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Crisi economiche, finanziarie, di panico e bolle speculative nella storia Indice 1. Introduzione 2. Crisi dei banchieri fiorentini 3. Bolla dei tulipani 4. Bolla dei mari del sud 5. Bolla della compagnia del Mississipi 6. Definizione di bolla speculativa – Scienza delle finanze 7. Panico del 1792 8. Panic of 1819 - English 9. Panico del 1825 10. Panico del 1837 11. Bolla speculativa Railway 12. La Grande depressione 13. Panico dei banchieri 14. Il grande crollo 15. Lo shock petrolifero 16. Crisi dei videogiochi 17. Il lunedì nero 18. Crisi delle tigri asiatiche 19. Bolla del dot.com 20. Crisi del luglio 2002 21. Bolla immobiliare e crisi dei mutui subprime 22. Crisi finanziaria e crisi economica attuale 23. Crisi della Northen Rock e fallimenti bancari - Tecnica 24. Confronto con le crisi del passato 25. Bibliografia Introduzione

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Crisi economiche, finanziarie, di panico e bolle speculative nella storiaIndice

1. Introduzione2. Crisi dei banchieri fiorentini3. Bolla dei tulipani4. Bolla dei mari del sud 5. Bolla della compagnia del Mississipi6. Definizione di bolla speculativa – Scienza delle finanze7. Panico del 17928. Panic of 1819 - English9. Panico del 182510. Panico del 183711. Bolla speculativa Railway 12. La Grande depressione13. Panico dei banchieri14. Il grande crollo15. Lo shock petrolifero16. Crisi dei videogiochi17. Il lunedì nero 18. Crisi delle tigri asiatiche19. Bolla del dot.com 20. Crisi del luglio 2002 21. Bolla immobiliare e crisi dei mutui subprime 22. Crisi finanziaria e crisi economica attuale23. Crisi della Northen Rock e fallimenti bancari - Tecnica24. Confronto con le crisi del passato25. Bibliografia

IntroduzioneQuanto è grave l’attuale crisi economica e finanziaria? Quanto durerà? Che esiti potrà avere? Non c’è chi non si faccia queste domande. Per cercare una risposta il primo passo è alzare lo sguardo, allargare l’orizzonte e affondare le nostre indagini nella storia. La tendenza ad aderire a nozioni piuttosto anguste e rassicuranti di “normalità” ci porta a concepire questa crisi, con un certo senso di angoscia, come eccezionale e anzi unica. Per certi versi lo è. Non c’è fenomeno storico che non sia singolare. E' il problema di una scienza sociale e storica come l’economia è in fondo proprio

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questo: ha continuamente a che fare con eventi irripetibili. Per altri versi, però, se si accettano questa considerazione di base e l’indeterminatezza a cui ci costringe, è possibile fare diversi passi avanti nella nostra conoscenza. Si può ad esempio scoprire che le crisi finanziarie, da quando l’economia ha assunto una forma capitalistica, sono state una regola e niente affatto l’eccezione.

Ho cercato di argomentare che le recenti paure di una imminente ripetizione del crollo del ’29 e di una Grande Depressione stile anni ’30 non sono poi così esagerate. I fattori che trasformarono la crisi finanziaria degli anni ’30 in una Grande Depressione, rendendola diversa e più grave di molte altre del passato, non si sono sino ad oggi ripetuti e fortunatamente poco lascia pensare che si stiano affacciando sulla scena. Ma restano comunque sempre sullo sfondo come un rischio potenziale.

La forte crescita economica che ha contraddistinto il periodo successivo alla fine della Seconda guerra mondiale e le ricette di politica economica anticiclica confezionate da John Maynard Keynes proprio a seguito di una delle più gravi crisi della società industriale (la crisi del '29) avevano fatto tramontare l’interesse per le crisi in generale ma, soprattutto, avevano fatto ritenere che mai più si sarebbe verificata una crisi di tale portata.

Fino al recente “tsunami” finanziario, come qualcuno lo ha definito, che ha riportato invece sotto gli occhi di tutti che la nostra economia non è ancora efficaciemente vaccinata alle crisi: perché? Si può imparare qualcosa dalla storia?Sì, la crisi odierna infatti non è poi tanto diversa da quelle verificatesi in passato, anzi... La struttura si ripete sempre uguale: innovazioni tecnologiche, guerre, nuovi strumenti finanziari o eventi di natura monetaria danno il via a nuove occasioni di guadagno.La corsa agli investimenti diventa euforica e s’innesca la spirale speculativa.Tutti comprano a qualunque costo e i tassi d’interesse richiesti da chi presta denaro crescono.Quando qualcuno però si rende conto che la pressione è diventata eccessiva inizia a vendere, si ribaltano le aspettative e tutti lo imitano facendo crollare i mercati. Se nessun agente esterno interviene, istituzioni finanziarie e imprese cominciano a fallire, spostando gli effetti della crisi dalle Borse alle tasche della popolazione.

Spesso si dimenticano fatti economici molto lontani dai giorni nostri, con la erronea convinzione che un intervallo così lungo nel tempo non possa essere comparato, specie

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se si tratta di materie che si sono così evolute, come l’economia.Viene, quindi, da chiedersi come sia possibile che, conoscendone lo schema e le estrinsecazioni reali di una crisi economica, gli agenti del mercato ricadano sempre periodicamente negli stessi errori.Innanzitutto va chiarito il legame che esiste tra crisi economiche e crisi finanziarie.Le crisi economiche derivano da saturazione di mercati e di regimi tecnologici, da gravi squilibri nella distribuzione del reddito, da errati interventi di politica economica, da conflitti armati, carestie, disastri naturali, tutti motivi che fanno cadere gli investimenti e talora anche lo stock di capitale, aumentare la disoccupazione e dunque una caduta dei consumi.I conseguenti fallimenti delle imprese generano problemi alle banche e queste iniziano esse stesse a fallire: è così che le crisi finanziarie arrivano dopo una crisi sul lato reale, se non vi è alcun intervento di politica economica.E' in questo tipo di congiuntura che le ricette keynesiane sono particolarmente efficaci nel contrastare la caduta degli investimenti e dei consumi e nell’evitare l’insorgere delle crisi finanziarie. La speculazione svolge in questi casi un ruolo marginale e per nulla rilevante.E’ però possibile che le crisi finanziarie scoppino prima di una crisi sul lato reale e in questi casi la speculazione svolge un ruolo primario, come è accaduto durante la recente bufera finanziaria legata. Ma come distinguere la speculazione dall’investimento?La speculazione è uno sforzo, con molte probabilità di fallire, di trasformare poco denaro in tanto denaro, mentre l’investimento è uno sforzo, con molte probabilità di

successo, per evitare che molto denaro diventi poco denaro.In altre parole, l’investimento produce ricchezza sul lungo termine, mentre la speculazione lavora sul breve termine; l’investimento richiede un impegno prolungato

e un’applicazione di talenti

professionali, mentre la speculazione intruppa i soggetti in greggi rialziste nei periodi di euforia e in greggi ribassiste in quelli di panico.Si potrebbe paragonare la speculazione al gioco d’azzardo, però con una differenza importante: nel gioco d’azzardo chi perde sa quanto perde, perché è lui stesso che fa le puntate del gioco. Nella speculazione finanziaria, invece chi perde non sa mai quanto perde e, in più, l’intero sistema va in crisi e non perdono solo gli speculatori.

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Ci sono due fattori che si combinano periodicamente generando crisi finanziarie in società che sono note per i loro comportamenti economici “razionali”: il primo è il permanente desiderio umano di diventare ricchi senza fatica e il secondo è il continuo sorgere di “novità” le cui caratteristiche sono poco note talora agli stessi che le producono. Sono queste novità ad alimentare l’illusione che si sia trovato il mezzo giusto per dar corso al desiderio sopracitato.

Le autorità pubbliche spesso non sanno far altro che tamponare le crisi quando sono scoppiate invece di prevenirle.La storia è costellata da eventi con caratteristiche simili che si avvicinano in certi punti alle crisi verificatesi in anni più recenti e quindi per capire meglio la crisi attuale occorre ripercorrere un po’ la storia e partire dalle vicende che accaddero alla fine del 1200.

Correva l'anno 1272 ed Edoardo I d'Inghilterra intratteneva eccellenti rapporti d'affari con alcuni banchieri italiani. In un sistema che potremmo descrivere come una variante antica del modello Northern Rock, i Ricciardi si affidavano ai prestiti interbancari per finanziare il credito concesso al re. Ma a partire dal 1290 si verificò una crisi di liquidità simile a quella innescata negli Stati Uniti dai subprime nel 2007. Con esiti disastrosi. E un monito della storia per i governi di oggi, che iniziano a chiedersi come pagare gli obblighi che continuano ad assumersi.

Edoardo I d'Inghilterra stabilisce una stretta relazione finanziaria con una particolare società mercantile, i Ricciardi di Lucca.Tra il 1272 e il 1294 i Ricciardi furono coinvolti nella raccolta e nell'esborso di circa 20mila sterline l'anno, equivalenti a più o meno alla metà del normale reddito annuale del re. Potremmo forse paragonare questo sistema a un moderno conto corrente, completo di ampie possibilità di scoperto su fido. Ed Edoardo faceva largo ricorso al fido, con scoperti in genere tra le 10mila e le 20mila sterline.

Il rapporto d'affari era vantaggioso per entrambe le parti. Il re otteneva anticipi sulle entrate reali e poteva così far fronte alle fluttuazioni stagionali del suo reddito, senza il peso di detenere sostanziose riserve di cassa. I Ricciardi ottenevano un ritorno finanziario sull'anticipo di denaro anche se ciò generalmente non traspare dalle fonti per il divieto di usura imposto dalle autorità religiose. In più, i mercanti italiani traevano profitto dalla gestione delle imposte papali raccolte in Inghilterra, un'attività che ha giocato un ruolo cruciale nella formazione del capitale.

A partire dal 1290 però l'imposta papale fu gradualmente richiamata a Roma mentre il re di Francia imponeva ai mercanti italiani il pagamento di notevoli somme di denaro, lasciando le società mercantili sotto-capitalizzate.All'inizio, i Ricciardi cercarono di recuperare le loro posizioni attraverso una serie di credit swaps e di compensazioni tra loro creditori e debitori. Questo richiedeva una nuova contabilità con Edoardo, nella convinzione che il suo

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scoperto, unito ai ricavi dalla lana confiscata e dai debiti, avrebbe compensato una gran parte della enorme tassa papale. L'altro loro creditore principale era il Papa e i Ricciardi cercarono di convincerlo ad accollarsi i crediti che i mercanti vantavano in Italia e Francia: il Papa si trovava certo in una situazione migliore per esigerne il pagamento. Se vogliamo tracciare un nuovo parallelo con la situazione attuale, è l'intervento statale attraverso l'emissione di bond garantiti dal Tesoro in cambio delle più illiquide attività detenute dalle banche. Sfortunatamente per loro, i Ricciardi non riuscirono a convincere i governi ad aiutarli.

Oggi, azioni punitive nei confronti delle banche avrebbero conseguenze economiche ben più serie, considerato l'attuale ricorso al credito. Questa storia può avere una notevole eco in questo momento, quando i governi inizieranno a cimentarsi con il problema di come pagare gli obblighi che continuano ad assumersi.

Crisi dei banchieri fiorentini (1340 – 1350)Tra il 1343 e il 1346, i Bardi e i Peruzzi, furono letteralmente travolti da un’ambigua storia di mutui subprime, come diremmo oggi. È ovvio che allora questo termine non esisteva, ma già sette secoli fa esisteva ed era ben attivo un certo capitalismo d’assalto, il quale aveva concesso ingenti prestiti ad altissimo rischio senza troppo preoccuparsi delle conseguenze: si trattava di speculazioni simili a quelle sui mutui subprime dell’attuale crisi.E le conseguenze ricalcano fedelmente quelle odierne; infatti, la crisi causò l’insolvenza dei debitori e numerosi fallimenti nel sistema finanziario (ciò voleva dire la fine del credito e la conseguente crisi dell’economia reale).

Per ricostruire la storia, bisogna anzitutto parlare dei personaggi che ne furono coinvolti: la famiglia dei Bardi, dei Peruzzi, due delle più importanti famiglie di banchieri fiorentine, il terzo protagonista di questa vicenda il re Edoardo III d’Inghilterra, uno dei principali responsabili della Guerra dei Cent’anni.Firenze era considerata allora la vera e propria “Banca Centrale Europea” e la sola famiglia dei Bardi nel ‘300 poteva vantare il possesso di ben 25 filiali, in Italia e all’estero.

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Questa vera e propria holding commerciale divenne ben presto una multinazionale dei capitali a prestito, con l’intento di finanziare le guerre di Edoardo.I Peruzzi misero a frutto un’operazione subprime, dato che il re garantiva solo con la sua parola e il prestigio di monarca.I Bardi e i Peruzzi vantavano 125.000 sterline di credito nei confronti del sovrano inglese, una somma davvero enorme per l’epoca.

La situazione assunse poi dei toni drammatici nel 1337, dato che Edoardo rimase invischiato in una guerra infinita e annunciò di non essere in grado di rimborsare i mutui contratti.Fu questo a far fallire le due famiglie, anche perché gran parte delle somme date in prestito al re erano risparmi affidati in amministrazione fiduciaria dai correntisti, i quali ora pretendevano la restituzione dei capitali, con interessi altissimi.I primi a cedere furono i Peruzzi: dichiararono l’insolvenza e patteggiarono coi creditori dei rimborsi in percentuale che li portò alla rovina. I Bardi si ritrovarono nella stessa situazione nel giro di poco tempo.Molti operatori del settore furono travolti e si può dire che si trattò del crac di tutta Firenze.

Questa vicenda, che può essere considerata la prima crisi dei mutui della storia, vide la morte sul rogo di due funzionari della Zecca e l’inizio di una depressione economica senza precedenti: i traffici commerciali di qualsiasi tipo furono distrutti e il mercato entrò in confusione.Un cronista dell'epoca scrisse: “non si deve tacere il vero per chi ha a fare memoria di queste cose, per dare ad esempio a quelli che sono a venire di usare migliore guardia“.Come a dire: posteri avvisati, mezzo salvati, ma, come visto, la storia si ripete sempre.

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Bolla dei tulipani (1637)

Nel '600 l’Olanda divenne teatro della prima bolla speculativa della storia, legata a un fiore che ancora oggi in memoria di quel periodo è conosciuto come “ il fiore che fece impazzire gli uomini”.

I tulipani arrivarono in Olanda nel 1562, con un carico giunto da Costantinopoli.L’interesse per questi fiori dalle diverse colorazioni divenne una vera e propria mania che negli anni si trasformò in una smodata e insensata ricerca degli esemplari più “rari”. Maturò l’idea che tali fiori fossero pregiati, e qualcuno cominciò a suggerirne l’acquisto in un’ottica speculativa, considerato che il prezzo andava aumentando col tempo (un po’ come avviene per i metalli preziosi o gli oggetti d’arte).

Pian piano il prezzo stesso divenne l’oggetto dell’attenzione comune e sempre più persone cominciarono ad acquistare bulbi per poterli rivendere di lì a poco realizzando cospicui guadagni.Pare che gran parte della speculazione fosse dovuta a delle vere e proprie opzioni sui tulipani: i commercianti compravano i diritti di aumentare le loro giacenze a un prezzo prefissato e i coltivatori, per proteggersi da cadute dei prezzi, pagavano per assicurarsi di poter vendere alla controparte a un certo prezzo.

Nel 1636 il mercato dei tulipani, aveva aperto empori anche nelle Borse di diverse città e l’entusiasmo era quello che di solito caratterizza i giochi d’azzardo, con moltissime persone che effettuavano scommesse sull’aumento o la diminuzione delle scorte di bulbi, un po’ come avviene per i contratti futures oggi. La gente era convinta che quella passione generale per i tulipani sarebbe durata in eterno e che da tutto il mondo sarebbero fioccati ordini di persone abbienti per le quali nessun prezzo sarebbe stato troppo alto.E fu così: intere proprietà venivano liquidate per comprare bulbi e, di fatto, questo costituì la leva finanziaria per contrarre sostanziosi mutui.

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Tutta l’economia olandese fu trasportata da questo fenomeno, ed anche i prezzi degli altri beni, come quelli di prima necessità, aumentarono gradualmente. All'inizio le vendite dei bulbi avvenivano dalla fine di giugno, quando si dissotterravano, fino a settembre, mese in cui si ripiantavano. In seguito ebbero luogo tutto l'anno con l'impegno di consegnare i bulbi in estate.

