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Il potere della tecnologia

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Idee

nterneH R E

S T ¡ U D

Dieci anni fa un saggio apriva un dibattitosull'influenza della Rete sui nostricomportamenti. Oggi quegli effetti sono piùallarmanti. Eper il senso critico è S.O.S.

di Marco Paciniillustrazione di Antonio Fuso

P II

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Il potere della tecnologia

Conoscenza frammentaria, confusionetra informazione efake news, vita socialemutata sono innegabili. Il salto da fare ècominciare a sfruttare davvero il digitale

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a scena prima è quella no-ta, quasi un mito fondati-vo: la California, i garage,i nerd che li occupavanotrasformandoli in incuba-tori di futuro, ragazzini opoco più che erano dispo-sti ad abbandonare le più

prestigiose università per inseguire la loroutopia tecno-libertaria.

Il seguito è altrettanto noto: i primi ven-ture-capitalist che bussavano ai portoni diquei garage, la crescita esponenziale delle"Dot-com" (le internet companies) fino alloscoppio della bolla che ne lasciò sul campomolte, ma pose le basi per l'oligopolio hi-gh-tech che oggi ci mostra i volti della meta-

morfosi compiuta dai suoi guru:da anarco-libertari ad anarco-li-

~

beristi. E nel frattempo, mentreun pugno di tecnologie strateghifinanziari stavano diventando inuovi "capitalisti della sorve-glianza", a noi utenti, beneficiarie "merce" insieme in quell'inter-net che da connettore del mon-do si è fatto mondo, a noi cosaaccadeva?Siamo davvero diventati tutti

più stupidi, oltre che fornitori in-stancabili di dati e "surplus com-portamentale"? Si è verificato unregresso cognitivo di massa pro-prio in contemporanea con lo

sviluppo di "intelligentissimi" algoritmi pre-dittivi che ci confezionano per proporci sulmercato non solo come siamo ma anchecome saremo?La domanda era contenuta in un libro

uscito negli Stati Uniti dieci anni fa e desti-nato a diventare un best seller tradotto in 17lingue: "The shallows: what the internet is

doing to our brains" di Nicholas Carr. Un an-no dopo, nel 2011, usciva da Raffaello Corti-na l'edizione italiana, con un titolo più di-retto: "Internet ci rende stupidi?".

Non era una domanda nuova: sulla sciadi McLuhan e degli studi sulla plasticità delcervello, schiere di ricercatori erano già datempo al lavoro per "certificare" i mutamen-ti che il nuovo medium stava provocando alnostro hardware endocranico e al nostrosoftware, il modo di pensare. E dieci anniprima, a molta distanza dalla Silicon Valley,il linguista Raffaele Simone aveva già af-frontato gli stessi temi in "La terza fase: for-me di sapere che stiamo perdendo".

Tuttavia, in quel 2010 e negli anni imme-diatamente successivi, anche sull'onda dellibro di Carr si verificò una sorta di esplosio-ne di una seconda bolla internet, questa vol-ta culturale e "speculativa", ma nell'altro sen-so della parola. Tecno-entusiasti e tec-no-scettici si sfidavano non solo in rete maanche a colpi di libri (sì, i già vecchi libri dicarta) tra apologie e moniti sulle meravigliee le trappole della rete e delle tecnologie di-gitali in generale. E non si trattava di unabattaglia tra umanisti e tecno-scienziati:

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quasi in contemporanea con il libro di Carr,per esempio, usciva "Tu non sei un gadget"di Jaron Lanier, tecnologo di fama mondiale,uno dei padri della realtà virtuale. E tuttaviacritico feroce del "totalitarismo cibernetico ,acuto censore del mondo che aveva visto na-scere da dentro e che aveva contribuito acostruire. «Qualcosa è andato storto nellarivoluzione digitale», continua ancora oggi aspiegare Lanier. Storto per la nostra intelli-genza, per la nostra emotività, in definitivaper la nostra umanità. Ma provate a dirlo aClay Shirley, guru della rete che sempre inquel 2010 ne cantava le infinite potenzialitàin un libro che già nel titolo era un manife-sto: "Surplus cognitivo".

