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1 UNITÀ C. I DIRITTI SULLE COSE. 1. IL SISTEMA PROPRIETARIO DEL CODICE CIVILE. 1. La seconda parte del corso ha ad oggetto l’esame delle principali dogmatiche di diritto privato nell’evoluzione tra le diverse esperienze giuridiche che abbiamo analizzato nell’Unità B. Seguiremo sempre questo metodo: inizieremo da una sommaria analisi del sistema del Codice civile vigente per individuare un minimo insieme di concetti, sui quali ottenere una comparazione omogenea degli istituti nei diversi ordinamenti. 2. Il primo tema è quello dei diritti sulle cose, che è trattato nel Libro terzo del Codice, intitolato alla Proprietà. 3. La disciplina del Codice si può riassumere in questo schema, indipendentemente dal come la materia è stata distribuita dal legislatore nei vari titoli e articoli: 1. Il fulcro intorno a cui viene costruita tutta la disciplina dei diritti sulle cose è il diritto di Proprietà; questa è definita in generale come il “diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno e esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico” (art. 832); analizzando la disposizione, troviamo due endiadi: a. “godere e disporre” indica generalmente tutti i poteri che il titolare ha sull’oggetto del suo diritto: i. il proprietario può usare (“godere”) della cosa come vuole, sia per le utilità che la cosa produce naturalmente, che per quelle che vengono prodotte da una qualsiasi attività che il proprietario voglia condurvi; la materialità oggettiva della cosa è irrilevante alla definizione del diritto: il proprietario di un fondo agricolo, ad esempio, può utilizzarlo per qualsiasi altra attività, anche la più strana o antieconomica rispetto alla natura del terreno; ii. il proprietario può liberamente cedere ad altri il suo diritto o l’uso del bene (“disporre”), per inseguire un profitto come per una liberalità, a chiunque egli voglia; b. “pieno e esclusivo” indica generalmente che il diritto di godere e disporre del bene: i. si estende a qualsiasi utilità che il bene possa rappresentare per il titolare (“pieno”), anche non conosciuta o tecnologicamente non esistente quando questi ha acquistato il suo diritto che, in tal modo, si estende di queste nuove facoltà (es. il lastrico solare di un edificio che diventa economicamente utile per installarvi antenne di telefonia cellulare o pannelli fotovoltaici); ii. spetta unicamente al proprietario che, per questo, può escludere (“esclusivo”) qualsiasi altro soggetto dall’avere un rapporto anche solo episodico e di fatto col bene oggetto del suo diritto; 2. La pienezza e l’esclusività dell’esercizio del diritto vengono variamente limitate da altre norme del Codice, che rinviano a volte a leggi speciali; un primo limite è quello degli atti emulativi (art. 833) per cui il proprietario non può usare del suo diritto al puro e semplice scopo di nuocere al vicino; un altro limite è quello dell’art. 844: il proprietario non può lamentarsi delle immissioni di rumori, scuotimenti, etc. che gli vengano dal fondo vicino, se questi sono giustificati dall’attività economica che vi svolge il proprietario, etc; 3. C’è un solo principio che non patisce eccezioni o limitazioni: il proprietario è sempre uno e uno solo. Il Codice disciplina specificamente la situazione in cui più persone sono proprietarie dello stesso bene (nell’esempio più frequente nella pratica, per essere eredi

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UNITÀ C. I DIRITTI SULLE COSE.

1. IL SISTEMA PROPRIETARIO DEL CODICE CIVILE.

1. La seconda parte del corso ha ad oggetto l’esame delle principali dogmatiche di diritto privato nell’evoluzione tra le diverse esperienze giuridiche che abbiamo analizzato nell’Unità B.

Seguiremo sempre questo metodo: inizieremo da una sommaria analisi del sistema del Codice civile vigente per individuare un minimo insieme di concetti, sui quali ottenere una comparazione omogenea degli istituti nei diversi ordinamenti.

2. Il primo tema è quello dei diritti sulle cose, che è trattato nel Libro terzo del Codice, intitolato alla Proprietà.

3. La disciplina del Codice si può riassumere in questo schema, indipendentemente dal come la materia è stata distribuita dal legislatore nei vari titoli e articoli:

1. Il fulcro intorno a cui viene costruita tutta la disciplina dei diritti sulle cose è il diritto di Proprietà; questa è definita in generale come il “diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno e esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico” (art. 832); analizzando la disposizione, troviamo due endiadi:

a. “godere e disporre” indica generalmente tutti i poteri che il titolare ha sull’oggetto del suo diritto:

i. il proprietario può usare (“godere”) della cosa come vuole, sia per le utilità che la cosa produce naturalmente, che per quelle che vengono prodotte da una qualsiasi attività che il proprietario voglia condurvi; la materialità oggettiva della cosa è irrilevante alla definizione del diritto: il proprietario di un fondo agricolo, ad esempio, può utilizzarlo per qualsiasi altra attività, anche la più strana o antieconomica rispetto alla natura del terreno;

ii. il proprietario può liberamente cedere ad altri il suo diritto o l’uso del bene (“disporre”), per inseguire un profitto come per una liberalità, a chiunque egli voglia;

b. “pieno e esclusivo” indica generalmente che il diritto di godere e disporre del bene: i. si estende a qualsiasi utilità che il bene possa rappresentare per il titolare

(“pieno”), anche non conosciuta o tecnologicamente non esistente quando questi ha acquistato il suo diritto che, in tal modo, si estende di queste nuove facoltà (es. il lastrico solare di un edificio che diventa economicamente utile per installarvi antenne di telefonia cellulare o pannelli fotovoltaici);

ii. spetta unicamente al proprietario che, per questo, può escludere (“esclusivo”) qualsiasi altro soggetto dall’avere un rapporto anche solo episodico e di fatto col bene oggetto del suo diritto;

2. La pienezza e l’esclusività dell’esercizio del diritto vengono variamente limitate da altre norme del Codice, che rinviano a volte a leggi speciali; un primo limite è quello degli atti emulativi (art. 833) per cui il proprietario non può usare del suo diritto al puro e semplice scopo di nuocere al vicino; un altro limite è quello dell’art. 844: il proprietario non può lamentarsi delle immissioni di rumori, scuotimenti, etc. che gli vengano dal fondo vicino, se questi sono giustificati dall’attività economica che vi svolge il proprietario, etc;

3. C’è un solo principio che non patisce eccezioni o limitazioni: il proprietario è sempre uno e uno solo. Il Codice disciplina specificamente la situazione in cui più persone sono proprietarie dello stesso bene (nell’esempio più frequente nella pratica, per essere eredi

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dello stesso de cuius) agli artt. 1100 e ss. come situazione giuridica caducabile, che può essere estinta non sulla comune volontà di tutti i proprietari, ma di chiunque fra essi. L’art. 1111 C.c. conferisce a qualsiasi comproprietario il diritto potestativo di chiedere lo scioglimento della comunione e riduce alla durata legale di dieci anni qualsiasi accordo tra i comproprietari per rimanere in comunione, anche con effetto per i terzi (es. una banca che conferisce credito). Nel disegno del Codice, la comproprietà è sempre una situazione che può evolvere verso la proprietà esclusiva: se la cosa è divisibile in natura, ciascun condomino ne prenderà una parte; se non è divisibile, essa sarà venduta a uno dei condomini o a un terzo, e la quota di proprietà degli altri si trasferisce su una quota del prezzo.

4. La proprietà è un diritto autodeterminato o, in altri termini, assoluto nella sua fattispecie genetica. L’art. 922 C.c. stabilisce che la proprietà si acquista solo per effetto di taluni titoli, che distinguiamo in originari e derivativi:

a. Originari: occupazione, accessione, invenzione, specificazione, unione o commistione, usucapione;

b. Derivativi: contratti; successione a causa di morte (legittima o testamentaria). La proprietà si acquista a titolo derivativo quando il diritto esiste nel patrimonio di un soggetto (dante causa) e si trasferisce nel patrimonio di un altro soggetto (avente causa). Si acquista a titolo originario quando essa si costituisce nel patrimonio dell’acquirente per un suo atto unilaterale (usucapione, invenzione, accessione), per un atto anche di terzi o un fatto fortuito (specificazione, unione, commistione).

5. Che si acquisti in un modo o nell’altro, la proprietà è un diritto che è sempre eguale a sé stesso: ha lo stesso contenuto indipendentemente dal titolo di acquisto. Il contenuto del diritto di proprietà è definito dalla legge, non dalla singola fattispecie che ha portato alla sua esistenza nel patrimonio del titolare: la proprietà del Codice è dunque autodeterminata rispetto al titolo perché è eterodefinita nel suo contenuto, atteso che l’ampiezza dei poteri del proprietario viene data dalla legge.

6. L’autodeterminazione del diritto si riflette sul processo: la causa petendi di un giudizio con cui l’attore cerca tutela del suo diritto di proprietà su una cosa (cd. giudizio di rivendica) coincide col petitum, perché il diritto di proprietà è eguale a sé stesso qualunque sia il suo titolo, che nel processo assume il ruolo di causa petendi. L’accertamento del titolo è così questione di fatto, non di diritto: deve essere effettuata quando il convenuto opponga un suo titolo incompatibile con quello vantato dall’attore.

7. Queste caratteristiche sono, nella loro totalità, appannaggio del solo diritto di proprietà, che il Codice rende come una sorta di sovranità sulla cosa, limitata solo dalla legge. I limiti operano comprimendo (termine tecnico) l’assolutezza del diritto; appena i limiti cessano, il diritto si riespande (altro termine tecnico) per comprendere le facoltà inibite dalla presenza del limite. E’ principalmente per tracciare limiti differenziati che il Codice disciplina regimi diversi per la proprietà fondiaria, per la proprietà edilizia e per la proprietà di cose particolari, come le acque. In linea di principio, la disciplina della proprietà è (deve essere) la stessa sia per i beni mobili che per quelli immobili.

8. Il Codice disciplina anche altri diritti sulla cosa, che la dogmatica odierna definisce diritti reali limitati su cosa altrui: l’usufrutto, l’uso, l’abitazione, la superficie, l’enfiteusi e le servitù prediali. L’esistenza di questi diritti presuppone che sulla cosa esista la proprietà di un soggetto e che un altro abbia il diritto di usarne entro certi limiti. Anche queste situazioni sono caducabili, in favore del proprietario o, per la sola enfiteusi, in favore dell’altro soggetto. La caratteristica principale dell’usufrutto- il diritto di usare una cosa secondo la sua natura e trarne i frutti- è che esso non può eccedere la vita dell’usufruttuario, al termine

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della quale si estingue, facendo riespandere la proprietà sottostante (detta nuda proprietà). La caratteristica dell’enfiteusi (una disciplina largamente abrogata, salvo che per questo aspetto) è che l’enfiteuta (il quale ha il dovere di alterare la natura della cosa, apportandovi delle stabili migliorie) può diventare proprietario unilateralmente, pagando una cifra determinata dalla legge. Il contenuto di questi diritti è strettamente determinato dal Codice (e, talvolta, da leggi speciali). L’unica eccezione è data dalle servitù prediali, che possono avere un contenuto determinato dal titolo di costituzione, ove questo sia un contratto tra il proprietario del fondo che esercita la servitù (dominante) sull’altro (servente). Queste situazioni giuridiche sono diritti reali essenzialmente per la caratteristica della sequela: essi seguono il bene nel trasferimento della proprietà. Il bene gravato da uno qualsiasi tra questi diritti si trasferisce all’acquirente gravato da essi.

9. Il sistema dei diritti reali limitati si fonda su un principio che non è contenuto in uno specifico articolo del Codice, ma che la dogmatica odierna desume quando dall’art. 2643 C.c. (atti soggetti a trascrizione), quando dall’art. 1372 (relatività degli effetti del contratto): i diritti reali sono solo quelli espressamente previsti dal Codice e non se ne possono inventare di nuovi per accordo tra le parti. Questo accordo non sarebbe trascrivibile (come accade agli atti costitutivi della proprietà e degli altri diritti reali), perché l’art. 2643 non li comprende nel proprio elenco, che è tassativo; il diritto reale “inventato” non potrebbe essere opponibile a un terzo acquirente del bene gravato, perché il contratto che lo costituisse non avrebbe effetti per questi, che non ne è stato parte. Vero è che il principio del numerus clausus dei diritti reali viene ritenuto consustanziale a qualsiasi disciplina moderna della proprietà, talché nessun Codice civile ha un articolo che impone espressamente il principio di tipicità dei diritti reali (la sola eccezione è stata il Codice civile Argentino del 1871, che ha avuto vigenza sino al 2015; il nuovo Codice non contempla un simile articolo, considerandolo inutile). Il principio del numerus clausus riguarda indirettamente anche il diritto di proprietà: non si può, per accordo tra due o più parti, costruire un diritto di proprietà che sia diverso da quello descritto nell’art. 832 C.c.

10. La tutela della proprietà comprende anche la tutela del potere di fatto corrispondente all’esercizio della proprietà o di un altro diritto reale: il possesso (art.1140 C.c.). Il Codice tutela il possesso sotto due profili:

a. come mezzo per tutelare il diritto del proprietario rispetto a atti di terzi che lo limitino o pregiudichino;

b. come mezzo che porta all’acquisto della proprietà con l’usucapione: colui che possiede in modo apparente per più di venti anni senza essere turbato nel suo possesso acquista la proprietà del bene.

L’usucapione è così il momento di chiusura del sistema proprietario: il soggetto che intende tutelare il suo diritto di proprietà turbato da un terzo dovrà provare (come fatto) in giudizio il suo titolo formale di acquisto (es. compravendita, successione ereditaria) ma, se questi atti sono assai risalenti e non riesce a produrli in giudizio, potrà sempre chiedere che la sua proprietà venga accertata sulla base del suo possesso ultraventennale del bene. Ancora una volta, il titolo di acquisto è indifferente al contenuto del diritto: che si acquisti per compravendita o per usucapione, la proprietà privata resta sempre proprietà.

