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COMMENTO DELLO ILLUSTRISSIMO SIGNOR CONTE IOANNI PICO MIRANDOLANO SOPRA UNA CANZONA DE AMORE COMPOSTA DA GIROLAMO BENIVIENI CITTADINO FIORENTINO SECONDO LA MENTE ET OPINIONE DE‘ PLATONICI Blasius Bonacursius Hieronymo Benivenio Amico suo dilectissimo S. Doverebbono certamente, Girolamo dilectissimo, tutti li studiosi de‘ nostri tempi e quelli che per lo advenire saranno, piangere di continuo l‘immatura morte di quello admirando giovane Ioanni Pico Principe Mirandulano, considerato per le eccellente e molte sue virtù quanta grande perdita abbino fatta respetto massime allo utile che della vita sua possevano sperare e promettersi, la qual perdita è stata, non solo comune a quelli che delle cose filosofiche e delle platoniche massime sono desiderosi, ma etiam a tutti li amatori e professori della scrittura sacra, avendo lui già con più eccellentissime opere, le quali non aveva ancora dato in luce, soddisfatto in gran parte a quelli primi e cercando ora con somma utilità e gloria della Cristiana religione soddisfare a questi secondi, ad che si oppose la inopinata e lacrimabil morte sua, la quale credo però che li studiosi e litterati sopra detti sopportino pazientemente considerato che lo Omnipotente Dio non opera cosa alcuna se non con grandissimo misterio e divina providenzia, la quale credo abbi di presente messo in animo a questi nostri impressori di pubblicare mediante l‘arte loro lo erudito ed elegante commento del prefato Principe sopra una tua dotta e leggiadra canzona, fatta e composta dello Amore divi no secondo la mente e oppenione de‘ Platonici, acciocchè ancora questo non resti insieme con molte altre opere sue negletto e in oblivione degli uomini e che tutti e‘ litterati e amatori del nome suo abbino commodità di poterlo godere pigliandone quel frutto che delle altre opere sue non prodotte in luce prendere non possano. Avendo io dunque appresso di me uno transunto di detta canzona e commento e essendone con grande istanzia richiesto da alcuni nostri impressori, sono stato alquanto sospeso, se lo dovevo concedere o no. Da l‘una parte mi riteneva el sapere io quanto fussi alieno dalla mente tua e da quella dello autore la publicazione di tale opera per le cagioni da te intese. Dall‘altra mi incitava la instanzia di essi impressori e ‘l desiderio di molti e la utilità e commodo che a me pareva che di tale pubblicazione dovessi resultare. Il perchè vinto ultimamente da conforti e prieghi delli amici, ho voluto piuttosto con qualche mio carico appresso di te fare copia di questo mio transunto, ancora che fuora della tua volontà, alli impressori predetti, che, ritenendolo, defraudare el desiderio di molti, pensando massimamente dovere essere tanto più escusabile la mia colpa quanto è men grave l‘offesa privata che la pubblica, perchè questa, oltre al ben comune, ha ancora per fine el bene privato dell‘amico. Conciosiachè, avendo io notizia di più transunti di detta opera, li quali in varii luoghi e per mano di molti disseminati si leggono, indicavo al tutto impossibile che non la fussi un giorno per el medesimo modo publicata, il che bisognava fussi con molto maggiore dispiacere tuo e di tutti li amatori delle cose del Conte, rispetto allo essere tali transunti imperfetti e ripieni di molti errori de‘ quali io credo che questa mia copia sia, se non in tutto, al manco per la maggior parte purgata. E se pur tu in questo riconosci alcuna mia colpa scusinmi appresso di te e della felice memoria dello autore di esso commento, oltre allo amore che freno o legge non conosce, tutti quelli che lo leggeranno, per il quale, se il iudicio non m‘inganna, loro potranno facilmente conoscere che avendo esso Conte avuto ad scrivere dell‘amore cristianamente, come era sua intenzione, lo arebbe fatto con tanta più felicità, quanto la dottrina veramente divina supera e eccelle quella di Platone e di tutti li altri filosofi. Vale

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Page 1: Traducción comentario

COMMENTO DELLO ILLUSTRISSIMO SIGNOR CONTE IOANNI PICO MIRANDOLANO SOPRA UNA CANZONA DE AMORE COMPOSTA DA GIROLAMO BENIVIENI CITTADINO FIORENTINO SECONDO LA MENTE ET OPINIONE DE‘ PLATONICI Blasius Bonacursius Hieronymo Benivenio Amico suo dilectissimo S. Doverebbono certamente, Girolamo dilectissimo, tutti li studiosi de‘ nostri tempi e quelli che per lo advenire saranno, piangere di continuo l‘immatura morte di quello admirando giovane Ioanni Pico Principe Mirandulano, considerato per le eccellente e molte sue virtù quanta grande perdita abbino fatta respetto massime allo utile che della vita sua possevano sperare e promettersi, la qual perdita è stata, non solo comune a quelli che delle cose filosofiche e delle platoniche massime sono desiderosi, ma etiam a tutti li amatori e professori della scrittura sacra, avendo lui già con più eccellentissime opere, le quali non aveva ancora dato in luce, soddisfatto in gran parte a quelli primi e cercando ora con somma utilità e gloria della Cristiana religione soddisfare a questi secondi, ad che si oppose la inopinata e lacrimabil morte sua, la quale credo però che li studiosi e litterati sopra detti sopportino pazientemente considerato che lo Omnipotente Dio non opera cosa alcuna se non con grandissimo misterio e divina providenzia, la quale credo abbi di presente messo in animo a questi nostri impressori di pubblicare mediante l‘arte loro lo erudito ed elegante commento del prefato Principe sopra una tua dotta e leggiadra canzona, fatta e composta dello Amore divino secondo la mente e oppenione de‘ Platonici, acciocchè ancora questo non resti insieme con molte altre opere sue negletto e in oblivione degli uomini e che tutti e‘ litterati e amatori del nome suo abbino commodità di poterlo godere pigliandone quel frutto che delle altre opere sue non prodotte in luce prendere non possano. Avendo io dunque appresso di me uno transunto di detta canzona e commento e essendone con grande istanzia richiesto da alcuni nostri impressori, sono stato alquanto sospeso, se lo dovevo concedere o no. Da l‘una parte mi riteneva el sapere io quanto fussi alieno dalla mente tua e da quella dello autore la publicazione di tale opera per le cagioni da te intese. Dall‘altra mi incitava la instanzia di essi impressori e ‘l desiderio di molti e la utilità e commodo che a me pareva che di tale pubblicazione dovessi resultare. Il perchè vinto ultimamente da conforti e prieghi delli amici, ho voluto piuttosto con qualche mio carico appresso di te fare copia di questo mio transunto, ancora che fuora della tua volontà, alli impressori predetti, che, ritenendolo, defraudare el desiderio di molti, pensando massimamente dovere essere tanto più escusabile la mia colpa quanto è men grave l‘offesa privata che la pubblica, perchè questa, oltre al ben comune, ha ancora per fine el bene privato dell‘amico. Conciosiachè, avendo io notizia di più transunti di detta opera, li quali in varii luoghi e per mano di molti disseminati si leggono, indicavo al tutto impossibile che non la fussi un giorno per el medesimo modo publicata, il che bisognava fussi con molto maggiore dispiacere tuo e di tutti li amatori delle cose del Conte, rispetto allo essere tali transunti imperfetti e ripieni di molti errori de‘ quali io credo che questa mia copia sia, se non in tutto, al manco per la maggior parte purgata. E se pur tu in questo riconosci alcuna mia colpa scusinmi appresso di te e della felice memoria dello autore di esso commento, oltre allo amore che freno o legge non conosce, tutti quelli che lo leggeranno, per il quale, se il iudicio non m‘inganna, loro potranno facilmente conoscere che avendo esso Conte avuto ad scrivere dell‘amore cristianamente, come era sua intenzione, lo arebbe fatto con tanta più felicità, quanto la dottrina veramente divina supera e eccelle quella di Platone e di tutti li altri filosofi. Vale

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COMENTARIO DEL ILUSTRÍSIMO SEÑOR CONDE JUAN PICO DE LA MIRÁNDOLA SOBRE UNA CANCIÓN DE AMOR COMPUESTA POR GIROLAMO BENIVIENI, CIUDADANO FLORENTINO, SEGÚN EL PENSAMIENTO Y LA OPINIÓN DE LOS PLATÓNICOS Blasius Bonacursius Hieronymo Benivenio Amico suo dilectissimo S. Deberían ciertamente, querídisimo Girolamo, todos los estudiosos de nuestros tiempos y aquellos que en el futuro existirán, llorar de continuo la prematura muerte de aquel joven admirado, Juan Pico Príncipe de la Mirándola, considerado por sus muchas y excelentes virtudes; cuán grande pérdida fue principalmente respecto a lo útil que de su vida podíamos esperar y se prometía. Esta pérdida ha sido común no sólo a aquellos que están deseosos de las cosas filosóficas y de las platónicas, sino etiam a todos los amadores y profesores de la sagrada escritura. Habiendo él ya −con obras más excelentes, las cuales no había todavía dado a la luz−, satisfecho en gran parte a los primeros y buscando ahora con suma utilidad y gloria de la Cristiana religión satisfacer a los segundos, se opuso a ello su muerte inopinada y lamentable, la cual creo sin embargo que los estudiosos y literatos arriba mencionados soportaron pacientemente considerado que el Dios Omnipotente no obra cosa alguna sino con grandísimo misterio y providencia divina, la cual creo que puso en ánimo a estos nuestros impresores para publicar mediante su |arte el erudito y elegante comentario del mencionado Príncipe sobre una canción tuya, docta y refinada, hecha y compuesta sobre el amor divino según el pensamiento y las opiniones de los Platónicos, para que esto no quede todavía junto con muchas otras de sus obras abandonada y en el olvido de los hombres y para que todos los literatos y amantes de su nombre tengan la comodidad de poderlo gozar tomando aquel fruto que de sus otras obras no dadas a la luz no pueden tener. Teniendo yo entonces conmigo un compendio de dicha canción y su comentario y siéndome con gran insistencia requerido por algunos de nuestros impresores, dudaba sobre si debía o no concedérselo. Por una parte me retenía el saber yo cuánto era ajeno a tu pensamiento y a aquel del autor la publicación de tal obra por las razones por ti entendidas. Por la otra me incitaba la insistencia de esos impresores y el deseo de muchos y la utilidad y la ventaja que a mí me parecía debía resultar de tal publicación. Porque, vencido últimamente por las exhortaciones y ruegos de los amigos, he querido más bien con alguna carga para ti hacer una copia de mi compendio, aunque de forma externa a tu voluntad, a los impresores antes mencionados, que, reteniéndolo, defraudar el deseo de muchos, pensando máximamente deber ser tanto más excusable mi culpa cuanto es menos grave la ofensa privada que la pública; porque ésta, además del bien común, tiene también por fin el bien privado del amigo. Además, teniendo noticia de más compendios de la mencionada obra, los cuales se leen en varios lugares diseminados por la mano de muchos, juzgaba del todo imposible que no fuese por el mismo modo publicada, lo que necesariamente sería con mayor contrariedad tuya y de todos los amantes de las cosas del Conde, ya que estos compendios son imperfectos y están llenos de errores, de los cuales yo creo que mi copia, si no en todo, al menos en la mayor parte está purgada. Y si reconoces en esto alguna culpa mía, excúsenme contigo y con la memoria del autor de este comentario, además del amor que no conoce freno o ley, todos aquellos que lo leerán, por los cuales, si el juicio no me engaña, podrán conocer fácilmente que si hubiera tenido el Conde que escribir sobre el amor cristianamente, como era su intención, lo habría hecho con tanta más felicidad, cuanto la doctrina verdaderamente divina supera y excede aquella de Platón y de todos los otros filósofos. Vale.

Page 3: Traducción comentario

Hieronymus Benivenius civis florentinus ad lectorem Ioanni Pico, Principe Mirandulano, uomo veramente da ogni parte admirabile, leggendo, come accade infra li amici, una mia canzona, nella quale, invitato dalla amenissima lezione delli eruditi commentarii del nostro Marsilio Ficino sopra el Convivio di Platone, io avevo in pochi versi ristretto quello che Marsilio in molte carte elegantissimemente descrive, li piacque di illustrarla con una non meno dotta ed elegante che copiosa interpretazione, mosso non tanto, come io credo, da e‘ meriti della cosa, quanto da una tenera e singolar affezione che lui sopra ogni credulità ebbe sempre a me e alle cose mia. Ma perchè nel ritrattare di poi essa canzona e commento, sendo già in parte mancato quello spirito e fervore che avea condotto, e me ad comporl e lui ad interpretarla, nacque nelli animi nostri qualche ombra di dubitazione, se era conveniente a uno professore della legge di Cristo, volendo lui trattare di Amore, massime celeste e divino, trattarne come platonico e non come cristiano, pensammo che fussi bene sospendere la pubblicazione di tale opera, almeno fino a tanto che noi vedessimo se lei, per qualche reformazione, potessi di platonica diventare cristiana. Alla quale deliberazione successe poco di poi la immatura e sopra ogni altra calamità di questi tempi dannosa e lacrimabil morte di esso Ioanni Pico, per la inopinata supervenienzia della quale, quasi come senza alcuno senso e pieno di confusione e fastidio delle cose del mondo rimanendo, pensai di lasciar essa canzona e commento insieme con molti altri mia versi in arbitrio della polvere e di suplimerla per sempre; la qual cosa per ben che da me sia fino ad questi tempi stata osservata, ha nientedimeno potuto più lo studio e desiderio di altri in tirare ad luce questa tale opera, che lo scrupolo e la diligenzia mia in ritenerla. Intanto che, essendo lei già venuta in potestà di alcuni più curiosi, forse per indulgenzia e permissione di quelli appresso dei quali era insieme con li altri libri e commentari di esso Ioanni Pico la originale sua bozza, fu prima data in mano a questi nostri impressori e da loro messa in opera che io appena ne avessi notizia. Alla quale cosa non potendo io onestamente resistere e da altra parte non riconoscendo in lei, cioè nella pubblicazione di tale opera alcuna mia colpa, pensai, come si dice, lasciarla andare a beneficio di natura. Confidandomi massime nella prudenzia, bontà e dottrina di quelli che a così fare mi hanno persuaso, bene prego ora chi legge che in tutti quelli luoghi dove essa canzona o vero commento, seguitando la dottrina di Platone si parte in qualunque modo dalla verità cristiana, possa più in lui l‘autorità di Cristo e de‘ sua santi, oltre alle ragioni inrefragabili de‘ nostri teologi, massime dello angelico dottore S. Tomaso de Aquino, in contrario addotte, che la opinione di uno uomo gentile, escusando l‘error nostro, se errore però chiamare si può el recitare semplicemente e sanza alcuna approbazione la opinione d‘altri, ancora che non vera, escusandolo, dico, con la iscrizione o vero titolo preposto a essa canzona e commento, per il quale apertamente si dice noi voler trattare di Amore, non secondo la verità cattolica, ma secondo la mente e opinione de‘ Platonici. Nella essecuzione della qual cosa, se bene oltre allo errore predetto, se errore è, ne possino essere ancora molti altri, questo bene però e questa utilità non li può esser tolta, che li studiosi di Platone e della sua dottrina attentamente leggendo troveranno in esso commento molti lumi, mediante e‘ quali possa l‘occhio della loro intenzione più facilmente e forse con altro sguardo penetrare alle intime medulle di alcuni più remoti sensi d‘uno tanto filosofo.

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Hieronymus Benivenius civis florentinus ad lectorem Juan Pico, Príncipe de la Mirándola, hombre verdaderamente admirable de toda parte, leyendo, como sucede entre los amigos, una canción mía, en la cual, invitado por la amenísima lección de los eruditos comentarios de nuestro Marsilio Ficino sobre el Convivio de Platón, había en pocos versos restringido aquello que Marsilio en muchas cartas elegantísimas describe, le plugo ilustrarla con una no menos docta que elegante y copiosa interpretación, movido, no tanto, como creo, del mérito de la cosa, cuanto de un tierno y singular afecto que él, más allá de toda credulidad, me tuvo siempre a mí y a mis cosas. Pero, al revisar nuevamente después esa canción y comentario, habiéndose ido en parte aquel espíritu y fervor que había conducido a mí a componerla y a él a comentarla, nació en nuestros ánimos alguna sombra de duda sobre si era conveniente a quien profesa la ley de Cristo, queriendo tratar de Amor, máxime si es celeste y divino, tratarlo como platónico y no como cristiano; pensamos que estaba bien suspender la publicación de tal obra, al menos hasta que viéramos si podíamos, por alguna reforma, de platónica volverla cristiana. A tal deliberación siguió poco después la prematura −y sobre toda otra calamidad de estos tiempos−, dañosa y lamentable muerte de este Juan Pico, por el inopinado acaecimiento de la cual –casi como sin sentido y lleno de confusión y fastidio de las cosas del mundo– pensé dejar esta canción y comentario junto con muchos otros versos míos al arbitrio del polvo y suprimirla por siempre. Sobre lo cual, aunque por mí fue observado hasta estos tiempos, ha podido más, sin embargo, el estudio y el deseo de otros para sacar a la luz esta obra, que el escrúpulo y mi diligencia en detenerla. En tanto que, siendo ella ya llegada a la potestad de algunos más curiosos, tal vez por indulgencia y permiso de aquellos que tenían su borrador original junto con los otros libros y comentarios de este Juan Pico, fue primero dada a nuestros impresores y por ellos puesta en obra cuando yo apenas tenía noticia. A tal cosa, no pudiendo yo resistir honestamente y, por otra parte, no reconociendo en ella, esto es en la publicación de tal obra, ninguna culpa mía, pensé dejarla andar, como se dice, en beneficio de la naturaleza. Confiando sobre todo en la prudencia, bondad y doctrina de aquellos que a actuar así me han persuadido, le ruego ahora a todo aquel que lee que en todos los lugares donde esta canción o el comentario, siguiendo la doctrina de Platón se aparte en algún modo de la verdad cristiana, pueda más en él la autoridad de Cristo y de sus santos, además de las razones irrefragables de nuestros teólogos, principalmente del doctor angélico S. Tomás de Aquino, en contra aducidas, que la opinión de un gentilhombre, excusando nuestro error, si se puede llamar error el recitar simplemente y sin ninguna aprobación la opinión de otro, aunque no verdadera, excusándolo, digo con la inscripción y el título verdadero antepuesto a esta canción y comentario, en el cual abiertamente se dice que nosotros queremos tratar de Amor, no según la verdad católica, sino según el pensamiento y la opinión de los platónicos. En la ejecución de esto, más allá del error antes mencionado, si hay errores, no pueden ser muchos otros; este bien, sin embargo, y esta utilidad no le pueden ser cortados: que los estudiosos de Platón y de su doctrina leyendo atentamente encontrarán en este comentario muchas luces, mediante los cuales pueda el ojo de su intención más fácilmente y quizás con otra mirada, penetrar a la íntima médula de algunos de los sentidos más remotos de tal filósofo.

Page 5: Traducción comentario

CANZONA D‘AMORE COMPOSTA PER HIERONYMO BENIVIENI CITTADINO FIORENTINO, SECONDO LA MENTE E OPINIONE DE‘ PLATONICI Stanza I Amor, dalle cui man sospes‘el freno Del mio cor pende, e nel cui sacro regno Nutrir non ebbe a sdegno La fiamma che per lui già in quel fu accesa, Muove la lingua mia, sforza l‘ingegno, A dir di lui quel che l‘ardente seno Chiude, ma il cor vien meno E la lingua repugna a tanta impresa. Nè quel ch‘è in me può dir nè far difesa, E pur convien ch‘el mio concetto esprima; Forza contra maggior forza non vale. Ma perchè al pigro ingegno amor quell‘ale Promesso ha, con le qual nel cor mio in prima Discese, benchè in cima, Credo per mai partir dalle sue piume, Fa nido, quanto el lume Del suo vivo splendor sia al cor mio scorta Spero aprir quel di lui che ascoso or porta.

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CANCIÓN DE AMOR COMPUESTA POR HIERONYMO BENIVIENI, CIUDADANO FLORENTINO, SEGÚN EL PENSAMIENTO Y OPINIÓN DE LOS PLATÓNICOS Estancia I Amor, de cuyas manos suspendido el freno De mi corazón pende, y en cuyo sacro reino Nutrir no tiene por indigno La flama que por él en aquel fue animada, Mueve mi lengua, esfuerza el ingenio, Para decir de él aquello que el ardiente seno Encierra, pero el corazón viene a menos Y a la lengua repugna tal empresa Ni aquello que en mí puede decir no hace defensa Y sin embargo conviene que mi concepto explique; Fuerza contra fuerza mayor no vale. Pero porque al ingenio pigre amor aquellas alas Ha prometido, con las cuales en mi corazón primeramente desciende, aunque en su cima, Porque jamás creo dejaría sus plumas, Hace nido, cuanto la luz De su vivo esplendor sea a mi corazón escolta Espero abrir aquel que escondido ahora porta.

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Stanza II Io dico com‘amor dal divin fonte Dell‘increato ben qua giù s‘infonde, Quando in pria nato e d‘onde Muove el ciel, l‘alme informa, el mondo regge; Come poi ch‘entro agli uman cor s‘asconde, Con quale e quanto al ferir dextre e pronte Arme elevar la fronte Da terra sforzi al ciel l‘umana gregge, Com‘arda, infiammi, avvampi e con qual legge Questo al ciel volga e quello a terra or pieghi, Ora infra questi dua lo inclini e fermi. Stanche mie rime e voi languidi e ‘nfermi Versi, or chi in terra fia che per voi prieghi? Sì che a più giusti prieghi Dell‘infiammato cor s‘inclini Apollo. Troppo aspro giogo el collo Preme; Amor, le promesse penne or porgi, All‘ale inferme el camin cieco scorgi.

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Estancia II Yo digo cómo amor de la divina fuente Del increado bien aquí abajo se infunde, Cuándo es primero nacido y de dónde Mueve el cielo, el alma informa y el mundo rige; Cómo después que entró a los corazones humanos se esconde Con cuál y cuánto al hendir diestra y pronta Arma a elevar la frente De la tierra al cielo fuerza a la humana grey, Cómo arda, inflame, encienda y con cuál ley Este al cielo vuelva y aquel a la tierra ahora pliegue, Ahora entre estos dos lo incline y detenga. Mis rimas estancadas y ustedes lángidos y enfermos Versos, ¿ahora quién en tierra hace que por ustedes ruegue? Sí que a ruegos más justos Del corazón inflamado se inclina Apolo. Muy áspero yugo el cuello Oprime; Amor, las plumas prometidas ahora haz ver, A las alas enfermas el camino ciego.

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Stanza III Quando dal vero ciel converso scende Nell‘angelica mente el divin sole, Che la sua prima prole Sotto le vive fronde illustra e informa, Lei ch‘el suo primo ben ricerca e vuole Per innato disio che quella accende In lui reflessa prende Virtù, ch‘el ricco sen dipinge e forma. Quinc‘el primo disio che lei trasforma Al vivo sol dell‘increate luce Mirabilmente allor s‘accende e ‘nfiamma. Quell‘ardor, quell‘incendio e quella fiamma Che dalla oscura mente e dalla luce Presa dal ciel reluce Nella angelica mente è el primo e vero Amor, pio desidero D‘inopia nato e di ricchezza allora Che di sè il ciel facea chi Cipri onora.

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Estancia III Cuando del verdadero cielo convertido desciende En la mente angélica el sol divino, Que a su primera prole Bajo las frondas vivas ilustra e informa, Ella que su bien primero busca y quiere Por deseo innato que aquella enciende En él reflejada prende Virtud, que el rico seno pinta y forma. Aquí el primer deseo que ella transforma Al sol vivo por la luz increada Maravillosamente entonces se enciende e inflama. Aquel ardor, aquel incendio y aquella flama Que por la oscura mente y por la luz Presa del cielo reluce En la mente angélica está el primer y verdadero Amor, deseo pío Nacido de inopia y de riqueza entonces Cuando de sí el cielo hacía a quien en Chipre se honra.

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Stanza IV Questi perchè nell‘amorose braccia Della bella Ciprigna in prima nacque Sempre seguir li piacque L‘ardente sol di sua bellezza viva. Quinc‘el primo disio che ‘n noi si giacque Per lui di nuova canape s‘allaccia, Che l‘onorata traccia Di lui seguendo al primo ben n‘arriva. Da lui el foco, per cui da lui deriva Ciò ch‘en lui vive, in noi s‘accende e, dove Arde morendo el core, ardendo cresce. Per lui el fonte immortal trabocca, ond‘esce Ciò che poi el ciel qua giù formando move; Da lui converso piove Quel lume in noi che sopr‘al ciel ci tira. In noi per lui respira Quell‘increato sol tanto splendore Che l‘alma infiamma in noi d‘eterno amore.

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Estancia IV Estos porque en los amorosos brazos De la bella Ciprina primeramente nace Siempre seguir les place El ardiente sol de su belleza viva. Aquí el primer deseo que en nosotros yace Por él con nuevo cáñamo se enlaza Que la honorable traza De él siguiendo al primer bien arriba. Por él el fuego, por el cual deriva Lo que en él vive, en nosotros se enciende y, donde Arde muriendo el corazón, ardiendo crece. Por él la fuente inmortal desborda, donde sale Lo que después el cielo aquí abajo formando mueve; Por él convertido llueve Aquella luz en nosotros que hacia el cielo tira. En nosotros por él respira Aquel increado sol tanto esplendor Que el alma inflama en nosotros de eterno amor.

Page 13: Traducción comentario

Stanza V Come dal primo ben l‘eterna mente È, vive, intende, intende, muove e finge, L‘alma spiega e depinge Per lei quel sol ch‘illustra el divin pecto. Quinci ciò ch‘el pio sen concepe e stringe Diffunde, e ciò che poi si muove e sente, Per lei mirabilmente Mosso, sente, vive, opra ogni suo effecto. Da lei come dal ciel nell‘intellecto Nasce Vener qua giù, la cui belleza Splende in ciel, vive in terra, el mondo adombra. L‘altra che dentro al Sol si specchia, all‘ombra Di quel che al contemplar per lei s‘avezza, Come ogni sua ricchezza Prende dal vivo sol che in lui refulge, Così sua luce indulge A questa, e come amor celeste in lei Pende, così el vulgar segue costei.

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Estancia V Como por el primer bien la eterna mente Es, vive, entiende; entiende, mueve y plasma El alma que despliega y pinta A través de ella aquel sol que ilustra el divino pecho. De aquí esto que el sentido pío concibe y estrecha Difunde, y esto que después se mueve y siente Por ella maravillosamente Movido, siente, vive, obra todos sus efectos. Por ella −como por el cielo en el intelecto− Nace Venus aquí abajo, cuya belleza Esplende en el cielo, vive en la tierra y el mundo asombra. La otra que dentro al Sol se refleja, a la sombra De aquel que al contemplar por ella se aveza Como toda su riqueza Toma del vivo sol que en él refulge, Así su luz infunde A ésta, y como el amor celeste en ella Pende, así el vulgar sigue aquella.

Page 15: Traducción comentario

Stanza VI Quando formata in pria dal divin volto Per descender qua giù l‘alma si parte Dalla più excelsa parte Che alberghi el Sol, negli uman cor s‘imprime. Dove esprimendo con mirabil arte Quel valor poi che da sua stella ha tolto, E che nel grembo accolto Vive di sua celeste spoglie prime, Quanto nel seme uman posson sue lime Forma suo albergo, in quel fabrica e stampa, Ch‘or più or men repugna al divin culto. Indi qualor dal sol ch‘en lei n‘è sculto Scende nell‘altrui cor l‘infusa stampa, Se gli è conforme avvampa L‘alma, che poi in sè l‘alberga assai Più bella a‘ divin rai Di sua virtù la effige, e di qui nasce Che amando el cor d‘un dolce error si pasce.

Page 16: Traducción comentario

Estancia VI Cuando formada primeramente por el divino rostro Para descender aquí abajo el alma parte De la más excelsa parte Que alberga el Sol, en los corazones humanos se imprime. Donde manifestando con maravilloso arte aquel valor después que de su estrella lo ha tomado, Y que en el vientre acoge Vive de su celeste y primer indumento Cuanto en la semilla humana pueden sus luces Forma su albergue, en aquel fabrica y estampa Lo que ahora más o menos repugna al divino culto. De allí cuando del sol que en ella está esculpido Desciende en los otros corazones la infundida estampa, Si les es conforme inflama El alma, que después en sí la alberga tanto Más bella por los divinos rayos De su virtud la figura, y de aquí nace Que amando el corazón de un dulce error se nutre.

Page 17: Traducción comentario

Stanza VII Pascesi el cor d‘un dolce error, l‘amato Obbietto in sè come in sua prol guardando, Talor poi reformando Quello al lume divin che ‘n lui n‘è impresso Raro e celeste don, quinci levando Di grado in grado sè, nello increato Sol torna, onde formato N‘è, quel che nell‘amato obbietto è espresso. Per tre fulgidi specchi un sol da esso Volto divin raccende ogni beltate Che la mente, lo spirto, el corpo adorna. Quinci gli occhi, e per gli occhi ove soggiorna L‘altra sua ancilla, el cor le spoglie ornate Prende in lei reformate, Non però espresse; indi di varie e molte Beltà dal corpo sciolte Forma un concetto in cui quel che natura Diviso ha in tutti, in un pinge e figura.

Page 18: Traducción comentario

Estancia VII Se nutre el corazón de un dulce error, el amado Objeto en sí como en su prole mirando, A veces después reformando Aquello a la luz divina que en él está impresa Raro y celeste don, de aquí elevándose De grado en grado, en el increado Sol torna, donde formado Es, aquel que en el amado objeto se expresa. Por tres fulgentes espejos un sol de ese Rostro divino vuelve a encender toda belleza Que la mente, el espíritu y el cuerpo adorna. De aquí los ojos, y a través de los ojos donde se hospeda Su otra sierva, el corazón los indumentos ornados Toma en ella reformado, No por ello expresado; de allí de varias y muchas Bellezas del cuerpo absueltas Forma un concepto de aquel que la naturaleza ha dividido en todos y en uno lo pinta y figura.

Page 19: Traducción comentario

Stanza VIII Quinci Amor l‘alma, in questo el cor diletta, In lui come in suo parto ancor vaneggia, Che mentre el ver vagheggia Come raggio di sol sott‘acqua el vede. Pur non so che divin che ‘n lui lampeggia Benchè adumbrato el cor pietoso allecta Da questa a più perfecta Beltà, che in cima a quel superba siede. Ivi non l‘ombra pur, che ‘n terra fede Del primo ben ne dia, scorge, ma certo Lume e del vero sol più vera effigie; Quinci mentre el pio cor l‘alme vestigie Segue, nella sua mente el vede inserto. Indi a più chiaro e aperto Lume appresso a quel sol sospesa vola, Dalla cui viva e sola Luce informato amando si fa bello La mente, l‘alma, el mondo e ciò ch‘è in quello.

Page 20: Traducción comentario

Estancia VIII De aquí Amor el alma, en éste el corazón deleita, En él como en su parto todavía se abre, Que mientras el ver adorna Como rayo de sol bajo agua ve. No obstante no sé qué de divino en él vislumbra, Aunque ensombrecido, el corazón piadoso alerta De ésta a más perfecta Belleza, en la cima de aquella sede superna. Allí no la sombra por tanto que en tierra fe Del primer bien da, reconoce, pero cierta Luz del verdadero sol más verdadera efigie; De aquí mientras el pío corazón del alma vestigio Sigue, en su mente el ver inserto. Aquí a más clara y abierta Luz cerca a aquel sol suspendido vuela, Por la cual viva y sola Luz informado y amando se hacen bellos La mente, el alma, el mundo y lo que está en aquello.

Page 21: Traducción comentario

Stanza ultima Canzona, io sento Amor ch‘el fren raccoglie Al temerario ardir ch‘el cor mi sprona Forse di là dal destinato corso. Raffrena el van disio, restringi el morso, E‘ casti orecchi a quel ch‘amor ragiona Or volgi, si persona Truovi che del tuo amor s‘informi e vesta. Non pur le fronde a questa Del suo divin tesor, ma ‘l fructo spiega. Agli altri basti l‘un, ma l‘altro niega.

Page 22: Traducción comentario

Estancia última Canción, yo siento que Amor la brida recoge Al temerario ardid que el corazón me incita Tal vez más allá del curso destinado. Refrena el deseo vano, restringe el freno, Y las castas orejas a quien razone amor Ahora vuelve, si persona Encuentras que de tu amor se informa y viste. No sin embargo las frondas a ésta De su tesoro divino, pero el fruto extiende. A los otros basta el uno, pero al otro niega.

Page 23: Traducción comentario

Libro primo

Capitolo primo

Che ogni cosa creata ha lo essere in tre modi: causale, formale e participato.

Pongono e‘ Platonici per loro dogma principale ogni cosa creata avere l‘essere suo in tre modi, e‘ quali, benchè da diversi diversamente sieno nominati, tuttavia ad uno medesimo senso concorrono tutti e possonsi da noi ora così nominare: essere causale, essere formale, essere participato. La quale distinzione per più noti termini non si può significare, ma fia per esemplo manifestissima. Nel sole, secondo e‘ filosofi, non è calore, però che il calore è qualità elementare e non di natura celeste; tuttavia el sole è causa e fonte d‘ogni calore. El foco è caldo ed è caldo per la sua natura e per la sua forma propria. Un legno non è da sè caldo, ma ben può dal foco essere riscaldato, participando da lui la predetta qualità. Dunque questa cosa chiamata calore ha nel sole essere causale, nel foco essere formale, nel legno o altra simile materia essere participato.

Di questi tre modi d‘essere el più nobile e el più perfetto è l‘essere causale, e però e‘ Platonici ogni perfezione che in Dio essere si concede vogliono essere in lui secondo questo modo di essere; e per questo diranno che Dio, non est ens, ma è causa omnium entium. Similmente, che Iddio non è intelletto, ma che lui è fonte e principio d‘ogni intelletto; e‘ quali detti, per non essere inteso il fondamento loro, a‘ moderni Platonici danno gran noia. E già mi ricordo avermi detto un gran platonico che si maravigliava forte d‘un detto di Plotino, ove diceva che Dio nulla intende nè conosce. E forse è più da maravigliarsi come lui non intenda per quale modo vuole Plotino che Dio non intenda, che non è altro se non che vuole che questa perfezione dello intendere sia in Dio secondo quello essere causale e non secondo quello formale, il che non è negare lo intendere di Dio, ma attribuirglielo secondo un più perfetto ed eccellente modo. Il che essere così, di qui si può manifestamente comprendere, che Dyonisio Areopagita, principe de‘ teologi cristiani, el quale vuole che Dio non solo sè, ma etiam ogni cosa minima e particulare conosca, usa però el medesimo modo di parlare che usa Plotino, dicendo Dio non essere natura intellettuale o intelligente, ma sopra ogni intelletto e cognizione ineffabilmente elevato.

È dunque da notare diligentemente questa distinzione, perocchè noi spesso l‘useremo ed alla intelligenzia delle cose Platoniche porge grandissimo lume.

Libro primero

Capítulo primero

Que toda cosa creada tiene el ser en tres modos: causal, formal y participado.

Los platónicos proponen por dogma principal que toda cosa creada tiene su ser en tres modos, los cuales –aunque han sido nominados diversamente por diversas [personas]– a un mismo sentido concurren todos y pueden ser por nosotros así nombrados: ser causal, ser formal y ser participado. Esta distinción no se puede significar por más notables términos, pero sea por un ejemplo manifiesta. En el sol, según los filósofos, no existe el calor, puesto que el calor es una cualidad de los elementos y no de la naturaleza celeste; más bien el sol es causa y fuente de todo calor. El fuego es caliente y es caliente por su naturaleza y por su forma propia. Un leño no es caliente por sí, pero bien puede ser recalentado por el fuego, participando de la cualidad supradicha. Entonces, esta cosa llamada calor tiene en el sol su ser causal, en el fuego su ser formal y en el leño o en otra materia similar, su ser participado. De estos tres modos de ser el más noble y el más perfecto es el ser causal, los Platónicos quieren que

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toda perfección en Dios sea en él según este modo de ser; y por esto dirán que Dios, non est ens, sino es causa omnium entium. De igual manera que Dios no es intelecto, sino que es fuente y principio de todo intelecto; esta afirmación por no ser entendida en su fundamento, a los platónicos modernos les da gran disgusto. Y me acuerdo ahora que un gran platónico me dijo que se maravillaba mucho de un pasaje de Plotino, donde dice que Dios nada entiende ni conoce. Pero es más maravilloso que él no entienda por qué modo quiere Plotino que Dios no entienda, que no es otro sino que esta perfección del entender sea en Dios según aquel ser causal y no según el formal, lo cual no significa negar el entender de Dios, sino atribuírselo según un modo más perfecto y excelente. Siendo así, se puede comprender manifiestamente que Dionisio Areopagita, príncipe de los teólogos cristianos, quien quiere que Dios no sólo a sí, sino etiam todas las cosas mínimas y particulares conozca, usa el mismo modo de hablar que usa Plotino, diciendo que Dios no es naturaleza intelectual ni inteligente, sino sobre todo intelecto y cognición inefablemente elevado. Se debe notar diligentemente esta distinción porque nosotros mismos la usaremos y porque trae grandísima luz para la comprensión de las cosas platónicas.

Capitolo secondo

Che tutte le creature sono distinte in tre gradi

Distinguono e‘ Platonici ogni creatura in tre gradi, de‘ quali sono dua estremi. Sotto l‘uno si comprende ogni creatura corporale e visibile, come è el cielo, gli elementi, le piante, gli animali ed ogni cosa degli elementi composta. Sotto l‘altro s‘intende ogni creatura invisibile e non solo incorporea, ma etiam da ogni corpo in tutto libera e separata, la quale si chiama proprie natura intellettuale e da‘ nostri teologi è detta natura angelica.

Nel mezzo di questi dua estremi v‘è una natura mezza la quale benchè sia incorporea e invisibile e immortale, nondimeno è motrice de‘ corpi ed alligata a questo ministerio; e questa si chiama anima razionale, la quale alla angelica è sottoposta e preposta alla corporale, subietta a quella e padrona di questa. Sopra questi tre gradi è esso Dio autore e principio d‘ogni creatura, la quale come in suo primo fonte ha la divinità essere causale e da lui immediatamente procedendo nella natura angelica ha el secondo essere, cioè formale. Ultimamente nell‘anima razionale reluce dalla natura angelica a lei partecipata; però dicono i Platonici la divinità in tre nature consistere, cioè in Dio, nello Angelo e nell‘anima razionale, infra quam niuna natura si può vindicare questo nome di divino se non abusivamente.

Di queste tre nature si potrebbe fare più esplicata menzione e divisione più dearticulata, dividendo e‘ corpi in diverse nature e similmente le anime e dichiarando quali si chiamano animali e quali animati e non animali, e perchè il mondo da Platone nel Timeo è chiamato animale animato. Ma questa discussione riserberemo a‘ proprii luoghi e qui solo basti quello che alla cognizione del trattato di amore è necessario.

Capítulo segundo

Que todas las criaturas son distintas en tres grados. Los platónicos distinguen todas las criaturas en tres grados, de los cuales dos son los extremos. Bajo el primero se comprende toda criatura corporal y visible, como es el cielo, los elementos, las plantas , los animales y todas las cosas compuestas de elementos. Bajo el otro se entiende toda criatura invisible y no sólo incorpórea, sino liberada y separada de todo cuerpo totalmente; ésta se llama naturaleza intelectual y nuestros teólogos la llaman naturaleza angélica. En medio de estos dos extremos existe una naturaleza media la cual aunque sea incorpórea, invisible e

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inmortal, no menos es motor del cuerpo y ligado a este ministerio; y ésta se llama alma racional; está sometida a la naturaleza angélica y a cargo de la corporal, sujeta a aquella y patrona de ésta. Sobre estos tres grados está Dios, el autor y el principio de toda criatura cuya primera fuente es la divinidad y tiene en ella su ser causal y de él imediatamente procediendo de la naturaleza angélica tiene el segundo ser, esto es el formal. Últimamente en el alma racional reluce la naturaleza angélica en ella participada; pero dicen los platónicos que la divinidad se encuentra en tres naturalezas, esto es, en Dios, en el Ángel y en el alma racional, debajo de la cual ninguna naturaleza puede llamarse divina sino abusivamente. De estas tres naturalezas se podría hacer una mención más explicada y una división más articulada, dividiendo el cuerpo en diversas naturalezas, similarmente las almas y declarando cuáles se llaman animales y cuales animadas y no animales, y por qué el mundo de Platón en el Timeo es llamado animal animado. Pero estas discusiones las reservaremos a otro lugar y aquí sólo baste aquello que al entendimiento del tratado del amor es necesario.

Capitolo terzo

Come e‘ Platonici provono di non si potere multiplicare, ma essere uno solo Dio principio e causa d‘ogni altra divinità.

Di queste tre nature, cioè Dio, la natura angelica e la natura razionale, la prima, cioè Dio, non potere essere multiplicata, ma essere uno solo Dio principio e causa d‘ogni altra divinità, provano e‘ Platonici e Peripatetici e nostri teologi per evidentissime ragioni, le quali in questo loco saria superfluo a recitare. Dell‘altra natura, cioè angelica e intellettuale, è discordia fra‘ Platonici. Alcuni, come è Proclo, Hermya, Syriano e molti altri, pongono fra Dio e l‘anima del mondo, ch‘è la prima anima razionale, gran numero di creature, le quali parte chiamano intelligibile, parte intellettuale, e‘ quali termini qualche volta etiam confunde Platone, come nel Fedone ove dell‘anima parla. Plotino, Porfirio, e comunemente e‘ più perfetti Platonici, pongono fra Dio e l‘anima del mondo una creatura sola la quale chiamano figliuolo di Dio, perchè da Dio è immediatamente produtta.

La prima opinione è più conforme a Dyonisio Areopagita ed a‘ teologi cristiani, e‘ quali pongono un numero d‘Angeli quasi infinito. La seconda è più filosofica e più conforme ad Aristotele e Platone e da tutti e‘ Paripatetici e migliori Platonici seguitata. E però noi, avendo proposto di parlare quello che crediamo essere comune sentenzia di Platone e di Aristotele, lasciata la prima, benchè sola per sè vera, seguiremo questa seconda via.

Capítulo tercero

Como los platónicos prueban que Dios, principio y causa de toda otra divinidad, no se puede multiplicar sino que es uno solo.

De estas tres naturalezas Dios, la naturaleza angélica y la naturaleza racional la primera, Dios, no puede ser multiplicada, sino que Dios es un solo principio y causa de toda otra divinidad; esto lo prueban los platónicos y los peripatéticos y nuestros teólogos por razones evidentísimas, las cuales en este lugar sería superfluo nombrar. Sobre la otra naturaleza, es decir, la angélica e intelectual, existe discordia entre los platónicos. Algunos como Proclo, Hermias, Siriano y muchos otros, ponen entre Dios y el alma del mundo, que es la primera alma racional, gran número de criaturas, las cuales en parte llaman inteligibles, en parte intelectuales; estos términos, algunas veces incluso Platón confunde, como en el Fedón, donde habla del alma. Plotino, Porfirio y los platónicos más perfectos ponen entre Dios y el alma del mundo una criatura sola a la cual llaman hijo de Dios, porque de Dios es inmediatamente producida.

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La primera opinión es más conforme con Dionisio Areopagita y los teólogos cristianos, quienes proponen un número de ángeles casi infinito. La segunda es más filosófica y más conforme a Aristóteles y a Platón; es seguida por todos los Peripatéticos y los mejores Platónicos. Pero nosotros, habiéndonos propuesto hablar de aquello que creemos ser sentencias comunes de Platón y de

Aristóteles, dejada la primera aunque por sí verdadera, seguiremos esta segunda vía.

Capitolo quarto

Che Dio produsse ab aeterno una sola creatura incorporea ed intellettuale, tanto perfetta quanto essere poteva.

Seguendo adunque noi la opinione di Plotino, non solo da‘ migliori platonici, ma ancora da Aristotile e da tutti li Arabi e massime da Avicenna seguitata, dico che Iddio ab aeterno produsse una creatura di natura incorporea ed intellettuale, tanto perfetta quanto è possibile e‘ sia una cosa creata. E però oltra a lei niente altro produsse, imperocchè da una causa perfettissima non può procedere se non uno effetto perfettissimo, e quel che è perfettissimo non può essere più che uno come, verbigrazia, el colore perfettissimo fra tutti e‘ colori non può essere più che uno, però che se fussino dua o più, forza saria che uno di loro fussi o più o meno perfetto che l‘altro; altrimenti sarebbe l‘uno quel medesimo che l‘altro, e così non sarebbono più, ma uno. Quel dunque che sarà meno perfetto dell‘altro non sarà perfettissimo. Similmente, se Iddio avessi produtto oltre a questa mente un‘altra creatura, non sarebbe stata perfettissima, perchè sarebbe stata meno perfetta di quella.

Questa ragione sono io usato addurre a confirmazione di questa opinione, e parmi più efficace che quella che Avicenna usa, la quale sopra questo principio si funda, che da una causa, in quanto è una, non può procedere più che uno effetto.

Ma essendo introdutte qui queste materie solo per maggiore intelligenza di quello che è principale proposito, non è da immorare in loro con più esatta essaminazione. Questo basta a sapere, che secondo e‘ Platonici da Dio immediatamente non proviene altra creatura che questa prima mente, dico immediatamente, perchè etiam d‘ogni effetto, che poi e questa mente ed ogni altra causa secunda produce, dicesi Dio etiam essere causa, ma causa mediata e remota.