Negli anni successivi, mentre Carr si pre-parava a rincarare la dose con "La gabbia divetro" e il neuroscienziato tedesco ManfredSpietzer si spingeva oltre parlando di "De-menza digitale", il fronte dei tecno-entusia-sti (che in alcuni casi erano ormai stati bat-tezzati "tecno-evangelisti") non si rispar-miava. Due titoli tra i molti: "Perché la reteci rende più intelligenti" (2013) di HowardReinghold e "La stanza intelligente" (2012)di David Weinberger; un titolo - quest'ulti-

Da sinistra, in senso orario:Nicholas Carr, HowardReinghold, Manfred Spitzer,Jaron Lanier, David Weinberger

mo - che oggi potrebbe prestarsi a facili iro-nie a giudicare dalla progressione con cui la"stanza (internet) si è riempita di spazzatu-ra e dalle energie impiegate dagli spazzini(dai debunker ai censori distratti delle piat-taforme) per ripulirla almeno un po'.Ma in definitiva, tutto questo brulicare in

rete scrollando, taggando, linkando, laikan-do (ma anche leggendo, informandoci) ci hadavvero resi più stupidi, come sospettavaCarr? Domanda ancora più cogente a 10 an-ni dal libro, considerando che in questo arcodi tempo la connessione di un occidentalemedio è più che raddoppiata. O, per usare ilfelice neologismo del filosofo della rete Lu-ciano Floridi, il nostro agire non è più scissotra l'online e l'oflline, avendo trovato unasintesi "onlife". Lo stesso Floridi, docenteall'università di Oxford, dove dirige il Digitalethics lab, racconta: «Ricordo un dibattitocon Nicholas Carr al Mit. Era molto pessimi-sta sulle tecnologie digitali. Io ero e resto indisaccordo». Perché, professore? «Perchésiamo sempre stati stupidi (e cattivi): Au-schwitz, Hiroshima, e la distruzione del pia-neta sono orrori pre-digitali insuperabili.Perché in realtà il digitale polarizza: ren- +

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I1 potere della tecnolo

de più stupidi gli stupidi, e più intelligentigli intelligenti. E perché la questione non èse il bicchiere sia mezzo vuoto o pieno, macome si fa a riempirlo. Smettere di lamentar-si e sfruttare il digitale per risolvere le grandisfide del nostro tempo: questo è un progettoumano fattibile, che ci riscatterebbe dallastupidità del Novecento».

Raffaele Simone, che nel 2012 approfondìil tema con "Presi nella Rete", non sposa latesi di Carr. O almeno non senza dei distin-guo, anche generazionali. «Sicuramente nonsiamo diventati più stupidi», osserva il lin-guista, «anche perché possiamo contare suvie di conoscenza che nessuno aveva a di-sposizione. Ciò non significa che siamo mi-gliorati grazie a internet».Nei suoi libri Simone sottolineava in par-

ticolare la differenza tra un'intelligenza se-quenziale, figlia della lettura tradizionale diun testo, e una simultanea sviluppatasi coni media elettronici (ed esplosa con la rete)che definiva più "primitiva".Oggi individua alcuni cambiamenti im-

portanti indotti dalla pervasività dei mediadigitali. Il primo riguarda i giovani «che so-no meno difesi e meno critici nei confrontidell'uso della rete». E l'effetto è stato di«avergli bruciato il cervello, il che ha com-portato anche un cambiamento radicale nelrapporto con la scuola e l'educazione». Ilsecondo riguarda tutti, compresi i criticidella rete; «L'ecologia della nostra cono-scenza quotidiana», sostiene Simone, «ècambiata profondamente: siamo continua-mente in rete per avere informazioni, ma diquesta informazione non siamo in grado diformare un organismo strutturato, restanoinformazioni irrelate; la conoscenza è di-ventata un insieme di frammenti». Infine -conclude il linguista e saggista - «è fonda-mentale non trascurare il fatto che dall'altrolato della rete non c'è una persona, ma orga-nizzazioni planetarie: tutto viene spiato, re-gistrato e trasformato in big data facendociscoprire nudi davanti ai controllori dellarete. Questi cambiamenti sono stati una ri-voluzione straordinaria per la cognizione,per l'educazione e per la vita sociale: forsenon siamo diventati più stupidi, ma la no-stra vita interiore ne è uscita profondamen-te mutata».Ma torniamo al libro di Carr e alle sue te-

si, che rendono il punto interrogativo del ti-tolo un semplice artificio retorico. -~