11. Questo sistema è quello che il Codice riserva alla proprietà privata e ai diritti reali che insistono su proprietà private. Il Codice civile, agli artt. 822 e ss. rinvia a una disciplina diversa per i beni in proprietà pubblica, assegnandoli a due categorie, i demaniali e i patrimoniali, I beni demaniali sono quelli che possono appartenere solo allo Stato (art. 822 comma 1; es. il lido del mare) o quelli che, se appartengono allo Stato (autostrade, strade

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ferrate, etc.) sono destinate dal Codice allo stesso regime: l’inalienabilità. Un bene demaniale non può essere venduto e, soprattutto, non può essere usucapito: il possesso ultraventennale di un bene demaniale resta privo di qualsiasi effetto giuridico.

2. LA PROPRIETÀ E LA SUA TUTELA PER DIRITTO ROMANO.

1. Questo sistema è largamente tributario di quello esistente nel diritto romano come trasmesso dal Corpus Iuris di Giustiniano. Vi è una ragione specifica, per questo, che vedremo oltre.

2. In questa sede, va evidenziato solo un aspetto: il Corpus Iuris contiene una disciplina per tutte le situazioni reali limitate oggi descritte nel Codice e utilizza (senza darne una definizione) un unico concetto di proprietà che è sovrapponibile alla definizione dell’art. 832 C.c., ma questi istituti traggono origine da epoche diverse del diritto di Roma antica:

1. Le servitù prediali di iter (diritto di passaggio a piedi), via (passaggio anche con carri), actus (passaggio con greggi), aquae ductus (diritto di far passare acque sul fondo altrui) nascono nel diritto arcaico e sono comprese tra le res mancipi; la loro costituzione e estinzione deve cioè avvenire attraverso la formalità della mancipatio, in cui un terzo, accertando la corrispondenza tra un prezzo pagato in metallo o monete e il valore del diritto di servitù, dispone il trasferimento reciproco dei due beni (prezzo e servitù);

2. Le servitù appena descritte rispondono a esigenze proprie di un’economia agraria, quale quella dei secoli più antichi. Altre servitù vennero tutelate dall’ordinamento romano in tempi successivi, in funzione della crescente complessità del tessuto urbano, come la servitus altius non tollendi (la servitù che l’edificio più alto impone al fondo servente più basso, sul quale non si potrà edificare un fabbricato che superi in altezza quello adiacente).

3. L’usufrutto compare intorno al III secolo a.C., come istituto ereditario: il de cuius istituisce erede Tizio di un certo bene, ma gravandolo del diritto, che attribuisce a Caio, di usarne e trarne i frutti per la durata della sua vita naturale o per un termine definito.

4. L’enfiteusi compare più di settecento anni dopo, intorno al IV secolo d.C.. La prima disciplina è in una costituzione dell’Imperatore Costantino, che viene maggiormente strutturata dagli Imperatori successivi, fino a Giustiniano. Lo stesso nome, derivante dalla lingua greca, ne tradisce le origini orientali e l’estraneità al diritto romano classico.

5. Sorte analoga per la superficie: nel diritto romano classico non è un diritto reale vero e proprio, è solo il risultato di una tutela possessoria data a chi occupa con una propria costruzione e dietro concessione una parte di un’area pubblica (una strada, ad esempio); diventa diritto reale limitato su cosa di altrui proprietà privata solo in epoca tarda e giustinianea.

3. Per come abbiamo visto nelle Unità precedenti (Unità B2-B4), per diritto romano un istituto può dirsi esistente nell’ordinamento se e solo se esiste la possibilità di tutelarne gli effetti attraverso il giudizio: un diritto reale limitato esiste, pertanto, solo se l’ordinamento concede al suo titolare un’azione per difendere questa sua situazione giuridica soggettiva nei confronti del proprietario del fondo. Anche la proprietà privata partecipa, ovviamente, di questo schema: essa esiste perché l’ordinamento configura un’azione per la tutela del diritto del proprietario.

Nel diritto arcaico, l’azione a tutela della proprietà è l’actio sacramenti in rem:

1. Il presupposto è che due soggetti si dichiarino proprietari dello stesso bene; 2. Entrambi si recano in iure portando la cosa mobile oggetto della contesa o un frammento

della cosa immobile, se è questa ad essere in contestazione (es. una zolla di terra);

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3. In iure, il magistrato consegna una festuca (una bacchetta) a una tra le parti, che se ne serve per toccare la cosa portata in causa, gesto con cui se ne afferma proprietario; la festuca passa poi all’altra parte; se anche questi tocca la cosa, affermandosene a sua volta proprietario, si realizza la litis contestatio: ciascuna parte promette all’altra di pagare una somma all’Erario nel caso egli mostri di aver dichiarato il falso;

4. Apud iudicem ciascuna parte porterà i fatti a sostegno della propria pretesa; lo iudex deciderà chi ha dichiarato il falso, di conseguenza accertando la proprietà dell’altro.

Per come si può vedere, è un modello di rappresentazione del conflitto proprio di una società arcaica, che trova molte similitudini con quanto abbiamo analizzato nell’Unità B.12 a proposito del documento M: anche presso gli Alamanni, più di mille anni dopo, la controversia viene rappresentata come il conflitto di due soggetti che vantano uno stesso titolo su una stessa cosa che, se immobile, viene rappresentata con una parte di essa (la zolla che il giudice avvolge in un panno). Quanto nel diritto di Roma arcaica è affidato a uno iudex, viene invece affidato a Dio dagli Alamanni, ma la rappresentazione della controversia è identica.

4. Questo fatto non è una coincidenza. Il punto è che, quando si costruisce la proprietà come relazione giuridica tra uomo e cosa, non si può prescindere dal costruire il relativo giudizio secondo alcune caratteristiche, che si riscontrano, di conseguenza, anche nelle culture più lontane e si ripropongono anche nei nostri ordinamenti positivi attuali.

Queste sono:

1. L’autodeterminazione, che abbiamo già definito (Unità C.1.par 3.5): la litis contestatio sostituisce ai titoli che ciascuna parte pone a fondamento del proprio diritto un rapporto processuale, nel quale la prova della proprietà si traduce nella prova dello spergiuro dell’altra parte, che può essere data in qualsiasi modo; il diritto può così essere accertato anche come effetto di titoli diversi da quelli allegati dalle parti all’inizio del processo: la domanda giudiziale resta la stessa anche se Tizio, dopo aver vantato un acquisto da Sempronio, alleghi anche la sua usucapione del bene;

2. Il mero accertamento: la proprietà si tutela semplicemente accertandone l’esistenza; una volta che una delle parti della contesa è riconosciuta proprietaria, il giudice non deve tradurre tale accertamento in provvedimenti specifici (Caio, sconfitto, non entri nel fondo; se vi è già, lo abbandoni, etc.), perché queste non appartengono alla fase della cognizione, ma a quella dell’esecuzione dello stesso;

3. l’effetto riflesso del giudicato verso i terzi: accertata come di Tizio la proprietà della cosa che era contesa da Caio, questo accertamento vale erga omnes, in confronto cioè di tutti i consociati; la sentenza si oppone a tutti come nuovo titolo della proprietà di Tizio; se qualcuno vorrà andare in giudizio contro Tizio affermandosi proprietario della stessa cosa, dovrà produrre un titolo successivo che possa estinguere la proprietà di Tizio e costituire la sua, sulla base del quale dimostrare, di fronte a un nuovo iudex e previa una nuova fase in iure, lo spergiuro di Tizio.

Per completezza, va ricordato che il giudizio poteva arrestarsi nella fase in iure: se Tizio avesse condotto Caio davanti al praetor e Caio si fosse rifiutato di toccare la cosa con la festuca, ciò sarebbe stata una confessio in iure (Unità A.3. par. 1) e la proprietà di Tizio sarebbe stata accertata senza passare per la fase apud iudicem. In questo modo, del resto, si perfezionava il passaggio consensuale della proprietà: il cedente (venditore, donante, etc.) confessava in iure di non essere proprietario della cosa che, in realtà, voleva trasferire all’altra parte (in iure cessio).

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5. Queste caratteristiche si ritrovano eguali allorché la tutela della proprietà viene tradotta nel secondo modello processuale di Roma antica: il processo formulare (Unità B.4).

L’azione si chiama rei vindicatio (da cui il nostro termine di azione di rivendica) e la sua formula è questa:

“Se risulta che il fondo di cui si tratta è di A.A. ex iure Quiritium e il fondo non sarà restituito ad A.A. in conformità alla valutazione del giudice C.A., il giudice C.A. condanni N.N. a pagare a A.A.una somma pari al valore che avrà la cosa; se non risulta, lo assolva.”

Anche il processo per formulas è un giudizio sostitutivo: le parti si presentano in iure e lì devono, con la supervisione del praetor, concordare su un enunciato ipotetico che metta in grado lo iudex di accertare come esistente la pretesa dell’attore o l’eccezione del convenuto. Quella che vediamo qui è l’ipotesi più semplice:

1. A.A. chiede che sia accertata la proprietà del terreno su cui N.N. insiste materialmente (coltivandolo, ad esempio);

2. Se il giudice darà ragione a A.A., N.N. dovrà rilasciargli il fondo o, altrimenti, essere condannato a pagarne il valore, che le parti demandano al giudice di stabilire;

3. Si realizza così la sostituzione di rapporto processuale al rapporto sostanziale: il giudizio ha ad oggetto l’accertamento di un debito del convenuto nei confronti dell’attore; se questo debito viene accertato, si accerta automaticamente la proprietà dell’attore; se questa proprietà non viene accertata, il convenuto non è debitore.

Anche in questo caso, la proprietà manifesta, nel giudizio, le stesse tre caratteristiche che abbiamo appena visto:

1. È autodeterminata, poiché è indifferente la questione del titolo d’acquisto; 2. Il giudizio tende al mero accertamento del diritto, talché il convenuto soccombente ha la

scelta tra rimettere il bene all’attore vittorioso o trattenerlo, pagandone il valore; 3. L’accertamento esprime un effetto riflesso verso tutti i consociati i quali, se vorranno

dichiararsi proprietari, dovranno far causa alla parte vittoriosa del giudizio vantando un diverso titolo d’acquisto.

6. Queste tre caratteristiche si predicano però in modo diverso, cosa assai importante ai nostri fini:

– l’actio sacramenti del processo arcaico ha una struttura bilaterale: entrambe le parti si presentano in iure con la stessa posizione processuale e si promettono reciprocamente le stesse cose, per realizzare la litis contestatio;

– la rei vindicatio del processo formulare ha una struttura unilaterale: essa ha per presupposto necessario che un soggetto abbia un rapporto materiale sulla cosa e l’altro no; l’azione è diretta contro chi detiene il bene contro il volere di chi se ne assume proprietario.

Da qui, due conseguenze:

1. il convenuto può difendersi, alternativamente: a. affermando di essere titolare di una situazione incompatibile col diritto vantato

dall’attore: se questi dice, ad esempio, di aver ricevuto il bene in eredità, il convenuto può rispondere di averlo acquistato dal de cuius prima che questi morisse;

b. affermando di avere sulla cosa un diritto reale compatibile con la proprietà dell’attore: se questi dice di aver ricevuto il bene in eredità, il convenuto può

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rispondere dicendo di aver ricevuto l’usufrutto dal de cuius, che lo legittima a restare sul bene e trarne i frutti vita natural durante.

2. la configurabilità di un diritto del convenuto compatibile con il diritto di proprietà dell’attore, come nel caso dell’usufrutto, rende autonomamente riconoscibile il possesso, come potere di fatto sulla cosa, che può essere tutelato come rappresentazione del diritto di proprietà:

a. se il rapporto materiale di un soggetto con la cosa è il presupposto perché egli possa essere individuato come convenuto nell’azione di rivendica, egli può chiedere di essere mantenuto in questa situazione di fatto finché il giudice non decida della titolarità del diritto di proprietà;

b. se egli assume di essere usufruttuario della cosa, egli è anche possessore della cosa a questo titolo, e ha quindi diritto di esservi mantenuto.

7. La tutela del diritto di proprietà nel processo formulare porta così all’esigenza di individuare una tutela anche per il possesso, come stato di fatto che deve essere mantenuto nella sua forma attuale finché non sarà deciso del diritto di proprietà (o dell’altro diritto reale) di cui è immagine. I praetor, nella dinamica politica che abbiamo visto nell’Unità B4, concederanno sempre più degli interdetti: provvedimenti provvisori con cui si tutela lo stato di fatto corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà (es. interdictum uti possidetis).

Anche questo profilo si riproduce nel nostro ordinamento attuale, in cui il possesso è tutelabile solo in via cautelare, con provvedimenti che devono essere necessariamente provvisori e strettamente strumentali all’accertamento del diritto (proprietà, usufrutto, superficie, etc.) di cui manifesta l’esercizio.

8. Per completare il quadro, è appena il caso di ricordare come la formula della rei vindicatio possa essere adattata, a parti invertite, per dare tutela all’usufruttuario (e, successivamente, al superficiario), generando altrettante azioni (vindicatio ususfructus, etc.)

9. Il sistema proprietario del diritto romano è dunque lo stesso del nostro diritto positivo attuale, contenuto nel Codice civile? Da questo momento, per semplicità, prenderemo ad oggetto solo la proprietà della terra che, fino alla prima Rivoluzione industriale (1760-1830 circa), rappresenta l’unico bene produttivo.

La risposta è no, per un motivo molto semplice: il nostro Codice civile assume che la terra sia o in proprietà di un privato o in proprietà dello Stato. Tra i beni pubblici, quelli patrimoniali restano in una situazione proprietaria che è poco (o per nulla) diversa dalla proprietà privata. In altri termini, il diritto di proprietà dell’art. 832 C.c. è l’unico regime giuridico di appartenenza della terra, come delle altre cose monili e immobili.

L’ordinamento giuridico di Roma antica conosce invece più di un regime di appartenenza della terra:

1. l’ager publicus, la proprietà pubblica gestita direttamente dagli organi politici; 2. l’ager occupatorius, occupato da privati, ma che potrebbe (in teoria) passare in proprietà

pubblica o privata per decisione politica; 3. l’ager vectigalis, o, semplicemente, vectigal: terreni di proprietà dei municipia, che venivano

dati in locazione; 4. l’ager adsignatus: questi erano gli unici terreni in proprietà privata, il dominium ex iure

Quiritium, che presupponeva la divisione (“centuriazione”).

