% 2000 10,60%
1996 11,60% 2001 9,50%
1997 11,70% 2002 9%
Fonte: ISTAT
Anche in questo ambito, è importante definire le categorie di
lavoratori ed osservare le relative differenze: il tasso di
disoccupazione femminile è del 12,2% mentre, quello maschile
è del 7%.
La disoccupazione di lunga durata ha un tasso del 4,1% a
livello nazionale mentre, a livello regionale si nota che, nel
nord-ovest è dell’1,2%, nel nord-est dello 0,6%, nel centro del
2,6% e nel Mezzogiorno del 9,3%.
Infine, i giovani (tra i 15 e i 24 anni) presentano un tasso di
disoccupazione del 24% (11,5% nel nord-ovest, 6,4% nel nord-
est, 18,7% nel centro e 42,6% nel Mezzogiorno).
A fronte di tali livelli di disoccupazione dei lavoratori nazionali è
interessante osservare quali sono i valori che caratterizzano la
disoccupazione degli stranieri residenti in Italia.
Innanzi tutto è importante specificare che la definizione della
forza lavoro immigrata e della sua disoccupazione è differente
rispetto a quella che si dà per i nazionali. La definizione della
forza lavoro immigrata, infatti, è basata su criteri prettamente
giuridici: sono forze lavoro i cittadini stranieri titolari di un
permesso di soggiorno per motivi di lavoro o per motivi ad esso
assimilabili
(i coniugi che si sono ricongiunti per motivi familiari e gli
studenti autorizzati a svolgere un’attività lavorativa part-time).
Analogamente, la definizione di disoccupato per l’immigrato
comprende tutti quelli che sono registrati dalle questure in
attesa di occupazione e quelli iscritti alle liste di collocamento.
Così come i disoccupati italiani vanno rapportati alle forze
lavoro, anche il numero dei disoccupati immigrati va calcolato
sul numero dei cittadini stranieri, autorizzati a svolgere
un’attività lavorativa.
Al 31-12-2002 il numero degli stranieri senza lavoro era di
43.116 rapportato agli stranieri titolari di permesso di soggiorno
che, sempre nello stesso periodo, era di 834.478, con un tasso
di disoccupazione del 5,2%.
Anche nel caso degli immigrati le differenze per area geografica
sono consistenti: nel nord-ovest il tasso di disoccupazione è in
media del 4,9% [grafico 12].
Grafico 12
Fonte: ISTAT-Ministero dell’Interno
Nel nord-est il tasso di disoccupazione degli immigrati è in
media del 3,9% [grafico 13].
Grafico 13
Fonte: ISTAT-Ministero dell’Interno
Al centro la disoccupazione degli immigrati raggiunge il tasso
medio del 4,5% [grafico 14]
Grafico 14
Fonte: ISTAT-Ministero dell’Interno
Infine, nel sud (5,6%) e nelle isole (8,1%), il tasso di
disoccupazione medio degli immigrati è al di sopra della media
nazionale con punte del 18,8% in Calabria e un sorprendente
2,9% in Abruzzo [grafico 15].
Grafico 15
Fonte: ISTAT-Ministero dell’Interno
E’ importante sottolineare che i dati riportati fanno riferimento
agli immigrati regolari e soprattutto agli immigrati regolari
impiegati regolarmente. Non è da sottovalutare l’impatto che la
migrazione illegale e l’impiego irregolare possano avere su tali
numeri.
4.4.1 Le assunzioni dei lavoratori immigrati per settori di
produzione e ripartizione territoriale
Il confronto tra il livello di disoccupazione dei nazionali e quello
degli immigrati mostra che, in rapporto alle due rispettive forze
lavoro, il livello di disoccupazione nazionale è più alto di quello
degli immigrati (9% per i primi contro il 5,2% dei secondi). Un
dato simile indurrebbe a considerare che non esista alcun tipo
di conflitto tra i lavoratori nazionali e quelli immigrati in quanto
l’offerta di lavoro degli immigrati sembra essere assorbita
adeguatamente dal mercato interno del nostro paese.
Le conclusioni in merito non possono, tuttavia, essere raggiunte
troppo in fretta fermo restando che ci troviamo di fronte ad una
continua e consistente crescita del flusso degli immigrati nel
nostro paese.
In proposito le Istituzioni giocano un ruolo determinante
attraverso le iniziative che intendono intraprendere.
Per fare una previsione sul fabbisogno della nuova
manodopera in generale, dal 1998 il Ministero degli Interni e
Unioncamere, hanno messo a punto un sistema chiamato
Excelsior. Tale sistema deve fare da supporto alla
programmazione dei flussi da parte del Governo e, dal 1999 la
rilevazione è stata estesa anche ai lavoratori extracomunitari. A
questo scopo viene preso in considerazione l’universo delle
imprese private iscritte al Registro delle imprese delle Camere
di Commercio, ad esclusione di settori quali la Pubblica
Amministrazione, le aziende pubbliche del settore sanitario,
unità scolastiche ed universitarie pubbliche, organizzazioni
associative, lavoratori domestici e lavoratori stagionali. I dati di
previsione del Sistema informativo Excelsior confermano il
carattere strutturale del fabbisogno di lavoro immigrato. Tale
bisogno, inoltre, a causa del calo demografico e del suo impatto
sulle forze lavoro, tenderà ad aumentare coinvolgendo nuovi
settori occupazionali, non più ristretti ai livelli bassi della
gerarchia professionale.
Per il 2003 l’Excelsior ha previsto un livello della domanda di
lavoratori immigrati pari a 224.000 unità a fronte delle 164.000
unità del 2002 e delle 150.000 unità del 2001.
Tale aumento di domanda di lavoratori non comunitari sembra
essere dovuto alla carenza di manodopera locale nelle zone più
sviluppate e alla copertura di posti a bassa qualificazione. Nel
nord-est l’incidenza dei lavoratori stranieri sale al 37,2% di cui,
il 40% è impiegato nell’industria, settore in cui il sottosettore
delle costruzioni è al primo posto in termini di assorbimento
della manodopera straniera. Il restante 60% dei posti di lavoro
previsti, va al settore dei servizi, tra i quali spiccano i servizi alle
imprese e quelli degli alberghi e ristoranti.
Il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, del 15
ottobre 2002, ha previsto che la programmazione annuale, del
Governo, dei flussi migratori deve tener conto del fabbisogno di
manodopera stimato dal Ministero del Lavoro, dell’andamento
occupazionale e dei tassi di disoccupazione a livello nazionale
e regionale, così come del numero dei cittadini non comunitari
iscritti nelle liste di collocamento.
Nel determinare le quote si deve tener conto, inoltre, dell’alto
fabbisogno di manodopera straniera, soprattutto per i lavori a
tempo determinato e stagionale nei settori turistico-alberghiero,
agricolo, dell’edilizia e dei servizi.
Di fatto, l’archivio dell’INAIL denominato Denuncia Nominativa
Assicurato, creato nel 2000, ha registrato che nel 2002 sono
stati assunti lavoratori non comunitari pari a 659.847 unità.
Le grandi aziende sono protagoniste nelle assunzioni degli
immigrati solo per il 41,6% mentre la restante quota di
assunzioni è divisa a metà tra le medie (da 11 a 50 dipendenti)
e le piccole imprese (fino a 10 dipendenti) [tabella 2].
Tabella 2
Assunzioni dei lavoratori immigrati per ampiezza delle aziende
(2002)
2002Numero dei dipendenti % dei lavoratori non comunitari
Fino a 10 28,70%
Da 11 a 50 29,60%
Oltre 50 41,60% Fonte: INAIL/Denuncia Nominativa Assicurati
In media, nel 2002, una ogni nove assunzioni ha riguardato un
lavoratore immigrato (11,5%). Nel 2001 l’incidenza è stata del
9,9%.
I due terzi dei lavoratori assunti (66,5%) si colloca nella fascia
di età 19-35 anni e il 26,6% nella fascia 36-50 anni. Gli
ultracinquantenni assunti, che tra gli italiani sono l’8,5%, tra gli
immigrati sono solo il 2,6%. Anche i minori vengono assunti ma
in misura minore, con un’incidenza del 4,3% tra i quali, però,
non sono pochi i casi di assunzioni nel settore irregolare
[tabella 3]
Tabella 3
Movimento occupazionale degli immigrati per fasce d’età (2002)
Fasce di età % Assunzioni immigrati
% Cessazioni immigrati
Età <18 4,30% 3,50%
Età 19-35 66,50% 66,20%
Età 36-50 26,60% 27,50%
Età >50 2,60% 2,80%
Fonte: INAIL/Denuncia Nominativa Assicurati
Per quanto riguarda la distribuzione geografica delle assunzioni
dei lavoratori immigrati, anche in questo caso il trend che si
registra per i lavoratori nazionali, viene confermato per quelli
stranieri: tali assunzioni avvengono per il 69% al nord, con la
prevalenza del nord-est che da solo assume il 37,8% degli
immigrati. Il 20,5% degli stranieri viene assunto al centro e solo
il 10,5% al sud del paese, di cui il 2,8% nelle isole.
Il numero delle assunzioni al nord è sette volte maggiore di
quelle del sud.
Nell’analizzare i livelli di assunzioni dei lavoratori stranieri, un
aspetto importante lo assume, non solo il loro numero in
assoluto, bensì l’incidenza di queste sul totale delle assunzioni.
A tale proposito, l’area territoriale in cui i lavoratori stranieri
sembrano essere più necessari è il nord-est con un incidenza
del 17,7% delle loro assunzioni sul totale. Ovviamente, subito
dopo, l’area in cui l’incidenza degli stranieri sui lavoratori totali è
maggiore, è il nord-ovest con il 14%. Nel Meridione viene
coinvolto un solo lavoratore straniero su 25 assunzioni [tabella
4].
Tabella 4
Assunzioni di lavoratori non comunitari per aree territoriali
Aree territoriali Incidenza % lavoratori non comunitari sul totale (2002)
Nord-ovest 14%
Nord-est 17,70%
Centro 10,20%
Sud 4%
Isole 3,80%
Italia 11,50%
Fonte: INAIL/Denuncia Nominativa Assicurati
La ripartizione delle assunzioni per grandi aree geografiche
assume, tuttavia, valori differenti nei diversi settori economici.
Nel nord-est, non solo i lavoratori stranieri sono i più numerosi
di tutto il paese, ma lo sono anche in tutti i settori economici,
dall’industria all’agricoltura. Il centro mantiene un livello più o
meno costante di presenze in tutti i settori (20%), eccezion fatta
per l’agricoltura. Mentre, nel Meridione le maggiori presenze di
lavoratori stranieri si ha nel settore agricolo (13,8% al sud e
8,6% nelle isole) [tabella 5].
Tabella 5
Assunzioni di lavoratori non comunitari per aree territoriali e
settori economici
Aree territoriali tutti i settori Agricoltura Industria Servizi
Nord-ovest 31% 9,80% 32,70% 33,60%
Nord-est 37,80% 54% 38,30% 36,60%
Centro 20,50% 14,10% 20,40% 22%
Sud 8% 13,80% 7,20% 5,90%
Isole 2,80% 8,60% 1,40% 1,90%
Fonte: INAIL/Denuncia Nominativa Assicurati
Proseguendo il discorso in termini di settori nei quali,
maggiormente, vengono impiegati i lavoratori comunitari nel
nostro paese, una ricerca condotta dall’ILO (International
Labour Organization) nei paesi del sud Europa ha posto in
evidenza come i migranti occupino i posti di lavoro che i
lavoratori nazionali rifiutano di occupare (E.Rayneri, 2001).
