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TFO - Tesi Filosofiche Online - Online Philosophical Theses SWIF – Sito Web Italiano per la Filosofia Note sul diritto d'autore I diritti relativi alle tesi sono dei rispettivi autori. È consentita la copia per uso esclusivamente personale. Sono consentite, inoltre, le citazioni a titolo di cronaca, studio, critica o recensione, purché accompagnate dall'idoneo riferimento bibliografico. Si richiede, ove possibile, l'indicazione della fonte "TFO-SWIF", incluso l'URL www.swif.it/tfo. TFO-SWIF delega la responsabilità per il contenuto delle singole tesi ai rispettivi autori. TFO-SWIF declina qualsiasi responsabilità (espressa, implicita o di legge, inclusa la violazione dei diritti di proprietà e danni da mancato guadagno) in riferimento al servizio offerto, alle tesi pubblicate, alle informazioni in esse contenute (incluso accuratezza e legalità) e ad ogni altro contenuto, anche di terze parti, presente sul sito TFO-SWIF. TFO-SWIF non è responsabile per alcun danno causato dalla perdita, cancellazione o alterazione, momentanea o definitiva, delle tesi. TFO-SWIF non può, in nessun caso, essere ritenuto responsabile per danni o perdite di qualsiasi natura che l'Utente assuma di aver subito per l'effetto del mancato funzionamento di qualsiasi servizio offerto e/o per la mancata ricezione di informazioni e/o per la loro inesattezza o incompletezza. TFO-SWIF si riserva il diritto di cancellare ogni contenuto, che per leggi sopravvenute non rispetti più le limitazioni della giurisprudenza o le nuove condizioni del servizio stabilite. L'autore ha autorizzato TFO-SWIF al trattamento dei suoi dati personali ai sensi e nei limiti di cui alla legge 675/96. Copyright Information The copyright of each thesis belongs to the respective author. The copy is allowed only for personal use. The quotations are allowed for chronicle, study, criticism or review, but they must have the right bibliographic reference. If possible, there will must be the indication of the source "TFO-SWIF", inclusive of the URL www.swif.it/tfo. TFO-SWIF delegates to the respective author the responsability for the content of each thesis. TFO-SWIF declines all explicit, implicit or juridical responsability (the violation of property rights and the damages for non-earnings included), with reference to the offered service, to the published theses and to the contained informations (precision and legality included) and to all contents (of a third party, too) in the TFO-SWIF site. TFO-SWIF is not responsibal for any damage caused from the temporary or absolute loss, cancelling or alteration of the theses. TFO-SWIF can under no circumstances be thought responsible for damages or losses of any nature, that the User assumes to have suffered, for consequence of any offered service or of the unsuccessful reception, uncertainty or incompleteness of information. TFO-SWIF reserves the right to cancel all contents that in consequence of new laws don't respect the juridical limitations or the new conditions of service. The author allowed TFO-SWIF to the treatment of own personal data (Italian Law n. 675/96). SWIF – Sito Web Italiano per la Filosofia

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TFO - Tesi Filosofiche Online - Online Philosophical Theses SWIF – Sito Web Italiano per la Filosofia

Note sul diritto d'autore I diritti relativi alle tesi sono dei rispettivi autori. È consentita la copia per uso esclusivamente personale. Sono consentite, inoltre, le citazioni a titolo di cronaca, studio, critica o recensione, purché accompagnate dall'idoneo riferimento bibliografico. Si richiede, ove possibile, l'indicazione della fonte "TFO-SWIF", incluso l'URL www.swif.it/tfo. TFO-SWIF delega la responsabilità per il contenuto delle singole tesi ai rispettivi autori. TFO-SWIF declina qualsiasi responsabilità (espressa, implicita o di legge, inclusa la violazione dei diritti di proprietà e danni da mancato guadagno) in riferimento al servizio offerto, alle tesi pubblicate, alle informazioni in esse contenute (incluso accuratezza e legalità) e ad ogni altro contenuto, anche di terze parti, presente sul sito TFO-SWIF. TFO-SWIF non è responsabile per alcun danno causato dalla perdita, cancellazione o alterazione, momentanea o definitiva, delle tesi. TFO-SWIF non può, in nessun caso, essere ritenuto responsabile per danni o perdite di qualsiasi natura che l'Utente assuma di aver subito per l'effetto del mancato funzionamento di qualsiasi servizio offerto e/o per la mancata ricezione di informazioni e/o per la loro inesattezza o incompletezza. TFO-SWIF si riserva il diritto di cancellare ogni contenuto, che per leggi sopravvenute non rispetti più le limitazioni della giurisprudenza o le nuove condizioni del servizio stabilite. L'autore ha autorizzato TFO-SWIF al trattamento dei suoi dati personali ai sensi e nei limiti di cui alla legge 675/96.

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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI NAPOLI

«FEDERICO II»

FACOLTA' DI LETTERE E FILOSOFIA

CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA

TESI DI LAUREA

IN

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE

LA CATEGORIA TOTALITARISMO

NELLA PROSPETTIVA DEL PENSIERO

DI HANNAH ARENDT

Relatore:

Ch.mo prof.

GIANFRANCO BORRELLI

ANNO ACCADEMICO 1997-98

Candidata:

FILOMENA CASTALDO

matr.: 04/9096

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CAPITOLO PRIMO

GENEALOGIA E TOPOLOGIADI UN CONCETTO ATTRAVERSO

LE INTERPRETAZIONISTORICO-FILOSOFICHE

DAGLI ANNI ‘30 AGLI ANNI ‘50

«Possiamo prendere tutti i termini,tutte le espressioni del nostro

vocabolario politico,e aprirli;

al loro interno troveremo il vuoto».(S. Weil)

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1. Il concetto ‘totalitarismo’

A cosa rinvia la semantica totalitarismo?1

E’ una categoria politica nuova, tutta novecente-

sca? Va considerata per la sua validità euristica oppu-

re no? E qual è il quid novi che la caratterizza come

forma politica che si è storicamente concretizzata e

che Hannah Arendt profeticamente aveva individuato

nei soli regimi di Hitler in Germania e di Stalin in

Russia?

Un punto dobbiamo tener ben fermo: il totalitari-

smo non è autoritarismo.2

1 In termini generali si veda: M. Stoppino, Totalitarismo, in N. Bobbio,N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di politica, Torino, UTET, 1983;V. Dini, Totalitarismo e filosofia, un concetto tra descrizione e com-prensione, in «Filosofia politica», a. XI, n. 1, aprile 1997; M. Tarchi, Iltotalitarismo nel dibattito politologico, in «Filosofia politica», a. XI,cit., pp. 63-79. 2 Sul piano lessicale, prima ancora che concettuale, si registra, in parti-colar modo nei testi di alcuni esponenti del mondo intellettuale tedescodegli anni ‘30, una certa confusione ed un uso spesso interscambiabiledei termini ‘autoritario’ e ‘totale’, pur avendo come obiettivo polemicocomune la forma-Stato moderna. Così fa notare C. Galli: « Si può fin

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In generale, si considerano autoritari tutti quei

regimi non democratici, caratterizzati dall’assenza del

parlamento e delle elezioni popolari, o da una loro at-

tività apparente, nonché dall’indiscusso predominio del

vertice dell’esecutivo. E’ assente la libertà dei sottosi-

stemi, sia formale che effettiva: l’opposizione politica

è soppressa o imbavagliata; il pluralismo dei partiti è

d’ora affermare che ‘totalità’ vale sempre per ‘corpo sociale integral-mente politicizzato e integralmente conflittuale’, e, in parallelo, per‘estensione integrale della politica’; insomma, per la sua onnipervasivi-tà. E che ‘autorità’ è termine a minore capacità denotativa e di uso piùgenerico, così da valere per ‘sovranità’, ‘potere’, ‘governo’; ma che ingenerale assume più spesso valenze di stabilizzazione politica. E’ cosìpossibile rigorizzare, senza violentarne lo spirito, le diverse posizioni esostenere che la locuzione ‘Stato totale’ pare più orientata a descrivere -al di là del valore che i singoli autori ne danno -una situazione che ten-denzialmente supera o sfonda, o comunque confonde portandole all’estre-mo, le logiche e gli assetti politico-istituzionali dello Stato moderno;mentre l’espressione ‘Stato autoritario’ - differenziato da una forma po-litica obsoleta come il tradizionale Obrigkeitsstaat- si può intendere unastrategia di rivitalizzazione, pur nelle mutate condizioni, del comandodello Stato sulla società, in una ritrovata distinzione e gerarchizzazionedei due ambiti in una rinnovata articolazione per ‘cerchie’ del corposociale». C. Galli, Strategie della totalità, in «Filosofia politica», cit.,pp. 27-61.

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vietato o ridotto a simulacro; l’autonomia degli altri

gruppi è tollerata o distrutta, secondo l’interesse del

capo o dell’élite al governo.

E’ chiaro che, in questo senso molto generale, il

concetto di autoritarismo può ricomprendere legitti-

mamente quello di totalitarismo, svuotandolo, però,

facendo del secondo un indicatore di intensità di certi

tratti del contesto autoritario, privando, cioè, il con-

cetto di totalitarismo di una specificità che pure va ri-

conosciuta.

Il sociologo politico Juan J. Linz, nel suo Totali-

tarian and Authoritarian Regimes,3 definisce i regimi

autoritari come sistemi politici con un pluralismo li-

mitato e non responsabile; senza una ideologia elabo-

rata e propulsiva (ma con delle caratteristiche menta-

lità); senza una mobilitazione politica intensa o vasta

(eccetto che in taluni momenti del loro sviluppo); in

3 J. J. Linz, Totalitarian and Authoritarian Regimes, Greenstein e Pol-sby (a cura di), Handbook of Political Science, Addison-Wesley, Rea-ding (Mass.), 1975.

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cui un capo (talora un piccolo gruppo) esercita il pote-

re entro limiti che sono formalmente mal definiti ma

di fatto agevolmente prevedibili.

Il totalitarismo è speculare ed opposto.

Lo stesso Linz, precisando i limiti e i confini tra

totalitarismo-democrazia e totalitarismo-autoritari-

smo, presenta una teoria secondo cui gli elementi in-

dispensabili per definire totalitario un sistema politi-

co sono: 1) l’ideologia, fonte di legittimazione del

potere e della prassi; 2) un partito unico di massa, stru-

mento di pressione sulla popolazione; 3) una leader-

ship, sia individuale che di una élite di dirigenti che

operano senza limiti legali definiti.

Riconosce, invece, come autoritari i regimi post-

totalitari, rappresentati dai sistemi comunisti dopo

il processo di destalinizzazione, risultato combinato

da un pluralismo limitato e in conflitto, da una par-

ziale depoliticizzazione delle masse, da un ruolo at-

tenuato del partito unico e della ideologia, da un’ac-

centuata burocratizzazione; ed un totalitarismo im-

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perfetto, che di solito è una fase transitoria di un si-

stema politico il cui sviluppo verso il totalitarismo

viene arrestato per poi trasformarsi in qualche altro

regime autoritario.

Con Roman Schnur,4 possiamo aggiungere che un

elemento fondamentale della distinzione tra autoritari-

smo e totalitarismo è che se il primo tende a proporre

una visione del potere sovrano come «qualcosa di este-

riore, utilizzabile cioè per ottenere un’obbedienza este-

riore, senza che con ciò venga mai toccata la loro inte-

riorità, la coscienza», il secondo mira a piegare e di-

struggere l’interiorità non solo perché non ci sia oppo-

sizione, quanto per creare un uomo nuovo, una realtà

nuova secondo un preciso scopo ideologico, secondo

la volontà di chi detiene il potere.

«Il regime totalitario nella sua fase iniziale deve

comportarsi come una tirannide e radere al suolo i

limiti posti dalle leggi umane. Ma esso non lascia

4 R. Schnur, Individualismo e assolutismo, Milano, Giuffrè, 1979.

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dietro di sé l’illegalità arbitraria e non infierisce per

imporre la volontà tirannica o il potere dispotico di

un individuo su tutti gli altri e, men che meno, l’anar-

chia di una guerra di tutti contro tutti.

Sostituisce ai limiti e ai canali di comunicazione

fra i singoli un vincolo di ferro, che li tiene così stret-

tamente uniti da far sparire la loro pluralità in un uni-

co uomo di dimensioni gigantesche.

Abolire i confini delle leggi fra gli individui,

come fa la tirannide, significa annullare le libertà

umane, distruggere la libertà come realtà politica vi-

vente; perché lo spazio fra gli individui, com’è cir-

coscritto dalle leggi, è lo spazio vivo della libertà.

Il terrore totale usa questo vecchio strumento del-

la tirannide, ma distrugge allo stesso tempo quel de-

serto, senza leggi e senza barriere, dominato dalla

reciproca diffidenza, che è propriamente della tiran-

nide.

Questo deserto non era, certo, uno spazio vivo di

libertà, ma lasciava ancora un po’ di posto ai movi-

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menti timorosi e alle caute azioni dei suoi abitanti».5

Se, cioè, sotto un governo autoritario e tirannico, ci

sono margini perché si crei un’opposizione, perché le

persone dissenzienti possano in qualche modo opera-

re ed agire, con il totalitarismo siamo al grado zero

della comunicazione e delle differenze, al conformi-

smo come alienazione dalla politica e dal mondo, al

dominio che permea le coscienze in modo totale.

La Arendt utilizza l’immagine della cipolla per foca-

lizzare il concetto di totalitarismo: al centro «quasi in uno

spazio vuoto, si trova il capo. Quale che sia la funzione di

questi (integrare il corpo sociale, come una gerarchia au-

toritaria, o opprimere i sudditi, come un tiranno), egli la

compie dall’interno non dall’esterno o dall’alto. Tutte le

innumerevoli parti del movimento: le organizzazioni col-

laterali extra-partitiche, le varie associazioni professiona-

li, gli iscritti al partito, la burocrazia del partito, le forma-

5 H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, Harcourt, Brace &World,Inc., III ed. New York, 1966; trad. it. Le origini del totalitarismo, a curadi A. Guadagnin, Milano, Edizioni di Comunità, 1996.