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Questa situazione riflette pienamente il carattere oligarchico della società romana. I patrizi erano in genere intestatari dell’ager occupatorius, che solo formalmente poteva essergli tolto, nella sostanza restava nella loro disponibilità di generazione in generazione, in funzione del controllo politico che essi avevano sulla Res publica. Il dominium ex iure Quiritium veniva dato come ricompensa ai soldati congedati dopo un lungo servizio e consisteva sempre in appezzamenti di piccole dimensioni. La situazione economicamente egemone, che costituiva vasti latifondi, era dunque quella che a noi appare più debole dal punto di vista giuridico, perché priva di tutela obbligatoria. Il punto è che in una società estremamente chiusa, come quella del patriziato romano, non esisteva un vero contenzioso sulla titolarità dei latifondi: ove fossero sorte controversie, la via della mediazione era quella più consona ai valori di quella classe sociale.

Il dominium ex iure Quiritium era quindi solo una tra le situazioni proprietarie, l’unica per la quale l’ordinamento avesse predisposto delle azioni a tutela e non quella più importante dal punto di vista economico. Allo stesso tempo, la proprietà della terra era un carattere distintivo della civiltà romana, uno dei segni con cui essa si pensava (ed era effettivamente) diversa dalle altre culture con cui venne a contatto, chiamate (dal loro punto di vista) barbare.

Cesare, de bello gallico, IV, 1.

“Gli Svevi, tra tutti i Germani, sono il popolo più numeroso ed agguerrito in assoluto. Si dice che siano formati da cento tribù: ognuna fornisce annualmente mille soldati, che vengono portati a combattere fuori dai loro territori contro i popoli vicini. Chi è rimasto a casa, provvede a mantenere sé e gli altri; l'anno seguente si avvicendano: quest'ultimi vanno a combattere, i primi rimangono in patria. Così non tralasciano né l'agricoltura, né la teoria e la pratica delle armi. E non hanno terreni privati o divisi, nessuno può rimanere più di un anno nello stesso luogo per praticare l'agricoltura. Si nutrono poco di frumento, vivono soprattutto di latte e carne ovina, praticano molto la caccia. Il tipo di alimentazione, l'esercizio quotidiano e la vita libera che conducono (fin da piccoli, infatti, non sono sottoposti ad alcun dovere o disciplina e non fanno assolutamente. nulla contro la propria volontà) accrescono le loro forze e li rendono uomini dal fisico imponente. Sono abituati a lavarsi nei fiumi e a portare come vestito, in quelle regioni freddissime, solo delle pelli che, piccole come sono, lasciano scoperta gran parte del corpo.”.

Cesare descrive gli Svevi come se fossero l’opposto dei Romani: non hanno proprietà divise e assegnate perché non hanno gerarchie sociali. Essi praticano l’agricoltura, ma su terreni che sembrano essere in proprietà di tutti. Per evitare che si formino delle proprietà private, hanno per regola che chi ha coltivato un certo pezzo di terra per quell’anno, debba lasciarlo a un altro l’anno successivo. L’agricoltura la praticano poco, comunque, preferendo l’allevamento e la caccia, che si possono praticare senza essere proprietari di un terreno. Questo modo di vivere li porta all’anarchia sociale, a non fare mai nulla contro la propria volontà del momento: l’esatto contrario dei Romani, che da settecento anni hanno delle istituzioni stabili, dai Consoli, al Senato, al Tribunato della plebe, e così via.

3. IL MEDIOEVO. PROPRIETÀ E CONSUETUDINE.

1. La proprietà e le altre situazioni reali limitate su cosa altrui ricevono la loro struttura giuridica dal particolare modello processuale del diritto romano, soprattutto dal processo formulare. In epoca altomedievale, caratterizzata da un modello processuale inquisitorio fatto per trarre la norma di composizione della controversia dal fatto di causa, il sistema delle situazioni reali si pone in modo totalmente diverso e incompatibile.

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A. Atto di donazione, anno 890, 30 novembre.

“Nel nome di Cristo, io Irmengarda, devota a Dio, figlia della buona memoria di Ludovico Imperatore, professa a vivere per mia nascita sotto la legge Salica, a voi Scanburga, badessa del Monastero della Santa Resurrezione e dei Santi Sisto e Fabiano, che fu fondato entro la città di Piacenza, e che un tempo edificò l'augusta Angelberga imperatrice e mia madre sui suoi possedimenti, dono, cedo e conferisco in favore della mia anima e di quella dei miei augusti genitori a voi badessa Scanburga e a chi vi succederà in perpetuo ad uso e reddito delle monache ancelle di Dio che qui dimorano e che quotidianamente saranno anche in futuro in questo luogo santo e venerabile queste cose. Sono delle mie corti, che giacciono nel comprensorio piacentino, una a Dulgaria, l’altra a Fabiano, la terza a Fabbrica, la quarta… [segue una lunga lista di beni fondiari].

Queste dette corti, per come sopra descritte, con tutte le loro pertinenze etc. di mio diritto confermo nel prenominato cenobio ad uso e reddito delle monache di Dio che vi risiedono, ad eccezione solo di tre misure e mezzo di terra nella località Roncaglia, che fanno parte della corte Wardestalla, che ho già dato in usufrutto al diacono Everardo, e quattro misure nel sopradescritto comprensorio piacentino, che appartengono alla Corte Maggiore, nel luogo che viene detto Corte Redi, che abbiamo similmente dato in usufrutto per i giorni di sua vita al Vescovo Everardo, le quali dopo il decesso di costoro saranno pure nel diritto del predetto cenobio, per come sopra a beneficio della mia anima, etc.

E la presente donazione o questa cessione permanga in ogni tempo ferma e incontestata, etc.

E affinché sia giusta e fatta secondo la legge Salica, nella quale io sono manifesta vivere, a voi, badessa Scamburga come parte di quelle monache, che quotidianamente prestano il loro servizio nel già detto santo e venerabile luogo, trasferisco e faccio legittima vestitura per l’uso e il reddito che esse ne trarranno a mezzo della zolla di terra, del coltello, della festuca con i nodi, delle fronde degli alberi, affinché abbiano da questo giorno ogni diritto, per come sopra si legge. E io, uscendo fuori dal terreno, ne ho fatto abwarp (rinunzia) e absas (assenza), ho levato da terra la pergamena col calamaio e ho chiesto al notaio Leone di scrivervi tutto questo.

A questo punto io, Leone, notaio, scrissi questa carta nel giorno prima delle Calende di Dicembre, nel terzo anno di regno del Re Guido, nella nona indizione.”

2. Questo documento contiene una donazione di terre che un personaggio nobile fa a un monastero, perché la cosa vada a favore della sua anima. L’oggetto della donazione è una serie di Corti, ossia di terreni coltivati su cui insistono le case in cui abitano i contadini. Molte di queste corti (il nome è dato dal fatto che le case vengono spesso costruite in circolo tra loro, a delimitare uno spazio comune) diverranno, nei secoli successivi, dei centri urbani che esistono ancora oggi, coni nomi con cui sono descritte nel documento.

Per comprendere quanto è scritto nel documento, dobbiamo partire da una circostanza: il notaio deve rendere in lingua latina cose per cui la lingua latina non ha né parole né, soprattutto, concetti. I termini essenziali della struttura giuridica del trasferimento vengono così resi traslitterando la lingua germanica della donante.

A noi interessa la parte finale del documento: la donante, poiché vive secondo la legge Salica (doc. A, Unità B8) deve compiere materialmente alcuni atti. Nello specifico, deve stare su un pezzo della terra che trasferisce insieme alla ricevente (donataria) e dare ad essa una zolla di quella terra, un coltello, un bastoncino con delle cordicelle annodate; deve poi prendere da un albero lì piantato uno o più rami e darli egualmente alla donataria.

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Fatto questo, deve uscire dal suo possedimento, portandosi su un pezzo di terra che non è suo (ad esempio, una strada), portando con sé la pergamena e il calamaio che serviranno a scrivere l’atto, oggetti che, per tutta la durata di questa specie di cerimonia sono rimasti deposti sul terreno oggetto di cessione. Fatto tutto questo, consegna carta e calamaio al notaio, che li utilizzerà per scrivere l’atto.

Il notaio scrive l’atto come fosse un giornalista di oggi: l’unico suo compito è quello di descrivere nel modo più esatto possibile, insieme ai beni trasferiti e ai diritti già esistenti in favore di terzi, quello che ha visto accadere sul terreno.

3. Il punto è questo: quando le uniche norme di risoluzione dei conflitti sono date da consuetudini materiali, il concetto stesso di un diritto autodeterminato e assoluto come la proprietà dell’art. 832 C.c. e del dominium ex iure Quiritium non è configurabile. In altri termini, non esiste una relazione giuridica tra soggetto e cosa che ammetta il primo a svolgere sulla seconda una totalità astratta di poteri, tale da potersi automaticamente estendere a qualsiasi utilità la cosa possa generare, naturalmente o per intervento del lavoro umano.

Poiché la consuetudine nasce dal fatto, ogni fatto è, in linea di principio, capace di generare una norma diversa e specifica rispetto a quelle generate da altri fatti. Questa caratteristica si definisce come particolarismo della consuetudine e conduce, come abbiamo visto, financo due case adiacenti ad avere norme radicalmente diverse per la risoluzione dello stesso conflitto.

4. In questo contesto, ogni potere sulla terra discende da un fatto diverso. Se torniamo al documento, vediamo che ciascuna delle azioni compiute dalla cedente individua simbolicamente uno specifico potere sulla terra:

1. dare una zolla di terra simboleggia trasferire il potere di coltivare la terra, romperla cioè in zolle con l’aratro per seminarvi;

2. dare il coltello significa dare il potere di escludere i terzi dal fondo; 3. la festuca con i nodi è l’attrezzo del pastore: trasferirlo significa dare il diritto a condurre

greggi sul fondo; 4. i rami degli alberi rappresentano, simbolicamente, gli alberi stessi: il diritto di trarne frutti,

tagliarli per fare legna, piantarne di nuovi.

Tutto ciò era considerato essenziale tra le popolazioni “barbare” e non era specifico dell’etnia dei Salii, cui la donante appartiene (per come dichiara all’inizio del documento, ove fa la sua professio legis). Gli stessi simboli li troviamo nelle consuetudini degli Alamanni (doc. M), dove il duello serve per stabilire chi, tra le due famiglie contendenti, abbia il diritto a effettuare tutte queste azioni sulla terra in contestazione.

A questi simboli se ne aggiunge un altro, che quella cultura ha concepito solo dopo aver appreso la possibilità di rendere il pensiero attraverso la scrittura: la pergamena che viene poggiata a terra, insieme all’inchiostro che servirà per scriverci sopra l’atto di donazione, e portata fuori dal terreno come ulteriore segno della separazione tra il terreno e la persona del cedente.

5. Trasferire l’intera proprietà della cosa – l’intenzione della donante in questo documento- richiede, difatti, due cose che devono accadere simultaneamente:

a. trasferire ogni singolo potere sulla terra, la cui somma costituisce il pieno diritto che la donante vuole cedere al monastero; ciascun potere è, difatti, autonomo: se la donante si fosse dimenticata di compiere uno tra gli atti descritti nel documento,

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quel potere sulla terra sarebbe rimasto nel suo patrimonio e solo gli altri sarebbero stati trasferiti, generando così una pluralità di proprietà sulla stessa cosa;

b. separarsi simbolicamente dalla cosa, in modo che nessuno di questi poteri possa ricostituirsi nella sua persona, ma solo nella persona del ricevente; se non si allontanasse dalla cosa, si potrebbe dire che nel suo patrimonio è rimasto comunque un diritto residuale sulla stessa che, nel tempo, potrebbe limitare il diritto della cessionaria.

Per descrivere il primo elemento, il notaio trova nella lingua latina parole che possono esprimere il concetto (“dono, cedo, trasferisco”). Per descrivere il secondo, non si trovano termini latini, e il notaio deve traslitterare quelle della lingua dei Sali: abwarp e absas.

4. IL MEDIOEVO COME ETÀ DELLA PROPRIETÀ PLURALE. MOTIVI ECONOMICI E CULTURALI.

1. Perché noi si possa comprendere questa realtà, così diversa dalla nostra, è necessaria una premessa: l’ipotesi più frequente nella pratica è appunto che su una stessa terra esistano più proprietà, ciascuna limitata nel contenuto dall’esistenza di altre proprietà sulla stessa cosa, intestate a soggetti diversi, ciascuna originata da un diverso fatto costitutivo, il quale ingenera una specifica consuetudine. Cedere l’intera proprietà su una cosa è una vicenda rara e, come il documento ci testimonia, molto difficile da costruire giuridicamente.

2. Questa situazione, perfettamente antitetica tanto all’esperienza giuridica romana quanto a quella odierna, è completamente descritta dalla struttura stessa della consuetudine materiale. Per comprenderla dal punto di vista sociale e economico, è sufficiente considerare che il medioevo è un momento di regressione. L’antichità aveva a disposizione un più alto grado di tecnologia: appena per un esempio, i Romani costruirono acquedotti (molti dei quali esistono ancora oggi) per rendere coltivabili intere regioni scarsamente provviste di acqua; nel periodo storico che stiamo considerando, questa capacità tecnica si era completamente persa. L’unica capacità produttiva nel medioevo è legata al lavoro manuale e a strumenti primitivi, il che porta al concorso di più attività per il pieno utilizzo della terra, ciascuna delle quali produce un’utilità economica, che si integra con le altre in uno spontaneo equilibrio. Nell’esempio più semplice, un soggetto che coltiva grano su un dato fondo ha solo da guadagnare se un altro conduce il proprio gregge al pascolo su quello stesso fondo dopo la raccolta: quando andrà a seminare, troverà un campo pulito dalle erbe spontanee e concimato. Seguendo nell’esempio, un terreno troppo umido potrà diventare adatto alla coltura del grano solo se vi verranno piantati alberi da frutto, che drenano il terreno, ma la cui cura richiede, con i mezzi dell’epoca, il continuo lavoro di più persone. Un caso frequente è così quello in cui sullo stesso terreno un soggetto (e la sua famiglia) trarrà la propria sopravvivenza dalla cura degli alberi, mentre altri faranno lo stesso coltivando il terreno tra gli alberi e altri ancora portando al pascolo greggi nel periodo tra due colture.