Tale affermazione viene confermata dall’osservazione di ciò
che accade nella realtà italiana. Se vengono prese in
considerazione le piccole e medie industrie, che come abbiamo
avuto modo di riscontrare, sono quelle che impiegano
maggiormente lavoratori immigrati, queste non avendo la
possibilità di delocalizzare all’estero le proprie attività, per
ridurre i costi di produzione, cercano di rendere più flessibile
l’impiego di manodopera e di impiegare lavoratori a bassa
qualificazione professionale. In questo modo cresce la loro
domanda di lavoro poco qualificato. I lavoratori locali non sono
in grado di soddisfare tale domanda, o perché non ne hanno
l’interesse, per via delle scarsa qualificazione del lavoro, o per
via del crescente mismatch strutturale che c’è nel nostro paese
tra domanda di lavoro ed offerta, con l’immediata conseguenza
che ad essere impiegati, sono i lavoratori non comunitari (P.A.
Taran,E. Geronimi, 2003).
Le assunzioni dei lavoratori non comunitari, comparate con il
totale delle assunzioni avvenute in Italia, sono maggiormente
concentrate in agricoltura (con un’incidenza del 13,8% e 2,5
punti percentuali in più sul totale) e nell’industria (26,4% con 3,5
punti percentuali in più) contrariamente a quanto avviene nei
servizi in cui l’incidenza è del 39,2% con 8,5 punti percentuali in
meno rispetto al totale delle assunzioni.
I singoli rami lavorativi che si caratterizzano per un maggior
numero di assunzioni, incidendo in maniera significativa sul
totale, sono: alberghi e ristoranti (16,6%), costruzioni (9,6%),
attività immobiliari/pulizie (8,4%) e trasporti (4,6%).
Anche in questo caso non è importante solo il numero, in
assoluto, delle assunzioni, ma la loro incidenza percentuale sul
totale delle assunzioni.
Tale incidenza attesta il grado di fabbisogno degli immigrati nei
vari rami lavorativi.
Si possono individuare, quindi, tre tipi di settori: i settori con un
fabbisogno molto alto di manodopera immigrata, nei quali
l’incidenza delle loro assunzioni, sul totale, è maggiore al 15%.
Questi comprendono l’ industria conciaria, tessile, dei metalli, di
trasformazione. Ci sono, poi, i settori con un fabbisogno alto,
nei quali l’incidenza delle assunzioni degli immigrati varia dal
10% al 15%: alberghi, ristoranti, costruzioni, trasporti, industria
meccanica.
In fine ci sono i settori con un fabbisogno medio di manodopera
straniera con un’incidenza delle loro assunzioni che varia dal
7% al 10%: industria alimentare, industria chimica, della carta,
industria elettrica, commercio all’ingrosso e sanità [tabella 6].
Tabella 6
Incidenza dei lavoratori non comunitari sulle assunzioni
complessive per settore (2002)
Molto alta Alta Media
I.conciaria 22,80% Agrindustria 14,10% i.alimentare 8,80%
i.tessile 17,70% Costruzioni 13,70% estr. minerali 7,70%
i.metalli 17,00% Trasporti 12,70% i.carta 7,60%
i.gomma 16,90% i. mezzi di trasporto 12,30% i.chimica 7,50%
i.legno 16,70% i.meccanica 11,60% i.elettrica 7,40%
i.trasformazion 15,00% att. Immob./pulizie 10,80% commercio/ripar. Auto 7,40%
sanità 7,20%
commercio ingrosso 7,00%
Fonte: INAIL/Denuncia Nominativa Assicurati
In riferimento a questi valori, talvolta, si parla di fabbisogno
aggiuntivo di manodopera straniera e di tendenza alla
etnicizzazione di alcuni settori produttivi. Tali valori, infatti, non
solo sono andati aumentando nell’arco del tempo ma, la vera
novità, è che in alcuni settori le cessazioni dei rapporti, da parte
dei lavoratori italiani, sono maggiori delle assunzioni. Il contrario
avviene per gli immigrati e, addirittura, in alcuni settori, la
fuoriuscita dei lavoratori nazionali, non riesce ad essere
compensata dai lavoratori stranieri.
Sicuramente, i processi di ristrutturazione che sono avvenuti
negli ultimi anni, soprattutto nelle grandi industrie, hanno
diminuito i livelli di occupazione in generale. In alcuni settori,
tuttavia, a fronte di un crescente allontanamento dei lavoratori
italiani, si assiste ad un perdurare del fabbisogno di
manodopera che viene, quindi, coperto dai lavoratori non
comunitari. Nell’industria dei metalli, ad esempio, le cessazioni
degli italiani superano di 4.252 le loro assunzioni mentre, per i
lavoratori extracomunitari sono le assunzioni a prevalere sulle
cessazioni con 3.107 unità. Un altro esempio è dato
dall’industria conciaria dove il saldo tra assunzioni e cessazioni
è negativo per gli italiani (-2.599) e positivo per gli immigrati
(1.579) [tabella 7]
Tabella 7
Settori con saldo negativo di lavoratori italiani tra assunzioni e
cessazioni (2002)
Settore Saldo lavoratori italiani Saldo lavoratori non comunitari
Industria tessile 21.739 954Industria conciaria -6.673 320Industria petrolio -182 23Industria metalli -4.252 3.107Industria meccanica -2.599 1.579industria elettrica -5.097 887Industria mezzi di trasporto -6.280 544Industria finanziaria -3.347 132
Fonte: INAIL/Denuncia Nominativa Assicurati
Una volta analizzati separatamente i due aspetti delle
assunzioni, per area geografica e per settore, è interessante
esaminare quali settori di impiego prevalgono ed in quali
province.
Per le assunzioni nel settore dell’agricoltura, la provincia in cui
queste sono le maggiori in assoluto è Bolzano con 13.886
assunzioni su 91.086 a livello nazionale (15,2% di incidenza). In
questo settore, in generale, il Meridione è meglio rappresentato
con Ragusa e Bari al 4° e 5° posto, rispettivamente con 4.019 e
2.882 assunzioni e se non esistesse il sommerso, il problema
del fabbisogno delle assunzioni degli immigrati, al sud, sarebbe
più evidente ed i risultati più consistenti.
Per le assunzioni nell’Industria, al primo posto c’è la provincia di
Milano con 12.617 assunzioni, pari al 7,3% delle 174.057
assunzioni a livello nazionale. Nella graduatoria,
prevedibilmente, primeggiano le province del nord-est. Per il
centro c’è Roma, Firenze, Perugina e Prato. Il Mezzogiorno non
è rappresentato con alcuna provincia.
Nei Servizi, Milano è di nuovo la prima provincia per numero di
assunzioni: 42.638 su 258.553 a livello nazionale, con
un’incidenza del 16,5%.Roma, pur non avendo la stessa
consistenza di Milano, è meno distanziata, in questo settore,
rispetto agli altri due. Anche in questo caso, tuttavia, la
preminenza spetta alle province del settentrione che, tra nord-
ovest e nord-est, si spartiscono le quote maggiori di assunzioni
di lavoratori non comunitari. Sono assenti le province del
Mezzogiorno [tabella 8]
Tabella 8
Prime 15 province per assunzioni in Agricoltura, Industria e
Servizi (2002)
Agricoltura Industria ServiziBolzano 13.886 Milano 12.677 Milano 42.638Trento 13.412 Brescia 10.053 Roma 24.403Verona 5.837 Treviso 8.714 Bolzano 13.270Ragusa 4.019 Vicenza 7.657 Vicenza 11.650
Bari 2.882 Modena 4.823 Firenze 7.877Perugia 2.824 Roma 4.576 Venezia 7.642
Ravenna 2.594 Verona 4.290 Brescia 7.457Modena 1.894 Firenze 4.245 Trento 7.286Bologna 1.744 Padova 4.238 Verona 6.832Trapani 1.722 Bologna 4.187 Bologna 6.584
Forlì-Cesena 1.652 Reggio Emilia 3.511 Torino 6.514Roma 1.402 Perugia 3.494 Ravenna 4.546
Ferrara 1.399 Ancona 3.146 Perugia 4.547L'Aquila 1.274 Venezia 3.149 Bergamo 4.537Foggia 1.137 Prato 2.991 Rimini 4.145ITALIA 91.086 ITALIA 174.057 ITALIA 258.553
Fonte: INAIL/Denuncia Nominativa Assicurati
Facendo la graduatoria delle prime 15 province per il numero
delle assunzioni complessivamente considerate, vediamo che
Milano risulta essere la prima provincia con l’assunzione di un
immigrato ogni 9 effettuate a livello nazionale. Roma risulta
essere la seconda con un’assunzione ogni 17 e seguono
Bolzano, Brescia e Vicenza. Non è, invece, inclusa alcuna
provincia del Mezzogiorno.
Oltre a prendere in considerazione i tre grandi settori produttivi
di Agricoltura, Industria e Servizi, è utile estrapolare i rami più
significativi dell’Industria e dei Servizi allo scopo di approfondire
l’analisi del tipo di lavoro che gli immigrati svolgono nel nostro
paese. Per l’Industria abbiamo visto che questi sono
rappresentati da: costruzioni, metalli, industria alimentare e
tessile.
Per i servizi, i rami più significativi sono: alberghi, ristoranti,
attività immobiliare/pulizie, e commercio.
Nel settore dell’industria metalli, a collocarsi ai primi posti, con
oltre 1.000 assunzioni, sono le province di Brescia con 2.845
assunzioni su 25.757, Treviso con 1.505, Venezia (1.277),
Milano (1234), Bergamo con 1.351, e Torino (1.194).
Nell’industria alimentare la quota di 1.000 assunzioni è
raggiunta solo a Forlì con 1.579 su 15.686.
L’industria tessile supera le 1.000 assunzioni a Prato con 2.348
ed un’incidenza del 15% mentre le 1.000 assunzioni sono solo
sfiorate a Milano e Brescia.
Nelle costruzioni la prima provincia è Milano con 6.990
assunzioni su di un totale di 63.197 seguita da Brescia con
3.918 e Roma con 3.200. Il sud è completamente assente nella
graduatoria delle prime 15 province.
Nel settore edile, nel 2002 sono state effettuate 62.847
assunzioni di immigrati, per il 39,5% concentrate nel nord-
ovest, per il 27,7% nel nord-est e per il 21,3% nel centro. Il
Meridione detiene solo la quota residua ( 9,2% al sud e 2,2% le
isole).
Di particolare interesse è il saldo tra assunzioni e cessazioni
che si ha nel settore delle costruzioni, sia per gli immigrati che
per i lavoratori italiani: il primo è pari al 19,3% ed il secondo al
18,2%, di pochissimo inferiore. Chiaramente, tale saldo è
notevolmente differenziato tra regioni, per cui, in Calabria, il
saldo tra assunzioni e cessazioni per i lavoratori non comunitari
è del 31% mentre, in Umbria è del 2%.