Però mi maraviglio di Marsilio che tenga secondo Platone l‘anima nostra essere immediatamente da Dio produtta; il che non meno alla setta di Proclo che a quella di Porfirio repugna.

Capítulo cuarto

Que Dios produce ab aeterno una sola criatura incorpórea e intelectual, tan perfecta como pueda serlo. Siguiendo entonces nosotros la opinión de Plotino, de los mejores platónicos y también de Aristóteles, de todos los árabes y sobre todo de Avicena, digo que Dios ab aeterno produce una criatura de naturaleza incorpórea e intelectual, tan perfecta cuanto es posible que sea una cosa creada. Pero fuera de ella, nada más produce ya que de una causa perfectísima no puede proceder sino un efecto perfectísimo y lo que es perfectísimo no puede ser más que uno; por ejemplo, el color perfectísimo entre todos los colores no puede ser más que uno; si fueran dos o más, sería forzoso que uno de ello fuera o más o menos perfecto que el otro, de otro modo sería uno igual que el otro, y así no serían muchos, sino uno. Aquel que será menos perfecto que el otro no será perfectísimo. De igual manera, si Dios hubiera producido además de esta mente otra criatura, no sería perfectísima, porque sería menos perfecto que aquella.

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Esta razón he usado para dar confirmación a esto y para mí es más eficaz que aquella que usa Avicena, la cual sobre este principio se funda: que de una causa, en cuanto es una, no puede proceder más que un efecto. Pero habiendo introducido aquí esta materia sólo para mayor inteligencia de aquello que es el próposito principal, no hay que demorarse en ella con una examen más exacto. Basta saber que según los platónicos de Dios no proviene inmediatamente otra criatura que esta primera mente; digo inmediatamente, porque de todo efecto que después esta mente y toda otra causa segunda produce, dícese que Dios es causa, pero causa mediata y remota. Mas me maravillo que Marsilio sostenga según Platón que nuestra alma es inmediatamente producida por Dios; lo que no menos a la escuela de Proclo que a aquella de Profirio, repugna.

Capitolo quinto

Questa prima creatura, da‘ Platonici e da antiqui filosofi Mercurio Trimegisto e Zoroastre è chiamata ora figliuolo di Dio, ora sapienzia, ora mente, ora ragione divina, il che alcuni interpretono ancora Verbo. Ed abbi ciascuno diligente avvertenzia di non intendere che questo sia quello che da‘ nostri Teologi è detto figliuolo di Dio, perchè noi intendiamo per il figliuolo una medesima essenzia col padre, a lui in ogni cosa equale, creatore finalmente e non creatura, ma debbesi comparare quello che e‘ Platonici chiamano figliuolo di Dio al primo e più nobile angelo da Dio creato.

Capítulo quinto Esta primera criatura es llamada por los platónicos y los antiguos filósofos Mercurio Trimegisto y Zoroatro: hijo de Dios, sabiduría, mente, razón divina lo cual algunos interpretan incluso como Verbo. Pero cada quien debe advertir diligentemente que no hay que entender que esto sea aquello que nuestros teólogos llaman hijo de Dios, porque nosotros entendemos por hijo una misma esencia con el padre, igual en todo a él, criatura finalmente y no criatura; debe compararse aquello que los platónicos llaman hijo de Dios con el primer y más noble de los ángeles por él creado.

Capitolo sesto

Di due modi di essere, Ideale e Formale.

Per dichiarazione di quello che seguita è da sapere che ogni causa che con arte o con intelletto opera qualche effetto, ha prima in sè la forma di quella cosa che vuole produrre, come uno architetto ha in sè e nella mente sua la forma dello edifizio che vuole fabbricare, e riguardando a quella come a esemplo, ad imitazione sua produce e compone l‘opera sua. Questa tale forma chiamano e‘ Platonici Idea e essemplare e vogliono che la forma dello edificio, che ha l‘artefice nella mente sua, abbia essere più perfetto e più vero che l‘artificio poi da colui produtto nella materia conveniente, cioè o di pietre o di legni o altre cose simile. Quello primo essere chiamano essere ideale ovvero intelligibile; l‘altro chiamano essere materiale o sensibile, e così se uno artefice edifica una casa, diranno essere dua case, una intelligibile, che è quella che ha l‘artefice nella mente, un‘altra sensibile che è quella che da lui è composta, o di marmo o di pietre o di altro, esplicando quanto può in quella materia la forma che in sè ha concetta; e questo è quello che il nostro poeta Dante tocca in una sua canzona, dove dice: «poi chi pigne figura, se non può esser lei, non la può porre».

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Dicono adunque e‘ Platonici che benchè Dio producessi una sola creatura, nondimeno produsse ogni cosa, perchè in quella mente produsse le idee e le forme d‘ogni cosa. È adunque in quella mente la idea del Sole, la idea della Luna, degli uomini, di tutti gli animali, delle piante, delle pietre, degli elementi, e universalmente d‘ogni cosa. Ed essendo la idea del Sole più vero sole che esso sole sensibile e così delle altre, non solo segue che egli abbia prodotto ogni cosa, ma etiam che l‘abbia prodotte nel più vero e più perfetto essere che possino avere, cioè nel vero essere ideale e intelligibile; e per questo chiamono questa mente mondo intelligibile.

Capítulo sexto

De los dos modos de ser, ideal y formal. Para declarar aquello que sigue hay que saber que toda causa que con arte o con intelecto opera algún efecto tiene primero en sí la forma de aquella cosa que quiere producir, como un arquitecto tiene en sí y en su mente la forma del edificio que se quiere fabricar y observando aquella como ejemplo, por su imitación, produce y compone su obra. Esta forma la llaman los Platónicos idea y ejemplar y quieren que la forma del edificio que tiene su artífice en su mente sea más perfecta y más verdadera que el artificio desde él producido en la materia conveniente, esto es de piedra o madera u otra cosa similar. A este primer ser llaman ser ideal o inteligible; al otro lo llaman ser material o sensible. Así si un artífice edifica una casa dicen que existen dos casas: una inteligible, que es aquella que tiene el artífice en la mente, la otra sensible que es aquella compuesta por él de mármol, de piedra o de otro [material], explicando cuanto puede en aquella materia la forma que en sí ha concebido y esto es lo que nuestro poeta Dante toca en una canción suya donde dice ―quien pinta una figura, si antes no existe, plasmarla no puede‖

1

Dicen además los Platónicos que aunque Dios produjera una sola criatura, no menos produce toda cosa porque en aquella mente produce las ideas y las formas de todas las cosas: la idea del Sol, la idea de la Luna, de los hombres, de todos los animales, de las plantas, de las piedras, de los elementos y universalmente de todas las cosas. Siendo la idea del Sol más verdadera que el Sol sensible, e igual con las otras [cosas], no sólo se sigue que él ha producido todas las cosas, sino que las ha producido en el ser más verdadero y más perfecto que pueda haber, es decir, en el ser verdadero, ideal e inteligible; y por esto llaman a esta mente mundo inteligible.

Capitolo settimo

Come questo mondo ab aeterno fussi causato e prodotto da quella prima mente, e come el sia animato di anima perfettissima sopra ogni altra anima.

Da questa mente vogliono essere causato el mondo sensibile, el quale è una immagine e simulacro di quello intelligibile; ed essendo lo exemplare, ad imitazione del quale è fabbricato questo, perfettissimo fra tutte le cose create, seguita che questo, ancora lui, sia tanto perfetto quanto la sua natura patisce. Però, conciosiacosachè ogni cosa animata sia più perfetta che le inanimate, e più quelle che hanno anima razionale ed intelligente che l‘animate d‘anima irrazionale, è necessario concedere che il mondo sia animato da anima perfettissima sopra tutte l‘anime.

Questa è la prima anima razionale la quale, quantunque incorporea sia e immateriale, nondimeno è alligata a questo ministerio di muovere e reggere la natura corporale; però non è così dal corpo libera e separata come quella mente dalla quale ab aeterno fu produtta questa anima, così come essa mente da

1Convivio IV, canzone 3, v. 52-53. trad. de Fernando Molina Castillo, edición de Cátedra.

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Dio. E di qui si trae evidentissimo argumento che secondo Platone non può el mondo non essere eterno, come etiam tutti e‘ Platonici consentono, però che essendo l‘anima del mondo eterna e non potendo lei essere sanza el corpo, come loro vogliono, bisogna etiam questo corpo mundano ab aeterno fussi e così el moto celeste, perchè l‘anima, secondo e‘ Platonici, non può essere e non muovere.

Ho detto tutti e‘ Platonici in questo convenire, che il mondo sia eterno, però che e Attico e Plutarco e gli altri, che vogliono che questo ordine presente del mondo avessi principio, non vogliono però che innanzi a questo nulla altro fussi che Dio, come pone la nostra cattolica chiesa, ma credono, innanzi a questo ordinato moto del cielo e presente disposizione delle cose mondane, esser stato uno inordinato moto e tumultuario, retto da una anima inferma e prava. E così concederebbono essere stati infiniti mondi, perchè infinite volte el mondo è stato dalla confusione del caos in ordine redutto ed infinite volte è in quello ritornato; al che pare concordare la opinione de‘ talmudisti, e‘ quali domandavono che faceva Dio ab aeterno e respondevono che creava mondi e poi gli guastava, quantunque seguendo e‘ fundamenti de‘ cabalisti alle loro parole si possa dare e più vero e più conveniente senso. Questa opinione attribuisce Aristotele a Platone, e però qualche volta di lui dice che lui solo fa el tempo di nuovo, e qualche volta, come nel duodecimo della Metafisica, confessa secondo Platone el moto essere stato eterno.

Capítulo séptimo

Cómo este mundo ab aeterno fue causado y producido por la primera mente y cómo es animado por un alma perfectísima sobre cualquier otra.

Por esta mente quieren que sea causado el mundo sensible, el cual es una imagen y un simulacro del inteligible; y siendo el ejemplar por imitación del cual es fabricado este[mundo] perfectísimo entre todas las cosas creadas, se sigue que también él sea tan perfecto cuanto lo permite su naturaleza. Sin embargo, toda cosa animada es más perfecta que las inanimadas, y más aquellas que tienen alma racional e inteligente que los animados con alma irracional; es necesario conceder que el mundo es animado por un alma perfectísima sobre todas las almas. Ésta es la primera alma racional, la cual aunque sea incorpórea e inmaterial no menos está ligada al ministerio de mover y gobernar la naturaleza corporal y no está separada y libre del cuerpo como la mente de la cual ab aeterno fue producida esta alma, al igual que la mente [lo fue] por Dios. Y de aquí se sigue el argumento evidentísimo que, según Platón, el mundo no puede no ser eterno como todos los platónicos conceden; siendo el alma del mundo eterna y no pudiendo ella ser sin el cuerpo, como ellos quieren, es necesario que el cuerpo mundano fuera ab aeterno y también el movimiento celeste porque el alma, según los platónicos, no puede ser y no mover. He dicho ‗todos los Platónicos esto conceden‘, es decir, que el mundo sea eterno; sin embargo, Ático y Plutarco y los otros que quieren que el orden presente del mundo tuviese principio no quieren que antes de aquel [orden] no hubiese nada sino Dios, como propone nuestra Iglesia católica, sino creen que antes del movimiento ordenado del cielo y la disposición presente de las cosas mundanas, había un movimiento desordenado y tumultuario, gobernado por un alma enferma y depravada; así consideran que han existido mundos infinitos porque infinitas veces el mundo ha sido reducido de la confusión del caos al orden e infinitas veces ha regresado a aquel [caos]; con lo cual parece coincidir la opinión de los talmudistas, quienes preguntaban qué hace Dios ab aeterno y respondían que creaba mundos y después los descomponía; siguiendo los fundamentos de los cabalistas, a sus palabras se puede dar el más vedadero y más conveniente sentido. Esta opinión atribuye Aristóteles a Platón, pero algunas veces dice sobre él que sólo él hace el tiempo de nuevo, y alguna vez, como en el libro duodécimo de la Metafísica, confiesa según Platón que el movimiento es eterno.

Capitolo ottavo

Come le tre predette nature, Dio, la natura angelica e la natura razionale, sono significate

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per questi tre nomi, Celio, Giove e Saturno, e quello che per loro s‘intende.

Queste tre prime nature, cioè Dio, quella prima mente e l‘anima del mondo, dagli antiqui teologi, che sotto velamenti poetici coprivano e‘ loro mysterii, sono denotate per questi tre nomi: Celio, Saturno e Giove. Celio è esso Dio che produce la prima mente detta Saturno, e da Saturno è generato Giove, che è l‘anima del mondo. E perchè talora si truovono questi nomi confusi, cioè che il primo sarà chiamato Giove e l‘anima del mondo Saturno e quella mente Giove, declareremo il fondamento e la ragione di questi nomi, la quale intesa, comprenderemo che tutte quelle varietà e mutazioni, che paiono ad placitum e licenziosamente fatte, d‘uno medesimo fondamento concordemente procedono. Dico adunque che questo nome Celio è significativo d‘ogni cosa prima ed eccellente sopra l‘altre, come el primo cielo, cioè el firmamento e primo supereminente a tutte le cose corporale. Saturno è significativo della natura intellettuale, che solo vaca allo intendere e al contemplare. Giove è significativo della vita attiva la quale consiste nel reggere ed administrare e muovere con lo imperio suo le cose a sè subdite e inferiori. Queste dua propietà secondo gli astrologi si truovano ne‘ pianeti da e‘ medesimi nomi significati, cioè Saturno e Giove, perchè, come loro dicono, Saturno fa gli uomini contemplativi, Giove gli dà principati, governi ed administrazione di populi. E perchè la vita contemplativa è circa le cose superiore a chi contempla e l‘attiva circa le inferiore, le quali da chi gli è superiore sono rette e governate, per questo ogni natura, in quanto in qualche modo si converte alle cose inferiore a sè, si assomiglia alla vita attiva.

Presupposta adunque la dichiarazione di questi termini avremo a considerare la proprietà di quelle tre nature e saranno chiare qual nome e per quale causa gli sia conveniente a ciascuna di quelle.

Capítulo octavo

Como las tres naturalezas antes mencionadas Dios, la naturaleza angélica y la naturaleza racional son significadas por tres nombres: Cielo, Júpiter y Saturno y lo que por ellos se entiende.

Estas tres primeras naturalezas Dios, la primera mente y el alma del mundoson denominadas por los antiguos teólogos, que bajo velos poéticos cubrían sus misterios, con estos tres nombres: Cielo, Saturno y Júpiter. Cielo es ese Dios que produce la primera mente llamada Saturno y de Saturno se genera Júpiter, que es el alma del mundo. Y porque ahora se encuentran estos tres nombres confusos, esto es, que el primero es llamado Júpiter y el alma del mundo Saturno y la mente [también] Júpiter, declararemos el fundamento y la razón de estos nombres; comprenderemos que todas las variedades y mutaciones ad placitum y licenciosamente hechas, proceden de un mismo fundamento acorde. Digo entonces que este nombre Cielo significa toda cosa primera y excelente sobre las otras, como el primer cielo, esto es el firmamento, que es primero y supereminente respecto de todas las cosas corporales. Saturno significa la naturaleza intelectual que sólo reposa en el entender y el contemplar. Júpiter significa la vida activa, la cual consiste en el gobernar, administrar y mover con su imperio las cosas que respecto a sí son súbditas e inferiores. Estas dos propiedades según los astrólogos se encuentran en los planetas con el mismo nombre llamados; esto es Saturno y Júpiter, porque como ellos dicen, Saturno hace a los hombres contemplativos, Júpiter les da principados, gobiernos y administración de los pueblos. Porque la vida contemplativa se refiere a las cosas superiores a quien contempla y la activa a las cosas inferiores, las cuales son regidas y gobernadas por lo que les es superior, por esto, toda naturaleza en cuanto se convierte, en cierto modo, a las cosas inferiores a sí, se asimila a la vida activa. Presupuesta entonces la declaración de estos términos tendremos que considerar la propiedad de estas

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tres naturalezas y será claro cuál nombre y por qué causa le sea conveniente a cada una de ellas.

Capitolo nono

De la variazione di questi tre nomi, Celio, Saturno e Giove, e perchè e come si convenghino a le tre sopradette nature.

Nel primo, cioè Dio, non si può intendere che e‘ contempli, perchè questa è proprietà di natura intellettuale, della quale esso Dio è principio e causa. Però non si può chiamare Saturno, ma solo di lui s‘intende questo, cioè l‘esser principio d‘ogni cosa; nel quale intelletto si includono dua cose. La prima è la supereminenzia ed eccellenzia sua, la quale ha ogni causa sopra el suo effetto, e per questo è chiamato Celio. La seconda è la produzione di quello che da lui procede, nella quale s‘intende conversione alle cose a lui inferiore mentre le produce, che di sopra dicemmo essere similitudine di vita attiva; per questo in qualche modo gli conviene el nome di Giove, massime con addizione di somma perfezione, come dicendo: Giove ottimo massimo.

Alla prima mente angelica convengono più nomi, perchè è meno semplice che Dio e più diversità in lei si vede. E prima è da sapere che ogni creatura è composta di dua nature. L‘una delle quale si chiama potenzia, o vero natura inferiore, l‘altra atto o vero superiore; e Platone nel Filebo chiama la prima infinito e la seconda termino e fine, e da Avicebrone e molti altri sono chiamate materia e forma, e quantunque fra e filosofi sia differenzia di opinione, se questa natura informe è in tutte le creature una medesima e d‘una medesima ragione, o pure diversamente in diversi gradi di nature si truovi, nondimeno in questo tutti convengono, che ogni cosa che è mezza fra Dio e la materia prima, è mista d‘atto e di potenzia, e questo a noi basta, nè importa al proposito nostro per quale modo si sia o s‘ intenda essere questa mistione o composizione.

È dunque similiter questa prima mente composta di queste dua parte, e ogni imperfezione che è in lei, v‘è per rispetto di quella parte detta potenzia, come per l‘altra ogni perfezione. In questa mente si possono considerare tre operazione: una circa alle cose a sè superiore, l‘altra circa se stessa, la terza circa alle cose a sè inferiore. La prima non è altro che convertirsi a contemplare el padre suo; e similmente la seconda non è altro che conoscere se stessa. L‘ultima è volgersi alla produzione e cura di questo mondo sensibile che è da lei produtto come dicemmo di sopra. Queste tre operazione s‘intendono per questo modo procedere da quella mente, che, per merito di quella parte chiamata atto, che è in lei, si rivolge verso il padre; per merito dell‘altra detta potenzia, condescende allo opifìcio delle cose inferiori; per merito dell‘una e dell‘altra insieme in se stessa si ferma. Per le prime due operazioni si chiamerà Saturno perchè l‘una e l‘altra è contemplazione; per la terza Giove. E perchè questo atto di produrre le cose mondane gli conviene per quella natura detta potenzia, quella parte in lei principalmente si chiama Giove; il che è da osservare per quello che nel secondo libro diremo esponendo quello che sieno gli orti di Giove. Per il medesimo fundamento l‘anima del mondo, in quanto o se stessa o le cose a sè superiore contempla, si può chiamare Saturno; in quanto è occupata al movimento ed al governo de‘ corpi e azioni mondane, si chiama Giove. E perchè a lei principalmente conviene questa operazione del governo del mondo corporale come a quella mente principalmente conviene il contemplare, però lei assolutamente si chiama Saturno e l‘anima del mondo assolutamente Giove, benchè quella mente, ogni volta che di lei si parla come di opefice del mondo, sempre si chiama Giove, per la ragione di sopra detta. Questa è la vera proprietà di questi nomi.

Capítulo noveno

De las variaciones de estos tres nombres: Cielo, Saturno y Júpiter y por qué y cómo convienen a las tres

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naturalezas antes mencionadas. En el primero, esto es Dios, no se puede entender que él contemple, porque esta propiedad es propiedad de la naturaleza intelectual de la cual Dios es principio y causa. Por esto, no se puede llamar Saturno, sino que sólo de él se entiende esto: el ser principio de toda cosa. En su comprensión se incluyen dos cosas. La primera es su supereminencia y excelencia, que tiene toda causa sobre su efecto y por esto es llamado Cielo. La segunda es la producción de aquello que procede de él, en la cual se entiende conversión a las cosas inferiores a él mientras las produce, que arriba dijimos que tiene similitud con la vida activa; por esto en algún modo le conviene el nombre de Júpiter, más añadiendo la suma perfección, como diciendo: Júpiter óptimo, máximo. A la primera mente angélica convienen más nombres, porque es menos simple que Dios y más diversidad en ella se ve. Y lo primero es saber que toda criatura está compuesta de dos naturalezas. Una de las cuales se llama potencia o verdaderamente naturaleza inferior, la otra acto o superior. Platón en el Filebo llama a la primera infinito y a la segunda término y fin y Avicebrón y muchos otros las llaman materia y forma. Y aunque entre los filósofos exista diferencia de opinión sobre si esta naturaleza informe sea en todas las criaturas una misma y por una mismísima razón o, por el contrario, se encuentra diversamente en diversos grados de naturalezas, sin embargo, en esto todos convienen: que toda cosa que esté puesta entre Dios y la materia prima es mezcla de acto y potencia y esto a nosotros basta, no importa a nuestro propósito por qué modo sea o se entienda ser esta mixtura o composición. Y entonces, similiter, en esta primera mente compuesta de estas dos partes, toda imperfección que se encuentre en ella se tiene por respecto de aquella parte llamada potencia, como por la otra, toda perfección. En esta mente se pueden considerar tres operaciones: una acerca de las cosas superiores respecto a ella, otra acerca de sí misma y la tercera acerca de las cosas inferiores a ella. La primera no es otra cosa que volverse a contemplar a su padre; igualmente, la segunda no es otra cosa que conocerse a sí misma. La última es volverse a la producción y al cuidado de este mundo sensible que es por ella producido como decíamos arriba. Se entiende por este modo que estas tres operaciones proceden de la mente; por mérito de la parte llamada acto, que está en ella, se vuelve hacia el padre; por mérito de la otra llamada potencia, desciende a la creación de las cosas inferiores; por mérito de una y la otra juntas en sí misma se detiene. Por las dos primeras operaciones se llamará Saturno porque la una y la otra son contemplación; para la tercera Júpiter. Porque este acto de producir las cosas mundanas le conviene por aquella naturaleza llamada potencia, aquella parte en ella principalmente se llama Júpiter; lo cual se observa por lo que en el segundo libro diremos exponiendo lo que es el huerto de Júpiter. Por el mismo fundamento el alma del mundo en cuanto a sí misma o a las cosas superiores respecto a ella contempla se puede llamar Saturno; en cuanto se ocupa del movimiento y el gobierno de los cuerpos y las acciones mundanas se llama Júpiter. Porque a ella principalmente conviene esta

operación del gobierno del mundo corporal así como a la mente principalmente conviene el

contemplar y por ello se llama absolutamente Saturno el alma del mundo [se llama] absolutamente Júpiter, aunque aquella mente toda vez que de ella se habla como del artífice del mundo se llama Júpiter, por la razón arriba dicha. Esta es la verdadera propiedad de estos nombres.

Capitolo decimo

Della composizione, divisione e ordine di questo mondo sensibile, e la ragione perchè si dice essere diviso a‘ tre figliuoli di Saturno.

È dunque questo mondo produtto da quella mente ad immagine del mondo intelligibile in lei produtto dal primo padre e composto, come ciascuno animale, dell‘anima sua e del suo corpo. El corpo mondano è tutto questo che agli occhi nostri appare fatto, come nel Timeo si scrive, di quattro elementi: Foco, Aria, Acqua, Terra. E per vera intelligenzia di questo è da ricordarsi del fondamento da noi detto nel primo capitolo cioè che ogni cosa ha tre esseri, Causale, Formale e Participato, come quivi

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fu dichiarato. Bisogna adunque che etiam questi quattro elementi abbino questo triplice modo d‘essere. El primo, hanno ne‘ corpi celesti, cioè lo essere causale, però che la sustanzia di que‘ corpi non è composta di questo foco, acqua, aria e terra, che sono dalla luna in giù, chiamati comunemente quattro elementi, ma in sè gli contiene tutti, come ogni causa contiene el suo effetto, per essere ne‘ celesti corpi virtù produttiva de‘ corpi inferiori; nè per modo alcuno si può intendere che il corpo del cielo sia una sustanzia mista di questi elementi, come sono gli altri corpi misti qui appresso noi, però che seguirebbe, oltre alle altre ragione dagli altri adotte, che prima fussi stata questa parte del mondo dalla luna in giù, che la parte superiore celeste, però che prima s‘intendono essere gli elementi semplici in sè, e poi, per loro concorso, causarsi quello che di loro è misto. Hanno dunque gli elementi nel cielo essere causale come Platone vuole, e non formale, come rettamente Aristotele niega; e di questo altrove più largamente parleremo. Hanno el loro essere formale dalla luna sino alla terra; e il terzo essere, cioè participato e diminuito imperfetto, nelle parte hanno sutterranee. E questo essere vero, cioè trovarsi nelle viscere della terra foco, aria e acqua, la sperienza el dimostra, e‘ filosofi naturali el pruovano e gli antiqui teologi lo confermano, disegnando loro enigmaticamente per quattro fiumi infernali, Acheronte, Cocyto, Styge, Flegetonte. Possiamo adunque dividere el corpo mondano in tre parte, Celeste, Mondana e Infernale, usando questi dua secondi nomi secondo el comune uso di parlare, etiam dagli antichi usurpato, che è di chiamare questa parte, dalla Luna in giù, propriamente mondo, onde etiam Giovanni, Evangelista, parlando delle anime che da Dio ne‘ corpi s‘infondano, dice ogni anima che viene in questo mondo, e così in molti altri luoghi si truova usato. Similmente questa parte sutterranea chiamano inferno, deputata secondo molti per luogo di supplicio alle anime nocente. Di qui si può intendere per che cagione da‘ poeti è detto el regno di Saturno a‘ tre suoi figliuoli essere diviso, a Giove, Neptuno e Plutone; che non denota altro se non la triplice variazione di questo mondo corporale; e quanto al corpo per el modo detto, e quanto all‘anima etiam mondana, secondo che noi intendiamo queste tre parte diverse da lui essere animate. El regno di Saturno è el mondo intelligibile, exemplare di questo, el quale mentre di Saturno rimane, cioè mentre rimane nel suo essere ideale e intelligibile, rimane uno e indiviso, e consequentemente più fermo e più potente; ma poi che alle mani de‘ figliuoli è pervenuto, cioè che è transmutato a questo essere corporale, e da loro in tre parte è diviso, per la variazione di quello triplice essere de‘ corpi diviene più infermo e meno potente assai che non era prima, degenerando dal primo quanto degenera ogni cosa corporea dalle spirituale. Dicono la prima parte, cioè celeste, essere suta di Giove, l‘ultima e più infima, di Plutone, la mezza di Neptuno. E perchè questa parte è quella ove principalmente si fa ogni generazione e corruzione, però è significata da‘ teologi per l‘acqua e per el mare, che è in continuo flusso e reflusso, onde da Eraclito questo continuo moto delle cose generabili e corruttibili è assimigliato al moto di uno rapidissimo torrente. Per questo dicono e‘ poeti a Neptuno essere tocco el regno del mare e per Neptuno e‘ teologi ne‘ loro mysterii intendono quella potestà, o vogliono dire nume, che è preside della generazione.

E benchè al proposito nostro non sia necessaria, pure perchè ora scrivendo mi occorre, non tacierò di esporre el principio della creazione mosayca del mondo a dichiarazione e confirmazione di quello che noi abbiamo detto, cioè che tutta quella parte dalla luna insino alla terra sia significata per l‘acqua. Dice adunque Moyse che nel principio Iddio creò il cielo e la terra e che la terra era inane e vacua e le tenebre erano sopra la faccia dello abisso e lo spirito del Signore si moveva sopra dell‘acque: e il Signore disse: sia fatta la luce. Le quali parole così a modo nostro esporremo: creò primo Iddio el cielo e la terra ed era la terra inane e vacua, cioè priva di piante e d‘animali e dell‘altre cose, e perchè queste cose non nascono in lei se non in virtù del lume celeste e de‘ razi de‘ corpi superiori, che in lei descendono sogiugne Moyse la cagione perchè la terra era inane e vacua: e le tenebre erano sopra l‘abisso. E questo perchè il lume cieleste ancora non discendeva sopra la spera lunare nella quale si gienerono le predette cose in virtù di quello.

Nè per questo abbiamo ad intendere essere tre anime diverse, le quali informino e reghino queste tre parti del mondo, perchè essendo el mondo uno, debbe avere una anima sola. La quale, in quanto anima e vivifica le parti del mondo sutterranee, si chiama Plutone; in quanto vivifica la parte che è sotto la Luna, si chiama Neptuno, in quanto vivifica le celeste si chiama Giove; però dice Platone nel Filebo

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che per Giove s‘intende una anima regia, cioè quella parte dell‘anima del mondo che è la principale e regge e domina all‘altre. E benchè da altri altrimenti si sia fatta questa divisione in questi tre figliuoli di Saturno, ho voluto solo recitare quella che è opinione mia propria, e la quale io esistimo essere più vera, pretermettendo le esposizioni da‘ Greci addutte le quali altrove tutte esamineremo; ed a più perfetta cognizione delle cose dette, cioè della natura de‘ corpi celesti e mondani elementali, vo‘ ricordare che secondo e‘ più de‘ Platonici e‘ corpi celesti sono composti di materia e di forma, come gli altri corpi, benchè di materia più perfetta e d‘altra natura.

Capítulo décimo

De la composición, división y orden de este mundo sensible y la razón por la que se dice estar dividido entre los tres hijos de Saturno.

Entonces este mundo es producto de la mente a imagen del mundo inteligible en ella producido por el primer padre y compuesto, como cada animal, de su alma y de su cuerpo. El cuerpo mundano es todo esto que a nuestros ojos aparece hecho de cuatro elementos, como en el Timeo se escribe: Fuego, Aire, Agua y Tierra. Y para entender esto verdaderamente hay que recordar el fundamento dicho por nosotros en el primer capítulo, esto es que toda cosa tiene tres formas de ser: Causal, Formal y Participada, como antes fue declarado. Es necesario entonces que etiam estos cuatro elementos tengan este triple modo de ser. Tienen el primero en los cuerpos celestes, esto es el ser causal, ya que la sustancia de esos cuerpos no está compuesta de este fuego, agua, aire y tierra, que son llamados comúnmente cuatro elementos bajo la luna, pero en sí los contiene todos, como toda causa contiene su efecto, por estar en los cuerpos celestes la virtud productiva de los cuerpos inferiores. Tampoco se puede entender por ningún modo que el cuerpo del cielo sea una sustancia mixta formada por estos

elementos como son los otros cuerpos mixtos que nos circundan ya que se seguiría, además de las otras razones por los otros dadas, que fuera establecida primero esta parte del mundo bajo la luna antes que la parte celeste superior; ya que se entendería que fueron primero los elementos simples en sí y después, por su concurso, se causó aquello que se mezcla a partir de ellos. Tienen entonces los elementos su ser causal en el cielo como quiere Platón y no formal como rectamente niega Aristóteles; y de esto en otro lugar hablaremos más ampliamente. Tienen su ser formal de la luna hasta la tierra y su

tercer ser, esto es el participado, disminuido e imperfecto en la parte subterránea. Y este ser esto es

encontrarse en las vísceras de la tierra fuego, aire y agua es demostrado verdaderamente por la experiencia, los filósofos naturales lo prueban y los antiguos teólogos lo confirman designándolos enigmáticamente con cuatro ríos infernales: Aqueronte, Cocito, Estigia y Flegetonte. Podemos entonces dividir el cuerpo mundano en tres partes: la celeste, mundana e infernal, usando estos dos segundos nombres según el uso común de hablar, etiam de los antiguos usado, que es llamar a esta parte, de la luna hacia abajo propiamente mundo, donde etiam Juan Evangelista, hablando de las almas que de Dios en el cuerpo se infunden dice cada alma que viene a este mundo y así en muchos otros lugares se encuentra usado. Igualmente, esta parte subterránea es llamada infierno, reputada según muchos como lugar de suplicio de las almas culpables. De aquí se puede entender por qué razón es dicho por los poetas que el reino de Saturno está dividido entre sus tres hijos: Júpiter, Neptuno y Plutón, que no denota otra cosa más que la triple variación de este mundo corporal; cuanto al cuerpo por el modo dicho, cuanto al alma etiam mundana, según que nosotros entendemos estas tres partes diversas de él en tanto que animadas. El reino de Saturno es el mundo inteligible, ejemplar de éste, el cual mientras permanece en Saturno, esto es mientras permanece en su ser ideal e inteligible, permanece uno e indiviso y consecuentemente más estático y más potente; pero en cuanto llega a las manos del hijo, esto es que se trasmuta en este ser corporal, y por él en tres partes es dividido por la variación de aquel triple ser de los cuerpos deviene más enfermo y menos potente que antes, degenerando del primero cuanto degenera toda cosa corpórea de la espiritual. Digo la primera parte,

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esto es celeste, estar bajo Júpiter, la última y más ínfima bajo Plutón, la intermedia de Neptuno. Y porque en esta parte es aquella donde principalmente se hace toda generación y corrupción, es significada por los teólogos por el agua y por el mar, que está en continuo flujo y reflujo; donde por Heráclito este continuo movimiento de las cosas generables y corruptibles es asimilado al movimiento de un torrente rapidísimo. Por esto dicen los poetas que a Neptuno le tocó le reino del mar y por

Neptuno entienden los teólogos en sus misterios aquella potestad o quieren decir numen que preside la generación. Y aunque a nuestro propósito no sea necesario, sino porque ahora escribiendo se me ocurre no callo la exposición del principio de la creación mosaica del mundo como declaración y confirmación de aquello que nosotros habíamos dicho, esto es que toda aquella parte de la luna hasta la tierra sea significada por el agua. Dice entonces Moisés que en el principio Dios creó el cielo y la tierra y que la tierra era inane y vacua y las tinieblas estaban sobre la cara del abismo y el espíritu del Señor se movía sobre las aguas: y el señor dice: hágase la luz. Estas palabras a nuestro modo exponemos: creó primero Dios el cielo y la tierra y era la tierra inane y vacua, esto es privada de plantas y animales y de las otras cosas y porque estas cosas no nacen de ella sino en virtud de la luz celeste y de los rayos de los cuerpos superiores que descienden a ella, añade Moisés la razón por la cual la tierra era inane y vacua: y las tinieblas estaban sobre el abismo. Y esto porque la luz celeste todavía no descendía sobre la esfera lunar en la cual se generan las cosas antes mencionadas en virtud de aquello. Ni por esto debemos entender que son tres almas diversas las cuales informan y reinan estas tres partes del mundo, porque siendo el mundo uno, debe haber una sola alma. La cual, en cuanto alma que vivifica las partes del mundo subterráneo, se llama Plutón; en cuanto vivifica la parte que está bajo la Luna se llama Neptuno y en cuanto vivifica la celeste se llama Júpiter; dice Platón en el Filebo que por Júpiter se entiende un alma regia, esto es aquella parte del alma del mundo que es la principal y rige y domina las otras. Y aunque por otros se haya hecho esta división de manera diversa en estos tres hijos de Saturno, he querido sólo proponer aquella que es mi propia opinión que yo estimo ser más

verdadera, posponiendo la exposición aducida por los griegos la cual examinaremos toda en otro

lugar; y para más perfecta cognición de las cosas dichas, esto es de la naturaleza de los cuerpos celestes y elementos mundanos, recuerdo que según los más de los platónicos los cuerpos celestes están compuestos de materia y de forma, como los otros cuerpos, aunque de una materia más perfecta y de otra naturaleza.

Capitolo undicesimo

Che le anime de le otto Sfere celeste insieme con l‘anima del mondo sono le nove Muse.

Dopo l‘anima del mondo pongono e‘ Platonici molte altre anime razionale, fra le quali ne sono otto principale, che sono l‘anime delle spere celeste, le quali secondo gli antichi non erano più che otto, cioè sette pianeti e la spera stellata. Queste sono le nove Muse, da‘ Poeti celebrate, fra le quali è la prima Callyope, che è la universale anima del mondo, e le altre otto per ordine sono distribuite ciascuna alla sua spera. Però dobbiamo dire Callyope essere la più nobile e la prima anima fra tutte le anime e l‘anima universale di tutto il mondo.

Capítulo undécimo

Que las almas de las ocho esferas junto con el alma del mundo son las nueve Musas

Después del alma del mundo ponen los Platónicos muchas otras almas racionales entre las cuales

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existen ocho principales que son las almas de las esferas celestes, las cuales según los antiguos no eran

más que ocho, esto es siete planetas y la esfera estrellada. Estas son las nueve Musas por los poetas

celebradas entre las cuales la primera es Calíope que es el alma del mundo universal y las otras ocho por orden están distribuidas cada una en su esfera. Debemos decir que Calíope es la más noble y la primera alma entre todas las almas y el alma universal de todo el mundo.

Capitolo dodicesimo

De l‘anima universale del mondo e di tutte le altre anime razionali e della convenienzia che ha l‘uomo con tutte le parti del mondo.

Scrive Platone nel Timeo che nella medesima cratera e de‘ medesimi elementi fabricò el fattore del mondo l‘anima mondana e tutte l‘altre anime razionali fra le quali come la universale anima del mondo è la più perfetta, così la nostra è l‘ultima e la più imperfetta, delle parte della quale noteremo una summaria divisione. La natura dell‘uomo, quasi vinculo e nodo del mondo, è collocata nel grado mezzo dell‘universo; e come ogni mezzo participa de gli extremi, così l‘uomo per diverse sue parte con tutte le parti del mondo ha communione e convenienzia, per la quale cagione si suole chiamare Microcosmo, cioè uno piccolo mondo.

Nel mondo veggiamo prima essere la natura corporale la quale è duplice: una è eterna, che è la sustanzia del cielo, l‘altra corruttibile, quali sono li elementi e ogni natura di quelli composta, come le pietre, metalli e simili cose. Poi sono le piante; tertio, gli animali bruti; quarto, gli animali razionali; quinto, le mente angeliche, sopra le quali è esso Dio, fonte e principio d‘ogni essere creato. Similmente nello uomo sono dua corpi, come nel concilio nostro proveremo, secondo la mente di Aristotele e di Platone, uno eterno, chiamato da‘ Platonici veiculo celeste, il quale da l‘anima razionale è immediatamente vivificato; l‘altro corruttibile, quale noi veggiamo con gli occhi corporali composto de‘ quattro elementi. Poi è in lui la vegetativa, per la quale questo corruttibile corpo si genera, si nutrisce e cresce, e quello eterno vive di perpetua vita. Tertio, è la parte sensitiva e motiva, per la quale ha convenienzia con gli animali irrazionali. Quarto, è la parte razionale, la quale è propria de gli uomini e de gli animali razionali, e da‘ Peripatetici latini è creduta essere l‘ultima e la più nobile parte dell‘anima nostra, cum nondimeno sopra essa sia la parte intellettuale ed angelica, per la quale l‘uomo così conviene con gli Angeli, come per la parte sensitiva conviene con le bestie. El sommo di questa parte intellettuale chiamano e‘ Platonici unità della anima, e vogliono essere quella per la quale l‘uomo immediatamente con Dio si congiunge, e quasi con lui convenga, come per la parte vegetativa conviene con le piante. E di queste parte dell‘anima qual sieno immortale e quale mortale è fra‘ Platonici discordia. Proclo e Porfyrio vogliono che solo la parte razionale sia immortale e tutte l‘altre corruttibili. Senocrate e Speusippo etiam la parte sensitiva immortale fanno. Numenio e Plotino, aggiungendovi ancora la parte vegetativa, concludono ogni anima essere immortale.

Capítulo duodécimo

Del alma universal del mundo y de todas las otras almas racionales y de la compatibilidad que el hombre tiene con todas las partes del mundo.

Escribe Platón en el Timeo que en la misma crátera y con los mismos elementos el artífice del mundo fabricó el alma mundana y todas las otras almas racionales entre las cuales, como el alma universal del mundo es la más perfecta, así nuestra alma es la última y la más imperfecta, sobre cuyas partes daremos una sumaria división. La naturaleza del hombre, casi vínculo y nudo del mundo, está colocado en el

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grado intermedio del universo; y como todo medio participa de los extremos, así el hombre por diversas partes suyas tiene comunicación y conveniencia con todas las partes del mundo; por esta razón se suele llamar Microcosmos, esto es un mundo pequeño. En el mundo vemos ser primero la naturaleza corporal la cual es doble: una es eterna y es la sustancia del cielo, la otra corruptible como son los elementos y toda naturaleza por ellos compuesta, como las piedras, los metales y cosas similares. Después están las plantas, tertio, los animales brutos; cuarto, los animales racionales; quinto, la mente angélica, sobre la cual está Dios, fuente y principio de todo ser creado. Igualmente, en el hombre hay dos cuerpos, como en nuestro concilio probaremos, según la mente de Aristóteles y de Platón, uno eterno, llamado por los platónicos vehículo celeste que es inmediatamente vivificado por el alma racional; el otro corruptible tal como lo vemos con los ojos corporales compuesto de cuatro elementos. Después está en él la vegetativa, por la cual se genera este cuerpo corruptible, se nutre y crece y aquel eterno vive de vida perpetua. Tertio, está la parte sensitiva y motriz, por la cual tiene conveniencia con los animales irracionales. Cuarto, está la parte racional, la cual es propia de los hombres y de los animales racionales y es creída ser la última y la más noble parte de nuestra alma por los peripatéticos latinos, cum no menos sobre esa está la parte intelectual y angélica, por la cual el hombre así conviene con los ángeles, como por la parte sensitiva con las bestias. La cima de esta parte intelectual es llamada por los Platónicos unidad del alma y quieren que sea aquella por la cual el hombre inmediatamente con Dios se une y casi con el conviene, como por la parte vegetativa conviene con las plantas. Y de estas partes del alma cuáles son inmortales y cuáles mortales existe discordia entre los platónicos. Proclo y Porfirio quieren que solo la parte racional sea inmortal y todas las otras corruptibles. Xenócrates y Espeusipo etiam hacen la parte sensitiva inmortal. Numenio y Plotino, que añaden también la parte vegetativa, concluyen que toda alma es inmortal.

Capitolo tredicesimo e ultimo del primo libro

Delle idee e del loro triplice essere.

La materia delle idee da‘ Platonici celebrate, è fra tutte le questioni de‘ filosofi forse e la più utile e la più difficile e noi nel concilio nostro e nel commento sopra el Convivio di Platone esattamente ne tratteremo, dalla quale depende e il modo del cognoscere degli Angeli e dell‘anima nostra e dell‘anime celeste.

Di queste materie tutte e‘ Greci Platonici oscuramente e brievemente ne trattarono, per il che forse l‘opera nostra non sarà inutile a li studiosi delle cose di Platone. Ma per quanto fa al proposito nostro, notando di loro certi compendiosi detti, faremo fine al primo libro introduttorio al sequente trattato d‘amore. Aremo a ricordarci del primo fondamento da noi posto nel primo capitulo, come ogni cosa ha triplice modo d‘essere, causale, formale e participato. Bisogna adunque el simile essere delle idee, le quale in Dio aranno essere causale, nell‘Angelo formale, nell‘anima razionale participato. In Dio dunque secondo e‘ Platonici non sono idee, ma lui è causa e principio di tutte le idee, le quali lui primamente produce nella mente angelica, come etiam chiaramente nelli Oraculi de Caldei si truova; e da esso Angelo n‘è fatta partecipe l‘anima razionale. Però l‘anima nostra quando si volge alla parte sua intellettuale e angelica è da quella illuminata participando le vere forme delle cose le quali così come nello intelletto si chiamano idee, così poichè nell‘anima sono, si chiamano ragione e non idee, e in questo sono differente l‘anime de‘ corpi corruttibili, come le nostre e d‘alcuni demoni, secondo e‘ Platonici, dall‘anime celeste, però che le celeste, per la administrazione del corpo, non si partono dalla parte intellettuale, ma a lei sempre converse e congiunte insieme essercitano l‘uno e l‘altro officio, e del contemplare e del governare e‘ corpi; e però dicono e‘ Platonici che e‘ corpi ascendono a loro e non

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loro descendono ne‘ corpi. L‘altre, additte alla cura de‘ corpi caduchi e terreni, occupate in questo, si privano della contemplazione intellettuale e mendicano la scienzia delle cose da‘ sensi, a‘ quali in tutto sono inclinate e però sempre di molti errori e opinione false sono piene; dalla quale prigione e miseria vedremo di sotto essere potissimo mezzo a liberare la via amatoria, la quale mediante la bellezza delle cose corporee e sensibili eccita nell‘anima memoria della parte intellettuale ed è cagione che a quella rivolgendosi dalla terrena vita, veramente sogno di ombra, come scrive Pindaro, all‘eterna trasferendosi, e dal foco amoroso quasi purgata, in angelica forma, come noi nell‘opera seguente dichiareremo, felicissimamente si trasformi.

Capítulo decimotercero y último del primer libro

Sobre las ideas y sobre su triple ser.