Potremmo continuare negli esempi, che ci condurrebbero verso questo principio di ordine sociale: se una terra può garantire una qualsiasi utilità, questa non può andare sprecata. Nessuno può opporsi a che qualcuno colga un’utilità che egli non può, per la limitatezza della sua capacità di lavoro, trarre da un fondo e che andrebbe, in questo modo, persa.

3. Noi abbiamo già incontrato questa realtà nel documento R, in cui abbiamo visto due Re dei Longobardi cedere un terreno per l’uso e il sostentamento di un monastero, ma in realtà creare un equilibrio in cui ciascun soggetto abbia il diritto di trarre dalla terra l’utilità che sa produrre

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(coltivare, allevare animali) assicurando il sostentamento di chi deve pregare per la salvezza di tutti, a patto che costoro non diventino troppo numerosi.

Quel documento è il miglior esempio di cosa sia il medioevo dal punto di vista sociale e economico: un’età anticapitalista. Tanto la società di Roma antica, quanto la nostra, sono società capitaliste, orientate all’accumulo di ricchezza e, per questo, civiltà tecnologiche, in cui si ricercano modi sempre nuovi per produrre ricchezza. Questa concezione si riflette sulla struttura giuridica della proprietà, che capitalizza a un solo soggetto, il proprietario, anche le utilità tecnicamente inesistenti al momento del suo acquisto. Per la società medioevale, al contrario, sono inconcepibili tanto il progresso tecnico che l’accumulo di ricchezza: il tutto si riflette in una ben diversa struttura dei diritti proprietari, che valorizza la circolazione delle utilità economiche come capitale sociale.

4. Un carattere profondo della società medievale che deriva da molti fattori, taluni culturali, altri economici. Uno fra questi è di interesse per l’analisi giuridica della proprietà: la scarsità di terra coltivabile. Roma antica aveva reso coltivabili enormi estensioni di terra, non solo costruendo acquedotti per portare l’acqua là dove non c’era, ma anche con un’esponenziale opera di deforestazione, parallela all’urbanizzazione che essi imponevano ai territori conquistati. Una città è, nell’antichità, una consumatrice vorace di legno, usato come combustibile e come materiale da costruzione, non meno di quanto le città odierne siano consumatrici di idrocarburi e minerali, per gli stessi scopi. Questo processo si arresta col declino dell’organizzazione politica di Roma, tra il III e il IV secolo d.C..; da quel momento in poi, l’Europa torna a coprirsi di foreste e paludi e a veder diminuire la superficie coltivabile, causa ed effetto di un rapido abbattimento della popolazione.

L’esigenza di recuperare a coltura quante più terre possibili conduce a operazioni economiche che erano inconcepibili nell’antichità come nella modernità, come la traditio in partionem, un negozio diffuso (con vari nomi) in tutto il bacino del Mediterraneo con cui il proprietario di una terra incolta la concede a un terzo per una durata minima di dieci anni, perché questi vi pianti una vigna o delle piante arbustive (come il nocciolo, ad esempio). Al termine del periodo, se la vigna o la piantagione esistono, ciascuna delle parti avrà per sé – come effetto essenziale del negozio stipulato anni prima- la proprietà di una metà del fondo o, in altri casi, al concedente rimarrà la proprietà dell’intero fondo, mentre il contratto farà acquistare al concessionario la proprietà delle piante, considerate come un oggetto autonomo dal fondo stesso, da cui non possono tuttavia essere separate.

5. A un simile risultato non si potrebbe arrivare dai principi del diritto romano. Un accordo con cui le parti si impegnino a dividere il fondo al termine di un periodo di locazione, oltretutto gratuita, non trasferirebbe immediatamente la proprietà della porzione a chi ha trasformato la qualità agricola dello stesso: servirebbe una traditio, la quale dovrebbe essere giustificata su una causa. Due cittadini di Roma antica che volessero effettuare questa operazione economica, in altri termini, dovrebbero realizzarla attraverso una simulazione. Ancora peggio nel caso in cui, al termine del periodo di concessione gratuita, l’effetto dovesse essere quello di trasferire la proprietà delle piante al concessionario e mantenere quella del suolo al concedente: la rigida disciplina dell’accessione per diritto romano estenderebbe alle piante la proprietà del fondo.

Non sarebbe diverso per il nostro diritto attuale. Se si volesse ottenere il primo risultato (la divisione a metà della proprietà del fondo) l’unica soluzione, oltre a quello di una complessa simulazione centrata su di una compravendita fittizia, sarebbe che il proprietario del bene lo conferisca in una società col concessionario e, sciogliendo questa, il patrimonio venga diviso tra i soci. Un contratto con lo stesso contenuto di quello medievale sarebbe difatti lecito, ma meramente obbligatorio, non costituirebbe immediatamente la proprietà del concessionario sulla metà del bene. Il secondo caso

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sarebbe illecito: l’art. 956 C.c. proibisce la costituzione o il trasferimento della proprietà delle piante separate dalla proprietà del suolo.

6. Dietro queste differenze vi sono, indiscutibilmente, le differenti condizioni economiche e sociali tra tre epoche non confrontabili: i proprietari di Roma antica avevano eserciti di schiavi da adibire al miglioramento delle colture; i proprietari attuali hanno macchine che svolgono ciascuna il lavoro manuale di decine di persone. I proprietari medievali non avevano né gli uni, né le altre: in questa situazione, la terra incolta non è una ricchezza e l’opzione di dividerla con chi le ha apportato migliorie permanenti è una possibilità economicamente vantaggiosa.

5. LA PROPRIETÀ PLURALE NELLE SUE BASI GIURIDICHE.

1. Dobbiamo però evitare il facile sillogismo per cui, se un’operazione può essere economicamente vantaggiosa in una certa epoca, o rispondere ai valori sociali di quell’epoca, essa si trasforma immediatamente in istituto giuridico. Un negozio come la traditio in partionem è pensabile solo all’interno di un sistema di relazioni tra soggetto e cosa che resta definito, come il resto dell’ordinamento, da un certo modello di rappresentazione giuridica e da un certo modello di rappresentazione istituzionale del conflitto.

2. Torniamo alla nostra donazione dell’anno 890.

La donante deve compiere:

a. certi atti (zolla, coltello, festuca, etc.) per costituire come proprietario il monastero; b. certi altri (abwarp e absas, che traduciamo come rinuncia e assenza) per cessare di essere

proprietaria.

Nella nostra esperienza, come in quella romana, questi due effetti sarebbero riconducibili a una stessa fattispecie: il trasferimento del diritto di proprietà. La donazione è uno dei contratti che conducono all’acquisto della proprietà a titolo derivativo; quando questa si conclude tra le parti, il donante cessa di essere proprietario, perché il diritto si trasferisce al donatario con lo stesso contenuto che esso aveva nel patrimonio del donante: questa è una delle caratteristiche di un diritto autodeterminato.

3. Nell’esperienza giuridica medievale, questi due effetti sono autonomi: l’uno può esistere senza l’altro.

Se la donante avesse compiuto i gesti di cui alla lettera a), ma non quelli di cui alla lettera b), il monastero sarebbe stato proprietario del terreno, ma anche la donante sarebbe rimasta proprietaria dello stesso, sia pure di una proprietà vuota di poteri concreti, ma che pure troverebbe tutela in giudizio.

Ancora una volta, siamo partiti da questo atto di donazione perché con esso si deve realizzare un’operazione inconsueta per l’epoca medievale: la cessione della totalità di poteri sulla cosa.

L’ipotesi consueta è quella opposta.

B. Formule Bituricensi, FF 1, p. 169

“Poiché è noto che nostro padre risiede sulla vostra terra e che vi fece una lettera di precaria, questa noi rinnoviamo similmente e la confermiamo sottoscrivendola e chiediamo umilmente che la vostra pietà ci permetta di rimanervi. Ma affinché il nostro possesso non arrechi nessun pregiudizio a voi

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o ai vostri eredi vi abbiamo consegnato questa lettera di precaria, garantendo che se giammai, dimentichi delle clausole di questa carta, [...] dicessimo che ciò che possediamo non sia vostro, come disonesti usurpatori siamo sottoposti alla composizione verso di voi secondo il rigore delle leggi e voi potrete scacciarci da questo luogo senza l'intervento di alcun giudice”.

4. Questa è una formula della stessa specie di quella del documento N dell’Unità B.13, un modello che i notai dell’epoca (persone che sanno solo leggere e scrivere, non hanno una cultura giuridica) possono usare per redigere il corrispondente atto. Nella specie, è la formula di una lettera di precaria, la dichiarazione unilaterale che il concessionario rilascia al concedente di una terra per riconoscere il diritto di questi sulla cosa.

La fattispecie che le lettere di precaria descrivono è questa:

1. Tizio risiede su una determinata terra, di proprietà di Caio e ne usa in concreto, in uno o più modi (la coltiva, vi porta animali, etc.);

2. Coloro che hanno una naturale aspettativa alla successione di Tizio (i figli, in questo caso), chiedono al proprietario di succedere, alla morte del concessionario, in questo stesso rapporto col fondo;

3. Si rivolgono a un notaio perché scriva al proprietario una lettera di precaria eguale a quella che il loro dante causa fece all’epoca;

4. Consegnando la precaria, il diritto che il loro dante causa ha sul fondo si manterrà a loro al momento della morte di questi.

Anche questa vicenda non si può comprendere nelle categorie del diritto romano o, allo stesso modo, nelle categorie del nostro diritto positivo odierno: siamo di fronte a un atto unilaterale con il quale chi usa della terra altrui mantiene a sé questo diritto, senza il concorso della volontà del proprietario del fondo.

5. Il punto fondamentale per l’analisi di questa fattispecie è questo: il rifiuto della lettera di precaria non porterebbe il proprietario a escludere i concessionari dal fondo. Questi avrebbero titolo a rimanervi egualmente, e l’unico effetto che il proprietario conseguirebbe dal rifiuto di ricevere la precaria è un effetto a suo danno: la mancata ricognizione del suo diritto che, col decorso del tempo, potrebbe estinguersi.

Il motivo è semplice: il diritto del concessionario sulla cosa non si è costituito per effetto della volontà del concedente, ma in virtù di un fatto materiale, l’instaurazione da parte del concessionario di un rapporto concreto, immediato e diretto con il bene.

E’ quanto abbiamo già visto nei giudizi che sono stati esaminati nell’Unità B.11.

Nel primo tra questi (doc. I) il convenuto (Bernardo) insiste materialmente su beni (casa, vigna) che l’attore rivendica come acquistate dalla moglie, avente causa dal primo marito, e che assume essere divenute sue per la consuetudine del popolo cui egli appartiene; il giudice chiede se l’attore possa provare che la moglie sia mai stata immessa in un rapporto materiale con gli stessi beni. Poiché l’attore non può dare questa prova, il convenuto vince la causa e vede accertato il suo diritto su quelle cose.

Nel secondo (doc.J) abbiamo visto un monastero citare in giudizio un soggetto che, alla guida di altri, ha preso dai terreni del monastero “cinquanta misure di avena e dieci anfore di vino”. Ovviamente, non è che l’avena e il vino giacessero semplicemente sul fondo pronti e confezionati in balle e recipienti e il convenuto e i suoi accoliti li abbiano rubati nottetempo. Costoro sono persone che hanno coltivato quei terreni, producendo sia l’avena che il vino, e se li sono tenuti per

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sé, senza darne una parte al monastero. Ora il monastero fa causa contro di loro perché abbandonino quei terreni. Se il convenuto avesse contestato la pretesa dell’attore, egli avrebbe potuto avere accertato il suo diritto a permanere sul fondo e a coltivarlo come in passato. Non sappiamo perché sia rimasto in silenzio: possiamo solo immaginare che sia stato intimorito dal trovarsi dinanzi a un alto nobile che assume il ruolo del giudice, o che abbia ricevuto, fuori dal giudizio, una ricompensa per presentarsi in giudizio e tacere. Potremmo fare le ipotesi più fantasiose, ma quello che conta per noi è questo: il monastero ha causa vinta solo perché il convenuto non contesta la domanda dell’attore, formulata in modo da farli comparire davanti al giudice come ladri, e non come utilizzatori della terra.

6. Ipotizziamo ora un giudizio a partire dalla fattispecie che ci viene restituita dalla formula di precaria del doc. B di questa Unità, quindi tra il concedente e l’erede del concessionario. Il concedente, morto il concessionario, si rifiuta di ricevere la lettera di precaria dell’erede e cerca così un giudice dinanzi al quale rivendicare la proprietà del fondo. Dinanzi al giudice, il concedente (attore) afferma di essere proprietario e esibisce il suo titolo: ha acquistato da Tizio, lo ha ricevuto in eredità da Caio, etc.

Se noi applichiamo a questa ipotesi il modo di giudicare che ci viene dai documenti I e J, otteniamo che, se il concessionario (convenuto) afferma e dimostra che suo padre era sempre stato lasciato dall’attore nel possesso del bene, il giudice chiederà all’attore se egli possa provare il contrario, cioè che questo possesso non è mai esistito; non potendo dare questa prova, l’attore perderebbe la causa, poiché non potrebbe opporre un fatto materiale a quello allegato dal convenuto.

7. Ipotizziamo un giudizio a parti invertite: il concessionario va davanti al giudice rivendicando la proprietà del fondo, adducendo come titolo il fatto che lo ha coltivato, vi ha costruito una casa e in essa vi ha vissuto con la sua famiglia per decenni; tutta la comunità chiamata a presenziare il giudizio può esserne testimone. Si costituisce il convenuto, che vive lontano da quella comunità: l’unico modo per vincere il giudizio, è esibire una lettera di precaria, con la quale il concessionario ha riconosciuto l’esistenza del diritto del convenuto sul terreno.