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zioni di élite e i gruppi di polizia sono reciprocamente in

una relazione tale da costituire, a seconda del punto di

vista, la superficie o il centro della cipolla: cioè, rispetto a

uno strato costituiscono il normale mondo esterno, men-

tre rispetto ad un altro rappresentano il radicalismo più

estremista. Il grande vantaggio del sistema è di fornire a

ciascuno strato del movimento, nonostante il regime tota-

litario, la finzione di una realtà normale, insieme, la con-

vinzione di differenziarsene e di essere più radicale (...).

La struttura a cipolla rende il sistema organizzativamente

inattaccabile dall’urto della realtà effettiva».6

Tendenzialmente - tale è la proposta di B. R. Bar-

ber7 - nel definire il totalitarismo si fa riferimento a

due approcci, l’uno essenzialista, che, «generalmente

legato a spiegazioni monocausali, procede attraver-

6 H. Arendt, What is Authority?, in Between Past and Future, London,Faber & Faber, 1961; trad. it. Che cos’è l’autorità? in Tra passato efuturo, Milano, Garzanti, 1991.7 B. R. Barber, Conceptual Foundations of Totalitarianism, in C. J. Frie-derich, M. Curtis, B. R. Barber, Totalitarianism im Perspective: ThreeViews, New York, Praeger, 1969.

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so ricostruzioni impressionistiche piuttosto che per

riscontri empirici, e tende a sottolineare proprietà

astratte e non misurabili, come gli scopi ultimi e i

connotati ideologici, dei regimi che sono considera-

ti totalitari»;8 l’altro fenomenologico, che analizza

«quegli stessi regimi in una prospettiva multifatto-

riale empirica, cercando di isolarne gli attributi obiet-

tivi, le caratteristiche formali e al limite misurabili,

con la dichiarata intenzione di tracciare un modello

di totalitarismo e gettare le basi di una teoria che

possa spiegarne la genesi e gli sviluppi, stabilendo

nel contempo precise frontiere del campo di appli-

cazione della parola».9

Decisive sono le puntualizzazioni di L.

Schapiro,10 che insiste sul carattere analitico-descrit-

tivo del termine in oggetto in relazione a regimi del

8 M. Tarchi, Il totalitarismo nel dibattito politologico, in «Filosofia po-litica», cit., p. 67.9 Ibidem.10 L. Schapiro, Totalitarianism, Pall Mall, Londra, 1972.

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nostro tempo che sarebbero altrimenti analizzati con

categorie anacronistiche e non esaustive.

Già nel 1956 Carl J. Friederich e Zbigniew K.

Brzezinski avevano colto la nuova portata politica del

totalitarismo, fenomeno storicamente unico e sui ge-

neris, riconoscendo questi caratteri: 1) esistenza di una

ideologia ufficiale, riguardante tutti gli aspetti della

esistenza e dell’attività dell’uomo; 2) partito unico di

massa guidato da un dittatore e strutturato gerarchica-

mente in modo da garantire capillarmente l’adesione

all’ideologia e alla volontà del capo; 3) sistema terro-

ristico poliziesco che controlla i nemici reali e poten-

ziali, nonché il partito stesso; 4) monopolio tenden-

zialmente assoluto dei media; 5) monopolio tenden-

zialmente assoluto degli armamenti sulla base della

tecnologia moderna; 6) direzione centralizzata del-

l’economia.

Definendo i regimi fascisti e comunisti «fonda-

mentalmente simili», applicando l’etichetta di dittatu-

re totalitarie anche alle democrazie popolari dell’Eu-

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ropa orientale e alla Cina maoista, gli autori di Totali-

tarian Dictatorship and Autocracy 11 hanno descritto

il totalitarismo come sindrome totalitaria, cioè come

un insieme di caratteri interrelati che tipizza taluni si-

stemi politici. Di tale modello, tuttavia, sono stati sot-

tolineati spesso i punti deboli: essenzialmente si tratta

di un modello statico, di natura monolitica, che non dà

grande spazio al mutamento e alla dinamica interna

del sistema.

Ribadendo che «un concetto analitico rimane pa-

trimonio conoscitivo anche se la realtà da esso richia-

mata non è più presente»,12 Domenico Fisichella ac-

coglie le tesi di Hannah Arendt in Le origini del tota-

litarismo e assegna al concetto di totalitarismo, pur-

ché corroborato in chiave di «analisi delle condizio-

11 C. J. Friederich e Z. K. Brezinski, Totalitarian Dictatorschip andAutocracy, Harvard University Press, 1956. Tale testo, in merito, è con-siderato, parimenti a quello della Arendt, un classico di teoria politica.12 D. Fisichella, Totalitarismo. Un regime del nostro tempo, Roma, NIS,1987, p. 20.

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ni», oltre che un ufficio di interpretazione storica, an-

che la portata di una categoria predittiva.

Egli non considera il totalitarismo in modo mo-

nolitico, pur se l’ispirazione è monistica; ne riconosce

la vocazione e la carica antipluralista.

«Il regime totalitario, dunque, non è un sistema

pluripartitico, rappresentativo-competitivo, pluralistico

in senso liberale»;13 è connotato «dall’assenza di strut-

ture e controlli parlamentari, dalla presenza di un par-

tito unico, dal rifiuto del pluralismo a pro dell’unitari-

smo e dell’onnicomprensività».14

Un’attenzione particolare è assegnata all’ideolo-

gia di chi detiene il potere, al terrore come principio

politico, al disordine istituzionalizzato, il quale è, per

così dire, il nucleo genetico e il perno della sua dina-

micità.

In questa considerazione idealtipica, l’analisi fe-

13 Ibidem, p. 22.14 Ibidem, p. 15.

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nomenologico-descrittiva si arricchisce di contenuti

empirici che non sono destinati comunque a genera-

lizzazioni ed appiattimenti.

Nel lessico storiografico, invece, le cose non sono

considerate in modo sufficientemente chiaro: non è

infrequente che gli storici replichino contro la univo-

cità del concetto e quel metodo di reductio ad unum

tipico delle scienze politologiche.

Ne Il Secolo breve, Eric J. Hobsbawn scrive con

una certa imprecisione: «Fino al 1945 il termine “tota-

litarismo”, originariamente inventato per descrivere il

fascismo italiano (e usato con questa funzione dai fa-

scisti stessi), fu applicato soltanto ai regimi fascisti o

filofascisti».15

E’ più semplice la ricezione nell’assunto politico

piuttosto che la problematizzazione del concetto sotto

il profilo storico. Pensiamo a quanto scrivono Franço-

15 E. J. Hobsbawn, Age of Extremes. The Short Twentieth Century 1914-1991, 1994; trad. it. Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1995.

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is Furet,16 Renzo De Felice,17 Emilio Gentile18 ed Enzo

Collotti,19 autori che ne marcano, comunque, la margi-

nalità. Totalitarismo, nelle migliori delle ipotesi, è con-

siderato un concetto polisemico, che si connota secon-

do il contesto di applicazione, un parametro, cioè, con

cui misurare la realtà storica senza peraltro estinguer-

la in esso. L’obiezione fondamentale degli storici è

non solo l’estensione del concetto a diverse espe-

rienze storiche dall’antichità ad oggi, ma, soprattut-

to, di aver accentuato le analogie piuttosto che le dif-

ferenze di ideologia e di base sociale dei due eventi

a cui sottendono l’esperienza nazionalsocialista e

l’esperienza comunista. Differenze sostanziali ci sono,

eccome!, con effetti rilevanti sulla stessa prassi totalitaria,

16 F. Furet, Le passé d’une illusion, Paris, Editions Robert Laffont, 1995;trad. it. Il passato di un’ illusione, Milano, Mondadori, 1995.17 R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Roma - Bari, Laterza,1991.18 E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nelregime fascista, Roma, NIS, 1995.19 E. Collotti, Fascismo, fascismi, Firenze, Sansoni, 1989.

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ma si potrebbe dire che queste obiezioni non sono perti-

nenti a delegittimare l’uso del concetto di totalitarismo per-

ché, pur se con contenuti diversi, si possono costruire prassi

di dominio politico sostanzialmente analoghe, come è ac-

caduto, appunto, per la Germania hitleriana e per la Rus-

sia staliniana, più precisamente dopo il 1930. E’ d’obbli-

go, tuttavia, che gli storici di professione comincino a mi-

surarsi in sede critica con le esperienze storiche che sot-

tendono alla nozione totalitarismo, al fine di evitare con-

fusioni e pregiudizi che possano inficiare il modello inter-

pretativo, in modo particolare oggi, in tempo di revisioni-

smo storico, e promuovere ricerche comparate sui paesi

definiti totalitari.20

20 Di questo avviso ci sembrano G. Ruocco e L. Scuccimarra, Totalitari-smo e ricerca storica, in «Storica», a. II, n. 6/1996; B. Bongiovanni,Revisionismo e totalitarismo, in «Teoria politica», a. XIII, n. 1/1997. Direcente si è tenuto un convegno internazionale organizzato dalla città diSiena su «L’esperienza totalitaria nel XX secolo», Certosa di Pontigna-no, 28 settembre - 1° ottobre 1997, i cui atti sono apparsi in forma menoelaborata in Aa. Vv., Nazismo, fascismo, comunismo. Totalitarismi aconfronto, a cura di M. Flores, Milano, Edizioni Bruno Mondadori, 1998.

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2. Genealogia del termine ‘totalitarismo’

1. Area italiana

Il termine totalitarismo viene per la prima volta ado-

perato in forma aggettivata e in un significato del tutto

negativo dall’italiano Giovanni Amendola in un suo arti-

colo del 22 maggio 1923, a proposito della manomissione

generale da parte dei fascisti delle elezioni amministrati-

ve: il partito dominante aveva presentato la lista di mag-

gioranza e di minoranza, evitando con la forza e l’insinua-

zione la formazione di una lista di opposizione ed ogni

fisiologica dialettica politica.

Amendola chiama questo modo di procedere «si-

stema totalitario», cioè «promessa del dominio asso-

luto e dello spadroneggiamento completo ed incon-

trollato nel campo della vita politica ed amministra-

tiva».21

21 G. Amendola, Maggioranza e minoranza, in «Il Mondo», 12 maggio1923 e in Id., La democrazia italiana contro il fascismo 1922-1924,Milano-Napoli, Ricciardi, 1960.

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La parola totalitario, sottolinea il Petersen,22 è

usata qui in senso quasi tecnico, indicando un nuovo

sistema elettorale in sostituzione di quello maggio-

ritario e minoritario, anche se l’opposizione aventi-

niana mal riusciva a definire la sostituzione del si-

stema parlamentare pluralistico con una dittatura

unipartitica. Nell’articolo del 28 giugno 1923 Amen-

dola applica questa sua interpretazione al dibattito

sulla legge Acerbo: egli attaccava il tentativo fasci-

sta di fare di Cavour «l’ispiratore divino della rifor-

ma elettorale fascista e del sistema totalitario», si

opponeva all’immagine «di un Cavour plasmatore

elettorale di un gregge di ascari totalitari».23

La distruzione del sistema pluralistico e dello sta-

to di diritto veniva sentito più profondamente in quei

settori della società italiana dove andava maturando,

22 J. Petersen, La nascita del concetto di “Stato totalitario” in Italia, in«Annali dell’ Istituto storico italo-germanico in Trento», I, 1975, pp.143-168.23 G. Amendola, Cavour e Pansoja, in «Il Mondo», 28 giugno 1923 e inId., La democrazia italiana contro il fascismo 1922-1924, cit.

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talora con enfasi apocalittiche, l’idea di essere di fron-

te a una trasformazione politica e istituzionale di tipo

dittatoriale e totalitaria. Pensiamo all’opposizione anti-

fascista liberale, democratica, socialista e cattolica.

Pensiamo a Salvatorelli, a Ferrero, a Gobetti, a Turati,

a Lelio Basso.

Ad Amendola come a Sturzo, già alla fine del

1923, la caratteristica propria del moto fascista appar-

ve «lo spirito totalitario, il quale non consente all’av-

venire di avere albe che non saranno salutate col gesto

romano, come non consente al presente di nutrire ani-

me che non siano piegate alla confessione: “credo”.

Questa singolare “guerra di religione” che da oltre un

anno imperversa in Italia non vi offre una fede (...) ma

in compenso vi nega il diritto di avere una coscienza -

la vostra e non l’altrui- e vi preclude con una plumbea

ipoteca l’avvenire».24

24 G. Amendola, Un anno dopo, in «Il Mondo», 22 novembre 1923;anche in Id., La democrazia italiana contro il fascismo 1922-1924, cit.

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Nel gennaio del 1924, Monti scrisse ne «La Rivo-

luzione Liberale» che il fascismo si accingeva a fare

«dopo le elezioni totalitarie nei comuni e nelle provin-

ce, l’elezione totalitaria per la Camera dei deputati».

Sturzo descrisse la nuova concezione fascista di stato-

partito tendente alla «trasformazione totalitaria di ogni

e qualsiasi forza morale, culturale, politica, religiosa».

Occupandosi delle elezioni parlamentari nella prima-

vera del 1924, Gobetti parlò dei «piani governativi»

che puntavano sul «gioco totalitario della demagogia

fascista». Egli riteneva che Mussolini non sarebbe mai

potuto diventare un tiranno, i suoi restavano «sogni

totalitari».

Anche il Giordani, sulle pagine del «Popolo», nel

maggio del 1924, scrisse della «anima totalitaria» del

fascismo e dei suoi «quadri dell’occupazione totalita-

ria».

Tra il giugno e il dicembre del 1924 sembra che il

termine totalitario sparisca dal vocabolario dell’op-

posizione, come se la questione morale dovesse esse-

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re combattuta non già sul piano del nascente novus

ordo statale quanto su quello etico.