La materia de las ideas por los platónicos celebradas, es entre todas las cuestiones de los filósofos tal vez la más útil y la más difícil y nosotros, en nuestro concilio y en el comentario sobre el Convivio de Platón trataremos exactamente sobre ellas, de ellas depende el modo de conocer de los ángeles y de nuestra alma y del alma de las estrellas. De estas materias todos los platónicos griegos oscuramente y brevemente trataron, por ello tal vez nuestra obra no será inútil a los estudiosos de las cosas de Platón. Pero en cuanto a nuestro propósito, notando de ellos ciertos dichos compendiosos, daremos fin al primer libro introductorio al siguiente tratado de amor. Tendremos que recordar el primer fundamento puesto por nosotros en el primer capítulo, que cada cosa tiene un triple modo de ser: causal, formal y participado. Es necesario entonces un ser similar para las ideas, las cuales en Dios tiene su ser causal, en el ángel su ser formal y en el alma racional, el participado. En Dios entonces, según los platónicos, no están las ideas sino que él es la causa y el principio de todas las ideas, las cuales él primeramente produce en la mente angélica, como etiam claramente en los Oráculos de los Caldeos se encuentra, y de allí el Ángel hace partícipe al alma racional. Pero nuestra alma cuando se vuelve a su parte intelectual y angélica es por ella iluminada participando de las verdaderas formas de las cosas las cuales así como en el intelecto se llaman ideas, así porque están en el alma se llaman razones y no ideas; en esto son diferentes las

almas de los cuerpos corruptibles, como la nuestra y las de algunos demonios según los

platónicos de las almas celestes, ya que las celestes no se apartan de la parte intelectual por la administración del cuerpo, sino en ella siempre convergen y unidas ejercitan juntos uno y otro oficio: el del contemplar y el del gobernar el cuerpo. Dicen los platónicos que los cuerpos ascienden a ellas y no que ellas descienden a los cuerpos. Las otras, junto a la cura de los cuerpos caducos y terrenos y ocupadas en esto se privan de la contemplación intelectual y mendigan la ciencia de las cosas por los sentidos a los cuales están inclinadas en todo y siempre están llenas de muchos errores y opiniones falsas. De esta prisión y miseria veremos que la vía amatoria es un medio poderoso para librarse, la cual mediante la belleza de las cosas corpóreas y sensibles les excita en el alma la memoria de la

parte intelectual y es la razón por la cual volviéndose a ella de la vida terrena verdaderamente

sueño de sombra, como escribe Píndaro a la eterna, transfiriéndose y por el fuego amoroso casi purgada, se transforma en angélica forma felicísimamente, como declararemos nosotros en el obra siguiente.

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Libro II

Capitolo I

Che ogni volta ch‘el nome della cosa proposta è ambiguo, si debba prima presupporre quello che per tal nome si significhi.

Dice Platone in più luoghi, e Aristotele dopo lui e così ogni scola di filosofi che nel principio del trattare d‘ogni materia si debbe presupporre quel che significa el nome della cosa della quale si disputa. E per esecuzione di questo ne comandano che ogni volta che quel nome è equivoco, cioè significativo di diverse cose e varie, dobbiamo distinguere que‘ significati e dichiarare per quale principalmente noi l‘abbiamo a usare. Il che non facendo fia ogni disputazione confusa, inordinata e vana, nè d‘altronde procedevano gli errori di que‘ Sofisti, e‘ quali in tanti suoi dialogi Platone repreende, se non da non sapere questa regula del distinguere e‘ termini equivoci e ambigui; della quale regula vuole Eudemo essere stato el primo inventore Platone. Però chi sanza loica, nella quale il predetto modo s‘impara, alle cose di filosofia e massime alle platoniche ha posto, o vero pon mane, è forza che se stesso e chiunque a suoi detti porge gli orecchi empia di errori infiniti e di grandissima confusione. Essendo dunque questo nome, Amore, come nel seguente capitulo vedremo, commune a significare diverse cose, è necessario, prima che d‘amore parliamo, dichiarare quello che per questo nome s‘intenda, escludendo ogni altra cosa che questo importare potessi.

Libro II

Capítulo I

Que cada vez que el nombre de la cosa propuesta es ambiguo, se debe primero determinar aquello que

por tal nombre se significa. Platón dice –en muchos lugares–, Aristóteles después de él y, así, toda escuela de filósofos que al principio del tratamiento de cada materia se debe determinar lo que significa el nombre de la cosa que se disputa. Y para ejecutar esto ordenan que cada vez que el nombre es equívoco, es decir que significa varias y diversas cosas, debemos distinguir qué significados [tiene] y declarar cuál principalmente vamos a utilizar. Quien no haga esto, hace toda disputa confusa, desordenada y vana; de ningún otro lugar procedían los errores de los Sofistas, a quienes Platón reprende en tantos diálogos, sino de no saber esta regla del distinguir los términos equívocos y ambiguos; de tal regla dice Eudemo que Platón fue el primer inventor. Pero quien sin la lógica –en la cual se aprende el modo arriba mencionado– ha puesto o pone mano a las cosas de la filosofía, y máxime a las platónicas, forzosamente él mismo y cualquiera que preste oídos a sus palabras [se] llena de errores infinitos y grandísima confusión. Siendo entonces que este nombre, Amor −como en el siguiente capítulo veremos− comúnmente significa diversas cosas, es necesario, antes de hablar de amor, declarar lo que por este nombre se entiende, excluyendo cualquier otra cosa que pudiera significar.

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Capitolo II

Di questo vocabolo Amore e di diversi suoi significati.

Così come le virtù cognoscitive dell‘anima si rivolgono circa il vero e il falso, così le virtù desiderative circa il bene e il male. La virtù che cognosce assente a quel che iudica essere vero, dissente da quello che iudica essere falso; quello assentire si chiama da‘ filosofi affirmazione, quel dissentire si chiama negazione. Similmente la virtù dell‘anima che desidera, a quel che si gli presenta con faccia di buono, a quello se inclina, e da quel che con faccia di male, si ritira e sfugge; quella inclinazione si chiama amore, quella fuga e quel ritirarsi si chiama odio. Questo è il più largo e comune significato di questo vocabulo Amore, che si possa intendere e sotto questo sono molte specie le quali si diversificano secondo la diversità de‘ beni, ne li quali el desiderio nostro se inclina; come, verbigrazia, se questo amore è circa la roba, e massime se gli è inordinato, chiamerassi avarizia, se circa l‘onore, ambizione. Similmente se gli è circa gli Dei o uno sia parente a noi chiamerassi pietà; se circa a uno equale chiamerassi amicizia. Escludendo dunque questi e tutti gli altri significati, noi aremo a intendere quel solo che è desiderio di possedere quello che o è o a noi pare essere bello; e così nel Convivio da Platone è diffinito amore: desiderio di bellezza. E come dicendo el poeta, appresso e‘ Greci s‘intende Omero, appresso e‘ nostri Vergilio, per la loro eccellenzia fra tutti e‘ poeti, così dicendo amore assolutamente intendesi amore di bellezza, certo come di quello che eccelle e supera ogni desiderio d‘ogni altra cosa creata. E il simile si osserva nella lingua latina, nella quale, benchè propriamente si dica el tale ama Dio, el tale el fratello, el tale e‘ danari, tuttavia dicendo assolutamente el tale ama, s‘intende colui essere preso dallo amore della bellezza di qualcuno; il che vulgarmente si dice essere innamorato. E poichè fra tutti e‘ desideri e amori questo amore della bellezza è il più veemente, onde etiam Platone dice nel Fedro che è detto amore a romis, che in greco significa quello che in vulgare fortezza e veemenzia. Per questo ogni volta che noi vogliamo significare qualche altro amore e desiderio essere veemente, lo diciamo per questo nome; come si dice el tale essere innamorato delle lettere, el tale dell‘arme et sic de ceteris. Dunque e Platone nel Convivio e nel Fedro e il Poeta nostro nella presente canzona parla di quello amore dal quale chi è preso vulgarmente si chiama innamorato; il che non è altro che desiderio di fruire e possedere la bellezza d‘altrui, di che si conclude che e l‘amore col quale Dio ama le creature e quell‘altro che propriamente si chiama amicizia e molti altri simili, sono diversi da questo amore di che si parla, ma eziandio repugnanti, come di sotto, dichiarando la natura d‘amore, dimostreremo chiaramente.

E per ora basta dir questo, che essendo amore del quale si parla desiderio di possedere la bellezza d‘altrui, non essendo in Dio desiderio di cosa alcuna fuora di lui, come quello che in tutto è perfettissimo e nulla gli manca, non potria a lui più repugnare questo amore. E quello dal quale lui ama le creature nasce appunto da opposita cagione. In quello, colui che ama ha bisogno de la cosa amata e riceve da lei, cioè dallo amato, la perfezione sua; in questo, cioè amore divino, lo amato ha bisogno dello amante, e chi ama dà e non riceve. Similmente, quello amore che amicizia si chiama ha opposite proprietà al nostro amore. Nell‘amicizia è sempre necessaria la reciprocazione, come Platone dice in molti luoghi, cioè che l‘uno amico per il medesimo modo e per la medesima causa ami l‘altro, che lui è amato da colui. E così e converso, come Platone dice in molti luoghi: il che non è necessario nell‘amore nostro perchè colui che ama può essere non bello e conseguentemente non atto a muovere l‘amico a mutuo desiderio della sua bellezza.

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Puoi dunque considerare, lettore, quanti errori nel primo congresso commetta el nostro Marsilio confundendo in tutto, sol per questo capo, e pervertendo ciò che d‘amore parla. Benchè, oltre a questo, in ogni parte di questo trattato abbia commesso in ogni materia errori, come io credo nel processo chiaramente manifestare.

Capítulo II

De este vocablo Amor y de sus diversos significados

Así como las virtudes cognoscitivas del alma se orientan a lo verdadero y lo falso, así las virtudes desiderativas, al bien y al mal. La virtud que conoce asiente a lo que juzga ser verdadero, disiente de lo que juzga ser falso. Aquel asentir se llama por los filósofos afirmación, el disentir se llama negación. Igualmente, la virtud del alma que desea se inclina a lo que se le presenta con aspecto de bueno; y se retira y fuga de lo que se le presenta con aspecto de mal. Aquella inclinación se llama amor; la fuga y el retiro se llama odio. Este es el más amplio y común significado de este vocablo Amor que se puede entender y, bajo éste, hay muchas especies las cuales se diversifican según la diversidad de los bienes a los cuales se inclina nuestro deseo. Como, por ejemplo, si este amor es acerca de los bienes materiales, sobre todo si es desordenado, se llama avaricia; si acerca del honor, se llama ambición. Igualmente, si es acerca de Dios o uno de nuestros parientes se llamará piedad; si es acerca de uno igual [a nosotros] se llama amistad. Excluyendo entonces todos estos significados, entenderemos que aquél sólo es deseo de poseer lo que es, o nos parece ser, bello; así es definido el amor en el Convivio de Platón: deseo de belleza. Así como, al decir ―el poeta‖ entre los griegos se entiende Homero y entre nosotros Virgilio, por su excelencia entre todos los poetas, así, al decir ―amor‖ absolutamente se entiende deseo de belleza, como aquello que excede y supera todo deseo de cualquier otra cosa creada. Lo mismo se observa en la lengua latina, en la cual, aunque propiamente se diga que tal ama a Dios, tal al hermano, tal al dinero, al decir ―tal ama‖ se entiende que está preso de la belleza de alguien, lo que vulgarmente se dice ―estar enamorado‖. Y porque entre todos los deseos y amores este amor de la belleza es el más vehemente, Platón dice en el Fedro que se llama amor a romis, que en griego significa lo que en vulgar fuerza y vehemencia. Por esto cada vez que nosotros queremos significar cualquier otro amor y deseo vehemente lo llamamos con este nombre; como se dice que tal está enamorado de las letras, tal de las armas et si de ceteris. Así, Platón en el Convivio y en el Fedro y nuestro Poeta en la presente canción hablan del amor de quien vulgarmente se llama enamorado; lo que no es otra cosa que deseo de disfrutar y poseer la belleza de otro; de lo cual se concluye que el amor con el cual Dios ama a sus criaturas, aquel otro que propiamente se llama amistad y muchos otros similares son distintos de este amor de que se habla, incluso contradictorios, como abajo al declarar la naturaleza de amor demostraremos claramente. Por ahora basta decir esto, que siendo el amor del cual se habla deseo de poseer la belleza de otro, no existiendo en Dios deseo de ninguna cosa fuera de sí, como sucede con lo que es perfectísimo y nada le falta, no podría a él repugnarle más este amor. Y aquel con el que ama a las criaturas nace de razones opuestas. En aquél, el que ama tiene necesidad de la cosa amada y recibe de ella, esto es del amado, su perfección. En éste, es decir, en el amor divino, el amado tiene necesidad del amante y quien ama da y no recibe. Igualmente, el amor que se llama amistad tiene propiedades opuestas a nuestro amor. En la amistad siempre es necesaria la reciprocidad, como Platón lo dice en muchos lugares, esto es que un amigo por el mismo modo y por la misma causa ame al otro. Así e converso, como dice Platón en muchos lados, esto no es necesario en nuestro amor porque el que ama puede no ser bello y consecuentemente no apto para mover al amigo al deseo mutuo de su belleza. Puedes entonces considerar, lector, cuántos errores en la primera parte de su comentario comete nuestro Marsilio confundiendo todo, sólo por este principio, y pervirtiendo lo que dice de amor. Aunque, además de esto, en todas las partes de este tratado había cometido errores en todas las materias, como creo que manifestaré en el proceso.

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Capitolo III

Amore adunque del quale noi abbiamo a parlare si può così definire, come ancora Platone il deffinisce, desiderio di bellezza; desiderio se vi pone come natura generica e comune per la quale amore conviene con tutti gli altri desideri, come l‘uomo, in quanto egli è animale, conviene con tutte le fiere. Poi se v‘aggiunge di bellezza, che specifica la natura propria di amore e lo distingue da ogni altro desiderio, come per essere razionale e mortale si distingue l‘uomo dagli altri animali. Se dunque perfettamente cognosceremo le parti di questa diffinizione, cognosceremo perfettamente amore. E, cominciando da la prima, dico che desiderio non è altro che una inclinazione e impeto di colui che desidera in quel che o gli è o lui esistima a sè essere conveniente: e quel tale si chiama bene. Però l‘obietto del desiderio è il bene, o vero o apparente; e come poi si truovono diverse specie di beni, così nascono diverse specie di desideri, come nel proposito nostro amore, che è una specie di desiderio, è circa una specie di bene che si chiama el bello: di che si conclude che il bello dal buono è distinto come una specie dal suo genere e non come cosa estrinseca da una intrinseca, come dice Marsilio.

Capítulo III

El amor del que vamos a hablar se puede definir como deseo de belleza, como Platón también lo define. El deseo es la naturaleza genérica y común por la cual el amor conviene con todos los otros deseos; como hombre, en cuanto es animal conviene con todas las fieras. Después se agrega de belleza, que especifica la naturaleza propia del amor y lo distingue de todo otro deseo, como por ser racional y moral se distingue al hombre de los otros animales. Si conocemos perfectamente las partes de esta definición, conoceremos perfectamente el amor. Comenzando por la primera digo que el deseo no es otra cosa que una inclinación e ímpetu de alguien que desea hacia aquello que es o él estima ser conveniente, lo cual se llama bien. El objeto del deseo es el bien verdadero o aparente; entonces encontramos diversas especies de bienes y así nacen diversas especies de deseo; como en nuestro propósito el amor es una especie de deseo, acerca de una especie de bien que se llama lo bello. De lo que se concluye que lo bello es distinto de lo bueno como una especie de su génreo y no como una cosa extrínseca de una intrínseca como dice Marsilio.

Capitolo IV

Che cosa è desiderio naturale.

Puossi dividere el desiderio per sua prima divisione in dua specie, in desiderio naturale, e desiderio con cognizione. E per piena intelligenzia che cosa è desiderio naturale è da intendere che, essendo l‘obietto del desiderio el bene, e avendo ogni creatura qualche perfezione a sè propria per participazione della bontà divina, dalla quale ciò che processe (come scrive Moysè) fu grandemente buono, bisogna che

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abbia un certo fine, nel quale quel grado di che lei è capace di felicità ritruova e in quello naturalmente tende, come ogni cosa grave tende al suo centro. Questa inclinazione, nelle creature che non hanno cognizione si chiama desiderio naturale, gran testimonio della providenzia divina da la quale sono queste tale creature al fin suo dirizate come la sagitta del sagittario al suo bersaglio, el quale non è dalla sagitta cognosciuto, ma da colui che con occhio di sapientissima providenzia verso quello la muove. Di questo desiderio è desiderato Iddio da tutte le creature, perchè essendo ogni bene particulare un vestigio e una participazione del primo bene che è esso Dio, in ogni bene che si desidera Lui è il primo desiderato. Nè è altro el bene delle pietre e delle piante, se non quel che loro sono capaci di participare della bontà divina, e secondo che una natura è capace di participare o più o meno, così è ordinata a più o a meno nobile fine. Però el fine di tutte le creature è uno, cioè fruire Iddio per il modo a loro possibile, e gustare quanto più possono della dolcezza della sua bontà; ma secondo el poterne conseguire più o meno sono diversificati e‘ fini, e di qui intenderai come Dio è quel bene del quale dice Aristotele, nel principio della Etica, che desiderano tutte le cose e saprai, per quel che è detto, e in che modo lo desiderano, benchè non conosciuto, e in che modo non desiderano cosa a loro impossibile, e quanto sia lontana dal vero la opinione di coloro che altrimenti qui hanno interpretato Aristotele altrove per evidentissime ragioni dichiareremo. Con questo naturale desiderio, rivolgendosi a Lui ogni creatura, lo lauda e adora, come cantano e‘ profeti ebrei, e a lui quasi supplicando tutti si voltano e offeriscono, come scrive el gran platonico Teodoro.

Capítulo IV

Qué es el deseo natural Se puede dividir el deseo por su primera división en dos especies, el deseo natural y el deseo de conocimiento. Para entender plenamente qué cosa es el deseo natural, hay que entender que, siendo el bien el objeto del deseo y teniendo cada criatura alguna perfección a sí propia por participación de la bondad divina –de la cual aquello que procede (como escribe Moisés) fue grandemente bueno–, es necesario que tenga cierto fin, en el cual reencuentra aquel grado de que ésta es capaz de felicidad y al cual tiende naturalmente como cada cosa pesada tiende a su centro. Esta inclinación, en las criaturas que no tienen cognición se llama deseo natural, gran testimonio de la providencia divina por la cual son estas criaturas a su fin dirigidas, como la flecha es dirigida por el arquero a su objetivo. Dicho objetivo no es conocido por la flecha, sino por aquel que con ojo de providencia sapientísima hacia él la mueve. De este deseo Dios es deseado por todas las criatura, porque siendo todo bien particular un vestigio y una participación del primer bien que es Dios, en cada bien que se desea, Él es el primer deseado. No es otro el bien de las piedras y las plantas sino que son capaces de participar en la bondad divina, y según que una naturaleza es capaz de participar más o menos, así es ordenada a fines más o menos nobles. Pero el fin de todas las criaturas es uno, esto es gozar de Dios por el modo a ellas posible, gustar cuanto más puedan de la dulzura de su bondad. Pero según el poder de conseguirlo, más o menos son diversificados los fines y de aquí se entiende cómo Dios es el bien del cual dice Aristóteles, en el principio de la Ética, que desean todas las cosas y sabrás por lo que he dicho, en qué modo lo desean, aunque no conocido, y en qué modo no desean cosas imposibles para ellas; cuánto está alejada de la verdad la opinión de quienes de otro modo han interpretado a Aristóteles declararemos en otra parte por evidentísimas razones. Con este deseo natural volviéndose a Él toda criatura lo alaba y lo adora, como cantan los profetas hebreos, y casi suplicando todos se vuelven [a él] y ofrendan, como escribe el gran platónico Teodoro.

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Capitolo V

Del desiderio in commune e come, quanto è per sè, sempre sia volto al bene.

L‘altra specie di desiderio non è se non circa le cose conosciute da chi desidera, ed è dalla natura istituto che ad ogni virtù cognoscente sia congiunta una virtù appetitiva, la quale, quel che la cognoscente iudica essere buono ama ed abbraccia, quello che iudica esser male, odia e rifiuta. Lei, quanto è per natura sua, è sempre volta al bene, nè mai fu ignuno che desiderassi d‘essere misero; ma perchè la virtù che cognosce spesso nel iudicare si inganna e iudica esser bene quello che in verità è male, di qui avviene che qualche volta dalla virtù appetitiva, la quale per sè è cieca e non conosce, è desiderato il male. E da l‘un canto si può dire che voluntariamente el faccia, perchè a lei nessuno può fare violenzia, dall‘altro canto si può dire che non voluntariamente, perchè lo fa ingannata dal iudicio della compagna, che lei per sè mai desiderarebbe il male. E questo intende Platone nel Timeo quando dice che nessuno voluntariamente pecca.

Capítulo V

Del deseo en general y cómo y cuánto es per se siempre vuelto al bien

La otra especie de deseo se refiere a las cosas conocidas de quien desea. Está por la naturaleza instituido que a toda virtud cognoscente se conjunte una virtud apetitiva, que ama y abraza aquello que la cognoscente juzga ser bueno; odia y refuta aquello que juzga ser malo. Ella, en lo que toca a su naturaleza, siempre se vuelve al bien; nunca existió alguno que deseara ser mísero; pero la virtud que conoce frecuentemente se engaña en el juzgar y juzga ser bueno aquello que en realidad es malo; de lo cual viene que algunas veces de la virtud apetitiva, que es ciega y no conoce, sea deseado el mal. Y de un lado se puede decir que voluntariamente actúa, porque nada puede violentarla; del otro lado, se puede decir que no es voluntariamente, porque lo hace engañada por el juicio de la compañera, ya que ella por sí misma nunca desearía el mal. Y esto entendió Platón en el Timeo cuando dice que ninguno peca voluntariamente.

Capitolo VI

Che el conoscere le cose è uno possederle.

Consegue a ogni virtù desiderativa una proprietà comune, ed è che sempre chi desidera in parte possiede la cosa desiderata e in parte no, e se della possessione di quella in tutto fussi privato mai la desiderarebbe, il che per duo modi si verifica. El primo è perchè, come nel precedente capitulo fu detto, non si desidera la cosa se non poichè è conosciuta, e da‘ filosofi è sottilmente dichiarato come el cognoscere le cose è un possederle, donde segue quel detto vulgato di Aristotele, che l‘anima nostra è ogni cosa perchè ogni cosa cognosce, e appresso ad Asaf, poeta ebreo, dice Iddio: tutte le cose sono

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mia perchè tutte le cognosco; benchè così come fra il suo cognoscere e il nostro è gran differenzia, così parimente è nel possedere. L‘altro modo è che sempre, fra chi desidera e la cosa desiderata, è convenienzia e similitudine; gode e conservasi ogni cosa per quel che a lei per cognazione di natura è più conforme; per quello che gli è dissimile e contrario si attrista e si corrompe. Però infra dissimili non cade amore, e la repugnanzia di dua nature opposite non è altro che uno odio naturale, come l‘odio non è altro che una repugnanzia con cognizione. Di che evidentemente segue essere necessario e che la natura del desiderato in qualche modo si ritruovi nel desiderante, perchè altrimenti fra loro non saria similitudine, e che imperfettamente se gli truovi, perchè vano saria cercare quello che in tutto si possiede.

Capítulo VI

Que el conocer las cosas es poseerlas.

A cada virtud desiderativa sigue una propiedad común: que siempre que desea en parte posea la cosa deseada y en parte no; si estuviera privado del todo de la posesión de ella jamás la desearía, lo cual por dos modos se verifica. El primero, porque –como se dijo en el capítulo precedente– no se desea la cosa sino porque es conocida. Por los filósofos es sutilmente declarado cómo conocer las cosas es una forma de poseerlas, de donde se sigue aquel dicho popular de Aristóteles, que nuestra alma es todas las cosas porque todas las cosas conoce; de acuerdo con Asaf, poeta hebreo, Dios dice: ―todas las cosas son mías, porque a todas conozco‖; aunque así como entre su conocer y el nuestro hay una gran diferencia, así paralelamente sucede en el poseer. El otro modo es que siempre, entre quien desea y la cosa deseada existe conveniencia y similitud. Toda cosa goza y se conserva en lo que por un parentesco natural le es más conforme. En aquello que le es disímil y contrario se entristece y se corrompe. Pero entre disímiles no cabe amor y la repugnancia de dos naturalezas opuestas no es otra cosa que un odio natural, como el odio no es otra cosa que una repugnancia con cognición. De lo cual se sigue evidentemente que es necesario que la naturaleza de lo deseado en algún modo se encuentre en quien desea, porque de otro modo entre ellos no habría similitud; y que imperfectamente se encuentre en él, porque vano sería buscar aquello que en todo se posee.

Capitolo VII

Che a diverse nature conoscente sono annesse diverse nature appetitive.

Come el desiderio segue la cognizione in comune, così a diverse nature cognoscente sono annesse diverse specie appetitive, e questo per ora basta. Si posson le virtù cognitive in tre gradi distinguere, in senso, ragione e intelletto, a‘ quali conseguono similmente tre gradi di natura desiderativa che si potranno chiamare appetito elezione e voluntà. L‘appetito segue el senso, la elezione la ragione, la voluntà lo intelletto. L‘appetito è negli animali bruti; la elezione negli uomini e in ogni altra natura che si truovi meza fra gli angeli e noi, la voluntà negli angeli. E così come il senso non conosce se non cose corporali e sensibili, così lo appetito non desidera se non i beni corporali e sensibili; e come lo intelletto angelico solo alla contemplazione vaca di spirituali concetti, nè alle cose materiali s‘inclina, se non quanto loro, già dalla materia absolute e sciolte, immateriali e spirituali divengono, così la voluntà loro sol di beni incorporali e spirituali si pasce. La natura razionale, posta fra questi dua come uno mezzo fra gli estremi, ora a l‘una parte, cioè al senso inclinandosi, ora all‘altra, cioè allo intelletto elevandosi,

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a‘ desiderii dell‘una e dell‘altra per propria elezione può accostarsi. Di queste cose tutte si può concludere che, ogni volta che la cosa desiderata è cosa corporea e sensibile, bisogna che il desiderio di quella sia, o appetito che segue il senso, o elezione di ragione al senso inclinata; ogni volta che la cosa spirituale e incorporea, conviene che sia o voluntà intellettuale e angelica, o elezione di ragione alla sublimità dello intelletto surta ed elevata. Visto adunque amore essere desiderio, e declarato che cosa è desiderio, per conoscere che desiderio è amore, s‘egli è o sensitivo o razionale o intellettivo, che tanto è quanto a dire o desiderio bestiale o umano o angelico, bisogna vedere che cosa è bellezza, che è l‘obietto di tale desiderio, il che conosciuto, aremo della deffinizione di amore, e consequentemente di lui, assoluta cognizione.

Capítulo VII

Que a diversas naturalezas cognoscentes acompañan diversas naturalezas apetitivas

Como el deseo sigue la cognición en forma general, así a diversas naturalezas cognoscentes acompañan diversas especies apetitivas; esto por ahora basta. Si podemos distinguir las virtudes cognitivas en tres grados: sentido, razón e intelecto, igualmente seguirán a éstas tres grados de naturaleza desiderativa que se podrán llamar apetito, elección y voluntad. El apetito sigue al sentido, la elección a la razón, la voluntad al intelecto. El apetito está en los animales brutos; la elección en los hombres y en toda otra naturaleza que se encuentre puesta entre los ángeles y nosotros, la voluntad en los ángeles. Y así como el sentido conoce las cosas corporales y sensibles, así el apetito desea los bienes corporales y sensibles. Así como el intelecto angélico sólo se inclina a la contemplación de conceptos espirituales y no a las cosas materiales (excepto cuando ellas −ya de la materia absueltas y desatadas− se vuelven inmateriales y espirituales), así la voluntad sólo se nutre de los bienes incorporales y espirituales. La naturaleza racional, puesta entre estos dos como un medio entre los extremos, ahora a una parte, esto es, al sentido se inclina; ahora a la otra, esto es, al intelecto se eleva; ante los deseos de la una y de la otra puede por propia elección aproximarse. De todo esto se puede concluir que cada vez que la cosa deseada es cosa corpórea y sensible es necesario que el deseo de ella sea apetito que sigue el sentido o elección de la razón inclinada al sentido; cada vez que la cosa es espiritual e incorpórea, conviene que sea voluntad intelectual y angélica o elección de la razón elevada a la sublimidad del intelecto. Ya que el amor es deseo y habiendo declarado qué cosa es el deseo, para conocer qué [tipo de] deseo es el amor −si es sensitivo o racional o intelectivo y qué tanto es deseo bestial, humano o angélico− es necesario ver qué cosa es la belleza, que es el objeto de tal deseo; al conocerla tendremos absoluta cognición de la definición de amor y, consecuentemente, de él mismo.

Capitolo VIII

Della bellezza in comune.

Questo vocabulo bellezza si può pigliare secondo una larga e comune significazione; e puossi pigliare propriamente secondo el primo modo ogni volta che più cose diverse concorrono a constituzione d‘una terza, la quale nasce dalla debita mistione e temperamento fatto di quelle varie cose; ille decor che resulta di quella proporzionata commistione si chiama bellezza. Et cum sit che ogni cosa creata sia composta, e sia con tanta debita ragione e proporzione composta quanto possibile sia alla natura di

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quella cosa, puossi, secondo el modo predetto, chiamarsi ogni cosa creata bella, non essendo essa beltà altro che quel temperamento el quale è causa che quelle nature, benchè diverse e varie, pure convengono e concordano insieme a comporre una natura; e secondo questa ragione niuna cosa semplice può essere bella. Di che segue che in Dio non sia bellezza perchè la bellezza include in sè qualche imperfezione, cioè lo essere composto in qualche modo. Il che per niente non conviene alla prima causa, nella quale per questa ragione e‘ Platonici non pongono le Idee, per non essere in Lui varietà alcuna nè reale nè imaginabile, ma somma e inestimabile simplicità come nel primo libro fu dichiarato.

Dopo Lui comincia la bellezza, perchè comincia la contrarietà, sanza la quale non può essere cosa alcuna creata, ma sarebbe solo esso Dio; nè basta questa contrarietà e discordia di diverse nature a constituire la creatura, se per debito temperamento non diventa e la contrarietà unita e la discordia concorde, il che si può per vera deffinizione assignare di essa bellezza, cioè che non sia altro che una amica inimicizia e una concorde discordia. Per questo diceva Eraclito la guerra e la contenzione essere padre e genetrice delle cose; e, appresso Omero, chi maladisce la contenzione è detto avere bestemmiato la natura. Ma più perfettamente parlò Empedocle, ponendo, non la discordia per sè, ma insieme con la concordia essere principio de le cose, intendendo per la discordia la varietà delle nature di che si compongono, e per la concordia l‘unione di quelle; e però disse solo in Dio non essere discordia perchè in lui non è unione di diverse nature, anzi è essa unità semplice sanza composizione alcuna. E perchè in essa constituzione delle creature è necessario che l‘unione superi la contrarietà, altrimenti la cosa si dissolverebbe perchè dal loro insieme si separerebbono e‘ suoi principi, però è detto da‘ poeti che Venere ama Marte, perchè quella bellezza la quale si chiama Venere, come noi di sotto diremo, non sta sanza quella contrarietà; e che Venere doma e mitiga Marte perchè quel temperamento restrigne e retunde la pugna e l‘odio che è fra quelle nature contrarie. Similmente appresso gli antichi astrologi, l‘openione dei quali segue Platone e Aristotele e, secondo che scrive Abenaza spano, ancora Moisè, Venere fu posta nel mezzo del cielo accanto a Marte, acciocchè avessi a domare l‘impeto suo che di natura sua è destruttivo e corruttivo, sì come Giove la malizia di Saturno. E se sempre Marte fussi sottoposto a Venere, cioè la contrarietà de‘ principii componenti al lor debito temperamento, niuna cosa mai si corromperebbe.

Capítulo VIII

De la belleza en general

Este vocablo belleza se puede tomar según una larga y común significación; y puede tomarse propiamente según el primer modo cada vez que cosas diversas concurren en la constitución de una tercera, la cual nace de la debida mezcla hecha de las varias cosas: ille decor que resulta de aquella proporcionada mezcla se llama belleza. Et cum sit que cada cosa creada es compuesta y que esté compuesta con la debida razón y proporción cuanto sea posible de acuerdo con la naturaleza de aquella cosa, puede llamarse toda cosa bella, según lo dicho anteriormente; no siendo esa belleza otra cosa que la mezcla que es causa de que las naturalezas, aunque sean diversas y varias, sin embargo convengan y concuerden juntas para componer otra naturaleza. Según esto, ninguna cosa simple puede ser bella. De lo que se sigue que en Dios no se encuentre belleza porque la belleza incluye en sí algo de imperfección que consiste en ser compuesto de algún modo. Lo que de ninguna manera conviene a la causa primera, en la cual por esta razón los platónicos no ponen las Ideas, porque en Él no hay variedad alguna ni real ni imaginable, sino suma e inestimable simplicidad como en el primer libro se declaró. Después de Él comienza la belleza, porque comienza la contrariedad, sin la cual no puede ser creada cosa ninguna, sino que sólo sería Dios. Tampoco basta esta contrariedad y discordia de naturalezas diversas para constituir la criatura si por la debida mezcla no se vuelve la contrariedad

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unida, la discordia concorde; lo cual se puede asignar como verdadera definición de esa belleza, esto es, una enemistad amiga o un discordia concorde. Por esto decía Heráclito que la guerra y la disputa son el padre y el generador las cosas; y, según Homero, es dicho de quien maldice la disputa haber vituperado la naturaleza. Pero Empédocles habló más perfectamente, poniendo la discordia no por sí sino junta con la concordia como principio de las cosas, entendiendo por la discordia la variedad de las naturalezas de que se componen y por la concordia la unión de aquellas. Y dice por esto que en Dios no existe la discordia porque en él no hay unión de diversas naturalezas y así es unidad simple sin composición alguna. Y porque en esa constitución de las criaturas es necesario que la unión supere la contrariedad, de otra forma la cosa se disolvería porque de estar juntos se separarían sus principios, por ello es dicho por los poetas que Venus ama a Marte, porque aquella belleza que se llama Venus, como nosotros diremos más abajo, no está sin aquella contrariedad; y que Venus doma y mitiga a Marte porque el temperamento restringe y refrena la pugna y el odio que existe entre las naturalezas contrarias. Igualmente, de acuerdo con los antiguos astrólogos cuya opinión siguen Platón y Aristóteles y –según lo que escribe Abenaza hispano– también Moisés, Venus fue puesta en el medio del cielo al lado de Marte, para que así domara su ímpetu que por naturaleza es destructivo y corruptivo, así como Júpiter [doma] la malicia de Saturno. Y si siempre Marte estuviera subordinado a Venus, esto es la contrariedad de los principios componentes a su debido temperamento, ninguna cosa se corrompería nunca.

Capitolo IX

Della bellezza propriamente presa.

Questa è la larga e comune significazione di bellezza, nella quale significazione comunica con lei questo vocabulo armonia, onde si dice avere Iddio con musico e armonico temperamento composto tutto el mondo; ma così come armonia comunemente si può pigliare per el debito temperamento d‘ogni cosa composta, e propriamente significa solo el temperamento di più voci convenienti insieme ad una melodia, così, benchè bellezza si possa dire d‘ogni cosa debitamente composta, tuttavia il suo proprio significato è solamente alle cose visibili, così come armonia alle cose audibili; e questa bellezza è quella el desiderio della quale è chiamato amore. E però da una sola potenzia cognoscitiva nasce amore, cioè dal viso: come e da Museo e da Properzio e universalmente da tutti e‘ poeti e greci e latini fu sempre celebrato; e muovesi per questo Plotino a credere che Eros, che in greco significa Amore, si derivi da questa dizione orasis che significa visione. Ma, direbbe uno, se bellezza è solo nelle cose che il viso comprende, come si può attribuire alle idee, che è natura del tutto invisibile? Per dichiarazione di questo dubbio, dal quale descende el fundamento di questa materia, è da notare che sono dua visi, l‘uno corporale e l‘altro incorporale; el primo è quello che comunemente si chiama viso, el quale dice Aristotele essere da noi amato sopra tutti gli altri sensi. L‘altro è quella potenzia dell‘anima per la quale, nel penultimo capitolo del primo libro, fu detto noi avere convenienzia cogli Angeli. Questa potenzia da tutti e‘ Platonici è chiamata viso, nè questo viso corporale è altro che una immagine di quello; e Aristotele nella Etica sua e in molti altri luoghi dice non avere altra proporzione lo intelletto a l‘anima che el viso al corpo; onde etiam Pallade, per la quale è significata la intellettuale sapienzia, per tutto appresso Omero della beltà degli occhi si vanta; con questo viso vidde Moyse, vidde Paulo, viddono molti altri eletti la faccia d‘Iddio; e questo è quello che e‘ nostri teologi chiamano la cognizione intellettuale, cognizione intuitiva; con questo viso Iohanni Evangelista dice avere e‘ giusti a vedere el sommo Dio e questa essere tutta la mercede nostra.

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Capítulo IX

De la belleza propiamente dicha

Esta es la significación común y larga de belleza, que se comunica con el vocablo armonía, de donde se dice que Dios compuso el mundo con mezcla musical y armónica; pero así como la armonía comúnmente se puede tomar por la debida mezcla de todas las cosas compuestas, y propiamente significa sólo la de varias voces que convienen juntas en una melodía, así aunque la belleza se pueda decir de todas las cosas debidamente compuestas, su significado propio se refiere sólo a las cosas visibles; como la armonía, a las cosas audibles. Es el deseo de esta belleza el que es llamado amor, esto es de la vista; como fue celebrado por Museo y Propercio y universalmente por todos los poetas griegos y latinos. Y debido a ello Plotino cree que Eros, que en griego significa Amor, se deriva de esta palabra orasis que significa visión. Pero, alguno diría, si la belleza está sólo en las cosas que la vista comprende, ¿cómo se puede atribuir a las ideas que son de naturaleza del todo invisible? Para aclarar esta duda, que desciende al fundamento de esta materia, hay que notar que existen dos tipos de vista: una corporal y la otra incorporal. La primera es aquella que comúnmente se llama vista y es, según Aristóteles, más amada por nosotros que todos los [otros] sentidos. La otra es aquella potencia del alma por la cual, en el penúltimo capítulo del primer libro, se dijo que tenemos conveniencia con los ángeles. Esta potencia por todos los platónicos se llama vista y la vista corporal no es otra cosa sino una imagen de aquélla. Aristóteles en su Ética y en muchos otros lugares dice que el intelecto guarda la misma proporción con el alma que la vista con el cuerpo; de donde Palas (con quien se significa la sabiduría intelectual), según Homero, se ufana de la belleza de sus ojos. Con esta visión vio Moisés, vio Pablo, vieron muchos otros elegidos el rostro de Dios; esto es lo que nuestros teólogos llaman cognición intelectual y cognición intuitiva; con esta visión Juan Evangelista dice que los justos verán al Sumo Dios y que ésta es toda nuestra merced.

Capitolo X

Che le bellezze propriamente prese sono due, cioè bellezza corporale e bellezza intellegibile.

Essendo adunque bellezza nelle cose visibile, ed essendo dua visi, l‘uno corporale e l‘altro incorporale, saranno eziandio dua nature di obbietti visibili e consequentemente dua bellezze, e queste sono le dua Venere da Platone celebrate e dal Poeta nostro, cioè la bellezza corporale e sensibile, detta Venere vulgare, e la bellezza intellegibile, che è in esse Idee, la quale, come di sopra dimostrammo, è obbietto dello intelletto, come e‘ colori del viso, e si chiama Venere celeste. Di che seguita che, essendo amore appetito di bellezza, così come sono dua bellezze hanno ad essere necessariamente dua amori, vulgare e celeste, secondo che quello la vulgare e sensibile, questo la celeste e intelligibile bellezza desidera. Però disse Platone nel Convivio che quante Venere sono, tanti sono necessariamente gli amori.

Capítulo X.

Que las bellezas propiamente dichas son dos: la belleza corporal y la belleza inteligible. Habiendo belleza en las cosas visibles y habiendo dos visiones −una corporal, otra incorporal−, habría dos naturalezas de objetos visibles y consecuentemente dos bellezas; éstas son las dos Venus celebradas por Platón y por nuestro Poeta: la belleza corporal y sensible llamada Venus vulgar y la belleza inteligible que está en las Ideas, que −como demostramos arriba− es objeto del intelecto como

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los colores de la visión y se llama Venus celeste. De lo que se sigue que –siendo el amor apetito de belleza– así como son dos las bellezas, deben ser necesariamente dos los amores, vulgar y celeste, ya que aquél desea la belleza vulgar y sensible; éste desea la inteligible. Dice Platón en el Convivio que cuantas Venus existen, tantos son necesariamente los amores.

Capitolo XI

Per quale cagione si dica Venere, cioè la bellezza, essere madre di Amore.

È adunque Venere non potenzia alcuna dell‘anima o della mente, ma essa bellezza, della quale essendo generato Amore, meritamente Venere è detta sua madre. E perchè la bellezza è causa dello amore, non come principio produttivo d‘esso atto che è amore, ma come obbietto, e secondo e‘ Platonici degli atti dell‘anima nostra essa anima è causa effettiva e gli obietti sono come materia circa la quale l‘anima produce quello atto; venendo per questa ragione la bellezza ad essere causa materiale dello amore, è detta Venere essere sua madre, perchè da‘ filosofi la causa materiale s‘assomiglia alla madre, come la efficiente al padre, che intendendo e‘ teologi per Vulcano, el fabro e opifice del mondo corporeo, dissono Venere essere maritata a lui per la bellezza grande che in questo mundano opificio appare e, finalmente, tutti lo presuppongono per cosa nota, nella quale doveva Marsilio grandemente guardarsi da non errare perchè d‘indi depende quasi tutta questa materia, e chi in questo erra è forza che in tutti gli altri membri dal vero non poco si discosti.

Capítulo XI

Por qué razones se dice que Venus, es decir, la belleza, es madre de amor.

Entonces Venus no es potencia alguna del alma o de la mente, sino esa belleza de la que se genera Amor y por ello, con merecimiento, Venus se dice su madre. Porque la belleza es causa del amor, no como principio productivo de ese acto que es al amor, sino como objeto. Según los platónicos nuestra alma es causa efectiva de los actos del alma misma y los objetos son como materia respecto a la cual el alma produce aquel acto. Viniendo por esta razón la belleza a ser causa material del amor, se dice que Venus es su madre, porque según los filósofos la causa material se asemeja a la madre, como la eficiente al padre; la que entienden los teólogos por Vulcano, el artífice del mundo corpóreo. Dicen que Venus está casada con él por la gran belleza que en este artificio mundano aparece y, finalmente, todos lo presuponen como cosa notable, sobre la cual debiera Marsilio cuidarse grandemente de no errar porque de esto depende casi toda esta materia y quien en esto se equivoca, se desvía de la verdad de los otros términos.

Capitolo XII

Breve epilogo di Venere, di Amore e delle Idee.

Sarà adunque Venere essa bellezza la quale genera l‘amore; genera quella celeste e ideale l‘amore celeste, il quale si diffinirà così: amore celeste è desiderio intellettuale di ideale bellezza. Disopra è stato dichiarato che cosa sia appetito e che cosa è appetito intellettuale. Delle idee fu parlato nel sesto capitulo del primo libro, le quali, per dire brevemente, non sono altro che forme esemplare delle nature delle cose e d‘esse è pieno ogni intelletto e per quelle intende, delle quali si scrive nel Libro delle cause

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che ogni intelligenzia è piena di forme. E fu nell‘ultimo capitulo del primo libro dichiarato queste forme essere chiamate idee in Dio come in suo fonte e principio; essere essenzialmente nella mente angelica, nella quale primamente sono produtte da esso Dio; ultimamente per participazione nell‘anima razionale la quale, così come participa la sustanzia dello intelletto, così participa esse Idee e consequentemente la bellezza di quelle. Di che possiamo concludere lo amore della bellezza dell‘anima essere, non già amore celeste perfettamente, ma perfetta e propinqua immagine di quello, ove prima si truova appetito della ideale bellezza, il che è necessariamente nella prima mente la quale, sanza mezzo, Iddio della bellezza delle idee veste ed adorna.

Capítulo XII

Breve epílogo sobre Venus, el Amor y las Ideas

Venus será entonces esa belleza que genera el amor; genera –la [belleza] celeste e ideal– el amor celeste, el cual se definirá así: el amor celeste es el deseo intelectual de la belleza ideal. Antes ha sido declarado qué cosa es el apetito y qué cosa es el apetito intelectual. De las ideas se habló en el sexto capítulo del primer libro, las cuales, para decirlo brevemente, no son otra cosa que formas ejemplares de las naturalezas de las cosas y de ellas está lleno todo intelecto y por ellas entiende; se escribe en el Libro de las causas que toda inteligencia está llena de formas. Y fue declarado en el último capítulo del primer libro que estas formas fueron llamadas ideas en Dios como en su fuente y principio; que están esencialmente en la mente angélica −en la cual son primeramente producidas por Dios− y últimamente, por participación, en el alma racional que, así como participa de la sustancia del intelecto, así participa de las Ideas y consecuentemente de la belleza en ellas. De lo anterior se puede concluir que el amor por la belleza en el alma, no es ya amor celeste de manera perfecta, sino perfecta y propia imagen de aquél donde primero se encuentra el apetito de la belleza ideal, es decir, en la primera mente que, sin intermediario, Dios viste y adorna con la belleza de las ideas.

Capitolo XIII

Del nascimento di Amore e quello che si intende per li orti di Giove, per Poro e per Penia e per i natali di Venere.