Questi valori inducono alla riflessione che, l’alta incidenza delle
assunzioni dei lavoratori stranieri, nel settore delle costruzioni in
particolare, denoti il loro carattere complementare o aggiuntivo,
rispetto all’insufficienza di forze lavoro italiane da impiegare in
certi particolari settori [tabella 9].
Tabella 9
Saldi differenziati tra assunzioni e cessazioni dei lavoratori non
comunitari nel settore delle costruzioni (2002)
Regione Saldo Regione SaldoCalabria 31% Friuli 15%Piemonte 27% Lazio 14%
Toscana, Basilicata 24% Sardegna 12%Liguria 23% Sicilia 11%
Lombardia 22% Valle d'Aosta, Puglia 10%Trentino Alto Adige 20% Umbria 2%
Campania 19%Emilia Romagna, Marche 18%
Veneto, Molise 17% ITALIA 21% Fonte: INAIL/Denuncia Nominativa Assicurati
Per quanto riguarda il settore dei Servizi, il ramo più diffuso è
quello degli alberghi e dei ristoranti e la provincia che detiene il
primato delle assunzioni è Milano (16.446 su 109.424), seguita
da Roma e da Bolzano (rispettivamente 12.115 e 10.126
assunzioni). Nella graduatoria delle prime 15 province è
assente il Meridione anche se le assunzioni nel settore
alberghiero della sola città di Napoli, superano le 1.000 unità
[tabella 10].
Tabella 10
Prime 15 province per assunzioni di lavoratori non comunitari
negli alberghi/ristoranti (2002)
Provincia Assunzioni Provincia AssunzioniMilano 16.446 Ravenna 2.526Roma 12.115 Perugia 2.487
Bolzano 10.126 Verona 2.370Vicenza 8.776 Brescia 1.973Venezia 4.804 Udine 1.825Trento 4.352 Bologna 1.696Firenze 3.676 Genova 1.355Rimini 2.711 ITALIA 63.197
Fonte: INAIL/Denuncia Nominativa Assicurati
Il settore delle attività immobiliari/pulizie è funzionale alle
esigenze delle grandi città, quindi, le assunzioni sono alte a
Roma (4.082 su 55.190 nazionali) e a Torino (2.058).
Le province più significative per le assunzioni nel ramo del
commercio sono Milano con 3.417 assunzioni, Roma con 2.107
assunzioni, Bologna e Firenze (rispettivamente 1.215 e 1.049).
Come il ramo delle costruzioni per l’industria, così il ramo degli
alberghi e dei ristoranti per i servizi è quello in cui la presenza
dei lavoratori immigrati è più significativa. Il saldo tra assunzioni
e cessazioni, per i lavoratori non comunitari, è del 7,9%, quasi
tre volte inferiore alla media dei saldi riscontrati per la generalità
di questi lavoratori. Questo indica che tale settore è soggetto ad
una forte precarietà, dovuta dalla stagionalità, che impedisce la
formazione di posti di lavoro permanenti. Il problema, tuttavia, è
meno accentuato per i lavoratori nazionali impiegati nel
medesimo settore, per cui il saldo è pari al 18,2%.
Un altro aspetto importante è quello riguardante il fabbisogno di
manodopera immigrata aggiuntiva di tale settore, con 109.189
assunzioni di immigrati su 905.003 complessive.
Le conclusioni a cui si giunge sono che, nelle regioni in cui è
diffuso il turismo, si avverte una grande necessità di lavoratori
immigrati (sia di quelli già presenti sul territorio, sia di quelli che
vengono appositamente), perché non è sufficiente la
manodopera italiana, anche se composta di quei disoccupati o
lavoratori stagionali che dal sud si spostano verso quelle regioni
in cui il settore turistico/alberghiero è particolarmente attivo.
4.4.2 Assunzioni dei lavoratori immigrati per nazionalità
Come si è fatto notare in precedenza, il forte policentrismo del
nostro paese ha portato in Italia immigrati di ben 191
nazionalità diverse. Grazie ai dati raccolti, durante gli anni, dal
Ministero del Lavoro, dal Ministero dell’Interno, dall’INAIL e
dagli Uffici provinciali del lavoro, si possono osservare le
diverse potenzialità, nel mercato del lavoro, degli immigrati
rispetto alla loro nazionalità. Va detto, innanzi tutto, che i difetti
di registrazione sottostimano la reale entità delle assunzioni e
dei soggiorni e questo, porta a dover maggiorare i numeri
riportati per poter avere un quadro il più simile possibile alla
realtà.
In generale, per poter analizzare il diverso grado di accesso al
mercato occupazionale degli immigrati in base alla loro
nazionalità, non si deve far altro che confrontare, per ogni
collettività, la quota percentuale dei soggiorni e la quota
percentuale delle assunzioni. La discrepanza può assumere
due significati: negativo se la collettività registra poche
assunzioni ed una scarsa stabilità dell’occupazione. Positivo se
il numero ridotto delle assunzioni dovesse significare un alto
livello di occupazione preesistente.
L’intera collettività degli immigrati ha avuto, nel 2002, a
disposizione un posto di lavoro ogni tre soggiornanti, il che è un
valore positivo se si pensa che una buona parte degli immigrati
è già occupata e che l’offerta riguarda quelli ancora disoccupati
e quelli in cerca di prima occupazione in Italia.
Può essere utile raggruppare le nazionalità in base alla loro
facilità di accesso al mercato occupazionale italiano: Alto
accesso (oltre 40 assunzioni su 100 soggiornanti), Medio
accesso (tra 30 e 40 assunzioni su 100 soggiornanti), Basso
accesso (meno di 30 assunzioni su 100 soggiornanti) [tabella
11].
Tabella 11
Ripartizione degli immigrati secondo l’indice di accesso alle
assunzioni (2002)
Accesso Alto Accesso Medio Accesso BassoAlbania Bangladesh BosniaAlgeria Brasile CroaziaBulgaria Cina FilippineEcuador Colombia RussiaEgitto Cuba Sri LankaJugoslavia Ghana UsaPolonia IndiaRomania MacedoniaSenegal MaroccoSvizzera Tunisia NigeriaUcraina Pakistan
PerùFonte: INAIL/Denuncia Nominativa Assicurati
I dati dimostrano come gli immigrati dei paesi dell’Europa
orientale, quelli dell’Africa e quelli dell’America Latina, sembrino
essere quelli maggiormente capaci di inserirsi nel mercato del
lavoro italiano. In particolare, i valori più alti riguardano
l’Ecuador con 1 assunzione ogni soggiornante, la Jugoslavia, la
Romania e la Polonia, con 1 assunzione ogni due soggiornanti.
Vi sono, poi, alcuni casi particolari come quello della collettività
Usa, in gran parte formata da familiari di dipendenti NATO, che
non hanno interesse ad accedere al mercato del lavoro italiano.
Altri casi particolari sono quelli della comunità filippina e dello
Sri Lanka: l’indice negativo non tiene conto del fatto che tali
immigrati vengono impiegati per la maggior parte come
lavoratori domestici, i quali non sono registrati dall’INAIL.
Per avere un quadro più generale, è possibile raggruppare i
singoli paesi per aree di provenienza ed osservare come sia
caratterizzata la loro collocabilità nel mercato del lavoro
attraverso il tasso di accesso all’occupazione [tabella 12].
Tabella 12
Rapporto percentuale tra assunzioni e soggiornanti: indice di
accesso occupazionale (2002)
Continente Soggiornanti 1.1. 2002 Assunzione 2002 Indice di accesso
all'occupazioneEuropa* 416.390 211.529 50,80%
Africa 366.598 144.832 39,50%
Asia 259.783 74.932 28,80%
America 158.206 63.978 40,40%
Oceania 2.461 2.144 87,10%
Tutti i Paesi 1.215.135 497.415 40,90% Fonte: INAIL/Denuncia Nominativa Assicurati-Ministero dell’Interno
*Esclusi i cittadini comunitari
Come si nota dai dati tutte le opportunità lavorative vengono
offerte agli europei, da cui rimangono esclusi, nell’analisi, i
cittadini comunitari, e ai latino americani. Anche le poche
migliaia di cittadini dell’Oceania riescono ad inserirsi con
successo nel mercato del lavoro italiano. Questo dato potrebbe
portare a pensare che la somiglianza culturale influisca
positivamente sul livello di integrazione dei lavoratori. In questi
termini potrebbe essere considerato anche lo scarso successo
degli immigrati provenienti dall’Asia, che si attestano agli ultimi
posti con un indice di accesso all’occupazione (28,8%) più
basso rispetto a tutti gli altri.
Lo stesso tipo di analisi si può effettuare a livello regionale,
domandandosi quali nazionalità hanno maggiore successo ed
in quali aree geografiche [tabella 13].
Tabella 13
Differenziale tra soggiorni e contratti di lavoro per continenti e
regioni (2002)
Europa Africa Asia America OceaniaValle d'Aosta 1,40% -1,00% -2,00% 1,00% 0,60%Piemonte 3,40% -2,10% -2,60% 1,30% 0,10%Lombardia -0,10% 4,40% -6,70% 2,70% 0,20%Liguria -2,20% 7,60% -3,40% 2,10% 0,10%Friulu V.G. -0,40% 7,20% 0,50% -8,00% -0,10%Trentino 22,10% -11,40% -7,40% -3,00%Veneto 4,00% -4,10% -0,30% 1,10% 0,40%Emilia R. 4,60% -2,00% -4,10% 2,70% 0,10%Toscana 3,30% 4,70% -4,60% -2,40% 0,20%Umbria 2,00% 6,00% -6,10% -1,80%Marche -4,20% 0,70% -1,10% 5,10% 0,40%Lazio 11,60% 2,40% -11,10% -2,90% 0,20%Abruzzo -2,00% 0,20% -5,20% 5,80% 1,20%Campania 18,90% 0,60% -8,00% -11,50% 0,60%Basilicata -7,60% 7,60% 1,80% 1,60% 0,10%Molise 3,80% -11,30% -4,80% 11,70% 1,70%Puglia 13,70% -5,50% -7,10% 2,30% 0,30%Calabria 22,40% -24,60% -13,80% 13,20% 2,70%Sicilia 12,50% 7,10% -19,50% -1,20% 1,10%Sardegna 17,20% -7,70% 7,10% -3,10% 0,80%
Fonte: INAIL/Denuncia Nominativa Assicurati
Definendo il differenziale occupazionale degli immigrati come lo
scostamento tra i contratti di lavoro e la quota percentuale di
soggiornanti, di un determinato continente in una determinata
regione, possiamo osservare che per gli immigrati provenienti
dall’Europa, tale differenziale è lievemente negativo solo in
Lombardia, Liguria, Friuli ed Abruzzo. Lo è in maniera più
consistente, nelle Marche ed in Basilicata.
Per l’Africa sono 9 le regioni in cui il differenziale è negativo,
con la Calabria che mostra il valore più basso (- 24,6). Il valore
positivo più alto, invece, si riscontra in Friuli, Liguria, Basilicata
e Sicilia (7%).
Per quanto riguarda l’Asia, il differenziale è negativo per tutte le
regioni, talvolta con valori contenuti (2%), altre con valori che
superano il 10%.