Tenta di sostantivare l’aggettivo Lelio Basso, in un

intervento pubblicato su «La Rivoluzione liberale» del 2

gennaio 1925, accusando il primo ministro di voler im-

porre l’egemonia di «un solo partito che si fa interprete

dell’unanime volere, del totalitarismo indistinto».25

Nel discorso del 15 giugno 1925, alla chiusura

del primo e ultimo congresso dell’Unione Nazionale,

Amendola stigmatizza il fascismo per la sua feroce

intransigenza, la sua «ansiosa volontà totalitaria». E

Mussolini, nel suo discorso del 22 giugno 1925, ri-

prende la citazione letterale del discorso amendoliano

parlando della «nostra feroce volontà totalitaria» e di

«fascistizzare la nazione» al cento per cento.

Questo è certamente un punto d’incrocio, il mo-

mento in cui il concetto totalitario come espressione

25 Prometeo Filodemo (L. Basso), L’antistato, in «La Rivoluzione libe-rale», 2 gennaio 1925, ora in Le riviste di Pietro Gobetti, a cura di L.Basso e L. Anderlini, Milano, Feltrinelli, 1961.

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della tenace volontà di opposizione liberaldemocrati-

ca antifascista viene usurpato dal fascismo stesso per

una nuova valenza affatto positiva: «Totalitario espri-

me (...) uno spirito fiero e la determinazione di una

totale trasformazione della società, in parte attraverso

una sorta di monismo religioso e in parte attraverso la

sana ordalia della violenza- molto nello spirito dello

squadrismo».26 Mussolini sottolinea la nuova centra-

lità dello Stato nel contesto della vita sociale, elabo-

rando la formula «tutto nello Stato, niente al di fuori

dello Stato, nulla contro lo Stato».27

Dichiara Forges Davanzati in un suo discorso al-

l’Istituto di cultura a Firenze del 28 febbraio 1926:

«Se gli avversari ci dicono che siamo totalitari, che

siamo domenicani, che siamo intransigenti, che siamo

tirannici, non vi spaventate di questi aggettivi.

26 A. Gleason, Totalitarianism. The Inner History of the Cold War,NewYork- Oxford, Oxford University Press, 1995.27 B. Mussolini, Discorso del 28 ottobre 1925, in Id., Opera Omnia, acura di E. e D. Susmel, Firenze, La Fenice, 1967, XXI, p. 425.

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Prendeteli con onore ed orgoglio... Sì, siamo tota-

litari! Vogliamo essere tali, dal mattino alla sera,...

vogliamo essere domenicani..., vogliamo essere tiran-

nici!».28

Nella voce «Fascismo» della Enciclopedia Ita-

liana, attribuita a Benito Mussolini e in parte anche a

Giovanni Gentile, il filosofo che ha offerto il suo ma-

gistero come sostrato ideologico di tale movimento,

l’aggettivo totalitario è così formalizzato: «Antiindi-

vidualistica, la concezione fascista è per lo stato; ed è

per l’individuo in quanto esso coincide con lo stato,

coscienza e volontà universale dell’uomo nella sua

esistenza storica (...). E se la libertà deve essere l’attri-

buto dell’uomo reale, e non di quell’astratto fantoccio

a cui pensava il liberalismo individualistico, il fasci-

smo è per la libertà. E per la sola libertà che possa

essere una cosa seria, la libertà dello stato e dell’indi-

viduo nello stato. Giacché per il fascista, tutto è nello

28 R. Forges Davanzati, Fascismo e cultura, Firenze 1926, p. 39 e ss.

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stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno

ha valore, fuori dello stato. In tal senso il fascismo è

totalitario, e lo Stato fascista, sintesi e unità di ogni

valore, interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del

popolo».29

E’, dunque, forte la connotazione statalista del

termine totalitario nel seno del regime fascista.

Già in un corso di lezioni di filosofia del diritto svolto

all’Università di Pisa, Gentile aveva contrapposto alla so-

cietas inter homines una societas in interiore homine.

Quando la sua dottrina dello stato sarà elevata a dottrina

quasi ufficiale del regime fascista, nel primo Discorso di

religione, fa la sua apparizione lo stato in interiore homi-

ne, contrapposto allo stato esterno, esteriorizzato, del libe-

ralismo individualistico.

«Lo stato, come oggi dovremmo cominciare a sa-

per bene tutti, non è inter homines, ma in interiore

29 Voce Fascismo, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell’ Enci-clopedia Italiana, 1932, XIV, p. 847.

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homine. Non è quello che vediamo sopra di noi; ma

quello che realizziamo dentro di noi, con l’opera no-

stra, di tutti i giorni e di tutti gli istanti; non soltanto

entrando in rapporto con gli altri, ma anche semplice-

mente pensando, e creando col pensiero una realtà, un

movimento spirituale, che prima o poi influirà sul-

l’esterno, modificandolo».30

La stessa accezione positiva è nella rivendicazione

fatta più tardi da Pio IX, in polemica concorrenza con il

fascismo: «Così si dice un po’ dappertutto: tutto deve es-

sere dello Stato, ed ecco lo Stato totalitario, come lo si

chiama: nulla senza lo Stato, tutto allo Stato. Ma in ciò vi

è una falsità così evidente, che fa meraviglia che uomini,

del resto seri e dotati di talento, lo dicano e lo insegnino

alle folle. Infatti come lo Stato potrebbe essere veramente

totalitario, dare tutto all’individuo e chiedergli tutto; come

potrebbe dare tutto all’individuo per la sua perfezione in-

teriore - perché si tratta di cristiani - per la santificazione e

30 G. Gentile, Discorsi di religione, Firenze, Sansoni, 1957, p. 25.

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la glorificazione delle anime? Perciò quante cose sfuggo-

no alla possibilità dello Stato, nella vita presente e in vista

della vita futura, eterna! E in questo caso ci sarebbe una

grande usurpazione, perché se c’è un regime totalitario -

totalitario di fatto e di diritto - è il regime della Chiesa,

perché l’uomo appartiene totalmente alla Chiesa, deve

appartenerle, dato che l’uomo è creatura del buon Dio,

egli è il prezzo della redenzione divina, è il servitore di

Dio, destinato a vivere quaggiù, e con Dio in cielo. E il

rappresentante delle idee, dei pensieri e dei diritti di Dio

non è che la Chiesa. Allora la Chiesa ha veramente il dirit-

to e il dovere di reclamare la totalità del suo potere sugli

individui: ogni uomo, tutto intero, appartiene alla Chiesa,

perché tutto intero appartiene a Dio. Non c’è dubbio su

questo punto, per chi non voglia negare tutto».31

E’ la sindrome totalitaria.

31 Pio XI, L’unico regime totalitario di fatto e di diritto è la Chiesa,discorso del 18 settembre 1938 riportato in E. Rossi, Il “Sillabo” e dopo,Roma, Editori Riuniti, 1964, pp. 87-88. Anche in D. Settembrini, LaChiesa nella politica italiana (1944-1963), Roma, Rizzoli, Milano 1977,p. 112.

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Diversamente dall’opposizione antifascista, Antonio

Gramsci conduce una riflessione molto più pregnante sul-

la dimensione totalitaria della politica che mira ad «otte-

nere che i membri di un determinato partito trovino in

questo solo partito tutte le soddisfazioni che prima trova-

vano in una molteplicità di organizzazioni, cioè a rompere

tutti i fili che legano questi membri ad organismi culturali

estranei» e «a distruggere tutte le altre organizzazioni o a

incorporarle in un sistema di cui il partito sia il solo rego-

latore. Ciò avviene: 1) quando il partito dato è portatore di

una nuova cultura e si ha una fase progressiva; 2) quando

il partito dato vuole impedire che un’altra forza, portatrice

di una nuova cultura, diventi essa “totalitaria”; e si ha una

fase regressiva e reazionaria, oggettivamente, anche se la

reazione (come sempre avviene) non confessi se stessa e

cerchi di sembrare essa portatrice di una nuova cultura».32

Gramsci, in contrapposizione a Gentile, non ridu-

32 A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Edizione critica dell’Istituto Gram-sci, a cura di V. Gerretana, Torino, Einaudi, 1975, II, Quaderno 6 (VIII),par. 136, p. 800.

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ce lo Stato alla funzione di «dominio» e di «coercizio-

ne», a mero momento della forza, a «guardiano not-

turno» che impone, controlla e tutela l’ordine sociale,

altrimenti «Stato = società politica + società civile, cioè

egemonia corazzata di coercizione».33

2. Area tedesca

In Germania il sedimento concettuale di totalitari-

smo è nel dibattito politico sullo Stato totale, cioè sulla

nuova posizione assunta dallo Stato nei rapporti sociali.

E’ una direttiva alquanto diversa da quella italiana che

abbiamo preso come riferimento iniziale: manca, del resto

in Germania, negli anni venti, un soggetto politico forte

che punti ad una profonda trasformazione sociale secon-

do una feroce volontà di potenza.

Stato totale o Stato totalitario è sinonimo di Stato

autoritario, possibile categoria con cui definire la cri-

si della forma-Stato e il tracollo dei soggetti politici.

33 Ibidem.

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30

Classico è il riferimento al saggio di Ernst Jünger,

del 1930, Die totale Mobilmachung,34 dove sebbene si

escluda ogni stabile collegamento con i regimi ditta-

toriali già in fase di consolidamento, si individua la

caratteristica qualificante dello Stato novecentesco:

imporre ai cittadini una mobilitazione totale come se

fossero minuscoli ingranaggi di un meccanismo che

funziona incessantemente; i paesi diventano gigante-

sche «officine metallurgiche» e «ciascuna singola vita

si trasforma sempre più chiaramente nella vita di un

lavoratore», di un «milite del lavoro» completamente

trasformato in ogni sua cellula in Stato, in servizio dello

Stato.

In questa metamorfosi antropologica, Jünger in-

dividua la disponibilità alla mobilitazione come ca-

ratteristica dell’uomo contemporaneo, la cui vita sin-

34 E. Jünger, Die totale Mobilmachung, in Sämtliche Werke, VII, EssaysI: Betrachtungen zur Zeit, Klett-Cotta, Stuttgart 1980, p. 121 e ss. Cfr.M. Ghelardi, Alcune osservazioni su Carl Schmitt ed Ernst Jünger, inErnst Jünger, un convegno internazionale, a cura di P. Chiarini, Napoli,Shakespeare & Company, 1987.

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gola è compromessa non già da una volontà totalitaria

quanto dall’irrompere della tecnica. Essa «è realizzata

molto meno di quanto essa stessa si realizzi, e in guer-

ra e in pace è l’espressione della pretesa segreta e co-

attiva a cui questa vita nell’epoca delle masse e delle

macchine ci assoggetta». Tali intuizioni verranno pri-

vate di ogni alone metafisico da Carl Schmitt e ricom-

prese nell’analisi politica sulla crisi dello Stato libera-

le del XIX secolo.

Lo Stato diviene, per Schmitt, «l’auto-organizza-

zione della società», di fatto non più separabile da essa.

«Se la società stessa si organizza in Stato, Stato e

società devono essere fondamentalmente identici, co-

sicché tutti i problemi sociali ed economici diventano

immediatamente problemi statali e non si può più di-

stinguere fra ambiti statali-politici e sociali-non poli-

tici. Tutte le contrapposizioni finora correnti, basate

sul presupposto dello Stato neutrale, che appaiono in

seguito alla distinzione di Stato e società e sono sol-

tanto casi di applicazione e delimitazioni di questa di-

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stinzione, vengono ora a cessare (...). La società dive-

nuta Stato è uno Stato dell’economia, della cultura,

dell’assistenza, della beneficenza, della previdenza; lo

Stato divenuto autorganizzazione della società, quin-

di di fatto da essa non più separabile, abbraccia tutto il

sociale, cioè tutto quanto concerne la convivenza uma-

na. Non c’è più nessun settore rispetto al quale lo Sta-

to possa osservare un’incondizionata neutralità nel

senso del non-intervento (...). Nello Stato divenuto

autorganizzazione della società non c’è più nulla che

non sia almeno potenzialmente statale e politico».35

Si passa così dallo Stato neutrale del sec. XVIII

ad uno Stato potenzialmente totale che «ha assunto

una tale estensione da produrre non solo una crescita

35 C. Schmitt, Il custode della costituzione, a cura di A. Caracciolo,Milano, Giuffré, 1981, p. 123. Anche Id., La dittatura. Dalle originidell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, Roma-Bari, Laterza, 1975. Sul pensiero di Schmitt, vedi N. Bobbio, ThomasHobbes, Torino, Einaudi, 1989; C. Galli, Presentazione di C. Schmitt,Scritti su Thomas Hobbes, Milano, Giuffrè, 1986; G. Duso (a cura di),La politica oltre lo Stato: Carl Schmitt, Venezia, Arsenale, 1981

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quantitativa ma anche un cambiamento qualitativo, un

“mutamento strutturale”, e da influenzare non solo gli

affari propriamente finanziari ed economici, ma tutti

quanti i settori della vita pubblica ».36

E’ un riferimento polemico alla Repubblica di

Weimar, considerata un coacervo conflittuale di for-

mazioni partitiche incapaci di realizzare un autentica

unità politica.

In un saggio del 1933, Schmitt scrive che lo Stato

totale realizzato in Germania «è uno Stato che si intro-

mette indifferentemente in tutti gli ambiti, in tutte le

sfere dell’esistenza umana, che non riconosce più al-

cuna sfera libera dallo Stato perché in generale non

può distinguere più nulla. Esso è totale in un senso

puramente quantitativo, nel senso del mero volume,

non dell’intensità e dell’energia politica (...). Il suo

volume è cresciuto in modo mostruoso. Esso intervie-

ne in tutti i possibili affari e in tutti i campi dell’esi-

36 Ibidem, p. 125.

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stenza umana, non solo nell’economia (...) bensì an-

che nelle questioni culturali e sociali, che una volta si

consideravano volentieri faccende “puramente priva-

te” (...). Questa è naturalmente una totalità solo nel

senso del mero volume e il contrario della potenza o

della forza. L’odierno stato tedesco è totale a partire

dalla debolezza e dall’incapacità di resistenza, dalla

incapacità di opporsi all’assalto dei partiti e degli in-

teressi organizzati. Esso deve dare a ognuno, accon-

tentare ognuno, sovvenzionare ognuno ed essere nel-

lo stesso momento a favore dei più diversi interessi.