Dice Platone Amore esser nato negli orti di Giove, ne‘ natali di Venere, essendosi Poro con Penia accompagnato, essendo tutti li dei posti al convivio e esso Poro figliuolo del consiglio di nettare inebriato. È dunque da presupporre prima essere esso Dio increato e creatore d‘ogni cosa. Dopo lui avemo a intendere quella natura informe la quale da esso Dio formata fa la natura angelica, come nel nono capitulo del primo libro fu detto. La forma che Dio dà alla natura angelica non è altro che esse Idee, la quale come è detto, è la prima bellezza. Descendono adunque esse Idee nell‘Angelo da Dio, e perchè ogni cosa, lontanandosi dal suo principio e fonte e mischiandosi a natura contraria diventa più imperfetta, esse Idee, elongandosi da Dio, loro fonte e principio, e coniungendosi a quella natura informe, in tutto disforme dalla formosità d‘esse Idee, è necessario che diventino imperfette. Adunque l‘Angelo ha allora in sè la bellezza delle Idee, ma imperfetta, e dalla opacità della sua sostanzia ottenebrata, di che è necessario che in lui segua desiderio di avere la perfezione di quelle; el quale desiderio essendo desiderio di bellezza, è quello desiderio che da noi è chiamato amore, el quale non nascerebbe se, o le Idee non fussino nello Angelo, o vi fussino perfette. Perchè, come nel quarto capitulo di questo libro dichiarammo, la cosa desiderata parte si possiede e parte no, e la mente, se in tutto fussi priva della cosa amata, non sarebbe fra loro similitudine alcuna, che è causa dello amore. Nasce adunque questo amore quando Poro, che significa copia, cioè l‘affluenzia di esse Idee, si mischia con quella natura informe chiamata Penia, perchè è povera e mendica essendo d‘ogni essere e d‘ogni atto priva. Nè è proprio Penia l‘essenzia di quella natura informe, ma è la imperfezione e la indigenzia

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di quella: essa natura informe dichiarammo nello ottavo cap. del primo libro essere chiamata Giove e per che ragione. Quivi è chiamata orti di Giove perchè in essa sono piantate esse Idee, non altrimenti che gli arbori in uno orto; e di qui nasce che poi essa mente angelica, adornata già di quelle idee, dagli antiqui fu chiamata paradiso, che è vocabulo greco e significa quello che appresso noi giardino; e coloro che tutti sono nella vita intellettuale e, sorti già sopra alla natura umana, simili fatti agli angeli, del contemplare si nutriscono, fur detti essere in paradiso. Alla quale vita contemplativa e felicità eterna esortandone Zoroastre esclama: «cerca, cerca el paradiso». La quale dizione dipoi da‘ nostri teologi è stata trasferita a significare etiam esso loco corporale, cioè el supremo cielo che è stanza e abitazione delle anime beate, la beatitudine delle quale in esso contemplare consiste e nella perfezione dello intelletto, come Platone e nel Filebo e nel Epinomide tanto apertamente dice, quantunque sia questa opinione da molti de‘ nostri teologi, come è Scoto e Egidio e molti altri, tenuta e difesa. Sono dunque gli orti di Giove quella essenzia informe, e in essa, della perfezione delle idee che è esso Poro, mista con la imperfezione d‘esse e indigenzia d‘essere perfette, la qual nasce dalla imperfetta natura di quella essenzia, nacque Amore, cioè desiderio della perfezione di quelle. Nè prima nacque Amore che ne‘ natali di Venere, cioè prima che la ideale bellezza, benchè imperfetta, nascessi nella mente angelica; e tanto è a dire ne‘ natali di Venere quanto se dicessi essendo Venere quasi ancora imperfetta e differente dalla perfetta bellezza, come è uno fanciullo in fasce da esso adulto e pervenuto alla età perfetta. E ne‘ natali di Venere tutti e‘ dei erano posti a convivio: per questo è da ricordarsi di quello che fu detto nel sesto capitulo del primo libro, che ogni cosa oltre all‘essere suo naturale ha uno altro essere detto ideale, secondo el quale fu produtta da Dio nella mente prima. Però per Saturno si può intendere e Saturno pianeta e la idea di Saturno, e così degli altri tutti. Quivi per gli dei abbiamo a intendere, come sarà più chiaro nel cap. XXIII di questo libro, le idee degli dei tutti, e in questo segue Platone el modo di parlare di Parmenide pitagorico, che le idee sempre chiama dei. E‘ dei sono adunque esse idee, le quali precedono essa Venere, perchè lei è quello decore e grazia che della varietà di quelle idee resulta; e dicesi che erano a convivio, perchè el padre loro allora le pascea e d‘ambrosia e di nettare. Per il che è da sapere che gli antiqui teologi, come Esiodo scrive e Aristotele conferma, dicono tutte quelle cose, le quali Iddio cibò di nettare e d‘ambrosia alla sua mensa, essere eterne; l‘altre che non sono eterne non essere state a quel convivio. Essendo adunque le idee della mente angelica e prime e veramente eterne, però Platone le scrive essere state a quel convivio celeste, cioè ove e d‘ambrosia e di nettare furono pasciute, ancora più espresse diciendo che esso Poro, che è l‘affluenzia universale d‘esse idee, di nettare si era inebriato. E però, quantunque vi fussino le idee delle altre cose, nondimeno non dice che loro fussino al convito accettate, perchè a loro non fu concesso el dono della immortalità. Credo essere sufficientemente dichiarato come amore nacque negli orti di Giove del congresso di Poro e di Penia, ne‘ natali di Venere e nel convito, essendo li dii posti a mensa e cibandosi.

Capítulo XIII

Del nacimiento de Amor y de lo que se entiende por los jardines de Júpiter, por Poros y Penia y por el natalicio de Venus

Dice Platón que el amor nació en los jardines de Júpiter, en el natalicio de Venus, habiéndose Poros con Penia acompañado, estando todos los dioses en el convivio y este Poros, hijo del Consejo, embriagado de néctar. Es entonces presupuesto primero que Dios es increado y creador de toda creatura. Después de él, debemos entender aquella naturaleza informe la cual, formada por Dios, hace la naturaleza angélica –como en el noveno capítulo del primer libro se dijo–. La forma que Dios da a la naturaleza angélica no es otra cosa que las Ideas, la cual como es dicho, es la belleza primera. Descienden entonces las Ideas de Dios en el Ángel porque toda cosa alejándose de Dios –su fuente y principio– y conjuntándose con la naturaleza informe en todo disforme de la plenitud de formas de las

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Ideas es necesario que devenga imperfecto. Entonces, el Ángel tiene en sí la belleza de las ideas, pero imperfecta, y de la opacidad de su sustancia oscurecida es necesario que en él se siga el deseo de tener la perfección de aquellas. Tal deseo, siendo deseo de belleza, es el deseo que llamamos amor, que no nacería si las ideas no estuvieran en el Ángel o si fueran perfectas en él.

Porque, como declaramos en el cuarto capítulo de este libro, la cosa deseada en parte se posee y en parte no y si la mente estuviera privada del todo de la cosa amada, no habría entre ellos ninguna similitud que es la causa del amor. Nace entonces este amor cuando Poros, que significa abundancia, esto es la afluencia de las Ideas, se mezcla con aquella naturaleza informe llamada Penia, porque es pobre y mendiga, estando privada de todo ser y de todo acto. Penia no es propiamente la esencia de aquella naturaleza informe, sino que es la imperfección y la indigencia de ésta. Sobre esa naturaleza informe declaramos en el capítulo octavo del primer libro que es llamada Júpiter y por qué razón. Aquí es llamada jardines de Júpiter porque en ella están plantadas las Ideas, no de otra forma que los árboles en un jardín. Y de aquí nace que después esta mente angélica, adornada ya de las ideas, fue llamada por los antiguos paraíso, que es un vocablo griego y significa lo mismo que jardín para nosotros; y de quienes están totalmente en la vida intelectual y elevados ya sobre la naturaleza humana –hechos similares a los ángeles– se nutren del contemplar, se dice que están en el paraíso. A tal vida contemplativa y felicidad eterna Zoroastro exhorta cuando exclama: ―busca, busca el paraíso‖. Tal sentencia, según nuestros teólogos, fue transferida para significar etiam ese lugar corporal, esto es el supremo cielo que es la estancia y habitación de las almas beatas, cuya beatitud consiste en ese contemplar y en la perfección del intelecto, como Platón en el Filebo y en el Epinomis tan abiertamente dice, y como es opinión tenida y defendida por muchos de nuestros teólogos como Escoto y Egidio. Son entonces los jardines de Júpiter la esencia informe y en ella –de la perfección de las ideas que es Poros, mezclada con la imperfección del ser y la indigencia de la perfección– nace Amor, esto es deseo de la perfección de aquéllas. Y amor no nace antes del natalicio de Venus, esto es antes de que naciera en la mente angélica la belleza ideal, aunque imperfecta, de las ideas. Y es tanto decir en el natalicio de Venus cuanto se dice ser Venus casi todavía imperfecta y diferente de la perfecta belleza, como es un niño frente a un adulto llegado a la edad perfecta. Y en el natalicio de Venus todos los dioses estaban en el convivio: por esto hay que recordar aquello que fue dicho en el sexto capítulo del primer libro, que toda cosa además de su ser natural tiene un ser llamado ideal, según el cual fue producida por Dios en la primera mente. Por ello, por Saturno se puede entender el planeta Saturno y la idea de Saturno y así de todo lo demás. Aquí por los dioses debemos entender –como será más clara en el capítulo XXIII de este libro– las ideas de todos los dioses y en esto sigue Platón el modo de hablar de Parménides pitagórico que siempre llama a las ideas dioses. Y dioses son también esas ideas, que preceden a Venus porque ella es el ornamento y la gracia que de la variedad de las ideas resulta. Y se dice que estaban en el convivio porque su padre los alimentaba con ambrosía y néctar. Por lo que hay que saber que los antiguos teólogos como escribe Hesíodo y Aristóteles confirma, dicen todos que las cosas que Dios alimentó con néctar y con ambrosía en su mesa son eternas. Las otras que no son eternas no estuvieron en tal convivio y siendo entonces las ideas de la mente angélica primera y verdaderamente eternas, por ello Platón escribe que estuvieron en tal convivio celeste, esto es donde de ambrosía y de néctar fueron alimentadas; todavía diciendo más expresamente que Poros, que es la afluencia universal de las ideas, se había embriagado de néctar. Y sin embargo cuanto existían las ideas de las otras cosas, no menos no dice que estaban en el convivio admitidas, porque a ellas no fue concedido el don de la inmortalidad. Creo que está suficientemente aclarado como el amor nace en los jardines de Júpiter del congreso de Poros con Penia, en el natalicio de Venus y en el convivio, estando los dioses en la mesa y alimentándose.

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Capitolo XIV

Per qual cagione sia posto da Orfeo Amore nel seno di Chaos.

Per le cose disopra dichiarate è manifesto perchè da Orfeo è posto Amore nel seno del chaos innanzi a tutti gli altri Iddii, poichè chaos non significa altro che la materia piena di tutte le forme, ma confuse e imperfette. Quando adunque la mente angelica era già piena di tutte le idee, ma ancora imperfette e quasi indistinte e confuse, potevasi chiamare chaos nel quale nacque Amore, cioè desiderio delle perfezione di quelle.

Capítulo XIV

Por qué razón Amor es puesto por Orfeo en el seno del Caos.

Por las cosas arriba declaradas es manifiesto por qué el Amor es puesto por Orfeo en el seno del caos antes que todas las otras Ideas, ya que chaos no significa otra cosa que la materia plena de todas las formas, pero confusas e imperfectas. Cuando entonces la mente angélica estaba ya llena de todas las ideas, pero todavía imperfectas y casi indistintas y confusas, se podía llamar caos en el cual nace Amor, esto es deseo de la perfección de aquéllas.

Capitolo XV

A quale nature e per qual cagione si convenga el nome del circolo.

Desidera adunque esso Angelo fare quelle, cioè esse idee, perfette, ed è ragionevole che la perfezione loro nasca da opposita cagione a quella dalla quale nasce la loro imperfezione. Nasce la loro imperfezione da due cause: l‘una è l‘allontanarsi dal fonte e principio suo; l‘altra è coniungersi a natura dissimile e contraria. Dunque nascerà la loro perfezione e dal remuoversi e separarsi da quella natura dissimile e, ritornando d‘onde in prima erano processe, al suo principio, secondo la loro possibilità, intimamente riunirsi. Però Amore, cioè el desiderio d‘acquistare questa bellezza, commuove e stimola l‘angelica mente a convertirsi verso Dio e a coniungersi quanto più può con quello, perchè ciascuna cosa in tanto la sua perfezione acquista in quanto al suo principio si coniunge; e questo è il primo circulo, cioè la mente angelica che, dalla indivisibile unità di Dio procedendo, per circulare moto de intrinseca intelligenzia a quella perfettamente ritorna. E ogni natura la quale è atta a fare questo si chiama circulo, perchè la figura circulare a quel medesimo punto onde comincia ritorna. E questa propietà in dua nature solamente si truova, nella angelica e nella razionale; per questa medesima cagione solo queste dua nature sono capace di felicità, perchè la felicità non è altro che pervenire al suo sommo bene e suo ultimo fine; e quello medesimo è ultimo fine d‘ogni cosa, che è suo primo principio. Adunque quelle nature che possono al suo primo principio ritornare, possono ancora conseguire la felicità, e tale solamente sono le substanzie immortale, perchè la natura corporea e materiale non ha, come concedono tutti e‘ filosofi Peripatetici e Platonici, questa potenzia che loro chiamano reflessiva, mediante la quale possino o in se stesse o al loro principio rivolgersi. Dunque solamente dalla lor causa procedono e participano quel bene che dalla lor causa è loro comunicato; il quale bene non lo potendo

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loro riunire al suo principio, non può conseguire assoluta perfezione, ma el bene loro sempre rimane imperfetto; però non hanno felicità o l‘hanno si imperfetta che felicità propriamente chiamar non si può. Essendo dunque dua sole nature, cioè la angelica e la razionale, che possine ritornare al suo principio, solo queste dua si possono chiamare circuli, e debbonsi chiamare circuli intelligibili perchè sono immateriali. Similmente ne‘ corpi, secondo e‘ nostri teologi, sono dua circuli, immagine e simulacro di quelli, cioè il decimo cielo che è circulo corporale e immobile, immagine del circulo intelligibile, che è la mente angelica. L‘altro circulo è il corpo celeste, mobile immagine del circulo che è l‘anima razionale. Del primo i Platonici non fanno menzione e direbbono forse la natura angelica, essendo in tutto separata e diversa dalla natura corporale, nè avendo a quella rispetto o abitudine alcuna, non essere representata per cosa alcuna corporale; del secondo Platone nel Timeo fa espressa menzione, mostrando come tutti i circuli del corpo celeste mobile, che si divide secondo lui nella sfera non erratica e ne‘ sette pianeti, è simulacro di altrettanti circuli immateriali che sono nell‘anima razionale. Alcuni attribuiscono a esso Dio el nome del circulo, e pare opinione degli antiqui teologi che lo chiamano cielo, quasi che lui sia una spera comprendente in sè tutte le cose come comprende l‘ultimo cielo in sè tutte le cose corporali; nè è inconveniente, secondo una ragione, el nome del circulo essergli proprio e secondo un‘altra repugnarli. Intendendo adunque, come disopra esponevamo, per il circulo una natura che da uno punto indivisibile cominciando a uno medesimo ritorna, repugna in tutto a esso Dio el quale in questo modo non è circulo, perchè non ha principio d‘altronde, ma è esso punto indivisibile dal quale cominciano e al quale ritornano tutti e‘ circuli; sicchè, quanto a questa proprietà, repugna il circulo a esso Dio, perchè non ha nè principio nè fine; repugna etiam alle cose materiali perchè, benchè comincino da uno principio, non possono ritornare a quello; resta che sia proprio della mente e dell‘anima. Secondo molte altre proprietà conviene a Dio, prima perchè è la più perfetta figura di tutte le altre, come è esso Dio di tutte le cose, e solo a questa figura non si può fare addizione, il che dimostra lei essere assolutamente perfetta. Accedit et alia ratio, la quale io credo essere potissima: che l‘ultima spera è loco d‘ogni cosa locata; il che pruovano sottilmente e‘ Platonici di esso Dio dichiarando, come da Porfirio fra gli altri è fatto, non essere l‘anima nel corpo, come pare a‘ vulgari, il che etiam Platone nota nel Timeo, ma per contrario è esso corpo nell‘anima, e per la medesima ragione essa anima nella mente angelica e essa mente angelica in esso Dio, ultimo luogo di tutti e‘ luoghi, il che ne‘ misterii degli Ebrei si può comprendere, e‘ quali fra i più sacrati nomi di Dio pongono questo, che è luogo, e così da loro nelle sacre lettere molte volte è chiamato. Sarà dunque per questa ragione, la quale a dichiararla sufficientemente richiederebbe più parole, ma sarebbe fuora di proposito nostro, e così per le soprascritte, chiamato Iddio circulo, il che massimamente è osservato nella teologia degli Ismaeliti, da Parmenide no, benchè molti el credano. Ma noi altrove proveremo quello che da lui è chiamato sfera intelligibile non essere Iddio, ma il mondo intelligibile da Dio immediatamente produtto.

Capítulo XV

A qué naturalezas y por qué razón conviene el nombre de círculo.

Desea entonces el Ángel hacerse aquéllas –esto es las ideas perfectas– y es razonable que su perfección nazca de la razón opuesta a aquella de la que nace su imperfección. Su imperfección nace de dos causas: una es alejarse de su fuente y su principio, la otra es conjugarse con una naturaleza disímil y contraria. Entonces, su perfección nacerá del removerse y separarse de aquella naturaleza disímil y, retornando a donde procedían en primer término, a su principio, según su posibilidad, íntimamente reunirse [con él]. Por ello el Amor, esto es el deseo de adquirir esta belleza, conmueve y estimula la mente angélica a convertirse hacia Dios y a conjugarse cuanto más pueda con él, porque cada cosa adquiere su perfección en cuanto se conjunta con su principio; esto es el primer círculo, la mente angélica que, procediendo de la invisible unidad de Dios, retorna a ella perfectamente por el movimiento circular de su inteligencia intrínseca. Y toda naturaleza que es apta para hacer esto se

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llama círculo, porque la figura circular retorna al mismo punto donde comienza. Y esta propiedad se encuentra solamente en dos naturalezas, en la angélica y en la racional; por esta mismísima razón sólo estas dos naturalezas son capaces de felicidad, porque la felicidad no es otra cosa que llegar a su sumo bien y a su fin último: y el mismo es el último fin de cada cosa: su primer principio. Entonces las naturalezas que pueden retornar a su primer principio, pueden conseguir la felicidad y tales son solamente las sustancias inmortales, porque la naturaleza corpórea y material no tiene -–como conceden todos los filósofos peripatéticos y platónicos– esta potencia que ellos llaman reflexiva, mediante la cual pueden tornarse hacia sí mismas o hacia su principio. Entonces, sólo por su causa proceden y participan de aquel bien que por su causa les es comunicado; este bien no lo pueden ellas reunir con su principio, no pueden conseguir absoluta perfección, sino el bien siempre les permanece imperfecto. Por ello, no tienen felicidad o la tiene tan imperfecta que no se le puede llamar felicidad propiamente. Siendo entonces solo dos las naturalezas que pueden retornar a su principio, sólo estas dos se pueden llamar círculos y se deben llamar círculos inteligibles porque son inmateriales. Igualmente, en los cuerpos, siguiendo a nuestros teólogos, existen dos círculos –imágenes y simulacros de aquellos– esto es el décimo cielo que es un círculo corporal e inmóvil, imagen del círculo inteligible que es la mente angélica. El otro círculo es el cuerpo celeste móvil, imagen del círculo que es el alma racional. Del primero, los platónicos no hacen mención y dirían quizá que la naturaleza angélica, estando en todo separada y diversa de la naturaleza corporal, no teniendo respeto por ella o alguna habitud, no está representada por alguna cosa corporal; del segundo, Platón en el Timeo hace mención expresa, mostrando como todos los círculos del cuerpo celeste móvil, que se divide según él en la esfera no errática y en siete planteas, es simulacro de otros tantos círculos inmateriales que están en el alma racional. Algunos atribuyen a Dios el nombre de círculo y parece [ser] la opinión de los antiguos teólogos que lo llaman cielo, como si él fuera una esfera que comprende en sí todas las cosas como comprende el último cielo en sí todas las cosas corporales. No es inconveniente que, según una razón, el nombre de círculo le sea propio y según otra le repugne. Entendiendo entonces, como exponíamos arriba, por el círculo una naturaleza que comenzando de un punto indivisible al mismísimo regresa, repugna en todo a Dios quien en este modo no es círculo porque no tiene principio de otro lado sino que es ese punto indivisible del cual comienzan y al cual retornan todos los círculos. De manera que cuánto respecto a esta propiedad repugna el círculo a Dios, porque no tiene ni principio ni fin, repugna etiam a las cosa materiales porque, aunque comienzan de un principio no pueden retornar a él; resta que sea propia de la mente y del alma. Según otra propiedad conviene a Dios, primero porque es [el círculo] la más perfecta figura entre todas las otras, como es Dios entre todas las cosas y sólo a esta figura no se le puede adicionar nada, lo que demuestra que es absolutamente perfecta. Accedit et alia ratio, la cual creo que es importantísima: que la última esfera es el lugar de toda cosa colocada. Lo cual prueban los platónicos respecto a Dios declarando –como es hecho por Porfirio, entre otros–, que el alma no está en el cuerpo como parece vulgarmente, lo que etiam Platón nota en el Timeo, sino por el contrario, el cuerpo está en el alma y por la mismísima razón el alma, en la mente angélica y la mente en Dios, último lugar de todas los lugares; lo que en los misterios de los hebreos se puede comprender, ya que ponen entre los más sagrados nombres de Dios éste que es lugar, y así por ellos en las sagradas letras muchas veces es llamado. Será entonces por esta razón –que para ser aclarada suficientemente requeriría más palabras, pero esto estaría fuera de nuestro propósito–, y por las arriba mencionadas, que Dios es llamado círculo, lo cual es máximamente observado en la teología de los Ismaelitas y no por Parménides, aunque muchos lo crean. Pero nosotros en otro lugar probaremos que lo que por él es llamado esfera inteligible no es Dios, sino el mundo inteligible producido inmediatemente por Dios.

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Capitolo XVI

Breve epilogo del nascimento d‘Amore.

Epilogando dunque, brevemente dico che ne‘ natali di Venere, cioè quando prima la bellezza delle idee discese nella mente angelica, essendo essa Venere nuovamente nata ancora non adulta, cioè sendo ancora quella bellezza imperfetta, nacque Amore, cioè nacque nell‘Angelo desiderio di avere quella bellezza perfettamente, la quale già in qualche modo avea, e da questo amore stimulato si converse a Dio e da lui ricevette la perfezione di quella bellezza ideale, la quale poichè in sè ebbe perfetta già fu in lui Venere adulta e alla sua perfezione pervenuta.

Capítulo XVI

Breve epílogo sobre el nacimiento de Amor

Concluyendo entonces, digo brevemente que en el natalicio de Venus –esto es cuando primero la belleza de las ideas descendía en la mente angélica–, siendo Venus nacida nuevamente, todavía no adulta –esto es siendo todavía la belleza imperfecta–, nace Amor –esto es, nace en el Ángel el deseo de poseer la belleza perfectamente, la cual ya en algún modo tenía–, y estimulado por este amor se vuelve a Dios y de él recibe la perfección de aquella belleza ideal, porque en sí era perfecta, y en él llegó Venus a ser adulta y a su perfección.

Capitolo XVII

Delle tre Grazie seguace di Venere e de‘ loro nomi.

Dicono e‘ poeti questa Venere avere per sue seguace e quasi ancille le tre Grazie, e‘ nomi delle quali si truovono in vulgare Viridità, Letizia e Splendore. Le quali tre grazie non sono altro che tre proprietà conseguente quella bellezza ideale: prima, lo essere verde non è altro che permanere e durare la cosa nel suo essere integra e sanza labefazione alcuna; nè per altro si chiama la giovanezza verde se non perchè allora l‘uomo ha lo essere suo integro e perfetto el quale, del suo vigore e sua integrità con gli anni poi sempre più e più perdendo, viene ad annullarsi in tutto, conciossia che ogni cosa composta tanto nel suo essere duri quanto dura quella debita proporzione che unisce le parte sua a unione di quella.

Nè sia Venere altro che questa proporzione, meritamente essa Viridità non è altro che una proprietà conseguente a essa Venere; e però dove la prima è vera Venere, cioè nel mondo ideale, vi si truova ancora la vera viridità per essere ogni natura intelligibile intransmutabile dalla integrità dello essere suo e in tutto insenescibile; la quale proprietà in tanto deriva alle cose sensibili in quanto possono di essa Venere partecipare, perchè mentre in loro dura quella proporzione in tanto durano e si mantengono verde l‘altre dua proprietà della ideale bellezza, e lo inlustrare lo intelletto e muover la voluntà a desiderio di sè, empiendo quella, quando è posseduta, di ineffabile letizia. E perchè esso essere e quella durabilità e permanenzia non è atto reflessivo, però una delle Grazie è dipinta col volto inverso noi come procedente e non ritornante; le altre dua perchè appartengono allo intelletto e alla voluntà, la operazione delli quali è reflessiva, però sono dipinte col volto in là, come di chi ritorna, imperochè le cose sono dette venire a noi dalli Iddii e da noi alli Idii ritornare.

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Capítulo XVII

Sobre las tres gracias, seguidoras de Venus, y sobre sus nombres

Dicen los poetas que esta Venus tiene por seguidoras y casi siervas a las tres Gracias cuyos nombres en vulgar son Verdor, Leticia y Esplendor. Estas tres gracias no son otra cosa que tres propiedades consecuentes con la belleza ideal. Primero, el ser verde no es más que la cosa que permanece y dura en su ser íntegro y sin corrupción alguna. Y no se llama por otra cosa verde a la juventud sino porque entonces el hombre tiene su ser íntegro y perfecto, que viene a anularse totalmente al ir perdiendo con los años –siempre más y más– su vigor y su integridad, ya que toda cosa compuesta dura tanto en su ser cuanto dura la debida proporción que une sus partes en unión con ella.

Y no es Venus otra cosa que esta proporción; meritoriamente el Verdor no es otra cosa que una propiedad consecuente de Venus; por ello, donde la primera es verdadera Venus, esto es en el mundo ideal, allí se encuentra también el verdor verdadero por ser toda naturaleza inteligible intransmutable de la integridad de su ser y del todo incapaz de envejecer. Esta propiedad deriva hacia las cosas sensibles en tanto pueden participar de esta Venus; porque mientras en ellas dura la proporción –en tanto duran– se mantienen y reverdecen las otras dos propiedades de la belleza ideal –el ilustrar el intelecto y el mover la voluntad de acuerdo al deseo de sí–, llenándola de Leticia inefable cuando es poseída. Y porque en este ser no es un acto reflexivo la durabilidad y la permanencia, por ello una de las Gracias es pintada con el rostro hacia nosotros como procedente y no retornando; las otras dos –porque pertenecen al intelecto y a la voluntad, cuya operación es reflexiva–, por ello son pintadas con el rostro hacia allá, como quien retorna, ya se dice que las cosas vienen a nosotros de los dioses y de nosotros a los dioses retornan.

Capitolo XVIII

Del nascimento di Venere, da‘ Poeti sotto fabulare velamento descritto.

Dicendo Platone Amore esser nato ne‘ natali di Venere, è necessario in questo luogo intendere come nascesse essa Venere. Platone nel Convivio non dice altro se non che ella fu figliuola di Celio; el modo come di lui nascessi dichiarono li antiqui teologi de‘ gientili sotto fabulare velamento, dicendo che Saturno tagliò e‘ testicoli a Celio suo padre e gittogli nel mare e che dal seme di quelli nacque Venere. Per dichiarazione di questo misterio è prima da presupporre che la materia, cioè quella natura informe della quale abbiamo detto essere composta ogni creatura, è da‘ teologi molte volte significata per l‘acqua, per essere l‘acqua in continuo flusso e facilmente recettiva d‘ogni forma. Lungo sarebbe se io volessi addurre tutti i luoghi, e della sacra scrittura mosaica ed evangelica e delle sacre lettere de‘ gientili, ove da loro per l‘acqua è significata questa natura.

Capítulo XVIII

Del nacimiento de Venus, descrito veladamente por los poetas bajo fábulas

Ya que Platón dijo que el Amor nació en el natalicio de Venus, es necesario en este lugar entender cómo nació Venus. Platón en el Convivio no dice otra cosa sino que ella fue hija del Cielo; el modo cómo de él nació lo declaran los antiguos teólogos de los gentiles bajo fábulas veladas, diciendo que Saturno cortó los testículos de Cielo, su padre, y que los tiró en el mar y que del semen de aquel nació Venus. Para aclarar este misterio primero hay que presuponer que la materia –esto es que la naturaleza informe de la cual habíamos dicho que toda criatura se compone–, es simbolizada muchas veces por los

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teólogos con el agua, por estar el agua en flujo continuo y fácilmente receptiva de toda forma. Sería largo si yo quisiera referirme a todos los lugares de la sagrada escritura mosaica y evangélica y de las sagradas letras de los gentiles, donde por ellos se simboliza esta naturaleza por el agua.

Capitolo XIX

Questo solo voglio aggiugnere per rispetto, che questa natura informe prima si truova nello Angelo come in quello che è prima creatura; però essi angeli sono per questo nome delle acque significati, nè altro è da intendere per l‘acque che sono sopra i cieli, delle quali dice David che esse laudano continuamente Iddio, se non essa mente angelica; il che consente essere Origine Adamantino; e sono infra Platonici alcuni che vogliono non essere altro quello Oceano, che da Omero è chiamato padre delli Iddii e delli uomini, che quella mente angelica, la quale disopra dichiarammo essere principio e fonte d‘ogni altra creatura che doppo lei si truovi. Per questo da Giorgio Gemisto, approbatissimo platonico, è chiamata questa prima mente Nettuno, come quella che è dominatrice di tutte l‘acque, cioè di tutte l‘altre mente angeliche e umane. Queste sono quelle acque, questo è quel fonte vivo, del quale, chi ne bee mai più ha sete; queste sono l‘acque e mari sopra e‘ quali, come dicie David, Iddio ha fondato l‘universo mondo.

Capítulo XIX

Sobre esto quiero añadir por respeto que esta naturaleza informe primero se encuentra en el Ángel como en aquello que es la primera criatura; por ello estos ángeles son significados por este nombre de agua; por otra parte, no hay que entender nada más por el agua que está sobre los cielos –de la cual dice David que alaba continuamente a Dios– que la mente angélica. Lo que admite Orígenes Adamantino. Y entre los platónicos algunos quieren que no sean otra cosa Océano, que es llamado padre de los Dioses y de los hombres por Homero, que la mente angélica, la cual arriba declaramos que es principio y fuente de toda criatura que después de ella se encuentre. Por esto, Jorge Gemisto, aprobadísimo platónico, llama a esta primera mente Neptuno, como dominadora de todas las aguas, esto es de todas las otras mentes angélicas y humanas. Estas son las aguas, esta es la fuente viva de la cual quien bebe jamás tendrá sed. Estas son las aguas y los mares sobre los cuales, como dice David, Dios ha fundado el mundo universo.

Capitolo XX

Exposizione della fabula di Saturno

Secondo, è da sapere per che cagione è detto da‘ poeti che Saturno castrasse Celio. Fu dichiarato nella prima parte dell‘opera come esso Iddio, che è detto Celio secondo e‘ Platonici, produceva el Primo Angelo, el quale loro chiamano mente divina e e‘ poeti Saturno, e fu dichiarato che esso Iddio non produsse altra creatura che questa, dalla quale poi era produtto el resto del mondo. Se dunque colui che rimane sterile nè può poi generare meritamente si può chiamare castrato, poichè è creata la prima mente angelica, per essere pienamente in lei comunicato ciò che dal primo Iddio si può comunicare talmente che non rimane più produttivo di cosa alcuna, non sanza gran ragione è detto da‘ poeti Saturno castrare Celio suo padre. Castra adunque Saturno Celio, ma Giove non castra Saturno, ma bene lo priva del regno, perchè, poichè essa mente ha produtto l‘anima del mondo che è Giove, non rimane sterile come fa Celio produtto Saturno, ma produce dopo lei tutti e‘ cieli e gli elementi e tutte l‘altre anime

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razionali; ma perchè l‘amministrazione di queste cose mondane si fa mediante el moto del cielo e di essa anima razionale, che muovono insieme le cose inferiori, essendo, come dichiarammo disopra, essa anima mondana principio d‘ogni moto e quella mente in tutto immobile, dicesi da‘ poeti Saturno essere legato, come quello che non si muove, e l‘amministrazione e l‘imperio del mondo essere appresso di Giove, il quale però non governerebbe bene il mondo se non fussi aiutato da‘ consigli del vecchio padre, cioè che l‘anima non moverebbe ordinatamente el cielo nè rettamente disporrebbe l‘altre cose, se non fussi partecipe della paterna sapienzia intellettuale, come da Platone nelle Leggi è largamente dichiarato a chi con sana mente le legge. Perchè le sue parole in quel luogo male intese e a qualche platonico e a tutti e‘ Manichei fur cagione di grandi errori. È dunque chiaro per che cagione Saturno castra Celio e Giove lega Saturno e toglili l‘imperio; seguendo adunque l‘esposizione da noi addutta avemo a dire: che tutto quello che comunica Celio a Saturno, cioè quella plenitudine delle idee che discende da Dio nella mente, sono e‘ testiculi di Celio, perchè separati quegli da esso rimane sterile e non è più generativo. Cascono questi testiculi nel mare, cioè nella natura informe angelica, e quam primum con quella sono congiunti nasce essa Venere che è, come avemo detto, quel decore resultante della varietà di quelle idee; e perchè quelle idee non arebbono in sè quella varietà e distinzione se non fussino mischiate a quella natura informe, nè sanza quella varietà vi può essere bellezza, meritamente segue che Venere non potessi nascere se non cadendo e‘ testiculi di Celio nelle marittime acque.

Capítulo XX

Exposición de la fábula de Saturno

Segundo, hay que saber por qué razón es dicho por los poetas que Saturno castra a Cielo. Fue declarado en la primera parte de la obra cómo Dios –que es llamado Cielo según los platónicos– producía al Primer Ángel, al cual llaman mente divina y los poetas [llaman] Saturno; y fue declarado que Dios no produce otra criatura que ésta, de la cual después era producido el resto del mundo. Si entonces quien permanece estéril no puede generar, meritoriamente se puede llamar castrado, porque al ser creada la primera mente para ser plenamente en ella comunicado lo que del primer Dios se puede comunicar, de tal forma que no permanece productivo de cosa alguna, no sin gran razón es dicho por los poetas que Saturno castra a Cielo, su padre. Castra entonces Saturno a Cielo, pero Júpiter no castra a Saturno sino que lo priva del reino, porque después que la mente ha producido el alma del mundo que es Júpiter no permanece estéril como Cielo una vez producido Saturno, sino produce después de ella todos los cielos y los elementos y todas las otras almas racionales; pero como la administración de las cosas mundanas se hace mediante el movimiento del cielo y de esta alma racional que mueven juntos las cosas inferiores, siendo como declaramos arriba el alma del mundo principio de todo movimiento y la mente en todo inmóvil, se dice por los poetas que Saturno es atado, como aquello que no se mueve y la administración y el imperio del mundo están bajo Júpiter, quien –sin embargo– no gobernaría bien al mundo si no fuera ayudado por los consejos de su viejo padre, esto es que el alma no movería ordenadamente el cielo ni rectamente dispondría de las otras cosas si no fuese partícipe de la paterna sabiduría intelectual, como por Platón en las Leyes es largamente declarado a quien con mente sana las lee. Porque sus palabras en aquel lugar se entienden mal y para algún platónico y para todos los Maníqueos fueron la razón de grandes errores. Y entonces, aclarado por qué razón Saturno castra a Cielo y Júpiter ata a Saturno cortándole el imperio, siguiendo entonces la exposición por nosotros aducida tendremos que decir: que todo aquello que comunica Cielo a Saturno –esto es la plenitud de las ideas que desciende de Dios en la mente, son los testículos de Cielo porque separado de ellos permanece estéril y no es más generativo. Caen estos testículos en el mar, esto es en la naturaleza informe angélica y quam primum con ella son unidos nace Venus que es, como hemos dicho, aquel ornamento resultante de la variedad de las ideas; y porque las ideas no tendrían en sí tal variedad y distinción si no estuvieran mezcladas a la naturaleza informe, ni sin aquella variedad no podría existir la belleza, meritoriamente se sigue que Venus no podría nacer si no cayendo los testículos de Cielo en

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las aguas marítimas.

Capitolo XXI

Di Poro e perchè sia detto figliuolo del consiglio.

Resta a dichiarare perchè Poro è chiamato figliuolo del Consiglio. Essendo Poro l‘affluenzia di esse idee proveniente dal vero Iddio, è chiamato figliuolo del Consiglio da Platone, imitatore delle sacre lettere degli Ebrei, nelle quali esso Dio è chiamato dal medesimo nome, onde dice Dionisio Areopagita Gesù Cristo essere chiamato Angelo del consiglio e ora nunzio d‘Iddio, non intendendo per il consiglio altro che il primo padre Iddio. Il che imitando di poi Avicenna chiamò la prima causa causa consigliativa, il che è a dimostrare che le idee e la ragione delle cose non ha la mente da sè, ma da esso Dio, nè è altro il consigliare uno che dargli notizia e la ragione di quello che gli ha a fare. Avendo dunque produtto Dio la mente che avessi ad esser fabricatrice di questo mondo visibile, la consigliò, cioè l‘ammaestrò ed instrusse dell‘opera che ella aveva a fare, formando quella mente di una perfettissima idea di questo artificio mundano.

Capítulo XXI

Sobre Poros y por qué se dice [que es] hijo del Consejo

Resta declarar por qué Poros es llamado hijo del Consejo. Siendo Poros la afluencia de las ideas proveniente del verdadero Dios, es llamado hijo del Consejo por Platón, imitador de las sagradas letras de los Hebreos, en las cuales Dios es llamado por el mismísimo nombre, por lo que Dionisio Areopagita dice que Jesucristo es llamado Ángel del consejo y también nuncio de Dios, no entendiendo por el Consejo otra cosa que el primer padre Dios. Imitándolo después Avicena llamó a la primera causa, causa consejera [consigliativa], lo cual demuestra que las ideas y la razón de las cosas no tienen la mente por sí, sino por Dios, ni es otra cosa el aconsejar uno que darle noticia y razón de aquello que tiene que hacer. Habiendo entonces Dios producido la mente, que sería fabricante de este mundo visible, la aconsejó, esto es la amaestró e instruyó sobre las obras que debía hacer, formando aquella mente de una perfectísima idea de este mundano artificio.

Capitolo XXII

In che modo si ha ad intendere Amore essere il più giovane e il più vecchio di tutti gli Dei.

Avendo esposto le parole di Diotima del nascimento di Amore e dimostrato le parole di Orfeo, che dice Amore essere nato del seno di Caos innanzi a tutti gli altri dei, essere conforme al senso di Platone, resta a dimostrare come etiam non repugna a quello che Agathon dice, Amore essere più giovane di tutti gli altri dei; il che pare manifestamente repugnare a Orfeo che lo pone più antiquo che tutti gli altri dei. Per intelligenzia adunque della vera soluzione, è da ricordarsi di quello che disopra fu detto, cioè che così come la casa ha dua esseri, uno nella idea sua nella mente dello artefice, l‘altro nella materia, come sono le pietre e legni e simil cose, e quello primo si chiama essere ideale e questo essere naturale, così è di tutte l‘altre cose le quali hanno in quella prima mente el loro essere ideale e fuori di quella el loro essere naturale. Giove adunque e Saturno e tutti li altri dei si possono significare e per la idea di Saturno e di Giove e così delli altri, e per esso Saturno e Giove naturale e non ideale. Dico adunque che

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el primo dio nell‘esser suo naturale e perfetto fu Amore, e prima di lui non fu alcuno altro dio che avessi lo essere naturale, cioè essere perfetto, e lui fu cagione di darlo a tutti li altri dei, il che essere così è manifesto per le cose sopradette, perchè Amore nacque quando le idee discesono nella mente angelica, le quali idee essendo la sustanzia di essa mente, non fu la sustanzia di essa mente prima perfetta che loro fussino perfette, il che non fu se non da poi che Amore fu nato. Se dunque essa mente angelica non ebbe lo essere suo naturale perfetto prima che Amore nascessi, e lui fu cagione di darglielo, in quanto per la conversione da lui fatta a Dio furono quelle idee perfette, molto maggiormente si può dire delli altri dii, i quali sono posteriori d‘essa mente, cioè che Amore fu prima che loro avessino il suo essere naturale perfetto, nonostante che loro fussino prima di lui secondo il loro essere ideale imperfetto. E per questo viene ad essere più giovane di tutti li altri e più bello, perchè esse idee immediatamente furono coniuncte a quella natura informe, e lui non nacque in lei se non dapoichè ella fu già dalle idee benchè imperfettamente formata.

Capítulo XXII

De qué modo se ha deentender que el amor sea el más joven y el más viejo de todos los dioses.

Habiendo expuesto las palabras de Diótima sobre el nacimiento de Amor y demostrado que las palabras de Orfeo –quien dice que el Amor nació del seno del Caos antes que todos los otros dioses– son conformes con el sentido de Platón, resta demostrar como etiam no repugna a éste aquello que Agatón dice, que Amor es el más joven de todos los otros dioses; lo que manifiestamente parece repugnar a Orfeo que lo pone como el más antiguo de todos los otros dioses. Para conocer entonces la verdadera solución, hay que recordar aquello que arriba fue dicho, esto es, que así como la casa tiene dos seres, uno en su idea en la mente del artífice, el otro en la materia como son las piedras, leños y cosas similares –el primero se llama ser ideal y el segundo ser natural–, así sucede con todas las otras cosas las cuales tiene en la primera mente su ser ideal y fuera de ella su ser natural. Júpiter entonces y Saturno y todos los otros dioses se pueden significar o por la idea de Saturno y de Júpiter y así con los otros, o por el Saturno y el Júpiter naturales y no ideales. Digo entonces que el primer dios en su ser natural y perfecto fue amor y antes que él no hubo ningún otro dios que tuviese el ser natural, esto es el ser perfecto y él fue la razón para darlo a todos los otros dioses; que es así es manifiesto por las cosas arriba dichas, porque Amor nace cuando las ideas descienden en la mente angélica, al ser las ideas la sustancia de esta mente, no fue la sustancia de la mente perfecta antes que ellas fueran perfectas, lo cual no sucedió hasta después de que amor nació. Si entonces la mente angélica no tiene su ser natural perfecto antes de que amor naciera y él fue la razón para dárselo –en cuanto que por la conversión hacia Dios por él realizada las ideas fueron perfectas– mayormente se puede decir de los otros dioses, los cuales son posteriores a la mente, esto es que Amor fue antes que ellos tuvieran su ser natural perfecto, no obstante que ellos fueron primero según su ser ideal imperfecto. Y por esto viene a ser más joven que todos los otros y más bello, porque las ideas inmediatamente fueron conjuntadas a esa naturaleza informe y él no nace en ella sino después que fue ya formada por las ideas, aunque imperfectamente.

Capitolo XXIII

Come s‘intenda el regno della necessità essere stato innanzi all‘Amore.

Del medesimo fundamento si può intendere facilmente quello che dice Agatone, cioè che il regno della necessità fu in prima che il regno di Amore; per la intelligenzia della qual cosa è da intendere che

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Platone nel Timeo chiama quella natura informe necessità, e benchè altrove per necessità intenda esso fato, nondimeno in questo luogo si ha a intendere la necessità secondo quel primo modo, cioè per quella natura informe. È adunque da sapere che, essendo ogni creatura composta di quelle dua nature delle quali l‘una è materiale l‘altra formale, l‘una imperfetta e l‘altra cagione della perfezione, ogni volta che l‘una di loro participa più della natura dell‘altra si chiama essere subietta a quella e quell‘altra predominare a lei; e per questa ragione, perchè nelle creature inferiore è più della parte imperfetta che della perfetta, si dice in loro predominare la materia. Quando dunque le idee erano ancora imperfette e inordinate, perchè quella natura informe e materiale è cagione d‘ogni imperfezione, è detto da‘ teologi allora regnato avere la necessità. E perchè ogni imperfezione, come è detto che nella creatura si truova, procede da quella natura informe, per questo dice Agatone che tutte le cose, che delle idee si dicono che denotino di loro qualche imperfezione, tutte accadere regnante la necessità, così come tutte le perfezioni poichè amore cominciò a regnare, perchè quando per amore si converse la mente in Dio fu in lei perfetto quel che prima era imperfetto.

Capítulo XXIII

Como se entiende que el reino de la necesidad existiera antes que el Amor

Por el mismísimo fundamento se puede entender fácilmente lo que dice Agatón, esto es que el reino de la necesidad fue primero que el reino de Amor; para entender esta cosa hay que entender que Platón en el Timeo llama a la naturaleza informe necesidad y aunque en otro lugar por necesidad entienda lo hecho, no menos en este lugar se ha de entender la necesidad según el primer modo, esto es como la naturaleza informe. Y entonces hay que saber que siendo toda criatura compuesta por dos naturalezas –de las cuales la una es material y la otra formal, la una imperfecta y la otra razón de la perfección– toda vez que una de ellas participa más de la naturaleza de la otra, se dice estar sujeta a aquella y que la otra predomina en ella; y por esta razón –porque en las criaturas inferiores existe más de la parte imperfecta que de la perfecta– se dice que en ellas predomina la materia. Cuando entonces las ideas eran todavía imperfectas y desordenadas, porque la naturaleza informe y material es la razón de toda imperfección, es dicho por los teólogos que entonces reinaba la necesidad. Y porque toda imperfección, como se ha dicho que se encuentra en la criatura, procede de la naturaleza informe, por esto dice Agatón que todas las cosas que de las ideas se dicen que denoten en ellas alguna imperfección todas suceden mientras reina la necesidad; así como todas las perfecciones, porque el amor comenzó a reinar, porque cuando por amor retornó la mente a Dios fue en ella perfecto lo que primero era imperfecto.