Si finì così per commerciare " tulipani di carta", vale a dire solo gli atti di acquisto, secondo il ben noto e rischioso gioco di Borsa. Le frodi, poi, erano all'ordine del giorno in quanto non si poteva certo stabilire dall'aspetto del bulbo se il tulipano sarebbe stato quello della qualità e specie dichiarati dal venditore.A settembre del 1636 i prezzi iniziarono a salire vertiginosamente. L’andamento rialzista proseguì nei mesi di novembre, dicembre e gennaio raggiungendo valori esorbitanti. Il crollo arrivò nel febbraio del 1637.Dire quale fu la causa che invertì la tendenza resta impossibile, resta il fatto che qualcuno cominciò a sbarazzarsi dei bulbi di tulipano, scuotendo le certezze degli altri operatori, i quali di lì a poco furono preda della nevrosi e del panico e diedero inizio a forsennate vendite che trascinarono i prezzi ai minimi.La folle corsa verso il rialzo si era dunque arrestata nell'arco di pochi giorni. Nel breve volgere di sei settimane i prezzi crollarono del 90%. i bulbi di tulipano presto scesero a meno di un euro cadauno. Immaginate di aver speso 50.000 euro per un bulbo e vedere ridursi il suo valore a un solo euro nel giro di pochi giorni!

Ci si rovinò per tulipani che nè il mediatore, nè il venditore, nè il compratore avrebbero mai toccato con le loro mani. Fu una speculazione sfrenata. Tutti guadagnavano. L'età dell'oro sembrava discesa sulla Terra. E poi improvvisamente, come tutte le febbri altissime, anche questa scese di colpo lasciando l'Olanda prostrata: la gente si stancò dei fiori che costavano più dei diamanti.Il 24 febbraio del 1637 si riunì ad Amsterdam un'assemblea di delegati delle principali

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città olandesi per discutere il da farsi. I giudici, in modo unanime, si rifiutarono di riconoscere la validità dei contratti di compravendita di tulipani stipulati prima del novembre del 1636, considerandoli alla stregua del gioco d'azzardo: in pratica questi debiti non erano esigibili per legge. Nessuno onorò più i contratti e intere fortune sfumarono all'istante. Per molti fu la rovina.

Bolla dei mari del sud (1720)

La South Sea Company era un’importante società commerciale dell’Inghilterra, nata nel 1711 con grandi speranze e promesse.Spagna e Gran Bretagna stavano vivendo uno dei loro rari momenti di tregua dalle continue guerre ed è proprio in questo preciso momento che la compagnia riesce ad ottenere la concessione relativa ai traffici commerciali con l’America Latina.

La speranza borsistica della Compagnia dei mari del sud si basava sulle numerose aspettative create dalle ricchezze presenti oltreoceano: la nuova impresa commerciale sembrava destinata a risolvere in maniera definitiva tutti i problemi finanziari della Gran Bretagna, tra cui un consistente debito pubblico che ammontava ad oltre 30 milioni di sterline di allora.La compagnia si rese garante dell’accollo totale di tale debito, rilasciando in cambio ai vari creditori una quantità spropositata di propri titoli e assicurandosi così anche una rendita fissa dallo Stato.

Nonostante la South Sea Company non avesse ancora cominciato i suoi viaggi verso i promettenti territori del Sud America, le sue obbligazioni erano già state sottoscritte da moltissimi soggetti, grazie anche ad una “pubblicità” senza precedenti.Dunque, la compagnia si indebitò immediatamente con questi investitori (al giorno d’oggi diremmo che essa aveva un elevato leverage, ovvero la proporzione tra capitale proprio e capitale fornito dai terzi). Le grandi aspettative di una ricchezza facile e sicura si allargarono; si pensava che la Spagna avrebbe sicuramente aperto i mercati sudamericani ai prodotti inglesi e ci fu di conseguenza una folle corsa all’acquisto dei titoli della compagnia.

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Il titolo della South Sea Company passò da 128 sterline ad oltre 1000 sterline nel corso 1720. Ma già dopo un mese dal boom del titolo, le azioni crollarono improvvisamente, tornando quasi alla quotazione iniziale.Il motivo di un declino così repentino è facilmente spiegabile: le premesse iniziali dell’impresa commerciale stavano via via venendo meno e fu il panico tra gli investitori.

Un'inchiesta parlamentare mise in luce frodi e la diffusione di molte notizie false da parte dei responsabili della compagnia (oggi si parlerebbe di insider trading). Molte persone finirono sul lastrico, avendo investito gran parte dei loro risparmi in questa iniziativa; anche il celebre scienziato Isaac Newton che per guadagnarsi da vivere faceva il direttore della Zecca inglese. Aveva acquistato azioni della South Sea Company che poi aveva venduto con un buon guadagno nell’aprile del 1720, temendo l’isterismo di massa. Disse in proposito: “posso calcolare il movimento dei corpi celesti, ma non la pazzia della gente”. Qualche tempo dopo, vedendo che il corso delle azioni della Compagnia continuava a salire, decise inopinatamente di rientrare in gioco e perse così una fortuna. La Banca d’Inghilterra risolse in qualche modo la situazione, attivando iniezioni di liquidità: per la prima volta si promossero leggi per limitare il libero mercato.

Bolla della Compagnia del Mississippi (1720)

Una bolla speculativa analoga a quella descritta in precedenza, scoppiò negli stessi mesi anche in Francia. Ci fu infatti il crollo della Compagnie du Mississippi, una società fondata da un economista e banchiere scozzese che sarebbe poi divenuto celebre nella storia economica: John Law. Secondo lui gli Stati dovevano aumentare l’offerta di

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moneta per abbassare i tassi di interesse e, conseguentemente, aumentare il Pil reale.Altra convinzione di John Law è che gli enormi debiti pubblici possono essere acquistati da una grande società per azioni privata che, a fronte dell’incameramento del debito pubblico, emettesse azioni. Lo Stato beneficerebbe di tale situazione poiché avrebbe di fronte un solo creditore con cui ottenere tassi più bassi e ricevere dilazioni. A fronte di queste agevolazioni lo Stato deve però concedere dei monopoli a questa società.

Le idee di Law vengono recepite dalla corte francese, che nel 1700 si trovava a fare i conti con un debito spropositato, alimentato dalle esigenze di corte e dalle guerre combattute su più fronti. John Law crea nel maggio 1716 una banca di emissione privata che ha la facoltà di emettere carta moneta con l’impegno di convertirla in moneta su semplice richiesta dei possessori: la Banque Générale.Il collocamento delle azioni della banca non ha successo e così Law autorizza il pagamento delle azioni con debito pubblico al valore nominale, nonostante sul mercato i titoli di debito pubblico valessero il 50% del valore nominale.

L’altra decisione fu quella di ottenere il totale appoggio della Corona per far decollare la banca e rilanciare in grande stile la Compagnie Du Mississipi.L’accordo prevedeva che, in cambio di alcuni monopoli, la società si sarebbe adoperata al ritiro del debito pubblico. Nel frattempo, la Banque Générale diventa banca del sovrano e assume il nome di Banche Royale. La Compagnia ottiene il monopolio del commercio e dello sfruttamento della Lousiana e diventa ben presto la più grande società per azioni mondiale.

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Law colloca diverse tranches di azioni di tre tipologie: mamma, figlia e nipotina, per la diversificazione generazionale.Il valore nominale di tali azioni è di 500 livres e la quotazione sul mercato è di 150 livres. Al momento del secondo collocamento, John Law chiede 550 livres (incorporando, quindi, un premio al rischio sul valore nominale); con la successiva sottoscrizione il premio viene rivisto verso l’alto innescando, in tal modo, una rialzo artificiale del prezzo delle azioni. Law mette inoltre in pratica una politica monetaria espansiva che svolge un ruolo significativo per il collasso del valore delle azioni: la politica monetaria espansiva sostiene il rialzo con tassi bassi e facilità di credito.

Tra il 1719 e il 1720 le azioni della società aumentarono di oltre trenta volte. La Compagnie riuscì ad accumulare ben 7,5 miliardi di lire francesi di allora.Una somma letteralmente folle se si pensa che il bilancio dello stato francese nel ‘700 ammontava a 150 milioni e il suo debito era pari a 1,6 miliardi di lire francesi.

Gli assets della Compagnia delle Indie sono rappresentati da due grandi fonti:

i territori della Lousiana e del Mississippi che Law aveva pubblicizzato come veri e propri paradisi terrestri pieni di ricchezze;

il debito pubblico incamerato, su cui la Corona di Francia pagava un tasso compreso tra il 3% e il 4%.

Sostanzialmente, la capacità di generare profitti di questa società era molto bassa ed è quindi impensabile un valore delle azioni eccessivamente elevato.I prezzi cominciano a precipitare e nel dicembre del 1720 le azioni collassarono da un valore di circa 10.000 livres a 500 livres. Law fu costretto a fuggire dalla Francia e scappare all’estero.Come nel caso dell’Inghilterra, anche qui si verificò il rilevamento del debito da parte della Compagnie. C’è da notare che l’acquisto del debito è una costante delle crisi di ieri e oggi: pensiamo infatti alla crisi attuale, provocata in gran parte dalla cessione di debiti fra le banche (le cose non sono cambiate di molto in trecento anni).

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La bolla speculativa Scienza delle finanze

Di grandi ondate speculative ne è piena la storia. Un caso, senz’altro il più eclatante è stato quello della Tulipomania, nell’Olanda del 1600. In quel caso fu la sfrenata passione (anche commerciale) degli olandesi per i tulipani a tradirli. Tra le altre ondate speculative degne di nota possiamo annoverare quella legata ai titoli della Compagnia dei mari del Sud nel 1700, delle ferrovie inglesi nel 1800, il crack di Wall Street del ’29, i junk bonds americani e la grande bolla giapponese, principalmente immobiliare, degli anni ’80 (baburu) e ultimo, ma non in ordine di importanza, l’ondata speculativa che ha investito il mercato dei titoli tecnologici alla fine degli anni ’90.Con il termine bolla speculativa si definisce il sentiero esplosivo che si forma nel prezzo di un bene e che lo porta, progressivamente sempre più distante dai valori compatibili con le fondamentali economiche dello stesso, dove con fondamentali economiche ci si riferisce a quelle particolari ragioni economiche che sottostanno al movimento di un prezzo. Quando le quotazioni di Borsa capitalizzano aspettative impossibili da misurare si possono formare bolle speculative, destinate a scoppiare, dato che non tutte le iniziative prese dagli investitori avranno successo.

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I tre requisiti fondamentali sono sempre gli stessi:

un bene; un mercato dove il bene viene venduto; individui disposti a vendere e a comprare

Di solito la fase iniziale vede l’affacciarsi sul mercato di un nuovo oggetto di investimento che suscita grande interesse, oppure un rinnovato interesse per un oggetto di investimento già esistente e ormai consolidato . Spesso gioca un ruolo importante la natura innovativa dell’oggetto che, diciamo, già in partenza raccoglie in se’ la componente speculativa.Il fenomeno delle bolle speculative è più spesso visto come un anomalia di mercato legata più alla componente psicologica che a quella razionale. Infatti viene messo in risalto il grado di elevata diffusione del bene oggetto di speculazione, tanto che spesso si arriva a parlare di vere e proprie “manie” e in casi più recenti di “mode” quasi a voler calcare la mano sulla componente irrazionale del fenomeno. Si parla in questi casi infatti di stati di euforia collettiva. La gran parte delle volte, poi, sono coinvolti beni di utilizzo comune (cosiddetti “di massa”) e caratterizzati da un elevato grado di pervasività (fiori, treni, case, Internet). Per esempio, nel caso di Internet e dei titoli tecnologici ha giocato molto a favore l’applicabilità delle innovazioni dell’Information technology a molti campi della vita umana. Lo stesso dicasi nel caso della bolla che ha investito l’Inghilterra nell’epoca della rivoluzione ferroviaria. Anche allora vi era una innovazione, anche allora la febbre speculativa si era sviluppata in tutta la popolazione e anche allora si sapeva che non tutte le compagnie ferroviarie sarebbero state in grado di accaparrarsi l’appalto, solo tutti speravano di centrare il cavallo vincente.

Tra le cause di sviluppo delle bolle speculative vanno annoverate:

lo spostamento di interesse su un nuovo oggetto di investimento (oppure l’aumento di redditività di investimenti già affermati);

una componente speculativa, chi entra nel mercato in seguito lo fa solo basandosi sulle aspettative di guadagno incurante delle ragioni che hanno garantito i primi aumenti;

un effetto positivo secondario dovuto all’affacciarsi sul mercato di investitori inesperti.

Le conseguenze immediate sono:

il collocamento di nuove società per sfruttare le occasioni offerte dalla condizione di euforia del mercato;

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un eccessivo utilizzo della leva finanziaria da parte degli investitori da un lato e dall’altro da parte di aziende per superare i blocchi all’entrata.

Tutto questo porta ad una minore liquidità nel sistema economico insieme ad un aumento dei tassi di interesse e ad una incapacità di pagare debiti e rendite. Fattori questi ultimi che spingono l’economia in una fase di ristrettezza finanziaria e quando la vendita è l’unica via di uscita al pagamento dei debiti assistiamo all’inversione di tendenza nella fase di salita del prezzo.Quando ciò succede si dice che la bolla è esplosa, e la fine di discesa dei prezzi poi potrà portare a tre conseguenze:

la chiusura del mercato: soluzione irreale in un mercato mondiale integrato; l’intervento di un prestatore di ultima istanza come la Banca d’Italia, il Fondo

Monetario Internazionale; la convenienza associata ad una eccessiva caduta: inizialmente l’economia aveva

spinto i prezzi al di sopra di ogni ragionevole valutazione, ora deprime le quotazioni al di sotto del valore reale creando ottime opportunità.

Secondo uno dei modelli più recenti, datato 2001, e sviluppato dai matematici Montrucchio e Privileggi la nascita di una bolla speculativa è connessa alle funzioni di utilità ed alle curve di indifferenza del consumatore. La promessa di un guadagno più elevato può portare il consumatore a scegliere di superare la sua indifferenza aspettando a consumare il bene in vista di un guadagno più elevato tenendo l’azione più a lungo, insomma più è grossa la bolla (e più è possibile guadagnare), più dura.

Panico del 1792

Il Panico del 1792 è stata una crisi del credito finanziario che ebbe luogo nei mesi di marzo e aprile del 1792 a causa della speculazione di William Duer e Alexander Macomb nei confronti dei titoli azionari della "Bank of New York".Mentre Duer tentava di guidare i prezzi delle azioni verso l'alto, la famiglia Livingston tentava di guidarli verso il basso e questo comportamento causò una corsa agli sportelli. Macomb e Duer finirono in rovina mentre il Segretario al Tesoro, Alexander Hamilton, prevenì una crisi nazionale fornendo centinaia di migliaia di dollari in titoli alle banche che si trovavano in situazione problematica.La corsa agli sportelli fu causata da comportamenti fraudolenti nell'ambito dell'attività bancaria basata sulle riserve frazionarie. Salvando dalla bancarotta le banche che avevano riserve frazionarie, Hamilton di fatto incentivò ulteriore instabilità finanziaria.Durante il panico, i titoli persero il 25% del loro valore in due settimane. Comunque, poco dopo l'intervento di Hamilton, la situazione finanziaria ritornò alla normalità

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Panic of 1819 English The Panic of 1819 was America’s first great economic crisis and depression.

For the first time in American history, there was a crisis of nationwide scope that could not simply and directly be attributed to specific dislocations and restrictions-such as a famine or wartime blockades.Neither could it be simply attributed to the machinations or blunders of one man or to one upsetting act of government, which could be cured by removing the offending cause.

It grew largely out of the changes wrought by the War of 1812, and by the postwar boom that followed.The causes of the Panic of 1819 were:

inflation problems within the National Bank public debt from War of 1812 international events

Shortly after the end of the War of 1812, prices throughout the U.S. began rising. This was mostly caused by the government's attempt to pay of their war debt. To pay for the debts, the government sold land. However, prices on land began to fall rapidly. The South was devastated as cotton prices were greatly reduced.

European demand for American goods increased because the Napoleaonic Wars dominated the agriculture in Europe. One of the reasons for the Panic of 1819 was the end of warfare between France and Great Britain.

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Because these European nations needed American industrial and agricultural products during the war, the United States prospered greatly.