Come si è detto, la sua espansione è la conseguenza

non della sua forma ma della sua debolezza».37

Le riflessioni schmittiane vengono sviluppate, con

Hitler al potere, da teorici di regime come Rosenberg,

Goebbels, Forsthoff e, ovviamente, dallo stesso Hitler

37 C. Schmitt, Weiterentwicklungen des totalen Staat in Deutschland, in«Europäische Revue», IX, 1933, 2, ripubblicato in Id., Positionen undBegriffe im Kampf mit Weimar-Genf-Versailles 1923-1939, Hanseati-sche Verlagsanstalt, Hamburg-Wandsbek 1940.

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nei suoi discorsi del 1933, in cui sottolinea che la ter-

za fase della rivoluzione deve essere la creazione del-

lo Stato nella sua totalità secondo la concezione del

movimento nazionalsocialista: lo Stato come deposi-

tario dei suoi valori spirituali.

In un articolo pubblicato sul numero del 1° gennaio

1934 del «Völkischer Beobachter», scrive Artur Rosen-

berg: «La rivoluzione del 30 gennaio 1933 non continua

lo Stato assolutista sotto un nuovo nome, ma pone lo Stato

in un nuovo rapporto col popolo (...) diverso da quello che

era prevalso nel 1918 o nel 1871. Ciò che ha avuto luogo

nel 1933 (...) non è l’instaurazione della totalità dello Sta-

to bensì della totalità del movimento nazionalsocialista.

Lo Stato non è più un’entità giustapposta al popolo e al

movimento, non è più concepito come un apparato mec-

canico e uno strumento di dominio; lo Stato è lo strumen-

to della concezione nazionalsocialista della vita».38

In effetti la categoria totale/totalitario viene am-

38 A. Rosemberg, Totaler Staat?, in « Vökischer Beobachter», 1° gen-naio 1934.

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pliata ai nuovi soggetti dell’ideologia nazionalsociali-

sta, il movimento e il popolo, in una variante diversa

da quella fascista, perché nella dualità liberale Stato-

società si inserisce una terzo elemento, il partito, che

se permane nella concezione dello Stato a tre membra

tedesco, in quello fascista tende ad essere interamente

assorbito nello Stato unitario e totalitario.

Sul versante anti-nazista, Marcuse è tra i primi teorici

marxisti a rendersi conto che il termine totalitär rimanda

ad una nuova Weltanschauung politica che «è divenuta il

bacino di raccolta di tutte quelle correnti che, dalla guerra

mondiale in avanti, si sono rivolte contro la concezione

«liberistica» dello stato e della società»39 ed hanno accom-

pagnato l’ascesa del nazionalsocialismo.

39 H. Marcuse, Der Kampf gegen den Liberalismus in der totalitarenStaatsauffassung, in «Zeitschrift für Sozialforschung», 1934, 3, poi ri-pubblicato in Id., Kultur und Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt a. M.1965; trad. it. La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitariadello Stato, a cura di C. Ascheri, H. Ascheri Osterlow e F. Cerutti, in H.Marcuse, Cultura e società. Saggi di teoria critica 1933-1965, Torino,Einaudi, 1969.

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Lo Stato totalitario ed autoritario ha lo stesso back-

ground dello Stato liberale, anzi, ne è il suo perfezio-

namento, «fornisce l’organizzazione e la teoria della

società che corrispondono allo Stadio monopolistico

del capitalismo».40

Non a caso Marcuse parla di una forma di totalità

organica intesa non come somma dei suoi componen-

ti, ma «come unità unificatrice delle parti, in cui sol-

tanto ogni parte si realizza e si compie». In modo in-

quietante egli si pone l’interrogativo se non sia stata la

cultura intellettuale stessa a preparare la sua liquida-

zione. Totalitaria si può definire quella società indu-

striale che opera secondo le pressioni degli oligopoli,

secondo meccanismi manipolativi che comportano la

monodimensionalità. «Il termine totalitario, infatti, non

si applica soltanto ad una organizzazione politica ter-

roristica della società, ma anche ad una organizzazio-

ne economico-tecnica, non terroristica, che opera me-

40Ibidem, p. 19.

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diante la manipolazione dei bisogni da parte di inte-

ressi costituiti. Essa preclude per tal via l’emergere di

una opposizione efficace contro l’insieme del siste-

ma. Non soltanto una forma specifica di governo o di

dominio partitico producono il totalitarismo, ma pure

un sistema specifico di produzione e di distribuzione,

sistema che può essere benissimo compatibile con un

“pluralismo” di partiti, di giornali, di “poteri controbi-

lanciantisi”».41

Per Franz Neumann, che, secondo Collotti, rifiu-

ta l’assunzione della società nello Stato ed è attento,

piuttosto, alle modifiche del rapporto Stato-società, con

occhio particolare alla tecnica di manipolazione delle

masse, sotto l’apparenza totalitaria si celano ben quat-

tro gruppi fondamentali, il partito, l’esercito, la buro-

crazia e l’industria.

Nella Germania nazista, tali forme di potere, che

in una normale democrazia si avvalgono di rapporti

41 H. Marcuse, L’uomo ad una dimensione. L’ideologia della societàindustriale avanzata, Torino, Einaudi, 1968.

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regolati da norme vincolanti universalmente, operano

ciascuna in base al Führerprinzip, cioè all’obbedien-

za assoluta alle decisioni del capo, secondo un potere

legislativo, esecutivo e giudiziario autonomo e secon-

do quei compromessi raggiunti dalle quattro dirigen-

ze, la cui unificazione non è istituzionalizzata, quindi,

ma personalizzata.

Non c’è Stato, né in un’accezione ristretta, né in

quella dualità riconosciuta da Ernst Fraenkel,42 secon-

do cui esiste uno stato in cui si contrappongono lo ‘Sta-

to normativo’ e lo ‘Stato discrezionale’ , basato que-

st’ultimo su prerogative individuali e irrazionali.

«Direi che siamo di fronte a una forma di società

in cui i gruppi dominanti controllano il resto della po-

polazione in modo diretto, senza la mediazione di quel-

l’apparato coercitivo ancorché razionale fino ad oggi

conosciuto come lo stato. Questa nuova forma sociale

non è ancora pienamente realizzata, ma esistono ten-

42 E. Fraenkel, Il doppio Stato, Torino, Einaudi, 1983.

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denze che definiscono l’essenza stessa del regime».43

Le classi dominanti, fortemente antagoniste, sono

cementate dalle logiche del profitto, dal potere e so-

prattutto dalla paure delle masse.

Neumann, che è prudente nell’uso del termine to-

talitario, attribuisce un ruolo decisivo alla propagan-

da e al terrore come due aspetti di un unico processo:

«la trasformazione dell’uomo nella vittima passiva di

una forza onnipresente che lo seduce e lo terrorizza,

lo innalza e lo spedisce nei campi di concentramen-

to».44

Ecco la metafora del Beemoth: lo stato totalita-

rio, pur se respinto ideologicamente, è una forma di

non-Stato, «un caos, una situazione di illegalità e di

anarchia».45

43 F. Neumann, Beemoth.The structure and Practice of National Socia-lism, Oxford University Press, New York Inc., 1942; trad. it. di M. Bac-cianini, Beemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo. Milano,Feltrinelli, 1977.44 Ibidem, p. 209.45 Ibidem, p. 21.

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3. Area anglo-americana

La traduzione inglese, nel maggio del 1926, di Ita-

lia e fascismo di Luigi Sturzo, da parte di B. B. Carter,

consegnerà gli italianismi totalitario e totalitarismo

al vocabolario politico dei paesi anglofoni. Con una

valenza negativa, essi connoteranno un fenomeno

moderno e regressivo, plebiscitario e dittatoriale, inti-

mamente contraddittorio, nonostante che, nel 1928, la

rivista americana «Foreign Affairs» traduca uno scrit-

to di Giovanni Gentile, The Philosophical Basis of

Fascism, in cui, con toni altisonanti e apologetici, vie-

ne definita totalitaria la dottrina fascista.

Il «Times», nel 1929, accomuna in un fondo ano-

nimo con il termine totalitarianism fascismo e bolsce-

vismo, seguendo un percorso di riflessioni comparati-

vistico, ampliando l’orizzonte di riferimento al regi-

me monopartitico dell’Unione sovietica.

Nel 1933, Victor Serge, comunista dissidente, in

una lettera fatta pervenire clandestinamente in Fran-

cia all’opposizione di sinistra, prima che venisse de-

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portato, definisce come «totalitario», «castocratico» ed

«ebbro della propria potenza» il regime sovietico.

Pur non conducendo analisi di tipo comparativo

o socio-politologico, utilizza, tuttavia, lo stesso termi-

ne con cui si è autodefinito il fascismo italiano.

Lo stesso diranno altri menscevichi russi in esilio

a Parigi. Anche Trotzki, nel volume La rivoluzione

tradita, del 1938, stigmatizza come totalitaria la de-

generazione autoritaria in atto nell’Unione Sovietica

da parte di una classe che ha espropriato ed usurpato il

proletariato.

Le analisi comparativistiche americane tenderan-

no a mettere in evidenza un comune nucleo strutturale

tra i due sistemi politico-istituzionali, fascismo e co-

munismo, dando più attenzione alle loro affinità piut-

tosto che alle divergenze.

In uno dei saggi raccolti in Dictatorship in the

Modern World, pubblicato nel 1935 a cura di Guy Stan-

ton Ford dell’Università del Minnesota, Max Lerner

così intende il termine totalitarian : lo stato totalitario

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è uno stato caratterizzato dalla «organizzazione dei

gruppi economici che competono per la distribuzione

del reddito nazionale in associazioni o “corporazioni

supervisionate dallo Stato” e da un governo che tiene

rigidamente in pugno l’equilibrio del potere. Uno “Sta-

to forte” nel quale tutti i conflitti aperti in forma di

sciopero e serrata sono banditi e il movimento dei la-

voratori è nazionalizzato».

E’ evidente la mutuazione dell’esperienza ita-

liana.

«Comunismo e Fascismo sono sostanzialmente

simili perché entrambi significano l’esaltazione della

forza, che non sopporta alcuna opposizione e che su-

bordina l’individuo alle richieste dello Stato».46

Lo storico del pensiero politico George Sabine

considera, invece, il concetto totalitarismo come sino-

nimo di unitary e, nella voce State della International

46 «Christian Science Monitor», estate 1939, in A. Gleason, Totalitaria-nism, cit.

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Encyclopedia of the Social Sciences, lo applica a tutti

i sistemi monopartitici, Urss inclusa.47

Particolare diffusione - e confusione concettuale

- si ha durante le elezioni presidenziali del 1940. Sia

da parte democratica che da parte repubblicana si usa

il termine totalitarian in modo irresponsabile e poco

scrupoloso. In un infiammato articolo sull’American

Mercury, Herbert Hoover sottolinea dirette analogie -

economiche, politiche e psicologiche- tra lo sviluppo

dei regimi totalitari europei e la situazione degli Stati

Uniti sotto il New Deal. Anzi, giunge a definire Roo-

svelt e i suoi consiglieri come totalitarian liberals e lo

stesso New Deal come un incipiente totalitarismo: sem-

bra che lo confonda con socialistic.48

E di fatto, con la caduta dei regimi fascista e na-

zionalsocialista, con il deterioramento dei rapporti so-

vietico-americano, con la proclamazione della dottri-

47 G. H. Sabine, voce State, in Encyclopedia of the Social Sciences,New York, Macmillan, 1934, vol. XIV, p. 330.48A. Gleason, Totalitarianism, cit., p. 52 e ss.

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na Truman, «il termine giocava un ruolo essenziale

nel collegare l’antico alleato sovietico dell’America

con la Germania Nazista. Forse l’apice di questo peri-

odo si ebbe alla fine del 1950 quando il Mc Carran

International Security Act sbarrò ai «totalitarian» - vale

a dire ai comunisti - l’ingresso negli Stati Uniti. Du-

rante questi cinque anni, l’idea che gli Stati Uniti do-

vessero affrontare la sfida totalitaria tornò ad esercita-

re una influenza indiscussa come la chiave del futuro

americano ed ebbe la sua influenza più diretta sul pen-

siero politico e sulla politica estera americana».49

Siamo alle soglie della Guerra Fredda, quando «il

nemico totalitario sembrava a prima vista , trascende-

re le tradizionali distinzioni tra destra e sinistra, che

venivano senza dubbio operate negli anni ‘30. Molti

di coloro che allora lo utilizzavano lo facevano in con-

testi che suggerivano che al centro della discussione

erano solo il nazismo o il fascismo. La sua rinascenza

49 Ibidem, p. 61.

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nel 1945 servì a canalizzare il potente sentimento anti-

tedesco nel nascente sentimento anti-comunistico e allo

stesso tempo agevolò la formazione di nuove alleanze

internazionali».50

50 Ibidem, pp. 61-62. Segnaliamo anche gli studi, negli stessi anni, di J.L. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, Bologna, Il Mulino,1967; R. C. Tucker, Towards a Comparative Politics of Movement-Re-gimes, in «American Political Science Rewiew», vol. LV, 1961; K. A.Wittfogel, Il dispotismo orientale, Firenze, Vallecchi, 1968.

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CAPITOLO SECONDO

«IO PROCEDO DA FATTIE DA AVVENIMENTI»

L’INDAGINE CONTESTUALEDI HANNAH ARENDT

PER COMPRENDERE L’EVENTOCHE CARATTERIZZA IL XX SECOLO:

IL TOTALITARISMO.

Siamo contemporanei findove arriva la nostra comprensione.

Se vogliamo andare d’accordocon il mondo,

foss’ anche a costo di essere d’accordocon questo secolo,

dobbiamo partecipareal dialogo incessante con la sua essenza.