Per l’America il differenziale è negativo in 8 regioni mentre, per
l’Oceania lo è solo in Friuli Venezia Giulia93 .
4.4.3. Gli Immigrati e il lavoro nero
Fra i decisori politici e ancor più nell'opinione pubblica, il lavoro
sommerso equivale a qualcosa di oscuro alla cui esistenza
concorrono diversi fattori: l’illegalità, criminale o elusiva, che si
combina con l'"arte di arrangiarsi", il degrado sociale, la
povertà, il generale scarso senso civico. Si aggiunge ancora, la
diffusa abitudine a non rispettare le regole necessarie a
garantire un'ordinata convivenza, la corruzione ed infine, gli
eccessi del potere burocratico sui cittadini.
93 Dossier statistico immigrazione 2003, Caritas
Nell’analizzare il fenomeno del lavoro nero, da un punto di vista
dell'evoluzione dei sistemi economici e sociali, l'attenzione va
focalizzata sulla netta separazione tra economia criminale ed
economia informale.
La prima, infatti, produce beni e servizi illegali e anche quando
si inserisce in un contesto di "normalità", agendo come impresa
legale, opera con un'organizzazione e con metodi che la
caratterizzano come attività criminale.
In questi casi, per le politiche pubbliche, diviene prevalente
l'azione di repressione e contrasto alla criminalità economica
organizzata, rispetto a qualsiasi altra forma di possibile
intervento.
All'estremo opposto, invece, si colloca l'area delle attività
informali, generalmente legate a prestazioni elementari di
singoli o di unità produttive caratterizzate da: basso livello di
organizzazione, scarsa distinzione tra capitale e lavoro e
rapporti di lavoro occasionali basati su relazioni personali o
familiari.
Per quanto riguarda la nostra analisi sul lavoro nero, il
sommerso, da capire ed interpretare, è quello che interagisce
con i sistemi economici dei Paesi industriali. Questo è un
settore costituito da produzione e/o lavoro irregolare ma
collocato in contesti e settori produttivi ordinari, in grado di
partecipare alle dinamiche della moderna produzione.
L’importanza di analizzare e arginare tale fenomeno è
giustificata dall’osservazione della realtà.
Il sommerso, per quanto fino ad ora mal stimato e quantificato,
copre in Europa una quota non marginale dell'economia,
valutabile fra il 5% e il 20%; In particolare nell'area dell'Euro
l'underground economy è cresciuta nell'ultimo quinquennio a
tassi più elevati dell'economia regolare.
Da qui l'esigenza di individuare modelli ed interventi per
contrastare tali tendenze che distorcono il mercato e
penalizzano gli introiti pubblici.
E' confermato che a determinare l'economia sotterranea sia la
volontà di sottrarsi agli obblighi fiscali, contributivi, contrattuali,
retributivi, normativi, di sicurezza, di affidabilità nonché di
responsabilità ambientale e sociale.
La situazione si aggrava se si considera, poi, l'ampia gamma
delle possibilità e le forti differenze d'intensità con cui si
manifestano i comportamenti irregolari.
E’ sempre più difficile tracciare una linea netta di confine tra
"regolare" e "irregolare", soprattutto nei sistemi economici che,
raggiungendo una notevole complessità e stabilità, si aprono
alla competizione globale.
Proprio nelle economie più avanzate, il sommerso tende a
configurarsi come una sorta di zona cuscinetto che serve per
attutire, in modo scorretto, gli effetti di un'eccessiva pressione
fiscale o regolativa, per cercare di rispondere al nuovo
confronto competitivo proposto dalla globalizzazione e come
mezzo, per alcune aziende, per riuscire a sopravvive anche con
bassissimi livelli di competenza organizzativa, strumentale e
finanziaria.
L'effetto ultimo è di indebolimento dei sistemi economici che
difficilmente, in presenza di questo fenomeno, possono
compensare i ritardi nell'adeguare la struttura produttiva alla
nuova realtà di competizione internazionale.
Se all’avvio dei processi di modernizzazione, negli anni ’60,
l’iniziativa di singoli ha saputo evolversi in un sistema
imprenditoriale regolamentato e strutturato come è oggi,
nell’attuale contesto di commercio internazionale, l’economia
sommersa, nei paesi sviluppati, si insedia nei settori meno
produttivi e più arretrati, producendo uno spostamento del
capitale dai settori ad alta intensità di capitale verso i primi, che
lo impiegano in maniera meno efficente, provocando una
distorsione nella concorrenza.
La stessa valutazione negativa va fatta anche per i Paesi in
transizione, nei quali, il diffondersi dell’economia sommersa
alimenta l’intreccio tra corruzione ed attività economiche,
produce blocchi oligopolistici e, di conseguenza, frena lo
sviluppo delle naturali dinamiche di mercato.
Le attuali forme che assume l'economia sommersa vanno
favorite dalle trasformazioni in atto sia nell'impresa che nel
mercato del lavoro.
La nuova forma di concorrenza, prevalentemente
internazionale, ha portato ad individuare un insieme di fattori
che indicano come la crescita nel numero di imprese, e quindi
della competizione, renda più facile lo sviluppo del sommerso.
Tali trasformazioni possono ricondursi a:
- destrutturazioni delle grandi imprese, con conseguente
formazione di organizzazioni che integrano unità produttive
diverse, piccole e anche piccolissime e con utilizzo diffuso l'out-
sourcing94. La produzione diventa flessibile e modificabile a
seconda dei mutevoli andamenti della domanda.
- una riduzione delle attività manifatturiere che modifica la
composizione settoriale dell'economia. Si ampliano gli spazi per
i servizi rivolti al mercato familiare o individuale, con modelli
operativi meno complessi e con basse necessità di
investimento (dai servizi personali, al piccolo commercio alla
ristorazione e al turismo);
- la delocalizzazione della produzione verso i Paesi a basso
costo di manodopera, che producendo una rottura nel rapporto
fra grande-media impresa e territorio, fa crescere lo spazio sul
94 Letteralmente “fonte di approvvigionamento all’esterno”. Indica il passaggio a terzi di attività che non costituiscono le competenze chiave dell’azienda. Sono frequentemente esternalizzati i servizi di pulizia, i servizi di trasporto, i servizi di manutenzione, di sicurezza. Detti servizi vengono affidati ad aziende specializzate con risparmi di costi e migliori risultati in termini di efficienza e di efficacia.
territorio nazionale per le imprese più piccole e per le attività
orientate al consumatore.
Anche dal lato del mercato del lavoro, le ambiguità che lo
caratterizzano sono tanto rilevanti da sfociare nell’economia
sommersa per diverse ragioni:
- la necessità di rendere il lavoro più mobile e flessibile, infatti,
può determinare forme di elusione se l’obbiettivo è limitato alla
sola riduzione di costi aziendali e se non si accompagna ad una
crescita della produttività, ad un premio per la competenza e la
responsabilità, ad un allargamento della partecipazione nonché
allo sviluppo di nuove forme di lavoro;
- l'afflusso di immigrati irregolari e la mancanza delle condizioni
per poter essere occupati legalmente porta inevitabilmente al
lavoro sommerso;
- gli eccessivi oneri fiscali e contributivi sulle retribuzioni lorde,
rendono collusivo l'interesse fra imprenditore e lavoratore al fine
di evaderli totalmente o parzialmente.
A fronte di tale realtà, tuttavia, non tutto il sommerso può
essere portato ad una condizione di normalità, in quanto in
taluni casi l'emersione eliminerebbe alla radice ogni possibilità
di sopravvivenza per le aziende seguono mezzi illegali.
Questo accade perché le unità produttive dei settori sommersi
hanno un’intrinseca fragilità economica che non è in grado di
assorbire i costi, seppur agevolati, dei processi di
regolarizzazione.
Un ulteriore motivo risiede nel fatto che spesso non può essere
sanato l’ambito di insediamento ove è ubicata l’impresa illegale,
o infine, perché ci sarebbe perdita di convenienza da parte
della clientela.
È necessario, pertanto, conoscere all'interno di ciascuna
economia nazionale quali tipologie di attività sia possibile
accompagnare verso la regolarizzazione e quali,
inevitabilmente, verrebbero eliminate da un intervento volto a
ridurre i settori anomali dell'economia.
In generale, nei territori in cui il sommerso è presente secondo
modalità strutturali, non cicliche o marginali, le imprese
irregolari possono essere differenziate tra:
- imprese trasgressive, del tutto visibili e conformi alle principali
norme, ma con una elevata propensione ad organizzare
evasione ed elusione fiscale e contributiva, a forzare l'utilizzo
degli strumenti di flessibilità lavorativa e l'out-sourcing, ed a
praticare sistemi di retribuzione non conformi a quella legale;
- imprese minimaliste, che rispettano al minimo i requisiti di
regolarità come l’iscrizione al registro ditte, la posizione fiscale
e previdenziale, ma che utilizzano una quota degli occupati
totalmente in nero, che applicano una diffusa evasione fiscale
con una copertura parziale, e spesso solo formale, dei diversi
obblighi a cui è sottoposta una regolare attività produttiva;
- imprese mimetiche, generalmente di piccole dimensioni,
attorno ai 5-10 addetti, totalmente sommerse, anche grazie al
tipo di attività (servizi, edilizia) che non impone una sede
visibile;
Allo stesso modo, nella prospettiva del mercato del lavoro
troviamo le seguenti categorie:
- lavoratori regolari, che svolgono prestazioni in nero, in forma
autonoma o subordinata, come seconda attività nello stesso
ambito lavorativo o in un diverso settore produttivo;
- occupati dipendenti con condizioni minime di regolarità, ma
con gran parte delle prestazioni non registrate sia ai fini fiscali
che contributivi (straordinari, premi etc.);
- lavoratori con contratti atipici o soci in cooperative di comodo,
le cui forme contrattuali eludono l'effettiva condizione di
occupati alle dipendenze;
- dipendenti che accettano retribuzioni inferiori a quelle
dichiarate;
- lavoratori autonomi e professionisti irregolari;
- dipendenti totalmente irregolari (non dichiarati, con retribuzioni
totalmente in nero);
- immigrati irregolari.
In definitiva, per definire il sommerso, le principali variabili da
combinare riguardano le caratteristiche dell'impresa, i rapporti
di lavoro, il settore di attività e l'area locale di insediamento.95
In Italia, secondo l’Istat, l’economia sommersa, nel 1998,
avrebbe creato un valore aggiunto compreso tra il 14,7% e il
15,4% del Pil con particolare incidenza nell’agricoltura,
un’incidenza media nei servizi (17,5%) ed un’incidenza più
bassa nell’industria (8,3%). Per la misurazione di tali entità,
l’Istat utilizza l’unità di lavoro standardizzata (ULA), che
consiste nel numero teorico di occupati che si avrebbe se
ciascuno di essi lavorasse a tempo pieno, mentre in realtà
comprende anche persone che lavorano a tempo parziale o che
hanno un doppio lavoro. In ogni caso, la metodologia dell’Istat
per la stima del sommerso è stata validata da Eurostat e
raccomandata anche agli altri stati membri dell’UE.