Capitolo XXIV

Per qual ragione si dica Venere imperare a tre fati.

Non sarà adunque fuori di proposito esporre per qual cagione dice Orfeo Venere imperare a tutti e tre e‘ fati, il che solo da‘ fundamenti di sopra dichiarati sarà manifesto. Pongono, come altre volte avemo detto, e‘ Platonici dua mondi, questo mondo sensibile e el mondo intelligibile che fu esemplare di questo. In questo mondo veggiamo grandissimo ordine e veggiamo ogni cosa concatenata insieme e dependente insieme con amichevole concorso alla constituzione d‘uno tutto. Questo ordine, questa serie di cause e effetti è chiamato da‘ filosofi fato, e essendo queste cose mondane immagine di quelle idee del mondo intelligibile e dependenti e sottoposte a quelle, segue che l‘ordine di queste dipenda dall‘ordine di quelle, el quale ordine è chiamato providenzia così come questo è chiamato fato. E però e‘ Platonici pongono la providenzia, la quale consiste nell‘ordine dell‘idee, essere in quella prima

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mente; la quale providenzia, cioè el quale ordine, depende da esso Dio, come da quello che è ultimo fine di questo ordine, nè essa legge di providenzia, che ordina le cose nel suo fine, altrove le dirizza che a conseguire quell‘ultimo ed infinito bene. Se dunque Venere non è altro che l‘ordine di quelle idee dal quale depende l‘ordine mondano chiamato Fato, seguita che Venere domini ad esso Fato, el quale Fato in tre è diviso e designato per tre nomi di tre Parche, Cloto, Lachesis e Atropos, perchè quello, che è unito nella providenzia e mensurato da una indivisibile mensura della eternità, fatto già nel Fato temporale, si divide in tre parti, cioè in presente, preterito e futuro, benchè altrimenti ancora si possa dividere secondo que‘ tre regni divisi a‘ figliuoli di Saturno, come da noi nel primo libro fu dichiarato. Altri vogliono che Atropos si attribuisca alla sfera non erratica, Cloto agli sette pianeti, Lachesis alle cose dalla luna in giù. Ma il trattare di questa materia richiede proprio e determinato luogo. Di qui si può intendere che al fato non sono sottoposte se non le cose temporali, e queste sono quelle che sono corporee; e però, essendo l‘anima razionale incorporea, non è sottoposta al fato, anzi domina a quello, ma bene è sottoposta alla providenzia e serve a quella, il quale servire è una vera libertà perchè, se la voluntà nostra obbedisce alla legge della providenzia, è da lei guidata sapientissimamente alla consecuzione del suo desiderato fine, e ogni volta che da questa servitù si vuole liberare si fa di libera veramente serva, e fassi schiava del fato del quale prima era padrona, perchè il deviare dalla legge della providenzia non è altro che lasciare la ragione e seguire il senso e l‘appetito irrazionale, el quale è sottoposto al fato per essere di natura corporeo; e però chi a lui si sottopone, molto più si fa servo di colui di cui esso è servo. Ma di questo altra volta parleremo.

Capítulo XXIV

Por qué razón se dice que Venus impera sobre las tres parcas

No estará entonces fuera de nuestro propósito exponer por qué razón dice Orfeo que Venus impera sobre todos y sobre las tres parcas, lo que sólo por los fundamentos arriba declarados será manifiesto. Los platónicos proponen, como hemos dicho otras veces, dos mundos: este mundo sensible y el mundo inteligible que es ejemplar de aquel. En este mundo vemos grandísimo orden y vemos toda cosa concatenada juntamente y dependiente, con amigable concurso, de la constitución de un todo. Este orden, esta serie de causas y efectos es llamado por los filósofos destino. Siendo las cosas mundanas imágenes de las ideas del mundo inteligible –dependientes y subordinadas a él– se sigue que el orden de ellas dependen del orden de aquéllas; tal orden es llamado providencia, así como aquél es llamado destino. Y por ello los platónicos ponen la providencia, la cual consiste en el orden de las ideas, en la primera mente; la providencia, esto es tal orden, depende de Dios, como aquello que es el fin último de este orden. Y esa ley de la providencia, que ordena las cosas hacia su fin, las endereza a conseguir el bien último e infinito. Si entonces Venus no es otra cosa que el orden de las ideas del cual depende el orden del mundo llama Destino, se sigue que Venus domina al Destino, que es dividido en tres y designado con los tres nombres de las tres Parcas: Cloto, Láquesis y Átropos, porque aquel que está unido en la providencia y mesurado por una indivisible mesura de la eternidad, hecho ya en el Destino temporal, se divide en tres partes, esto es en presente, pretérito y futuro, aunque de otro modo todavía se pueda dividir según los tres reinos divididos en los hijos de Saturno, como fue declarado por nosotros en el primer libro.

Otros quieren que Átropos se atribuya a la esfera no errática, Cloto a los siete planteas y Láquesis a las cosas de la Luna hacia abajo. Pero tratar estas materia requiere un lugar propio y determinado. De aquí se puede entender que al desti

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no no estén subordinadas si no las cosas temporales y éstas son aquellas que son corpóreas; y por ello, siendo el alma racional incorpórea no está subordinada al destino, sino domina a éste, más bien está subordinada a la providencia y sirve a aquella; este servir es una verdadera libertad porque, si la voluntad nuestra obedece a las leyes de la providencia, es por ella guiada sapientísimamente a la consecuención de su fin deseado, y cada vez que de esta servidumbre se quiere liberar se hace de libre verdaderamente sierva y se hace esclava del destino del cual era primeramente patrona, porque el desviarse de las leyes de la providencia no es otra cosa que dejar la razón y seguir el sentido y el apetito irracional el cual está subordinado al destino por ser de naturaleza corpórea; y por ello quien a él se subordina mucho más se hace siervo de aquel de quien éste es siervo. Pero de esto hablaremos otra vez.

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Libro III

Capitolo I

Dell‘amore angelico e umano e de‘ loro obbietti.

Credo a sufficienzia essere detto di questo amore celeste e di Venere sua madre. Vero è che se tutte le quistioni che si potrieno muovere alla perfetta cognizione delle idee volessi in questo loco essequire, sarebbe bisogno di più lungo trattato, ma in questo loco sarebbe superfluo, e altrove è nostra intenzione parlarne copiosamente. Lasciando adunque questa materia ad altro tempo e espedito quel che dello amore celeste e angelico era da intendere, passeremo a dichiarare la natura di quello amore che è propria e perfettissima immagine di questo. Così dunque come da Celio, cioè da Dio, descendono nella mente angelica le idee, e per questo in essa nasce amore di bellezza intellettuale, così da la mente angelica descendono nell‘anima razionale le medesime idee le quali tanto sono più imperfette di quelle che sono nella mente angelica, quanto l‘anima e la natura razionale è più imperfetta dell‘angelo e della natura intellettuale, di che mutano e natura e nome, come fu nel primo libro dichiarato. Quel medesimo dunque che di Saturno respetto a Celio fu detto, quel medesimo è di Giove respetto a Saturno. E nota che Plotino nel suo libro di amore non parla del primo Amore celeste, ma solo di questo, e così similmente non parla di quella prima Venere ma di questa seconda, cioè non della bellezza delle idee descendente da Celio in Saturno, ma di quella che da Saturno descende in Giove, e cioè nell‘anima del mondo. Il che lui manifestamente dichiara, perchè quella Venere celeste, di cui lui parla, non dice essere nata di Celio, come dice Platone, ma di Saturno, alla quale cosa chi non ponessi diligente attenzione parrebbe Platone e Plotino in questa cosa essere discordi, così come chi rettamente gli osserva conosce dall‘uno e dall‘altro insieme aversi la totale e assoluta cognizione dello amore celeste, perchè da Platone è trattato di quello che è primo e vero amore celeste, e da Plotino del secondo che è immagine di quello. Venere adunque, madre di questo Amore, nasce di Saturno e si unisce con Giove, così come quella prima nasce di Celio e si unisce con Saturno, e per quella medesima ragione per che vuole Plotino che le idee, che è la prima Venere, non sieno accidentali ma sustanziali alla mente angelica, vuole eziamdio che queste ragioni specifiche, che sono nell‘anima come le idee nella mente, sieno sustanziali all‘anima; e per questa tale, ora dirà Plotino che Venere celeste è quella prima anima razionale e divina. E per non dare occasione di errare ad alcuno che per queste parole si movessi a credere che la natura dell‘anima, in quanto natura di anima razionale, fussi Venere, soggiugne di sotto che questa anima è chiamata Venere in quanto è in lei un certo amore splendido e specioso, designando per questo quelle specifiche ragioni delle quali abbiamo parlato. A che ritornando dico che, così come quel primo amore, il quale è nella mente, si chiama angelico e divino, così quest‘altro che è nell‘anima razionale si chiama amore umano, perchè la natura razionale è la principale parte che sia nello uomo.

Ora, espedito quello che è necessario dello amore celeste e della imagine sua, passeremo a trattare dello amore vulgare, il quale non è altro che appetito di bellezza sensibile per il senso del viso, come può essere chiaro per le cose sopradette. Questa bellezza, siccome la intelligibile e come universalmente ogni creatura, ha tre modi di essere, cioè causale, formale, participato; la causa sua è el cielo sensibile, animato da quella virtù che el muove, così come la causa della bellezza e Venere intelligibile era quel primo e vero Dio intelligibile. Questa virtù motiva del cielo è la infima potenzia dell‘anima celeste, secondo la quale potenzia è congiunta al corpo del cielo, come è la virtù nostra motiva e progressiva a‘ muscoli e a‘ nervi e‘ quali usa per organi e instrumenti a essequire questa sua operazione che è il moto; così la virtù motiva dell‘anima del cielo, atto corpo e organo al moto celeste circulare e sempiterno, così come e‘ piedi sono atti al moto del camminare degli animali, transmuta mediante esso corpo del cielo questa materia inferiore e formala di tutte le forme che sono in lei, non altrimenti che la mano

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dell‘artefice mediante el pennello forma la sua materia di questa o di quella forma artificiale. La causa adunque di questa Venere vulgare, che è la bellezza di queste forme materiali sensibili, è quella virtù motiva dell‘anima celeste, e in quella ha essa Venere lo essere causale. L‘essere suo formale e essenziale è in essi colori dalla luce del sole visibile illuminati, così come le idee dalla luce di quel primo invisibile sole. L‘essere suo participato è nella disposizione quantitativa della cosa bella, cioè essa figura che consiste in un tale ordine delle parti; e questa io chiamo bellezza per participazione, perchè, come avemo dichiarato, bellezza è obbietto motivo del viso, e non essendo questa quantità atta a muovere el viso se non in quanto è partecipe de‘ colori e della luce, meritamente non ha per beneficio della propria natura l‘essere bellezza e procreativa d‘amore, ma per participazione e merito d‘altri, che per sè e per la natura propria sono atti a muovere el viso e generare nell‘animo di chi gli vede amore della cosa vista.

Capítulo I

Del amor angélico y del humano y de sus objetos. Creo suficientemente haber hablado sobre el amor celeste y sobre su madre Venus. Es verdad que si se quisieran desarrollar todas las cuestiones que pudieran tratarse para la perfecta cognición de estas ideas, sería necesario un tratado más largo, pero aquí sería superfluo ya que en otro lugar tenemos la intención de hablar más ampliamente. Dejando pues esta materia para otro tiempo y dicho aquello que del amor celeste y angélico era necesario entender, pasemos a declarar la naturaleza del amor que es imagen propia y perfectísima de aquél. Así como de Cielo, esto es de Dios, descienden en la mente angélica las ideas y por esto en ella nace el amor de la belleza intelectual, así de la mente angélica descienden en el alma racional las mismas ideas que son tanto más imperfectas que aquellas que están en la mente angélica, cuanto el alma y la naturaleza racional es más imperfecta que el ángel y que la naturaleza intelectual, por lo cual cambian de naturaleza y de nombre, como fue dicho en el primer libro. Lo mismo que fue dicho de Saturno respecto a Cielo, se dice de Júpiter respecto a Saturno. Es sabido que Plotino en su libro sobre el amor no habla del primer amor celeste, sino sólo de éste y, de igual forma, no habla de la primera Venus sino de la segunda; es decir, no habla de la belleza de las ideas que descienden del Cielo en Saturno, sino de aquella que de Saturno desciende a Júpiter, esto es en el alma del mundo. Lo que él manifiestamente declara, porque no dice que nace del Cielo aquella Venus

celeste de quien habla como dice Platón sino de Saturno. A quien no pone diligente atención le parece que Platón y Plotino disienten en este asunto; pero quien rectamente los observa conoce que

juntos el uno y el otro tienen la total y absoluta cognición del amor celeste, porque Platón trata el primer amor celeste verdadero y Plotino el segundo que es imagen de aquél. Venus, madre de este amor, nace de Saturno y se une con Júpiter, así como la primera nace de Cielo y se une con Saturno. Por esta misma razón Plotino quiere que las Ideas, que son la primera Venus, no sean accidentales sino sustanciales a la mente angélica; también quiere que las razones específicas que están en el alma

como las ideas en la mente sean sustanciales al alma y, por ello, dirá Plotino que la Venus celeste es la primera alma racional y divina. Para no ocasionar que alguno se equivoque por estas palabras y crea que la naturaleza del alma en cuanto naturaleza del alma racional, fuera Venus, añade que esta alma es llamada Venus en cuanto hay en ella un cierto amor espléndido y relativo a las especies, designando con esto las razones específicas de las cuales hemos hablado. Volviendo a lo anterior, digo que así como el primer amor que está en la mente se llama angélico y divino, así este otro que está en el alma racional se llama amor humano, porque la naturaleza racional es la parte principal del hombre. Ahora, tratado lo necesario acerca del amor celeste y de su imagen, pasaremos a tratar el amor vulgar que no es otra cosa sino apetito de belleza sensible [nacido] por el sentido de la vista, como puede

resultar claro, por las cosas antes dichas. Esta belleza así como lo inteligible y como universalmente

toda criatura tiene tres modos de ser: el causal, el formal y el participado. Su causa es el cielo sensible, animado por aquella virtud que lo mueve, así como la causa de la belleza y de la Venus

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inteligible era el primer y verdadero Dios inteligible. Esta virtud motriz del cielo es la potencia ínfima del alma celeste según la cual está unida al cuerpo del cielo, como está unida nuestra virtud motriz a los músculos y nervios que usa como órganos e intrumentos para conseguir el movimiento; la virtud motriz del alma del cielo [tiene] un cuerpo y órgano apto para el movimiento celeste circular y sempiterno, así como los pies son aptos al movimiento del caminar de los animales, y transforma mediante ese cuerpo del cielo a la materia inferior y la forma con todas las formas que están en ella, al igual que la mano del artífice, mediante el pincel, forma su materia con esta o aquella forma artificial. La causa entonces de esta Venus vulgar que es la belleza de estas formas materiales sensibles es aquella virtud motriz del alma celeste y en ella tiene esta Venus su ser causal. El ser formal y esencial está en los colores que la luz del sol visible ilumina, así como las ideas lo son por la luz del sol primero e invisible. Su ser participado está en la disposición cuantitativa de la cosa bella, esto es, la figura que consiste en un tal orden de las partes; a ésta llamo belleza por participación, porque como habíamos declarado, la belleza es el objeto de la vista y al no ser esta cantidad apta para mover la vista sino en cuanto es partícipe de los colores y de la luz, con razón no tiene por beneficio de su propia naturaleza el ser belleza que procrea el amor, sino por participación y mérito de otro que por sí y por su naturaleza propia son aptos para mover la vista y generar en el alma de quien los ve amor de la cosa vista.

Capitolo II

Seguita dello amore celeste, umano e bestiale.

Amore dunque vulgare non è altro che desiderio di possedere questa tale bellezza e, come quam primum la intelligibile bellezza, che sono le Idee, descendeva nello intelletto angelico, nasceva nella voluntà dello Angelo desiderio di fruire pienamente quella bellezza, e per conseguire questo sforzavasi di accostarsi a quello dal quale in lui tale bellezza era pervenuta; così quam primum la specie o la immagine di questa bellezza sensibile perviene all‘occhio, subito nasce nello appetito sensitivo, el quale come disopra dichiarammo segue la cognizione del senso così come la voluntà la cognizione dello intelletto, nasce, dico, uno desiderio di fruire pienamente quella bellezza. E di qui possono nascere dua amori, de‘ quali l‘uno è bestiale e l‘altro è umano e razionale, però che questo non è dubbio, che avendo a fruire pienamente questa bellezza bisogna unirsi a quello che è principio e fonte suo, dal quale prima procede; e se noi seguitiamo el iudicio del senso, el quale seguitano e‘ bruti e li animali irrazionali, iudicheremo el fonte di questa bellezza essere nel corpo materiale nel quale la veggiamo posta, e di qui nascerà in noi l‘appetito del coito che non è se non congiungersi con quel corpo per più intimo modo che sia possibile; nella quale materia el distendersi più lungamente è un profanare e‘ casti misteri amorosi di Platone. Ma ritorniamo al proposito nostro; dico che el senso iudica quella bellezza avere origine da quel corpo, e però el fine dell‘amore di tutti e‘ bruti è il coito, ma la ragione tutto l‘opposito iudica, la quale conosce quel corpo materiale non solo non essere fonte e principio di bellezza, ma essere in tutto natura avversa e corruttiva d‘essa bellezza; e cognosce che, quanto più da quello corpo si separa e in sè si considera, tanto più ha della sua natura e propria dignità e prestanzia, e però cerca non di passare da quella specie ricevuta negli occhi ad esso corpo, ma di depurare questa specie quanto più può, se in lei vede rimasta qualche infezione di natura corporea e materiale. E perchè per l‘uomo si può intendere e l‘anima razionale posta nella natura perfetta sua, e puossi etiam intendere l‘anima razionale al corpo già unita e alligata, secondo el primo modo, amore umano è proprio quello che disopra fu detto essere immagine dello amore celeste. Secondo questo altro modo, amore umano questo di che noi parlavamo, cioè amore di bellezza sensibile la quale dall‘anima

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è già dal corpo separata e fatta di sensibile, quanto patisce la natura sua, intellettuale; e molti sono che non ascendono più in su, e questo cade nella più parte degli uomini. Alcuni più perfetti ricordansi d‘una bellezza più perfetta che già vide l‘anima loro prima che nel corpo fussi immersa, e allora surge in loro uno desiderio incredibile di rivederla, e per conseguire questo intento separansi quanto più possono dal corpo, talmente che l‘anima nella sua pristina dignità ritorna, fatta in tutto padrona del corpo e a lui per niun modo suggetta: e allora è in quell‘amore, che è immagine dello amore celeste, e puossi chiamare questo amore di natura umana perfetta e quell‘altro amore di natura umana quasi caduca o imperfetta. Poi da questo amore, se va di perfezione in perfezione crescendo, giugne l‘uomo a tal grado che, uniendo l‘anima sua in tutto con l‘intelletto e di uomo fatto angelo, di quello angelico amore tutto infiammato, come materia dal foco accesa e in fiamma conversa alla più alta parte del mondo inferiore si lieva, così lui da tutte le sorde del terreno corpo espurgato e in fiamma spirituale dalla amorosa potenzia transmutato, insino allo intelligibile cielo volando, nelle braccia del primo padre felicemente si riposa.

Capítulo II

Continuación del amor celeste, humano y bestial. El amor vulgar entonces no es otra cosa sino deseo de poseer esta belleza. Así como descendía la belleza inteligible que está en las ideas en el intelecto angélico y nacía en la voluntad del Ángel el deseo de gozar plenamente de esa belleza y para conseguir esto se esforzaba por aproximarse a aquello por lo cual tal belleza llegaba a él; así, cuando la especie o la imagen de esta belleza sensible llega al

ojo, nace súbitamente en el apetito sensitivo que como declaramos arriba sigue la cognición del

sentido, así como la voluntad sigue la cognición del intelecto nace, digo, un deseo de gozar plenamente de aquella belleza. Y aquí pueden nacer dos amores, uno de los cuales es bestial y el otro humano y racional. Pero, sin duda, para gozar plenamente de esta belleza necesita unirse a lo que es su principio y fuente, de la cual primeramente procede; si seguimos el juicio del sentido, que siguen los brutos y los animales irracionales, juzgaremos que la fuente de esta belleza está en el cuerpo material en el cual la vemos puesta y de esto nacerá en nosotros el apetito del coito que no es sino conjuntarse con aquel cuerpo del modo más íntimo que sea posible. Sin embargo, extenderse más largamente en esta materia es profanar los castos misterios amorosos de Platón. Retornemos a nuestro propósito; digo que el sentido juzga que aquella belleza tiene su origen en el cuerpo y así el fin del amor de todos los brutos es el coito; pero la razón juzga todo lo opuesto, ya que conoce que el cuerpo material no solo no es fuente y principio de la belleza, sino es en todo una naturaleza adversa y corruptora de ésta; la razón conoce que, cuanto más de aquel cuerpo se separa y se considera en sí, tanto más tiene la propia dignidad y prestancia de su naturaleza y busca no pasar de esa especie recibida en los ojos al cuerpo, sino depurar esta especie cuanto sea posible si ve que en ella permanece alguna infección de naturaleza corpórea y material. Y porque por hombre se puede entender alma racional, puesta en su naturaleza perfecta, y puede entenderse el alma racional como ya unida y ligada al cuerpo, según el primer modo, el amor humano es propiamente aquel que arriba se dijo ser imagen del amor celeste. Según este otro

modo, el amor humano del que hablamos es el amor de la belleza sensible la cual está ya del cuerpo separada por el alma y hecha, de sensible, tan intelectual cuanto lo permite su naturaleza. Muchos son los que no ascienden más arriba y esto pasa con la mayor parte de los hombres. Algunos se acuerdan más perfectamente de una belleza más perfecta que ya vio el alma antes de que en el cuerpo fuera inmersa y entonces surge en ellos un deseo increíble de volver a verla; para conseguir este intento se separan cuanto pueden del cuerpo, de tal modo que el alma retorna a su prístina dignidad, siendo totalmente patrona del cuerpo y no sujeta a él de ningún modo. Y entonces está en ese amor que es imagen del amor celeste y puede llamarse amor de naturaleza humana perfecta; el otro amor puede llamarse de naturaleza humana casi caduca e imperfecta. Después de este amor, que va de perfección en perfección creciendo, llega el hombre a tal grado que, uniendo su alma en todo con el intelecto, de

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hombre se hace ángel; por aquel angélico amor todo inflamado, como materia tomada por el fuego y en flama convertida se eleva a la parte más alta del mundo inferior; así, expurgada de todo el terrenal cuerpo y transformada en flama espiritual por la amorosa potencia, volando al cielo inteligible, en los brazos del primer padre felizmente reposa.

Capitolo III

In quale anime si truovi l‘amore vulgare e in quale l‘angelico e perchè l‘anime celeste sieno significate per Iano.

E per questo che dello amore vulgare avemo detto segue necessariamente che solo in quelle anime possa cadere questo amore vulgare che sono nella materia immerse e dal corpo in qualche modo superate, o saltem impedite, e finalmente in quelle anime che non sono libere dalle perturbazioni delli affetti ma sono alla passione sottoposte, quale secondo e‘ Platonici sono l‘anime nostre e l‘anime de‘ demoni; o di tutti, come vogliono alcuni, o degli inferiori e più propinqui alla natura nostra.

Capítulo III

En cuáles almas se encuentra el amor vulgar y en cuáles el angélico y por qué las almas celestes son significadas por Jano.

Y por lo que hemos dicho del amor vulgar se sigue necesariamente que sólo pueda acaecer este amor en las almas que están inmersas en la materia y superadas de algún modo por el cuerpo o impedidas y, finalmente, en aquellas almas que no son libres de la perturbación de los afectos sino que están subordinadas a las pasiones; estas almas son, según los platónicos, nuestras almas y las almas de los demonios; de todos, como quieren algunos, o de los inferiores y más próximos a nuestra naturaleza.

Capitolo IV

Nelle altre anime, come sono le nostre, è necessario che si truovi quello amore angelico eternalmente come è eterno l‘intelletto dell‘anima nostra; nondimeno pochi uomini l‘usano, l‘anima de‘ quali, quasi volte le spalle, ha gli occhi suoi conversi alle cose sensibili e alla cura del corpo. E per piena intelligenzia di questo passo è da intendere che l‘anime celeste hanno in sè tale perfezione, come dicono tutti e‘ Platonici, che possono insieme satisfare all‘uno e all‘altro uffizio suo, cioè e reggere e amministrare el corpo loro e perciò non si spiccare della intellettuale contemplazione delle cose superiori; e queste anime da antiqui poeti furno significate per Iano bifronte, perchè, come lui dalla anteriore e posteriore parte oculate, possono insieme e vedere le cose intelligibili e provvedere alle sensibili; ma l‘altre anime più imperfette, che non hanno li occhi se non in una parte di loro, è necessario che, se si volgano con quella parte dalla quale sono oculate al corpo, l‘altra, che è sanza occhi, rimanga volta verso l‘intelletto, e così rimangano prive della visione delle cose intellettuali. Similmente, se convertono gli occhi verso l‘intelletto, non possono provvedere più al corpo ed è necessario che lascino la cura di quello; e per questa ragione queste anime, alle quali è forza per la cura del corpo lasciare el bene dello intelletto, la provvidenzia divina le ha legate a corpi caduci e corruttibili, da‘ quali solute in breve tempo possino, se da loro non manca, alla loro intellettuale felicità

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ritornare; e l‘altre anime, le quali per la cura del corpo non sono impedite dal bene dello intelletto, ha alligate a corpi eterni incorruptibili. Di questo fundamento puoi trarre e la soluzione d‘uno argumento che Aristotile fa nel primo Dell‘anima, ove dice che se lo essere nel corpo è male dell‘anima, come Platone molte volte dice, seguirà che l‘anime celesti siano più infelice delle nostre, le quali dal corpo qualche volta si separano. E puoi trarre un altro fondamento, che se noi poniamo tutti e‘ demoni essere subbietti a passione, bisogna porli tutti essere mortali; però la definizione data da Apuleio che e‘ Demoni sono dell‘animo passibile ma eterni, si debbe intendere che sono eterni perchè le loro anime sono eterne, ma non che in loro non accaggia separazione dell‘anima dal corpo, come eziandio accade in noi. Ritornando adunque al proposito nostro dico che le anime celesti, le quali per Iano sono da‘ poeti designate, come quelle che del tempo mediante el moto sono principio, hanno e occhi da guardare quella bellezza ideale nello intelletto, la quale amano continuamente, e hanno altri occhi da guardare le cose inferiori e sensibili, non per amarle o desiderare la loro bellezza, ma per comunicargliela e donarla a loro. L‘anime nostre, prima che al corpo sieno alligate, sono per il medesimo modo come quelle bifronte, perochè, come dice Platone nel Fedro, ogni anima, e intendesi d‘ogni anima razionale constituta nella sua natura, ha cura di tutto l‘universo corporale. Hanno dunque similmente, etiam l‘anime nostre, prima che cadino in questo corpo terreno, parimente dua facce, cioè che insieme possono e riguardare le cose intellettuali e provvedere alle sensibili; ma quando nel corpo descendono e viene a loro non altrimenti che se fussino per mezzo divise e delle dua facce gliene rimanessi una sola, onde ogni ora che quell‘una faccia che gli è rimasta volgono alla bellezza sensibile, rimangono prive della visione dell‘altra, e di qui nasce che niuno può insieme avere e lo amore volgare e quello celeste; e però Zoroastre confortandone a quella visione della bellezza superna crida: «Estendi gli occhi e drizali in su». E a questo è buon testimonio che molti dalla medesima causa che gli ha rapiti alla visione della bellezza intellettuale, dalla medesima sono stati de‘ loro occhi corporali, co‘ quali si vede la bellezza sensibile, accecati. Questo significa la fabula di Tiresia da Callimaco decantata, che per avere visto Pallade nuda, che non significa altro che quella ideale bellezza dalla quale procede ogni sapienzia sincera e non vestita o coperta dalla materia, subito divenne cieco e dalla medesima Pallade fu fatto profeta, sicchè quella che gli chiuse li occhi corporali li aperse li occhi dello intelletto, co‘ quali non meno le future cose che le presenti vedere poteva. Omero da l‘ombra d‘Achille, dalla quale fu afflato di quello poetico furore che in sè ogni intellettuale contemplazione contiene, fu etiam de li occhi corporali excecato. Paulo apostolo non prima al terzo cielo elevato fu rapto, che dalla visione delle cose divine li occhi suoi alle cose sensibile fur fatti ciechi, del rapto del quale qualche volta forse parleremo.

Tornando dunque alla principale materia dico che l‘anima nostra, mentre è conversa alle cose sensibili, non può fruire la visione della bellezza intellettuale e però, quantunque nello intelletto dell‘anima di ciascuno eternalmente viva quello amore celeste, nondimeno soli coloro l‘usono, e‘ quali sono pochi, che in tutto remossi sono dalla cura del corpo e possono con Paulo dire di non sapere se siano o nel corpo o fuori del corpo, al quale stato qualche volta perviene un uomo ma stavvi poco, come quelli che noi chiamiamo Estatici. E delle cagioni di questa separazione molte cose vi sarebbono a dire, le quali nel commento nostro sopra el convivio di Platone diffusamente diremo, però che da altri, che io abbia letto, non è ancora detto a sufficienzia.

Sarà adunque in noi uno amore eterno e sustanziale, cioè quello che è nello intelletto, il quale è angelico, non umano; poi nell‘anima nostra, la quale è per natura libera e puossi volgere e alla sensibile bellezza e alla intelligibile, può nascere tre amori, perochè o ama la bellezza sensibile o quella altra celeste. Se la sensibile, o desidera unirsi a quella corporalmente, e questo desiderio, perchè procede da irrazionale iudicio, cioè da iudicare che quella bellezza nasca da quello corpo ove ella è posta, è amore bestiale e irrazionale; o desidera unirsi a quella con la mente, cioè servando in sè la specie e la immagine di quella e con continui pensieri e fissa intenzione dello animo unendo quella a sè e sè a lei quanto più può; e questo amore, perchè nasce da razionale iudicio, cioè da conoscere quella bellezza non solo non avere origine da quel corpo materiale, anzi perdere della perfezione e degnità sua per

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essere con quello admista, la quale recupera quando per virtù dell‘anima dalla materia è separata, si chiama amore umano e razionale; e la più parte delli uomini circa questi dua amori si ravvolgono. Ma quelli, lo intelletto de‘ quali da filosofico studio purificato e illuminato cognosce questa bellezza sensibile essere immagine d‘un‘altra più perfetta, lasciato l‘amore di questa, cominciono a desiderare di vedere quella celeste bellezza; e questo è quello terzo amore il quale già gusta in qualche parte quella bellezza celeste, avendo di lei già qualche memoria; e questi, se in tale elevazione di mente perseverano, conseguitano finalmente quello angelico e intellettuale amore il quale, benchè prima in loro fussi, nondimeno loro, come occupati ad altre cose, non se ne accorgevono; de‘ quali si può dire meritamente che la luce luceva nelle tenebre e le tenebre non la compreendevano; e di questo atto largamente parleremo nella exposizione della sesta stanza della presente canzona, alla narrazione de la quale passeremo, se prima aremo a chi legge ricordato che della fabula di Aristofane, posta nel Convivio di Platone, si può avere qualche lume per uno nostro detto nel secondo capitulo di questo trattato. E perchè dal nostro Poeta non è tocco cosa alcuna pertinente a quella, non è nostro officio interpretarla al presente.

Capítulo IV En otras almas, como las nuestras, es necesario que se encuentre el amor angélico eternamente ya que es eterno el intelecto de nuestra alma; sin embargo, pocos hombres lo usan. Su alma, casi volteada de espaldas tiene los ojos hacia las cosas sensibles y al cuidado del cuerpo. Para entender plenamente este paso es necesario entender que las almas celestes tienen en sí tal perfección, como dicen todos los platónicos, que pueden juntamente satisfacer uno y otro de sus oficios, esto es gobernar y administrar el cuerpo sin abandonar la contemplación intelectual de las cosas superiores. Estas almas fueron significadas por Jano bifronte según los antiguos poetas, porque como él, con la parte ocular anterior y posterior pueden juntamente ver las cosas inteligibles y proveer a las sensibles; pero las otras almas más imperfectas, que no tienen ojos más que en una parte de ellas, es necesario que si se vuelven con la

parte ocular al cuerpo, la otra que no tiene ojos se torne hacia el intelecto y así permanecen privadas de la visión de las cosas intelectuales. Igualmente, si vuelven los ojos hacia el intelecto, no pueden proveer más al cuerpo y es necesario que dejen su cuidado. Por esta razón estas almas, a las cuales es necesario dejar los bienes del intelecto para cuidar el cuerpo, la providencia divina las ha dotado con cuerpos caducos y corruptibles, de los cuales son separadas en breve tiempo y pueden

retornar a su felicidad intelectual. Y a las otras almas las que no están impedidas por el cuidado del

cuerpo de [llegar a] los bienes del intelecto ha ligado cuerpo eternos incorruptibles. De este fundamento podemos sacar la solución de un argumento que Aristóteles propone en el primer libro del De Anima, donde dice que si estar en el cuerpo es un mal para el alma, como dice Platón muchas veces, se sigue que las almas celestes son más infelices que las nuestras porque éstas alguna vez se separarán del cuerpo. Después se propone otra cuestión: si decimos que todos los demonios están sujetos a pasiones es necesario que todos sean mortales; pero de acuerdo con la definicón dada por Apuleyo, que [dice] que los demonios tienen alma pasible pero eterna, se debe entender que son eternos porque sus almas son eternas, pero que en ellos no sucede separación del alma y el cuerpo, como sucede con nosotros. Regresando a nuestro propósito digo que las almas celestes, las cuales son designadas por Jano según los poetas, como aquellas que son principio del tiempo a través el movimiento, tienen ojos

para observar la belleza ideal en el intelecto que aman continuamente y tienen otros ojos para observar las cosas inferiores y sensibles; no para amar y desear su belleza, sino para comunicarla y darla a ellas. Nuestras almas, antes de que al cuerpo fueran ligadas, son como las bifrontes; pero

como dice Platón en el Fedro toda alma, entendida como toda alma racional constituida en su naturaleza, tiene cuidado de todo el universo corporal. Tienen entonces igualmente nuestras almas, antes que caigan en este cuerpo terreno, dos caras; esto es, pueden contemplar conjuntametne las cosas intelectuales y proveer las sensibles, pero cuando descienden al cuerpo les sucede lo mismo que si fueran divididas por en medio y de las dos caras permanece una sola; cada vez que la cara que le ha

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quedado se vuelve a la belleza sensible, permanece privada de la visión de la otra. De esto surge que ninguno pueda tener juntos el amor vulgar y el amor celeste. Zoroastro confortándose en aquella visión de la belleza suprema grita: ―Extiende los ojos y llévalos arriba‖. De esto es un buen testimonio que muchos por la misma causa que los ha raptado a la visión de la belleza intelectual han sido cegados de sus ojos corporales, con los que se ve la belleza sensible. Éste es el significado de la fábula de Tiresias

cantada por Calímaco, que por haber visto a Palas desnuda lo cual significa la belleza ideal de la cual

procede toda sabiduría sincera y no vestida o cubierta por la materia súbitamente se vuelve ciego y fue hecho profeta por la misma Palas, ya que quien le cerró los ojos corporales le abrió los ojos del intelecto, con lo cual podía ver las cosas futuras no menos que las presentes. Homero, inspirado por la sombra de Aquiles, fue cegado de los ojos corporales por el furor poético que contiene en sí toda contemplación intelectual . También Pablo apóstol, cuyos ojos fueron cegados por la visión de las cosas divinas antes de ser raptado al tercer cielo elevado; de este rapto hablaremos en otra ocasión. Volviendo a la materia principal, digo que nuestra alma, mientras está vertida hacia las cosas sensibles, no puede gozar de la visión de la belleza intelectual; aunque en el intelecto del alma de cada uno viva eternamente este amor celeste, sólo algunos pocos lo usan: quienes permanecen del todo alejados del cuidado del cuerpo y pueden con Pablo decir que no saben si están en el cuerpo o fuera del cuerpo. A este estado algunas veces llega un hombre pero permanece poco en él, como sucede con quienes llamamos extáticos. De las razones de esta separación muchas cosas habría que decir; las cuales en nuestro comentario al Convivio de Platón diremos profusamente y que no han sido dichas suficientemente por otros a quienes he leído. Habrá entonces en nosotros un amor eterno y sustancial que está en el intelecto, el cual es angélico y no humano. Después en nuestra alma, que es libre por naturaleza y puede volverse a la belleza sensible o a la inteligible, pueden nacer tres amores, ya que ama la belleza sensible o la celeste. Si ama a la

sensible, desea unirse a ella corporalmente y este deseo porque procede de un juicio irracional, esto

es de juzgar que la belleza nace del cuerpo donde está ella puesta es amor bestial e irracional; si desea unirse a ella con la mente, esto es, conservando en sí la especie y la imagen de ella con continuos pensamientos y fija intención del alma, uniendo aquella a sí y viceversa cuanto más puede, surge un

amor que se llama amor humano o racional porque nace de un juicio racional, esto es de conocer que la belleza no sólo no tiene origen en el cuerpo material, sino que pierde perfección y dignidad por

ser en él admitida, dignidad que recupera cuando por virtud del alma es separada de la materia. La mayoría de los hombres se vuelven a estos dos amores. Pero aquel intelecto que purificado e iluminado por el estudio filosófico conoce que esta belleza sensible es imagen de otra más perfecta, dejando el amor de ésta, comienza a desear ver la belleza celeste, teniendo de ella alguna memoria. Y éstos, si perseveran en esta elevación de la mente, consiguen finalmente este amor angélico e intelectual, el cual, aunque estuviera primero en ellos, al estar ocupados en otras cosas no se acordaban de él. De quienes se puede decir con merecimiento que la luz lucía en las tinieblas y las tinieblas no la comprendían. Y de este acto hablaremos largamente en la exposición de la estancia sexta de la presente canción, a la narración de la cual pasaremos, pero antes recordaremos a quien lee que en la fábula de Aristófanes, puesta en el Convivio de Platón, se puede encontrar alguna luz sobre lo dicho en el segundo capítulo de este tratado. Y porque nuestro Poeta no toca ninguna cosa perteneciente a ella, no es nuestro oficio interpretarla al presente.

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COMMENTO PARTICULARE

Stanza prima

El trattare dell‘uno amore e dell‘altro appartiene a diverse scienzie. Dell‘amore vulgare tratta el filosofo naturale e el filosofo morale. Dello amore divino tratta el teologo, o, volendo parlare al modo de‘ Peripatetici, el metafisico. Dell‘uno e dell‘altro parlò eccellentemente Salomone, del vulgare nello Ecclesiaste come naturale filosofo e ne‘ Proverbii come morale, del divino e celeste nella Cantica sua, e però Iohanan e Manaen ebrei e Ionathan caldeo dice che fra tutti e‘ cantici della scrittura sacra quello è el più sacro e el più divino. Di questi dua amori specificatamente hanno trattato dua poeti in lingua toscana: dello amore vulgare Guido Cavalcanti in una sua canzona; dell‘altro, cioè del celeste, el Poeta nostro nell‘opera presente, nella quale, quantunque tratti dell‘uno e dell‘altro, nondimeno principalmente tratta del celeste, nè dell‘altro parla se non in quanto è una debile immagine di quello. Amor dalle cui man sospes‘el freno e dopo molti versi soggiugne Muove la lingua mia, sforza l‘ingegno.

Questo è el principio della presente canzona; l‘altra da Guido composta comincia Donna mi priega perch‘io voglia dire e dagli espositori suoi è detto per quella Donna intendersi amore; ne‘ quali principii noto fra l‘uno poeta e l‘altro tre differenzie.

La prima, che Guido dice che amore lo priega e il nostro Poeta dice che amore lo sforza. La seconda, che quivi è chiamato amore pel nome suo proprio, il che non volse fare Guido. La terza, che quello lo figura per donna e costui no, ma per l‘usato nome di amore che suona in nome di maschio; le quali differenzie nè da errore di veruno di loro, nè da discorde opinione provengono, ma l‘uno e l‘altro convenientemente parla secondo la natura dello amore, subbietto del loro poema. Dissi nel capitulo precedente da Guido essere trattato dello amore vulgare e dal poeta nostro del celeste. All‘amore vulgare non debbe l‘anima razionale essere sottoposta, anzi dominare a lui, perocchè è collocato nello appetito sensitivo inferiore e subbietto alla parte razionale dell‘anima; però di lui parlando Guido dice che amor lo priega e non lo sforza, per dichiarare che lo appetito de‘ sensi non può fare violenza alla ragione, come molti, in escusazione de‘ suoi vizii, dicono non potere el consiglio della ragione umana resistere allo impeto della parte sensitiva, la quale ben può pregare la ragione, cioè invitarla e allettarla alle sua voglie, alle quali, quando son moderate, può la ragione sanza errore condenscendere e consentire, ma sforzare non la può in modo alcuno. El contrario è dello amore celeste il quale essendo, come nel secondo trattato fu dichiarato, posto nella parte intellettiva, debbe meritamente la razionale, che è inferiore, a lei essere sottoposta; nè mai ritiene la natura inferiore la sua libertà se non quando della superiore a sè è interamente serva; però convenientemente si sottopone el nostro Poeta alla violenzia dello amor celeste cognoscendo in lei libertà grandissima. La cagione dell‘altra diversità, cioè che Guido non chiama amore per il proprio nome, è perchè lo amore vulgare non è vero amore ma così come la sensibile bellezza non è vera bellezza, ma è immagine di quella, così è lui un simulacro e ombra dello amore celeste, el quale solo propriamente si vendica el sacratissimo nome di amore, nè all‘altro conviene per altro modo se non come si suole chiamare la statua di Ercole Ercole e la faccia di Elena, o dipinta o sculta, Elena.

La cagione della terza diversità, che da Guido per nome di femmina è significato amore e dal poeta nostro per nome di maschio, è perchè lo amore vulgare al celeste ha proporzione di cosa imperfetta a cosa perfetta e fu da‘ Pitagorici la natura imperfetta per la femmina significata e per il maschio la perfetta; nè resterò di aggiugnere a questo che l‘amore vulgare, cioè della bellezza corporale, più convenientemente è circa le donne che circa a‘ maschi; el celeste è il contrario, come ne la orazione di Pausania da Platone nel Convivio è scritto, perocchè el vulgare, per essere passione dell‘anima sensitiva, è molto propinquo a lasciarci precipitare al congresso del coito, per essere quella parte

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dell‘anima più irrazionale che razionale; al quale atto quando dalla fragilità vinto l‘uomo cade, meno inconveniente è nel sesso feminile che nell‘altro. L‘opposito è nello amore celeste, nel quale non è questo pericolo, ma tutto tende alla bellezza spiritale dell‘animo e dello intelletto, la quale molto più perfetta si truova ne‘ maschi che nelle donne, come d‘ogni altra perfezione si vede. Però tutti coloro che di questo divino amore sono stati accesi hanno la maggior parte amato qualche giovane di indole generosa, la cui virtù è stata ad altrui tanto più grata quanto l‘è stata in un bel corpo, e non si sono effeminati drieto a uno armento di meretrice, le quali non solo non inducono l‘uomo a grado alcuno di spirituale perfezione, ma, come Circe, al tutto lo trasformano in bestia. Amava di questo casto amore Socrate non solo Alcibiade, ma quasi tutti e‘ più ingegnosi e leggiadri della gioventù di Atene. Così da Parmenide Zenone, da Orfeo Museo, da Teofrasto Nicomaco, da Senofonte Clinia fu amato, e‘ quali tutti non desideravano di essequire con loro amati alcuna opera feda, come si credono molti che con la misura de‘ loro vituperosi desideri misurano e‘ celesti pensieri di coloro, ma solo per eccitarsi da la bellezza corporale esteriore a riguardare quella dell‘anima della persona amata della quale emanò e pervenne quella corporea e, essendo quella dell‘anima una participazione della bellezza angelica, surgendo più in su, elevarsi a uno più sublime grado di contemplazione, tanto che si pervenga al primo fonte d‘ogni bellezza che è Dio. Questo è il frutto che cercava Platone dello amore suo e non quel vituperio che gl‘imputa Dicearco. Questo spesso conseguiva Socrate il quale più volte, eccitato dalla beltà di Fedro, appresso al fiume Ilisso cantò li altissimi misterii di teologia.