(H. Arendt).

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1. Sentieri di ricerca: anno di svolta 1933

1951. Hannah Arendt, ebrea tedesca emigrata ne-

gli Stati Uniti nel maggio 1941 dopo un periodo di

internamento nel campo francese di Gurs, pubblica

un’opera dalla grande carica emotiva, Le origini del

totalitarismo, che, nonostante le critiche, è considera-

ta subito un classico di filosofia politica.

E’ curioso sapere che il titolo provvisorio dell’ab-

bozzo, risalente alle prime settimane del 1945, era Gli

elementi della vergogna: antisemitismo, imperialismo

e razzismo; anzi, a volte, la Arendt più enfaticamente

lo chiamava I tre pilastri dell’inferno, pilastri, condi-

zioni sine quibus non, che sorreggono, ma non in sen-

so che determinano, la struttura totalitaria.

Forte, per lei, era l’accusa contro l’Europa del XIX

sec., perché quel secolo borghese aveva creato gli ele-

menti da cui si sarebbe cristallizzato il totalitarismo in

Germania e in Russia; forte, per lei, era l’incredulità

per quanto stava avvenendo storicamente e politica-

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mente, non tanto per la svolta del suo paese nel 1933,

quanto, soprattutto, per Auschwitz.

«Da principio non ci credevamo. Anche se mio

marito, e anch’io, avevamo sempre detto che da quel-

la banda potevamo aspettarci di tutto. Ma questo non

potevamo crederlo, perché era assolutamente contra-

rio a ogni bisogno o necessità militare. Mio marito un

tempo era uno storico militare, e di queste cose ne ca-

piva abbastanza. E mi disse: “Non lasciarti mettere in

testa queste storie! E’ una cosa che non possono fare.”

Ma un mezzo anno più tardi, quando ci furono le pro-

ve, dovemmo crederci. E fu davvero un brutto colpo.

Prima si diceva: ma sì, tutti hanno dei nemici, è una

cosa del tutto naturale, perché un popolo non dovreb-

be avere nemici? Ma questo era qualcosa d’altro. Era

davvero come se si fosse spalancato un abisso. Perché

si è sempre avuta l’idea che in qualche modo tutto il

resto possa tornare a posto, per esempio in politica tutto

si può aggiustare. Ma questo no. Questo non sarebbe

mai dovuto accadere. E non mi importa il numero del-

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le vittime. M’importa la produzione in massa dei ca-

daveri e il resto (...) e non c’è bisogno che mi dilunghi

oltre. Questo non doveva succedere. E’ successa una

cosa per la quale nessuno di noi era preparato».51

Passarono altri sei anni prima che si arrivasse al

titolo definitivo, Le origini del totalitarismo, che pure

sembrava ricordare uno studio di genetica, come Le

origini della specie di Darwin. Si trattava di un titolo

fuorviante, molto più di quello scelto dall’editore in-

glese, The Burden of Our Time (Il fardello del nostro

tempo), perché non riusciva a tradurre lo spirito del-

l’autrice: occorreva ‘riflettere’ il metodo di lavoro se-

guito, non si cercavano origini nel senso di cause, non

si cercavano giustificazioni, non si scriveva di storia.

L’alternativa metodologica allo zelo dello storico

51 Intervista concessa nel 1964 a Gunther Gaus, Was bleibt? Es bleibtdie Mutterspräche, in G. Gaus, Zur Person: Portrats in Frage und An-twort, Feder, München, 1964; in E. Young-Bruehl, Hannah Arendt 1906-1975: per amore del mondo, Torino, Bollati Boringhieri, 1990, p. 221;in H. Arendt, La lingua materna, a cura di Alessandro Dal Lago, Mila-no, Mimesis, 1993, p. 43.

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fu quella di «individuare gli elementi principali del

nazismo, risalire alle loro origini e scoprire i problemi

politici reali alla loro base (...). Scopo del libro non è

dare risposte, bensì preparare il terreno».52

Per la Arendt gli eventi eccedono sempre le loro

cause, non c’è deduzione, non c’è necessità ma solo

caotiche verità di fatto il cui senso aspetta di essere

dischiuso come in un remake narrativo.

«Gli elementi del totalitarismo costituiscono le sue

origini, purché per “origini” non si intenda “cause”.

La causalità, cioè il fattore di determinazione di un

processo di eventi in cui un evento sempre ne causa

un altro e da esso può essere spiegato, è probabilmen-

te una categoria totalmente estranea e aberrante nel

regno delle scienze storiche e politiche. Probabilmen-

te gli elementi in se stessi non causano mai alcunché.

Essi divengono l’origine di un evento se e quando si

cristallizzano in forme fisse e definite. Allora, e solo

52 E. Young-Bruehl, Hannah Arendt 1906-1975: per amore del mondo,op. cit., p. 239.

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allora, sarà possibile seguire all’indietro la loro storia.

L’evento illumina il suo passato ma non può essere

dedotto da esso».53

Per la Arendt la parola origine si ricollega all’idea di

quel principio casuale, contingente, che getta luce sul-

l’evento che avviene ed esplicita la realtà su cui si fonda; a

posteriori evoca quegli elementi della realtà che hanno

acquisito pieno significato nella nuova esperienza, espe-

rienza che resta possibile ed imprevista ai «problemi reali

ed irrisolti» che erano dietro a quei «precedenti».

«Dietro l’antisemitismo, la questione ebraica, dietro

il decadimento dello stato nazionale, il problema irrisolto

di una nuova concezione del genere umano, dietro l’espan-

sionismo fine a se stesso, il problema irrisolto di riorga-

nizzare un mondo che diventa sempre più piccolo».54

Bisogna, quindi, che si passi non già dalle origi-

53 H. Arendt, The Nature of totalitarianism, conferenza inedita (1954),Congresso; in E. Young-Bruehl, Hannah Arendt, cit.54 Lettera a Mary Underwood, in E. Young-Bruehl, Hannah Arendt, cit.,p. 240.

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ni, questo oscuro materiale destinato a cristallizzarsi

come un possibile esito, all’evento, bensì dall’evento

verso quegli elementi del passato in cui possono bale-

nare i tratti della cristallizzazione finale. In questo sen-

so l’analisi più che storica diviene tipologica e socio-

logica.

Il totalitarismo, dunque, è l’evento e la sua origi-

nalità terrificante consiste in atti che rompono con tut-

ta la nostra tradizione, polverizzando letteralmente le

nostre categorie politiche e i nostri criteri di giudizio

morale. Obsoleti sono anche gli strumenti concettuali

della nostra tradizione filosofica.

A Voegelin, che nella recensione a Le origini del

totalitarismo la accusava di perdere i contatti con la

trascendenza, con la dimensione spirituale e ideologi-

ca per cui «le origini del totalitarismo non andrebbero

viste principalmente nel destino dello stato nazionale

e nei seguenti cambiamenti sociali ed economici ini-

ziati nel XVIII secolo (come fa la Arendt), ma piutto-

sto nell’ascesa del settarismo immanentista dell’Alto

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Medioevo»,55 senza indugi, la Arendt replica: «Ciò che

è senza precedenti nel totalitarismo non è primaria-

mente il suo contenuto ideologico, ma l’evento stesso

della dominazione totalitaria. Ciò si può chiaramente

intendere se ammettiamo che le conseguenze delle sue

politiche hanno fatto esplodere le categorie tradizio-

nali del pensiero politico (il dominio totalitario è di-

verso da tutte le forme di tirannia e di dispotismo che

conosciamo) e i criteri del giudizio morale (i crimini

totalitari sono descritti in modo del tutto inadeguato

come “assassinii” e i crimini totalitari possono diffi-

cilmente essere puniti come “assassinii”). Il signor Vo-

egelin sembra pensare che il totalitarismo sia soltanto

l’altra faccia del liberalismo, del positivismo e del prag-

matismo. Ma si concordi o no col liberalismo (io pos-

so dire qui con assoluta certezza di non essere né una

55 Pubblicata, insieme alla risposta della Arendt e ad una sua conclusio-ne, in «The Review of Politics», XV, n. 1, 1953; trad. it. in G. F. Lami (acura di) Eric Voegelin. Un interprete del totalitarismo, Roma, 1978. Cfr.Filosofia politica e pratica del pensiero. E. Vögelin, L. Strauss e H.Arendt, a cura di G. Duso, Milano, 1988.

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liberale, né una positivista né una pragmatista), il punto

è che i liberali non sono chiaramente dei totalitari.

Spero di non insistere indebitamente su questo punto.

Per me è importante perché credo che ciò che separa

la mia impostazione da quella del signor Voegelin è

che io procedo da fatti e avvenimenti invece che da

affinità ed influenze spirituali.

Ciò è forse un po’ difficile da scorgere perché io

sono naturalmente molto interessata alle implicazio-

ni e ai cambiamenti filosofici nell’ auto-interpreta-

zione spirituale. Ma questo certo non significa che

io abbia descritto “una rivelazione graduale dell’es-

senza del totalitarismo dalle sue forme incipienti nel

XVIII secolo a quelle pienamente sviluppate”, per-

ché questa essenza non esiste prima di essere venuta

alla luce.

Perciò parlo di “elementi” rintracciabili nel XVIII

secolo, altri forse ancora più indietro (benché io dubi-

terei della teoria personale di Voegelin, secondo cui

l’ascesa del settarismo immanentista del Medioevo si

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sarebbe conclusa alla fine del totalitarismo)».56

Pensare il totalitarismo come l’altra faccia del li-

beralismo, del positivismo, del pragmatismo, lo prive-

rebbe di ogni carattere di novità, di ogni significato

fruttuoso per l’analisi del mondo moderno.

La portata epocale del totalitarismo non è nel suo

contenuto ideologico, ma nella sua eventualità, nella

fattualità di un dominio realizzato con violenza e ter-

rore attraverso la tragicità dei campi di sterminio. Que-

sto è il fatto che interessa la Arendt.

Questo procedimento ermeneutico spiega anche

l’assimilazione del regime nazista con quello stalinia-

no nella tipologia del totalitarismo, in quanto, pur se

permeati da ideologie differenti, l’una basata sul domi-

nio della razza, l’altra sul principio della lotta di classe,

ambedue ricorrono al «culto della personalità», al ter-

rore istituzionalizzato, ai campi di concentramento e

all’abolizione delle libertà civili.

56 Ibidem.

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E’ vero; solo marginalmente la Arendt si occupa

dello stalinismo.

L’opera doveva essere completata da uno studio

adeguato sulle matrici totalitarie dell’ideologia marxi-

sta e le differenze tra marxismo e nazismo.

Il tentativo fu intrapreso, alcuni anni più tardi, a

seguito di una conferenza nel 195357 in cui si sottoli-

neavano le trasformazioni che il marxismo aveva su-

bito prima nell’interpretazione di Lenin poi di Stalin.

Ma The marxist elements of totalitarianism non fu mai

completato, rimase una disamina critica della tradizione

filosofica occidentale e un confronto con Marx, il cui

pensiero pure aveva avuto rilievo nella formazione

della Arendt.58

57 Conferenza inedita del 1953, Karl Marx and tradition of western po-litical thought, presso la Library of Congress, Washington, ManuscriptsDivision, « The Papers of H. Arendt», box 64; trad.it.

Karl Marx e la

tradizione del pensiero occidentale, (scritto nel 1953), a cura di S. Forti,in «MicroMega», n.5, pp.35-108.58 Cfr. S. Forti, Vita della mente e tempo della polis, Milano, FrancoAn-geli, 1996.

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Nella prefazione del giugno 1966 a Le origini del

totalitarismo, la Arendt fa riferimento al discorso di

Kruscev, nel 1957, dinanzi al XX Congresso del parti-

to, atto con cui si è aperto il processo di detotalitariz-

zazione dell’ ex-Unione Sovietica.

Secondo la Arendt, il più chiaro segno della detotali-

tarizzazione sovietica non è stato tanto la liquidazione di

buona parte del sistema poliziesco o la chiusura della mag-

gior parte dei campi di concentramento, oppure il fatto

che non sono state più promosse spettacolari epurazioni

contro i nemici del partito, ora destituiti e allontanati da

Mosca, quanto la ripresa feconda delle attività culturali,

arte e letteratura in particolare.

«Quando Stalin morì, i cassetti degli scrittori e degli

artisti erano vuoti, oggi esiste tutta una letteratura che circo-

la in manoscritti, e ogni via della pittura moderna viene

tentata negli ateliers dei pittori e le loro opere vengono co-

nosciute anche quando non sono esposte a una mostra».59

59 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., Prefazione, p. XLV.

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Da un sistema totalitario si è passati ad una dittatu-

ra a partito unico.

Utilizzando il termine totalitarismo con parsimo-

nia e prudenza, la Arendt si chiede, tuttavia, se esso

sia applicabile60 anche alla Cina comunista, di cui al-

l’epoca non si conosceva niente a causa dell’efficace

isolamento dietro cui il paese si era trincerato. Rispet-

to all’esempio tedesco e russo le differenze sono note-

voli: dopo il periodo iniziale della dittatura contrasse-

gnato dallo spargimento di sangue e da una decima-

zione della popolazione, dopo la scomparsa dell’op-

posizione, non si è verificato l’inasprirsi del terrore e

del massacro, l’irrigidimento della burocrazia al pote-

re, il sorgere di una categoria di ‘nemici oggettivi’,

60 Per la Arendt il concetto «totalitarismo» non si applica neanche alfascismo italiano. Mussolini aveva creato uno stato corporativista, piùche totalitario, in quanto aveva tentato di ‘statalizzare’ la società e lostesso partito non si pose al di sopra dello stato ma si identificò con lamassima autorità nazionale. Mussolini fu un dittatore, fu «il vero usur-patore nel senso della dottrina politica classica», in H. Arendt, Le origi-ni del totalitarismo, cit., p. 360 e ss. Sul fascismo italiano vedi A. Aqua-rone, L’organizzazione dello stato totalitario, Einaudi, 1965.