Ipotizziamo un giudizio appena diverso: il concedente non accetta la lettera di precaria dall’erede del concessionario, questi continua a coltivare il fondo e a risiedervi; trascorsi alcuni anni, l’erede del concessionario cerca un giudice per farsi accertare come proprietario. Non avendo in sue mani una lettera di precaria, il concedente perderebbe la causa, perché non avrebbe nulla da opporre alla pretesa del concessionario. Lo stesso accadrebbe se a fare causa fosse lo stesso concedente: il concessionario convenuto eccepirebbe il suo acquisto, e l’attore non avrebbe nulla da opporgli.

Analizzando la vicenda attraverso gli ipotetici conflitti che essa può produrre e la loro rappresentazione in giudizio comprendiamo facilmente perché il proprietario di un terreno concesso ad altri per la coltivazione, il pascolo o altre attività abbia non una semplice convenienza economica, ma la necessità giuridica di esigere e ricevere una lettera di precaria.

8. In un modello di rappresentazione giuridica del conflitto come quello medievale, in cui la norma di definizione della controversia viene tratta dal giudice solo dai fatti di causa, ogni fatto costituisce il titolo per continuare la relazione con il bene che il fatto stesso descrive.

La parte che possa provare in giudizio di coltivare una terra, avrà riconosciuto il diritto a continuare a coltivarla come fatto in passato. La parte che possa provare di aver concesso una terra ad altri per l’esercizio della coltivazione (tra i tanti esempi) avrà accertato il diritto che questo fatto descrive: riassumere i poteri sulla terra che il concessionario dovesse abbandonare. Se chi coltiva la terra l’abbandona per trasferirsi altrove, spinto dalla carestia; se lui e la sua famiglia muoiono, sterminati

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dalla peste o altri simili casi di cui la storia medievale è costellata continuamente, i poteri che prima venivano esercitati da questi svaniscono, e il proprietario del bene riassume il potere di decidere se affidare ad altri il fondo e a chi, se destinarlo a coltura o lasciare che la natura se ne impossessi nuovamente, per destinarlo ad altri usi, e così via.

9. In questo modo, si creano due proprietà autonome sulla stessa cosa. Il concedente è proprietario, ma lo è anche il concessionario, poiché il suo diritto sulla cosa non può essere estinto dalla semplice volontà del concedente. Per riappropriarsi del fondo, il concedente dovrebbe riuscire a estinguere la materialità del rapporto tra il concessionario e il bene: costringendolo con la violenza a andarsene o, ancora, promettergli qualcosa perché questi si allontani spontaneamente dal fondo, interrompendo il suo insistere materiale sullo stesso.

Lo stesso vale a parti invertite: il concessionario non può escludere autonomamente, solo con la sua volontà, il concedente dal suo rapporto col bene. Se fosse l’erede del concessionario a non voler rilasciare la lettera di precaria, il concedente potrebbe portarlo in giudizio e fare ciò che è scritto nella precaria rilasciata dal de cuius: chiedere al giudice che questi si allontani dal fondo come “disonesto usurpatore”.

10. Per questo motivo la donante del doc. A deve effettuare una complessa ritualizzazione, che coinvolge anche gli strumenti (pergamena e calamaio) con cui viene redatto l’atto di donazione, per separarsi giuridicamente dal bene: se non lo facesse, lei rimarrebbe nella stessa posizione sostanziale del concedente che riceve una lettera di precaria.

Il suo erede potrebbe, un giorno, presentarsi in giudizio e farsi riconoscere come il proprietario privo di poteri su quei terreni. Se non vi fossero l’abwarp e l’absas, la rinunzia e l’assenza, i poteri del monastero sarebbero individuabili solo dal concreto esercizio delle attività che lo stesso effettua sui terreni, ma ciò non escluderebbe una legittimazione residua di chi quei poteri ha ceduto.

6. I DIRITTI SULLE COSE NELLA CONSUETUDINE. CARATTERISTICHE STRUTTURALI.

1. L’analisi delle migliaia di altri documenti che hanno comunque a riferimento diritti sulla terra ci condurrebbero alla stessa conclusione: su ciascun metro quadro di territorio europeo, nel periodo tra la fine del IV secolo e la Rivoluzione francese, noi troveremmo sempre più diritti di proprietà, ciascuno intestato a un diverso soggetto. In altri termini, non troveremo mai la situazione attuale di proprietà piena e assoluta, pubblica come privata.

2. Tutti i diritti medievali di proprietà partecipano di due caratteristiche fondamentali:

1. nascono sempre da un fatto; 2. si trasmettono fra vivi e mortis causa finché essi vengono effettivamente esercitati.

Il doc. A ci parla di una donazione, nella specie, l’atto di una persona nobile e ricca che si priva di suoi beni terreni per propiziare la salvezza della sua anima. Per rendere lo spirito dell’epoca, possiamo aggiungere che questa specie di donazioni è sempre più presente nelle raccolte di documenti man mano che ci si avvicina all’anno 1000, in cui molti preannunciavano l’apocalisse.

Il doc. B ci descrive il contenuto di una ricognizione di diritto. Per spiegarne il significato, abbiamo fatto ricorso all’ipotesi più semplice, quella del proprietario di un terreno che lo dà a coltivare a un altro soggetto che, per questo, ne diventa parimenti proprietario. E’ indifferente che tale concessione avvenga o meno dietro una controprestazione periodica di denaro o (più spesso) frutti

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naturali. Nel caso di terreni incolti, come abbiamo visto, il vantaggio del concedente è nel miglioramento agrario, che si mantiene al terreno.

3. Le fonti del periodo ci partecipano l’esistenza di altri atti di ricognizione, che vengono chiamati con nomi diversi. Quello per noi più importante, che troveremmo esistente ancora oggi, come vedremo, è il livello. Un nome equivalente è quello di prestaria. Si tratta dei documenti complementari alla precaria: come questa è una ricognizione del diritto del concedente, la prestaria è una ricognizione del diritto del concessionario, autonomo rispetto al primo.

C. Chronicon Casauriense, ed. L.A. Muratori, Rerum italicarum scriptores, t. 2. Parte 2.

“Anno 983. Notizia di un giudicato, perché sia ricordato nei tempi futuri. In questa Villa della Prece a San Nicandro, risiedeva per dare giustizia Pietro da Pavia, Vescovo e messo imperiale, insieme a [ altri nomi].. Davanti a costoro venne Adamo, Abate del Monastero della Santa Trinità, insieme a Guido, figlio di Gisone, suo avvocato per portare causa contro Bezzo, figlio di un certo Romaldo, e mostrò una carta di precaria, che lo stesso Bezzo aveva fatto allo stesso monastero per quelle terre, che il sopraddetto Abate Adamo gli aveva concesso, che erano di diritto del monastero nel paese di Caramanico, e in quello di Picerico per mille e più misure di terra…

Allora il soprascritto Vescovo con i detti giudici, udita la lettura di questa precaria, dissero: “Per quale motivo mostri questa carta contro Bezzo?” E l’Abate con il suo avvocato dissero: “Perché Bezzo non ha fatto nulla su queste cose e non ha pagato il censo per queste terre, per come era scritto nella stessa precaria”.

Allora i giudici dissero che anche Bezzo doveva rispondere di questa stessa precaria. Bezzo rispose e disse: “non è la verità”. E si impegnò a giurare insieme ai suoi legittimi testimoni, per come è legge. E venne dopo di nuovo in giudizio con i suoi testimoni, per fare giuramento.

A quel punto, chiese però al detto Abate di essere perdonato, insieme ai suoi testimoni, e che avrebbe restituito la prestaria, che egli aveva per ogni cosa come sopra descritta.

Al già detto Vescovo Pietro ciò parve giusto. E sul momento fecero restituire da Bezzo all’Abate la detta prestaria. E l’Abate insieme all’avvocato restituirono a Bezzo la precaria, e si perdonarono reciprocamente, per come era legge.

Allora il soprascritto Signor Vescovo Pietro ha investito dei terreni il suddetto Abate e ha emesso un bannum, per cui chiunque avesse svestito il suddetto Abate o lo stesso Monastero di quelle stesse cose, sarebbe stato condannato a comporre la lite con cento libbre, da pagarsi metà alla Camera del Signor Imperatore, metà allo stesso Monastero.

Di tutto quanto è stato detto e fatto in questo giudizio hanno chiesto di scrivere al notaio Gizone, per sicurezza del soprascritto Abate e del suo monastero, e perché sia ricordato in futuro.”

4. Poiché conosciamo già come funziona il processo inquisitorio medievale, il documento è stato riportato solo nei suoi passi essenziali. La fattispecie concreta non desta problemi: il convenuto è il concessionario di una estensione di terra di cui un monastero è proprietario e concedente. Il concessionario avrebbe dovuto lavorare la terra e pagare un censo. Il documento non ci dice nulla in cosa questo dovesse consistere. Le fonti del periodo ci restituiscono la casistica più varia: il censo viene pagato in denaro in una piccolissima parte di casi, più spesso in prodotti agricoli o in animali; quasi sempre è annuo, e scade nel momento della raccolta, assumendo il ruolo sostanziale di una divisione dei prodotti del fondo tra concedente e concessionario.

Il monastero va davanti al giudice, un Vescovo che agisce come messo dell’Imperatore (esercita così una iurisdictio delegata), per lamentarsi del fatto che Bezzo non paga il censo su quelle terre, cosa

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da cui (come abbiamo visto nel doc. R dell’Unità B) i monaci ricavano il proprio sostentamento. La domanda dell’attore, per come abbiamo sempre visto, non è specificamente rivolta ad avere il pagamento del censo o la restituzione del bene: il monastero chiede che il giudice dia una soluzione al disequilibrio che si è venuto a creare per l’inadempimento del concessionario. Questi contesta la domanda dell’attore e dovrebbe quindi provare di aver coltivato i terreni e di avere pagato il censo, o di averli coltivati e non averne tratto abbastanza frutto da pagarlo, o altro ancora che possa giustificare il suo comportamento all’interno dell’equilibrio che dovrebbe esistere tra il suo diritto e quello del monastero. Le due cose stanno insieme: se i terreni sono stati coltivati e hanno prodotto frutti, il censo è dato da una parte di questi, nella forma in cui si presentano (se in quell’anno si coltiva grano, una parte dello stesso), sia in altra forma (se al monastero servono animali da cortile, Bezzo li acquisterà con parte dei suoi proventi, o li alleverà apposta). Bezzo va in cerca di testimoni che devono giurare su queste cose. Li trova, ma evidentemente non possono rendere tale testimonianza.

Davanti al giudice, egli si dichiara sostanzialmente inadempiente, chiede il perdono dell’Abate e dichiara di essere pronto a restituire la sua prestaria. Il giudice decide che ciò corrisponde a giustizia, e decide che l’Abate restituisca a sua volta la precaria al convenuto.

Fatto questo, la causa finisce non con una sentenza – poiché le parti si sono riappacificate e non vi è più una questione giuridica su cui decidere- ma con un provvedimento diverso: il bannum, ossia l’ordine fatto a tutti (mod. “bando”) di vedere nel Monastero il titolare di tutti i diritti su quelle cose. Il bannum segue a un'altra fase: il giudice investe l’Abate dei diritti che erano stati dati a Bezzo e cui questi rinuncia con la reciproca restituzione della precaria e della prestaria. Il bannum ha questa fase come presupposto: contiene difatti l’ordine, fatto a tutti i terzi indiscriminatamente, di non devestire – contrario di investire: spogliare – il monastero di quei beni.

5. Il documento -ancora una volta preso praticamente a caso da una collezione qualsiasi, perché eguale nella struttura a molti altri- ci indica (al pari dei doc. I e J dell’Unità B) che l’unica cosa che conta in giudizio è il rapporto con la terra, non l’accordo tra le parti in esecuzione del quale questo rapporto è stato costituito.

L’operazione economica tra Bezzo e l’Abate non è mai descritta, e noi infatti non la conosciamo; il giudice tutto fa, tranne che chiedere particolari su di essa: prende atto della precaria che l’Abate esibisce, la fa leggere e chiede quale sia la domanda dell’attore. Quando le parti si rappacificano, non si fa questione dei censi scaduti e non pagati, perché questi non rappresentano un credito per il monastero: se il giudice condannasse il convenuto, che ha rinunciato alla terra che coltiva, al pagamento dei censi non pagati negli anni precedenti, egli non statuirebbe secondo equità, prenderebbe cioè una decisione che non sarebbe meramente riparatoria dell’equilibrio, ma punitiva nei confronti del convenuto.

6. L’eventuale accordo tra le parti precedente allo scambio delle lettere di precaria e prestaria è, difatti, solo il motivo della concessione a Bezzo di poteri sulla cosa, non la causa.

Per motivo si intende il fine specifico che ciascuna parte di un contratto ha per concluderlo. Nell’esempio più semplice, un soggetto può acquistare un appartamento per mille ragioni (abitarci, farci abitare un congiunto, etc.) e chi vende può farlo per altrettanti motivi (avere i fondi per fare un investimento finanziario, pagare un debito, etc.). Per realizzare questi diversi motivi, ci si serve di contratti che hanno la stessa causa: lo scambio di una cosa contro un prezzo. La causa è così la funzione che il contratto realizza indipendentemente dai motivi e a questa sono riconducibili gli effetti giuridici che legano le parti: l’obbligo di trasferire la cosa e l’obbligo di pagare il prezzo.

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Un accordo intervenuto tra Bezzo e l’Abate non viene citato nel giudizio perché non è esso che detta gli obblighi e i diritti che le parti assumono in funzione della concessione. Se fosse l’incontro delle volontà delle parti a dettare la disciplina dei rapporti tra le parti, saremmo in un contratto di locazione, al cui equilibrio apparterrebbe il pagamento dei canoni pregressi, poiché la sua causa è nella reciprocità tra l’obbligo di pagare il canone e l’obbligo di assicurare l’uso della cosa. Apparterrebbe naturalmente all’equilibrio contrattuale del contratto che Bezzo, pur rilasciando il terreno al monastero, paghi per l’uso che ne ha fatto.

7. Ciò accade perché gli obblighi reciproci delle parti derivano direttamente dal rapporto materiale che Bezzo assume sulla cosa: quando inizia a coltivare la terra, egli assume dei diritti sulla stessa che comprimono quelli del monastero. Egli acquista una proprietà che limita un’altra proprietà.