Per il 1999 l’Istituto di statistica ha stimato la presenza di circa
3,5 milioni di unità di lavoro a tempo pieno in posizione non
regolare, pari al 15,1% delle unità lavorative. Sempre nello
stesso anno il lavoro nero è risultato localizzato per il 22% nel
nord-ovest, per il 16% nel nord-est, per il 21% al centro e per il
42% al sud.
Il settore a più alta incidenza di lavoro irregolare è l’agricoltura
(30,4%), mentre nel settore dei servizi l’incidenza è del 16,9%.
95 Cfr. Censis Tendenze generali e recenti dinamiche dell’economia sommersa in Italia tra il 1998 e il 2002.
Nell’industria in senso stretto l’incidenza del lavoro irregolare
scende al 5,7%, mentre nelle costruzioni è del 16,9% [tabella
14]
Tabella 14
Stima del lavoro non regolare per settori (1999)
Settori LavoratoriAgricoltura e pesca 417,2Industria in senso stretto 299,1Costruzioni 241,2Commercio e riparazioni 333,2Alberghi e pubbl.servizi 397Trasporti e comunicazioni 419,8Istruzione 89,7Sanità e servizi sociali 88,1Altri servizi pubbl. 171,2Lavoro domestico 598,2Totale 3.488,40Fonte: Istat
Oltre all’Istat anche le ispezioni dell’INPS nel 2002 confermano
l’ampiezza del fenomeno del sommerso: su 148.707 aziende
controllate, oltre 81.000, tra aziende e lavoratori autonomi, sono
stati trovati in posizioni irregolari (55%). Circa il 15% del totale
delle aziende e dei lavoratori autonomi sono risultati
completamente in nero (+ 11,3% rispetto al 2001),
specialmente nel settore commerciale. Sono stati individuati
126.152 lavoratori dipendenti irregolari, di cui 111.526
completamente sconosciuti all’Istituto.
Nel 2002 l’Ispettorato del Lavoro del Comando dei Carabinieri
presso il Ministero del Lavoro, ha svolto un’attività ispettiva in
21.431 aziende, in prevalenza di piccole dimensioni, suddivise
per attività: artigianato 27,4%, commercio 22,8%, ristoranti e
alberghi 13,9% ed imprese di pulizia 2,2%96.
Ad occupare lavoratori in nero, secondo l’indagine, sono state
11.859 imprese (4.693 industriali e 7.166 artigiane), pari al
55,3% di quelle ispezionate.
Dei 24.395 lavoratori in nero, i minori sono stati 1.175 (4,8%),
per lo più adolescenti impiegati nel commercio e
nell’artigianato, 12.350 sono stati i lavoratori non comunitari
trovati a lavorare in una posizione irregolare: il 19,4% erano
clandestini, il 26,5% lavoratori in nero, contro il 54,1% di
lavoratori stranieri regolari.
Esistono, poi, delle particolari esperienze, come quella delle
così dette “cooperitive in nero”, diffuse soprattutto al nord,
concepite per offrire manodopera a prezzi stracciati solitamente
gestite da stranieri, operando come delle vere e proprie agenzie
per la fornitura di lavoro interinale. Queste organizzazioni sono
molto flessibili e nascono e muoiono con molta facilità allo
scopo, ovviamente, di eludere la legge ed i relativi controlli.
Alcuni tipi di cooperative forniscono manodopera ad imprese
utilizzatrici e trattengono, poi, parte dei contributi previdenziali e
delle somme da versare alle imposte, sostituendosi
all’istituzione, come veri e propri esattori fiscali.
96 Le ispezioni sono state fatte con criteri specifici diversi da quelli del campionamento, per cui, i dati hanno più un valore indicativo che non analitico.
Un confronto tra le ispezioni effettuate in aziende e quelle
riguardanti il lavoro domestico mostra che, in quest’ultimo
settore, l’incidenza, sia del lavoro nero che di quello
clandestino, è molto più alta.
La pratica dell’evasione contributiva è più diffusa nel nord-est (riguarda più
del 40% dei lavoratori) e più contenuta in altre zone dove rimane all’interno
di valori che vanno dal 23% al 27%.
Per quanto riguarda l’incidenza dei lavoratori sprovvisti del permesso di
soggiorno, si riscontra che questa è più contenuta nel nord (15,6% con
punte del 20-22% in Lombardia e in Emilia Romagna), più alta nel centro
(19,5%) e raggiunge il massimo al sud con il 31,4%.97
L’analisi del ruolo dei lavoratori immigrati all’interno
dell’economia sommersa è molto complessa per l’evidente
difficoltà di rilevazione dei relativi dati. Tuttavia, la diffusione
della pratica di assumere lavoratori senza garantire loro alcun
tipo di protezione sociale, sembra trovare nell’assunzione dei
lavoratori immigrati, la soluzione ottimale. Questi lavoratori,
infatti, spesso arrivano clandestinamente nel nostro paese e la
loro posizione, in tali casi, non è ne controllabile né tutelabile:
semplicemente non esistono e per questo sono a rischio di
sfruttamento.
Uno degli scopi principali della politica migratoria di un paese come l’Italia,
che si trova a dover fronteggiare flussi sempre più consistenti di immigrati, è
proprio quello di limitare il più possibile l’immigrazione clandestina.
97 Dossier satistico immigrazione 2003 Caritas.
4.5 La politica migratoria italiana
L’identità nazionale e la sovranità degli Stati condizionano il fenomeno
migratorio nella sua più vasta complessità. I paesi di destinazione, avendo
pertanto interesse a gestire il fenomeno secondo le loro priorità politiche,
sociali ed economiche, agiscono nel loro pieno diritto poiché, secondo gli
accordi di Helsinki del 1977, esiste un diritto ad emigrare che non trova un
corrispondente diritto ad immigrare, ma anzi, l’accettazione di un immigrante
è lasciata alla “mercy of nation state” (Garson 1997).
In questo contesto si pongono le politiche migratorie dei vari Stati.
In generale, la politica migratoria è definita come l’insieme delle norme che
regolano l’entrata di uno straniero in un paese (sia che intenda lavorare o
non lavorare), la sua permanenza legale e l’insieme di provvedimenti che
perseguono l’illegalità in entrambe le circostanze.
La politica migratoria definisce anche le dimensioni del flusso in entrata che
il paese è disposto ad accogliere e cioè l’ammontare dei permessi.
Le formule adottate sono varie ed interessanti negli Usa, l’ammontare di
accessi annuali tiene conto della contingenza economica e politica,
l’Australia e il Canada, per condizionare l’immigrazione ad un progetto di
sviluppo interno, hanno adottato un sistema a punti che combina obiettivi
demografici di riequilibrio della popolazione con obiettivi economici che
favoriscono sia l’accesso di imprenditori con un loro proprio ammontare di
capitale sia lavoratori qualificati secondo le richieste del mercato del lavoro.
Nei paesi del sud Europa, invece, è più diffusa l’attenzione alle scelte dei
nazionali in tal modo l’assunzione di uno straniero è condizionata
dall’assenza di nazionali disposti ad accettare alcuni posti di lavoro.
La politica migratoria è in effetti lo strumento per condizionare la natura del
flusso migratorio all’interno del paese ed il suo successo è influenzato,
soprattutto, dalla capacità di inserire la migrazione all’interno dei canali
previsti dalla legge, perseguendo la migrazione del lavoro illegale e sanando
i soggiorni illegali, attraverso la regolarizzazione.
In generale, una politica migratoria è definita aperta se l’accesso al paese è
relativamente semplice, la concessione di visti è facile e il rilascio dei
permessi di soggiorno è sottoposto a vincoli limitati.
Viceversa, una politica migratoria è definita restrittiva se cerca di contenere il
flusso migratorio con la definizione di un numero di permessi ridotto rispetto
all’offerta e sottoponendoli a numerosi vincoli.
La politica migratoria, inoltre, è detta selettiva, se combina l’apertura con la
specificazione di alcune caratteristiche necessarie per l’accesso al paese.
Il processo di trasformazione del “caso Italia” da paese di emigrazione a
paese di immigrazione è stato così repentino ed inaspettato che gli interventi
di politica migratoria si sono dovuti susseguire in modo numeroso e
successivo per regolarizzare situazioni createsi nel primo periodo di
sorpresa e vuoto normativo.
La legislazione preesistente,, infatti, era scarsa ed indefinita, le strutture
amministrative erano insufficienti e il supporto finanziario che avrebbe
dovuto sostenere le attività necessarie ad affrontare tale situazione, non era
stato pianificato. Le prime quattro regolarizzazioni, dunque, hanno cercato di
adattare le istituzioni al nuovo fenomeno.
La prima regolarizzazione risalente agli inizi degli anni ’80, viene disposta a
livello amministrativo nel 1982 con circolari del Ministero del Lavoro.
Il Ministro del lavoro blocca le assunzioni di nuovi lavoratori stranieri ed
impartisce disposizioni per regolarizzare le situazioni di fatto di persone
inserite nel mercato del lavoro senza permesso o con il permesso scaduto,
salvo il rispetto di una serie di condizioni: ingresso in Italia entro il 1981,
disponibilità, del datore di lavoro ad assumere il richiedente la
regolarizzazione, dimostrazione di aver svolto un’attività lavorativa continua
dal momento dell’ingresso, attestazione di non aver lasciato l’Italia per un
periodo superiore ai due mesi e, infine, deposito da parte del datore di lavoro
del biglietto aereo per il ritorno del lavoratore nel paese d’origine.
Tali disposizioni rimangono in vigore fino all’approvazione della legge
943/1986 ma ottengono effetti limitati soprattutto per via dello strumento
adottato: una circolare ministeriale, invece di una legge dello Stato.
La legge 30 dicembre 1986, n. 493 è la prima norma sugli
stranieri approvata in Italia. La percezione di un’ampia sacca di
posizioni irregolari, da parte degli immigrati, porta il legislatore a
prevedere un buon grado di regolarizzazioni delle posizioni
lavorative precedenti sia da parte dei lavoratori che da quella
dei datori di lavoro, con la possibilità di poter ottenere o
l’autorizzazione al lavoro o l’iscrizione nelle liste di
collocamento.
Nel 1990, la così detta legge Martelli (39/1990) innova in misura consistente
la normativa sull’immigrazione e prevede una sanatoria generalizzata per chi
fosse entrato in Italia entro la fine del 1989. Lo scopo è quello di ridurre al
minimo l’area di irregolarità e di evitare che in futuro si ripeta il formarsi di tali
posizioni.
All’epoca, solo il 4% degli stranieri può dimostrare di avere un
rapporto di lavoro in atto, ma la novità della legge è che, chi
non ha ancora un posto di lavoro può trovarlo non solo nel
settore del lavoro dipendente, ma anche in quello autonomo e
delle cooperative. Gli interessati hanno due anni di tempo a
disposizione e allo scadere dei due anni, il permesso non verrà
più rinnovato.
In quegli anni, l’Africa è il continente che più si avvantaggia da tali
provvedimenti, rappresentando la metà dei regolarizzati. Nel frattempo, i
nuovi corsi storici nell’Europa dell’est, cominciano a far sentire i propri effetti
anche sulla presenza degli immigrati in Italia, provenienti dai paesi ex-
comunisti.