Once the conflict was over, American products were no longer in such great demand and the economy went straight down. In addition, European merchants were dumping their products on the American markets at very low rates. American manufacturers suffered from the flood of imports. The National Bank tried to tighten credit. Unfortunately this only caused more harm and a "sharp business slump" occurred.

The Panic of 1819 and the Banking Crisis left many citizens destitute.Many lost their land; factories had a difficult time competing with earlier-established factories in Europe. A majority of Americans couldn't afford the factories' goods due to the lack of money in circulation. These economic problems contributed immensely to the rise of Andrew Jackson.

For the modern reader, this paints an all-too-familiar scene: the plight of the domestic manufacturer - one that continues to bedevil steel, lumber, and others today. As with all economic phenomena, however, there is crisis for some and opportunity for others. Exporters, for example, would thrive.

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There were many cranky and contradictory remedies proposed. But in the end, there was no widespread confusion on what caused the downturn. Instead, it was widely known that a false prosperity is a very dangerous thing. It always turns to bust. Bad legislation failed to pass, the government embarked on no New Deal planning and there was no great reflation. And precisely because there was no intervention, the panic ended quickly and peacefully.

What we have here, then, is not only a dazzling historical account, it also points the way to how all economic downturns can and should be handled. For that reason, the Panic of 1819 offers important lessons for us today.

Panico del 1825

Il Panico del 1825 è stato un crollo del mercato azionario che ebbe inizio dalla Banca d'Inghilterra e fu causato dagli investimenti speculativi inAmerica latina, incluso l'immaginario paese di Poyais.

La crisi colpì maggiormente l'Inghilterra dove vennero chiuse sei banche nella sola Londra, compresa la banca di Henry Thornton, ed altre sessanta banche di paese; ma colpì anche i mercati di Europa, America la tina e Stati Uniti. Un afflusso di riserve auree dalla Banca di Francia salvò la Banca d'Inghilterra dal collasso completo.

Panico del 1837

Il panico nacque da una febbre speculativa e la bolla scoppiò il 10 maggio 1837 a New York, quando tutte le banche bloccarono i pagamenti in monete d'oro e d'argento. Al panico seguirono cinque anni di depressione, con il fallimento delle banche e livelli record di disoccupazione.

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Le cause essenzialmente furono le politiche economiche del presidente Andrew Jackson, tra cui la "Circolare sulla moneta" e il ritiro dei fondi governativi dalla “Second Bank of the United States”.

Andrew Jackson

Martin van Buren, l'erede scelto da Jackson, che divenne presidente nel marzo del 1837, cinque settimane prima che il panico ingolfasse l'economia, venne incolpato dell'accaduto.Il suo rifiuto di coinvolgere il governo nell'economia venne visto da alcuni come un contributo ai danni e alla durata del panico. L'inflazione della cartamoneta venne causata dall'emissione da parte delle banche di banconote che non potevano riscattare in monete d'oro o d'argento (note come "hard money", moneta sonante); queste banconote persero valore nel tempo, così che ne occorrevano di più per acquistare le stesse cose che erano state comprate a meno in precedenza. Erano in circolazione molti pezzi di carta, i cui proprietari erano ansiosi di riconvertire al più presto in denaro "reale" ovvero monete.Il boom dei primi anni '30 venne guidato dalla costruzione di canali e di schemi che diedero il via alla prima rete ferroviaria statunitense. Il governo federale incoraggiò la febbre speculativa vendendo milioni di acri di terreni demaniali in stati dell'ovest come Michigan e Missouri, principalmente a speculatori con denaro contante a loro disposizione, che rivendettero e comprarono nella speranza di accaparrarsi appezzamenti di terra ben posizionati che sarebbero aumentati di valore; valore reale e valore sulla carta, una volta che caselli, canali e le promesse ferrovie avessero portato i coloni in cerca di terra, avrebbero fatto alzare i prezzi. Essi avviarono economie locali con gli insediamenti, gli allevamenti e comprando rifornimenti per le nuove cittadine, solitamente posizionate vicino a quelle linee ferroviarie e quei canali, e talvolta creando più domanda per certi beni di quante fossero le scorte disponibili.

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Una domanda maggiore dell'offerta causa inoltre prezzi inflazionati. La cartamoneta emessa da banche di dubbia reputazione, stava surriscaldando l'economia nazionale.Il tesoro degli Stati Uniti stava accumulando un surplus di bilancio, che i membri del Congresso votarono per distribuire nella primavera del 1837, passando i fondi ai loro distretti di origine, dove questa manna piovuta dal cielo venne rapidamente investita in canali, caselli e compagnie ferroviarie.Jackson e il suo Segretario del Tesoro, Levi Woodbury, emanarono la Circolare sulla moneta, ordinando che dal 15 agosto 1836 il Tesoro statunitense cessasse di accettare banconote e accettasse solo monete in oro o argento come pagamenti per le terre demaniali.

Molte banche di stato e piccole banche locali non avevano monete per ripagare le banconote. Invece dell'attesa inondazione di oro e argento nelle casse del tesoro nazionale, le vendite di terreni crollarono a un quarto del livello dell'anno precedente, le compagnie iniziarono a pagare i loro lavoratori con certificati, iniziarono a circolare i pagherò e i pagamenti in moneta diminuirono. La domanda di moneta ad ovest si trasferì rapidamente a New York. Soltanto nelle prime tre settimane di aprile a New York fallirono 250 case d'affari. Alla fine, il 10 maggio 1837 il denaro di carta non poteva più essere riscattato in oro o argento.

Lo storico dell'economia Peter Rousseau indicò come cause del panico del 1837 una serie di trasferimenti interbancari di saldi governativi e un incremento di domanda di monete ad ovest, indotto dalla politica, che prosciugò le più grandi banche di New York delle loro riserve in moneta e rese il disastro inevitabile.Un cuscinetto bancario centrale di qualche tipo avrebbe potuto evitare alcuni fallimenti locali. Anche se van Buren non causò il Panico del 1837, venne giudicato duramente e non riuscì ad essere rieletto: era ideologicamente impegnato nel mantenere il governo al di fuori della regolamentazione bancaria e questa fu una risoluzione che estese gli effetti del panico fino al 1843.

Bolla speculativa Railway (1840)

La Railway mania fu una bolla speculativa che scoppiò nei mercati inglesi nel 1840. Possiamo riscontrare alcuni parallelismi con la bolla del dot.com che fece tremare i mercati quasi 150 anni dopo. Allora come negli anni '90, le nuove tecnologie produssero nei mercati una certa euforia che portò molta gente ad investire massicciamente in compagnie legate alle ferrovie.Come tutte le speculazioni , però, ebbe vita breve e quando arrivò il previsto collasso, molti furono gli investitori che si ritrovarono in una situazione drammatica.

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La Grande depressione (1873-1895)La crisi economica del 1873-1896 indicata come Grande depressione ebbe inizio dopo oltre trent'anni di incessante crescita economica. Il mondo conobbe una crisi agraria, a cui si aggiunse una parallela crisi industriale.

La crisi ebbe inizio dopo il fallimento della grande banca newyorkese di Jay Cooke che diede il via ad un'ondata di panico che si diffuse nell'economia americana e poi in tutti gli altri paesi industrializzati.Nel giro di pochi mesi la produzione industriale degli Stati Uniti cadde di un terzo per la mancanza di acquirenti mentre aumentava a dismisura la disoccupazione. Presto la crisi si diffuse anche in Gran Bretagna, Francia e Germania.La crisi si manifestò come una forte eccedenza di offerta sulla domanda; la domanda cioè non era in grado di assorbire l'offerta disponibile sul mercato. Era la prima manifestazione di una crisi economica moderna. Mentre infatti le crisi dell'ancien regime si manifestavano sotto forma di carestie (quindi crisi da sottoproduzione), il nuovo tipo di crisi che il mondo andava sperimentando era una crisi di sovrapproduzione. L'indice più vistoso della crisi fu la caduta dei prezzi.

La crisi può essere spiegata grazie a tre fattori:

progresso tecnologico aumento del numero di paesi industrializzati imposizione di bassi salari.

Ai paesi tradizionalmente industrializzati (Gran Bretagna, Belgio, Francia) si affiancarono nuove potenze con grandi capacità produttive (Stati Uniti e Germania) e altri paesi a più lenta e tardiva industrializzazione (Italia, Russia, Giappone).La situazione peggiorò ulteriormente quando si tentò di rispondere alla caduta dei prezzi con ulteriori riduzioni salariali che provocarono nuove cadute dei consumi.

Le cause che portarono alla crisi agraria sono molto simili a quelle della crisi industriale: l'aumento della produzione non supportato da un'adeguata domanda e l'emergere di nuove potenze nella produzione agricola, come Stati Uniti, Australia e Argentina.La caduta dei prezzi e la forte concorrenza ridussero in rovina migliaia di contadini e aumentò in maniera preoccupante la dipendenza europea dalla produzione agricola d'oltreoceano.L'agricoltura ne risultò fortemente trasformata: il numero di occupati nel settore agricolo iniziò a diminuire e l'agricoltura mondiale venne ristrutturata secondo principi di divisione del lavoro.Vi furono regioni, come l'Inghilterra, dove l'agricoltura assunse un ruolo marginale

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rispetto all'industria. In altre aree, come la Germania o l'Italia settentrionale, si accelerò la trasformazione delle aziende agricole in senso capitalistico per far fronte alla concorrenza americana.Si apriva una nuova fase di capitalismo, il cosiddetto capitalismo organizzato, cioè un capitalismo guidato e cosciente della necessità di superare il carattere spontaneo dei processi economici.Questa nuova via quindi contraddiceva il credo capitalista che aveva dominato il mercato fino a quel momento. Iniziò una fase in cui gli imprenditori accettavano l'intervento dello stato nell'economia.Inizialmente di fronte alla caduta generalizzata dei prezzi e all'inasprirsi della concorrenza, l'immediata e quasi istintiva risposta dei governi fu l'innalzamento di barriere doganali al fine di annullare o per lo meno limitare l'afflusso di merci estere.Contemporaneamente lo stato iniziò ad assumere un nuovo ruolo divenendo esso stesso consumatore dei prodotti nazionali (tramite commesse pubbliche) e facendo dello sviluppo industriale uno dei compiti politici di primaria importanza.Un'altra grande conseguenza della crisi fu la creazione di monopoli (trust).Questo fenomeno fu generato dalla volontà di ridurre la violenza della concorrenza e quindi mantenere alti i livelli dei prezzi per mobilitare nuovi capitali per finanziare la ripresa. La crescita del potere delle imprese monopolistiche provocò la crescita delle dimensioni delle fabbriche e del numero di addetti.La tendenza alla concentrazione mutò il rapporto tra industria e banca. Il grande bisogno di capitali necessari per la ristrutturazione rendeva necessario per le imprese attingere fondi dal risparmio di massa. Nacque la "banca mista", cosi chiamata perché funzionava sia da banca commerciale (raccogliendo i risparmi della popolazione) sia da banca d'affari (investendo nelle imprese).

Panico dei banchieri (1907)

lI grande panico del 1907 fu la prima crisi globale del Novecento.Nel solo mese di ottobre l' indice azionario di Wall Street perse il 37%, in tutta l' America folle di risparmiatori diedero l' assalto agli sportelli delle banche fra scene di violenza e di disperazione ed il sistema del credito rimase paralizzato per mesi. La proverbiale superstizione degli investitori chiamò in causa la "maledizione del 1907" quando Wall Street subì un altro dei peggiori crolli della sua storia, il 19 ottobre 1987, con una caduta del 23% dell' indice Standard & Poor' s 500.

Si possono sintetizzare così le tre cause principali del disastro del 1907 che suonano familiari:

l' eccesso di investimenti nel mercato immobiliare;

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il credito facile; le manipolazioni dell' alta finanza.

Le voci che nel sistema bancario americano si nasconde qualcosa di marcio iniziano a diffondersi ai primi di ottobre del 1907.Due speculatori senza scrupoli, Augustus Heinze e Charles Morse, hanno tentato una scalata a una società di estrazione del rame e sono finiti in bancarotta. Presto si scopre che dietro di loro si nasconde la Knickerbocker di Barney. Per non smentire la superstizione, è proprio venerdì 17 ottobre 1907 che le indiscrezioni diventano un boato e i sospetti si trasformano in terrore

. Diciottomila clienti della società finanziaria assaltano la sua sede principale sulla Fifth Avenue e le tre filiali sulla Broadway, ad Harlem e nel Bronx e in poche ore svuotano le casseforti della Knickerbocker di 8 milioni di dollari in contanti, una somma considerevole per quell' epoca.

Il 21 ottobre Barney è costretto a dimettersi ma è già troppo tardi per arrestare «la spirale isterica». La gente sa che il credito è un sistema di vasi comunicanti, nell' intreccio di rapporti fra le banche il crac di un finanziere può trascinare altri nel precipizio. Si formano code di risparmiatori su tutti i marciapiedi di Wall Street, ogni istituto di credito è assediato dai depositanti che vogliono ritirare i loro soldi. Anche la Borsa è al collasso.Il 23 ottobre 1907 The Wall Street Journal scrive:«Dal punto di vista del mercato azionario l' aspetto di gran lunga più pericoloso è l' allarme del pubblico».Da New York il panico dilaga in tutta l' America. In pochi giorni i ritiri di contante dalle banche raggiungono i 350 milioni di dollari.

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I costi delle cassette di sicurezza schizzano alle stelle perché la gente le usa per mettere al sicuro le banconote.

In alcuni Stati il denaro liquido sparisce completamente: i governatori della California, del Nevada e dell' Oregon impongono d' autorità una settimana di vacanza perché le banche possano stare chiuse in attesa di un miracolo.South Dakota, Indiana, Iowa e Oklahoma varano leggi locali che consentono di ritirare dalle banche solo dieci dollari al giorno per ogni cliente.A metà novembre lo stesso ministero del Tesoro degli Stati Uniti esaurì virtulmente le sue riserve di dollari, nel vano tentativo di combattere la crisi.L' America si ammala di quella che gli economisti definiscono con un termine evocativo «l' anoressia del credito». Per la diffidenza generalizzata nessuno fa più prestiti né li chiede, il mercato interbancario si prosciuga.

La "tempesta perfetta", madre di tutti gli uragani, si estende all' economia reale (che già ha subìto un danno l' anno precedente: il terremoto di San Francisco nel 1906 ha raso al suolo una delle città più dinamiche del Paese).La produzione industriale rretra dell'11%, i fallimenti di imprese nel solo mese di novembre aumentano del 47% e l' indice di disoccupazione balza dal 2,8 all' 8%. Milton Friedman analizzerà il 1907 come una prova generale del 1929, il crac che innescò la Grande depressione mondiale.

J.P. Morgan, fondatore e capo assoluto dell' omonima banca, è un gigante della finanza internazionale capace di combinare "sulla parola" alleanze industriali e contratti intercontinentali ed aveva prestato il proprio aiuto al Dipartimento del Tesoro nell'operazione di soccorso durante il panico del 1893.

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I suoi ammiratori lo chiamano Jupiter, cioè Giove, il primo tra gli dèi dell' Olimpo.Altri preferiscono the Shark, lo squalo. Il giudizio morale in quel momento non conta.Quando il caos cominciò a fa vacillare la fiducia nelle banche di New York, Morgan e i suoi soci esaminarono i libri contabili della "Knickerbocker Trust", ma la ritennero insolvente e non intervenirono per fermare la corsa agli sportelli. Il suo fallimento, tuttavia, scatenò le corse agli sportelli anche nei confronti delle fiduciarie sane, spingendo così Morgan a farsi carico dell'operazione di salvataggio. Nel pomeriggio di martedì 22 ottobre, il presidente della "Trust Company of America" chiese l'aiuto di Morgan.

Quella sera Morgan si consultò con George Baker, presidente della "First National Bank", James Stillman della "National City Bank of New York" (l'antenata della "Citibank"), e George Cortelyou, Segretario al Tesoro. Cortelyou dichiarò di essere pronto a depositare i fondi governativi nelle banche per aiutarle a ricostituire i loro depositi. La banca resistette fino alla chiusura della giornata, ma Morgan sapeva che ci sarebbe stato bisogno di altro denaro per mantenerla solvente anche il giorno dopo. Quella sera convocò i presidenti delle altre società fiduciarie e li tenne in riunione fino a mezzanotte quando raggiunsero l'accordo di concedere prestiti per 8,25 milioni di dollari per consentire alla "Trust Company of America" di restare aperta il giorno seguente. Il martedì mattina Cortelyou depositò circa 25 milioni di dollari in una serie di banche di New York e John Rockefeller, l'uomo più ricco d'America, depositò ulteriori 10 milioni nella "National City Bank" di Stillman.Il massiccio deposito di Rockefeller rese la "National City Bank" la banca con le riserve

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più solide della città. Per infondere fiducia nel pubblico, Rockefeller telefonò a Melville Stone, dirigente della "Associated Press", dichiarando che avrebbe impegnato metà del suo patrimonio per mantenere il sistema creditizio americano.