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cioè il permanere di quei caratteri che per la Arendt

tipizzano il totalitarismo.

Indubbiamente riconosce una pretesa totalitaria nel

programma ideologico del partito comunista cinese,

ancor più manifeste in politica estera con l’inasprirsi

dei rapporti cino-sovietici e con l’accusa alla Russia,

che pure aveva sostenuto Pechino, di ‘deviazione re-

visionista’ dopo la morte di Stalin e l’avvio di una

politica di distensione.

Pur denunciando la scarsità delle fonti, assumen-

do una posizione piuttosto ambigua, la Arendt accen-

na a quella forma di terrore e di controllo sociale che

era «il modellamento e rimodellamento delle

menti»,61 la pervadente ‘riforma della mente umana’

che è il corrispettivo cinese della creazione dell’uomo

nuovo tipico dello spirito totalitario.

Un totalitarismo fondato sul consenso, direbbero

oggi i critici.

61H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., Prefazione, p. XXXI.

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Una osservazione, comunque, va fatta a proposito de

Le origini del totalitarismo: c’è uno squilibrio tra le prime

due parti, più storiche, più politiche, e la terza parte che

punta sull’essenza del totalitarismo, sull’individuazione

della sua tipicità. Potremmo dire che dallo «stare ai fatti»

si passa meglio e volentieri ad un’analisi concettuale raffi-

nata, ad una sintesi tipologica, in particolare nel capitolo

dal titolo Ideologia e terrore.

La domanda che ella si pone, in effetti, e che segna la

portata del totalitarismo come evento -come sia potuto

succedere?- filtra la domanda sull’eclissi del politico.

Andrè Enégren scrive: «In un certo senso il tota-

litarismo disegna in cavo tutto ciò che conferisce ri-

lievo al politico arendtiano: alla chiusura radicale di

un dominio senza incrinature, la Arendt oppone uno

schema normativo senza governanti né governati al

cui interno viene riconosciuto il diritto di ciascuno ad

agire, giudicare e decidere in comune; al flusso totali-

tario che sradica e livella, lei risponde con una rifles-

sione incentrata sulla stabilità della legge che stabili-

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sce il potere, sull’autorità come memoria capace di fis-

sare la politica nella permanenza di un mondo diffe-

renziato. Mentre il totalitarismo si affida a una logica

inflessibile sempre pronta a riassorbire gli eventi in

un ordine superiore, essa dà la fiducia al visibile, al-

l’opinione e al giudizio che, solo, consente di tenere

testa alla dissoluzione della tradizione».62

La Arendt legge il fenomeno totalitario come assoluta

eccezionalità, in qualche modo reso possibile, ma non ne-

cessario, da tutti i rovesciamenti a catena, natura e società,

politica e storia, che insieme oppongono e legano la moder-

nità alla tradizione classica. Il totalitarismo nasce con la

modernità, ma non come qualcosa di originariamente in-

scritto nel suo patrimonio genetico, come esito predetermi-

nato; piuttosto è il prodotto di una serie di opzioni soggetti-

ve che convergono su di una contrazione ed uno schiaccia-

mento del ‘politico’ su altre modalità del «fare»: il sistema

totalitario è estraneo alla vita politica autentica.

62 A. Enegrén, Il pensiero politico di Hannah Arendt, Roma, EdizioniLavoro, 1987.

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2. L’ antisemitismo politico e la questione ebraica.

Perché iniziare un’opera politica con un’analisi

sull’antisemitismo, le sue origini, le sue sfaccettature,

i suoi esiti, catastrofici, per un popolo, quello ebreo,

che mai si è occupato di politica e che storicamente è

stato considerato ‘apolide’?

La Arendt considera l’antisemitismo come l’ideo-

logia laica del sec. XIX e l’originale prospettiva con

cui tale fenomeno è analizzato le permette di mettere

alla prova ciò che va via via elaborando intorno alla

autonomia e al primato dell’agire politico. Il popolo

ebraico, caso storico concreto, diviene simbolo del-

l’alienazione dell’uomo nel mondo moderno perché

l’esperienza dell’esilio lo ha privato di uno spazio pub-

blico per l’azione. E’ popolo senza governo, senza

paese, senza lingua.

La condizione ebraica porta a riflettere su quel-

l’irriducibile unicità che è inerente alla condizione della

nascita, unicità intesa come tradizione culturale, ap-

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partenenza etnica, fede religiosa, che deve poi con-

durre a trascendere la propria singolarità nel conse-

guimento di fini condivisi.

E’ sottesa una ricerca filosofica che sarà presente

in modo più evidente nelle opere della maturità, vale a

dire l’individuazione di uno spazio politico che sia

comune a tutti gli uomini, in cui le aspirazioni ebrai-

che all’emancipazione possano integrarsi con l’aspi-

razione di tutti i popoli all’autodeterminazione. Allo-

ra l’ebraismo diviene simbolo della ribellione univer-

sale nei confronti dell’oppressione.

Nella biografia di Rahel Varnhagen,63 i cui primi

capitoli vennero scritti nel 1933, anno di fuga della

63 H. Arendt, Rahel Varnhagen. The Life of a Jeweness, East and WestLibrary (for the Leo Baeck Institut of a Jews from Germany), London1957; trad. it., Rahel Varnhagen. Storia di un’ebrea, a cura di L. RitterSantini, Milano, Il Saggiatore, 1988. Il libro fu pubblicato nel 1957 ininglese su iniziativa del Leo Baeck Institut; nel 1959 uscì in edizionetedesca presso Piper. Il manoscritto, fatta eccezione per gli ultimi duecapitoli, era già pronto nel 1933 quando la Arendt dovette lasciare laGermania. Nel 1938 venne completato per l’insistenza di HeinrichBlücher e Walter Benjamin.

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Arendt dalla Germania nazista, mentre gli ultimi tre

verso il 1938, quando la Arendt si era rifugiata in Fran-

cia, è presente un’acuta critica all’assimilazione per la

difesa della tradizione e dell’autonomia di ciascun

popolo, e non solo quello ebraico, sottolineando che

in un mondo civile l’uguaglianza giuridica e politica

dei gruppi non può che essere indiscutibile.

La Arendt rifiuta l’assimilazione come possibili-

tà di integrazione degli ebrei nel corpo della nazione.

Essa ha indotto alla perdita della propria identità, dei

valori religiosi, della tradizione.

In Le origini del totalitarismo, mostra come l’an-

tisemitismo, che non è un nazionalismo latente, per-

ché la sua espansione coincide con la crisi dello Stato-

nazione, sia stato il prodotto di un progetto storico e

sociale determinato a cui ha contribuito il generale

declino delle comunità ebraiche dell’Europa centro-

occidentale ed anche quella perenne indecisione degli

ebrei di essere un «elemento non nazionale in un si-

stema di stati nazionali», di essere un parvenu piutto-

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sto che un libero pariah, di non trovare un equilibrio

tra vita pubblica ed esperienza interiore.

Già alla fine del Settecento64 si distingueva una mas-

sa di paria e piccole comunità ricche e privilegiate.

Paria, secondo la Arendt, sono quell’insieme di

gente che vive un’esclusione politica e sociale, senza

per questo essere degradata sul piano morale come,

invece, aveva sostenuto Nietzsche in Genealogia del-

la morale, dove paria è l’individuo formato alla mora-

le del risentimento e della ipocrisia. L’accettazione

64 Sulla nascita della «questione ebraica» in epoca illuministica, cfr. H.Arendt, Aufklärung und Judenfrage, trad. it. Illuminismo e questione ebrai-ca, in «Il Mulino», XXXV, 1986, n. 3, pp. 421-437. Cfr. A. Dal Lago, Intro-duzione ad H. Arendt, La vita della mente, Bologna, Il Mulino, 1987. Sullosviluppo di una filosofia ebraica «che non sarebbe stata tale perché dovutaalla creatività di pensatori ebrei, ma perchè sarebbe stata rivolta a costruire isuoi edifici concettuali sulle fondamenta della tradizione ebraica e non avreb-be nascosto la sua intenzione di servirsi dei suoi concetti per ridefinire ilineamenti dell’identità ebraica» vedi G. Lissa, Filosofia ebraica oggi, in«Rivista di storia della filosofia», n. 4, 1994. Lissa, a partire dall’analisidella situazione ebraica fatta dalla Arendt in Le origini del totalitarismo,mette in evidenza come esista un rapporto imprescindibile tra la tradizioneebraica e la sua potenza dominante, la religione, rapporto su cui si gioca ildestino stesso dell’identità ebraica.

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dell’ebreo era sul piano della ‘eccezione’, o per ric-

chezza o per sapere, come persona ‘particolare’, giac-

ché come popolo sarebbe stato disprezzato.

L’ebreo di corte, ad esempio, era il finanziatore

della corona, deteneva privilegi un tempo prerogativa

solo della nobiltà. Poteva portare armi, scegliere la

residenza, viaggiare e spostarsi secondo il proprio pia-

cere, ovunque era protetto dalle autorità locali. Poteva

contrarre matrimonio con la nobiltà, sebbene le eredi-

tiere ebree con la loro dote non facevano che rimpin-

guare il patrimonio dei nobili rampolli. Questo ruolo

super partes, mediatore senza rappresentanza politi-

ca, cominciò a vacillare quando, dopo il 1791, si ot-

tenne la parità giuridica. Anzi, quanto più fu ricono-

sciuta la parità giuridica tanto più aumentò la discri-

minazione sociale.

L’aristocrazia fu il primo gruppo sociale a diven-

tare antisemita, considerando gli ebrei il prototipo del

borghese egualitario e moderno. Ancora più radicale

fu la posizione della borghesia che identificava l’ebreo

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con il banchiere, parassita della miseria e delle soffe-

renze, in stretto rapporto con il potere centrale. La

borghesia, inoltre, detestava la capacità degli ebrei di

essere mediatori di pace e di intervenire di conseguenza

nelle relazioni di politica internazionale. Il tedesco W.

Rathenau, che aveva cercato di ottenere condizioni di

pace, dopo la prima guerra mondiale, piuttosto favo-

revoli per la Germania grazie al riconoscimento inter-

nazionale delle sue capacità di statista, venne ucciso

da un antisemita. Agli occhi dei borghesi antisemiti

sembrava che gli ebrei governassero i troni di nasco-

sto e che fossero i registi di una trama cospiratoria in-

ternazionale.

Tale teoria che era stata espressa nel testo La congiu-

ra dei saggi di Sion, un falso a cui avevano creduto in

molti e che venne usato da Hitler come ulteriore convali-

da delle sue tesi sulla razza. Ogni volta che un gruppo

nazionale o una classe entrava in conflitto con il potere

centrale dello stato, invece di attaccare direttamente que-

sto, aggrediva gli ebrei. Sfiorando il sociologico, la Aren-

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dt descrive l’antisemitismo del liberale austriaco Schoe-

nerer, di Lueger, capo del partito cristiano-sociale, e del

cappellano tedesco Stoecker, per indicare non solo che in

Austria e in Germania si stava diffondendo l’antisemiti-

smo più forte e virulento ma come in esso si confondesse

nei conflitti di nazionalità sia da parte dei democratici che

da parte dei liberali.

In effetti, la spinta antisemita aveva travolto an-

che partiti altrove più vigilanti, fatta eccezione dei

partiti operai e di sinistra, che, presi dalla lotta di clas-

se contro la borghesia, si disinteressavano di politica

estera.

La Arendt sottolinea che, oltre a cause strettamente

politico-economiche, sociologiche e ideologiche, al-

l’antisemitismo contribuiva anche quella considerazio-

ne da parte degli ebrei di essere il popolo eletto, ipote-

si che si fondava sull’idea che il Messia sarebbe venu-

to per la salvezza di tutti i popoli. Tale tesi, tuttavia,

nel corso storico, aveva perso ogni carattere universa-

listico.

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Con la formazione degli stati nazionali nel XVI

secolo, gli ebrei si erano definiti come gruppo con un

forte senso di appartenenza e del privilegio. Ed in que-

sto è consistito l’errore politico: 1) l’essersi conside-

rati popolo superiore, non riuscendo, tuttavia, a coesi-

stere con la propria identità, perché al di là di uno spa-

ruto gruppo di privilegiati il resto era una massa di

paria, 2) l’ essersi disinteressati della politica, soprat-

tutto della rivendicazione dei propri diritti, creando un

potere economico sul vuoto politico.

La Arendt fa suo lo schema analitico di Tocqueville,

che nell’opera L’Ancien Régime et la Révolution descrive

la crisi della nobiltà alla fine dell’antico regime.

I nobili furono attaccati ed odiati quando persero

le loro funzioni, soprattutto quelle militari, erano ric-

chi ma senza alcuna funzione sociale. Lo stesso era

per gli ebrei: essi attiravano odio in particolare per il

loro disinteresse politico.

L’assenza di una rappresentanza di potere ricono-

sciuta in seno allo stato, l’impotenza e la conseguente

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‘innocenza politica’ aveva impedito agli ebrei di capi-

re come l’ostilità sociale sarebbe presto confluita in

tragedia.

Non aveva alcuna validità la tesi del capro espia-

torio né l’antigiudaismo: il problema era essenzialmen-

te politico.

La differenza andava ‘protetta’; assumere la do-

lorosa identità del paria era l’unica strada per confer-

mare la propria presenza al mondo. E il politico anda-

va distinto dal sociale.

Il sociale avanza un’ipotesi di uniformità perché

spinto da pulsioni privatistiche, concepisce il diverso

come il nemico. L’uguaglianza politica non è l’ugua-

glianza sociale, né si può dar luogo ad un suo perver-

timento.