Nel 1995 viene proposto, con decreto legge, un provvedimento di
regolarizzazione non convertito in legge. La legge 9 dicembre 1996, tuttavia,
conferisce efficacia definitiva alle istanze di regolarizzazione accolte dal
Ministero dell’Interno. Il provvedimento contempla tre ipotesi di
regolarizzazione:
- Lavoro subordinato: il datore di lavoro ha l’obbligo di pagare i contributi
previdenziali, anche arretrati, quando il rapporto presso lo stesso datore
di lavoro è già in atto da almeno 4 mesi. l’immigrato, può essere assunto
ex novo tramite apposite dichiarazioni e previo il pagamento di sei mesi
anticipati di contribuzione.
- Iscrizione alle liste di collocamento. Il lavoratore straniero disoccupato,
qualora dimostri di aver lavorato almeno 4 mesi presso lo stesso datore
di lavoro, riceve il permesso di soggiorno per l’iscrizione al collocamento
della durata di un anno e versa la quota contributiva a suo carico.
- Ricongiungimento familiare. Il permesso di soggiorno viene rilasciato al
coniuge e ai figli minori del cittadino straniero che sia titolare di un
permesso di soggiorno di almeno due anni, che risieda regolarmente in
Italia da almeno un anno e che abbia la disponibilità di un alloggio
idoneo.
Nel 1997 complessivamente sono state accolte 227.272 domande, respinte
2.737, pendenti 28.752. La percentuale delle domande accolte, di permessi
di soggiorno per motivi di lavoro subordinato, è stata del 82,4%. Quelle per
l’iscrizione alle liste di collocamento del 12,9% e per i ricongiungimenti
familiari del 4,7%.
Successivamente, la legge 40/1998 prevede che una quota di ingressi
venga riservata a coloro che possono dimostrare di soggiornare in Italia da
prima dell’entrata in vigore della legge stessa. In seguito, viene percepita
con maggior chiarezza la distinzione tra l’ingresso dei lavoratori previsto
dalle quote (meccanismo preventivo) e il recupero degli immigrati già
presenti sul territorio ed interessati alla regolarizzazione (meccanismo di
recupero).
Le istanze presentate sono state 250.747 delle quali, all’inizio del 2001
risultavano sospese 2.209 ed in fase di accertamento 34.336.
Delle domande di regolarizzazione il 14,5% è stato presentato per l’esercizio
di un lavoro autonomo e il 3% per ricongiungimento familiare.
I primi quattro provvedimenti legislativi in materia di immigrati hanno
consentito la regolarizzazione di 790.000 cittadini stranieri e cioè il 50% della
popolazione immigrata proveniente dai paesi a forte pressione migratoria
(Istat).
Inoltre, hanno dimostrato di essere funzionali al fabbisogno del mercato
occupazionale tanto che, per ricerca di lavoro erano iscritti il 65% nel 1986 e
l’86,2% nel 1990 mentre, la percentuale scende a 21,3% nel 1995 e al 4,9%
nel 1998.
Nelle prime regolarizzazioni la comunità africana è risultata essere la più
numerosa mentre, nelle due successive si è registrato un aumento delle
richieste da parte degli immigrati provenienti dall’Est Europa.
Negli anni più recenti la legge Bossi Fini n. 189/2002 in materia di
immigrazione ha apportato significative modifiche ed integrazioni al Testo
Unico n. 286/1998. In particolare, per quanto riguarda la disciplina sul lavoro,
sono state introdotte le seguenti innovazioni :
- Dal punto di vista dei profili organizzativi, la nuova normativa ha
completamente ridisegnato la procedura per l’accesso al lavoro dei cittadini
stranieri. In ogni Provincia, infatti, è stato istituito, presso le Prefetture, lo
sportello unico per l’immigrazione al fine di semplificare i rapporti con gli
utenti, riunendo in un unico organismo istituzionale tutte le competenze delle
amministrazioni coinvolte nella procedura dell’assunzione di un lavoratore
immigrato (Ministero dell’Interno, il Ministero degli Esteri, del Lavoro e delle
Politiche Sociali).
- Per quanto riguarda le modalità di ingresso, può stanziarsi in Italia, per
motivi di lavoro subordinato, solo lo straniero che ha già un contratto di
lavoro. Il datore di lavoro che voglia assumere un cittadino straniero, deve
presentare alle autorità competenti la richiesta di nulla osta al lavoro e, allo
stesso tempo, la documentazione relativa alla sistemazione alloggiativa per
il lavoratore. Fatti i dovuti accertamenti, lo Sportello unico concede il nulla
osta al lavoratore subordinato.
Il contratto di lavoro tra datore di lavoro e lavoratore non comunitario, poi,
deve contenere le garanzie di una adeguata sistemazione del lavoratore
immigrato e del pagamento, da parte del datore di lavoro, delle spese di
viaggio per il rientro dell’immigrato nel paese di provenienza.
Il permesso di soggiorno per lavoro ha la stessa durata del contratto di
lavoro e comunque non può superare i 9 mesi per i contratti di lavoro
stagionali;
1 anno per il lavoro subordinato a tempo determinato e 2 anni per il contratto
di lavoro subordinato a tempo indeterminato e per motivi familiari. Il rinnovo
del permesso di soggiorno è sottoposto alle stesse verifiche valide per il
rilascio.
Se un immigrato perde il posto di lavoro non è costretto a lasciare il paese,
né tanto meno lo sono i suoi familiari. Il lavoratore straniero, infatti, ha la
possibilità di essere iscritto alle liste di collocamento per il periodo di residua
validità del permesso di soggiorno e comunque per un periodo non inferiore
ai 6 mesi.
Inoltre il datore di lavoro che impieghi lavoratori non comunitari privi del
permesso di soggiorno per lavoro, o con permesso scaduto e senza che sia
stato richiesto il rinnovo, è passibile di arresto da 3 mesi ad 1 anno ed è
soggetto a sanzioni pecuniarie fino a 5.000 euro per ogni lavoratore
irregolare.
- Dal punto di vista della formazione professionale, è possibile realizzare
progetti di formazione all’estero nell’ambito di programmi approvati dal
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e dal Ministero dell’Istruzione e
realizzati da Regioni, Province autonome e altri Enti locali. Tale formazione è
finalizzata ad un inserimento mirato degli immigrati nei settori produttivi
italiani che operano all’interno dello Stato, ad un inserimento mirato nei
settori produttivi italiani che operano nel paese di origine dell’immigrato, ed
infine, allo sviluppo delle attività produttive o imprenditoriali autonome, nei
Paesi di origine dell’immigrazione.
- Per quanto riguarda la regolarizzazione, è prevista la possibilità, per i datori
di lavoro che ne abbiano fatto richiesta entro l’11 Novembre 2002, di
regolarizzare i rapporti di lavoro con cittadini non comunitari privi del
permesso di soggiorno per lavoro. La norma riguarda i lavoratori immigrati
occupati, da almeno tre mesi antecedenti l’entrata in vigore della legge,
come collaboratori domestici e per l’assistenza alle persone nonché in
qualità di lavoratori degli altri settori produttivi98 (L’estensione agli altri settori
produttivi è stata introdotta con l’entrata in vigore della legge n. 222/2002).
Tra i vari compiti della politica migratoria, abbiamo visto che c’è quello di
contrastare i flussi migratori irregolari. In generale, la presenza di un
lavoratore immigrato irregolare può avere due origini: l’entrata illegale,
dell’immigrato nel paese o l’entrata legale con permessi di soggiorno diversi
da quelli per motivi di lavoro, divenuti illegali al momento della scadenza e
98 Cfr. Semnario europeo, Immigrazione: Mercato del lavoro e Interazione, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e normesulla condizione dello straniero, Como 20-21 Novembre 2003
della successiva permanenza dell’immigrato. Entrambi questi due casi
danno luogo al lavoro illegale.
I problemi che pone la pratica dell’immigrazione clandestina, oltre ad
alimentare l’attività ed il giro d’affari dell’economia sommersa, sono di natura
criminale alimentando, per esempio, il traffico di immigrati clandestini, che
non solo danneggiano lo sviluppo dell’economia, sia dei paesi di
destinazione che di origine, ma che soprattutto danno vita ad inaccettabili
forme di moderna schiavitù. Recentemente l’OIM (Organizzazione
Internazionale delle Migrazioni) ha divulgato le tariffe che i migranti pagano
ai trafficanti per giungere nei paesi europei o nel nord America: dai 200 ai
30.000 dollari per andare negli Usa e, dai 1.000 ai 10.000 dollari per
raggiungere l’Europa.
Per rendere più efficace, quindi, la selezione operata dalla politica di
accesso un paese deve essere in grado di contrastare i flussi illegali.
L’Italia, per far fronte a tali problemi, nell’arco del 2002, ha impegnato
nell’attività di controllo dei confini e di repressione dello status di irregolarità,
complessivamente 149.783 unità.
Le sole espulsioni di nuova introduzione hanno riguardato in totale, 10.618
persone incidendo del 10,0% sul totale delle espulsioni che alla fine del
2002 sono state 105.808 [tabella 15].
Tabella 15Tavola riassuntiva della pressione migratoria verso l’Italia (2001-
2002)
Respingimenti 43.795alle frontiere 37.656dai questori 6.139Espulsioni eseguite 42.245accomp. Alle frontiere 24.799provv. A.G. 427riammissioni 17.019Espulsioni intimate 53.125ottemperate 2.273
non ottemperate 50.852Ordini del questore 10.618ottemperati 188non ottemperati 10.317arresti per mancato ottemperamento 113Totale persone coinvolte 149.783persone effettivamente allontanate 88.501Fonte: Ministero dell’Interno
Per via delle migliaia di chilometri di costa dell’Italia, gli sbarchi clandestini
dai paesi mediterranei sono stati il mezzo più diffuso per raggiungere il
nostro paese.
Al 31.12.2002 gli sbarchi rilevati sono stati 21.38099 e le regioni interessate
sono comprensibilmente la Sicilia, la Puglia e la Calabria.
Rispetto al 2001 si è riscontrato un aumento del 6,1%, pur rimanendo
notevolmente al di sotto delle cifre registrate nel corso del triennio 1998-
2002, quando solo nel 1999 arrivarono 49.999 immigrati.
Le nazionalità più coinvolte negli sbarchi sono quella irachena (17,2%),
seguita dallo Sri-lanka (12,3%), dalla Liberia (10%), dal Marocco (8,7%) e
dai curdi (7,3%).
La Sicilia è stata protagonista del 76,8% degli sbarchi clandestini, solo nel
2002. La propensione verso la Sicilia è un fenomeno recente su cui,
probabilmente, ha influito il rafforzamento dei controlli in Puglia.
I paesi da cui provengono i clandestini che sbarcano nell’Isola sono, per la
maggior parte, l’Iraq (14,4%), la Liberia (11,5%) il Marocco (10,1%) ed il
Sudan (6,9%).
La Puglia attualmente è la seconda regione italiana per numero
di sbarchi di clandestini con il 14,2% del totale. Al contrario, dal
1998 al 2000 la Puglia è stata letteralmente invasa dai
clandestini con un’incidenza pari al 74,6% nel ’98, del 93% nel
‘99 e del 70% nel ’00 e la nazionalità che prevalentemente è
99 Servizio Immigrazione e Ministero dell’Interno
sbarcata sulle sue coste è quella albanese (37%) seguita da
quella irachena (30%).