Dalle cui man.... el freno. Fra gli altri ordini dalla divina sapienzia posti nelle cose create vedesi questo principale: che ogni natura inferiore dalla superiore immediata a sè è gubernata e, mentre a quella obbedisce, la inferiore, da ogni male difesa, alla sua determinata felicità sanza impedimento si conduce e se, per troppo amare la propria libertà e preporre una licenziosa vita alla più utile, dalla obedienzia della superiore natura come uno fanciullo dal giogo del maestro si rebella, in doppia pena cade. La prima è che, come nave dal nocchiere abbandonata, or batte in questo scoglio ora in quell‘altro sanza speranza di porto; l‘altra è che perde l‘imperio sopra l‘altre nature a lei così sottoposte come lei era a quella dalla quale rebella, il che, acciocchè sia più manifesto, per esempli da‘ sacri misterii de‘ teologi repetiti dichiareremo. La natura irrazionale è gubernata dalla providenzia altrui, e per la imperfezione sua non è atta al governo di verun‘altra creatura così come Dio, per la sua ineffabile eccellenzia, ad ogni cosa provvede e lui della providenzia di verun altro non ha bisogno. Fra Dio e gli animali bruti quasi dua estremi sono la natura degli angeli e la natura delle anime razionali, le quali e da altri sono governate e hanno altri sotto el loro governo. E‘ primi angeli, da Dio immediatamente illuminati e quasi ammaestrati, ammoniscono e consigliono gli angeli inferiori, come eziandio in Daniel profeta si legge e da Dionisio Aeropagita più latamente è esplicato. L‘ultimo ordine delli angeli e a noi immediati, da‘ Platonici e Pitagorici chiamati demoni e dalli Ebrei Issim, che si deriva da Is che significa uomo, quasi custodi e pastori delli uomini, è deputato al governo nostro, così come noi al governo di tutta la natura irrazionale; però rettamente dice David che gli uomini sono poco diminuiti dalla natura angelica e sotto e‘ loro piedi sono sottoposti e li armenti, e pesci, uccelli e tutte le fiere irrazionali; per le quali parole etiam è da notare che molto più distante sono le bestie dalla perfezione nostra che noi dalla angelica; il che significa dicendo e‘ bruti essere sotto e‘ nostri piedi e noi dalla dignitate angelica poco diminuiti. Dunque, mentre e‘ primi angeli si sottopongono al giogo della divina potestà e la loro propria dignità e lo imperio e la autorità sopra le altre creature ritengono, quando etiam per smisurato amore della propria eccellenzia aspirano a tale equalità di Dio che, come lui, sanza altro aiuto, per le sue proprie forze si vogliono conservare (nel quale errore, per el dono della grazia nella quale sono confirmati, ora cadere non possono, ma cadde già, come dicono e‘ nostri teologi e gli antiqui cabalisti, Lucifero e suoi seguaci) allora e dalla beatitudine sua sono al baratro di estrema miseria precipitati e ogni imperio sopra all‘altre creature gli è tolto, come a Lucifero fu, il quale ora, vedendo noi dal suo dominio sciolti, invidioso insidia ogni ora a‘ nostri beni. Similmente insino che Adamo alla obbedienzia de‘ superiori si sottopose ed al divino precetto e consiglio non rebellò, fu e felicissimo e dominatore di tutti gli animali, e l‘uno e l‘altro perse quando, per cupidità di assomigliarsi per la scienzia del bene e del male a esso Dio, e quasi per questa via dal suo governo come di quello

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più non bisognoso liberarsi, gustando el vietato frutto deviò dal divino comandamento. Questo medesimo ordine si vede nel picciol mondo, cioè nell‘anima nostra, nella quale le inferiori potenzie dalle superiore sono corrette e ammaestrate, e, mentre a loro credono, sanza errore procedono in ogni loro opera. Corregge la immaginativa spesso li errori de‘ sensi esteriori; la ragione ammaestra la immaginativa, e la ragione dallo intelletto è illuminata, nè mai in errore non cade se non quando, o la immaginazione troppo proterva alla ragione non presta fede, o la ragione dallo intelletto adversa nelle sua proprie forze troppo si confida. Parimente nelle potenzie appetitive è l‘appetito sensitivo dal razionale governato e il razionale dallo intelletto; il che sottilmente ha toccato qui el nostro Poeta dicendo il freno del suo core pendere dalle mani di amore.

Dichiarammo nel secondo libro lo amore celeste essere appetito intellettuale; però in ogni anima bene composta debbe ogni altro appetito essere da quello governato, il quale governo per il freno, imitando el parlare del Fedro, qui è denotato. Dice adunque el suo cuore da amore essere frenato, cioè ogni suo desiderio da quello dependere, e dice core perchè comunemente, come da‘ filosofi e etiam nelle sacre lettere è osservato, si attribuiscono le operazioni delle potenzie cognitive dell‘anima al capo e delle appetitive al core.

E nel cui sacro regno. Non può un uomo che da altri aspetta nuovo beneficio per migliore mezzo provocare verso sè la liberalità di quel tale che mostrarsi grato de‘ benefici prima ricevuti; però el Poeta nostro, espettando d‘amore soccorso alla presente impresa, fa demonstrazione di gratissimo animo perchè l‘amorosa fiamma, dalla quale è suto lo ‘ngegno del poeta alla superna intellettuale bellezza elevato, nè quanto al principio nè quanto all‘augmento suo o in suoi meriti o in sue forze referisce, ma umilmente di lei chiamandosi indegno, monstra essere e nata e nutrita in lui per clemenzia d‘amore.

Ma el cor.... Dimostrato come per forza e comandamento d‘amore lui è condotto a questa impresa, nel resto di questa prima stanza dua cose dichiara, e sè per le sua forze non sperar poter reggere a tanto peso, e col soccorso d‘amore sperare ogni desiderato effetto.

E la lingua.... La medesima inabilità che fa la lingua non poter essere atta ministra a tanta opera la fa etiam impotente a resistere e repugnare a maggior forza di chi la muove a dire.

.... Quell‘ale

promesso ha....

Tocca el Poeta qui uno solenne detto de‘ teologi e metafisici, ed è che ogni volta a che si dice qualche virtù superiore in noi descendere, non si de‘ intendere che lei dalla sua sublimità scendendo si ponga in loco più inferiore per coniungersi a noi, ma tira noi per la virtù sua a sè e il suo descendere in noi è uno fare ascendere noi a sè, perchè altrimenti di tale coniunzione ne resulterebbe imperfezione a quella virtù e non perfezione a chi la riceve. E quello che inganna la comune immaginazione de‘ vulgari è el concepersi la coniunzione delle cose spirituali essere simile a quella delle cose corporali, le quali si coniungono per approssimazione di sito e di loco; così credono el lume intellettuale all‘anima nostra non si potere coniungere, se quello, come abitante in loco superiore, non descende quasi di cielo in terra per copularsi a noi; e questo significa el Poeta nostro dicendo le medesime ale con le quali amore discese, in lui essere quelle con le quali lui si è per elevare alla sublime contemplazione de‘ misterii amorosi.

Benchè in cima.... Qui dimostra el Poeta dua cose: la prima, questo amore, sotto la signoria del quale lui è vixo e vive, esser quello amore celeste e non vulgare, dicendo che amore si posò in cima del suo core, significando per ciò le potenzie superiore dell‘anima eternale, essendo le inferiore, quali sono le sensitive, albergo dell‘amore vulgare. L‘altra è che denota, per essere in lui già gran tempo dimorato amore e avendo già nel suo core fatto nido, potere di lui fedelmente e con verità parlare come di cosa a sè domestica e familiare.

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COMENTARIO PARTICULAR

Estancia I

El tratar de un amor o del otro pertenece a diversas ciencias. Del amor vulgar trata el filósofo natural y el filósofo moral. Del amor divino trata el teólogo o, si queremos hablar al modo de los peripatéticos, el metafísico. Del uno y del otro habló Salomón excelentemente; del vulgar, en el Eclesiastés como filósofo natural y en Proverbios como [filósofo] moral; del divino y celeste en su Cántar y por ello Johanan y Manaen hebreos y Jonathan caldeo dicen que entre todos los cánticos de la sagrada escritura aquel es el más sacro y el más divino. De estos dos amores específicamente han tratado dos poetas en lengua toscana. Del amor vulgar, Guido Cavalcanti en una canción suya; del otro, esto es del celeste, nuestro Poeta en la presente obra; en la cual, si bien trata del uno y del otro, no menos trata principalmente del celeste y del otro no habla sino en cuanto es una imagen débil de aquel.

Amor, de cuyas manos suspendido el freno

y después muchos versos añade

Mueve mi lengua, esfuerza el ingenio

Este es el inicio de la presente canción. La otra, compuesta por Guido, comienza:

La dama me ruega si querré decir

Y es dicho por sus expositores que por aquella Dama se entiende Amor. En estos principios noto entre un poeta y el otro tres diferencias.

La primera es que Guido dice que el amor le ruega y nuestro Poeta dice que el amor lo fuerza. La segunda que aquí es llamado amor por su nombre propio, lo que no quiere hacer Guido. La tercera, que aquél lo figura como dama y éste no, sino por el nombre usado, amor, que suena como nombre masculino; estas diferencias no provienen de errores de uno de ellos ni de opiniones discordes, sino que uno y el otro hablan convenientemente según la naturaleza del amor, sujeto de su poema. Dije en el capítulo precedente que el amor vulgar es tratado por Guido y el celeste por nuestro poeta. Al amor vulgar no debe someterse el alma racional, sino dominarlo porque está colocado en el apetito sensitivo inferior y sujeto a la parte racional del alma. Por ello, hablando de él dice Guido que el amor le ruega no lo fuerza, para declarar que el apetito de los sentidos no puede hacer violencia a la razón, como muchos dicen, excusándose de sus vicios, que el consejo de la razón humana no puede resistir al ímpetu de la parte sensitiva, la cual bien puede rogar a la razón, esto es invitarla y alertarla sobre sus deseos; a los cuales, cuando son moderados, puede la razón condescender sin error y consentir, pero en modo alguno puede forzarla. Lo contrario sucede con el amor celeste que estando puesto, como en el segundo tratado se declaró, en la parte intelectiva, debe meritoriamente la racional, que es inferior, sujetarse a ella; ni jamás retiene la naturaleza inferior su libertad sino cuando es sierva enteramente de la superior a sí. Por ello, convenientemente se sujeta nuestro Poeta a la violencia del amor celeste conociendo en ella grandísima libertad. La razón de la otra diferencia, esto es que Guido no llama amor por su propio nombre, es porque el amor vulgar no es verdadero amor sino así como la belleza sensible no es la verdadera belleza, sino que es imagen de ella, así él es un simulacro y una sombra del amor celeste, al cual solo propiamente se atribuye el sacratísimo nombre de amor y al otro no conviene de ningún otro modo que como se suele llamar a la estatua de Hércules, Hércules y a la figura de Helena, pintada o esculpida, Helena.

La razón de la tercera diferencia, que por Guido el amor es significado con nombre femenino y por nuestro poeta con nombre masculino, es porque el amor vulgar, respecto del celeste, tiene una proporción de cosa imperfecta a cosa perfecta y la naturaleza imperfecta fue significada por lo

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femenino y la perfecta por lo masculino según Pitágoras; no restará sino agregar a esto que el amor vulgar, esto es de la belleza corporal, puede ser más conveniente respecto a las mujeres que respecto a los hombres. En el celeste sucede lo contrario, como está escrito en el discurso de Pausanías por Platón en el Convivio, ya que el vulgar, al ser pasión del alma sensitiva, es muy propicio a dejarse precipitar al congreso del coito, por ser esta parte del alma más irracional que racional; este acto, cuando el hombre cae [en él] vencido por la fragilidad, es menos inconveniente en el sexo femenino que en el otro. Lo opuesto sucede en el amor celeste, en el cual no hay este peligro, sino que todo tiende a la belleza espiritual del alma y del intelecto; la cual se encuentra mucho más perfecta en los hombres que en las mujeres, como se ve de toda otra perfección. Pero todos aquellos que por este divino amor han sido ascendidos, han, la mayor parte, amado algún joven de índole generosa, cuya virtud le ha sido al otro tanto más grata cuando ha estado en un cuerpo bello, y no se afeminaron tras una manada de meretrices, las cuales no sólo no inducen al hombre a ningún grado de perfección espiritual, sino como Circe, lo transforman del todo en bestia. Sócrates amaba con este casto amor no sólo a Alcibiades, sino a todos los más ingeniosos y legendarios de la juventud de Atenas. Así, fue Zenón amado por Parménides; Museo por Orfeo; Nicómaco por Teofrasto; Clinias por Jenofonte. Todos los cuales no deseaban conseguir con sus amados alguna obra sucia, como creen muchos que con la medida de sus deseos vergonzosos miden los pensamientos celestes de aquellos, sino solo –a través del excitarse por la belleza corporal exterior– mirar aquella del alma de la persona amada, de la cual emanó y llega la corpórea y, siendo la del alma una participación de la belleza angélica, surgiendo más arriba, elevarse a un grado más sublime de contemplación, tanto que se llegue a la primera fuente de toda belleza que es Dios. Este es el fruto que buscaba Platón con su amor y no aquel vituperio que le imputa Dicearco. Este mismo [con]seguía Sócrates quien muchas veces, excitado por la belleza de Fedro, cerca del río Íliso cantó los altísimos misterios de la teología.

De cuyas manos… el freno. Entre los otros órdenes de la divina sapiencia puestos en las cosas creadas se ve principal[mente] esto: que toda naturaleza inferior es gobernada por la inmediata superior a sí y mientras a ésta obedece, la inferior está libre de todo mal, se conduce a su felicidad determinada sin impedimento. Si, por amar demasiado su propia libertad y por anteponer una vida licenciosa a la más útil, se rebela a la obediencia de la naturaleza superior como un muchachito del yugo del maestro, cae en doble pena. La primera es que, como nave abandonada por el timonel, ora se bate en este escollo ora en aquel otro, sin esperanza de puerto. La otra es que pierde el imperio sobre las otras naturalezas a sí sujetas como ella lo era respecto a la cual se rebela, lo que, porque sea más manifiesto, declararemos a través del ejemplo de los sacros misterios de los teólogos. La naturaleza irracional está gobernada por la providencia de otro y por su imperfección no es apta para el gobierno de ninguna otra criatura, así como Dios no necesita de la providencia de ningún otro y por su inefable excelencia a toda cosa provee. Entre Dios y los animales brutos como dos extremos existen la naturaleza de los ángeles y la naturaleza de las alma racionales, las cuales son gobernadas por otro y tienen a otros bajo su gobierno. Los primeros ángeles, por Dios iluminados inmediatamente y como adoctrinados, amonestan y aconsejan a los ángeles inferiores, como también se lee en el profeta Daniel y es explicado por Dionisio Areopagita más largamente. El último órden de los ángeles, a nosotros inmediatos, es llamado démones por los Platónicos y Pitagóricos e Issim por los hebreos, que se deriva de Is que significa hombre, como custodios y pastores de los hombres, y dedicado a nuestro gobierno, así como nosotros al gobierno de toda la naturaleza irracional; por ello dice David rectamente que los hombres son poco disminuidos respecto a la naturaleza angélica y bajo sus pies están sujetos los rebaños, los peces, los pájaros y todas las fieras irracionales; por esas palabras etiam es de notar que mucho más distantes están las bestias de nuestra perfección que nosotros de la angélica; lo que significa diciendo que los brutos están bajo nuestros pies y nosotros, respecto a la dignidad angélica, poco disminuidos. Entonces, mientras los primeros angéles se sujetan al yugo de la potestad divina, retienen su propia dignidad, el imperio y la autoridad sobre las otras criaturas; cuando etiam por un amor desmesurado de su propia excelencia aspiran a la igualdad con Dios y que como él, sin otra ayuda, se quieren conservar por su propia fuerza (en este error no pueden caer ahora por el don de la gracia en la cual son confirmados, pero Lucifer y

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sus secuaces cayeron ya, como dicen nuestros teólogos y los antiguos cabalistas) entonces son desde su beatitud precipitados en la extrema miseria de la perdición y les es cortado todo imperio sobre las otras criaturas, como le fue a Lucifer, quien ahora, viéndonos libres de su dominio, envidioso embosca a todas horas nuestros bienes. Igualmente, mientras que Adán se sujetó a la obediencia de los superiores y no se rebeló al precepto y consejo divino, fue felicísimo y señor de todos los animales, y lo uno y lo otro perdió cuando, por la concupiscencia de asemejarse por la ciencia del bien y del mal a Dios y por esta vía liberarse de su gobierno −como de aquello que no es más necesario−, se desvió del mandato divino gustando el fruto vetado. Este mismo orden se ve en el pequeño mundo, esto es en nuestra alma, en la cual las potencias inferiores son corregidas y enseñadas por las superiores y mientras a ellas crean, proceden sin error en todas sus obras. La imaginativa corrige con frecuencia los errores de los sentidos exteriores; la razón educa a la imaginativa y la razón es iluminada por el intelecto, y no cae en error sino cuando o la imaginación demasiado soberbia no presta fe a la razón, o la razón, adversa al intelecto, se confía demasiado en sus propias fuerzas. Igualmente, en las potencias apetitivas, el apetito sensitivo es gobernado por el racional y el racional por el intelecto; lo que sutilmente ha tocado aquí nuestro Poeta diciendo que el freno de su corazón pende de las manos del amor.

Declaramos en el segundo libro que el amor celeste es apetito intelectual; por ello en toda alma bien compuesta debe ser gobernado todo otro apetito por éste, el cual gobierno aquí es denotado por el freno, imitando el hablar del Fedro. Dice entonces que su corazón es frenado por amor, esto es que todo su deseo de éste depende, y dice corazón porque comúnmente, como es observado por los filósofos y por las letras sagradas, se atribuyen las operaciones de las potencias cognitivas del alma a la cabeza y las del apetito al corazón.

Y en cuyo sacro reino. No puede un hombre que de otros espera un nuevo beneficio por mejores medios provocar hacia sí la liberalidad de aquel tal que motrándose agradecido por los beneficios recibidos primeramente. Por ello nuestro Poeta, esperando socorro de amor para la empresa presente, hace demostración de un ánimo agradecidísimo para que la amorosa llama, por la cual el ingenio del poeta ha sido elevado a la superna belleza intelectual, no en cuanto se refiere al principio, ni en cuanto a su aumento o en sus méritos o en sus fuerzas, sino humildemente llamándose indigno de ella, muestra ser nacida y nutrida en él por clemencia del amor.

Pero el corazón…Demostrado como la fuerza y el mandato de amor lo ha conducido a esta empresa, en el resto de esta primera estancia declara dos cosas, y si por su fuerza no puede esperar sostener tanto peso, con el socorro de amor espera todo el efecto deseado.

Y a la lengua… La misma incapacidad que hace a la lengua no poder ser apta ministra para tal obra la hace etiam impotente para resistir o repugnar una fuerza mayor que la mueve a decir.

…aquellas alas

ha prometido …

Toca el Poeta aquí una sentencia solemne de los teólogos metafísicos, y es que toda vez que se dice que alguna virtud superior desciende en nosotros, no se debe entender que ella, descendiendo de su sublimidad se ponga en un lugar inferior para conjuntarse con nosotros, sino que nos jala por su virtud hacia sí y su descender en nosotros es un hacernos ascender hacia sí, porque de otra forma por tal conjunción resultaría imperfecta aquella virtud y no habría perfección en quien la recibe. Y lo que engaña la imaginación común de los vulgares es concebir la conjunción de las cosas espirituales similar a la de las cosas corporales, las cuales se conjuntan por aproximación de sitio y de lugar; así creen que la luz intelectual de nuestra alma no se puede conjuntar, si aquello −como habitante de un lugar superior− no desciende como del cielo a la tierra para copular con nosotros; y esto significa nuestro Poeta diciendo que las mismísimas alas con las cuales amor desciende, son en él aquellas con las cuales él se eleva a la sublime contemplación de los misterios de las cosas amorosas.

Aunque en su cima… Aquí demuestra el Poeta dos cosas: la primera, que este amor, bajo la señoría del

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cual él ha vivido y vive, es aquel amor celeste y no vulgar, diciendo que amor se posó en la cima de su corazón, significando por esto las potencias superiores del alma eterna, siendo las inferiores, como las sensitivas, albergue del amor vulgar. La otra es que denota, por haberse en él amor demorado ya mucho tiempo y habiendo ya en su corazón hecho nido, poder de él hablar fielmente y con verdad como de una cosa a sí doméstica y familiar.

Stanza seconda

Io dirò come amor....

In questa stanza fa l‘autore dua cose: prima brievemente propone quello che lui ha a dire d‘amore; di poi, quasi mosso per la recente commemorazione della grandezza della materia che lui propone di trattare, ritorna alla invocazione, insieme con Amore invocando in suo aiuto Apollo. Dice quanto alla prima parte che lui dirà come

.... Amor dal divin fonte

Dell‘increato ben....

cioè della beltà divina, primo principio, come è stato dichiarato, d‘ogni bellezza e conseguentemente d‘amore che di lei nasce, s‘infonde qua giù, cioè negli animi nostri ne‘ quali ultimamente si termina tale influsso.

E dirà, il che fa nella seguente stanza, quando in pria nacque, cioè come prima nacque nella mente angelica ne‘ natali di Venere, cioè della ideale bellezza, della quale nel secondo libro tre cose principali furono dette: la prima, è che l‘ordine di quelle idee, che noi proviamo per Venere denotarsi, è l‘ordine della providenzia dalla quale questo mondo inferiore è retto e governato; la seconda è che quello ideale splendore per liberale participazione della angelica mente all‘anima nazionale è participato, della quale ultimamente già per amorosa conversione dalla mente perfetta sono mossi e‘ corpi celesti. Di queste tre cose promette el Poeta parlare, di sotto dicendo che dirà come Amore Mov‘el ciel, l‘alme informa el mondo regge.

E comincia dal moto del cielo, che è l‘ultimo effetto, e da quello ordinatamente ascende al primo, che è il reggere el mondo con la retta regula della providenzia, benchè poi nell‘essequire la promessa dichiarazione tenga ordine retrogrado, il che è fatto dal Poeta per significare che, quantunque nella inquisizione di una verità, quando di lei oscuro lume e confusa cognizione all‘intelletto pare, sia conveniente e necessario ordine, come Aristotile dichiara, procedere dalle cose inferiori, come più propinque e più note a noi, alle superiori; nondimeno, dopo la già trovata verità, chi ha di lei scientificamente e, come Platone per tutto osserva, divinamente a parlare, debbe nel suo scrivere servare l‘ordine della natura delle cose stesse, cioè che, come delle cose superiori emanano e provengono le inferiori, così dalla cognizione di quelle alla cognizione di queste con scientifico ordine si descende. Di questi tre effetti universalmente per tutta la canzona, secondo che il loco richiede, parla el Poeta, ed è da intendere amore essere cagione di questi effetti non effettiva, perchè lui non è quello che le idee nella mente angelica produca, chè questo è Iddio, nè che l‘alma illustri dello splendore ideale, chè questo fa la mente, nè che il cielo muova, chè altro motore non ha che l‘anima propria; ma dicesi causa perchè sanza lui non seguirebbono dalle loro principali cause gli predetti effetti, perchè, se la mente a Dio e l‘anima alla mente non si convertissi, della quale conversione è causa Amore, nè in quella le idee nè in questa quelle specifiche ragioni descenderebbono, dalle quali, se l‘anima non fussi perfetta e illuminata, non sarebbe atta causa ad eccitare quel moto del cielo, dal seno della materia inferiore, queste forme sensibili. Dichiarerà dunque el Poeta e come amore è causa di questi effetti; poi ultimamente dirà come sieno gli uomini per virtù dello amore celeste sforzati ad elevarsi da terra, cioè dalle cose sensibili, al cielo, cioè alle cose sublimi e spirituali; e dirà con qual legge e per qual modo ora in noi viva quel celeste amore che al cielo ne volge, ora quel vulgare che a terra ne piega, ora in un

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mezzo stato fra questi dua estremi ne ponga, come e lui nell‘ultime stanze toccherà e come da noi fu nel precedente libro diffusamente dichiarato.

Sotto el celeste amore si comprendono el quinto e sesto grado d‘amore, e sotto el vulgare el primo e secondo e terzo, e per lo stato di mezzo s‘intende il quarto grado, de‘ quali qui non bisogna parlare, perchè nel principio della V, VI e VII stanza, nelle quali el Poeta ne parla, largamente ne tratteremo. Quanto alla seconda parte, uno dubbio solo è da dichiarare, per che cagione dal Poeta in suo soccorso è invocato e Amore e Apollo: per il che è da sapere che a ciascuno che di qualche materia ha a parlare sono necessarie dua cose. Prima, el concepere di quella la sua natura profondamente; e seconda, el potere e‘ suoi concetti con accomodato ed elegante modo esplicare di fuori o scrivendo o ragionando. Per consecuzione della prima è necessario, non solo nella mente avere di quella cosa buona cognizione, ma in quella al tutto trasformarsi; nè mai tratterà bene uno mesto caso chi prima dentro l‘animo proprio di mestizia non veste, e chi d‘uno atto marziale, come d‘una guerra fatta, ha a scrivere, non basta la semplice cognizione di quella, ma bisogna, volendo quella col suo parlare effingere e esprimere, prima comporre sè stesso dentro a simile disposizione, e così è in ogni altra materia; però chi d‘amore ha a parlare bisogna che in amore si trasformi. Chi può l‘acqua trasformare in foco se non el foco? Chi può noi trasformare in amore se non amore? Bisogna adunque a chi di lui scrive el soccorso suo, però che di lui non può scrivere chi non diventi lui. Per consecuzione della seconda è necessario l‘aiuto di chi a noi ha a dare el dono di eloquenzia, il che dagli antichi è attribuito alle Muse e ad Apollo. Per questa cagione adunque è dal Poeta nostro invocato Apollo e Amore, così come da chi o di nozze o di guerre scrive, oltre alla invocazione de‘ dei datori della eloquenzia, è da questo invocato Marte e Imeneo da quello, la qual cosa assai più diffusamente nel primo libro della nostra Poetica teologia dichiareremo.

Qui basta questo alla presente espositione; nè sanza cagione è che la invocazione d‘Amore fu sola, e quella di Apollo non fu sanza accomodata replicazione, aggiungnendo quella d‘Amore. Perocchè bene si può concepere di una cosa el vero e intendere perfettamente e di lei non parlare nè scrivere; ma non può parlarne o scriverne bene, chi prima non la concepe o intende. Però non può l‘aiuto di Amore e beneficio suo in noi circa questo essere per sè sanza avere seco insieme lo aiuto di Apollo. Non può quello di Apollo per alcun modo stare sanza quello d‘Amore, aggiugnendovi questo che, come el concepere la cosa è prima che l‘esplicarla, così dovea meritamente, come el Poeta nostro ha fatto, precedere la invocazione d‘Amore, fatta nella prima stanza, quella di Apollo, che ora fa nella seconda.

Estancia segunda

Yo digo cómo amor…

En esta estancia el autor hace dos cosas: primero propone brevemente aquello que va a decir sobre el amor, después, como movido por la reciente conmemoración de la grandeza de la materia que se propone tratar, retorna a la invocación, invocando en su ayuda a Apolo junto con Amor. Dice en cuanto a la primera parte que él dirá como

…amor de la divina fuente

Del increado bien…

esto es de la belleza divina, principio primero, como ha sido declarado, de toda belleza y consecuentemente del amor que nace de ella, aquí abajo se infunde, esto es en nuestras almas en las cuales últimamente se termina tal influjo.

Y dirá, lo que hace en la siguiente estancia, cuándo es primero nacido, esto es como primero nace en la mente angélica en el natalicio de Venus, esto es de la belleza ideal, de la cual en el segundo libro fueron dichas tres cosas principales: la primera, que el orden de aquellas ideas, que nosotros probamos ser denotadas por Venus, es el orden de la providencia por la cual este mundo inferior es sostenido y gobernado; la segunda es que ese esplendor ideal es participado al alma racional por participación

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liberal de la mente angélica, por la cual últimamente, por amorosa conversión de la mente perfecta, son movidos los cuerpos celestes. De estas tres cosas promete hablar el Poeta, abajo diciendo que dirá como Amor:

Mueve el cielo, el alma informa y el mundo rige

Y comienza con el movimiento del cielo, que es el último efecto y del cual asciende ordenadamente al primero, que es el sostener el mundo con la recta regla de la providencia, aunque después en el seguir la declaración prometida tenga orden retrógrado, lo que es hecho por el Poeta para significar que, aunque en la indagación de una verdad, cuando ella aparece al intelecto con oscura luz y cognición confusa, sea conveniente y necesario al orden, como declara Aristóteles, proceder de las cosas inferiores, como más próximas y más notadas por nosotros, a las superiores; no menos después ya encontrada la verdad, quien ha de hablar sobre ella científicamente, como Platón observa respecto a todo, debe en su escrito conservar el orden de la naturaleza de las cosas mismas, esto es que, como de las cosas superiores emanan y provienen las inferiores, así en la cognición de aquéllas a la cognición de éstas se desciende con orden científico. De estos tres efectos universalmente habla el Poeta por toda la canción, según que el lugar lo requiera; y es de entenderse que amor sea la razón no efectiva de esos efectos, porque él no es aquello que produce las ideas en la mente angélica, que esto es Dios, ni que ilustra al alma con el esplendor ideal, que esto hace la mente, ni que mueve el cielo, que no tiene otro motor que la propia alma. Pero se dice causa porque sin él no se seguirían de sus causas principales los efectos antes dicho, porque si la mente a Dios y el alma a la mente no se convirtieran −de cuya conversión Amor es causa− no descenderían en aquélla las ideas ni en ésta las razones específicas, de las cuales, si el alma no fuera perfecta e iluminada, no sería causa apta al excitar el movimiento del cielo de estas formas sensibles a partir del seno de la materia inferior. Declarará entonces el poeta cómo el amor es causa de estos efectos; después dirá últimamente cómo son forzados los hombres, por virtud del amor celeste, a elevarse de la tierra –esto es de las cosas sensibles– al cielo –esto es a las cosas sublimes y espirituales–; y dirá con qué ley y por cuál modo ora en nosotros vive aquel celeste amor que al cielo se vuelve, ora aquel vulgar que en la tierra se pega, ora en un estado medio entre estos dos extremos se ponga, como él lo tocará en las últimas estancias y como por nosotros fue declarado en el libro precedente profusamente.

Bajo el amor celeste se comprenden el quito y el sexto grados de amor, y bajo el vulgar, el primero, el segundo y el tercero y por el estado intermedio se entiende el cuarto grado, del cual aquí no es necesario hablar porque en el principio de las estancias V, VI, VII –en las cuales el Poeta habla de ello–, trataremos abundantemente. En cuanto a la segunda parte, sólo hay que aclarar una duda, porqué razón son invocados Amor y Apolo por el Poeta en su socorro: por lo que es de saber que para cada uno que de alguna materia va a hablar son necesarias dos cosas. Primero, el comprender su naturaleza profundamente; y segundo, el poder explicar sus conceptos con modo acomodado y elegante por fuera, o escribiendo o razonando. Para conseguir lo primero es necesario, no sólo tener en la mente buena cognición de la cosa, sino en ella transformarse del todo; y nunca tratará bien un caso triste quien primero dentro de su propio ánimo no viste de tristeza; y a quien de un acto marcial, como de una guerra hecha, va a escribir no basta la simple cognición de aquella, sino que es necesario, queriéndola con su hablar retratar y explicar, primero componerse a sí mismo dentro de una disposición similar; por ello, quien ha de hablar de amor es necesario que en amor se transforme. ¿Quién puede el agua transformar en fuego sino el fuego? ¿Quién puede transformarnos en amor sino amor? Necesita entonces quien de él escribe el socorro suyo; por ello sobre él no puede escribir quien no se convierte en él. Para conseguir lo segundo es necesario la ayuda de quien nos dará el don de la elocuencia, que es atribuido por los antiguos a las Musas y a Apolo. Por esta razón entonces es invocado Apolo y Amor por nuestro Poeta, así como por quien de nupcias escribe o de guerra –además de la invocación de los dioses dadores de elocuencia– es invocado Marte por éste e Imeneo por aquél, lo cual declararemos más profusamente en el primer libro de nuestra Teología poética.

Aquí esto basta para la presente exposición; y no sin razón la invocación de Amor fue sola, y aquella de

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Apolo no fue acomodada sin réplica, añadiendo la del Amor. Ya que bien se puede concebir de una cosa lo verdadero y entenderla perfectamente y de ella no hablar ni escribir; pero no puede hablar de ella o escribir bien quien primero no la concibe o entiende. Por ello no puede la ayuda de Amor y su beneficio en nosotros acerca de esto ser por sí, sin tener consigo junto la ayuda de Apolo. No puede aquel de Apolo por algún modo estar sin aquel de Amor, añadiéndose esto que, como el concebir la cosa es primero que explicarla, así debía meritoriamente, como nuestro Poeta ha hecho, preceder la invocación de Amor, hecha en la primera estancia, a aquella de Apolo, que ahora hace en la segunda.

STANZA TERZA

Quando dal vero ciel converso scende… In questa terza stanza dichiara el Poeta nostro elegantissimamente ove prima nasce amore e come nasce e quello che in fine è amore; e perchè nel secondo libro è da noi tutta questa materia copiosamente trattata, qui basterà la semplice esposizione delle parole. La summaria sentenzia di tutta la stanza è questa che, quando da Dio descende nella mente dello Angelo, prima prole, cioè prima creatura di Dio, la copia delle idee, desiderando l‘Angelo la perfezione di quelle, a Dio si rivolge e da lui consegue piena possessione di quello che desiderava, il che quanto più pienamente ha in sè, tanto ama più ardentemente. E infine conclude che quel desiderio, che dalla mente quanto è in sè oscura e dalle idee in lei ricevute nasce, è quello amore di che nella presente stanza lui parla. Dice dunque Quando dal vero cielo.... cioè da Dio primo fra tutte le cose, come è il cielo fra tutte le corporale; e dice vero perchè da‘ Pitagorici e universalmente dagli antichi teologi sono le cose intelligibile e spirituale essistimate essere sole vere cose e le sensibile essere immagine e ombra di quelle e quasi differenti da loro come uno oro d‘alchimia, che è fatto dall‘arte ad imitazione del vero oro e naturale. E perchè fra el filosofo e el sofista è la medesima differenzia, chè el filosofo cerca el vero e el sofista l‘apparente, però dicono li antiqui platonici essere l‘opifice delle cose sensibili chiamato sofista; ma per non dare materia ad alcuno d‘errare, è da notare che Dio non si chiama vero e intelligibile cielo, come quello che sia idea di questo sensibile, però che, come nel primo libro fu dichiarato, le idee sono nella prima mente da Dio produtta, ma chiamasi cielo per via di similitudine e di traslazione perchè, come el cielo, che è una parte del mondo suprema, tutte l‘altre cose mondane in sè contiene e salva, così Dio nello infinito ambito della sua indivisibile e simplicissima unità ogni cosa creata chiude e conserva. Scende el divin sole, cioè la luce delle idee emanante da Dio, autore d‘ogni luce spirituale come el sole celeste d‘ogni luce sensibile; e dicesi scendere el sole ove descende el lume e la virtù sua. Nell‘angelica mente: mente e intelletto è quello medesimo che, cioè il quale sole, illustra e ‘nforma, perchè, come di sopra fu dichiarato, quelle idee sono sustanziale forme dell‘Angelo; però non bastò a dire illustra, che solo dimostrava accidentale perfezione. La sua prima prole, cioè l‘Angelo prima creatura di Dio, sotto le vive frondi, cioè sotto l‘adornamento di quelle idee, el quale per che cagione sia dal Poeta per fronde significato fia chiaro a chi di quello si ricorderà che nel XIV capitulo del secondo libro fu detto, ed è che quella informe essenzia dell‘angelo è da Platone per li orti di Giove significata, nella quale le idee come sempre verdi e frondosi arbori sono da Dio piantate; e dice vive perchè viva si chiama quella cosa che ha in sè intrinseco principio da esequire l‘operazione sua, il che per largo vocabulo qualche volta è chiamato moto intrinseco. Di che segue che avendo l‘angelo mediante quelle idee intrinseco principio in sè da esequire l‘operazione sua, che è lo intendere, meritamente si può dire avere la vita da quelle, vita per certo nobile e degna, della quale dice David a Dio: «dammi intelletto e viverò», reputando chiunque sanza quello vive essere più morto che vivo e chi di quel participa viver di perfetta vita amabile e eterna, della quale quanto si può in questo mondo gustano assai e‘ filosofi contemplativi. Volse etiam l‘autore nostro dare l‘epiteto della vita alle idee per seguire Ioanni Evangelista, il quale, volendo significare ciò che da Dio fu creato essere in lui prima suto secondo l‘essere ideale, disse «e tutte le cose fatte in lui erano vita». Accordansi a ciò e‘ secreti misterii de‘ cabbalisti, e ‘quali alla seconda sefiroth, cioè numerazione, che dal primo padre procede ed è in sè la prima ideale sapienzia,

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attribuiscono el nome di vita. Lei che ‘l suo primo ben.... La luce e illumina e riscalda, ma prima illumina e poi riscalda, e poi che ha riscaldato più che prima perfettamente illumina, però che chi la riceve, poi che è dal calore infiammato, più simile fatto alla natura della luce, più atto assai diviene a essere da lei informato; così descendendo la luce ideale nella mente angelica prima la illumina, ma non perfettamente, ma poi che da tale luce nasce in lei un calore d‘ardentissimo desiderio e inestinguibile sete di saziarsi al fonte del predetto lume, portata da tale ardore quasi da uno carro di foco, al loco agiugne ove per infinita liberalità del primo padre, cioè di esso Dio in cui non alberga invidia, tanto del desiato lume quasi nettare dolcissimo in lei trabocca, quanto lei capace è al ricevere; e perchè quanto di quello più bee tanto più lo desidera, chè più gusta la sua dolcezza, però el Poeta soggiugne: Quinc‘el primo disio.... cioè di possedere la bellezza ideale perfettamente; el quale desiderio, cioè el quale amore, trasforma lei amante nella cosa amata. Questo, dico, tale disio allora, cioè quando dello splendore divino più in sè riceve per maggiore approssimazione al vivo sol dell‘increate luce, che è Dio, Mirabilmente allor s‘incende e‘ nfiamma per innato disio. Dimanderebbe forse alcuno perchè dice innato, conciosiachè quello disio in lei nasca dalle idee ricevute, le quali non da sè stessa possiede ma di fuori in lei provengono dal primo padre. Deesi respondere che quantunque d‘altronde riceva le idee, origine di questo desiderio, nondimeno non le riceve come cosa accidentale o distinta dalla sustanzia sua, ma come atto suo primo intrinseco e sustanziale, e per denotare questo el Poeta, e non dare occasione d‘errare, credendo queste idee descendere nell‘Angelo come distinte ed estrinseche dalla sua sustanzia, disse innato, cioè nativo, naturale e non accidentale disio questo ardore. Quell‘ardor quell‘incendio e quella fiamma.

Quel che qui el Poeta soggiugne nel secondo libro è dichiarato a sufficienzia, cioè come el desiderio di possedere la ideale bellezza, che nasce e dalla mente angelica in sè oscura e dalla luce prima perfetta in lei ritornata, è il primo amore che sia nel mondo ed è il più vero, così come la bellezza da lui amata è la più vera che pensare si possi. Ed è per le medesime cose dette chiaro come lui nasce di ricchezza e di povertà, e‘ quali da Platone Penia e Poro sono chiamati, e similmente come nasce allora che da Celio è produtta Venere che in Cipri s‘onora. Nè sanza causa el Poeta qui più tosto ha voluto con poetica leggiadria significare Poro e Penia ambedue per nomi di femmina, cioè ricchezza e inopia, che seguendo appunto le parole di Platone l‘uno per nome di maschio figurare, l‘altro di femmina; e questo ha fatto perchè la inopia e la ricchezza, cioè il possedere la cosa amata in qualche modo e in qualche modo esserne privato, non è principale e effettiva causa dello amore, la quale di sopra dicemmo che per il padre si significava, ma è sotto quella specie di causa la quale da‘ filosofi è detta, sanza la quale non segue l‘effetto; e perchè questa dicono e‘ Platonici ridursi alla specie e modo della causa materiale come meno principale e men degna, la quale per la materia si significa, però volse el Poeta e l‘uno e l‘altro per nome di femina significare.

Estancia Tercera

Cuando del verdadero cielo convertido desciende… En esta tercera estancia declara nuestro Poeta elegantisímamente dónde primero nace amor y cómo nace y aquello que en fin es amor; y porque en el segundo libro es tratado copiosamente toda esta materia, aquí bastará la exposición simple de las palabras. La sentencia sumaria de toda la estancia es esta: que, cuando de Dios desciende la abundancia de las ideas en la mente del Ángel, primera prole, –esto es la primera criatura de Dios–, el Ángel deseando la perfección de aquéllas, se vuelve a Dios y de él consigue la plena posesión de aquello que deseaba; lo que cuanto más plenamente tiene en sí, tanto ama más ardientemente. Y al fin concluye que aquel deseo, que de la mente cuanto es en sí oscura nace por las ideas en ella recibidas, es aquel amor de que él habla en la presente estancia. Dice después:

Cuando del verdadero cielo…

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Esto es de Dios, primero entre todas las cosas, como es el cielo entre todas las cosas corporales; y dice verdadero porque por los Pitagóricos y universalmente por todos los teólogos antiguos las cosas inteligibles y espirituales son estimadas como las cosas verdaderas solamente y las sensibles son imágenes y sombras de aquéllas y tan diferentes de ellas como un oro de alquimia, que es hecho por el arte a imitación del oro verdadero, y [uno] natural. Y porque entre el filósofo y el sofista se encuentra la misma diferencia –que el filósofo busca la verdad y el sofista lo aparente–, por ello dicen los antiguos platónicos que el artífice de las cosas sensibles es llamado sofista; pero para no dar materia a alguno para errar, es de notar que Dios no se llama cielo verdadero e inteligible, como aquello que sea la idea de este sensible, sino que, como en el primer libro fue declarado, las ideas son producida en la primera mente por Dios, por ello se llama cielo por vía de similitud y de translación porque, como el cielo, que es una parte suprema del mundo, todas las otras cosas mundanas en sí contiene y salva, así Dios, en el ámbito infinito de su indivisible y simplísima unidad, a toda cosa creada encierra y conserva. Desciende el sol divino, esto es la luz de las ideas emanadas de Dios, autor de toda luz espiritual como el sol celeste de toda luz sensible; y se dice que el sol desciende donde desciende la luz y su virtud. En la mente angélica: mente e intelecto es aquel mismísimo que, esto es el sol, ilustra e informa, porque como fue declarado arriba, aquellas ideas son sustanciales a la forma del Ángel; pero no bastó decir ilustra, que solo demostraba perfección accidental. Su primera prole, esto es el Ángel, primera criatura de Dios, bajo las frondas vivas, esto es bajo el adorno de aquellas ideas, el cual por qué razón es significado por el Poeta con las frondas se hará claro a quien se acuerde de lo que en el capítulo XIV del libro segundo fue dicho: que aquella informe esencia del ángel es significada por Platón con los jardines de Júpiter; en la cual las ideas, como árboles siempre verdes y frondosos son por Dios plantadas; y dice vive porque viva se llama aquella cosa que tiene en sí el principio intrínseco de seguir su operación, el que por un vocablo lato es llamado algunas veces movimiento intrínseco. De lo que se sigue que teniendo el ángel mediante aquellas ideas principio intrínseco en sí de seguir su operación, que es el entender, meritoriamente se puede decir tener la vida de aquéllas, vida por cierto noble y digna; sobre la cual dice David a Dios: ―dame intelecto y viviré‖, juzgando que quien sin aquel vive está más muerto que vivo y quien de aquel participa vive con vida perfecta, amable y eterna, de la cual gustan –cuanto se puede en este mundo—suficientemente los filósofos contemplativos. Quiere etiam nuestro autor dar el epíteto de vida a las ideas por seguir a Juan Evangelista, quien queriendo significar que lo que por Dios fue creado primeramente fue en él según el ser de la idea, dice ―y todas las cosas hechas en él eran vida‖. Concuerdan con esto los misterios secretos de los cabalistas, quienes a la segunda sefiroth, esto es numeración, que procede del primer padre y es en sí la primera sabiduría ideal, atribuyen el nombre de vida.

Ella que su bien primero… La luz ilumina y calienta, pero primero ilumina y después calienta, y después que ha calentado ilumina más perfectamente que primeramente; por ello quien la recibe, después que es por el calor inflamado y hecho más semejante a la naturaleza de la luz, deviene más apto para ser informado por ella; así descendiendo primero la luz ideal en la mente angélica la ilumina, pero imperfectamente; pero después que de tal luz nace en ella un calor ardentísimo –deseo e inextinguible sed de saciarse en la fuente de la luz antes dicha, llevada por tales ardores como de un carro de fuego– llega al lugar donde por la infinita liberalidad del primer padre, esto es de Dios en quien no hay envidia, se desborda la luz deseada como néctar dulcísimo en ella, cuanto ella es capaz de recibirlo y porque cuanto más bebe de aquello tanto más lo desea porque más gusta su dulzura, por ello el Poeta añade:

Aquí el primer deseo…

Esto es, poseer la belleza ideal perfectamente; este deseo, el amor, trasforma a la amante en la cosa amada. Este deseo entonces, digo, cuando recibe más en sí del esplendor divino por la mayor aproximación al sol vivo por la luz increada, que es Dios,

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Maravillosamente entonces se enciende e inflama

por innato deseo. Preguntará tal vez alguno por qué dice innato, ya que aquel deseo nace en ella por las ideas recibidas, que no posee por sí misma sino que provienen de fuera de ella, del primer padre. A esto se responde que aunque de otros reciba las ideas, origen de este deseo, no menos no las recibe como cosa accidental o distinta de su sustancia, sino como su acto primero, intrínseco y sustancial, y para denotar esto el Poeta –para no dar ocasión a errar al creer que estas ideas descienden en el Ángel como distintas y extrínsecas a su sustancia– dice innato, esto es nativo, natural y no accidental deseo este ardor.