«Le moderne società di massa offrono innumere-

voli esempi della facilità con cui si scambia l’egua-

glianza per una qualità innata di ciascun individuo,

che viene definito “normale” quando è come gli altri e

“anormale” quando se ne differenzia. Questo perver-

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timento di un concetto politico è particolarmente peri-

coloso quando la società lascia alle differenze uno spa-

zio relativamente esiguo, dando così luogo ad una

quantità di conflitti».65

Analizzando il caso Dreyfus, ad esempio, la Aren-

dt mette in rilievo come dal sociale si fosse presto pas-

sati alla strumentazione politica. Contro l’ebreo spio-

ne e traditore non solo si erano mobilitati i membri

dell’esercito che rifiutavano un ebreo nello stato mag-

giore, ma anche il clero, che mal tollerava la diversa

confessione tra gli ufficiali.

Sul piano politico nacque il conflitto: essere anti-

dreyfusardi significava essere antidemocratici e anti-

repubblicani, contrari all’uguaglianza giuridica e po-

litica che prima la rivoluzione francese poi la Terza

Repubblica avevano consacrato. Gli ebrei, che cerca-

vano di far prevalere la tesi dell’errore giudiziario,

continuavano a non capire il terreno di scontro.

65 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit.

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In Francia e negli altri stati europei, per lungo tem-

po si discusse del caso Dreyfus: da una parte erano

schierate le forze progressiste, dall’altra quelle con-

servatrici di estrema destra, antisemite e antidemocra-

tiche. La xenofobia, di cui pure si alimentava l’antise-

mitismo francese, resto qualcosa di inoffensivo. Solo

Céline, che nel 1937 aveva pubblicato Bagattelles pour

un massacre e nel 1938 L’école des cadavres, raggiun-

se la paranoia incitando al massacro degli ebrei rite-

nuti diabolicamente responsabili di ogni male. Comun-

que, la conseguenza più importante dell’affare Dreyfus

fu la nascita del movimento sionista ad opera del gior-

nalista austriaco T. Herzl, «l’unica risposta politica che

gli ebrei seppero trovare al movimento antisemitico e,

insieme, l’unica loro ideologia che prese sul serio quel-

l’ostilità che li avrebbe spinti al centro degli avveni-

menti mondiali».66

66 Ibidem, p. 168.

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3. La nuova ideologia degli Stati-Nazione europei

in crisi: l’imperialismo come preludio politico

ai movimenti totalitari.

La questione degli apolidi e il valore dei diritti umani.

Le fila dell’opera sono tenute insieme da un uni-

co tema centrale: la storia della dissoluzione dello Sta-

to-nazione in aggregati di uomini «superflui».

Antisemitismo e imperialismo, risultato di prati-

che non democratiche, pur se delimitati in modo esclu-

sivo, sono perciò intimamente connessi.

Riassunto nello slogan «l’espansione per l’espan-

sione», l’imperialismo è analizzato come una nuova

forma di colonialismo, ben diverso dal precedente

(1500-1700) che si limitava a trarre il massimo delle

ricchezze dalle colonie. Esso fu essenzialmente una

politica di potenza di matrice economica, che diede

luogo ad un processo distruttivo delle società nazio-

nali inarrestabile, preludio dei fenomeni totalitari del

XX secolo.

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La Arendt associa al fenomeno ragioni di tipo eco-

nomico, sostenendo che era stata la crisi economica

degli anni ‘60 e ‘70 a spingere gli uomini di affari ad

occuparsi di politica internazionale. Si era verificata

«una sovrapproduzione di capitale che, non potendo

più trovare un investimento produttivo entro i confini

nazionali, costituiva una massa di denaro “superfluo”.

Per la prima volta gli strumenti del potere politico,

anziché aprire la via, seguirono supinamente il denaro

esportato».67

Gli uomini dell’imperialismo erano persuasi che

politica ed economia non erano disgiunte, anzi aveva-

no posto la seconda al servizio della prima. Perché ci

fosse espansione economica continua occorreva il so-

stegno del potere politico. E la politica fu essenzial-

mente politica economica.

E’ in questo, secondo la Arendt, che si realizza

l’emancipazione politica della borghesia, nel senso che

67Ibidem, p. 188.

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se fino ad allora l’interesse prioritario era la conquista

economica senza aspirare al dominio politico, adesso

la borghesia tentava di usare lo stato e i suoi strumenti

di violenza per l’espansione dei suoi interessi econo-

mici, indebolendo così la posizione dei finanzieri in

genere, in particolare quelli ebrei.

La Arendt, tuttavia, non tiene conto che già al-

l’epoca del mercantilismo la classe borghese si era in-

teressata della politica economica degli stati. Ciò che

si ebbe nell’Ottocento, semmai, fu l’opinione che ef-

fettivamente il potere politico potesse proteggere gli

interessi economici di uno stato, in modo particolare

nelle colonie.

La definizione che la Arendt tenta di dare dell’im-

perialismo si rifà alle tesi della sinistra marxista, Rosa

Luxemburg in particolare, la quale, secondo la teoria

del sottoconsumo, riteneva che, per essere assorbita la

produzione corrente in modo integrale, poiché la clas-

se lavoratrice non poteva avere un alto potere di ac-

quisto per le sue miserevoli condizioni, occorreva una

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«terza persona», un compratore esterno al sistema ca-

pitalistico. A fianco, cioè, del mondo capitalistico, era

necessaria l’esistenza di un mondo non capitalistico

perché il sistema del primo non si inceppasse.68

E’ la logica degli sviluppi ineguali di cui aveva

parlato anche Lenin in modo più complesso e critico.

Un contributo sicuramente decisivo, tuttavia, per

la Arendt, sono state le analisi del liberaldemocratico

Hobson e del socialdemocratico Hilferding: quest’ul-

timo, con il quale converge anche Kautsky, considera-

va il fenomeno come una politica del capitalismo.

Nel segno di una apparente razionalità, l’imperia-

lismo aveva promosso l’espansione geografica secon-

do una crescita economica che era l’immediato rifles-

so dell’accumulazione capitalista illimitata.

«Annetterei i pianeti, se potessi» era solito dire

Cecil Rhodes, quasi a suggello della nuova politica

mondiale.

68 R. Luxemburg, Die Akkumulation des Kapitals, Berlin, Singer, 1913;trad. it. L’accumulazione del capitale, Milano, Feltrinelli, 1976.

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Espansione acquisiva il significato di continuo

ampliamento della produzione industriale e delle tran-

sazioni economiche.69

Si trattava di un concetto non politico, tanto è

vero che l’obiettivo degli imperialisti era quello di

ampliare la sfera di potere, potere economico in pri-

mo luogo, senza creare un corrispondente corpo po-

litico.

Era il caso, ad esempio, dei francesi che trattaro-

no l’Algeria come una provincia del territorio metro-

politano senza imporre le loro leggi alla popolazione

araba, creando un ibrido per cui il territorio era nomi-

nalmente francese, giuridicamente parte integrante

della Francia, uno dei suoi dipartimenti, ma gli abitan-

ti non erano cittadini francesi, anzi, vennero conside-

rati quella «force noire» che doveva proteggere la Fran-

cia, o, per dirla con il Poincaré, era «carne da canno-

ne, ottenuta con metodi di produzione di massa».70

69 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 175.70 Ibidem, p. 180.

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Anche l’Inghilterra, per il fatto di essere uno stato

nazionale, non creò mai un «Commonwealth of Na-

tions» nel senso dell’assimilazione e incorporazione

dei popoli sottomessi, ma «una nazione sparsa nelle

varie parti del mondo».71

L’esempio irlandese decretò il fallimento della

politica estera inglese perché con il riconoscimento

dello status di dominion si era ravvivato lo spirito di

resistenza nazionale dell’Irlanda.

L’imperialismo, quindi, creò una pericolosa con-

traddizione tra la struttura dello stato nazionale e la

politica di conquista, perché «dovunque si è presenta-

to nella veste di conquistatore, ha infatti destato la

coscienza nazionale e la volontà d’indipendenza del

popolo vinto, mandando a monte il tentativo di co-

struzione di un impero duraturo».72

Diversamente accadde nell’antica Roma, per la

quale la Arendt esprime la sua ammirazione: tipica-

71 Ibidem, p. 178.72 Ibidem, p. 177.

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mente romana era quella capacità di esportare il dirit-

to, collante tra popoli diversi ma egualmente ricono-

scentisi come cittadini romani, nonché perno della cre-

azione di un impero stabile e duraturo.

L’imposizione di una legge comune permetteva

l’uguaglianza giuridica e il diritto alla cittadinanza di

popoli eterogenei, favorendo l’integrazione, laddove

lo stato nazionale, che si basava sul consenso attivo di

una popolazione omogenea, in caso di conquista, im-

poneva il consenso cercando di assimilare, degeneran-

do talora molto velocemente in tirannide.

Gli imperialisti non avevano, quindi, esportato la

legge, bensì il dominio.

La prima conseguenza fu l’esportazione del rule

by force, il governo mediante la forza, che sostituì la

fondazione del corpo politico.

«Violenza, la polizia e le forze armate, che nel-

l’ambito della nazione erano soggette al controllo del-

le autorità civili, si arrogarono le prerogative di rap-

presentanti nazionali nelle colonie, dove erano state

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dislocate come custodi del capitale investito. Qui in

regioni arretrate senza industrie e organizzazione po-

litica, dove la violenza aveva più libertà d’azione che

in qualsiasi paese occidentale, si consentì alle cosid-

dette leggi del capitalismo di diventare realtà».73

Lontano dal potere delle leggi, lontano da quella

funzione costituzionale che è loro propria, l’esercito e

la polizia diventano strumenti di violenza dalla forza

incontrollabile. Si era violato uno dei principi fonda-

mentali dello stato costituzionale.

Scambiando espansione per conquista, inoltre, gli

imperialisti governavano, piuttosto che per leggi, per

ordinanze e decreti.

La confusione tra potere esecutivo e legislativo -

in effetti le ordinanze e i decreti erano atti del potere

esecutivo- dava luogo nelle colonie all’arbitrarietà e

all’arroganza dei funzionari, i quali preferivano che

«l’africano restasse africano»74 per salvaguardare i

73 Ibidem, p. 190.74 Ibidem, p. 182.

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propri affari laddove le leggi, invece, avrebbero ga-

rantito la legittimità del riconoscimento paritario tra

coloro che erano sottomessi al medesimo governo.

Pertanto le istituzioni democratiche esistenti erano

pericolose perché, come si legge da un discorso di Lord

Cromer in parlamento, non si poteva governare «un

popolo per mezzo di un altro popolo, il popolo india-

no per mezzo del popolo inglese».75

«La burocrazia era un governo di tecnici, una

“minoranza esperta”, che doveva resistere alla costan-

te pressione della “maggioranza inesperta”»,76 il po-

polo, a cui non era possibile affidare la cura dell’am-

ministrazione delle colonie.

I funzionari erano abilmente manipolati dagli uo-

mini di affari, non avevano idee politiche generali né

erano eccessivamente patriottici, anzi, le loro qualità

erano la segretezza, l’anonimato, il potere da eminen-

za grigia.

75 Ibidem, p. 298.76 Ibidem, p. 298.

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Gli uomini dell’imperialismo erano individui ‘de-

classati’, senza un’effettiva funzione sociale, alienati

dal corpo sociale, parassiti senza identità che si appas-

sionarono all’avventura imperialista pensando di po-

ter gestire un potere assoluto o segreto. «L’alleanza

plebe e capitale è all’origine di ogni coerente politica

imperialista».77

La Arendt chiarisce che non bisogna confondere

la plebe né con il proletariato industriale, né con il

popolo nel suo insieme: essa è formata dagli scarti di

tutte le classi sociali, è «una massa di persone priva di

qualsiasi principio e numericamente così forte da su-

perare la capacità dello stato di occuparsene».78

Direttamente prodotta dalla borghesia, con que-

sta rivela una profonda affinità sul piano politico,

lontana da ipocrisie e falsi valori e fortemente en-

tuasiasta delle teorie razziali che escludevano in li-

nea di principio l’idea di umanità e ogni possibile

77 Ibidem, p. 216.78 Ibidem, p. 219.

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relazione con il diverso, il selvaggio, che non fosse

di mera sudditanza.

Per dare meglio un quadro degli uomini dell’im-

perialismo, la Arendt cita alcuni esempi, da Lawrence

d’Arabia a Lord Cromer fino ai personaggi dei romanzi

di Kipling e di Cuore di tenebra di Conrad.

Quello che le preme sottolineare, in effetti, è che

erano uomini annoiati o falliti nel loro paese di origi-

ne di cui avevano rifiutato i valori e pronti a tutto nelle

colonie per conquistare un’identità e condizioni di vita

soddisfacenti.

I tratti distintivi dell’imperialismo, dunque, sono

1) le teorie razziste, che sostituirono la razza alla na-

zione come base della struttura politica, e 2) l’orga-

nizzazione burocratica, che ne fu lo strumento.

Il razzismo come strumento di dominio venne usa-

to, ancor prima che l’imperialismo lo definisse come

idea politica, dai boeri nel Sudafrica, i quali, emigrati

intorno al XVII secolo dall’Olanda, ripudiarono l’ethos

europeo e, vivendo in un ambiente che non erano in

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grado di trasformare, non trovarono altro valore più

alto che in se stessi. Essi si considerarono individui

più che umani, scelti da Dio per essere gli dei del po-

polo nero, inferiore non tanto per il colore della pelle

quanto per ragioni economiche: a stretto contatto con

la natura, gli indigeni non avevano creato né modifi-

cato il mondo e la realtà umana. Con la scoperta di

giacimenti auriferi e diamantiferi, il Sudafrica fu terra

di investimento per i finanzieri ebrei, i quali divenne-

ro immediatamente bersaglio di odio antisemita da

parte dei boeri per il pericolo di innovazioni nella loro

società razziale. Essi erano potenziali elementi desta-

bilizzanti presso una comunità che temeva fanatica-

mente l’industrializzazione del paese.