Non possiamo quindi guardare alla precaria e alla prestaria (o livello) come a dichiarazioni negoziali, il cui incontro chiude un contratto tra le parti. Esse costituiscono solo la prova precostituita che ciascuna parte chiede all’altra del proprio diritto sulla cosa, di cui ciascuna si servirà in un eventuale giudizio per vedere accertato il proprio diritto.

8. Ciò è vero anche per il censo, che non è un canone di locazione, ma un onere reale: un peso che limita la proprietà del concessionario e che trova titolo nella sua proprietà della cosa. Per questo, l’unico modo che Bezzo ha di liberarsi dal censo, che non riesce a pagare, è ritrasferire al monastero la sua proprietà della cosa.

La differenza tra un canone di locazione e un onere reale è appunto questa:

– il canone è un’obbligazione creata da un contratto, e come tale lega solo le parti del contratto stesso; se il proprietario vende il bene che ha dato in locazione ad altri, il contratto di locazione non si oppone al nuovo proprietario, perché intervenuto tra terze parti; o stringe un nuovo contratto con il conduttore del bene, che diventa così sua controparte, o questi deve lasciare il bene; se vi sono canoni pregressi, questi devono essere pagati al precedente proprietario [nel nostro ordinamento positivo attuale, molte locazioni continuano in confronto del nuovo proprietario per disposizione di legge, con disciplina speciale rispetto a quella generale del contratto di locazione come data dal Codice];

– l’onere reale aderisce al bene, non alla persona dell’onerato; se il monastero del nostro esempio vende la sua proprietà, chi l’acquista deve ricevere il censo dall’altro proprietario, perché il corrispettivo diritto è parte del diritto di proprietà che viene trasferito; a parti invertite, il concessionario che trasferisce ad altri, per atto tra vivi o mortis causa, il proprio diritto di proprietà, lo trasferisce necessariamente con l’onere del censo, che il nuovo titolare dovrà pagare esattamente come lo pagava il suo dante causa.

Il concessionario non ha difatti alcuna possibilità di estinguere unilateralmente l’onere reale del censo: un tale comportamento si tradurrebbe nell’usurpazione di un diritto dell’altro proprietario, che ne chiederebbe conto in giudizio, per vederlo accertato e tutelato. Per questo, come abbiamo visto nel doc. C di cui sopra, l’onere del censo è riportato sulla sola precaria, il documento che resta a mani del concedente, che lo esibisce in giudizio per rivendicarlo, al pari di qualsiasi altro potere sulla cosa di cui lui è titolare.

7. I DIRITTI DI PROPRIETÀ COME CONSUETUDINE DELLA COSA.

1. Affinché si costituisca questa situazione di proprietà plurale o divisa su una terra, non è infatti essenziale un previo accordo tra le parti.

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D. Falsa conferma di privilegi alla chiesa di Bergamo da parte di Ludovico III. [datata Vercelli, 23 maggio 901, ed. L. Schiaparelli].

“E giacché i nostri fedeli hanno rappresentato alla nostra compiacenza il fatto che annualmente vengono richieste talune prestazioni, consistenti nel diritto di cacciare e di estirpare arbusti sulle terre di pertinenza della stessa chiesa sulla base di una consuetudine reperita da taluni ministeriales e tuttavia ingiusta e contraria a ogni diritto, per questo statuiamo e ordiniamo che nessun nostro suddito possa esigere alcunché dalle terre di detta chiesa, né ardisca a ciò adducendo l'esistenza di un diritto consuetudinario, bensì, rigettata e estinta ogni ingiusta consuetudine, sia lecito al venerando presule e ai suoi successori e ministri di mantenersi nel tranquillo godimento delle cose della detta chiesa con l'immunità data dalla nostra protezione e possano così pregare l'Altissimo per la nostra salvezza e quella del nostro Regno.

Statuiamo e comandiamo inoltre che è noto che la detta chiesa ha ininterrottamente avuto la vestitura su queste terre dal tempo del regno del predetto Carlo fino ad oggi, e che, se qualcuno tentasse di apportarvi una qualche minorazione, non sia necessario al vescovo o ai suoi successori di produrre alcuna prova del loro diritto, agendo in giudizio per conto di tale chiesa, ma si indaghi pure, se necessario imponendo loro il giuramento, presso gli abitanti dei villaggi che sono su quelle stesse terre.”

2. Anche questo documento è tipico dell’età medievale. Le collezioni di documenti sono piene di falsi: documenti fatti in una certa epoca come se fossero stati redatti in un’epoca precedente, per costituire titolo per l’accertamento di un diritto di proprietà. L’esempio più noto alla storia generale è la cd. Donazione di Costantino, un falso documento da cui si traeva l’origine del dominio temporale dei Papi sulla città di Roma.

Il falso si produceva per dare a posteriori un titolo a una situazione che esisteva nei fatti: la Donazione di Costantino fu redatta quando il potere temporale dei Papi su Roma era indiscusso, al solo scopo di legittimarla nella storia. La falsità della Donazione di Costantino fu provata nel 1400 dal filologo Lorenzo Valla; un altro filologo, Luigi Schiaparelli, ha provato (non era difficile) la falsità del documento D, che assumiamo come un dato.

3. Questo è costruito anch’esso come se fosse stato reso al termine di un giudizio. Adoperando le categorie che abbiamo studiato nell’Unità B, questo documento è un falso decretum: il provvedimento con cui si conclude il giudizio nella contumacia del convenuto.

Perché questo? Perché qui il convenuto non è un singolo, ma una collettività di persone, i cui singoli membri vanno da sempre a cacciare fauna selvatica e prendere legna per i propri usi domestici su terreni di proprietà di una chiesa. Vi sono stati anche dei giudizi, in passato, che hanno accertato questo diritto nella collettività: il documento dice che alcuni ministeriales hanno reperito in passato una consuetudine che dava alla collettività tali diritti.

Il falso viene redatto proprio per estinguere questi giudizi pregressi e crea un’altra realtà: quella dell’Imperatore Ludovico III che, in persona, ascolta la domanda della chiesa e dà un proprio giudizio in favore di questa, fatto per sostituirsi ai precedenti. Ministerialis significa, difatti, subordinato: il senso del documento è che l’Imperatore, dotato del Misto Imperio nel suo grado massimo, può rimuovere qualsiasi sentenza fatta da altri, decidendo la controversia in modo diverso.

Il falso Imperatore individua così una norma diversa, che assegna tutti i poteri sulla terra alla chiesa. Per l’effetto, questa potrebbe scacciare chi va a fare legna nei suoi possedimenti senza il suo

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permesso. La parte più importante del documento è l’ultima: la chiesa non dovrà dare prova della pienezza del suo diritto sulla cosa, poiché questa è data dal (falso) documento, che porta la (falsa) decisione dell’Imperatore (realmente esistito, ma che nel maggio del 901 stava, con tutta probabilità, molto lontano da Vercelli).

4. Questo documento, pur falso, prova dal punto di vista giuridico due cose:

1. perché si costituisca una proprietà plurale, è sufficiente che un soggetto inizi unilateralmente un rapporto materiale, immediato e diretto, di utilizzo e sfruttamento di una proprietà altrui, senza necessità di un previo accordo col proprietario;

2. la proprietà deriva sempre da una norma particolare e specifica della singola terra che ne è oggetto, talché se l’utilizzo del bene da parte (in questo caso) di una generalità di persone crea una consuetudine, questa si impone anche al proprietario del fondo che, per liberarsene, deve falsificare l’esistenza di un giudicato che accerti una norma diversa.

Quest’ultimo punto è particolarmente importante e consegue da quanto abbiamo visto circa le fonti del diritto: se la norma si trae dai fatti attraverso il giudizio e diventa effettiva perché la comunità adegua i suoi comportamenti alla norma trovata dal giudice, la proprietà – qualsiasi proprietà- è sempre il frutto di una norma che si trae da un singolo fatto, che la costruisce in modo specifico.

5. Possiamo trovarne conferma in molte fonti del tempo.

E. Editto di Rotari, cap. 172.

“Della thinx, ossia della donazione. Se qualcuno vuole thingare a un altro una cosa, non lo faccia di nascosto, ma faccia il gairethinx dinanzi a uomini liberi, perché colui che cede (thingat) e chi accetta (gisel) siano liberi da qualsiasi futura pretesa.”

Abbiamo già incontrato il gairethinx nell’Unità B 11 (doc. K): Rotari dice che, se venissero ritrovate consuetudini non raccolte nell’Editto, vi saranno inserite e sancite col gairethinx. Non sappiamo se questa fosse una cerimonia o altro e in realtà non ci interessa. L’ipotesi più diffusa è che gairethinx sia un nome onomatopeico, simuli cioè il rumore delle spade che vengono battute sugli scudi dai guerrieri di un popolo barbaro che, con questo segno, esprimono il loro consenso. Non ci interessano le immagini oleografiche; ciò che ci interessa è che anche il gairethinx viene reso dalle consuetudini scritte dei Longobardi nello schema di una decisione che va opposta alla comunità:

– la decisione del Re, che giudica di un conflitto, lo compone con una norma non presente nell’Editto, e la oppone alla comunità, che adegua d’ora in poi il suo comportamento;

– la decisione di un soggetto, che trasferisce la proprietà di un suo bene dinanzi alla comunità, cui, parimenti, si oppone, portando a riconoscere come nuovo proprietario il cessionario.

Accertare le proprietà che insistono su di un pezzo di terra significa così reperire le consuetudini che si sono create sullo stesso, come norme di risoluzione di altrettanti conflitti. Se sulle terre di un soggetto – la chiesa del documento D, ad esempio- gli abitanti del villaggio vicino vanno a raccogliere la legna per cucinare, diventano proprietari di quel terreno per l’esercizio di quei poteri, che trasmetteranno naturalmente alle generazioni successive. Se altri soggetti porteranno animali a pascolare, questi diventeranno proprietari di quella stessa terra a quel fine. Si crea così una moltitudine di diritti, ciascuno dei quali costituisce un limite agli altri, in un equilibrio spontaneo che è governato dalla natura: se un terreno non è capace di agricoltura (perché in declivio, ad esempio) ma solo di vegetazione spontanea, quello è per natura un pascolo, e su di esso insisteranno solo alcuni diritti. Se è un bosco fitto, ne potrà ospitare solo altri, come il diritto di caccia, di prendere i rami che cadono spontaneamente dagli alberi, o altri frutti simili. Ciascuno di questi usi

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della terra può provocare conflitti, che devono essere definiti trovando una consuetudine dai fatti che li hanno generati. Un pascolo può essere inesauribile finché un certo numero di greggi lo percorre; se questo numero aumenta, il pascolo deperirà e si avrà un conflitto tra coloro che lo utilizzano. Potrà quindi essere accertata da un terzo una consuetudine per cui solo gli abitanti del più vicino villaggio abbiano diritto a utilizzare il pascolo tutti gli anni, perché questi riescono a dimostrare di averne fatto uso più di altri in passato. Se un terreno viene dissodato per coltivarlo, questo miglioramento andrà a favore di chi lo realizza, ma potrebbe togliere utilità a chi vi ha sempre raccolto i pochi frutti spontanei, e si avrà un altro conflitto, che potrà trovare una varietà di soluzioni.

8. CATEGORIE E DOGMI DELL’ORDINAMENTO MEDIEVALE DEI DIRITTI DI PROPRIETÀ.

1. Dobbiamo così concludere che la consuetudine non crei una proprietà, ma solo un caos di situazioni giuridiche, ciascuna delle quali nasce per un caso ed è destinata per questo a scontrarsi con altre, create parimenti dal caso, irriducibili a uno schema unitario?

No: siamo di fronte a un ordine che non riusciamo a comprendere immediatamente con la nostra mentalità giuridica moderna, perché fondato su altre categorie, che si possono restituire solo formulando dogmi diversi da quelli del diritto romano e, egualmente, da quelli del diritto odierno.

2. Per procedere in questa formalizzazione, rileggiamo i soli documenti che ci raccontano di una vicenda realmente accaduta (A e C) o che si vuole far credere sia accaduta (D). Tutti sono scritti dalla prospettiva del soggetto – il notaio- che ha (avrebbe, nel caso D) assistito a una vicenda concreta, di cui deve descrivere non solo lo svolgimento, ma gli effetti giuridici. La redazione del documento serve, infatti, per dare continuità nel tempo a questi effetti, farne memoria per le generazioni future.

Troviamo un elemento in comune:

– la donante del doc. A trasferisce e fa vestitura per l’uso e il reddito delle terre che dona al monastero;

– il giudice del (vero) giudizio del doc. C termina il giudizio, dopo che la controversia è terminata con la riappacificazione delle parti, investendo l’Abate e il monastero, ordinando che nessuno in futuro osi devestirli;

– l’Imperatore del (finto) giudizio del doc. D accerta che la chiesa ha sempre avuto, ininterrottamente, la vestitura su queste terre.

3. Vestitura è una parola della lingua latina e significa, semplicemente, vestito, abito. I documenti la adoperano per tradurre una parola comune alle lingue germaniche dei popoli “barbari”: Gewere (pron. Ghe-ve-re).

Per converso, non incontreremo mai nei documenti la parola che indica la proprietà privata nel diritto romano: Dominium. Un termine che descriverà anche il potere dell’Imperatore romano da Diocleziano in poi, nella forma di Stato detta, appunto, Dominato.

I notai usano la parola vestitura perché essa è la sola a rendere le caratteristiche della relazione giuridica che ha ad oggetto una cosa, e specialmente la terra, per come essi le vedono nel concreto della loro esperienza e per come noi le abbiamo viste dalle loro descrizioni.