Nonostante l'iniezione di liquidità, le banche di New York erano restie a concedere i prestiti a breve termine che normalmente venivano fatti per agevolare le quotidiane operazioni sui titoli azionari. Non potendo ottenere tali fondi, i prezzi in borsa comiciarono a precipitare. Alle 13.30 di martedì 24 ottobre, il presidente della New York Stock Exchange, si precipitò nell'ufficio di Morgan per comunicargli che presto avrebbe dovuto chiudere i mercati. Morgan convocò i presidenti delle banche della città nel suo ufficio, che arrivarono verso le 14.00. Morgan li informò che almeno 50 case della borsa valori sarebbero fallite a meno che non fossero riusciti a raccogliere 25 milioni di dollari entro 10 minuti. Alle 14.16 i presidenti di 14 banche avevano messo insieme 23,6 milioni per mantenere a galla la borsa. Il denaro raggiunse il mercato alle 14.30, in tempo per terminare le negoziazioni del giorno. Il disastro era stato scongiurato. Morgan era solito evitare la stampa, ma quando lasciò il suo ufficio quella sera, rilasciò una dichiarazione ai giornalisti: "Se la gente terrà i propri soldi nelle banche, tutto andrà a posto".Il venerdì, tuttavia, si vide ancora più panico nel mercato.

Morgan, Stillman, Baker e gli altri banchieri della città non erano più in grado di mettere insieme denaro a tempo indeterminato. Persino il Tesoro statunitense era a corto di fondi. La fiducia pubblica aveva bisogno di essere ristabilita e il venerdì sera i banchieri si riunivano in due comitati: uno per persuadere il clero a tranquillizzare i fedeli la domenica e l'altro per spiegare alla stampa i vari aspetti del pacchetto di soccorso finanziario.Al fine di assicurare un abbondante flusso di fondi il lunedì, la Camera di Compensazione di New York emise titoli di debito per 100 milioni di dollari da negoziare tra le banche per saldare le pendenze e mantenere le riserve di contanti per i correntisti. Quel lunedì, grazie alle rassicurazioni del clero e dei giornali, e ai bilanci delle banche pieni di liquidità, a New York tornò un senso di ordine.

All'insaputa di Wall Street, una nuova crisi veniva evitata nell'oscurità. La domenica, il socio di Morgan, George Perkins, venne informato che la Città di New York aveva bisogno di almeno 20 milioni di dollari entro il 1° novembre a pena di dichiarare bancarotta. La città tentò di procurarsi il denaro attraverso un'emissione obbligazionaria standard, ma non riuscì a raccoglierne a sufficienza. Il lunedì e di nuovo il martedì, il sindaco di

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New York, George McClellan, si rivolse a Morgan per chiederne l'aiuto. Nello sforzo di scongiurare il disastroso segnale che la bancarotta della città di New York avrebbe mandato, Morgan contrattò l'acquisizione di obbligazioni cittadine per un valore di 30 milioni di dollari.

Sebbene la calma fosse stata ampiamente ristabilita a New York, sabato 2 novembre un'altra crisi era già incombente. Una delle imprese di intermediazione più grandi della borsa, la "Moore & Schley", era pesantemente indebitata e rischiava il tracollo. La società aveva preso in prestito grosse somme mettendo a garanzia azioni della "Tennessee Coal, Iron and Railroad Company" ("TC&I"). Con il valore dell'azione, scarsamente negoziata, sotto pressione, molte banche avrebbero probabilmente chiesto il rientro dei finanziamenti della "Moore & Schley" il lunedì seguente, obbligandola a liquidare in massa le azioni. Se questo fosse accaduto, il prezzo delle azioni della "TC&I" sarebbe precipitato, mandando in rovina la "Moore & Schley" e causando un'ulteriore ondata di panico nel mercato.Al fine di prevenire il collasso della "Moore & Schley", sabato mattina Morgan convocò una riunione d'emergenza presso la sua biblioteca. Venne proposto che la "U.S. Steel Corporation" acquisisse la "TC&I". Ciò avrebbe effettivamente salvato la "Moore & Schley" ed evitato la crisi. Dopo che i dirigenti e il consiglio d'amministrazione della "U.S. Steel" ebbero studiato la situazione e, riconoscendo il ruolo positivo che avrebbero potuto rivestire nel corso del panico, diedero la disponibilità a prestare alla "Moore & Schley" 5 milioni di dollari, ovvero ad acquisire la "TC&I" per 90 dollari ad azione. Alle 19.00 non era ancora stata raggiunto un accordo e la riunione fu aggiornata.

Nel frattempo J.P. Morgan fu trascinato in un'altra situazione. Il problema era che la "Trust Company of America" e la "Lincoln Trust" non avrebbero potuto aprire il lunedì mattina a causa delle continue corse agli sportelli. Il sabato sera 40–50 banchieri vennero radunati nella biblioteca per discutere della crisi, con i presidenti delle banche e delle camere di compensazione nella sala Est, e i dirigenti delle società fiduciarie nella sala Ovest. Morgan e coloro che avevano a che fare con il problema della "Moore & Schley" si spostarono nell'ufficio del bibliotecario. Lì Morgan annunciò ai propri avvocati che sarebbe stato disponibile a sostenere la "Moore & Schley" solamente se le società fiduciarie avessero collaborato a tirar fuori dai guai le più deboli tra loro. La discussione tra i banchieri continuò fino a tarda notte ma senza alcun reale progresso. Allora, verso la mezzanotte, J.P. Morgan informò uno dei presidenti delle fiduciarie che la situazione della "Moore & Schley" avrebbe richiesto 25 milioni di dollari, e che non era sua intenzione andare avanti al riguardo a meno che non potessero essere risolti anche i problemi delle società fiduciarie. Questo significava che le società fiduciarie non

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avrebbero ricevuto ulteriori aiuti da Morgan e che avrebbero dovuto trovare una soluzione da sole.

Circa 120 dirigenti di banche e società fiduciarie furono riuniti per ascoltare una relazione completa sullo stato delle due società fiduciarie la cui apertura era a rischio. Mentre la "Trust Company of America" risultava appena solvente, alla "Lincoln Trust Company" mancava circa un milione di dollari per pagare i propri correntisti. Mentre la discussione proseguiva, i banchieri realizzarono che Morgan li aveva chiusi nella biblioteca e che aveva nascosto la chiave per costringerli a trovare una soluzione. Morgan iniziò quindi a parlare e disse alle società fiduciarie che avrebbero dovuto concedere un prestito di 25 milioni di dollari per salvare le istituzioni più deboli. I presidenti delle fiduciarie erano ancora restii ad agire, ma Morgan li informò che il loro rifiuto si sarebbe risolto nel collasso completo del sistema bancario. Con il suo considerevole ascendente, alle 4:45 circa persuase il leader ufficioso delle società fiduciarie a firmare l'accordo, cui seguirono tutti gli altri. Con l'assicurazione che la situazione si sarebbe risolta, Morgan permise quindi ai banchieri di toranre alle loro case.

Domenica notte il progetto di acquisizione della "TC&I" da parte della "U.S. Steel" era pronto, ma rimaneva un ostacolo: il Presidente Theodore Roosevelt, che si era sempre battuto per imporre norme antitrust, al punto da rendere la rottura dei monopoli un punto focale del proprio mandato. Meno di un'ora prima dell'apertura dei mercati, Roosevelt e il Segretario di Stato Elihu Root iniziarono ad esaminare la proposta di acquisizione e vennero a conoscenza del crollo potenziale che si sarebbe potuto verificare nel caso di mancata autorizzazione della fusione. Roosevelt si ammorbidì e diede il suo assenso all'acquisizione. Quando la notizia raggiunse New York, la fiducia spiccò il volo. La crisi finale del panico era stata evitata.Il panico del 1907 ebbe luogo durante una lunga contrazione economica tra il maggio 1907 e il giugno 1908. L'interrelazione tra la contrazione dell'economia, il panico bancario e il crollo del mercato azionario si risolse in un significativo sconvolgimento del sistema economico. La produzione industriale cadde più a lungo che dopo ogni corsa agli sportelli verificatasi prima d'allora, mentre il 1907 vide il secondo maggior volume di fallimenti a quella data. La produzione scese dell'11%, le importazioni del 26%, mentre la disoccupazione salì all'8% da un livello inferiore al 3%. L'immigrazione cadde a 750mila persone nel 1909, dagli 1,2 milioni di due anni prima.Dalla fine della guerra civile, gli Stati Uniti avevano attraversato situazioni di panico di varie intensità. Gli economisti considerano i peggiori episodi di panico quelli che portano a diffuse sospensioni dell'attività bancaria.

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La frequenza delle crisi e la durezza del panico del 1907, aggiunte alla preoccupazione per il gigantesco ruolo di J.P. Morgan, portarono con rinnovato impeto verso un dibattito nazionale sulle riforme. Nel maggio 1908, il Congresso istituì la Commissione Monetaria Nazionale con lo scopo di investigare le ragioni del panico e proporre nuove norme per regolare l'attività bancaria. Gli Stati Uniti d' America nel 1907 non avevano ancora istituito una banca centrale. Gli strumenti di regolazione dei mercati finanziari sono rudimentali e il governo federale ha scarse competenze sull'economia e si ritrova imponente nel tentativo di arginare il panico. Infatti l'assenza di una banca centrale rendeva l'economia statunitense molto vulnerabile rispetto a quella europea. Il 22 dicembre 1913 il Congresso votò il Federal Reserve Act. Il Presidente Woodrow Wilson firmò la norma immediatamente e questa divenne esecutiva il medesimo giorno, dando così vita al Sistema della Federal Reserve.

La crisi recente dei mutui subprime insolventi ha messo sotto i riflettori la Federal Reserve. C' è chi teme che i suoi poteri siano ormai inadeguati per controllare i nuovi Baroni Ladri. In Inghilterra il crac della banca Northern Rock ha replicato le scene del 1907: le code dei risparmiatori agli sportelli.

Il grande crollo (1929)

La borsa di New York aprì gli scambi, come sempre, alle dieci del mattino il 29 ottobre 1929. Ma stavolta si scatenò un disperato assalto per la vendita di azioni e depositi bancari, ad ogni prezzo. Insieme alla giornata del 24, il “giovedì nero”, il 29 ottobre sarebbe passato alla storia come il momento culminante del “grande crollo”: un evento insieme sintomatico del malessere serpeggiante nell’economia mondiale e degli squilibri verificatisi in precedenza.

Il clima che respirava la borghesia americana, nei “ruggenti anni ‘20”, era improntato all’ottimismo ed alla fiducia in una crescita illimitata e indefinita di ricchezza e benessere. Nessun freno politico limitò, in alcun modo, la produzione, in omaggio alla dilagante teoria liberista; né vi fu alcun ostacolo all’incredibile ondata di euforia speculativa che la Borsa visse negli anni precedenti, incoraggiata dalla prospettiva di facili guadagni attraverso la compravendita delle azioni.

Le fondamenta del sistema erano fragili e infatti, ci furono alcune avvisaglie nel biennio 1920-’21 e più tardi, nel 1927. Da quell’anno gli investimenti non aumentavano più,

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come i salari e gli stipendi, le vendite di automobili addirittura diminuivano: ma la speculazione diede, ancora per due anni, l’illusione di un progresso continuo, inarrestabile. Fragili erano anche le basi del processo di espansione economica degli USA negli anni ’20.

La domanda sostenuta di beni di consumo (in massima parte durevoli, tendenti quindi alla “saturazione” del mercato) favorì infatti la formazione di una capacità produttiva sproporzionata alle possibilità di assorbimento del mercato interno.

A questo problema si reagì in due modi:

sviluppando il credito ai privati incitando l’acquisto immediato, anche a costo di gravare, a lungo termine, sui redditi;

aumentando le esportazioni, specie nel vecchio continente, accompagnate da elevate barriere doganali in patria, fino a creare uno stretto rapporto di interdipendenza con la ripresa europea.

L’America elargì 6400 miliardi di dollari all’economia mondiale tra il 1924 ed il 1929, in larga misura a Germania ed Europa dell’est. Ma anche questo meccanismo risultava pericoloso, perché i crediti statunitensi erano generalmente erogati da banche private e legati a soli calcoli di profitto. Ogni dirottamento dei capitali verso altre operazioni avrebbe insomma avuto pesanti conseguenze sulla produzione industriale americana, ormai dipendente dalle importazioni europee.

E questo fu esattamente ciò che accadde.I crediti furono dirottati, specie durante il 1928, verso le più redditizie operazioni

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speculative della Borsa. Si fondarono società esclusivamente finanziarie al solo scopo di acquistare le azioni e rivenderle a prezzo superiore. Si costituirono così immense ricchezze che rappresentavano un capitale esclusivamente azionario, senza una contropartita di produzione; il valore globale di quotazione in Borsa dei titoli negoziati allo Stock Exchange da 27 a 67 miliardi.L’ indice della produzione industriale americana, orfana dell’export oltreoceano in caduta, cominciò a scendere già nell’estate del ’29.

In settembre, il corso dei titoli di Borsa raggiunse i massimi livelli. Dopo alcune settimane, gli operatori cominciarono a liquidare i propri pacchetti azionari per realizzare i guadagni ottenuti: il 24 ottobre ne furono scambiati 13 milioni; il 29 si arrivò a 16 milioni. La corsa alle vendite, naturalmente, generò una caduta del valore dei titoli, stabilizzatisi a metà novembre su valori più o meno dimezzati, con conseguenze disastrose su ogni piano.Il 24 ottobre, si suicidarono a New York undici genti di borsa.La prima reazione delle banche, principali proprietarie di pacchetti azionari, fu di restringere il credito al consumo e molte di esse fallirono. Le piccole imprese industriali e commerciali finirono rovinate dall’accumularsi delle scorte dovuto alla precedente sovrapproduzione. Quelle di dimensioni maggiori reagirono riducendo la produzione, e, semplicemente, le spese; salari, materie prime, lavoratori ne furono colpiti.

In questo modo, si creò una spirale per la quale i bassi salari (comuni anche al settore agricolo, in crisi da qualche anno) e la disoccupazione diminuivano i consumi, la cui caduta colpiva le imprese spingendole ad altri licenziamenti e altri tagli.I salari, in particolare, diminuirono in media del 40%. I prezzi, del 20%. Le importazioni statunitensi passarono dai 4400 milioni di dollari nel ’29 ai 1323 milioni nel 1933, le esportazioni da 5240 a 1610 milioni. Il livello di vita di cui la borghesia americana era tanto fiera semplicemente crollò.La disoccupazione dai 2,5 milioni. del 1929 balzò agli oltre 11,4-14,7 del ’32.Il flusso creditizio verso l’estero, inutile a dirsi, si interruppe bruscamente alla fine degli anni ’30 per quanto riguarda i prestiti, nel corso del ’32 per quanto riguarda gli investimenti.Gli Stati Uniti, invece di sobbarcarsi i costi e le responsabilità connessi al ruolo di potenza egemone sul piano economico, cercarono innanzitutto di difendere la loro produzione. Rimpatriarono massicciamente i crediti erogati all’estero, danneggiando pesantemente soprattutto la Germania e l’Austria, oltre che l’Inghilterra; Inoltre imposero severi limiti all’import proprio nel momento di disperato bisogno per gli altri Stati di estinguere i propri debiti in dollari attraverso le vendite sul più ricco mercato del mondo.