68 L'Espresso 4 ottobre 2020

oi a

The celebritiesDilemmaFenomeni dei social si trasformano incampioni di dissenso verso quelle stessepiattr Ovvie. Un passaggio di iínportali:acruciale perfi enar ne la deriva politica

di Sabrina Provenzani

«Amo potermi connettere direttamente con voi tramite Instagrame Facebook, ma non posso restare in silenzio mentre questepiattaforme continuano a consentire la diffusione di odio,propaganda e disinformazione - creati da gruppi che seminanodiscordia e lacerano l'America - e prendono prowedimenti solodopo che la gente viene uccisa. La disinformazione condivisadai social media ha un serio impatto sulle nostre elezioni e minala democrazia». È il 15 settembre quando Kim Kardashian,regina di Instagram, l'influencer globale, annuncia ai suoi 189milioni di followers la decisione di congelare il suo accountper un giorno. Aderisce alla campagna di boicottaggio appenalanciata da StopHateForProfit, un conglomerato americano a cuiappartengono giganti dei diritti civili come la Anti-DefamationLeague, Color of Change, Common Sense, Free Press, Leagueof United Latin American Citizens, Mozilla, Naacp, NationalHispanic Media Coalition and Sleeping Giants. Una potenza difuoco impressionante, con referenti politici di area democratica,che accusa Facebook di «aver fallito ripetutamente nel contrastareodio e disinformazione elettorale sulle sue piattaforme».Questa presa di posizione di Kim dà una enorme spinta allacausa di StopHateForProfit, e la rende popolare quando chiede aisuoi di aderire al boicottaggio: «Vi prego di unirvi a me domani,quando "congelerò" il mio account Instagram e Facebook perchiedere a Facebook di smettere di fomentare odio a fini di lucro».Immediato il contagio. All'appello aderiscono altre celebrities,ognuna con la sua dote di followers. Katy Perry, 107 milioni; DemiLovato, 93; Leonardo DiCaprio, 46 milioni. Selena Gomez, 193milioni, posta lo screenshot del messaggio che ha mandato a MarkZuckerberg e Sheryl Sandberg chiedendo di agire. Fondata o no, apoco più di un mese da elezioni estremamente divisive, la criticaal ruolo politico dei social diventa trend sui social. Si arriva così al

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Foto. M. Tamallah

- NurPhoto ! GettyImages

paradosso di celebrities, diventati fenomeni mondiali propriograzie all'utilizzo delle tecniche di conquista dell'attenzioneperfezionate dai social media, che si trasformano in campioni

etici di dissenso verso quelle piattaforme. In questo cortocircuito culturale, il loro impatto è enorme. Lo spiega a UsaToday la social media influencer manager Keith Dorsey: gliinfluencer «raggiungono un mercato precluso anche allesocietà più grandi. I giovani a volte non si fidano dei marchi,ma amano le loro celebrities. E fa la differenza se influencercome i Kardashians lanciano un messaggio, perché i followerpensano "0k, è importante». Ma la campagna non ha solola funzione di rendere l'opposizione a Facebook fenomenoglobale: rappresenta un passaggio cruciale. Dà per scontato ilruolo di attore politico di Facebook. Proprio la responsabilitàche Mark Zuckerberg ha sempre respinto. Nelle sue ripetutee stucchevoli scuse pubbliche, ha ribadito un'interpretazioneoperativa del ruolo della sua creatura: la polarizzazione, gliestremismi sono nella società, e l'unica responsabilità delsocial è eliminarli in tempo quando violano le policies. È unaposizione condivisa da molti addetti ai lavori, che segnalanol'enorme scala della sfida, la difficoltà oggettiva di moderaremiliardi di contenuti, l'impegno delle piattaforme nel dotarsidi fact-checkers e nell'intervenire sui messaggi controversi, ele ripercussioni di quegli errori sul rapporto con gli investitori.I detrattori avanzano invece due critiche principali. La primaè, per restare in tema, operativa: Facebook non interviene,nemmeno di fronte ad accorate segnalazioni interne. È iltema sollevato dai molti ex dipendenti che hanno lasciato lasocietà per "questioni di coscienza". «Ho le mani sporchedi sangue», dice l'ultima di una lunga lista di fuoriusciti,Sophie Zhang, data scientist autrice di un rapporto sul ruolo