Aquel ardor, aquel incendio y aquella flama

Lo que añade aquí el Poeta es declarado en el segundo libro suficientemente, esto es cómo el deseo de poseer la belleza ideal que nace de la mente angélica −en sí oscura− por la luz primera perfecta a ella retornada, es el primer amor que existe en el mundo y es el más verdadero, así como la belleza por él amada es la más verdadera que se pueda pensar. Y es claro, por las mismas cosas dichas, cómo él nace de riqueza y de pobreza, los cuales son llamados Penía y Poros por Platón e igualmente cómo nace cuando Venus, que en Chipre se honra, es producida por Cielo. No sin causa el Poeta aquí más bien ha querido con elegancia poética significar a ambos, Poros y Penía, con nombres femeninos, esto es riqueza e inopia, que si se siguen puntualmente las palabras de Platón uno es llamado con nombre masculino, el otro con femenino; y esto ha hecho porque la inopia y la riqueza, esto es el poseer la cosa amada en algún modo y en algún modo estar privado de ella, no es la causa principal y efectiva del amor, la cual dijimos arriba que se significaba por el padre; sino que está bajo aquella especie de causa, que es mencionada por los filósofos, sin la cual no se sigue el efecto; y como los Platónicos dicen de ésta que se reduce a la especie y al modo de la causa material como menos principal y menos digna, la cual por la materia se significa, por ello quiso significar el Poeta el uno y el otro con nombre femenino.

STANZA QUARTA

Questi perchè....

La perfetta cognizione d‘ogni cosa consiste nell‘intendere e la natura sua propria e tutte le sue proprietate che conseguono a quella. Qualche volta per le proprietate a noi note investighiamo la natura della cosa e qualche volta, per opposito processo, dalla cognizione della natura in sè si perviene alla intelligenzia della proprietà, e questo modo è più perfetto assai, el quale in questo loco ha seguito el nostro Poeta che, dichiarato nella terza stanza la natura d‘amore, per quella nella presente ne dichiara la sua principale proprietà e d‘indi assegna la ragione dei più degni effetti che amore opera in noi.

Questi perchè.... Assegna la prima proprietà con la sua ragione, ed è che essendo el primo e vero amore, dal quale ogni altro amore depende, nato dalla ideale bellezza che si chiama Ciprigna, cioè Venere, per la ragione sopradetta bisogna che ogni amore a bellezza tenda e in quella si dirizi, e però non può ignuno desiderio di cosa deforme o turpe vendicarsi el sacratissimo nome di amore.

Quinc‘el pigro disio.... El secondo effetto di amore è questo: che per lui si eccita in noi el desiderio di quella beltà celeste e intelligibile, la quale avendo dimenticata l‘anima dal corpo oppressa, rimane in noi sopito e addormentato ogni disio di quella, ma per amore di nuovo eccitato si sveglia e dalla sensibile bellezza de‘ corpi a quella dell‘anima e d‘indi all‘angelica per onorata traccia guidandone, ultimamente nel seno d‘essa divinità, primo fonte d‘ogni bellezza, ne conduce.

Da lui el foco.... Mirabili e secreti misterii amorosi si contengono ne‘ cinque prossimi versi sequenti, e principalmente dove lui dice d‘amore in noi accendersi el foco, nel quale arde morendo el core e ardendo di quella morte tuttavia cresce. Dissimula per certo sotto brevissime parole uno altissimo

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senso, el quale è questo. Quanto l‘anima nostra è nell‘esercizio di qualche sua potenzia o virtù più efficacemente fissa, più debile rimangono le operazione dell‘altre, e quando ad una tutta si converte l‘altre mancono in tutto eccetto quelle nelle quale la vita dell‘animale consiste. Il che fia per esempio più chiaro: se uno è fortemente fisso nella immaginazione, mancono le operazioni delle virtù sensitive esteriore e vedesi per esperienzia di alcuni che, mentre nel pensiero d‘una cosa sono profondamente fissi, nè intendono chi gli parla nè veggono quel che dinanzi agli occhi gli è posto; così chi è tutto nella parte razionale converso pensa e intende con l‘occhio puro della ragione sanza avere seco in compagnia atto alcuno della immaginativa; similmente chi allo esercizio della parte intellettuale perviene, mancono in lui gli atti e le operazioni e della ragione e d‘ogni altra virtù inferiore cognoscitiva. E perchè, come nel primo libro fu detto, la parte razionale è propria dell‘uomo e per la intellettuale con gli angeli comunica, questo tale non più di umana vita ma di angelica vive e, morto nel mondo sensibile, nello intelligibile rinasce a più perfetta vita. El moto e la operazione è segno di vita, la privazione di questi è segno di morte. Dunque quando nell‘uomo niuna umana operazione appare è veramente morto quanto all‘essere umano e, se da quello passa all‘essere intellettuale, è per tale morte di uomo in angelo trasformato; nè altrimenti el detto si debbe intendere de‘ sapienti cabbalisti quando o Enoch in Matatron, angelo della divinità, o universalmente alcuno altro uomo in angelo dicono trasformarsi. E però se el divino e celeste amore, del quale lo autore parla, è desiderio intellettuale, come fu dichiarato nel secondo libro, nè a tale essere si può passare se prima quanto alla umana parte dell‘anima non si muore, meritamente dice el Poeta che mentre el core, cioè l‘anima umana che nel core alberga, arde nello amoroso foco, muore per quello ardore, ma in quello morendo non manca, anzi cresce, perchè da quel foco quasi santissimo olocausto tutta abruciata, sacrificata al primo Padre fonte della bellezza, per ineffabile grazia al tempio di Salomone d‘ogni ricchezza spirituale ornato, vero abitaculo della divinità, felicemente si conduce; inestimabil dono di amore, che fa li uomini equali alli angeli, admirabile virtù che per la morte a noi dona la vita. E di qui puoi intendere con quanto misterio da Platone nel Convivio e nella orazione di Fedro sia posta la fabula di Alceste e di Orfeo, della quale vedremo solo uno anagogico senso alla predetta nostra esposizione conforme, per il quale e la mente di Platone e la profundità di questa materia perfettamente dichiareremo. È adunque l‘intenzione di Platone di dimostrare come per alcuna via non sia da sperare di potere aggiugnere alla fruizione della intellettuale bellezza, se prima in tutto le inferiore potenzie abbandonando, la umana vita insieme con quelle non si abbandona; nè ama perfettamente, cioè d‘amore perfetto, chi per amore non muore. Dico di amore perfetto, perchè quello amore del quale nel secondo libro dicemmo lui essere immagine del celeste amore può albergare in chi ancora è uomo, conciosiacosachè esso nella parte razionale dimori; ma di quello il quale è puro e sinceramente intellettuale, l‘antiquità e dignità del quale è ivi da Fedro esposta, non può vestirsi chi prima di questa vita non si spoglia, separando non el corpo dall‘anima, ma l‘anima dal corpo. Però Alceste perfettamente amò, che all‘amato andare volse per morte, e morendo per amore fu per la grazia delli Dei a vita restituita, cioè regenerata in vita, non per corporale ma per spirituale regenerazione. Ma chiunque crede, non si spiccando in tutto dal sensibile mondo, ma in quello ancora vivendo, potere congiungersi alla perfetta sublimità ideale, obbietto del nostro amore, erra grandemente, però che le idee in sè e nell‘essere suo vero non si possono vedere se non con l‘occhio della virtù intellettuale, el quale seco non patisce consorzio di atto di inferiore virtù, ma ogni ora che eccita chi se gli appropinqua, abrucia e consuma e come vivacissimo foco in sè converte. Nell‘altre potenzie inferiore, o razionale o immaginarie, veggonsi non le idee in sè ma le loro immagine e similitudine, tanto più perfette nella ragione, detta intelletto passibile da‘ Peripatetici, che nella fantasia, ovvero immaginazione, quanto quella è più propinqua all‘intelletto; e questo nè più leggiadramente nè più suttilmente potea dichiarare Platone che per lo essemplo da lui addutto d‘Orfeo, del quale dice che, desiderando andare a vedere l‘amata Euridice, non volse andargli per morte, come molle e effeminato dalla musica sua, ma cercò modo di andargli vivo, e perciò dice Platone che non potè conseguire la vera Euridice, ma solo un‘ombra e uno fantasma di lei gli fu demonstrato. Nè altrimenti accade a chi crede, non si spiccando dalle operazione della immaginativa e della parte eziandio razionale, adiungere alla vera cognizione delle intellettuale idee, perchè non loro in sè e nell‘essere suo vero, ma qualche loro fantasma e similitudine, o nello intelletto passibile o nella

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immaginativa relucente, vede. Il quale senso benchè sia suttile e alto, nondimeno è alle cose tanto conforme che quasi maraviglia mi pare che e Marsilio e ogni altro, preso dalle parole di Platone, non l‘abbia inteso; e testimone me n‘è la conscienzia mia, che la prima volta che mai el Simposio lessi, non prima ebbi finito di leggere le parole sue in questo loco, che nella mente questa verità m‘apparve, la quale etiam nel commento nostro sopra ‘l Convivio e nella nostra poetica teologia più diffusamente esplicheremo. Questo nodo vo‘ lassare a svolgere a chi legge, che el medesimo serpente che privò Orfeo di Euridice, a lui, cioè a esso Orfeo, insegnò la musica e proibillo per propria morte racquistare l‘amata Euridice; nè più oltre vo‘ scoprire questo secreto et qui habet aures audiendi audiat. Solo per più sufficiente dichiarazione di questa materia è da sapere più oltre, che qualche volta si dice l‘anima essere separata dal corpo, ma non el corpo da lei; e questo è quando ciascuna delle potenzie dell‘anima, eccetto quella che ‘l corpo nutrisce, chiamata vegetativa, è ligata e non opera niente come se in tutto non fusse; il che, come è detto, accade quando la parte intellettuale, regina dell‘anima, è in atto e opera, che per la sua dignità non compatisce in sè l‘atto di alcuna altra potenzia, eccetto quello della potenzia nutritiva, le cui operazioni, per la grande distanzia sua da lei, non sono dall‘atto di quella in tutto annullate, benchè grandemente debilitate. Ma se molto si fortifica e si prolunga l‘operazione intellettuale, bisogna che eziandio con questa parte ultima vegetativa l‘anima si separi talmente che e lei dal corpo e il corpo da lei sia separato. Può dunque per la prima morte, che è separazione solo dell‘anima dal corpo, e non per l‘opposito, vedere lo amante l‘amata Venere celeste e a faccia a faccia con lei, ragionando della divina immagine sua, e‘ suoi purificati occhi felicemente pascere; ma chi più intrinsecamente ancora la vuole possedere e, non contento del vederla e udirla, essere degnato de‘ suoi intimi amplessi e anelanti baci, bisogna che per la seconda morte dal corpo per totale separazione si separi, e allora non solo vede e ode la celeste Venere, ma con nodo indissolubile a lei s‘abbraccia, e con baci l‘uno in l‘altro la propria anima trasfundendo, non tanto cambiano quelle, quanto che sì perfettamente insieme si uniscono, che ciascheduna di loro dua anime e ambedue una sola anima chiamare si possono. E nota che la più perfetta e intima unione che possa l‘amante avere della celeste amata si denota per la unione di bacio, perchè ogni altro congresso o copula più in là usata nello amore corporale non è licito per alcuno modo per traslazione alcuna usare in questo santo e sacratissimo amore; e perchè e‘ sapienti cabalisti vogliono molti degli antiqui padri in tale ratto d‘intelletto essere morti, troverai appresso di loro essere morti di binsica, che in lingua nostra significa morte di bacio, il che dicono di Abraam, Isaac, Iacob, Moyse, Aaron, Maria, e di qualcuno altro. E chi el predetto nostro fondamento non intende, mai la loro intenzione perfettamente intende; nè più ne‘ loro libri leggerai se non che binsica, cioè morte di bacio, è quando l‘anima nel ratto intellettuale tanto alle cose separate si unisce, che dal corpo elevata in tutto l‘abbandona; ma perchè a simil morte tale nome convenga non è stato da altri, per quanto ho letto, insino ad ora esposto. Questo è quello che il divino nostro Salomone nella sua Cantica desiderando esclama: «Baciami co‘ baci della bocca tua». Monstra nel primo verso Salomone la intenzione totale del libro e l‘ultimo fine del suo amore; questo Platone significa ne‘ baci del suo Agatone e non quel che molti, riguardando in se stessi Platone, credono di lui; nè più oltre che al bacio vedrai mai andare nè Salomone nè Platone nè chiunque d‘amore parlando del celeste ha ragionato.

Da lui el foco, per cui da lui deriva

Ciò ch‘n lui vive, in noi s‘accende, e dove

Arde morendo el cor, ardendo cresce.

Avemo dichiarato come el core nello amoroso foco ardendo more e per tal morte cresce a più sublime vita. La dichiarazione dell‘altra parte, cioè come per questo foco d‘amore deriva negli altri ciò che in lui vive, averemo pienamente nella esposizione del prossimo testo.

Per lui el fonte immortale.... Per el fonte immortale intende Dio e è nome attribuito a lui ancora dagli antiqui cabalisti, e, se amore non fussi, non descenderebbe da questo fonte la inestimabile copia delle vive acque che, prima nell‘angelica mente, ricevute d‘indi poi, pure per amore, nell‘anima piovano,

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dalla quale per el moto de‘ cieli si produce ciò che nel sensibile mondo di nuovo appresso a noi si genera. Non riceverebbe lo influsso della bontà divina l‘angelo se a lei non si convertissi, nè si converte per altro che per amore, come avemo detto, nè dell‘angelico lume participerebbe l‘anima, se parimente per amoroso desiderio a lui non si convertisse. Dunque è cagione amore della produzione d‘ogni cosa che da Dio procede, intendendo per amore quel che Platone e il Poeta nostro intende; non per amore che in lui sia, come Marsilio crede, perchè in lui sarebbe imperfezione, ma per l‘amore delle creature verso di lui, come avemo dichiarato e per il modo detto.

Da lui deriva ciò che in lui vive, cioè ciò che in quella mente vive; e per dichiarare el Poeta che questo amore non è uno accidente nè una qualità in quella mente, ma è a lei sustanziale, dice quello che è nella mente essere in quello amore, per el merito del quale è la perfezione delle idee in lei, e di poi nell‘anima derivando ne proviene e consegue la produzione e l‘ornato di ciò che nel sensibile mondo si contiene. Il resto della stanza per le sopradette cose è chiaro, nè ha bisogno di altra esposizione, e di sopra nel primo e secondo libro fu dichiarato quale sia quello amore eterno del quale l‘anima nostra arde continuamente, quantunque a noi, nel freddo della materia agghiacciati, non pervenga sentimento di questo caldo. Onde meritamente insieme con David ci possiamo condolere dicendo: l‘acque sono intrate nell‘intimo dell‘anima nostra; e beato è chi può dire: la grande multitudine dell‘acque di questo mio corporale abisso non ha potuto in me estinguere el foco del celeste amore.

Estancia cuarta

Estos porque…

La cognición perfecta de toda cosa consiste en entender su naturaleza propia y todas sus propiedades que se siguen de ésta. Alguna vez, por las propiedades notadas por nosotros investigamos la naturaleza de la cosa y alguna vez, por un proceso opuesto, por la cognición de la naturaleza en sí se llega a la inteligencia de la propiedad y este modo es más perfecto y éste ha seguido en este lugar nuestro Poeta que, declarada en la tercera estancia la naturaleza de amor, por ella en la presente declara sus principales propiedades y de allí asigna la razón de los efectos más dignos que amor opera en nosotros.

Estos porque … Asigna la primera propiedad con su razón que es que siendo el amor primero y verdadero, del cual depende todo otro amor, nacido de la belleza ideal que se llama ciprina, esto es Venus, por la razón arriba mencionada, es necesario que todo amor por la belleza tienda y se dirija a aquella; sin embargo, ningún deseo de cosa deforme o torpe puede reivindicar para sí el sacratísimo nombre de amor.

Aquí el primer deseo … El segundo efecto de amor es éste: que por él se excita en nosotros el deseo de aquella belleza celeste e inteligible; ya que el alma la olvidó por la opresión del cuerpo, todo deseo de ella permanece en nosotros aquietado y adormilado, pero de nuevo se despierta −excitado por amor y por la sensible belleza de los cuerpos− hacia aquella [belleza] del alma y de allí a la angélica, guiándose a través de una traza honorable, conduce a la fuente primera de toda belleza últimamente, en el seno de la divinidad.

Por él el fuego… En los siguientes cinco versos se contienen misterios maravillosos y secretos y principalmente donde él dice que se enciende el fuego del amor en nosotros, en el cual arde muriendo el corazón y ardiendo de aquella muerte todavía crece. Disimula por cierto, bajo estas brevísimas palabras, un sentido altísimo, que es esto. Cuando nuestra alma está fija más eficazmente en el ejercicio de alguna de sus potencias o virtudes, más débiles permanecen las operaciones de las otras y cuando se convierte toda hacia una, las otras faltan en todo excepto aquella en que consiste la vida del animal. Lo que se hace más claro por un ejemplo: si uno está fuertemente fijo en la imaginación, faltan las operaciones de las virtudes sensitivas exteriores y se ve por experiencia que algunos que, mientras en el pensamiento de una cosa están profundamente fijos, no escuchan a quien les habla ni ven aquel que está puesto delante de sus ojos; así quien está todo tornado en la parte racional piensa y entiende con el

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ojo puro de la razón sin tener consigo en compañía acto alguno de la imaginativa; igualmente quien al ejercicio de la parte intelectual llega, le faltan los actos y las operaciones de la razón y de toda otra virtud cognoscitiva inferior. Y porque, como fue dicho en el primer libro, la parte racional es propia del hombre y por la intelectual con los ángeles se comunica, éste no vive más con vida humana sino vive con [vida] angélica y muerto en el mundo sensible, en el inteligible renace a una vida más perfecta. El movimiento y la operación es signo de vida, la privación de éstos es signo de muerte. Entonces, cuando en el hombre no aparece ninguna operación humana, si por ello pasa al ser intelectual, es transformado en ángel por tal muerte de hombre; y no se debe entender de otro modo la sentencia de los sabios cabalistas cuando Enoch en Matatron, ángel de la divinidad –o universalmente algún otro hombre en ángel– dicen ser transformado. Y por ello, el amor divino y celeste, del cual habla el autor, es deseo intelectual, como fue declarado en el segundo libro; ni a tal ser se puede pasar si primero no se muere a la parte humana del alma; meritoriamente dice el Poeta que mientras el corazón, esto es el alma humana que en el corazón alberga, arde en el fuego amoroso, muere por este ardor, pero en ese morir no fallece, sino crece, porque por aquel fuego, como santísimo holocausto toda encendida, sacrificada al primer padre fuente de la belleza, se conduce felizmente por una gracia inefable al templo de Salomón ornado de toda riqueza espiritual y verdadero habitáculo de la divinidad. ¡Inestimable don de amor que hace a los hombres iguales a los ángeles, admirable virtud que por la muerte nos da la vida! Y de aquí se puede entender por cuantos misterios está compuesta la fábula de Alcestes y de Orfeo por Platón en el Convivio, en el discurso de Fedro, de la cual veremos solo un sentido anagógico conforme a nuestra exposición precedente, a través del cual declararemos perfectamente el pensamiento de Platón y la profundidad de esta materia. Es entonces la intención de Platón demostrar como por ninguna vía es posible esperar poder alcanzar la fruición de la belleza intelectual, si primero, abandonando del todo las potencias inferiores, la vida humana no se abandona junto con ellas; ni ama perfectamente, esto es con amor perfecto, quien por amor no muere. Digo de amor perfecto, porque aquel amor que decíamos en el segundo libro ser imagen del amor celeste puede albergarse en quien todavía es hombre, ya que éste mora en la parte racional; pero el que es puro y sinceramente intelectual –cuya antigüedad y dignidad está expuesta allí por Fedro– no puede vestirse quien primero no se despoja de esta vida, separando no el cuerpo del alma, sino el alma del cuerpo. Por ello, Alcestes amó perfectamente ya que al amado regresó a través de la muerte y muriendo por amor fue a la vida restituida por la gracia de los dioses, esto es regenerada en vida, no por regeneración corporal, sino espiritual. Pero quienquiera que cree poder conjuntarse con la perfecta sublimidad ideal, objeto de nuestro amor, sin despegarse del todo del mundo sensible y viviendo todavía en aquel, yerra grandemente, porque las ideas en sí y en su ser verdadero no se pueden ver si no con el ojo de la virtud intelectual, el cual consigo no sufre consorcio de acto de virtud inferior, pero toda vez que excita a quien se le aproxima, arde y consume y como fuego vivísimo en sí lo convierte. En las otras potencias inferiores, o racionales o imaginativas, no se ven las ideas en sí sino su imagen y similitud, tanto más perfectas en la razón, llamada intelecto pasible por los peripatéticos, que en la fantasía, o imaginación, cuanto aquella es más próxima al intelecto; y esto no pudo ser más elegante ni más sutilmente declarado por Platón que por el ejemplo aducido de Orfeo, de quien dice que deseando ir a ver a su amada Eurídice, no quería ir a través de la muerte, debido a la molicie y afeminamiento causados por su música, y buscó un modo de ir vivo. Por eso dice Platón que no pudo conseguir a la verdadera Eurídice, sino que sólo le fue mostrada una sombra y un fantasma de ella. Y no de otra manera ocurre con quien cree, sin despegarse de las operaciones de la (facultad) imaginativa y de la parte racional, llegar al verdadero conocimiento de las ideas intelectuales, porque no a ellas en sí ni en su ser verdadero, sino algún fantasma y similitud en el intelecto pasible o en la imaginativa reluciente, ve. Este sentido, aunque sea sutil y alto, no menos es conforme a la materia que casi me parece maravilloso que Marsilio y los otros, tomadas las palabras de Platón, no lo hayan captado; y en mi conciencia testimonio que la primera vez que leí el Simposio, no antes de haber terminado de leer las palabras suyas en este lugar, en mi mente me apareció esta verdad, la cual etiam en nuestro comentario sobre el Convivio y en nuestra teología poética más ampliamente explicaremos. Este nudo voy a dejar para deshacer a quien lee que la mismísima serpiente que privó a Orfeo de Eurídice, a él, esto es a Orfeo,

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enseñó la música y prohibió por propia muerte volver a la amada Eurídice; y no quiero descubrir este secreto más allá et qui habet aures audiendi audiat. Sólo para declarar suficientemente sobre esta materia hay que saber además por qué cada vez se dice que el alma es separada del cuerpo y no el cuerpo de ella; y esto es cuando cada una de las potencias del alma, excepto aquella que nutre al cuerpo llamada vegetativa, está atada y no opera nada como si en sí del todo no fuese; lo que, como es dicho, sucede cuando la parte intelectual, reina del alma, está en acto y opera, que por su dignidad no es compatible en sí con el acto de ninguna otra potencia, excepto aquel de la potencia nutritiva, cuyas operaciones, por su gran distancia de ella, no son anulantes del todo del acto de ella, aunque lo debiliten grandemente. Pero si se fortifican y se prolongan mucho las operaciones intelectuales es necesario que también el alma se separe de esta parte última vegetativa, de tal forma que ella del cuerpo y el cuerpo de ella sean separados. Puede entonces por la primera muerte, que es separación solo del alma del cuerpo, y no por lo opuesto, ver el amante a la amada Venus celeste y cara a cara con ella, razonando sobre su divina imagen, sus ojos purificados, felizmente nutrirse. Pero quien quiere más intrínsecamente todavía poseerla y no contento de verla y oírla, ser digno de sus abrazos íntimos y sus besos anhelantes, es necesario que por la segunda muerte del cuerpo con total separación se separe y entonces no solo ve y oye a la Venus celeste sino se abraza a ella con nudo indisoluble y con besos −el uno en el otro la propia alma transfiriendo−, no tanto cambian aquellas, sino que tan perfectamente juntas se unen, que cada una de las dos almas y ambas, una sola alma se pueden llamar. Y nota que la más perfecta e íntima unión que pueda el amante tener de la celeste amada se denota por la unión del beso, porque todo otro congreso o cópula más allá usada en el amor corporal no es lícito usar por ningún modo en ninguna translación en este santo y sacratísimo amor; y porque los sapientes cabalistas quieren que muchos padres antiguos murieron en tal rapto del intelecto, se encuentra según ellos, que murieron de binsica, que en nuestra lengua significa muerte de beso, lo que se dice de Abraam, Isaac, Jacob, Moisés, Aarón, María y algún otro. Y quien no entiende nuestro fundamento precedente, tampoco su intención entiende perfectamente; ni más en sus libros leerá sino que binsica, esto es la muerte de beso, es cuando el alma en el rapto intelectual se une tanto con las cosas separadas que, elevada del cuerpo, en todo lo abandona; pero por qué que a muerte similar un nombre tal convenga no es establecido por otros, en cuanto he leído, hasta lo ahora expuesto. Esto es aquello que nuestro divino Salomón en su Cantar deseando exclama: ―Bésame con los besos de tu boca‖. Salomón muestra en el primer verso la intención total del libro y el último fin de su amor; esto Platón significa en los besos de su Agatón y no aquello que muchos, viendo en sí mismos a Platón, creen de él; y nada más que al beso verán ir a Salomón y a Platón y a quienquiera que de amor celeste hablando ha razonado.

Por él el fuego, por el cual deriva Lo que en él vive, en nosotros se enciende y, donde Arde muriendo el corazón, ardiendo crece.

Hemos declarado como el corazón ardiendo en el fuego amoroso muere y por tal muerte crece a una vida más sublime. La declaración de la otra parte, esto es cómo por este fuego de amor deriva en los otros lo que en él vive, tendremos plenamente en la exposición del próximo texto.

Por él la fuente inmortal… Por la fuente inmortal entiende Dios y es nombre atribuido a él también por los antiguos cabalistas, y, si amor no existiera, no descendería de esta fuente la inestimable riqueza de las aguas vivas que, primero en la mente angélica recibidas, por amor puro llueven en el alma, de la cual por el movimiento de los cielos se produce lo que en el mundo sensible de nuevo cercano a nosotros es generado. No recibiría el influjo de la bondad divina el ángel si a ella no se conviertiera, ni se convierte por otra cosa que por amor, como habíamos dicho; ni de la luz angélica participaría el alma, si igualmente por deseo amoroso a ella no se convirtiera. Entonces amor es la razón de la producción de todas las cosas que de Dios proceden, entendiendo por amor lo que Platón y nuestro Poeta entienden; no porque el amor esté en él, como Marsilio cree, porque en él sería imperfección sino por el amor de las criaturas hacia él, como hemos declarado y por el modo dicho.

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Por el cual deriva lo que en él vive, esto es lo que en aquella mente vive; y para declarar el Poeta que este amor no es un acccidente ni una cualidad en aquella mente, sino que es sustancial a ella, dice aquello que es en la mente tal amor, por el mérito del cual existe la perfección de las ideas en ella, y después derivando en el alma que de él proviene, consigue la producción y el ornamento de lo que en el mundo sensible se contiene. El resto de la estancia es claro por las cosas antes dichas, no es necesaria otra exposición y arriba en el primero y segundo libro fue declarado cuál sea aquel amor eterno en el cual nuestra alma arde continuamente; en cuanto a nosotros −en el frío de la materia congelados− no llega el sentimiento de este calor. Donde meritoriamente junto a David nos podemos condoler diciendo: ―las aguas han entrado en lo íntimo de nuestra alma‖; feliz es quien puede decir: ―la gran multititud de las aguas de mi abismo corporal no ha podido en mí extinguir el fuego del amor celeste‖.

STANZA QUINTA

Come del primo ben....

Qui dichiara el Poeta come nasce Venere vulgare, cioè la sensibile bellezza, della quale materia avendo noi trattato nel secondo libro a sufficienzia, qui basterà una simplice esposizione delle parole dello autore. Così dunque come la mente angelica da Dio ha l‘essere, el vivere e lo intendere, così l‘anima razionale, che dalla mente è produtta, ha da lei lo intendere, el muovere, el fingere. Ciò è perchè l‘anima razionale intende sé e l‘altre cose incorporee, muove le corporee eterne, qual sono e‘ cerchi celesti, fabrica e finge le corporee corruptibili mediante el moto de‘ corpi eterni, perchè movendo loro, come lo autore soggiunge, depinge nella materia inferiore quelle forme delle cose che ha in sè concette, dalle quale forme, raggi dello intelligibile sole, è illuminata; e come lei dalla mente angelica le riceve, così alla materia le comunica. Dunque ciò che in sé contiene diffunde, producendo ogni altra natura particulare che è dopo lei; e perchè da essa, cioè dall‘anima razionale, è produtta l‘anima sensitiva e motiva del corpo, e similmente la vegetativa, come nel Timeo si pruova, però soggiunge el Poeta che ciò che di poi si muove vive e sente da lei ha tutte queste operazioni. Dunque da lei, cioè dall‘anima motiva de‘ cieli, chiamata Giove nel Simposio da Platone, nasce qua giù, cioè nella materia inferiore, significata da Platone per Dione, Venere, cioè la bellezza sensibile de‘ corpi, come dal cielo, cioè da Dio, nasce nello intelletto, cioè nella mente angelica, l‘altra Venere, che è la celeste bellezza.

L‘altra che dentro.... Chiude l‘autore nel fine di questa stanza, sotto brevissime parole, altissimi sensi della bellezza corporale, tratti delle medolle de‘ secreti misterii degli antiqui filosofi e teologi. Per intelligenzia de‘ quali è da sapere che essendo, come nel secondo libro provammo, la bellezza obbietto del viso, e ogni cosa visibile è visibile mediante la luce, seguita che l‘atto, la forma e l‘efficacia d‘ogni bellezza sia dalla luce, o corporale, se la bellezza è ne‘ corpi, o intelligibile o spirituale, se la bellezza è spirituale. Dunque quando prima le idee nell‘informe essenzia dell‘angelo discesono, era il loro essere come è l‘essere de‘ colori e figure visibile la notte, prima che sopra a loro lo splendore de‘ solari razi descenda. E come chi al notturno lume della luna un bel corpo vede, disidera in più chiara luce del giorno vederlo per potere più pienamente fruire quella bellezza, il che nell‘opaco e adumbrato lume della notte non gli è concesso, così vedendo l‘angelica mente la ideale bellezza in sè, ma opaca e tenebrosa, e non potendo quella nella notte della sua imperfezione e nelle tenebre della sua natura se non debilmente vedere però che, come la luna per sè non luce, così per sè, se al primo Padre non si converte, niuna perfezione possiede, desiderò con amoroso desiderio al paterno sole convertirsi, e del copioso lume di quello vestita e la bellezza sua fare più perfetta e l‘occhio suo intellettuale illustrare in tale forma che l‘amata bellezza potessi pienamente godere. Così si converse e, convertendosi, disse Iddio: «Sia fatta la luce», e fu sopra a lei fatta la luce; luce spirituale e intelligibile, che el volto della celeste Venere rende e in sè bellissimo e all‘occhio de la prima mente fa chiaramente essere visibile, la quale ringraziando la liberalità paterna e a lui conversa canta: «Segnato è sopra noi el lume del tuo volto. Tu se‘ fonte della vera vita e nel tuo lume noi vedremo lume». Non altrimenti nella beltà sensibile dua cose abbiamo a considerare: la prima è l‘obietto in sè che si vede, el quale, quanto alla prima sua sustanzia, è quel medesimo nella mezzanotte che nel mezzogiorno. L‘altra è la luce diurna

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che a quello congiungendosi è a lui quasi come è al corpo l‘anima. Avendo presuposito questo, s‘imagina el Poeta nostro che, come la prima parte della beltà sensibile procede dalla prima parte della beltà intelligibile, cioè le corporale forme da quelle forme ideale, così questa luce sensibile proceda e emani da quella luce intelligibile che sopra le idee descende, la quale fu opinione de‘ teologi fenici e fu di poi da Iamblico e da Iuliano platonici approvata. Però dice el Poeta, l‘altra, cioè la celeste Venere, che continuamente nel divin sole si specchia, e dice dentro al sole per dimostrare che quella mente, con tutto el suo sforzo a Dio convertendosi, a lui quanto più può intimamente si unisce; e dice che si specchia all‘ombra di quel che per lei a contemplar s‘avvezza, cioè all‘ombra della essenzia dell‘Angelo la quale, per la infermità sua facendo quel lume ideale alquanto opaco e tenebroso, è detto dal poeta fargli ombra. E dice che questa essenzia dell‘Angelo per questa Venere è a contemplarsi avvezza, perchè per quelle idee quella, come altrove avemo dichiarato, diventa intellettuale.

Questo dice così: come dal vivo sole che in lei refulge prende ogni sua ricchezza, cioè di quello splendore divino, così indulge, cioè dona, comunica e partecipa quella sua luce a questa, alla bellezza sensibile, dalla quale non altrimenti nasce l‘amore vulgare che da quell‘altra l‘amore celeste; e così come sempre quello la vulgare, così ancora questo la celeste vagheggia, seguita e desidera, come di sopra fu dichiarato, e però soggiugne e dice:

.... e come amor celeste in lei,

Così sempre ‘l vulgar pende in costei.

Estancia quinta

Como por el primer bien …

Aquí el Poeta declara cómo nace la Venus vulgar, esto es la belleza sensible; sobre esta materia, ya tratada en el segundo libro suficientemente, aquí bastará una simple exposición de las palabras del autor. Así como la mente angélica tiene el ser, el vivir y el entender de Dios, así el alma racional, que es producida por la mente, tiene de ella el entender, el mover y el plasmar. Esto es porque el alma racional se entiende a sí y a las otras cosas incorpóreas, mueve a los cuerpos eternos, como son los círculos celestes, fabrica y plasma los cuerpos corruptibles mediante el movimiento de los eternos; porque moviéndolos, como el autor añade, pinta en la materia inferior las formas de las cosas que ha en sí concebido, por estas formas, rayos del sol inteligible, es iluminada; y como ella de la mente angélica las recibe, así las comunica a la materia. Entonces esto que contiene en sí, difunde, produciendo toda otra naturaleza particular que está después de ella; y porque por ella, esto es por el alma racional, es producida el alma sensitiva y motora del cuerpo e igualmente la vegetativa, como se prueba en el Timeo, por ello añade el Poeta que esto que después se mueve y siente de ella tiene todas estas operaciones. Entonces de ella, esto es del alma motora de los cielos, llamada Júpiter en el Simposio de Platón, nace aquí abajo, esto es en la materia inferior, significada por Platón como Dione, Venus, esto es la belleza sensible en los cuerpos, como del cielo, esto es de Dios, nace en el intelecto, esto es en la mente angélica, la otra Venus que es la belleza celeste.

La otra que dentro… Cierra el autor el fin de esta estancia, con palabras brevísimas, sentidos altísimos de la belleza corporal y trazos de los núcleos de los misterios secretos de los antiguos filósofos y teólogos. Para inteligencia de los cuales hay que saber que siendo, como probamos en el segundo libro, la belleza objeto de la vista, y toda cosa visible es visible mediante la luz, se sigue que el acto, la forma y la eficacia de toda belleza se deba a la luz: corporal, si la belleza está en los cuerpos; inteligible y espiritual, si la belleza es espiritual. Entonces cuando primero descienden las ideas en la esencia informe del ángel, su ser era como es el ser de los colores y figuras visibles en la noche, antes que sobre ellos descienda el esplendor de los rayos solares. Y como quien ve un cuerpo bello bajo la luz nocturna de la luna, desea más clara luz del día para verlo y para poder disfrutar más plenamente de

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aquella belleza, lo que en la luz opaca y ensombrecida de la noche no le es permitido, así viendo la mente angélica la belleza ideal en sí, pero opaca y tenebrosa, y no pudiendo aquella en la noche de su imperfección y en las tinieblas de su naturaleza sino débilmente ver −como la luna no luce por sí; así, por sí, si al primer Padre no se convierte, ninguna perfección posee−, por ello deseó convertirse con amoroso deseo al sol paterno y por la abundante luz de aquél vestida, su belleza hacer más perfecta y su ojo intelectual ilustrar en tal forma que la belleza amada pudiera plenamente gozar. Así se convierte y, convirtiéndose, dice Dios ―Hágase la luz‖ y fue sobre ella hecha la luz; luz espiritual e inteligible, que el rostro de la Venus celeste rinde en sí bellísima y al ojo de la primera mente hace claramente ser visible, la cual agradeciendo la liberalidad del padre, volteando hacia él canta: ―Señalada está sobre nosotros la luz de tu rostro. Tu eres fuente de la vida verdadera y en tu luz veremos la luz‖. No de otro modo en la belleza sensible dos cosas tenemos que considerar: la primera es el objeto en sí que se ve, el cual, en cuanto a su primera sustancia, es el mismísimo en la medianoche que en el mediodía. La otra es la luz diurna que conjuntándose con aquel es respecto a él como el alma respecto al cuerpo. Habiendo presupuesto esto, se imagina nuestro Poeta que, como la primera parte de la belleza sensible procede de la primera parte de la belleza inteligible, esto es las formas corporales de aquellas formas ideales, así esta luz sensible procede y emana de aquella luz inteligible que desciende sobre las ideas, lo cual fue opinión de los teólogos fenicios y fue después aprobada por los platónicos Jámblico y Juliano. Por ello dice el Poeta, la otra, esto es la Venus celeste, que continuamente se refleja en el sol divino, y dice dentro al sol para demostrar que aquella mente, con todo su esfuerzo convirtiéndose a Dios, se une a él cuanto más íntimamente puede. Y dice que se refleja, a la sombra de aquel que al contemplar por ella se aveza, esto es a la sombra de la esencia del Ángel la cual, por su debilidad, haciendo aquella luz ideal al tanto opaca y tenebrosa, se dice por el poeta que le hace sombra. Y dice que esta esencia del Ángel, por esta Venus, es acostumbrada a contemplarse ya que por las ideas aquélla se vuelve intelectual, como en otro lugar hemos declarado. Esto dice así: como del vivo sol que en él refulge toma toda su riqueza, esto es de aquel esplendor divino, así infunde, esto es dona, comunica y participa su luz a ésta, a la belleza sensible, por la cual no de otro modo nace el amor vulgar que por la otra el amor celeste; y así como siempre aquello la vulgar, así todavía esto la celeste anhela, sigue y desea, como fue declarado arriba, y por ello añade y dice:

y como el amor celeste en ella Pende, así el vulgar sigue aquella.

STANZA SESTA

Quando formata in pria...

Prima che alla esposizione di questa stanza descenda, perchè in lei si tratta come la particulare beltà di uno corpo nell‘animo d‘altrui accende foco d‘amore, non sarà se non utile della predetta bellezza dare qualche lume e cognizione. È dunque da considerare che nella bellezza de‘ corpi, che a noi nella luce del dì si manifesta, dua cose appareno a chi bene la considera. La prima è la materiale disposizione del corpo che consiste nella debita quantità delle sua parte e nella conveniente qualità. La quantità è nella grandezza de‘ membri, se l‘è secondo la proporzione del tutto conveniente, e nel sito loro e distanzia l‘uno dall‘altro. La qualità è nella figura e nel colore. La seconda è una certa qualità che per più proprio nome che di grazia non si può chiamare, la quale appare e resplende nelle cose belle, e pare a me che propriamente si vendichi el nome di Venere, cioè di bellezza, perchè lei è quella sola che l‘amoroso foco negli umani cori accende. Questa vogliono molti che resulti e nasca dalla prima disposizione del corpo, cioè che dal sito, figura e colori de‘ membri resulti nel tutto questa grazia; contro alla qual sentenzia, a mio iudicio debbe bastare la esperienzia, perchè molte volte vedremo uno corpo da ogni canto inaccusabile e perfettissimo in ogni sua parte quanto a tutte le condizioni sopradette, e

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nondimeno el vedremo privato d‘ogni grazia; e per contrario qualche volta si vedrà in uno corpo, che e nella figura e nel colore potrebbe essere assai meglio proporzionato, apparire nondimeno mirabil grazia. Questo molto bene dichiara Catullo in uno suo epigramma dove dice:

Quinzia a molti par bella, agli occhi miei

Candida, longa, retta, in sè ciascuna

Parte di quest‘esser confess‘in lei.

Ma niego ben che ‘l tutto accolto in una

Forma bel sia, che ‘n sì gran corpo un falso

Fior non risplende pur di grazia alcuna.

Concede el poeta in Quinzia essere e la qualità del colore per la bianchezza, e della figura per la drittezza, e la quantità che ne‘ formosi si richiede, che è la grandezza; e nondimeno per niuno modo concede potersi chiamare bella perchè gli mancava quella Venere e grazia, che noi avemo detto, la quale alla beltà corporale è come el sale a ogni vivanda. Quale dunque diremo noi essere la causa che uno corpo di tale grazia sia dotato e un altro ne sia privato? Dirò quello che ne penso sottomettendo el mio iudicio a ogni migliore sentenzia. Credo che poi che tale effetto dal corpo non procede, necessariamente si abbia ad attribuire alla qualità dell‘anima, la quale quando in sè è molto perfetta e lucida credo che insino nel corpo terrestre qualche razzo del suo splendore trasfonda; e in questo convengono tutti li antiqui filosofi e teologi. Quando dal monte e dalla divina visione discese Moyse era la faccia sua tanto illustre, che gli occhi del popolo sopportare non la potevano, ma con la faccia velata allora parlava; scrive Porfirio che ogni ora che l‘anima di Plotino in qualche sublime contemplazione si elevava, appariva nel volto suo mirabile splendore. E questo è quello che esso Plotino scrive, che mai niuno bello fu cattivo; vuole Plotino questa beltà, cioè questa tal grazia, che etiam spesso in uno corpo e di statura e di colore meno che mediocremente bello appare, essere segno certissimo della intrinseca perfezione dell‘anima, della quale perfezione parlando Salomone ne‘ Proverbi dice: «La sapienzia dell‘uomo illumina la faccia sua»; e credo questa sentenzia massimamente essersi verificata nelle tre observate carattere del sacro nome del protoplasto Adam, e chi può intendere questo secreto lo intenda. Aggiugneria uno Platonico che l‘anime che dalla spera di Venere descendono abbiano oltre all‘altre a causare precipuamente ne‘ loro corpi simile effetto.

Estancia sexta

Cuando formada primeramente…

Primero que a la exposición de esta estancia descienda, porque en ella se trata cómo la belleza particular de un cuerpo en el alma de otro enciende el fuego del amor, no será sino útil dar alguna luz y cognición sobre la belleza mencionada. Hay que considerar entonces que en la belleza del cuerpo, que a nosotros se manifiesta en la luz del día, dos cosas aparecen a quien bien la considera. La primera es la disposición material del cuerpo que consiste en la cantidad debida de sus partes y en la conveniente cualidad. La cantidad está en la grandeza de los miembros, si lo es según la proporción conveniente respecto al todo y en su sitio y distancia el uno del otro. La cualidad está en la figura y en los colores. La segunda es una cierta cualidad que no puede llamarse por un nombre más propio que gracia, la cual aparece y esplende en las cosas bellas y me parece que propiamente se atribuye el nombre de Venus, esto es de Belleza, porque ella es la que sola enciende en los corazones humanos el fuego amoroso. Muchos quieren que ésta nazca de la primera disposición del cuerpo, esto es que del sitio, figura y colores de los miembros resulte en el todo esta gracia; contra esta sentencia, a mi juicio, debe bastar la experiencia, porque muchas veces veremos un cuerpo del todo irreprochable y perfectísimo en todas sus partes en cuanto a todas las condiciones supradichas, y no menos lo veremos privado de toda gracia; y, por el contrario, alguna vez se verá en un cuerpo, que en la figura y en el color podría estar

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bastante mejor proporcionado, aparecer sin embargo una gracia maravillosa. Esto declara muy bien Catulo en uno de sus epigramas donde dice:

Quincia a muchos parece bella, a mis ojos Cándida, alta, recta, en sí cada Parte de este ser confieso en ella. Pero niego bien que el todo reunido en una Forma bella sea, que en un cuerpo tan grande falsa Flor no resplandece con gracia ninguna. Concede el poeta que en Quincia está la cualidad del color por la blancura, de la figura por la rectitud, la cantidad que para formarlas se requiere que es la grandeza; no menos por ningún modo concede que se pueda llamar bella porque le falta aquella Venus y la gracia que nosotros hemos dicho, la cual para la belleza corporal es como la sal para toda vianda. ¿Cuál entonces diremos nosotros que es la causa que un cuerpo sea dotado de tal gracia y otro sea privado de ella? Diré lo que pienso, sometiendo mi juicio a toda sentencia mejor. Creo que, puesto que tal efecto no procede del cuerpo, necesariamente tiene que atribuirse a la cualidad del alma, la cual mientras en sí es mucho más perfecta y lúcida, creo que también algún rayo de su esplendor se comunica en el cuerpo terrestre. Y en esto convienen todos los antiguos filósofos y teólogos. [Por ejemplo,] cuando se dice que Moisés tenía la cara tan luminosa en el monte, por la visión divina, que los ojos del pueblo no la podían soportar sino que hablaba con la cara velada; [o cuando] escribe Porfirio que toda vez que el alma de Plotino se elevaba en alguna sublime contemplación, aparecía en su rostro un esplendor maravilloso. Y esto es lo que el mismo Plotino escribe, que ningún bello fue jamás malvado; quiere Plotino que esta belleza −esto es la gracia− que etiam mismo en un cuerpo de estatura y de colores menos que mediocremente bellos aparece, ser signo ciertísimo de la perfección intrínseca del alma, de la cual, Salomón, hablando en los Proverbios, dice: ―La sabiduría del hombre ilumina su cara‖ y creo que esta sentencia es máximamente verificada en los tres caracteres observados del sacro nombre del Adam protoplasto y quien puede entender este secreto, lo entienda. Añadiría un platónico que las almas que descienden de la esfera de Venus tendían más que las otras a causar principalmente en sus cuerpos un efecto similar.

ESTANCIA SESTA SETTIMA E OTTAVA

Quando formata in pria....