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La crisi del 1873-95 aveva trovato sbocco con il colonialismo, grazie al quale si erano aperti nuovi mercati nei quali si poteva dirigere il commercio, ogni nazione nelle sue colonie le quali erano precluse al commercio con altre nazioni sempre tramite i dazi. Così quella che fu la soluzione alla crisi del 1873-95 divenne la causa di quella del 1929. Questo perché a un certo punto anche i mercati coloniali arrivarono a un punto di saturazione (e in questo contesto come mercati coloniali dobbiamo riconoscere come tale anche il Sudamerica nei confronti degli Stati Uniti), quindi in assenza di una impossibile diversificazione di produzioni quello che, ad esempio, l'Inghilterra vendeva all'India non poteva venderlo al Marocco, e nemmeno acquistare. Viceversa la Francia poteva commerciare con il Marocco ma non con l'India. Quindi a causa di questo blocco del commercio si ritornò alla situazione del 1873-95, nella quale si produceva ma non si vendeva e se si vendeva si doveva vendere a prezzi tanto bassi da dover abbandonare la produzione; mentre i prodotti da comprare avevano prezzi talmente alti da non poterseli permettere.

L’America Latina fu la prima ad essere colpita, e fin dal dicembre 1929 Argentina, Uruguay ( ma anche Australia) abbandonarono il corso aureo, svalutando la moneta per ridare forza all’export.Nel corso del ‘31, anche l’economia europea crollò. Fallirono anche sul vecchio continente le strutture bancarie: la “Kreditanstalt fur Handel und Gewerbe” austriaca, la “Danatbank” tedesca, per fare degli esempi. In giugno, la crisi si estese all’Inghilterra. All’inizio del 1932 giunse in Italia, Francia, Belgio, Olanda. Solamente l’Unione Sovietica, alle prese con i Piani Quinquennali e chiusa all’economia di mercato, fu risparmiata ed alcuni storici le assegnano il merito di aver aperto, con il suo esempio, la via all’intervento statale nelle economie occidentali.

Per rispondere alle iniziative d’oltreoceano, la Germania e la Francia misero sotto controllo il commercio; nel novembre del ’31 la Gran Bretagna impose dazi del 50% su ventitré diverse categorie merceologiche, per poi fissare un canale “preferenziale” di circolazione delle merci.Il valore del commercio mondiale registrò una contrazione del 60,9% e il volume scese del 25,4% soltanto tra il 929 e 1933.La produzione industriale scese del 40% in Germania nel corso di quattro anni ed in Francia ancora nel ’38, si produceva un terzo di acciaio in meno rispetto al '28.

I risvolti più drammatici furono, come sempre, quelli sociali: negli Stati Uniti fu colpito dalla crisi un lavoratore su 4, in Germania 2 su 5. Nei pochi paesi dotati di un sistema previdenziale l’assistenza pubblica, per la scarsità di risorse di fronte ad un tale problema, cessò di esistere. I crimini contro la proprietà, di qualunque natura, balzarono alle stelle.

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L’assenza di una leadership nell’economia mondiale si fece sentire duramente. I vari Stati tentavano di difendersi, ognuno chiuso nel proprio nazionalismo economico, finendo per danneggiarne altri. La sterlina, la moneta di riferimento del circuito economico mondiale, fu svalutata nel 1931 per renderla più competitiva; gli Stati Uniti, seguendo una logica concorrenziale, fecero lo stesso due anni dopo.A Losanna, nel 1932, gli europei decisero di abolire le riparazioni del conflitto; di fronte a questa decisione, il governo Hoover pretese che l’Europa pagasse nonostante tutto. Il risultato fu che Francia, Gran Bretagna, Italia e in breve tutti gli altri decisero, unilateralmente, di non farlo più. Con una sola eccezione: la Finlandia.Con il Johnson Act del 13 aprile 1934, gli States tagliarono i ponti col mondo, vietando ogni prestito ai paesi che non avessero pagato i loro debiti di guerra.La convertibilità aurea della sterlina, simbolo e strumento del potere economico inglese, fu sospesa nello stesso anno. Lo shock per l’avvenimento, nel resto del mondo, fu enorme. Tramontava, improvvisamente, una potenza secolare abbandonando la sua leadership.Di fronte a questo e ad altri tragici avvertimenti che dimostravano come la crisi non fosse transitoria, né che si potesse fare affidamento sulla capacità “risanatoria” del mercato, si diffuse la convinzione che solo interventi di tipo strutturale avrebbero potuto interrompere la crisi. Herbert Hoover, il già citato presidente americano del periodo 1929-1933, riteneva di poter salvare la situazione agendo sul piano psicologico, e nel tentativo di restituire la fiducia scomparsa andò incontro ad un pesante fallimento, alimentando un diffuso clima di apatia e scoraggiamento.I principi classici della scuola economica liberale, applicati da tutti gli Stati, non ebbero alcun effetto; il mito del pareggio del bilancio compresse ulteriormente la domanda interna. Era chiaro, ormai, che urgevano rimedi non ortodossi.Inizialmente, questi rimedi furono fondamentalmente due: la deflazione fortemente avversata da John Maynard Keynes e applicata in Germania con Bruning (1930-’32) ed in Francia era volta a contenere la spesa dello Stato comprimendo salari e stipendi. Ma così si correva il rischio di scatenare la crisi sociale (puntualmente verificatasi con l’ingresso dei nazisti nel Reichstag e con la vittoria del Fronte Popolare nel ’36).In secondo luogo il controllo degli scambi, attuato in Sud America, Europa centrale e balcanica, Germania (dopo il 1933) e volto a risanare nel più assoluto isolamento l’economia. In breve, il produttore straniero che attuava una vendita in una di queste nazioni doveva obbligatoriamente reinvestire il guadagno all’interno del circuito economico di quel paese.Il terzo, e ultimo metodo consisteva nell’aumentare la quantità di moneta in circolazione e la spesa pubblica accettando anche di infrangere il tabù liberale del pareggio del bilancio anche a costo di arrivare al deficit. Nonostante sia stato adottato in più paesi il caso americano resta, senza dubbio, quello più noto, oltre che più rilevante per il successivo decorso della teoria economica.Nel novembre 1932, Franklin Delano Roosevelt vinse facilmente le elezioni stracciando Hoover e divenne il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America.

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Capì, e fu il suo merito, di trovarsi di fronte ad un trauma sociale collettivo senza precedenti. I suoi primi cento giorni furono una frustata, un’iniezione di fiducia, riassumibile col passaggio da Stato liberale a Stato interventista in economia: il New Deal ( “nuovo corso”), prodotto senza un piano accuratamente concertato, venne alla luce col contributo fondamentale del presidente e del suo “brain trust”. L’entusiasmo e la sensazione di ripartire coinvolsero tutti.Le prime misure furono prese per sostenere le banche ( “Emergency Banking Bill”), per decretare la fine del proibizionismo e per tagliare salari e pensioni del 15%; fu creato un programma federale di sussidi per i disoccupati e fu svalutato il dollaro, approvate leggi per il controllo della speculazione in Borsa.Ma soprattutto furono creati alcuni organismi di particolare rilevanza:

la Farm Credit Administration per l’aiuto agli agricoltori; la CWA (Civil Work Administration) per amministrare i lavori pubblici; il NIRA (National Industrial Recovery Act) per il sostegno delle rivendicazioni

operaie e per la ripresa industriale; la TVA (Tennessee Valley Auhorithy), organismo pubblico per la ripresa

economica dell’omonima area; l’AAA (Agricultural Adjustment Act) per favorire la ripresa dei prezzi agricoli. Da quel momento in poi, inoltre, lo Stato divenne soggetto attivo dell’espansione

economica, apportando alcune limitazioni alle scelte dei privati pur senza snaturarne l’autonomia; dopo la Seconda Guerra Mondiale tutti i governi occidentali faranno lo stesso.Il New Deal però non riuscì completamente negli intenti:la produzione industriale non aveva ancora raggiunto,dieci anni dopo, i livelli del ’29.L’americano uscì da una crisi che l’aveva colpito più duramente della guerra. Ne uscì, nulla di più. Il suo ottimismo ricevette un tale colpo che egli rimase ripiegato su se stesso. Ne uscì come tutti gli altri con la guerra che la crisi aveva nel frattempo provveduto a generare.

Lo shock petrolifero e le crisi energetiche

(1973)

Nel 1950 i bisogni energetici erano coperti per il 55,7 % dal carbone, per il 6,5% da energia elettrica prodottala fonti primarie, per il 28,9% dal petrolio e per l’8,7% dal gas naturale.

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Nel 1972 le percentuali si erano radicalmente modificate:il carbone era sceso al 28,7%, l’elettricità primaria al 6,9%,il petrolio era salito al 46% e il gas naturale al 18,4%.In conclusione, gli idrocarburi ( petrolio e i suoiderivati) coprivano i due terzi del fabbisogno energetico.

Il 6 ottobre 1973, durante la celebrazione del Yom Kippur (il giorno dell'espiazione), l'Egitto, appoggiato dalla Siria e da altre nazioni arabe invase i territori israeliani nella penisola del Sinai. Dopo pochi giorni lo stato di Israele sconfisse le truppe arabe, minacciando l'invasione del Cairo. In risposta, il 17 ottobre 1973 i membri dell'Organizzazione dei paesi arabi esportatori di petrolio (Organization of Arab Petroleum Exporting Countries, OAPEC) decisero di non esportare più l’oro nero nei paesi sostenitori di Israele. Il prezzo del petrolio nel 1974 sfondò quota 12 dollari al barile (un record storico per l’epoca) e per tutti gli anni ’70 e ’80 il prezzo continuò a salire. La crisi portò il governo degli Stati Uniti a varare una serie di misure straordinarie per frenare l’inflazione. Tra le misure straordinarie, vi fu l'abbassamento dei limiti di velocità a 55 mph (miglia all’ora, circa 90 km all’ora). Il limite rimase fino al 1986. Inoltre, il 6 gennaio 1974 tutti gli stati nordamericani spostarono un’ora avanti le lancette per sfruttare al meglio la luce del sole. Ma la crisi ebbe ripercussioni su tutte le economie occidentali.

In Italia la crisi energetica colpì tutti i settori industriali, in primo luogo l’industria automobilistica.Il costo della vita aumentò a dismisura, con una conseguente diminuizione del valore reale dei salari. Alcuni beni di consumo subirono un aumento del 20%. La prima e più diretta conseguenza della crisi energetica fu l’aumento della disoccupazione

Contro l'aumento dei prezzi dei prodotti petroliferi vennero introdotte limitazioni ai consumi di elettricità che cambiarono profondamente le abitudini quotidiane. In Italia il governo Rumor, varò, a novembre, il decretone dell'austerity. Aumentò sia il prezzo della benzina e che del gasolio da riscaldamento e venne imposta una sorta di coprifuoco salvaenergia. L'illuminazione pubblica venne pressoché dimezzata, compresi gli addobbi natalizi. L’orario di apertura dei negozi venne ridotto, la chiusura di cinema, bar e locali venne anticipata e i programmi Rai vennero sospesi alle 23.Ma fu il divieto di circolare in automobile nei giorni festivi che ebbe l'effetto psicologico piú incisivo: il 2 dicembre 1973 fu la prima "domenica a piedi", con il blocco totale della circolazione privata. Le macchine messe a riposo una volta a settimana consentivano un risparmio di ben 50 milioni di litri di benzina per volta. In queste giornate "forzatamente" ecologiche i cittadini si sbizzarrivano nella ricerca di mezzi di trasporto alternativi. Le biciclette ebbero il loro momento di massima gloria e sfilavano silenziose fra le macchine immobili.

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A poco a poco, strani mezzi di locomozione, improbabili tandem, monopattini piuttosto che calessi a pedali, s'impossessavano dell'asfalto cittadino. Il segnale che gli italiani non si rassegnavano al tracollo dell’economia ma riuscivano ad accettare quello che di positivo, di tangibile e immediato l'austerity riusciva a donare: una riduzione dell'inquinamento e, una volta alla settimana, le città a misura d’uomo e il riappropriarsi del piacere di una passeggiata al riparo dai pericoli di una viabilità caotica.Nel 1974 si reintegrò l'uso della macchina a targhe alterne e, a poco a poco, tutto tornò come prima. Una volta finita l’emergenza, almeno dal punto di vista strettamente energetico, anche quello che avremmo dovuto imparare dalla prima grande crisi petrolifera fu presto dimenticato.

L'energia fornita dal petrolio, abbondante e a buon mercato, ha determinato uno straordinario sviluppo dell'industria, dei trasporti, del commercio e dell'agricoltura, che a sua volta ha permesso alla popolazione di aumentare di sei volte, esattamente quanto è cresciuta la produzione petrolifera. Infine, quest'abbondanza di energia ha consentito l'accumulazione di enormi quantità di capitale finanziario, condizionando in modo decisivo l'economia e insegnando molte cose su come gestire e controllare soldi, investimenti e finanza. Il petrolio, insomma, si è evoluto fino a controllare il tessuto stesso del mondo moderno, i suoi affari e, indirettamente, la sua politica. Cercando di fornire possibili spiegazioni sull'incidenza che il mercato del petrolio ha sull'andamento dell'economia e su quelle variabili dalle quali quest'ultima dipende, vanno analizzate le problematiche storiche relative alle crisi petrolifere.Partendo dalla prima crisi del 1973-1974 si registrano forti tensioni nel rapporto domanda - offerta che hanno portato una fluttuazione dei prezzi di mercato notevole con aumenti del 500-600% passando dai 5-6 dollari al barile fino ad arrivare ai 31 dollari; la seconda crisi del 1978-1979 causata dagli elevati tassi di inflazione galoppante e la terza crisi petrolifera dei giorni nostri dovuta alle forti tensioni internazionali e la ricerca di fonti alternative al petrolio, sono stati determinati da una forte impennata del prezzo del greggio che, com'è noto, ha raggiunto addirittura i 100 dollari al barile.

Crisi dei videogiochi (1983)

Il crack dei videogiochi del 1983 fu l'improvviso crollo del mercato dei videogiochi e la bancarotta di molte aziende produttrici di computer e console nell'America settentrionale, dalla fine del 1983 all'inizio del 1984.Causò la fine di quella che viene considerata la seconda generazione dei videogiochi.Questo fenomeno colpì soprattutto gli Stati Uniti e il Canada, i due mercati più evoluti.Al crollo seguì un vuoto di tre anni, durante i quali ci fu un mercato dei videogiochi

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molto piccolo e nessuno sviluppo significativo per le console. Tale vuoto finì con il successo del Nintendo Entertainment System (NES), introdotto per la prima volta nel 1985.

La crisi del 1983 ebbe portata mondiale, e fu composta da un insieme di fattori:

negli anni del boom dei primi personal computer (1980-1985) esisteva un marketing estremamente aggressivo per promuovere l'acquisto di computer poco costosi al posto delle console per i videogiochi. Un esempio su tutti, la pubblicità per il C64 che recitava "Perché comprare una console a tuo figlio distraendolo dalla scuola, quando potresti comprare un computer che lo preparerà al college?";

nel Nordamerica l'aumento delle vendite dei computer è stato visto come una conseguenza della crisi delle console, e non il contrario;

il 1983 fu l'anno in cui in assoluto furono introdotte più consoles sul mercato, dando ai consumatori troppa scelta.

i giochi con cui una console partiva erano di scarsissima qualità;

i telegiornali misero in grande risalto sia i giorni del boom del 1980 che i problemi del 1982-83. In particolare venne dato risalto al tentativo della Atari di tenere inosservato il sotterramento di migliaia di cartucce invendute di E.T. in una discarica del New Mexico.

Mentre il mercato delle console viveva la grande crisi, venne dichiarata una guerra di prezzi da parte dei produttori di computer, che si rivelò devastante per la concorrenza.Nel gennaio 1983, la Commodore di Jack Tramiel taglia i prezzi del Vic a 139 dollari e quelli del C64 a 400.Il 10 giugno 1983 TI annuncia la più ampia perdita nella storia della corporazione e tre mesi dopo si ritira dal mercato degli home computer.Nel 1982 i mercati erano letteramente sommersi di brutti giochi e quando i negozi restituivano la merce invenduta agli editori, questi dovevano avere nuovi prodotti o rimborsare i negozianti e questo portò alla chiusura di molti produttori senza esperienza. Nel giugno 1983 il mercato dei giochi a prezzo pieno era già morto, visto che i consumatori affluivano solamente nel mercato degli sconti e dei giochi a basso e bassissimo budget. La clientela che si stancò della scarsa qualità dei giochi di basso profilo preferì abbandonare interamente il mondo dei videogiochi, piuttosto che rivolgersi al mercato dei giochi di alta qualità.