decisivo del social nella violenza etnica in Myanmar, ripresoda BuzzFeed. La seconda accusa il modello di business diBig Tech, e di Facebook, di essere strutturalmente divisivo. Lepiattaforme sarebbero costruite per accentuare gli estremismi,non si limitano a riflettere la società: ne alimentano le spinteirrazionali, facendo profitti sulla manipolazione dei singoli. Èla tesi di Roger McNamee, uno dei più autorevoli antagonistidi Zuckerberg. McNamee, tra i primi investitori della SiliconValley, è anche il primo mentore di Zuckerberg. Negli anniperò se ne allontana, vede e denuncia la deriva del social.Fino a diventarne il critico più esplicito nel 2016, quandoesplode il caso Cambridge Analytica: la rivelazione, da partedella giornalista gallese Carole Cadwalladr, del presunto ruolodella compagnia britannica nel micro-targeting degli utenti diFacebook durante la campagna elettorale per le presidenzialidel 2016. Le prove della reale efficacia dell'attività di profilingdi Cambridge Analytica non si sono mai trovate, ma lo scoopcosta a Facebook 134 miliardi di dollari in valore azionario, poirecuperati. Soprattutto, ne cambia la narrazione, rivelando unmodello di business fondato sulla commercializzazione dei datipersonali invece che sull'utopia di una connessione universale.McNamee scrive un libro, "Zucked", che non fa sconti:«Facebook è una minaccia alla democrazia. La democraziadipende dalla condivisione di fatti e valori. Dipende dallacapacità di comunicare e deliberare, e dall'avere una stampaindipendente e altri contrappesi in grado di vigilare sul potere.Facebook, insieme a Google e Twitter, ha minato la libertà distampa erodendo il suo modello economico e saturandola didisinformazione. Su Facebook, informazione e disinformazioneappaiono uguali: l'unica differenza è che la disinformazionefa più soldi, quindi ha un trattamento di riguardo». Sonoi temi sviscerati da Shoshana Zuboff, psicologa socialee docente all'Harvard Business School, nel saggio "Ilcapitalismo della sorveglianza" (Luiss University Press). «Unnuovo ordine economico che utilizza l'esperienza umanacome materiale grezzo, gratuito, per pratiche commercialiocculte di estrazione, predizione e vendita» è l'inizio della suadefinizione del fenomeno. «Un mercato mai esistito prima, checommercia esclusivamente in futures umane». Sia McNameeche Zuboff sono fra gli intervistati di "The Social Dilemma",documentario su Netflix che sta generando un vivace dibattito.I protagonisti sono ex dipendenti di Big Tech, responsabili discelte di enorme impatto e oggi pentiti. Quella che si descriveè la nuova frontiera: il ruolo dell'algoritmo nei comportamentidei singoli. Ma "The Social Dilemma" cade in due pesantiambiguità. Forza la lettura dei fatti, tagliando dal montaggiotutte le critiche equilibrate, e inserisce nel racconto una fictionin cui il social viene rappresentato come un sadico in grado dimanipolare la volontà individuale. Nel denunciare gli eccessidei social ne utilizza i metodi: enfatizza, spaventa, divide,disinforma. La seconda ambiguità: a produrre il documentarioè la stessa Netflix che fonda il successo sul binge-watching esui suggerimenti del suo algoritmo, e il cui Ceo Rees Hastingsavrebbe dichiarato: «Il nostro unico rivale è il sonno». ■

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11 trasferimento della memoria nei de-vice mina seriamente la nostra capacità diricordare; nel passaggio dalla lettura lineareall' "info-paradiso" popolato di link e motoridi ricerca sempre a disposizione paghiamolo scotto di un deficit di attenzione e di pro-fondità che alla lunga erode le nostre capa-cità logiche e di pensiero astratto.