L‘ordine dell‘universo è che dalle cose separate e intelligibile procedino le cose inferiore, e queste quanto più possono alle sue cause convertendosi a loro ritornino; il che veggio nella presente canzona mirabilmente essere dal Poeta osservato il quale, d‘amore e di bellezza avendo a trattare, prima dalla celeste beltà e dal celeste amore incominciò, e di lei nella terza e quarta stanza sua natura, sua origine e sua proprietà sufficientemente dichiarò; di poi narrò nella quinta stanza come da quella procedeva la bellezza sensibile e l‘amore di quella. Ora nel resto della canzona mostra a noi come dalla beltà sensibile si ascende per ordinati gradi alla beltà intelligibile, alla quale giunto termina l‘autore l‘opera sua, come in quella a cui pervenendo ogni amoroso desiderio terminare si debbe; nè più sottile, nè più ordinato, nè più sufficiente modo può osservare, chi di qualunque cosa ha a trattare, quanto ha el Poeta nostro qui dottamente osservato; modo da pochi inteso e conosciuto, ed è quello che Platone nel Filebo chiama dedurre la unità in multitudine e la multitudine nella sua unità redurre, il che chi bene sa fare meritamente, come Platone scrive, tamquam Deum eum sequi debemus, uomo certamente divino e angelo terrestre, atto, per la scala di Iacob, in compagnia delli altri contemplativi angeli, pro arbitrio ad ascendere e descendere. E questo ordine nel Commento nostro sopra el Simposio diffusamente trattaremo. Sequendo dunque lo autore, questo ordine mostra come per sei gradi, da la materiale beltà incominciando, al primo fine suo l‘uomo si conduce. All‘anima a‘ sensi conversa prima per li occhi se

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gli presenta la particulare beltà di Alcibiade, di Fedro, o di qualche altro corpo spezioso; a quello inclina e in quella forma particulare si diletta, e quivi fermandosi è nel primo grado più imperfetto e più materiale; e di questo effetto nel principio di questa stanza assegna el Poeta la cagione, cioè donde proceda che uno più presto a uno che a un altro sia affezionato. El secondo grado è quando l‘anima quella immagine per gli occhi ricevuta con la virtù sua interiore, ma pure ancora materiale e fantastica, in sè riforma e tanto più perfetta la fa quanto la fa più spirituale, e dalla materia più separandola, alla ideale beltà, benchè ancora assai lontana, più l‘appropinqua. El terzo grado è quando col lume dello intelletto agente l‘anima, quella forma ricevuta da ogni particularità separando, la natura propria della corporale bellezza in sè considera, nè più alla propria immagine di uno solo corpo ma alla universale bellezza di tutti e‘ corpi insieme intende. Questo è l‘ultimo grado al quale pervenga l‘anima a‘ sensi conversa, che, quantunque in questo ultimo grado la beltà in sè riguardi, e non come nel seno di materia alcuna ristretta, nondimeno da‘ sensi e da‘ fantasmi particulari tale cognizione riceve, onde nasce che chi per questa via sola alla cognizione della natura delle cose perviene non può perspicuamente e sanza velo di grandissima ambiguità vederle. E hanno creduto e credono molti Peripatetici, e massime e‘ latini, non potere l‘anima nostra unita al corpo a più perfetta cognizione ascendere, il che nel nostro concilio dimonstreremo dalla mente di Aristotile e quasi di tutti e‘ Peripatetici arabi e greci essere grandemente alieno. El quarto grado è che l‘anima, considerando l‘operazione sua, vede sè cognoscere la natura della bellezza universalmente come non ristretta ad alcuna particularità, e cognosce che ogni cosa, che nella materia è fundata, è particulare, di che conclude questa tale universalità non dallo obbietto esteriore sensibile, ma dallo intrinseco suo lume e sua virtù procedere; onde fra sè stessa dice: «se negli adumbrati specchi de‘ fantasmi naturali solo per vigore della luce mia m‘apparisce questa bellezza, certo è ragionevole che nello specchio della mia sustanzia riguardando, da ogni nube e tenebre materiale spogliata, debba ogni tale cosa più chiaramente vedere». E così in sè conversa vede la immagine della beltà ideale a sè dall‘intelletto participata, come fu nel secondo libro dichiarato; e questo è il quarto grado, perfetta immagine dello amore celeste, come di sopra fu detto. Di poi da sè all‘intelletto proprio ascendendo è nel quinto grado, ove la celeste Venere in propria forma e non immaginaria, ma non però con totale plenitudine della sua beltà, che in intelletto particulare non cape, se gli dimostra; de la quale avida e sitibunda l‘anima cerca el proprio e particulare intelletto alla universale e prima mente coniungere, prima delle creature, albergo ultimo e universale della ideale bellezza. Al quale pervenendo, grado in ordine sesto, termina el suo cammino, nè gli è licito nel settimo, quasi sabbato del celeste amore, muoversi più oltre, ma quivi debbe come in un suo fine a lato al primo Padre, fonte della bellezza, felicemente riposarsi. Questa è la scala degli amorosi gradi, per la quale alla vera, integra e distinta cognizione di questa materia d‘amore si ascende. Questi gradi, e come dall‘uno all‘altro si ascenda, non so se con più leggiadria di verso o se con più profondità di dottrina descriva el poeta nella VI, VII e VIII stanza; ma prima che a ciò descenda, nel principio de la VI assegna la ragione perchè sia tratto uno più a l‘amore di questo che di quell‘altro. La qual ragione, benchè si fondi tutta sopra e‘ principii de‘ Platonici, nondimeno appresso ad altri mai mi ricordo avere letto. E per intelligenzia d‘essa è da sapere prima, che fra l‘anime umane dicono e‘ Platonici alcune essere di natura di Saturno, alcune di Giove e così degli altri pianeti, e intendono per questo che un‘anima harà più cogniazione e conformità con l‘anima del cielo di Saturno che con l‘anima del cielo di Giove, e un‘altra per contrario; che non è per altro se non perchè quest‘anima è di tale natura e quella di tale, nè altra causa intrinseca se n‘ha ad assignare di questo, di che estrinseca ed effettiva causa ne è quello che esse anime produce, cioè l‘opifice del mondo, del quale dice Platone nel Timeo che alcune anime nella luna, alcune negli altri pianeti e stelle, che lui chiama instrumenti del tempo, spargendo semina. Secondo, è da sapere che unendosi, come etiam nel primo libro fu detto essere mente de‘ Platonici, l‘anima immediatamente al veiculo celeste, e mediante quello al corpo terreno e corruttibile, vogliono alcuni, l‘openione de‘ quali segue in questo l‘autore nostro, che l‘anima razionale descendendo dalla stella sua formi lei stessa el corpo terrestre che lei ha a governare. Sopra a questi principii fondandosi el Poeta, si immagina che nel veiculo de l‘anima che descende, che è da lei con quella potenzia vivificato con la quale el corpo terrestre forma, sia dalla sua stella infusa una virtù formativa del corpo corruttibile, e secondo che da altra o altra stella descende, così riceve virtù

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diversamente formativa. Onde dicono e‘ fisionomi el tale uomo avere effigie lunare, el tale solare, el tale mercuriale, el tale gioviale, el tale saturnina, el tale marziale, e dalla effigie indicano l‘anima di colui essere di simile natura, il che è molto conveniente all‘opinione del Poeta. Ma perchè la materia inferiore non è sempre obediente a chi la forma e stampa, però non può esprimere sempre la virtù dell‘anima nel corpo terreno la effigie che lei vorrebbe, onde nasce che essere possono dua gioviali che nella forma appariranno dissimili, perchè la materia della concezione dell‘uno sarà suta altrimenti disposta a ricevere quella figura dell‘anima che quella dell‘altro; pure nientedimeno sempre quello che in l‘uno è perfetto, nell‘altro è come cosa incominciata e non assoluta. Vuole dunque el Poeta nostro l‘essere la figura de‘ dua corpi della virtù d‘una medesima stella formata generare fra coloro convenienzie e conformità d‘intenso amore. Dice dunque el Poeta che quando l‘alma del divin volto formata, o immediatamente, come vogliono e‘ cattolici, o mediatamente secondo e‘ Platonici, si parte per descender qua giù, s‘imprime negli umani cori. Però che el core è più appropriata stanza all‘anima, che è per la natura sua fonte di vita e di calore, e per el suo continuo moto al cielo, donde lei descende, molto si conforma.

Dalla più eccelsa parte

Ch‘alberghi el sol....

cioè dal Cancro, segno infra tutti e‘ dodici segni del Zodiaco sopra questo nostro empireo superiore più eccelso, cioè più elevato, ed è sentenzia de‘ Platonici che dicono l‘anima descendere per il Cancro e ascendere per el Capricorno; e credo sia el fundamento loro perchè el Cancro è casa della Luna, la cui virtù massime domina sopra la parte vegetale vivificativa de‘ corpi, e el Capricorno è casa di Saturno, preposto alla contemplazione alla quale l‘anima del corpo sciolta liberamente può vacare. Dove, cioè ne‘ corpi umani terrestri; esprimendo, cioè essa anima; con mirabile arte, arte certo divina e mirabile dalla voluntà paterna per la intellettuale sapienzia e ragione dell‘anima nella celeste natura infusa. Quel valore, cioè quella virtù formativa del corpo elementare, il quale valore tolto da la sua stella e raccolto nel grembo di sua prima spoglia celeste, idest del suo celeste veiculo, in quel vive e si ferma; esprimendo dunque la figura in tal virtù seme, cioè seme umano, forma, fabrica e stampa, quanto in lui sue luce possono, forma – dice – el suo albergo, cioè questo organico corpo sensibile nel quale in questo mondo l‘anima alberga. Ma quel seme umano «or più or meno repugna al divin culto», come noi di sopra dichiarammo.

Indi, cioè da quel corpo da quelle tale anime figurato, qualor dal sol, cioè dallo splendore della bellezza che in lei ne è sculto, scende nell‘altrui core la stampa della figura in sè impressa; e vuol dire che ognora che quella tale effigie da qualcuno altro è vista, se gli è conforme, cioè se è figura produtta da stella conforme alla stella di chi la riguarda, avvampa l‘alma di quel tale d‘amoroso foco: e questo, come io ho detto, è el primo grado.

Che poi che in sè: qui si contiene el secondo e terzo grado indistintamente e è da avvertire che el Poeta prima nel fine della sesta stanza e nel principio della settima perstringe e generalmente tocca l‘ascenso dal primo grado all‘ultimo, accennando la loro distinzione, ma non la esprimendo, seguendo in questo l‘ordine da‘ filosofi e massime da‘ Peripatetici nel proemio della fisica di Aristotele instituto, che alla confusa e indistinta cognizione della cosa preceda la distinta esplicazione di quella. Così el Poeta nostro ha in questo luogo osservato, il quale poi che sotto implicito compendio della cognizione di questi gradi n‘ha dato qualche lume, essequisce di poi in quel luogo per tre fulgidi specchi distintamente quello che ne‘ precedenti versi brevemente toccando promesse. Nè sanza misterio el nostro Poeta coniunge queste tre stanze talmente che el senso del fine della sesta si fornisce nel principio della settima e el fine di questa nel principio dell‘ottava. Il che a chi più oltre non considerassi parrebbe forse contro alla regola della canzona, nella quale pare conveniente ogni stanza avere per sè la sua sentenzia fornita, come e nelle cinque prime e nelle ultime osserva el Poeta. Ma ha voluto denotare per questo che in niuno grado precedente l‘ultimo si debbe l‘uomo fermare, nè proporselo per fine dell‘amore suo, ma avere l‘uno sempre per scala dell‘altro. Non è laudabile el dilettarsi della forma

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d‘un bel giovane, se tu non usi questo come grado al riguardare in te la proporzione e conforme qualità di quella figura etiam fuor di quel crasso e material corpo nel quale tu l‘hai vista. Nè l‘occupare la immaginativa in considerare la figura d‘un corpo può essere opera se non vana, se in quella ti fermi e non l‘adopri per instrumento a contemplare con la ragione la universale bellezza di tutti e‘ corpi. Nè può essere se non debile e inferma l‘anima che sempre sopra il corpo prostrata mai in sè non si diriza e in sè stessa rivolgendosi e‘ sua tesauri mai riconosce, ma, come dice Asaf, essendo in dignità e onore posta, non si conosce e simile diventa a‘ bruti insipienti, che la virtù del ritornare in sè non hanno. Nè in sè o per sè potria l‘anima a sufficienzia possedere quel lume di bellezza che da sè non ha, ma solo per dono e comunicazione d‘altrui, se a colui non ritorna che di quello lei ha fatto participe, el quale essendo particulare fiume, se la sua sete vorrà in tutto estinguere, bisognerà che al primo mare di beltà da esso fonte immediatamente emanante si conduca, imitando el Poeta nostro che, cominciando ne la sesta stanza a disporre e‘ gradi di questa scala sopra la quale da terra al cielo si ascende, non prima si fermò col verso che al primo bene la condusse.

Dalla cui viva e sola

Luce informato amando si fa bello

La mente, l‘alma, el mondo e ciò che è in quello.

Però non sono in verità nella presente canzona più che sette stanze, benchè in nove si divida, perchè di queste tre niuna per sè è fornita, ma di tutte insieme una ne resulta. Dunque nella sesta stanza perfetta si ferma el Poeta, come ogni amante nel suo sesto grado, ed essendo per procedere più oltre sente amore che raccoglie el freno, per questo denotando a noi che chi nel sesto grado perviene non gli è lecito camminare più innanzi, perchè quello è il termine dell‘amorosa via, quantunque per via d‘un altro amore più oltre si vada; ed è quello amore col quale si ama Dio in sè e non in quanto autore della ideale beltà, ma non conviene con lo amore del quale noi parliamo, perchè quello non è desiderio di bellezza, che in Dio secondo e‘ Platonici per la sua infinita simplicità non si truova, come ne‘ primi libri dichiarammo. Ora, ritornando alla esposizione del testo, dice el Poeta confundendo insieme el secondo e terzo grado, che poi che l‘alma alberga in sè la immagine per gli occhi ricevuta, assai più bella la effinge e forma a‘ divini rai di sua virtù, cioè della virtù fantastica o vero cogitativa e della virtù razionale.

E di qui nasce: monstra che dal detto suo si può intendere perchè qualche volta e quasi sempre l‘amato all‘amante pare più bello assai che in sè non è, il che procede perchè l‘amante riguarda l‘amato nella immagine che di lui ha l‘anima in sè fabricata, e halla fatta tanto più bella quanto più dalla materia, principio d‘ogni deformità, l‘ha separata; e oltre che quella figura che l‘anima ha in sè formata, più bella che la specie estrinseca si mostra per essere in vero in sè più bella, eziandio se gli agiugne che, essendo generata e fatta dall‘anima, l‘anima in lei come in sua cosa più si diletta e più ancora la stima che in sè non è. E però soggiugne l‘autore:

Pascesi el cor d‘un dolce error, l‘amato

Obbietto in sè come in sua prol guardando

cioè come in sua opera e sua creatura, da lei fatta e generata. Tal‘or poi reformando

Qui mostra l‘autore come dal quarto grado a l‘ultimo fine si giugne, pretermettendo la esplicata dichiarazione de‘ mezzi, cioè del quinto e sesto, pe‘ quali a quello si perviene, e‘ quali ne accenna ove dice di grado in grado. Dice adunque che talora l‘anima riforma quella specie universale «al lume divino che in lei n‘è impresso», cioè al lume della beltà ideale a lei participata; e questo è raro e celeste dono, perchè pochi a questo giungono, ma solo quegli che sono molto perfetti, e‘ quali sono sì pochi che, come di sopra dissi, molti iudicorono essere impossibile al uomo giugnere a questo grado; e però

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disse raro e celeste dono. Quinci elevando, cioè dalla reformazione fatta, che è il quarto grado, di grado in grado sè, cioè dal quinto grado, che è il proprio particulare intelletto, al sesto grado della coniunzione col primo e universale intelletto nell‘increato sole, cioè a Dio, ritorna, dal quale, benchè per molti mezzi, come immediatamente lui soggiugne e dichiara, è formato quel lume di beltà che nel corpo amato appare, perochè «uno sole», idest un sol lume che da esso divino volto emana, passando quasi per tre specchi, la mente, cioè l‘angelica natura, el spirto, cioè la natura razionale, e el corpo, cioè el sensibile mondo, di bellezza adorna. Quinci: qui el Poeta ordinatamente e‘ sopradetti gradi ne esplica, de‘ quali noi assai distintamente nel principio della esposizione della sesta stanza avemo parlato. Dice dunque, incominciando dal primo grado e più infimo, che quinci, cioè dal corpo, gli occhi ricevon le ornate spoglie di quello, cioè la specie di beltà decisa da quel corpo, il che, come di sopra dissi, è il primo grado e più materiale; poi soggiugne e per gli occhi ove soggiorna, dove dichiara come questa specie, dallo obbietto agli occhi pervenuta, passa dalla virtù visiva degli occhi, che è senso esteriore, alla virtù immaginativa, che è senso interiore; la quale immaginativa lui chiama l‘altra ministra del core, per el core intendendo la sustanzia dell‘anima razionale, alla quale servono e ministrano le potenzie sensitive così interiore come esteriore, come e‘ filosofi tutti concordemente dichiarano. Ora essendo quelle spoglie, cioè quelle specie, dalla immaginativa concette, dice el Poeta che sono da lei talor poi reformate, ma non però espresse, però che la immaginativa, come più alta e più nobile potenzia del senso, di fuori fa quella specie più spirituale e conseguentemente più la spicca dalla deformità della materia, che seco non patisce la forma della vera Venere, ma non può però, per essere lei pure potenzia ancora materiale e organica, redurre quella specie a perfetta immaterialità. Però dice che la reforma, ma non la esprime; e questo è el secondo grado el quale, quantunque sia amore di particulare corpo, nondimeno non ama quella particulare beltà più in quella crassa e corpulenta persona, ma in quella immagine che nell‘anima sua ha già di lui formata; e come questo grado è del primo più perfetto, così ancora è più felice, perchè non meno gode l‘amante nell‘assenzia sua che nella presenzia; sempre l‘ha seco, el vede e ode e con lui familiarmente conversa. Chi è nel primo grado tanto è felice quanto l‘amato gli è presente, condizione in ogni modo assai migliore di quello bestiale furore e non amore, el cui bene non può se non per piccolo tempo durare e non può non lassare dopo sè se non longissima amaritudine e penitenzia; il che doverebbe essere a ciascuno sufficiente stimulo a farlo con celerrima fuga da questa essecranda voluttà rimanersi e con festinatissimo corso a quel celeste amore properare ove niuno vestigio di miseria, ma ogni plenitudine di felicità si truova. Nè debbe allettare veruno a questa misera voluttà l‘essere stati molti e per santità e per prudenzia e per dottrina celebratissimi uomini da quella presi, anzi questo debbe essere a ciascuno invece di ragione efficacissima a mostrare che quella in tutto si debba con ogni ingegno fuggire. Perochè se questo male è sì pestifero e velenoso che abbia in sì forte e perfette anime potuto generare egritudini quasi incurabili, debbe ciascuno indubitatamente persuadersi che nella sua abbia a partorire letale al tutto e mortifero morbo; di che meritamente si può concludere, chiunque in tale precipizio ruina, di sè medesimo e de‘ sua mal composti pensieri, da Dio correzione e paterna punizione, dagli uomini forse non meno pietà e compassione che biasimo meritare. Ora ritornando alle parole del Poeta, poi che del primo e secondo grado ha parlato, venendo al terzo dice: indi di varie e molte..... Ed è che l‘anima, surgendo sopra el primo e secondo grado, l‘uno e l‘altro de‘ quali particularmente la bellezza considerando dalla materia non si spoglia, in universale concetto essa natura in sè considera e la multitudine di tutti e‘ particulari corpi belli nella unità della bellezza in sè reduce; il che è propriamente di quello el quale di giù in su ascende, cioè di quello che la moltitudine nella sua unità riduce, come di sopra fu detto.

Quinc‘amor l‘alma.... In questa universal cognizione l‘anima come in cosa da lei fabricata si diletta, come etiam poco innanzi dicemmo, e in lei el lume della vera beltà, come lume di sole sotto acqua, vede. El fonte del lume è el cielo e d‘indi all‘acqua per dua gradi mezzi del foco e de l‘aria perviene; non altrimenti da Dio, primo cielo e intelligibile fonte del lume della bellezza, per dua gradi mezzi dell‘intellettuale ideale e della ragione all‘anima participata, quasi per il mezzo del foco e dell‘aria, nella specie universale da‘ sensi astratta come in acqua el lume della vera bellezza resplende.

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Pur non so che divin.... Questo è lo ascenso dal terzo grado al quarto, cioè alle idee all‘anima participate, nella quale non è più ombra di bellezza, ma si vede la beltà vera, quantunque non essenziale ma participata.

Quinci mentr‘el pio core, il che dichiara dicendo: nella sua mente el vede inserto. Poi soggiugne: indi a più chiaro e aperto lume. Ed è l‘ascenso dal quinto grado al sesto, nel quale el proprio particulare intelletto con la universale e prima mente, assai più della nostra aperta e chiara, coniunge, la quale mente è immediata e prossima a Dio, primo e intelligibile sole; e però disse appresso a quel sole sospeso vola, dalla cui viva e sola luce come la mente, l‘alma e ‘l mondo si faccia bello, assai disopra avemo dichiarato.

Estancias sexta, séptima y octava

Cuando formada primeramente…

El orden del universo es [tal] que de las cosas separadas e inteligibles proceden las cosas inferiores, y éstas −cuanto más pueden convertirse a sus causas− a ellas retornan; lo que veo en la presente canción maravillosamente observado por el Poeta, quien teniendo que tratar sobre el amor y la belleza, comenzó primero por la belleza celeste y por el amor celeste y sobre ellos en la tercera y cuarta estancia declaró su origen y su propiedad suficientemente; después narró en la quinta estancia cómo de ella procedía la belleza sensible y el amor por aquella. Ahora en el resto de la canción nos muestra cómo de la belleza sensible se asciende por grados ordenados a la belleza inteligible, junto a la cual termina el autor su obra, como en aquella en que debe terminar todo deseo amoroso al llegar. No puede observar un modo más sutil, ni más ordenado, ni más suficiente quien de cualquier caso va a tratar, cuanto ha observado nuestro poeta aquí doctamente, modo de pocos entendido y conocido, y es aquel que Platón en el Filebo llama deducir la unidad en la multitud y reducir la multitud en su unidad. A quien esto bien sabe hacer, meritoriamente, como Platón escribe, tamquam Deum eum sequi debemus, hombre ciertamente divino y ángel terrestre, apto, por la escala de Jacob, en compañía de los otros ángeles contemplativos, pro arbitrio para ascender y descender. Y sobre este orden en nuestro comentario al Simposio trataremos ampliamente. Siguiendo entonces al autor, este orden muestra cómo el hombre se conduce a su primer fin por seis grados, iniciando en la belleza material. Al alma −tornada hacia los sentidos− primero se le presenta ante los ojos la belleza particular de Alcibiades, de Fedro o de cualquier otro cuerpo esplendoroso; sobre éste se inclina y se deleita en esta forma particular, deteniéndose allí está en el primer grado más imperfecto y más material; la razón de este efecto señala el poeta en el principio de esta estancia, esto es dónde proceda que uno más fácilmente a uno que a otro sea aficionado. El segundo grado es cuando el alma reforma en sí esta imagen, recibida por los ojos, con su virtud interior −pero todavía material y fantástica− y la hace tanto más perfecta cuanto la hace más espiritual y separándola más de la materia más la aproxima a la belleza ideal, aunque todavía [esté] bastante lejana. El tercer grado es cuando con luz del intelecto agente el alma, separando aquella forma recibida de toda particularidad, considera la naturaleza propia de la belleza corporal en sí y no más la propia imagen de un solo cuerpo, sino [que] entiende la belleza universal de todos los cuerpos juntos. Este es el último grado al cual llega el alma volcada a los sentidos que, aunque en este último grado ve la belleza en sí y no como restringida en el seno de materia alguna, no menos de los sentidos y de los fantasmas particulares recibe tal cognición, de donde nace que quien por esta vía sola llega a la cognición de la naturaleza de las cosas no puede verle principalmente y sin velo de grandísima ambigüedad. Y han creído y creen muchos peripatéticos, y máximamente los latinos, que mientras el alma está unida al cuerpo no se puede ascender a más perfecta cognición, lo cual demostraremos en nuestro concilio que es ajeno a la mente de Aristóteles y casi a todos los peripatéticos árabes y griegos. El cuarto grado es que el alma, considerando su operación, se ve conocer la naturaleza de la belleza universalmente como no restringida a alguna particularidad y conocer que toda cosa, que en la materia está fundada, es particular, de lo que concluye que [de] esta universalidad procede su luz y su virtud y

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no del objeto exterior sensible sino del intrínseco; donde entre sí misma dice: ―si en los ensombrecidos espejos de los fantasmas naturales sólo por vigor de mi luz me aparece esta belleza, ciertamente es razonable que mirando en el espejo de mi sustancia, despojada de toda nube y tiniebla material, deba toda cosa ver más claramente‖. Y así vuelta a sí misma ve la imagen de la belleza ideal participada a sí por el intelecto, como fue declarado en el segundo libro; y esto es el cuarto grado, imagen perfecta del amor celeste, como se dijo arriba. Después, ascendiendo al propio intelecto desde sí, está en el quinto grado, donde la Venus celeste, en forma propia y no imaginaria —pero no por ello con plenitud total de su belleza, que en este intelecto particular no cabe—, se le muestra; por la cual el alma, ávida y sedienta, busca conjuntar el intelecto propio y particular con la mente universal y primera, primera de las criaturas, albergue último y universal de la belleza ideal. Llegando a la cual, sexto grado en el orden, termina su camino; no le es lícito moverse más allá en el séptimo, sábado del amor celeste, pero aquí debe reposarse felizmente como en su fin al lado del primer Padre, fuente de la belleza. Esta es la escala de los grados amorosos, por la cual se asciende a la cognición verdadera, íntegra y distinta de esta materia de amor. Estos grados y cómo del uno al otro se asciende no sé si el poeta describe con más elegancia de verso o con más profundidad de doctrina en las estancias VI, VII Y VIII; pero antes que a ello descienda, en el principio de la VI señala la razón porqué sea llevado uno más al amor de éste que de aquel otro. Esta razón, ya que se funda toda sobre los principios de los Platónicos, no recuerdo haberla leído en otros jamás. Y para inteligencia de ello hay que saber primero que los platónicos dicen que entre las almas humanas, algunas son de la natuleza de Saturno, algunas de Júpiter y así de los otros planetas, y entienden por esto que un alma tendrá más cognición y conformidad con el alma del cielo de Saturno que con el alma del cielo de Júpiter y otra lo contrario y no es por otra cosa sino porque esta alma es de tal naturaleza y aquella de tal; ni otra causa intrínseca se ha de señalar para esto que la causa extrínseca y efectiva de ello: aquel que produce esas almas, esto es el artífice del mundo; de quien dice Platón en el Timeo que siembra, esparciendo algunas almas en la luna, algunas en los otros planetas y estrellas, que él llama instrumentos del tiempo. Segundo, hay que saber que uniéndose, como etiam en el primer libro fue dicho que es opinión de los Platónicos, el alma inmediatamente al vehículo celeste y mediante aquel al cuerpo terreno y corruptible, quieren algunos, la opinión de los cuales sigue en esto nuestro autor, que el alma racional descendiendo de su estrella forme ella misma el cuerpo terrestre que tendrá que gobernar. Fundándose el Poeta sobre estos principios, se imagina que en el vehículo del alma que desciende, que está vivificado por ella con aquella potencia con la cual forma el cuerpo terrestre sea infundida por su estrella una virtud formativa del cuerpo corruptible y según que descienda de una u otra estrella, recibe virtudes formativas diversamente. De donde dicen los fisónomos que tal hombre tiene efigie lunar, tal solar, tal mercurial, tal jovial, tal saturnina, tal marcial, y por la efigie juzgan que el alma de ellos es de naturaleza similar, lo que es muy coveniente con la opinión del Poeta. Pero porque la materia inferior no es siempre obediente a quien la forma y estampa, por ello no puede expresar siempre la virtud del alma la efigie que ella quería en el cuerpo terreno, de donde nace que es posible que existan dos joviales que en la forma aparecen disímiles, porque la materia de la concepción del uno habrá sido dispuesta de otro modo para recibir aquella figura del alma que aquella del otro; sin embargo, no menos, siempre aquello que en uno es perfecto, en otro es como cosa comenzada y no absoluta. Quiere entonces nuestro Poeta que al ser formada la figura de dos cuerpos por la virtud de una mismísima estrella, se generen entre ellos conveniencias y conformidad de amor intenso. Dice entonces el Poeta que cuando el alma por el divino rostro formada, o inmediatamente como quieren los católicos o mediatamente según los platónicos, parte para descender aquí abajo, se imprime en los corazones humanos. Ya que el corazón es la más apropiada estancia del alma, porque es por su naturaleza fuente de vida y de calor, y por su continuo movimiento se conforma mucho con el cielo, de donde ella desciende. De la más excelsa parte Que alberga el Sol

Esto es de Cáncer, signo más excelso sobre nuestro empíreo superior, esto es el más elevado, bajo él todos los doce signos del Zodiaco; es sentencia de los Platónicos que el alma desciende por Cáncer y

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asciende por Capricornio; y creo que su fundamento es que Cáncer es la casa de la Luna —cuya virtud máximamente domina sobre la parte vegetal vivificante del cuerpo— y Capricornio es la casa de Saturno, predispuesto a la contemplación a la cual el alma puede libremente dedicarse separada del cuerpo. Donde, esto es en los cuerpos humanos terrestres; manifestando, esto es esa alma; con maravilloso arte, arte ciertamente divino y admirable infundido en la naturaleza celeste por la voluntad paterna a través de la sabiduría intelectual y la razón del alma. Aquel valor, esto es aquella virtud formativa del cuerpo elemental, el cual valor que de su estrella lo ha tomado y que en el vientre acoge vive de su celeste y primer indumento, idest de su vehículo celeste, en que vive y se detiene; explicando entonces la figura semilla en tal virtud, esto es semilla humana, forma, fabrica y estampa, cuanto en él pueden sus luces, forma –dice– su albergue, esto es este cuerpo orgánico sensible en el cual en este mundo el alma se alberga. Pero aquella semilla humana ―o más o menos repugna al culto divino‖, como nosotros más arriba declaramos. De allí, esto es aquel cuerpo por aquella alma figurado, cuando del sol, esto es del esplendor de la belleza que en ella está esculpido, desciende en el corazón de otros la estampa de la figura en sí impresa; y quiere decir que siempre que aquella efigie es vista por algún otro, Si les es conforme, esto es si es figura producida por una estrella conforme a la estrella de quien la mira, inflama el alma de aquel tal fuego amoroso: y esto, como yo he dicho, es el primer grado. Que después en sí: aquí se contienen el segundo y tercer grados indistintamente y es de advertir que el Poeta primero en el final de la sexta estancia y en el principio de la séptima restringe y generalmente toca el ascenso del primer grado al último, delineando su distinción, pero no explicándola, siguiendo en esto el orden de los filósofos y máximamente de los Peripatéticos, instituído en el proemio de la Física de Aristóteles: que la cognición confusa e indistinta de la cosa precede a la distinta explicación de aquella. Así nuestro Poeta ha observado [esto] en este lugar, lo cual después que bajo el compendio implícito de la cognición de estos grados ha dado alguna luz, sigue después en ese lugar por tres fúlgidos espejos distintamente aquello que en los versos precedentes promete tocando brevemente. Ni sin misterio nuestro Poeta conjunta estas tres estancias de tal manera que el sentido del fin de la sexta se proporciona en el principio de la séptima y el fin de ésta en el principio de la octava. Lo que a quien no considerara nada más le parecería tal vez contra la regla de la canción, en la cual parece conveniente que toda estancia tenga en sí su sentencia dada, como es observado por el Poeta en las primeras cinco y en la última. Pero ha querido denotar por esto que el hombre no se debe detener en ningún grado que anteceda al último, ni proponérselo por fin de su amor, sino que debe tener siempre uno por escala del otro. No es laudable deleitarse en la forma de un joven bello, si tú no usas esto como un grado al mirar en ti la proporción y conforme cualidad de aquella figura etiam fuera de aquel cuerpo craso y material en el cual tienes la vista. Y el ocupar la imaginativa en considerar la figura de un cuerpo no puede ser sino obra vana, si en aquella te detienes y no la adoptas por instrumento para contemplar con la razón la belleza universal de todos los cuerpos. Ni puede ser, sino débil y enferma, el alma que siempre postrada sobre el cuerpo nunca a sí se dirige y volviéndose en sí misma no reconoce su tesoro; ya que como dice Asaf, siendo puesta en dignidad y honor, no se conoce y deviene similar a los brutos ignorantes que no tienen la virtud de volverse sobre sí. Ni en sí o por sí podría el alma poseer suficientemente aquella luz de la belleza que por ella no tiene —pero solo por el don y comunicación de otro— si no retorna a quien la ha hecho partícipe de aquello; siendo río particular, si su sed querrá extinguir del todo, necesitará conducirse al primer mar de belleza, emanante de esa fuente inmediatamente, imitando a nuestra Poeta, que comenzando en la sexta estancia a disponer los grados de esta escala sobre la cual se asciende de la tierra al cielo, no se detuvo con su verso antes de conducirla al primer bien.

Por la cual viva y sola Luz informado y amando se hace bello La mente, el alma, el mundo y lo que está en aquello. Por ello, no existen en verdad en la presente canción más que siete estancias, aunque en nueve se divida, porque de estas tres ninguna por sí está completa, sino que de todas juntas resulta una. Entonces

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en la sexta estancia perfecta se detiene el poeta, como todo amante en su sexto grado, y siendo que al proceder más allá siente que amor recoge el freno, por esto denotándonos que quien al sexto grado llega, no le es lícito caminar más adelante, porque aquel es el término de la amorosa vía, anque por vía de otro amor más allá se vaya; y es aquel amor con el cual se ama a Dios en sí y no en cuanto autor de la belleza ideal, pero no se aviene con el amor que nosotros hablamos, porque aquel no es deseo de belleza, que en Dios según los Platónicos por su infinita simplicidad no se encuentra, como en el primer libro declaramos. Ahora, retornando a la exposición del texto, dice el Poeta confundiendo juntos el segundo y el tercer grado, que después que el alma alberga en sí la imagen por los ojos recibida, tanto más bella por los divinos rayos de su virtud la figura y forma, esto es de la virtud fantástica o verdaderamente cogitativa y de la virtud racional. Y de aquí nace: muestra que de su dicho se puede entender por qué alguna vez, y casi siempre, el amado parece mucho más bello al amante de lo que es en sí, lo que sucede porque el amante mira al amado en la imagen que de él tiene el alma en sí fabricada, y que se hace tanto más bella cuanto más de la materia, principio de toda deformidad, la ha separado; y más allá que aquella figura que el alma ha formado en sí más bella que la especie extrínseca se muestra por ser en verdad en sí más bella, también se le agrega que, siendo generada y hecha por el alma, el alma en ella como en una cosa suya se deleita más y la estima más de lo que en sí es. Y por ello agrega el autor:

Se nutre el corazón de un dulce error, el amado Objeto en sí como en su prole mirando, Esto es como en su obra y su criatura, por ella hecha y generada.

A veces después reformando Aquí muestra el autor como del cuarto grado al fin último se llega, soslayando la declaración explicada de los medios, esto es del quinto al sexto, por cuáles a aquel se llega y que señala donde dice de grado en grado. Dice entonces que a veces el alma reforma aquella especie universal ―a la luz divina que en ella está impresa‖, esto es a la luz de la belleza ideal en ella participada, y éste es raro y celeste don, porque pocos a éste llegan, sólo aquellos que son muy perfectos, los cuales son tan pocos que, como dije arriba, muchos juzgan que es imposible al hombre llegar a este grado; y por ello dice raro y celeste don. De aquí elevándose, esto es de la reforma hecha, que es el cuarto grado, de grado en grado , esto es del quinto grado, que es el propio intelecto particular, al sexto grado de la conjunción con el intelecto primero y universal en el increado sol, esto es a Dios retorna, por el cual −aunque por muchos medios como él agrega y declara inmediatamente−, es formada aquella luz de la belleza que en el cuerpo amado aparece, porque ―un sol‖ idest una sola luz que del rostro divino emana, pasando como por tres espejos: la mente, esto es la naturaleza angélica, el espíritu, esto es la naturaleza racional, y el cuerpo, esto es el mundo sensible, de belleza adorna. De aquí: aquí el Poeta ordenadamente explica los grados supradichos, de los cuales nosotros hablamos suficientemente en el principio de la exposición de la estancia sexta. Dice entonces, comenzando por el primer grado más ínfimo, que de aquí, esto es del cuerpo, los ojos reciben los indumentos ornados de aquello, esto es la especie de belleza separada de aquel cuerpo, el que, como dije arriba, es el primer grado y el más material; después agrega y por los ojos donde se hospeda, donde declara cómo esta especie, del objeto llegada a los ojos, pasa de la virtud visiva de los ojos, que es un sentido exterior, a la virtud imaginativa, que es un sentido interior; la imaginativa la llama la otra subalterna del corazón, entendiendo por el corazón la sustancia del alma racional, a la cual sirven y ayudan las potencias sensitivas así interiores como exteriores, como todos los filósofos declaran concordemente. Ahora siendo aquella separada, esto es aquella especie, concepto de la imaginativa, dice el Poeta que son por ella a veces después reformados, no por ello expresados, porque la imaginativa, como la potencia más noble y más alta del sentido, desde afuera hace aquella especie más espiritual y consecuentemente más la separa de la deformidad de la materia −que consigo no soporta la forma de la verdadera Venus− pero no puede sin embargo, por ser pura potencia todavía material y orgánica, reducir aquella especie a inmaterialidad perfecta. Por ello dice que la reforma, pero no la expresa; y esto es el segundo grado el cual, aunque sea amor de un cuerpo particular, no menos no ama aquella belleza particular en aquella crasa y corpulenta persona más, sino en aquella imagen que

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en su alma ha ya formado por él; y como este grado es más perfecto que el primero, así también es más feliz, porque no menos goza el amante en su ausencia que en la presencia; siempre la tiene consigo, la ve y oye y con él familiarmente conversa. Es feliz en el primer grado a quien el amado le está presente, condición en todo modo mucho mejor que aquel furor bestial que no es amor, cuyo bien no puede sino por poco tiempo durar y no puede no dejar después de sí sino larguísima amargura y penitencia; lo que debería ser a cada uno suficiente estímulo para huir con fuga celerísima de esta execrable voluptuosidad y abstenerse y con carrera apresuradísima a aquel celeste amor procurar donde ningún vestigio de miseria, sino toda la plenitud de la felicidad se encuentre. Ni debe ninguno albergar esta mísera voluptuosidad por haber sido presos de aquélla muchos hombres celebérrimos por su santidad, prudencia y doctrina; así, al contrario, esto debe ser para cada uno razón eficaz para mostrar que de aquélla se deba huir con todo el ingenio. Porque si este mal es tan pestífero y venenoso que había podido generar en almas tan fuertes y perfectas enfermedad casi incurable, debe cada uno persuadirse indubitablemente que en la suya podría parir un morbo mortífero y del todo letal; de lo cual se puede concluir meritoriamente que quien en tal precipicio se aruina, por sí mismo y por su pensamiento mal compuesto amerita de Dios corrección y castigo paterno; de los hombres, tal vez no menos piedad y compasión que sanción. Ahora retornando a las palabras del Poeta, después que ha hablado del primero y segundo grados, viniendo al tercero dice: de aquí de varias y muchas… Y es que el alma, surgiendo del primero y segundo grados −considerando el uno y el otro particularmente la belleza no se despoja de la materia−, considera a esa naturaleza en [cuanto] concepto universal y reduce la multitud de todos los cuerpos bellos particulares en la unidad de la belleza en sí; lo que es propio de aquello que de abajo asciende hacia arriba, esto es de aquello que de la multitud reduce a su unidad, como fue dicho arriba.

De aquí amor el alma… en esta cognición universal el alma se deleita como en cosa por ella fabricada, como etiam decimos un poco antes, y en ella ve la luz de la belleza verdadera, como [se ve la] luz del sol bajo el agua. La fuente de la luz es el cielo y de allí llega al agua por dos grados medios: el fuego y el aire; no de otra manera desde Dios, primer cielo y fuente inteligible de la luz de la belleza, por dos grados medios −el ideal intelectual y la razón participada al alma− como por el medio del fuego y del aire, la luz de la verdadera belleza resplandece en la especie universal de los sentidos abstraída como en agua.

No obstante no sé qué de divino… Esto es el ascenso del tercer grado al cuarto, esto es a las ideas participadas al alma, en el cual no hay más sombra de belleza, sino se ve la belleza verdadera aunque no esencial sino participada.

De aquí mientras el pío corazón, lo que declara diciendo: en su mente el ver inserto. Luego añade: Aquí a más clara y abierta luz. Y es el ascenso del quinto grado al sexto, en el cual se conjunta el propio intelecto particular con la mente universal y primera, mucho más que la nuestra abierta y clara; esta mente es inmediata y próxima a Dios, sol primero e inteligible; y por ello dice cerca a aquel sol suspendido vuela; cómo se hacen bellos la mente, el alma y el mundo por su sola luz viva, suficientemente arriba lo hemos declarado.

STANZA ULTIMA

Canzon, io sento Amor ch‘el fren raccoglie.

Fu opinione degli antiqui teologi non si dovere temeramente publicare le cose divine e e‘ secreti misterii, se non quanto di sopra n‘era permesso; però finge el Poeta sè, come quasi apparecchiato a ragionare più oltre, essere da Amore ritratto e da lui essergli comandato che al vulgo de‘ misterii amorosi solo la corteccia monstri riservando le midolle del vero senso agli intelletti più elevati e più perfetti, regula osservata da chiunque delle cose divine appresso gli antiqui ha scritto. Scrive Origene avere Iesu Cristo revelato molti misterii a‘ discepoli, e‘ quali loro non volsono scrivere, ma solo a

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bocca, a chi loro ne parea degno, gli comunicarono; e questo Dionisio Areopagita conferma avere osservato di poi e‘ sacerdoti nostri, che per suscessione l‘uno dall‘altro ricevessi la intelligenzia de‘ secreti che non era lecito a scrivere; e Dionisio a Timoteo, esponendo de‘ nomi di Dio e della gerarchia angelica e ecclesiastica molti profundi sensi, gli comanda che tenga el libro nascoso e non lo comunichi se non a pochi, che di tale cognizione siano degni. Questo ordine appresso gli antiqui ebrei fu santissimamente osservato e per questo la loro scienzia, nella quale la esposizione delli astrusi e asconditi misterii della legge si contiene, Cabala si chiama, che significa recezione, perchè non per scritti ma per successione a bocca l‘uno dall‘altro la ricevono. Scienzia per certo divina e degna di non participare se non con pochi, grandissimo fundamento della fede nostra, el desiderio solo del quale mi mosse all‘assiduo studio della ebraica e caldaica lingua, sanza le quali alla cognizione di quella pervenire è al tutto impossibile. Quanto fussi el medesimo stilo da‘ Pitagorici osservato si vede per la epistola di Liside ad Ipparco, nè per altra ragione gli Egizii in tutti e‘ loro templi aveano sculpte le Sfinge, se non per dichiarare doversi le cose divine, quando pure si scrivano, sotto enigmatici velamenti e poetica dissimulazione coprire, come el Poeta nostro nella presente canzona avere fatto secondo le forze nostre avemo dichiarato, e dagli altri poeti latini e greci nel libro della nostra poetica teologia dichiareremo.

Estancia última

Canción, yo siento que Amor la brida recoge

Fue opinión de los antiguos teólogos que no se deben publicar temerariamente las cosas divinas y los secretos misterios, sino cuanto arriba era permitido; pero finge el Poeta, como casi preparado para razonar más allá, ser retirado por Amor y por él serle mandado que al vulgo sólo muestre la corteza de los misterios amorosos reservando el núcleo del sentido verdadero a los intelectos más elevados y más perfectos, regla observada por quienquiera que de las cosas divinas ha escrito según los antiguos. Escribe Orígenes que Jesucristo reveló muchos misterios a sus discípulos los cuales ellos no quisieron escribir, pero solo con la boca, a quien parecía digno de ello, los comunicaron; y esto confirma Dionisio Areopagita haber observado en nuestros sacerdotes, que por sucesión del uno al otro recibían la inteligencia de secretos que no era lícito escribir. Y Dionisio a Timoteo, exponiendo muchos sentidos profundos en los nombres de Dios y la jerarquía angélica y eclesiástica, le manda que tenga el libro escondido y no lo comunique sino a los pocos que de tal cognición sean dignos. Este orden por los antiguos hebreos fue observado santísimamente y por ello su ciencia se llama Cábala −en la cual se contiene la exposición de los misterios abstrusos y escondidos de la ley−, que significa recepción, porque no por escritos sino por sucesión de boca [en boca] de uno al otro la reciben. Ciencia por cierto divina y digna de no participar sino a pocos, grandísimo fundamento de nuestra fe; el deseo solo de la cual me mueve al asiduo estudio de la lengua hebraica y caldea, sin las cuales llegar a la cognición de aquella es del todo imposible. Cuánto fuese el mismísimo estilo de los pitagóricos, se ve observado por la epístola de Lisias a Hiparco; no por otra razón los egipcios en todos sus templos tenían esculpida la Esfinge, sino para declarar que se deben cubrir las cosas divinas, cuando sin embargo se escriben, bajo enigmáticos velos y disimulación poética; hemos declarado cómo nuestro Poeta en la presente canción ha hecho, según nuestras fuerzas, y sobre los otros poetas latinos y griegos hablaremos en el libro de nuestra teología poética.