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Questo provocò una vera e propria purga delle aziende del settore. La più grande produttrice di cartucce, Activision, sopravvisse per molti anni nel mercato dei computer, grazie a una serie di massicci rimborsi fiscali e aggredendo il mercato dei giochi basati sui personal computer.La crisi permise l'esplosione dei giochi da bar e delle sale giochi, che trassero profitto dallo smantellamento, ancorché temporaneo, dell'iniziativa commerciale per i prodotti home-based.Il crack produsse due effetti:

Il dominio del mercato delle console si spostò dagli Stati Uniti al Giappone. Furono istituite misure di controllo dello sviluppo di giochi di terze parti.

Nintendo limitò il mercato dei giochi per il NES di terze parti a soli 5 giochi all'anno, imponendo che le cartucce fossero costruite dalla Nintendo stessa, nonché di essere pagata in anticipo. Le cartucce non potevano essere restituite alla Nintendo, quindi i produttori di videogiochi si assumevano tutti i rischi di vendita. Nintendo affermava che ciò serviva ad evitare giochi di scarsa qualità.

Il lunedi nero (1987)

Con l'espressione lunedì nero si fa riferimento al giorno del 19 ottobre 1987.In questa giornata infausta per le borse mondiali, vi fu un autentico tracollo degli indici del Dow-Jones, che trascinarono dietro sé buona parte degli indici delle borse di tutto il mondo. Il completo sistema informatizzato interno alla borsa newyorchese fece perdere il controllo sulle vendite delle azioni e, ulteriormente, la ferma convinzione di lasciare che il mercato si regolasse da sé risultò, ancora una volta, fallimentare.

Gli indici finanziari americani, che da lungo tempo erano in costante aumento, finirono per risultare enormemente sopravvalutati, e quindi, a rischio di crollo.Il Dow-Jones, a fine seduta, perse circa il 23% del proprio valore, crollando quasi uniformemente in tutti i propri indici.Differentemente da altre crisi finanziarie, la crisi del '87 si risolse in breve tempo, e dunque gli indici ritornarono a livelli medi senza alcun problema.Inoltre dopo questo episodio i meccanismi automatici delle borse vennero aggiornati in maniera tale da sospendere i titoli per eccesso di ribasso , e questi miglioramenti evitarono che altre crisi simili accadessero nuovamente.

Fra le ulteriori cause della esasperata fiducia che gonfiò la borsa americana prima della crisi, possiamo certamente considerare:

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la situazione politica mondiale, con l'URSS che andava piano piano a sgretolarsi e il risolversi dell'equilibrio verso una delle due potenze in causa

l'importanza del dollaro che, insieme alla valuta tedesca e giapponese, rimaneva la più forte valuta di scambio a livello mondiale.

Un altra particolarità dell'avvenimento fu che contrariamente a tante altre crisi simili, gli economisti avevano da tempo annunciato la situazione, senza però riuscire ad evitarla. A livello mondiale, la borsa che venne trascinata più a fondo nel ribasso fu la Nuova Zelanda, con un 60% complessivo di perdite azionarie.In questa giornata infausta per le borse mondiali, vi fu un autentico tracollo degli indici del Dow-Jones, che trascinarono dietro sé buona parte degli indici delle borse di tutto il mondo. Il completo sistema informatizzato interno alla borsa newyorchese fece perdere il controllo sulle vendite delle azioni e, ulteriormente, la ferma convinzione di lasciare che il mercato si regolasse da sé risultò, ancora una volta, fallimentare.

Gli indici finanziari americani, che da lungo tempo erano in costante aumento, finirono per risultare enormemente sopravvalutati, e quindi, a rischio di crollo.Il Dow-Jones, a fine seduta, perse circa il 23% del proprio valore, crollando quasi uniformemente in tutti i propri indici.Differentemente da altre crisi finanziarie, la crisi del '87 si risolse in breve tempo, e dunque gli indici ritornarono a livelli medi senza alcun problema.Inoltre dopo questo episodio i meccanismi automatici delle borse vennero aggiornati in maniera tale da sospendere i titoli per eccesso di ribasso , e questi miglioramenti evitarono che altre crisi simili accadessero nuovamente.

Fra le ulteriori cause della esasperata fiducia che gonfiò la borsa americana prima della crisi, possiamo certamente considerare:

la situazione politica mondiale, con l'URSS che andava piano piano a sgretolarsi e il risolversi dell'equilibrio verso una delle due potenze in causa

l'importanza del dollaro che, insieme alla valuta tedesca e giapponese, rimaneva la più forte valuta di scambio a livello mondiale.

Un altra particolarità dell'avvenimento fu che contrariamente a tante altre crisi simili, gli economisti avevano da tempo annunciato la situazione, senza però riuscire ad evitarla. A livello mondiale, la borsa che venne trascinata più a fondo nel ribasso fu la Nuova Zelanda, con un 60% complessivo di perdite azionarie.

Crisi delle tigri asiatiche (1997)

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La crisi delle tigri asiatiche fu una crisi finanziaria che interessò alcuni paesi dell'Est asiatico alla fine degli anni '90; provocò un ritiro dei capitali da parte degli investitori stranieri e delle banche, generando un forte indebitamento da parte delle aziende ed una forte recessione economica. L'inizio della crisi, datata 2 luglio 1997, ebbe il suo epicentro nella regione thailandese. La moneta nazionale (il baht), scambiata fin dalla metà degli anni '80 con un tasso fisso di 25:1 rispetto al dollaro, subì nell'arco della giornata una svalutazione del 25% del suo valore nominale. L'economia thailandese era cresciuta, tra il 1985 ed il 1996, con tasso annuo record del 9%. Tra il 14 ed il 15 maggio 1997, il baht thailandese fu colpito da enormi attacchi speculativi che tuttavia non convinsero il Primo Ministro Chavalit Yongchaiyudh a svalutare immediatamente la moneta; questo comportamento è stata la scintilla che diede il via alla crisi economica in Thailandia ed in Asia. Circa 2 mesi dopo i primi attacchi speculativi, il 2 luglio, il baht fu disancorato dal dollaro e lasciato fluttuare sul mercato nazionale. Con due approvazioni datate 11 e 20 agosto 1997, il FMI cercò di arginare la crisi versando nelle casse thailandesi oltre 20 miliardi di $ per risanare il deficit nazionale e ripristinare la fiducia del mercato dei cambi nel baht. Questa azione sollevo tuttavia alcuni sospetti apparendo come il tentativo di fornire valuta pregiata per rimborsare le banche occidentali che avevano contratto prestiti con le aziende thailandesi. Paradossalmente i fondi versati dal FMI non fecero altro che alimentare le speculazioni e la fuga di capitali dall'economia thailandese: infatti il nuovo tasso vantaggioso del baht convinse i possessori di valuta a convertire i propri patrimoni in $ ed a trasferirli rapidamente all'estero.La crisi si propagò con gravi conseguenze anche a Taiwan, Malesia, Indonesia, Corea del Sud, che dovettero slegare anch'esse le proprie valute dalla parità aurea. L'effetto a catena ebbe una rapidità impressionante anche perché gli investitori, in preda al panico, ritirarono in maniera più veloce possibile le proprie azioni e capitali, dando vita a un fenomeno collettivo di ampia portata.

La crisi che ha colpito questi paesi non ha una spiegazione unica e ben circoscrivibile, perché effettivamente la situazione economica e politica sembrava molto più stabile che nel caso di altri grossi tracolli del passato.Parte della colpa va data alle banche e al loro insufficiente sistema di credito, che scarseggiava palesemente e non era adeguato alla crescente economia.Uno degli errori poi fu la precoce liberalizzazione del capitale, in anticipo sulla fluttuazione monetaria. Infatti la parità, in economie così aperte al mercato, non è il sistema migliore di politica monetaria.Inoltre bisognava attuare una politica di risoluzione della crisi, soprattutto riguardo le alterazioni dei tassi di cambio: questo purtroppo non è avvenuto, facendo breccia sugli inesperti governi locali.

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Bolla del dot.com (2001)

E' dalla fine degli anni '90, e in particolare dalla prima quotazione in borsa del programma per la navigazione su internet Netscape, che si fa risalire la così detta bolla speculativa delle dot.com chiamata anche bolla della new economy.

Lo scoppio della bolla invece, che veniva alimentata dalla fiducia nel futuro, nella tecnologia, nell'interconnessione e nel progresso economico pressoché infinito, risale all'attentato delle torri gemelle, avvenuto l'11 settembre 2001.Apparentemente però, già prima il destino di queste numerose aziende era segnato, e con la stessa rapidità e voracità con cui avevano invaso i mercati finanziari, ora molte di esse stavano chiudendo.

Le idee che molti giovani americani avevano messo in pratica, semplici e terribilmente innovative, avevano raccolto un successo tanto ingente all'inizio, quanto infine si rivelarono fragili e poco resistenti agli urti del mercato.L'entusiasmo si rivelò ancora una volta ingannatore e il tracollo fu inevitabile. L'immagine di un mondo di denaro elettronico, spazi economici virtuali e trasferimenti informatici fu smentita da un aspro ritorno alla realtà.Per tutte quelle piccole aziende che erano improvvisamente diventate popolari e di grande successo, tutto si risolse con un fallimento generale.

A causa degli enormi proventi da un mercato così fertile e progredito, lo sgonfiarsi di questa bolla portò alla più grande dispersione di ricchezza dalle due guerre mondiali.

Il triangolo cellulare-computer-internet non verrà però chiuso e le nuove tecnologie insieme agli indici tecnologici sono stati in grado, nonostante i periodi difficili, di superare la crisi, e di giungere a una nuova vitalità, anche grazie all'apertura dei mercati asiatici ed in particolare di quello cinese, un enorme e fertile territorio di conquista.

Da questi avvenimenti si è potuta trarre la conclusione che esattamente come era accaduto durante la rivoluzione dei trasporti delle ferrovie, un rinnovamento tecnologico di vasta portata viene molto spesso seguito da un momento di crisi finanziaria.

Crisi del luglio 2002

Page 42: Web viewIl governo federale incoraggiò la febbre speculativa vendendo milioni di acri di terreni demaniali in stati dell'ovest come Michigan e Missouri,

Chiamata anche “Stock market downturn 2002”, la crisi del luglio 2002 coinvolse in particolare l'America del nord, l'Europa e l'Asia, cioè le regioni finanziariamente più importanti del pianeta.La crisi fu dovuta fondamentalmente al crollo del prezzo delle azioni e segnò un momento inverso rispetto all'incremento del loro costo negli ultimi anni precedenti.L'euro riportava un pareggio sul dollaro, che si stava lentamente svalutando.Il momento nero di congiuntura economica, era principalmente causato dall'assommarsi di avvenimenti negativi negli USA:

l'esplosione della bolla delle dot.com, avvenuta nel periodo appena precedente; gli scandali nelle più importanti aziende americane che avevano comunque

lasciato il segno: il fallimento della Enron e di Adelphia, prima di tutto. gli avvenimenti politici degli ultimi anni contribuirono a proseguire in

quell'atmosfera di incertezza creatasi dagli attacchi terroristici dell´11 settembre.

Gli improvvisi picchi negativi e la decrescita accelerata iniziarono nel luglio ma si protrassero fino all'autunno, dove raggiunsero i livelli, rispettivamente per Dow-Jones e Nasdaq, di 4 e di 6 anni prima.Il Dow-Jones, perse circa il 27% da inizio anno mentre il Nasdaq, ancora più colpito dalla crisi e di intrinseca instabilità, raggiunse addirittura un decremento del 44%.Intanto la Worldcom e altre compagnie colpite dalla crisi dichiararono giuridicamente il proprio fallimento, cercando davanti al tribunale degli Stati Uniti di ricorrere a misure di emergenza per limitare i danni.Questa crisi finanziaria che colpì il colosso fu la più grave della storia degli USA..

Bolla immobiliare e crisi dei mutui subprime (2006)

La crisi è iniziata approssimativamente nella seconda metà del 2006, quando cominciò a sgonfiarsi la bolla immobiliare statunitense e, contemporaneamente, molti possessori di mutui subprime divennero insolventi a causa del rialzo dei tassi di interesse. I suoi effetti più pesanti si sono registrati tra febbraio e marzo 2007, e nel settembre - ottobre 2008, bimestre in cui scompaiono le banche d'affari più note: il 15 settembre 2008 Lehman Brothers fallisce invocando il chapter 11, il 22 settembre Goldman Sachs e Morgan Stanley diventano banche normali. Tutti gli indici borsistici mondiali flettono in maniera consistente, arrivando mediamente sui livelli della fine del XX secolo.

Gli osservatori della crisi hanno evocato precise responsabilità:

Page 43: Web viewIl governo federale incoraggiò la febbre speculativa vendendo milioni di acri di terreni demaniali in stati dell'ovest come Michigan e Missouri,

le pratiche predatorie dei prestatori subprime e la mancanza di una effettiva supervisione da parte delle autorità governative

i mediatori creditizi che hanno indirizzato i debitori verso prestiti che non potevano soddisfare, i periti che hanno gonfiato artificialmente le valutazioni degli immobili e gli investitori di Wall Street che hanno scommesso sui titoli che incorporavano mutui subprime senza aver verificato l'effettiva solvibilità dei prestiti sottostanti.

Senza dubbio il ruolo delle banche è stato centrale nell'estensione della crisi a livello globale.Nel 2004 la Security and Exchange Commission ha concesso alle banche di investimento l’esenzione dai limiti sul rapporto tra debiti e capitale netto. Le cinque grandi case di Wall Street (Lehman Brothers, Bear Stearns, Merrill Lynch, Morgan Stanley e Goldman Sachs) hanno potuto quindi fissare da sé la misura delle proprie riserve di capitale e di usare in modo molto più spinto la leva finanziaria e aumentare il proprio debito. Questi colossi della finanza internazionale hanno emesso una quantità crescente di titoli complessi, come i derivati garantiti dalle ipoteche, per portare i loro profitti a livelli record

In generale il mutuo è un contratto mediante il quale una parte, detta mutuante, consegna all'altra, detta mutuataria, una somma di denaro o una quantità di beni fungibili, che l'altra si obbliga a restituire successivamente con altrettanti beni della stessa specie e qualità. Il mutuo è di per sé un’opportunità di investimento che offre in generale un buon profilo rischio/rendimento per chi presta denaro poiché presenta rendimenti generalmente medio-alti e non è esposto a rischi legati a tassi di interesse, o rapporto di cambio, che sono invece trasferiti direttamente sul cliente. Il mutuo inoltre è spesso garantito da un’ipoteca su un bene immobile che non può essere sottratto ai creditori. Tuttavia, nonostante queste garanzie legali e del mercato, parte del sistema bancario è esposto a perdite, svalutazioni di asset e rischio di fallimento.I prestiti subprime, denominati anche B-Paper, near-prime o second chance, sono quei prestiti che vengono concessi a soggetti che non possono accedere ai tassi di interesse di mercato per loro più favorevoli, in quanto hanno avuto storie creditizie fatte di inadempienze, pignoramenti, fallimenti e ritardi.I debitori subprime hanno dunque tipicamente, un basso punteggio di merito creditizio. Queste condizioni si traducono in tassi di interesse, parcelle e premi più elevati. I prestiti subprime sono per loro natura quindi più rischiosi sia per i creditori che per i debitori, vista la pericolosa combinazione di alti tassi di interesse, cattiva storia creditizia e situazioni finanziarie poco chiare, associate a coloro che hanno accesso a questo tipo di credito

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I mutui subprime hanno permesso di estendere l'accesso al mercato del credito a consumatori che non avrebbero potuto averlo altrimenti. Alla base delle turbolenze finanziarie vi è infatti l’avere concesso mutui a clienti che in modo evidente presentavano già in origine la mancanza dei requisiti necessari di solvibilità.Man mano che si presentavano le insolvenze le banche alzavano i tassi di interesse con i quali concedevano i prestiti e questo aumentava la probabilità che i debitori ai quali erano concessi i prestiti, al momento della restituzione si sarebbero rivelati insolventi.

I prestatori subprime sono i soggetti che esercitano il credito e assumono il rischio associato all’attività creditizia nei confronti di debitori scarsamente affidabili, con un “punteggio di credito” basso o molto basso. I prestatori di fondi usano diversi metodi per coprire questi rischi. In molti prestiti subprime il rischio viene coperto con un tasso di interesse più alto.

Per quanto riguarda le carte di credito subprime, rispetto alle prime, ai possessori vengono addebitate tariffe di mora più elevate, in aggiunta a varie tariffe annuali. Un’ulteriore differenza rispetto alle carte di credito Prime, è che nel caso di quelle subprime, non viene dato generalmente ai clienti un intervallo temporale di "tolleranza", in cui i pagamenti possono essere ancora effettuati senza conseguenze, nonostante la scadenza del termine. Una volta addebitate sul conto, le tariffe di mora possono anche spingere il credito oltre il limite previsto e sfociare in ulteriori penali. Tutto ciò determina introiti più elevati per i prestatori e, in maniera direttamente proporzionale, una maggiore difficoltà per i debitori, generando una sorta di circolo vizioso.