4. Possiamo intendere queste caratteristiche come altrettanti dogmi e riassumerle così:

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1. Specificità: la relazione giuridica si definisce nella descrizione delle singole facoltà che possono essere esercitate sulla cosa; più facoltà possono concentrarsi in una stessa persona, ma esse rimangono distinte, perché ciascuna ha un proprio contenuto che non è sostituibile con altri: per una civiltà primitiva, coltivare è una cosa, raccogliere ciò che la terra produce spontaneamente è un’altra e ogni singola utilità che la terra può produrre, per minima che sia, viene vista come autonoma rispetto alle altre;

2. Effettività: la relazione giuridica esiste finché viene esercitata in concreto; se non viene più esercitata, sparisce dall’orizzonte giuridico della cosa, al pari di qualsiasi altra consuetudine che non viene più praticata da una comunità;

3. Eterodeterminazione: ogni relazione giuridica sulla terra ha un contenuto che non è stabilito da una norma astratta e generale, come l’art. 832 C.c., ma dalla singola fattispecie che ne ha determinato l’acquisto al titolare.

5.Queste caratteristiche portano la vestitura a poter essere definita su una categoria diversa da quella su cui si basa il sistema proprietario attuale (e quello di Roma antica che, come vedremo, è il modello cui questo si ispira):

– la proprietà si basa sulla categoria della titolarità: ogni singolo oggetto, e ancor più la terra, è, per l’ordinamento, sempre in proprietà di qualcuno, che vi ha la totalità dei diritti e la totale responsabilità; nel nostro sistema privatistico, i beni immobili hanno sempre un proprietario: quelli che non ne hanno uno apparente spettano allo Stato, per il disposto degli artt. 586 e 827 C.c.; questa proprietà si accresce di diritto allo Stato, senza bisogno di un atto formale di accettazione (586) o di acquisto (827); le uniche cose che possono essere considerate prive di un proprietario sono le cose abbandonate e i soli animali di cui sia consentita la caccia o la pesca, che trovano un proprietario privato tramite l’occupazione (art. 923 C.c.);

– la vestitura si basa sulla categoria della legittimazione: la relazione giuridica non ha a riferimento la cosa in sé, ma la cosa come origine di singole utilità che da essa possono essere tratte; una stessa cosa può così essere oggetto di legittimazioni diverse, intestate a diversi soggetti, ciascuno dei quali ha un diritto sulla totalità della cosa, ma solo per l’esercizio delle attività conseguenti al suo titolo.

6. Queste due categorie sono incompatibili: o esiste l’una, o esiste l’altra. Un sistema proprietario basato sulla categoria della titolarità non può basarsi, contemporaneamente, sulla categoria della legittimazione.

In un sistema basato sulla titolarità, la legittimazione è un effetto della titolarità: il titolare del diritto pieno e assoluto di proprietà è l’unico ad essere pienamente legittimato sulla cosa. La proprietà è così costruita sul soggetto, che può, nei limiti di legge, separare da sé una parte della sua legittimazione (ad esempio, ad usare la cosa senza trasformarla) per darla a terzi a termine e dietro un corrispettivo attraverso un contratto (locazione) o attraverso un diritto reale limitato sulla sua cosa (usufrutto), ma questa è comunque destinata a rientrare nel diritto di cui è titolare.

Un sistema basato sulla legittimazione funziona sul principio opposto: la legittimazione è la causa, la titolarità l’effetto: ogni titolare della cosa viene individuato sulla base della sua legittimazione sulla cosa stessa. La vestitura è costruita non sul soggetto, ma sulla cosa: è la cosa a autorizzare certe legittimazioni e non altre, poiché su di essa, secondo la propria natura, possono essere fatte certe cose e non altre (in un bosco si può raccogliere, non coltivare; in un terreno seminato non si possono portare greggi al pascolo, e così via). Ciascuna legittimazione è così un’autonoma qualità

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della cosa e può essere intestata a soggetti diversi, ciascuno dei quali può compiere un determinato atto di esercizio.

7. Proprietà e vestitura sono così due strutture giuridiche incompatibili:

– la proprietà è un diritto, il cui contenuto è sempre eguale a sé stesso e si rappresenta in una sintesi di poteri sulla cosa, che può estendersi all’infinito;

– la vestitura è un fatto, il concreto esercizio di un singolo potere sulla cosa, che legittima il titolare allo stesso esercizio per il futuro.

8. Queste due strutture manifestano le loro differenze quando sono analizzate in termini funzionali, comparando come queste si comportino in eguali situazioni, che individuiamo a priori, come esempi tra i tanti possibili:

1. la proprietà si può acquistare per atto formale, la vestitura solo con un rapporto materiale; oggi è perfettamente possibile comprare una casa in un luogo lontano senza mai esserci entrati e trarne dei frutti (ad es. dandola in affitto) senza spostarsi dal luogo in cui si risiede: questa situazione sarebbe incomprensibile per l’uomo del medioevo, per il quale una legittimazione su un fondo esiste perché è stata materialmente appresa dal titolare;

2. la proprietà si usucapisce: il diritto che apparteneva al proprietario originario si estingue, perché se ne costituisce un altro eguale sul fondo; la vestitura, se non esercitata, semplicemente si prescrive: si perde senza che altri ne debba acquistare una eguale;

3. la proprietà si trasferisce da un soggetto a un altro per effetto di contratti, senza soluzione di continuità; la vestitura, in quanto stato di fatto, si acquista sempre a titolo originario: il cedente termina unilateralmente il suo rapporto di fatto con la cosa e pone in condizione il cessionario di acquistarne uno altrettanto unilateralmente; la conseguenza è che, in ipotesi, il cessionario può acquistare una legittimazione maggiore o minore di quella rinunciata dal cedente, perché tra la rinuncia del precedente legittimato e l’acquisto del nuovo non vi è una relazione giuridica, ma solo uno stato di fatto.

9. Definiamo quindi come vestitura o Gewere la situazione giuridica soggettiva di proprietà descritta sulla categoria della legittimazione, la cui struttura è determinata dai dogmi della specificità, effettività e eterodeterminazione e si rappresenta in uno stato di fatto, che individua il titolare di un corrispondente diritto.

Esempio: Tizio entra in un fondo incolto, lo dissoda e inizia a coltivarlo; acquista per questa via un rapporto di fatto col bene che gli attribuisce una legittimazione a continuare a coltivarlo e trarne dei frutti. Quando Tizio muore, i figli, permanendo sul fondo, costituiscono a sé stessi la medesima legittimazione. Tizio ha acquistato quindi una proprietà della cosa, un diritto che gli dà il potere esclusivo di esercitare talune facoltà sulla cosa, che può trasmettere a terzi (anche per atto tra vivi). Se Tizio non coltiva più il fondo (o i suoi aventi causa se ne disinteressano) la legittimazione sul fondo si estingue per il semplice non esercizio: un terzo può quindi, con un suo autonomo atto di esercizio, acquisire una legittimazione sul fondo incompatibile con la prima (vi entra per coltivarlo; se ne serve per allevare animali, etc.).

Per converso, la proprietà dell’art. 832 C.c. è una situazione giuridica soggettiva descritta sulla categoria della titolarità, la cui struttura è determinata dai dogmi della astrattezza, formalità e autodeterminazione e si rappresenta in uno stato giuridico, che individua il titolare di ogni possibile potere sulla cosa.

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Esempio: Tizio acquista un fondo incolto da Caio attraverso un contratto di compravendita; diventa così titolare di ogni potere sul fondo, anche quello di lasciarlo incolto; se lo coltiva in proprio, questo atto accresce il valore economico del fondo, ma non rende più ampio il suo potere giuridico sullo stesso, che resta fissato dalle norme del Codice civile; Tizio può infatti decidere anche di non utilizzare il fondo, o di lasciare ad altri questo compito, stipulando un contratto di affitto (locazione di un bene produttivo, art. 1615 ss. C.c.).

9. VESTITURA E SOCIETÀ FEUDALE.

1. Possiamo quindi concludere che il sistema proprietario descritto dalla categoria della legittimazione e quello descritto dalla categoria della titolarità sono radicalmente incompatibili: ove esiste l’uno, non può esistere l’altro, e viceversa.

Per usare una semplice metafora, legittimazione e titolarità sono due pianeti su cui esistono atmosfere diverse e che generano ciascuno forme di vita che non potrebbero vivere nell’altro.

E’ importante però chiarire che entrambi i pianeti descrivono forme di proprietà: la vestitura non è meno proprietà di quella descritta dal Codice civile, poiché si traduce sempre e comunque in un diritto che consente al titolare di escludere gli altri dall’esercizio delle facoltà che spettano a lui.

2. Fino ad ora abbiamo analizzato il sistema proprietario basato sulla legittimazione dalla prospettiva della rappresentazione giuridica del conflitto. Abbiamo così parlato in astratto di un concedente e di un concessionario.

Affrontiamo ora la vestitura dalla prospettiva della rappresentazione istituzionale del conflitto, il che ci consentirà di dare un nome concreto a queste figure astratte, mostrando come questo sistema proprietario si identifichi con quel modello di organizzazione politica che chiamiamo società feudale e che viene definitivamente superato solo dallo Stato costituzionale, per come abbiamo già visto, nella prospettiva delle fonti del diritto, nell’Unità B.

F. Placito. Anno 845.

“Nel nome di Gesù Cristo, nostro signore e Salvatore. Audiberto, abate del monastero di S. Maria, situato non lontano dalla città di Verona, presso la porta detta dell’Organo, venne alla presenza del gloriosissimo re Ludovico, figlio dell’imperatore Lotario, dicendo: «Il monastero e il relativo ospizio di S. Maria, fondati dal fu Lupo, duca, e da sua moglie Ermelinda, possiedono alcuni servi nella contea di Trento che dovrebbero fare le opere e altri servizi in favore del monastero, ma adesso, non so perché, si sottraggono a dette opere e servizi, per cui in questo territorio noi non abbiamo quel che ci spetta».

Allora il predetto re, tra i messi disponibili, scelse il giudice di palazzo Garibaldo e lo inviò a risolvere la contesa e a rendere giustizia all’abate. Giunto alla corte ducale di Trento, il giudice inviato Garibaldo, insieme con Paulicione, messo del duca Liutfredo e [suo] rappresentante, per ascoltare e deliberare in merito alle contese dei singoli uomini, fece riunire gli scabini Corenziano di Marco, un Corenziano di Cloz [seguono molti altri nomi] ed altri vassi dominici, tanto tedeschi che longobardi. Venuto alla loro presenza l’abate Audiberto, assieme ad Anscauso, avvocato del soprascritto monastero, contro Lupo Suplainpunio, figlio del fu Lupardo di Tierno proclamò: «Tu Lupo, soprannominato Suplainpunio, tuo bisnonno, tuo nonno, tuo padre, già dal tempo dei Longobardi e poi sotto i Franchi, e tu stesso più recentemente, per trent’anni, in qualità di servi avete prestato le opere in favore del monastero di S. Maria; non so perché adesso ti sottrai [ai tuoi doveri] e non fai più le dette opere».

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A ciò Lupo rispose: «Non è vero che io e i miei avi abbiamo fatto le opere in favore del monastero di S. Maria in base alla nostra condizione servile, ma solo perché ci siamo commendati all’abate Ariperto». Allora noi soprascritti scabini abbiamo chiesto a Lupo se poteva provare quello che diceva ed egli rispose di sì. Quindi noi soprascritti scabini abbiamo stabilito di permettere a Lupo la ricerca dei testimoni ed egli stabilì come suoi testimoni sacramentali Dagiperto e Lubario. Si stabilì di riunire il processo nuovamente a Trento, presso la soprascritta corte ducale.

Anscauso, avvocato del soprascritto monastero, fece presente allora ai fratelli Martino e Gundaldo di Avio che anche essi, come i loro genitori, dovevano corrispondere le opere al monastero di S. Maria in qualità di servi. Ma essi replicarono: «Non è come dici tu, perché noi e i nostri genitori le opere per il monastero di S. Maria non le abbiamo fatte a titolo servile, ma come uomini liberi commendati». Allora noi soprascritti scabini abbiamo chiesto loro se potevano provarlo ed essi risposero di sì. Abbiamo quindi dato loro il permesso di cercare le prove ed essi hanno stabilito come sacramentali per la successiva causa presso la corte ducale Isone ed Anscauso.

Durante il medesimo processo il soprascritto Anscauso si rivolse a Vitale di Mori, a Maurontone di Castione e ai fratelli Brunari, Bonaldo e Onorato di Tiemo, dicendo: «Anche voi e i vostri genitori avete fatto le opere per il monastero di S. Maria in qualità di servi e dovreste farle ancora; non so perché adesso avete smesso». A ciò essi replicarono: «Non è vero che noi abbiamo fatto delle opere né come servi né per altro motivo, ma noi e i nostri genitori siamo sempre stati uomini liberi e tali dobbiamo restare». Dopo aver udito ciò, noi soprascritti scabini abbiamo stabilito di dare loro il permesso di procurarsi i testimoni ed essi accettarono e scelsero come sacramentale Launolfo, impegnandosi ad un secondo processo presso detta corte.

Riunitisi di nuovo, come convenuto, a Trento, presso la corte ducale, il messo Garibaldo, il locoposito Paulicione, i soprascritti scabini e sculdasci e molte altre persone, vennero alla nostra presenza l’abate Audiberto con Anscauso, avvocato del soprascritto monastero, e dall’altra parte gli uomini con i quali il monastero era in lite.

Per prima cosa, noi soprascritti scabini e astanti abbiamo chiesto a Lupo Suplainpunio se si era procurato i testimoni promessi ed egli rispose che li aveva e presentò come testimoni Launulfo e Giovanni di Baviera e Gisemperto di Lenzima. Appena i soprascritti testimoni vennero condotti alla nostra presenza, noi giudici li abbiamo fatti separare l’uno dall’altro e li abbiamo interrogati diligentemente e particolareggiatamente. Per primo parlò Launulfo e disse: «So di questa contesa che l’avvocato dell’ospizio di S. Maria Anscauso ha con Lupo Suplainpunio, il quale ha fatto le opere in favore dei monastero di S. Maria, come i suoi avi, per le terre sulle quali risiede, non però a titolo servile, ma solo per le terre tenute in locazione». Giovanni e Gisemperto confermarono quello che aveva detto Launulfo. Resa la testimonianza, noi soprascritti scabini abbiamo detto all’avvocato Anscauso che, se aveva dei testimoni da contrapporre, li portasse pure alla nostra presenza. Anscauso rispose: «Sì, li ho, ma non ce n’è necessità, perché i testimoni che abbiamo ascoltato parlano più in favore del monastero cui appartiene l’ospizio di S. Maria che a vantaggio di Lupo Suplainpunio».