«Il prezzo che paghiamo per acquisire ilpotere della tecnologia è l'alienazione», scri-veva Carr. E ancora: «Le tecnologie intellet-tuali amplificano e intorpidiscono le nostrecapacità naturali più umane e più intime,quelle del ragionamento, della percezione,della memoria e dell'emozione». Nello stes-so periodo il tecnologo Lanier avvertiva:«Temo che stiamo cominciando a progetta-re noi stessi in conformità ai modelli digitalidi noi stessi».

Si tratta di tesi che non ci suonano nuo-ve. E del resto, prima di quel 2010 e fino aoggi, si sono moltiplicati gli studi scientifi-ci che confermano gli assunti principalisulla progressiva dismissione di una intel-ligenza per acquisirne una modellata dainuovi strumenti. Qualcuno lo ha chiamato"pensiero tecno-indotto". La rivista Wired(che non si può certo annoverare tra i pro-pugnatori del tecno-scetticismo) nel giu-gno del 2019 ha dato conto dell'ultima (edennesima) ricerca scientifica internazio-nale sugli effetti che l'esposizione a inter-net produce al cervello. «Un conto sono lechiacchiere da bar, un conto evidenzescientifiche», scriveva Wired. Lo studio inquestione era da poco stato pubblicato suWorld Psychiatry ed era il frutto del lavorodi un team internazionale che ha coinvoltodiversi istituti di ricerca di molte universi-tà, da Harvard a Oxford.Le conclusioni? «Internet può essere la

causa di alterazioni acute e prolungate inspecifiche aree cognitive. Ciò potrebbe in-fluenzare la nostra attenzione, i processi le-gati alla memoria e le interazioni sociali».Insomma, Carr ci aveva visto giusto?

Il potere della tecnologia

Si sono moltiplicati gli studi checonfermano la progressiva dismissionedi un tipo di intelligenza, per acquisirneun'altra modellata dai nuovi strumenti

No, rispondevano (e continuano a farlo) itecno-entusiasti. Ma la ragione di questo no- secondo i più radicali - non risiede tantonel fatto che prese una per una le argomen-tazioni sulla memoria, la profondità del pen-siero, la capacità di astrazione, siano errate.Il punto è che sono irrilevanti. Seguendo leorme dei "tecno-evangelisti" si approda a unterritorio inquietante e interessante. Provia-mo. Ci disfiamo della memoria? Bene, cheliberazione! Perdiamo l'intelligenza sequen-ziale nata con l'invenzione dell'alfabeto?Nulla di grave, in fondo la scrittura lineare èstata solo una parentesi, un esercizio inna-turale per l'uomo, prima del ritorno a unanuova forma di oralità che le tecnologie fa-voriscono. E il pensiero astratto, quella ca-pacità che abbiamo sempre considerato unalinea di confine con il resto del mondo ani-male? Ci servirà a poco, visto che con l'av-vento dei big data possiamo anche fare ameno della teoria.A dieci annidi distanza le tesi e le repliche

al libro di Carr non sembrano aver persoforza. Ma molto è accaduto nel frattempo.Lo sottolinea Paolo Benanti, teologo france-scano considerato uno dei più acuti osser-vatori della rete e delle tecnologie digitali,che affronta in chiave di "algor-etica .

«Il vero tema oggi non è tanto internet»,osserva, «e dopo dieci anni ce ne siamo resiconto: il vero tema sono le app, una nuovapopolazione di algoritmi. Ci sono dei nuoviattori che sono i grado di produrre e predirei nostri comportamenti».

«Applicati ai social», prosegue Benanti,«questi algoritmi producono una galassiaulteriore di effetti sociali non tutti intelli-genti, ma efficacissimi. E con un effetto co-gnitivo, perché l'orizzonte di ciò che esisteci è dato da Google, non da Dante». Da quila necessità della crescita di un pensiero cri-tico e di decodifica, secondo il teologo.«Perché gli algoritmi non possono essereuna black-box».

Nell'attesa di sapere che cosa internet (e leapp) "stanno facendo ai nostri cervelli" - perriprendere il sottotitolo originale di "Theshallows" - qualcuno potrebbe rivendicareil diritto a estendere le sue isole analogiche.Ma il punto è: possiamo farlo? O non c'è viad'uscita dal "totalitarismo cibernetico" dicui parla il tecnologo Lanier?In fondo c'era anche nel Truman show. •

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