Molti rapporti sulla crisi evidenziano pure il ruolo della caduta dei prezzi degli immobili, iniziato nel 2005. Mentre i prezzi degli immobili crescevano, dal 2000 al 2005, i debitori che avevano difficoltà nell'adempiere ai pagamenti potevano sempre vendere le loro case oppure accedere più facilmente a nuovi finanziamenti. Ma, come i prezzi si sono raffreddati in molte parti della nazione americana, questa strategia non si è più resa disponibile per i mutuatari subprime.

È rilevante notare che il 50% del PIL americano negli ultimi anni è derivato dal settore edilizio e che gli americani utilizzano diffusamente le carte di credito per l'acquisto di beni di consumo e che impegnano beni durevoli come la prima casa per finanziare crediti: in questo modo il prezzo degli immobili diventa una determinante del credito e dei consumi.

L'euro riportava un pareggio sul dollaro, che si stava lentamente svalutando.

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Il momento nero di congiuntura economica, era principalmente causato dall'assommarsi di avvenimenti negativi negli USA:

l'esplosione della bolla delle dot.com, avvenuta nel periodo appena precedente; gli scandali nelle più importanti aziende americane che avevano comunque

lasciato il segno: il fallimento della Enron e di Adelphia, prima di tutto. gli avvenimenti politici degli ultimi anni contribuirono a proseguire in

quell'atmosfera di incertezza creatasi dagli attacchi terroristici dell´11 settembre.

Gli improvvisi picchi negativi e la decrescita accelerata iniziarono nel luglio ma si protrassero fino all'autunno, dove raggiunsero i livelli, rispettivamente per Dow-Jones e Nasdaq, di 4 e di 6 anni prima.

Il Dow-Jones, perse circa il 27% da inizio anno mentre il Nasdaq, ancora più colpito dalla crisi e di intrinseca instabilità, raggiunse addirittura un decremento del 44%.

Intanto la Worldcom e altre compagnie colpite dalla crisi dichiararono giuridicamente il proprio fallimento, cercando davanti al tribunale degli Stati Uniti di ricorrere a misure di emergenza per limitare i danni.

Questa crisi finanziaria che colpì il colosso fu la più grave della storia degli USA..

Bolla immobiliare e crisi dei mutui subprime (2006)

La crisi è iniziata approssimativamente nella seconda metà del 2006, quando cominciò a sgonfiarsi la bolla immobiliare statunitense e, contemporaneamente, molti possessori di mutui subprime divennero insolventi a causa del rialzo dei tassi di interesse. I suoi effetti più pesanti si sono registrati tra febbraio e marzo 2007, e nel settembre - ottobre 2008, bimestre in cui scompaiono le banche d'affari più note: il 15 settembre 2008 Lehman Brothers fallisce invocando il chapter 11, il 22 settembre Goldman Sachs e Morgan Stanley diventano banche normali. Tutti gli indici borsistici mondiali flettono in maniera consistente, arrivando mediamente sui livelli della fine del XX secolo.

Gli osservatori della crisi hanno evocato precise responsabilità:

le pratiche predatorie dei prestatori subprime e la mancanza di una effettiva supervisione da parte delle autorità governative

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i mediatori creditizi che hanno indirizzato i debitori verso prestiti che non potevano soddisfare, i periti che hanno gonfiato artificialmente le valutazioni degli immobili e gli investitori di Wall Street che hanno scommesso sui titoli che incorporavano mutui subprime senza aver verificato l'effettiva solvibilità dei prestiti sottostanti.

Senza dubbio il ruolo delle banche è stato centrale nell'estensione della crisi a livello globale.Nel 2004 la Security and Exchange Commission ha concesso alle banche di investimento l’esenzione dai limiti sul rapporto tra debiti e capitale netto. Le cinque grandi case di Wall Street (Lehman Brothers, Bear Stearns, Merrill Lynch, Morgan Stanley e Goldman Sachs) hanno potuto quindi fissare da sé la misura delle proprie riserve di capitale e di usare in modo molto più spinto la leva finanziaria e aumentare il proprio debito. Questi colossi della finanza internazionale hanno emesso una quantità crescente di titoli complessi, come i derivati garantiti dalle ipoteche, per portare i loro profitti a livelli record.

In generale il mutuo è un contratto mediante il quale una parte, detta mutuante, consegna all'altra, detta mutuataria, una somma di denaro o una quantità di beni fungibili, che l'altra si obbliga a restituire successivamente con altrettanti beni della stessa specie e qualità. Il mutuo è di per sé un’opportunità di investimento che offre in generale un buon profilo rischio/rendimento per chi presta denaro poiché presenta rendimenti generalmente medio-alti e non è esposto a rischi legati a tassi di interesse, o rapporto di cambio, che sono invece trasferiti direttamente sul cliente. Il mutuo inoltre è spesso garantito da un’ipoteca su un bene immobile che non può essere sottratto ai creditori. Tuttavia, nonostante queste garanzie legali e del mercato, parte del sistema bancario è esposto a perdite, svalutazioni di asset e rischio di fallimento.

I prestiti subprime, denominati anche B-Paper, near-prime o second chance, sono quei prestiti che vengono concessi a soggetti che non possono accedere ai tassi di interesse di mercato per loro più favorevoli, in quanto hanno avuto storie creditizie fatte di inadempienze, pignoramenti, fallimenti e ritardi.

I debitori subprime hanno dunque tipicamente, un basso punteggio di merito creditizio. Queste condizioni si traducono in tassi di interesse, parcelle e premi più elevati. I prestiti subprime sono per loro natura quindi più rischiosi sia per i creditori che per i debitori, vista la pericolosa combinazione di alti tassi di interesse, cattiva storia creditizia e situazioni finanziarie poco chiare, associate a coloro che hanno accesso a questo tipo di credito

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I mutui subprime hanno permesso di estendere l'accesso al mercato del credito a consumatori che non avrebbero potuto averlo altrimenti. Alla base delle turbolenze finanziarie vi è infatti l’avere concesso mutui a clienti che in modo evidente presentavano già in origine la mancanza dei requisiti necessari di solvibilità.

Man mano che si presentavano le insolvenze le banche alzavano i tassi di interesse con i quali concedevano i prestiti e questo aumentava la probabilità che i debitori ai quali erano concessi i prestiti, al momento della restituzione si sarebbero rivelati insolventi.

I prestatori subprime sono i soggetti che esercitano il credito e assumono il rischio associato all’attività creditizia nei confronti di debitori scarsamente affidabili, con un “punteggio di credito” basso o molto basso. I prestatori di fondi usano diversi metodi per coprire questi rischi. In molti prestiti subprime il rischio viene coperto con un tasso di interesse più alto.

Per quanto riguarda le carte di credito subprime, rispetto alle prime, ai possessori vengono addebitate tariffe di mora più elevate, in aggiunta a varie tariffe annuali. Un’ulteriore differenza rispetto alle carte di credito Prime, è che nel caso di quelle subprime, non viene dato generalmente ai clienti un intervallo temporale di "tolleranza", in cui i pagamenti possono essere ancora effettuati senza conseguenze, nonostante la scadenza del termine. Una volta addebitate sul conto, le tariffe di mora possono anche spingere il credito oltre il limite previsto e sfociare in ulteriori penali. Tutto ciò determina introiti più elevati per i prestatori e, in maniera direttamente proporzionale, una maggiore difficoltà per i debitori, generando una sorta di circolo vizioso.

Molti rapporti sulla crisi evidenziano pure il ruolo della caduta dei prezzi degli immobili, iniziato nel 2005. Mentre i prezzi degli immobili crescevano, dal 2000 al 2005, i debitori che avevano difficoltà nell'adempiere ai pagamenti potevano sempre vendere le loro case oppure accedere più facilmente a nuovi finanziamenti. Ma, come i prezzi si sono raffreddati in molte parti della nazione americana, questa strategia non si è più resa disponibile per i mutuatari subprime.

È rilevante notare che il 50% del PIL americano negli ultimi anni è derivato dal settore edilizio e che gli americani utilizzano diffusamente le carte di credito per l'acquisto di beni di consumo e che impegnano beni durevoli come la prima casa per finanziare

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crediti: in questo modo il prezzo degli immobili diventa una determinante del credito e dei consumi.

All'esplosione della crisi dei mutui subprime ha fatto seguito la decisione di alcune banche di "congelare" le quote dei propri fondi di investimento, sospendendone la compravendita per impedirne un deprezzamento. In altri casi, i creditori hanno dichiarato le loro insolvenze e vi sono stati casi di fallimento che hanno portato ad un

calo dei titoli in Borsa generalizzato nei vari settori.

Il calo dei prezzi dovrebbe riportare gli immobili ai valori precedenti la bolla speculativa. Nel ventennio precedente, in diverse aree degli Stati Uniti, i prezzi degli immobili raddoppiavano in media ogni 5 anni, prestandosi a lucrose compravendite di breve periodo. La crescita dei prezzi non appariva giustificata da un reale aumento di valore degli immobili, dovuti ad esempio a interventi interni di ammodernamento oppure esterni di riqualificazione dei quartieri o per la costruzione di infrastrutture, investimenti incorporati in un premio di prezzo. Più che una crescita del valore reale delle case, in questo senso, si trattava di una crescita del valore di mercato, priva di fondamentali. La crescita dell'indebitamento di famiglie e imprese era spinta dalla stesso aumento dei prezzi: in altre parole solo una minima parte di chi richiedeva un mutuo necessitava di comprare un prima casa, molti si indebitavano per rivendere al doppio dopo 4-5 anni.

Mentre la crisi si è rivelata e sono cresciuti i timori su un suo peggioramento, alcuni senatori democratici hanno proposto che il governo USA fornisca fondi per aiutare i debitori subprime nei guai ed evitare che queste persone possano perdere la loro abitazione. Alcuni economisti criticano la proposta, affermando che potrebbe peggiorare le insolvenze o incoraggiare prestiti ancora più rischiosi. Fra le soluzioni per evitare un'emergenza abitativa vi sono l'avvio di un programma di edilizia popolare o una riforma delle legge sui pignoramenti, più vicina alle esigenze della popolazione e meno garantista nei confronti dei creditori.

Il continuo rialzo dei tassi di interesse ha indotto l'insolvenza di circa 2 milioni di famiglie americane, e ha spinto il Congresso all'estensione alle famiglie dell'istituto del fallimento, in precedenza concesso alle sole imprese.

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Una riduzione dei tassi di interesse ridurrebbe automaticamente la rata variabile di questi mutui, riportandola ai livelli precedenti la crisi e sostenibili per i redditi americani. Oltre a ridurre la percentuale di insolvenze però, un abbassamento del tasso di sconto avrebbe anche l'effetto opposto di spingere alla concessione di nuovi mutui (e aggravare il numero di potenziali insolvenze in futuro). In questo senso, il tasso di interesse non è l'unica leva a disposizione delle banche centrali. Un aumento della riserva frazionaria oppure un esplicito divieto di concedere prestiti ad un tasso ribassato per ridurre le insolvenze pendenti sarebbero strumenti in grado di attenuare il problema. Nella prima metà dell'Agosto 2007, le preoccupazioni su un possibile crollo dell'industria dei mutui subprime hanno causato una netta caduta degli indici di borsa Nasdaq e Dow Jones, con serie ripercussioni sui listini di tutto il mondo.

La situazione mutui è a rischio anche in altri Paesi. In Italia, il debito pro-capite supera i 30.000 euro l'anno e nel 2007, a fronte di 3.500.000 famiglie titolari di un mutuo, i casi di insolvenza superavano quota 500.000, con altrettante procedure avviate di pignoramento. In Europa manca una regolamentazione internazionale comune per la concessione dei mutui.

Crisi finanziaria (2007) e crisi economica attuale

I mercati finanziari di tutto il mondo hanno attraversato nel 2008 la loro peggiore crisi dalla Grande depressione degli anni Trenta. La crisi finanziaria ha coinvolto banche e mercati di tutto il mondo, occupando pagine di giornali e servizi televisivi, e le ripercussioni economiche e sociali continuano ad affiorare in angoli finora ritenuti immuni.

L’inaspettata velocità e la determinazione con cui si sono mossi i Governi ha evitato il fallimento di importanti istituzioni finanziarie, che avrebbe potuto travolgere milioni di risparmiatori.

Diversamente da qualsiasi altra azienda, quando fallisce una banca ci rimettono non solo gli azionisti, i dipendenti e i manager, ma anche i clienti e le altre banche che hanno prestato a quella banca. Si produce così un effetto di contagio al resto del sistema finanziario, tanto più forte quanto più importante è la banca che fallisce.

Il tragico fallimento della banca d’affari Lehman Brothers ci ha fornito l’esempio e le misure adottate in seguito hanno definito una certezza: le banche più grandi non vengono lasciate fallire. Secondo il proverbiale too big to fail, se il fallimento di una singola banca rende

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probabile una crisi sistemica, questa banca deve essere salvata dallo Stato, anche a costo di gravare sui contribuenti e di possibili distorsioni sui mercati.

Questo non deve però diventare un incentivo ad assumere rischi insostenibili o a sbizzarrirsi in invenzioni finanziarie, con l’unico obiettivo della moltiplicazione dei guadagni. L’attività finanziaria dovrà perciò essere valutabile e i rischi ponderati. Questo richiede trasparenza, regole, controllo e maggiore responsabilità..

I mercati globali azionari hanno ceduto di più del 50%; gli spread sui tassi d' interesse sono saliti alle stelle; è emersa una grave crisi della liquidità e del credito e molti paesi a economia emergente si sono rivolti barcollando al Fondo Monetario Internazionale in cerca di aiuto.Sussiste anche il rischio di un atterraggio violento per le economie dei paesi con mercati emergenti, conseguentemente al graduale trasmettersi a queste zone degli shock finanziari e reali tramite i rapporti commerciali, finanziari e valutari.

Nella prima parte del 2008, nelle economie avanzate, la recessione aveva suscitato il timore di una stagflazione analoga a quella degli anni Settanta (inflazione abbinata a una stagnazione economica). Dato che la domanda aggregata sta scendendo più dell' offerta aggregata, l'indebolimento dei mercati dei beni comporterà un' inflazione più bassa. Per lo stesso meccanismo, l' aumento della disoccupazione avrà un effetto di contenimento del costo del lavoro e della crescita dei salari. Questi fattori, combinati con prezzi delle materie prime in drastica caduta, produrranno, nelle economie avanzate, un allentamento dell' inflazione che potrà avvicinarsi a un livello dell' 1 %, il che solleverà il timore di una deflazione piuttosto che di una stagflazione. La deflazione è pericolosa perché porta alla trappola della liquidità: dato che i tassi interbancari nominali a breve non possono scendere sotto lo zero, la politica monetaria diventa inefficace. La flessione dei prezzi riflette un costo reale del capitale alto e un aumento dell'entità reale del debito nominale che a loro volta causano una riduzione dei consumi e degli investimenti, generando un circolo vizioso nel quale i redditi e l' occupazione si contraggono sempre di più, aggravando la caduta della domanda e dei prezzi.

Con la complicità della globalizzazione dei mercati le difficoltà di pochi si sono trasformate in un problema per tutti.

Poiché la politica monetaria tradizionale diventa inefficace, si tende all' utilizzo di politiche non ortodosse:

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operazioni di salvataggio a favore di investitori, di istituti finanziari e di debitori; iniezioni massicce di liquidità alle banche affinché rendano più disponibile il credito e azioni ancora più radicali per abbassare i tassi d' interesse delle obbligazioni di Stato a lungo termine e per ridurre lo spread tra i tassi delle obbligazioni societarie e quelle del debito di Stato. L' attuale crisi globale è stata innescata dallo scoppio della bolla immobiliare statunitense, bolla che tuttavia non l' ha originata. Gli eccessi del credito negli Stati Uniti hanno coinvolto il settore dei mutui per gli immobili residenziali e per quelli commerciali, l' indebitamento con carte di credito, per l' acquisto dell' auto e per finanziare gli studi.