Allora noi soprascritti scabini abbiamo stabilito che ognuno dei predetti testimoni, alla nostra presenza, ponesse la mano sul santo vangelo ed essi giurarono che quello che avevano detto in quel processo corrispondeva a verità e anche Lupo Suplainpunio confermò col giuramento che quanto i suoi testimoni avevano affermato in quella causa corrispondeva a verità. Fatto il giuramento e scoperta tutta la verità per mezzo di quei testimoni, a noi giudici fu chiaro come si doveva procedere e stabilimmo che il monastero di S. Maria aveva diritto) come è giusto, a ciò che i testimoni avevano affermato e la contesa fu terminata.

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Nello stesso processo l’avvocato del soprascritto monastero Anscauso interpellò anche Martino, Gundaldo, Vitale, Maurontone, Brunari, Bonaldo e Onorato: «Giustificate le vostre ragioni in merito alle opere, come ci avevate promesso». E noi soprascritti scabini e astanti abbiamo chiesto se avevano dei testimoni, come avevano garantito. Ed essi risposero: «vorremmo averne, ma non possiamo». Abbiamo chiesto allora perché non potevano avere dei testimoni ed essi dissero: «Non possiamo, perché effettivamente noi facevamo opere di trasporto con la zattera e portavamo a Verona derrate e dispacci secondo l’incarico che ci veniva dato dal monastero di S. Maria».

Noi soprascritti scabini abbiamo chiesto allora se tali opere e ambascerie le facevano in qualità di servi o invece per le terre sulle quali risiedevano, ed essi risposero che tali opere e ambascerie le dovevano prestare per le terre sulle quali risiedevano. Udito ciò noi soprascritti scabini e astanti abbiamo deciso che il monastero di S. Maria avesse ciò che gli spettava. E la causa fu finita. Abbiamo quindi ordinato al notaio Grimoaldo di stendere l’atto di come si è svolta la causa e di quanto vi si è deliberato, affinché in futuro non sorga più altra contesa sull’argomento. Dietro comando dei soprascritti scabini, io, Grimoaldo, notaio e cittadino di Trento, ho scritto questo verbale del processo, nell’anno ventesimoquinto di regno del nostro invitto imperatore Lotario e nel quinto anno di regno del gloriosissimo re Ludovico, suo figlio, il ventisei di febbraio, indizione ottava, felicemente.”

3. Il documento è lungo, ma la vicenda si descrive semplicemente:

1. un Abate (nome: Audibert) porta in giudizio una serie di persone perché dovrebbero prestare ogni anno delle opere al suo Monastero; nel testo si parla di trasporto fluviale da e per la città di Verona, ma poteva esserci dell’altro, come la manutenzione di fabbricati e altre cose simili;

2. i convenuti contestano la domanda dell’attore con questa argomentazione: non sono nati servi del Monastero; essi sono uomini liberi che hanno reso in passato queste prestazioni per un accordo col precedente Abate (nome: Aripert); morto questo, ogni accordo si è concluso e loro possono decidere se effettuare o meno quelle stesse prestazioni in favore del nuovo Abate;

3. i convenuti offrono dei testimoni; i giudici li interrogano e questi dichiarano che i convenuti svolgevano quelle opere come canone di locazione delle terre del monastero, che essi coltivano e sulle quali risiedono;

4. sentito questo, l’avvocato del Monastero rinuncia ai suoi testimoni, perché quelli dei convenuti hanno già dimostrato quanto lui voleva dimostrare: il rapporto materiale, immediato e diretto dei convenuti con le terre del monastero li obbliga a obbedire a certi ordini dell’Abate, prestando gratuitamente le opere e i servizi richiesti in favore del monastero.

I convenuti sono in buona fede: a loro sembra di aver fatto solo dei favori all’abate Aripert (defunto), non di essere obbligati verso qualsiasi futuro abate dello stesso monastero. I giudici chiariscono loro che quanto hanno sempre fatto è un onere reale, che trae origine dalla vestitura che essi hanno sulle terre del monastero.

A essi non sembrava di essere servi del monastero, ma il giudizio dimostra che lo sono: essi sono pertinenze delle terre del monastero, soggetti che sono onerati di determinate prestazioni in conseguenza della proprietà che essi hanno su quelle stesse terre, che non possono abbandonare senza il consenso del monastero stesso.

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4. Compariamo questo documento col documento C: anche lì il concessionario era onerato di certe prestazioni. Egli se ne libera perché offre la restituzione della sua proprietà sulle terre di quel monastero e il giudice di quel procedimento stabilisce che quel monastero debba liberarlo dal suo rapporto con la terra, restituendogli la lettera di precaria. Se ciò non fosse avvenuto, egli sarebbe dovuto rimanere in quella vestitura con la terra, ricevendone il diritto di coltivarla, ma anche l’obbligo a pagare il censo al monastero.

Qui è lo stesso: i convenuti sono proprietari delle terre in questione, perché sono i soli a poterle coltivare e a poterci edificare e mantenere le proprie case, ma questa proprietà, oltre a dargli una situazione giuridica attiva, li grava di una situazione giuridica passiva, che ha per contenuto le prestazioni da fare verso il monastero, che è l’altro proprietario di quelle stesse terre.

5. La storia generale chiama questo fenomeno servitù della gleba, dove “gleba” è un termine delle lingue germaniche che significa appunto “zolla” o, generalmente, “terra”. Possiamo accettare questa definizione, purché essa venga specificata in termini giuridici: la servitù della gleba non è un istituto a sé stante, ma uno degli effetti giuridici del sistema proprietario che abbiamo fin qui descritto, fondato sulla categoria della legittimazione.

In altri termini, quando l’idea di proprietà viene predicata dalla categoria della legittimazione, su ogni terra possono esistere più legittimazioni concorrenti: la servitù della gleba è quel fenomeno che si osserva storicamente quando su una terra esistono due legittimazioni di due proprietari diversi, l’uno legittimato a coltivare la terra, l’altro a esigere da questi una prestazione.

L’aspetto fondamentale da evidenziare è che, come abbiamo già visto, queste due legittimazioni non sono obblighi contrattuali reciproci: le prestazioni che spettano al coltivatore non sono il canone di una locazione, ma l’onere reale che consegue al possesso della terra, il cui contenuto è dato dal suo titolo di acquisto della corrispondente vestitura.

6. La stessa vicenda giuridica caratterizza un altro fenomeno storicamente osservabile.

G. Formule Turonensi, FF 1. 43.

“Al tal signore magnifico io. Poiché si sa benissimo da parte di tutti che io non ho di che nutrirmi o vestirmi, io ho chiesto alla pietà vostra, e la vostra benevolenza me lo ha concesso, di potermi affidare e accomandare al vostro mundio; e così ho fatto: cioè che tu debba aiutarmi e sostenermi, tanto per il vitto quanto per il vestiario, secondo quanto io potrò servire e bene meritare; e, finché io vivrò, ti dovrò prestare il servizio ed ossequio dovuti da un uomo libero e non potrò sottrarmi per tutta la mia vita alla vostra potestà o mundio, ma dovrò rimanere finché vivrò nella vostra potestà e protezione. Conseguentemente sì conviene che se uno fra noi avrà voluto sottrarsi a questa convenzione paghi tanti soldi di composizione al suo contraente e che la stessa convenzione continui ad aver valore; conseguentemente si conviene che a questo riguardo debbano essere redatte due lettere del medesimo tenore, confermate dalle due parti”.

Questo documento è anch’essa una formula dei Franchi, come quella che abbiamo visto al doc. N dell’Unità B. 13. Essa serve da modello per la creazione di un vincolo di vassallaggio feudale tra un soggetto superiore (un Re, ad esempio) e un inferiore. Il fenomeno storico è quello che abbiamo descritto, secondo l’immagine della storia generale, all’Unità B. 19: Tizio promette fedeltà a un superiore (Caio), e così a fare la guerra insieme a lui o a svolgere su suo incarico vari compiti.

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(fig. 1. Investitura feudale. Si confronti il testo N dell’Unità B. 13: “è stato veduto giurare nelle nostre mani trustis e fedeltà”. Il personaggio sullo sfondo è il notaio, che redige notizia di quanto vede accadere.)

7. La creazione del vincolo feudale si chiama investitura e partecipa degli stessi caratteri di qualsiasi altra vicenda attributiva di una legittimazione. Come vediamo dal doc. G, la sua rappresentazione giuridica è identica a quella di qualsiasi altra vestitura (doc. C.): si devono scrivere due lettere, una delle quali registrerà la legittimazione del superiore verso il sottoposto, l’altra quella del sottoposto verso il superiore. Quest’ultima ha sempre ad oggetto la concessione di una vestitura su un territorio più o meno grande, il cd. beneficium, da cui il sottoposto trarrà dei redditi in forma non diversa da quelli che vediamo trarre dai monasteri che abbiamo incontrato finora. La legittimazione del feudatario sul territorio comporta l’onere reale a ricevere prestazioni in natura da parte di chi possiede i singoli terreni per coltivarli o utilizzarli per il pascolo o altre attività simili. La legittimazione del superiore comprende il diritto a ricevere dal sottoposto il servizio militare, allorché la necessità lo richieda, cui il sottoposto farà fronte con le risorse che trae dal suo beneficium.

8. In questo modo, il sistema delle relazioni proprietarie crea l’organizzazione politica della società feudale, i cui esiti saranno estinti (e non completamente) solo con la Rivoluzione francese. La caratteristica principale di questa organizzazione è la divisione in ceti, ciascuno dei quali individua una distinta soggettività giuridica.

H. Adalberone di Laon, Carmen ad Robertum regem (1025)

“La Chiesa con tutti i suoi fedeli forma un solo corpo, ma la società è divisa in tre ordini. Infatti la legge degli uomini distingue altre due condizioni: il nobile e il servo non sono sotto una stessa legge. I nobili sono guerrieri, protettori della Chiesa, difendono con le loro armi tutto il popolo, grandi e piccoli, e ugualmente proteggono sé stessi. L'altra classe è quella dei servi: questa razza di infelici non possiede nulla senza dolore.

Ricchezze e vesti sono fornite a tutti dal lavoro dei servi e nessun uomo libero potrebbe vivere bene senza i servi. Dunque la città di Dio, che si crede essere una sola, è in effetti triplice: alcuni pregano; altri combattono e altri lavorano. Questi tre ordini vivono insieme e non possono essere

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separati; il servizio di uno solo permette l'attività degli altri due e ognuno di volta in volta offre il sostegno a tutti.”

(fig. 2. I tre ordini della società: Orator in abito monastico, Bellator con corazza e scudo, Laborator con vanga. Monaco e nobile guerriero discutono tra loro. Il contadino può solo ascoltare.)

9. La società feudale vede la sua stabilità nella replica di un ordine naturale, voluto da Dio e mai pienamente conoscibile dall’uomo.

Quest’ordine è, per definizione, immutabile e si basa sulla rigida divisione tra tre compiti: pregare per tutti;

combattere per tutti, lavorare per tutti.

Chi svolge un compito, non può svolgere gli altri: il nobile è colui che deve combattere e per questo deve ricevere il suo sostentamento da coloro i quali lavorano la terra e godono così della protezione del primo. I religiosi amministrano i sacramenti e garantiscono a tutti intercessione per il mondo ultraterreno, dove queste divisioni non esisteranno. Anch’essi devono, per questo, ricevere sostentamento dal lavoro di chi coltiva la terra. Questi sono definiti, perciò, servi: a prescindere dal titolo che li ha legati a una terra, essi sono obbligati a seguire le decisioni altrui.

10. Questa non è una divisione in classi, ma in ceti. Il concetto di classe si riferisce alla realtà economica di una società e presuppone che un soggetto possa passare da una classe a un’altra: il ricco può diventare povero; il povero può diventare ricco. La storia generale misura il grado di apertura o chiusura di una società sulla maggiore o minore mobilità tra le classi.

Il concetto di ceto si riferisce non alla realtà economica, ma a quella giuridica: ogni ceto è un ordine giuridico a sé stante, che si integra con gli altri all’interno di un unico ordinamento. Il testo di Adalberone di Laon è chiarissimo, in questo senso: il nobile e il servo non rispondono a una stessa legge, ma a due diverse leggi.

Queste due diverse leggi non sono altro – ovviamente – che due diversi insiemi di consuetudini, ciascuna delle quali trae origine da fatti diversi. Il più importante è la nascita: chi nasce da contadini, è contadino per nascita e dovrà mantenere su quella terra lo stesso rapporto che avevano con essa i suoi genitori; chi è nato nobile, manterrà su quelle stesse terre lo stesso rapporto che aveva il padre, di cui eredita il titolo nobiliare. Il contadino è proprietario della terra che lavora, perché non

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può esserne scacciato secondo diritto, ma questa proprietà lo lega di un rapporto inscindibile con la terra. Lo stesso per il nobile: egli non può abbandonare il proprio feudo, né rinunciare ai suoi doveri verso quel territorio, primo fra tutti amministrare la giustizia, come abbiamo visto più volte.

La mobilità tra ceti avviene così solo sulla base di fatti, che siano in grado di mutare la condizione giuridica di un soggetto e portarlo da un ordine all’altro come, appunto, l’investitura feudale.

11. Possiamo quindi concludere che l’appartenenza a un ceto coincide sempre con una specifica vestitura con una terra:

a. il servo (laborator) è tale perché ha una vestitura su una data terra che lo legittima a coltivare e a fare altre attività di tipo agricolo o pastorale; egli è quindi un primo proprietario di quella terra, perché da questa non può essere escluso;

b. il nobile (bellator) è tale perché ha una vestitura diversa sulla stessa terra, che lo legittima a percepire talune prestazioni dagli altri proprietari e che lo onera a sua volta di talune prestazioni, come quella di risolvere le controversie;

c. l’ecclesiastico (orator) è tale perché esercita la vestitura che appartiene a un luogo sacro (una chiesa, intesa come edificio; un monastero, un’abbazia, etc.), la quale si estende anche su terre che devono servire al sostentamento dello stesso.