La Calabria è la regione in cui, durante il 2002, sono sbarcati il minor
numero di clandestini (8,9% del totale). Generalmente, comunque, le coste
calabre sono meta soprattutto delle così dette rotte orientali ed in particolare
dei cittadini dello Sri.Lanka e del Pakistan.
Altri confini “a rischio” sono quelli nord-orientali ed in particolare quello con la
Slovenia tanto che nel 2002 sono state rintracciate 1.133 persone irregolari
nella fascia italo-slovena della sola provincia di Trieste.
Gli immigrati che scelgono la “rotta balcanica” sono per lo più provenienti dai
paesi dell’Europa dell’est (jugoslavi, rumeni, macedoni, bosniaci, ucraini) ma
è frequente che raggiungano tali confini, anche gli immigrati provenienti
dall’estremo oriente a partire dalla Cina.
Il quadro fin qui riportato fa pensare che il nostro paese non
può sperare di agganciare la ripresa mondiale senza accogliere
più immigrati.
Questi, serviranno a colmare le carenze di manodopera nel
nord-est, nel turismo e nell’agricoltura e più in generale,
l’immigrazione è indispensabile per far crescere un paese in
declino demografico e con forti squilibri regionali.
La forza lavoro immigrata opera già nelle regioni in cui la produttività del
lavoro è più alta e la durata della disoccupazione più bassa e per questo gli
immigrati sono già più produttivi dei lavoratori nazionali.
Se regolarizzata in fretta, questa forza lavoro può essere di grande aiuto
anche per migliorare i conti pubblici.100
100 Cfr. T. Boeri, Immigrati una terapia d’urgenza, in La Stampa 2003.
Tuttavia, la maggior difficoltà che ha l’Italia, rispetto agli altri paesi del nord
Europa e d’oltre oceano, nel perseguire efficaci politiche migratorie, di
prevenzione e di repressione, è rafforzata dal richiamo che esercita il lavoro
irregolare. A tale richiamo rispondono, soprattutto, quegli individui il cui unico
interesse è quello di uscire da una situazione di estrema povertà per poter
accedere ad una qualsiasi fonte di reddito.
Quindi, L’ostacolo più grande che incontra il nostro paese nel gestire il
fenomeno, è rappresentato dal suo sistema produttivo e dal funzionamento
del mercato del lavoro, caratterizzato da una eccessiva rigidità
occupazionale e dalla segmentazione, cioè, da una forte presenza del
settore sommerso.
La politica migratoria dell’Italia, tenendo presente tali caratteristiche, deve
prevalentemente contrastare l’immigrazione irregolare sia nell’accesso
clandestino, sia nella presenza irregolare.
Le politiche adottate dai paesi, come Canada ed Australia, con una grande
tradizione alle spalle di paese di immigrazione, potrebbero essere un
esempio illuminante per la politica italiana.
Garantire l’accesso legale degli immigrati, in funzione della domanda di
lavoro presente nel paese, infatti, permette di selezionare, questo tipo di
lavoratori, secondo le esigenze del mercato del lavoro e della demografia e
consente di stimolare una politica di collaborazione da parte dei paesi di
origine, nel contenimento della migrazione illegale.
Conclusioni
Le conclusioni che si possono trarre riguardo alle varie problematiche che
sono state analizzate sono sintetizzabili come segue: in merito all’aspetto
demografico, primo problema di cui si è discusso, gli studi disponibili
cercano di quantificare il flusso aggiuntivo che sarebbe necessario per
mantenere stabile la struttura, per età, della popolazione, in quei paesi che
presentano elevati livelli di invecchiamento e un tasso di fecondità inferiore a
quello di sostituibilità generazionale.
E’ emerso che si richiederebbe, ai paesi di destinazione, una politica
migratoria capace di regolare i flussi in ingresso verso le caratteristiche
desiderate, cioè essenzialmente verso immigrati giovani e capaci di inserirsi
rapidamente nel mercato del lavoro del paese che li accoglie e che, ai fini
dell’assistenza previdenziale, occorrerebbero flussi migratori massicci e
fortemente crescenti nel tempo, che risulterebbero realisticamente
incompatibili con la struttura politico-istituzionale dei paesi di destinazione.
In particolare lo studio di G. Gesano (1995) valuta nel 30% della popolazione
nazionale la quota di immigrati necessari per raggiungere una popolazione
stazionaria. Mentre, il lavoro di F.Coda (2001), valuta che per poter ridurre il
disavanzo dei conti pubblici, senza riforme strutturali, si arriverebbe ad aver
bisogno di un flusso di immigrati pari ad 1 milione l’anno, solo in Italia.
Il limite di analisi simili è che i risultati raggiunti dipendono in maniera
rilevante dagli scenari ipotizzati sui flussi migratori che presentano un
elevato grado di aleatorietà, non riscontrabile per altre variabili demografiche
come fecondità e natalità.
Per quanto riguarda l’abbattimento, o il livellamento, del differenziale
economico esistente tra Nord e Sud del mondo, le soluzioni ipotizzate,
dell’ampliamento del commercio internazionale, o in sostituzione, della
liberalizzazione del movimento dei fattori di produzione (capitale e lavoro),
trovano entrambe degli ostacoli.
Da un lato i paesi avanzati oppongono resistenza alla prospettiva di dover
rinunciare a posizioni di privilegio, in termini di commercio internazionale, a
favore dello sviluppo dei paesi meno evoluti.
Dall’altro, spesso le condizioni politiche-istituzionali interne dei paesi in via di
sviluppo rendono difficile l’attuazione dei processi necessari di riforma
economica interna, nonché rischiosi gli investimenti diretti da parte delle
economie industrializzate, impedendo l’attuazione di quel processo di
globalizzazione che può portare ad attenuare il differenziale economico
esistente tra paesi in via di sviluppo e paesi più sviluppati.
Per quanto riguarda la mobilità del capitale fra paesi, la convenienza a
realizzare investimenti produttivi è spesso legata a fattori non solo
economici, ma anche politico-istituzionali, come la certezza dei diritti di
proprietà, l’esistenza di un libero mercato e la stabilità macroeconomica. Si
tratta di caratteristiche spesso mancanti nei paesi di origine del flusso
migratorio e ciò produce un’elevata incertezza sulla profittabilità di
investimenti diretti in questi paesi, pregiudicando, spesso, la realizzazione
del progetto di investimento; pertanto, la migrazione può supplire
all’insufficiente operare dei canali legati alla mobilità del capitale e allo
sviluppo del commercio internazionale.
Relativamente all’inserimento dei lavoratori stranieri all’interno del mercato
del lavoro dei paesi di destinazione le conclusioni a cui si giunge fanno
riferimento a tre scenari differenti.
All’interno di un ipotetico mercato del lavoro neoclassico, nel breve periodo,
l’aumento dell’offerta di lavoro nel paese d’accoglienza provoca un aumento
della disoccupazione ed una pressione verso il basso sui salari. Una
domanda di lavoro sufficientemente elastica al salario determina un aumento
dell’occupazione che, nel lungo periodo, porta al riassorbimento completo
della disoccupazione. Pertanto nel lungo periodo, in assenza di vincoli
nazionali sui flussi migratori e in presenza di salari perfettamente flessibili, i
movimenti migratori portano ad un livellamento dei salari sia del paese di
origine che di quello di destinazione e ad un’occupazione totale pari
all’offerta complessiva.
Se questo tipo d’andamento dei salari e dell’occupazione ben si adatta ai
mercati del lavoro statunitensi o canadesi, nei paesi europei i mercati del
lavoro non sono così flessibili né caratterizzati da mobilità occupazionale.
Nel caso in cui esista un sindacato che influenza la contrattazione salariale
dei lavoratori non qualificati e un governo che decida il numero di immigrati
da ammettere nel paese, un flusso di lavoro straniero porta al ribasso dei
salari dei lavoratori nazionali, non qualificati, e ad un aumento della
domanda di lavoro qualificato (i cui livelli salariali sono decisi dal mercato
competitivo). In questo caso, i lavoratori immigrati, supposti privi di qualifiche
professionali, sono perfettamente sostituti dei lavoratori nazionali non
qualificati e complementari ai lavoratori nazionali qualificati.
Relativamente all’esistenza di un settore informale accanto al settore
ufficiale dell’economia, si è evidenziato il ruolo negativo che gli immigrati,
impiegati nel settore informale, hanno sull’economia del paese
d’accoglienza.
Il ruolo competitivo che questi assumono, nei confronti dei lavoratori
nazionali, si concretizza con lo spostamento del capitale dal settore ufficiale
più produttivo al settore informale meno produttivo.
Il danno sostanziale è rappresentato dal trasferimento conseguente di parte
della forza lavoro nazionale nel settore informale e in una perdita totale di
efficienza di tutta l’economia del paese di destinazione che diventa meno
competitivo e produttivo rispetto alla situazione pre-immigrazione e rispetto
ai paesi esteri. In un simile scenario la competizione che si stabilisce tra i
lavoratori stranieri e quelli nazionali può essere definita indiretta, operando
essenzialmente attraverso lo spostamento di capitale dal settore regolare al
settore informale.
Per quanto riguarda il ruolo che il lavoratore straniero assume nel mercato
del lavoro del paese d’accoglienza, è risultato molto importante il livello di
capitale umano che questi porta con se al momento dello stanziamento nel
paese ospitante.
E’ risultato che più il lavoratore straniero è qualificato, o in
grado di acquisire qualifiche nel paese di destinazione, più egli
sarà in grado di inserirsi nel nuovo mercato del lavoro e sarà in
grado di avere successo, in termini salariali, analogamente ai
lavoratori nazionali.
Ad influire sulle performances dei lavoratori stranieri concorre, inoltre, il
grado di adattabilità del loro capitale umano al mercato del lavoro del paese
di accoglienza e la conseguente autoselezione che gli immigrati compiono.
Legato al livello di capitale umano, poi, è il periodo che l’immigrato stima di
trascorrere nel paese ospitante. Siccome acquisire professionalità ha un
costo, più tempo l’immigrato è interessato a rimanere nel paese di
destinazione, maggiore sarà il suo investimento in professionalità e migliore
il suo inserimento nel mercato del lavoro.
Il discorso inverso si può fare per gli immigrati che decidono di restare per
un periodo relativamente breve nel paese d’accoglienza: le loro
performances sono meno efficienti.
Le conclusioni cui si perviene con l’analisi teorica a volte non coincidono con
quelle a cui portano le indagini empiriche. Un esempio interessante lo
fornisce proprio l’Italia: data la scarsa flessibilità del mercato del lavoro, la
poca mobilità interna dei lavoratori nazionali e gli alti livelli di
disoccupazione, ci si aspetterebbe una difficoltà di assorbimento degli
immigrati nel mercato del lavoro. In realtà, si è riscontrato che, per la
maggior parte dei casi, gli immigrati sono complementari ai lavoratori
nazionali.
Questo succede soprattutto nel nord-est d’Italia, zona altamente
industrializzata, e per i lavoratori mediamente specializzati.
La spiegazione largamente accettata per questi risultati è che, in Italia il
fenomeno migratorio è relativamente nuovo e non ancora consolidato.