L' eccesso ha pervaso anche il settore dei prodotti cartolarizzati, dove questi debiti sono stati trasformati in derivati tossici; quello dei finanziamenti alle amministrazioni locali; quello dei finanziamenti destinati agli acquisti speculativi di attività produttive con una leva alta quello delle obbligazioni societarie che ora subiranno perdite massicce nello scontare il repentino aumento dei fallimenti e, infine, quello del pericoloso e non regolamentato mercato degli strumenti finanziari per "assicurarsi" contro l' incapacità delle aziende di onerare i debiti. In aggiunta, queste patologie non sono rimaste confinate agli Stati Uniti: in molti altri paesi si è assistito al gonfiarsi di una bolla immobiliare, alimentata da un eccesso di credito a condizioni stracciate che non rifletteva i rischi sottostanti. Contemporaneamente cresceva anche la bolla delle materie prime, quella degli acquisti speculativi di attività produttive e quella degli hedge fund.

Stiamo assistendo allo smantellamento del sistema bancario "ombra", cioè l' insieme degli istituti finanziari non-bancari che si comportano come banche, concedendo prestiti a breve termine e con mezzi liquidi, avvalendosi di una leva alta e investendo a lungo termine in attività illiquide.Oggi il risultato di tutto ciò è lo sgonfiarsi violento della grande bolla del patrimonio e del credito, con perdite per inesigibilità del credito che potrebbero avvicinarsi alla spaventosa cifra di 2.000 miliardi di dollari. Di conseguenza la stretta creditizia si acuirà in ragione del fatto che il ritmo dell' acquisizione delle perdite supera quello della ricapitalizzazione, costringendo le banche a restringere il credito. I prezzi dei titoli azionari e di altri investimenti rischiosi sono crollati drasticamente dalle punte del 2007, ma anche così sussistono ancora i rischi di ribassi notevoli. Il peggio deve ancora venire. Le notizie macroeconomiche e le relazioni sui profitti e sugli utili peggiori delle attese in tutto il mondo, aggraveranno la spinta al ribasso delle quotazioni degli investimenti più rischiosi. Anche se il rischio di un crollo totale sistemico è stato ridotto dalle misure prese dal G7

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e da altre economie per sostenere i propri sistemi finanziari, il sistema presenta ancora delle vulnerabilità.

Si è compreso che se il sistema finanziario collassa le ripercussioni ricadono sulla vita di tutti, perché il passo dal mondo virtuale al mondo reale è pericolosamente corto.

La crisi della Northern Rock

e i fallimenti bancari Tecnica

Soltanto nei primi quattro mesi del 2009, secondo un calcolo riportato dal Wall Street Journal, negli Stati Uniti sono fallite 31 banche. Altri 25 istituti di credito a stelle e strisce sono finiti in bancarotta nel corso del 2008 e il protrarsi delle tensioni finanziarie nel mondo bancario statunitense è per molti la vera misura dell’attuale crisi in corso.

Sicuramente la corretta gestione della tesoreria di una banca, la qualità degli impieghi, il mantenimento della liquidità di un istituto di credito rappresentano l’obiettivo più difficile da raggiungere in un periodo di crisi. D’altra parte il fallimento di una banca nell’economia moderna rappresenta uno dei fattori di maggiore rischio per l’intero sistema finanziario e genera una serie di impatti sui risparmiatori, sulle aziende, sul cittadino difficili da limitare o prevedere.Per questo motivo i governi di tutto il mondo hanno investito ingenti capitali nel rafforzamento dei propri sistemi finanziari ricorrendo in molti casi a nazionalizzazioni o a salvataggi senza precedenti.

Un caso che da subito è parso eclatante è quello della banca britannica Northern Rock. Il quinto istituto di credito del Regno Unito, una banca specializzata nel mercato dei mutui immobiliari, a metà del 2007 è entrato in una crisi repentina e incontrollabile che ha costretto il Governo di Londra a un intervento rapido e deciso, anticipando in pratica tutta una serie di manovre successive attuate da diversi paesi del mondo.Fino all’autunno del 2007 Northern Rock sembrava una banca solidissima. Il mercato immobiliare britannico andava a gonfie vele e l’istituto faceva affari d’oro. Poi, in maniera apparentemente improvvisa, si scoprì che le altre banche avevano deciso di non prestare più il proprio denaro a questo istituto.La Banca d’Inghilterra decide di garantire le coperture necessarie e cerca, senza successo, di tranquillizzare i risparmiatori. Già in quei giorni infatti i correntisti di Northern Rock avevano sentito puzza di bruciato e avevano cominciato ad accalcarsi

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agli sportelli della banca chiedendo di ritirare il proprio denaro. La fuga dei risparmiatori porta al collasso una banca.

L’apertura di linee di credito con la Banca d’Inghilterra serve a poco e così alcuni manager e azionisti del gruppo organizzano un primo piano di salvataggio che però non va in porto. La cessione, l’11 giugno del 2008, di 2,2 miliardi di sterline in mutui al gruppo JP Morgan non risolve la situazione.Il 17 febbraio il Governo UK decide di privatizzare “temporaneamente la banca”. Nel frattempo i titoli di Northern Rock sono precipitati in Borsa e il 2008 si chiude con una perdita da 1,36 miliardi di sterline.

In molti casi la stampa internazionale attribuisce alla fuga dei clienti la bancarotta del gruppo, un saggio di Bernardo Bortolotti e Hyun Song Shin evidenzia però numerose altre criticità del gruppo precedenti questo evento.

Per finanziare una crescita notevole delle attività immobiliari il gruppo aveva ridotto notevolmente l’incidenza dei depositi sulle fonti di finanziamento. Secondo un calcolo di Bortolotti, a metà 2007 solo il 23% delle passività del gruppo derivavano direttamente da depositi retail: più di tre quarti dei finanziamenti della banca provenivano dunque da prestiti a breve termine reperiti nel mercato dei capitali, da securitized notes e da altri strumenti di finanziamento più a lungo termine.

La crisi della Northern Rock sarebbe stata dunque determinata dalla fuga dei risparmiatori solo in un secondo momento: quando al resto del sistema bancario era già chiaro che qualcosa non andava.

D’altra parte l’intervento pubblico del Governo britannico sul gruppo Northern Rock ha suscitato sospetti di aiuti illeciti di Stato tanto che la Commissione europea ha avviato una inchiesta in proposito. In particolare è stata insospettita dalla separazione delle Northern Rock in una banca sana e in una “bad bank” che dovrebbe recepire la parte principale dei prestiti ipotecari in via di liquidazione.

La crisi attuale a confronto con le crisi del passato

Si dice che se i problemi sono iniziati sul mercato delle case degli Stati Uniti, è probabile che sia lì che finiranno.

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Nel pieno della crisi di fiducia che ha investito i mercati finanziari internazionali ci si chiede quando finirà.Ad ogni nuovo scossone sui mercati si sprecano i riferimenti alla crisi del ’29 e alla Grande Depressione degli anni ’30. Si tratta in genere di stereotipate affermazioni avare di sostanza ma in qualche caso hanno un fondamento. Stanno nei fatti e nei numeri, come evidenziano alcuni grafici che mi è parso utile raccogliere: danno un’idea dell’eccezionalità della “sbandata” presa dagli investitori e offrono il destro sia per un ammonimento che per una rassicurazione, entrambi preziosi al fine di ritrovare un po’ di equilibrio in tempi così squilibrati.

Il grafico che segue, a cura di Value Square Asset Management e dell’Università di Yale, mostra la distribuzione dei rendimenti totali (inclusi i dividendi) del mercato azionario americano, anno per anno, dal 1825 a oggi. La perdita del 45% circa registrata sinora nel 2008 , lo colloca all’estremità negativa del range, alla pari solo col 1931.

Il 1931 fu l’anno in cui la produzione industriale negli Stati Uniti crollò del 30% e la disoccupazione raggiunse il 16% della forza lavoro. Era del 3% nel 1929 e culminò al 25% nel 1933. Oggi, per dare un’idea, si trova al 6,5% e si stima che possa valicare l’8% alla fine del prossimo anno.

Il 1931 fu poi l’anno delle crisi bancarie e valutarie internazionali, che in alcuni casi, come in Gran Bretagna e in Austria, portarono anche alla caduta dei governi. Negli Stati Uniti chiusero i battenti 2293 istituti di credito (oltre il 10% del totale) con perdite per i depositanti di 391 milioni di dollari, una cifra pari a circa 70 miliardi di dollari di oggi se si tiene conto di quanto è cresciuta da allora l’economia. Stiamo parlando dello 0,5% del PIL.Da noi, nel 2008, le banche non sono fallite. Ma in America sì, anche se in modi alquanto diversi dal 1931. Il sito della Federal Deposit Insurance Corporatin (FDIC) ci dice che le chiusure di istituti creditizi, negli Usa, sono state 22. Nella quasi totalità dei casi, i depositi sono stati rilevati da altre banche. Laddove ciò non è stato possibile, come nella bancarotta della californiana IndyMac Bank, è intervenuta la FDIC creata nel 1933 sotto la presidenza di Franklin Delano Roosevelt, proprio per assicurare con fondi federali i depositi degli americani.

L’indice più evidente per misurare le crisi ricorrenti del capitalismo è quello delle borse. In particolare l’indice borsistico più importante è il Dow Jones della Borsa di New York, i cui dati sono disponibili dal 1895. Si tratta dunque di un indice che abbraccia oltre un secolo di storia del capitalismo, in cui ha predominato

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essenzialmente l’economia statunitense.In questi 113 anni, dal 1895 ad oggi, vi sono state nuemerose e ricorrenti crisi, che trovano riscontro nella caduta dell’indice Dow Jones.

La prima grave crisi si ebbe nei primi anni del secolo: fra il 1901 ed il 1903, quando l’indice perse il 33%. Ma tutto il primo decennio del secolo XX è un periodo di forte instabilità e crisi economica. La prima guerra mondiale è la conseguenza diretta di questa crisi.Il primo dopoguerra, tranne una breve parentesi nel 1920 è un periodo di forte crescita economica che culmina con la grande crisi del 1929. Anche questa crisi culminerà in una guerra, la seconda guerra mondiale.Nel secondo dopoguerra vi sono anni di una significativa discesa dell’indice Dow Jones (attorno al 10%) nel 1957, 1962, 1966 e 1969, ma una vera importante crisi la troviamo nel 1973. La crisi economica del 1973 è legata alla crisi energetica, dovuta principalmente ad un’improvvisa e inaspettata interruzione del flusso dell’approvvigionamento di petrolio dai paesi dell’Opec. Si trattò di una importante crisi di ristrutturazione che condusse all’affermazione di nuovi settori del capitalismo.Gli anni ottanta e novanta sono anni di forte crescita economica, riscontrabile appunto in un forte aumento dell’Indice Dow Jones che passa dagli 875 punti della fine del 1981 a 11.497,12 della fine del 1999, con un tasso di crescita annua di circa il 16%.Dopo una interruzione di tre anni (2000-2002), l’indice torna a salire vertiginosamente, fino a raggiungere la massima chiusura giornaliera il 9 di ottobre del 2007, quando arriva a 14.164,53 punti.Si è trattato di una poderosa crescita economica fondata, negli USA, essenzialmente su un modello di vita basato sul consumismo sfrenato, che andava ben oltre qualsiasi possibilità e che fu reso possibile grazie ad un forte indebitamento; indebitamento a livello statale, impresariale e familiare. Il consumismo basato sul debito senza limite prima o poi doveva necesariamente raggiungere il punto massimo, il punto di non ritorno. La crisi era fortemente prevedibile e da un momento all’altro doveva necessariamente scoppiare. E’ arrivata prorompente e in tutta la sua gravità nell' autunno del 2008.

Non si tratta di una una delle solite crisi di ristrutturazione del capitale, che nei decenni precedenti hanno avuto grandi e gravi ripercussioni. Si tratta di una crisi di ricollocazione del capitale che segnerà il tracollo o quanto meno il forte ridimensionamento della potenza USA a favore di nuovi capitalismi emergenti.La prima grande potenza capitalistica fu l’Inghilterra, che lasciò il predominio economico mondiale agli USA a seguito della grande crisi del 1873.La Gran Bretagna infatti era il paese con il più alto PIL al mondo: il 9,02% del PIL mondiale era prodotto in Gran Bretagna.

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Nel 1900, benchè percentualmente il PIL della Gran Bretagna aumenta, aveva perso il primato a favore degli USA, che ormai producevano il 15,83% del PIL mondiale. La Gran Bretagna segue il suo inesorabile declino ed oggi il suo PIL rappresenta meno del 3% del PIL mondiale. Gli USA invece seguono crescendo, fino a raggiungere nel 1951 il tetto massimo: producono il 27,73% del PIL mondiale. Anche per gli USA iniza successivamente una lento, ma insesorabile declino. Praticamente, alla vigilia della crisi odierna meno del 20% del PIL mondiale è prodotto negli USA e sicuramente tale dato tenderà a scendere sempre piu velocemente con l’accentuarsi della crisi. Il destino degli USA sembra segnato.

Analizzando più nei dettagli, attraverso gli indici del Dow jones, la crisi di oggi sembra avere forti similitudini con quella del 1929.La crisi di oggi è stata preceduta dal raggiungimento di un indice massimo a 14.164,53 punti, il 9 ottobre del 2007; il 27 di ottobre del 2008, dopo 384 giorni tocca un minimo di 8.175,77 punti, ossia perde il 42,28% del suo valore.Precedentemente alla crisi del 1929, l’indice Dow Jones aveva toccato il massimo a 381,17, il 3 settembre 1929; dopo 384 giorni, il 22 di settembre del 1930 l’indice era a 222,78, ossia era sceso del 41,55%; impresionante la coincidenza di dati con l’attuale crisi. Nella crisi del 1929, la caduta prosegue fino all’8 luglio del 1932, quando dopo 1.039 giorni dal suo massimo antecedente la crisi, il Dow Jones tocca il fondo a 41,22 punti, ossia durante la crisi perde l’89,19% del suo valore.Ovviamente non sappiamo come evolverà questa crisi, ma tutto lascia presagire che continuerà a lungo ed è anche possibile che possa ripetersi lo schema occorso durante la crisi del 1929.Per la cronaca, la crisi del 1929 fu cosi devastante che sfociò nella seconda guerra mondiale ed occorsero 9.212 giorni, ossia 25 anni, 2 mesi e 20 giorni prima che l’indice Dow Jones tornasse ai livelli massimi anteriori la crisi (3 di settembre del 1929); infatti, solamente il 23 di novembre del 1954 l’indice Dow Jones tornò ai livelli anteriori la crisi del 1929.

Ancora una coincidenza fra le due crisi. Oggi stiamo assistendo a giornate di forte caduta, che si alternano a giornate di forte crescita, ossia una forte volatilità. Quando ci sono queste giornate di grandi rialzi l’ottimismo generale prevalente sembra pensare alla fine della crisi.Il 13 ottobre ed il 28 di ottobre 2008, l’indice Dow Jones ottiene due dei più grandi rialzi di tutta la storia della borsa, rispettivamente 11,08% (il quinto rialzo più alto della storia) e 10,88%. (il sesto rialzo più alto della storia). Altra coincidenza con la crisi del 1929: il 6 ottobre 1931 l’inidice Dow Jones cresce del 14,87% (il secondo rialzo più alto della storia) ed il 30 ottobre del 1929 aumenta del 12,34% (il terzo rialzo più alto della storia); anche allora, esattamente come oggi, la borsa in piena crisi, quando mancava ancora molto per toccare il fondo, conobbe giornate di grande crescita.

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Nei circa duecento anni di stroria del capitalismo si sono avute tre grandi crisi, con cadenza ogni 60/80 anni. La crisi del 1873 segnò il ridimensionamento della superpotenza inglese e l’ascesa degli USA. La crisi del 1929 condurrà all’affermazione degli Stati Uniti come superpotenza economica. La crisi che stiamo vivendo in questi giorni rappresenta per gli USA ciò che ha rappresentato la crisi del 1873 per l’Inghilterra.All’emergere di nuovi protagonisti farà da contrasto lo smarrirsi alla periferia della storia di logori attori.

Bibliografia

Economia e pazzia – Fabrizio GalimbertiStoria delle crisi finanziarie – Charles KindlebergerStoria economica del mondo – C.Rondo e N.LarryLa crisi economica mondiale - Sapelli Giuliohttp://investitoreaccorto.investireoggi.ithttp://it.wikipedia.orghttp://www.borsaedintorni.it/storia-economicahttp://simonericci82.blogspot.com/2009/05/crisi-economiche-del-passato-firenze.html