Lo studio prevede che, rimanendo costanti le caratteristiche del mercato del
lavoro italiano, le future eventuali entrate di immigrati porteranno ad un
grado di inserimento sempre minore.
L’analisi presa a riferimento esaminava dati che coprivano l’arco temporale
1990-1995.
Al fine di avere una conferma dei risultati dello studio sopra riportato,
nell’ultima parte della tesi, ho analizzato i dati relativi all’ultima
regolarizzazione avvenuta in Italia, che si riferisce all’anno 2002.
La conclusione che si può ricavare dai dati esaminati è che anche in questo
periodo, dopo dieci anni, resta fermo il carattere prevalentemente
complementare degli immigrati rispetto ai lavoratori nazionali.
Secondo l’ultima rilevazione ISTAT riferita al 2003 gli immigrati regolari in
Italia sono 2.400.000 vale a dire il 4% della popolazione italiana.
Sei sono i paesi esteri che rappresentano i principali poli di spinta
dell’immigrazione permanente, di questi il Marocco è il bacino maggiore,
seguono l’Albania, la Romania, le Filippine e la Cina.
Il fenomeno dell’immigrazione ha dimensioni consistenti ed è diffuso su tutto
il territorio nazionale compresi i piccoli centri e le zone agricole, tuttavia la
presenza degli stranieri all’interno delle regioni del paese non è omogenea.
Le zone del nord-ovest e del nord-est sono sicuramente quelle che attirano il
maggior numero di immigrati e la ragione risiede nella circostanza che la
ricchezza delle zone e la relativa economia dinamica rappresentano per
l’immigrato la possibilità di elaborare un progetto a medio – lungo termine
con la prospettiva di un insediamento permanente.
Di contro, le carenze strutturali del Meridione e la diversa realtà economica
non favoriscono l’insediamento degli immigrati in questa zona, pur
rappresentando la porta di ingresso per la quasi totalità degli immigrati
provenienti da tutto il mondo.
Questo tipo di distribuzione territoriale porta a concludere che la maggior
parte degli immigrati che si stabiliscono nel paese è mossa dalla necessità di
trovarvi un lavoro, mentre i ricongiungimenti familiari o i motivi di carattere
politico, religioso e di studio, alimentano solo marginalmente il flusso
migratorio in Italia.
Relativamente all’inserimento degli immigrati nel mercato del
lavoro italiano, l’archivio dell’INAIL ha registrato che nel 2002
sono stati assunti lavoratori non comunitari per 659.847 unità
(in media una ogni nove assunzioni ha riguardato un lavoratore
immigrato).
Le grandi aziende sono protagoniste nelle assunzioni degli
immigrati per il 41,6% mentre la restante quota di assunzioni è
divisa a metà tra le medie (da 11 a 50 dipendenti) e le piccole
imprese (fino a 10 dipendenti).
I due terzi dei lavoratori assunti (66,5%), inoltre, si colloca nella
fascia d’età 19-35 anni e il 26,6% nella fascia 36-50 anni.
Per quanto riguarda la distribuzione geografica delle assunzioni
dei lavoratori immigrati, il 69% di questi trova lavoro al nord,
con la prevalenza del nord-est che da solo assume il 37,8%
degli immigrati. Il 20,5% degli stranieri è assunto al centro e
solo il 10,5% al sud del paese, di cui il 2,8% nelle isole.
Il numero delle assunzioni al nord è sette volte maggiore di
quelle al sud.
La ripartizione delle assunzioni per grandi aree geografiche
assume valori differenti nei diversi settori economici. Nel nord-
est, non solo i lavoratori stranieri sono i più numerosi di tutto il
paese, ma lo sono anche in tutti i settori economici,
dall’industria all’agricoltura. Il centro mantiene un livello più o
meno costante di presenze in tutti i settori (20%), eccezion fatta
per l’agricoltura. Mentre, nel Meridione le maggiori presenze di
lavoratori stranieri si ha nel settore agricolo (13,8% al sud e
8,6% nelle isole).
Tra il settore dell’industria il ramo più significativo è quello delle costruzioni in
cui la grande rilevanza delle assunzioni dei lavoratori stranieri dimostra il loro
carattere complementare o aggiuntivo rispetto all’insufficienza di forze lavoro
italiane da impiegare in certi distretti economici.
Nel settore dei servizi il ramo più diffuso è quello degli alberghi e ristoranti,
sottolineando l’importanza, per il nostro paese, delle attività a carattere
stagionale che viene riconfermata anche dall’alta incidenza di lavoratori
agricoli stagionali che si concentrano, periodicamente, nel sud- Italia.
In generale, si possono individuare tre tipi di settori: i settori con
un fabbisogno molto alto di manodopera immigrata, nei quali
l’incidenza delle loro assunzioni, sul totale, è maggiore del 15%.
Questi comprendono
l’industria conciaria, tessile, dei metalli e di trasformazione.
I settori con un fabbisogno alto, nei quali l’incidenza delle
assunzioni degli immigrati varia dal 10% al 15%: alberghi,
ristoranti, costruzioni, trasporti e industria meccanica.
Infine ci sono i settori con un fabbisogno medio di manodopera
straniera con un’incidenza delle loro assunzioni che varia dal
7% al 10%: industria alimentare, industria chimica, della carta,
industria elettrica, commercio all’ingrosso e sanità.
In riferimento a questi valori, talvolta, si parla di fabbisogno
aggiuntivo di manodopera straniera e di tendenza alla
etnicizzazione di alcuni comparti produttivi. Tali valori, infatti,
non solo sono andati aumentando nell’arco del tempo ma, la
vera novità, è che in alcuni di essi le cessazioni dei rapporti, da
parte dei lavoratori italiani, sono maggiori delle assunzioni. Il
contrario avviene per gli immigrati e, addirittura, in alcuni
distretti, la fuoriuscita dei lavoratori nazionali non riesce ad
essere compensata dai lavoratori stranieri.
Sicuramente, in generale, i processi di ristrutturazione che sono
avvenuti negli ultimi anni, soprattutto nelle grandi industrie,
hanno contribuito a diminuire i livelli di occupazione. Tuttavia, a
fronte di un crescente allontanamento dei lavoratori italiani, in
alcuni settori, si assiste ad un perdurare del fabbisogno di
manodopera che viene coperto dai lavoratori non comunitari.
Nell’industria dei metalli, ad esempio, le cessazioni degli italiani
superano di 4.252 le loro assunzioni mentre, per i lavoratori
extracomunitari sono le assunzioni a prevalere sulle cessazioni
con 3.107 unità. Un altro esempio è dato dall’industria conciaria
dove il saldo tra assunzioni e cessazioni è negativo per gli
italiani (-2.599) e positivo per gli immigrati (1.579).
In definitiva, l’analisi della distribuzione della forza lavoro straniera nel nostro
paese ha dimostrato che in alcuni comparti economici (costruzioni, industria,
alberghi/ristoranti e agricoltura) e in alcune zone del paese (nord – est e
nord – ovest) il ruolo degli stranieri è decisamente complementare ai
lavoratori nazionali. Nel sud e nelle isole, l’arretratezza economica e i carenti
investimenti sul territorio, non permettono un insediamento degli immigrati
altrettanto numeroso. Tuttavia anche in queste zone, nel momento in cui gli
immigrati sono impiegati nel settore agricolo e dei lavori stagionali, risultano
complementari ai lavoratori nazionali.
Un ulteriore importante risultato emerso è che uno de principali problemi che
affligge il nostro paese è l’alta incidenza del lavoro irregolare.
Tale fenomeno riguarda sia i lavoratori nazionali sia i lavoratori stranieri e
per quanto riguarda questi ultimi, il problema sembra essere più grave
perché è spesso collegato ad attività criminali quali il traffico di clandestini o
lo sfruttamento di manodopera clandestina.
Per il 1999 l’ISTAT ha stimato la presenza di circa 3,5 milioni di unità di
lavoro in posizione non regolare tra lavoratori nazionali e non. Di questi è
difficile fare un’esatta stima di quanti siano gli immigrati irregolari per
l’evidente difficoltà di rilevazione dei dati.
Dalle stime dell’Ispettorato del Lavoro del Comando dei Carabinieri presso il
Ministero dell’Interno (2002) è emerso che sui 24.395 lavoratori in nero
12.350 erano non comunitari di cui il 19,4% clandestini e il 26,5% lavoratori
stranieri, con regolare permesso di soggiorno, ma impiegati nell’economia
sommersa101.
Questo è uno dei problemi di maggiore importanza che il
governo italiano e gli organi per la sicurezza sociale si trovano
a dover affrontare.
In particolare tale questione pone incertezze di ordine
strettamente politico, di sicurezza sociale ed e economico che
devono necessariamente essere affrontate con la
programmazione preventiva, sia per quanto riguarda i tempi di
attuazione degli eventuali interventi, sia per quanto riguarda la
disponibilità dei mezzi necessari per svolgere l’attività di
controllo e repressione del fenomeno.
In generale, nei paesi del sud Europa la politica migratoria è sempre stata
orientata verso una maggiore attenzione ai lavoratori nazionali rispetto agli
immigrati, quindi l’assunzione di uno straniero è spesso generata
dall’assenza di nazionali disposti ad accettare alcuni posti di lavoro.
La politica migratoria italiana non si discosta da un simile atteggiamento e,
ad oggi, ha emanato dei provvedimenti più di tipo correttivo, di situazioni al
di fuori della legge, che di tipo organizzativo e gestionale preventivo.
In definitiva, venti anni di regolarizzazioni con cinque importanti
interventi legislativi, hanno avuto più il compito di affrontare una
situazione di emergenza piuttosto che regolamentare il
fenomeno della migrazione in base alle necessità del mercato
del lavoro italiano.
101 Le ispezioni sono state fatte con criteri specifici diversi da quelli del campionamento, per cui, i dati hanno più un valore simbolico che analitico.
La maggior difficoltà che ha l’Italia, rispetto agli altri paesi dell’Europa
settentrionale e d’oltre oceano, nel perseguire efficaci politiche migratorie di
prevenzione e di repressione, è rafforzata dal richiamo che esercita il lavoro
irregolare.
L’ostacolo più grande che incontra il nostro paese nel gestire il fenomeno è
rappresentato dal suo sistema produttivo e dal funzionamento del mercato
del lavoro, caratterizzato da un’eccessiva rigidità occupazionale e dalla
segmentazione, vale a dire, da una forte presenza del settore sommerso.
Proprio questa sembra essere la sfida che l’immigrazione pone oggi all’Italia
e a tutti i paesi dell’UE.
L’obiettivo da cogliere, da parte dell’UE, in conformità alle esigenze di ogni
singolo paese che la compone, è quello di sviluppare delle politiche di
cooperazione con i paesi a forte spinta emigratoria per rendere coerenti le
esigenze di tutte le parti interessate dal fenomeno.
A tal proposito, oltre a considerare il particolare funzionamento di ciascun
mercato del lavoro, sarebbe utile osservare ed analizzare le politiche
migratorie adottate dai paesi con una lunga esperienza di immigrazione alle
spalle quali USA, Canada e Australia, i quali, condizionano l’ingresso degli
immigrati alle loro caratteristiche professionali ed alle reali esigenze
demografiche ed occupazionali dei relativi mercati del lavoro interessati
dall’immigrazione.