Il Sudafrica ebbe una particolare influenza sui

popoli europei: «insegnò alla plebe quel che essa ave-

va vagamente presentito, che bastava la mera violenza

per creare a piacimento strati inferiori o sfruttati, che a

tale scopo non occorreva neppure una rivoluzione, ma

si poteva contare sull’aiuto di certi gruppi delle classi

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dominanti, e infine che i popoli stranieri o arretrati

offrivano la migliore occasione per l’ascesa nella so-

cietà».79

Se Hobbes poteva essere ritenuto il teorico ante-

signano della politica imperialista, alcuni nobili fran-

cesi del Settecento avevano creato i prodromi per le

teorie razziste che vennero messe in atto nel corso del

Novecento. Il conte de Boulainvilliers, ad esempio,

aveva sostenuto che la nobiltà francese era di origine

germanica e che aveva conquistato la terra di Francia,

ora depredata da quell’alleanza della monarchia con il

terzo stato.

Nessuno avrebbe mai sospettato che si preparava

la guerra civile, quella rivoluzione che rivendicava

eguali diritti civili per i cittadini di tutta la nazione

francese. L’aristocrazia, in effetti, affermava la sua

superiorità per un’azione di conquista e non già per

fattori biologici.

79 Ibidem, pp. 287-288.

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87

Diversamente fu per la Germania.

Il pensiero razzista tedesco nacque, secondo la

Arendt, dopo la disfatta dei prussiani da parte di Na-

poleone. Si cercò di fare appello ad un generico senti-

mento di nazione per rafforzare l’unità interna di un

popolo che si riconosceva dapprima nell’unità lingui-

stica, poi nelle teorie fondate sulla razza, poiché man-

cava sia l’unità territoriale sia la memoria storica. Fu-

rono i razzisti tedeschi che identificarono il popolo

con la razza, idealizzando sulla scia romantica il Me-

dioevo e il Sacro Romano Impero.

Accanto a queste analisi storico-comparative, di

cui marcato è il tono sociologico, la Arendt menziona

anche la portata delle teorie eugenetiche e del darwini-

smo sociale, con cui si negava l’origine unica e bibli-

ca dell’uomo.

Se l’imperialismo coloniale, comunque, aveva

minato la stabilità della politica estera degli Stati eu-

ropei, creando una dicotomia tra governo metropoli-

tano e colonie, è l’imperialismo continentale, soste-

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nuto dai movimenti panslavisti e pangermanisti, che

disintegrerà internamente la struttura dello Stato-na-

zione.

L’imperialismo continentale fu proprio dell’area

orientale dell’Europa, di quegli Stati che non avevano

partecipato all’espansione geografica d’oltremare e

che, secondo una soluzione di continuità geografica,

pretendevano di creare colonie sul continente.

«L’imperialismo continentale ebbe realmente ini-

zio in patria».80

Esso esprimeva esigenze nazionali, contrapponen-

do all’economia «un’ “ampliata coscienza etnica” che

si supponeva unisse tutte le persone della stessa origi-

ne etnica, indipendentemente dalla storia, dalla lingua

e dal luogo di residenza».81

Questa sorta di nazionalismo tribale, come spre-

giativamente è definito dalla Arendt, aveva in comune

con l’imperialismo coloniale il razzismo, inteso come

80 Ibidem, p. 312.81 Ibidem, p. 312.

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rifiuto del diverso, inferiore e sottoposto, e la burocra-

zia, ampiamente descritta da Kafka nei suoi romanzi.

Esso aveva fatto sue le teorie razziali distinguen-

do non più tra pelle bianca o bruna, bensì tra anima

ariana e non ariana; aveva fatto della nazionalità una

qualità permanente proclamando l’origine divina del

proprio popolo; si era proclamato indipendente dal ter-

ritorio osteggiando tutti gli organismi statali esistenti

e identificando il cittadino con il membro del gruppo

nazionale.

Pur mancando di un preciso programma politico,

centrale nella sua ideologia divenne l’antisemitismo

come se fosse una visione generale del mondo, isolan-

do così l’odio ebraico da ogni concreta esperienza

politica, sociale ed economica.

Il nazionalismo tribale nacque in un’atmosfera di

profondo sradicamento.

Panslavisti e pangermanisti si riconoscevano non

già per avere una patria territorialmente e giuridica-

mente definita, bensì come ‘tribù’.

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In questo senso, sottolinea la Arendt, il popolo si

riconosce in quanto massa, orda in movimento, e la

sua forma di rappresentanza non poteva più essere il

partito ma il movimento stesso.

I partiti, in effetti, mediavano nella vita politica di

un paese, ma non si era dimostrati efficaci, poiché,

molto più legati al potere che a ideali democratici e

parlamentari, si erano macchiati di abusi e corruzione

escogitando giustificazioni ideologiche che facevano

coincidere interessi privati con quelli più generali del-

l’umanità. Il risultato fu il progressivo allontanamen-

to dal governo delle masse, sempre più antiparlamen-

tari e antidemocratiche, anzi, proprio per il clima di

sfiducia che si era venuto a creare veniva richiesta la

presenza di un dittatore come guida del paese.

La Arendt affronta su un piano comparativistico

la questione della disgregazione dei partiti, che è, in

fondo, la disgregazione dello Stato-nazione nel senso

della perdita dei valori democratici e parlamentari,

nonché del diritto alla cittadinanza.

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91

Lo svolgimento è stato ben diverso nei paesi del-

l’Europa occidentale rispetto a quella orientale. In In-

ghilterra, ad esempio, il sistema rappresentativo era

solido grazie al bipolarismo, all’alternanza dei due

partiti al potere; mentre in Germania lo Stato «sviri-

lizzava»82 i partiti, nel senso che «il sistema tedesco

faceva del parlamento un campo di battaglia di inte-

ressi e di opinioni contrastanti, la cui funzione pratica

per la direzione degli affari statali era estremamente

discutibile».83

L’antagonismo stato-società venne poi spazzato

via dai seguenti movimenti totalitari.

La crisi interna allo Stato-nazione viene acuita

dalla situazione degli ‘apolidi’, gli Heimatlose, grup-

pi che con la guerra del 1914 erano emigrati da un

paese ad un altro privati dei diritti umani garantititi

dalla cittadinanza, condannati all’ apolidicità come

‘schiuma della terra’.

82 Ibidem, p. 357.83 Ibidem, p. 357.

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Cechi, sloveni, ebrei, russi bianchi e altre mino-

ranze costrette allo spostamento territoriale per la ca-

duta dell’Impero russo, austro-ungarico e ottomano,

erano unicamente tutelati per una serie di trattati inter-

nazionali, i Minority Traties, spesso rimasti pura enti-

tà astratta.

In molti Stati europei, inoltre, erano state intro-

dotte leggi che permettevano la denazionalizzazione e

la denaturalizzazione; il primo provvedimento venne

preso in Francia già nel 1915 in relazione ai cittadini

naturalizzati provenienti da un paese nemico; poi nel

1922 il Belgio annullava la naturalizzazione delle per-

sone che avevano commesso atti antinazionali duran-

te la guerra; nel 1926 in Italia il regime di Mussolini

emanò una legge analoga per quei cittadini che si era-

no mostrati «indegni della cittadinanza italiana o rap-

presentavano una minaccia per l’ordine pubblico»;

l’Austria nel 1933 per chi avesse commesso azioni

ostili nei suoi confronti e via via fino al 1935 quando

con le leggi di Norimberga la Germania distinse i te-

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deschi in cittadini a pieno titolo e cittadini senza diritti

politici.84

La Arendt, considerando l’apolidicità un fenome-

no di massa tutto contemporaneo, tiene a precisare la

differenza tra minoranze e apolidi.

«Le minoranze erano senza stato solo a metà; al-

meno de jure appartenevano a un organismo statale,

anche se avevano bisogno di una protezione supple-

mentare e di speciali garanzie per godere di certi dirit-

ti. (...) Le minoranze potevano essere considerate come

un fenomeno eccezionale, proprio di determinati ter-

ritori che deviavano dalla norma».85

E i trattati sulle minoranze dicevano quello che

già era implicito nel sistema degli stati nazionali, cioè

che solo l’appartenenza alla nazione dominante dava

veramente diritto alla cittadinanza e alla protezione

giuridica, per cui i ‘gruppi allogeni’ erano soggetti solo

84 Ibidem, nota p. 387 e ss. Cfr. anche G. Agamben, Mezzi senza fini.Note sulla politica. Torino, Bollati Boringhieri, 1996.85 Ibidem, p. 384.

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a leggi eccezionali fino a quando non si compiva l’as-

similazione. A tutela era stata creata la Lega delle na-

zioni.

Gli apolidi, invece, erano stati privati della citta-

dinanza, nel senso che «essa presupponeva una strut-

tura statale che, se non ancora completamente totalita-

ria, non tollerava alcuna opposizione e preferiva per-

dere dei cittadini piuttosto che albergare nel suo seno

dei dissenzienti».86

Quanto fosse perverso questo meccanismo e quan-

to sia attuale, viene sottolineato dalla Arendt investen-

do della sua critica anche il paese democratico per

antonomasia, gli Stati Uniti, allorquando si era creata

la possibilità, durante il periodo maccartista, di priva-

re della cittadinanza gli americani comunisti.

La perdita della cittadinanza è quanto di più of-

fensivo si possa fare ad un uomo, agli uomini, perché

significa la privazione di uno spazio pubblico di rico-

86 Ibidem, p. 387.

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noscimento, di un agire politico di concerto che dia

peso alle opinioni e alle azioni e che, secondo la Aren-

dt, può realizzare quella dignità di essere-uomini.

In questo senso vengono messi in questione gli

stessi diritti dell’uomo ritenuti inalienabili dalla Di-

chiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del

1789, con cui, per l’appunto, si è creata la perfetta coin-

cidenza di uomo e cittadino.

L’apolide segna la crisi di questo rapporto e, di

riflesso, anche la crisi dello Stato-nazione perché vie-

ne meno quella triade Stato-nazione-territorio, quindi

lo stesso concetto di sovranità.

Rimedi furono considerati il diritto all’asilo, il rim-

patrio e la naturalizzazione, ma nessuno di questi fu

storicamente e politicamente adeguato.

Gli apolidi furono costretti, infatti, ad un’esisten-

za crepuscolare.

La Arendt prende così una posizione netta e pre-

cisa anche rispetto al problema palestinese, quando,

cioè, venne creato in Palestina lo Stato d’Israele.

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Sembrava, infatti, che la questione ebraica non

dovesse avere una risoluzione, eppure venne affronta-

ta con la colonizzazione e la conquista di un territorio,

producendo, non a caso, una nuova categoria di apoli-

di, i profughi arabi.

Quella degli apolidi è una nuova categoria da cui

ripensare la comunità politica e la stessa figura di po-

polo. E’ come una maledizione che accompagna «il

sorgere di nuovi stati, fondati sulla falsariga dello sta-

to nazionale. Questa maledizione contiene i germi di

una malattia mortale per i nuovi organismi. Perché lo

stato nazionale non può esistere una volta infranto il

principio di uguaglianza di tutti di fronte alla legge.

Senza questa uguaglianza, che in origine era destinata

a sostituire i vecchi ordinamenti della società feudale,

esso si dissolve in una massa anarchica di privilegiati

e di diseredati. Le leggi che non sono uguali per tutti

danno luogo a privilegi, qualcosa che contrasta con la

stessa natura dello stato nazionale. Quando questo non

è in grado di trattare gli apolidi come soggetti politici

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e lascia ampio campo d’azione all’arbitrio delle misu-

re poliziesche difficilmente resiste alla tentazione di

privare tutti i cittadini del loro status e di governarli

con una polizia onnipotente».87

Secondo tale prospettiva, potremmo dire che sia il

capitolo sull’Antisemitismo che quello sull’Imperialismo

altro non sono che una continua ricerca, da parte della

Arendt, delle ragioni della perdita dell’identità individua-

le e collettiva da parte della comunità politica occidentale.

L’errore è stato quello di non aver trovato nulla di

sacro nell’astratta nudità dell’essere nient’altro-che-

uomo.88

«La nostra vita politica si fonda sul presupposto

che possiamo instaurare l’eguaglianza attraverso l’or-

ganizzazione, perché l’uomo può trasformare il mon-

do e crearne uno di comune, insieme coi suoi pari e

soltanto con essi».89

87 Ibidem, p. 402.88 Ibidem, p. 415.89 Ibidem, p. 417.

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La messa la bando e la riduzione dell’uomo a mera

esistenza ha strappato ogni legame del singolo con

l’umanità, ha impedito il rispetto della pluralità e il

riconoscimento che l’uguaglianza dei popoli è solo, e

non può essere che solo giuridica, «risultato dell’or-

ganizzazione umana nella misura in cui si fa guidare

dal principio di giustizia. Non si nasce uguali; si di-

venta uguali come membri di un gruppo in virtù della

decisione di garantirsi reciprocamente eguali diritti».90

Ciò che è andato storto nella politica, e che ha

dato corpo all’evento totalitarismo, è stato la confu-

sione tra sfera pubblica e sfera privata, lo schiaccia-

mento del politico sul sociale, la perdita dello spazio

pubblico dell’azione.

90 Ibidem, p. 417 e ss.

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CAPITOLO TERZO

LA CATEGORIA ‘TOTALITARISMO’

«Indietro, via di qui, gente sommersa,Andate. Non ho soppiantato nessuno,Non ho usurpato il pane di nessuno,

Nessuno è morto in vece mia. Nessuno.Ritornate alla vostra nebbia.

Non è mia colpa se vivo e respiroe mangio e bevo e dormo e vesto panni».

(Levi, Il superstite, 1984)

Che cosa resta? Resta la lingua materna.(H. Arendt)

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1. Il mutato sfondo socio-politico tra i due secoli:

la nuova società di massa

Rompendo quella linea di continuità causa ed

effetto, in alternativa, quindi, al metodo ‘continui-

sta’ dello storico,91 la Arendt rintraccia nella crisi di

valori e nella rottura della tradizione dell’ Europa

occidentale i germi da cui prenderà corpo il totalita-

rismo. Antisemitismo, imperialismo, crisi dello Sta-

to-nazione, atomizzazione della società rappresen-

tavano il collasso della società illuministica e ven-

gono puntualmente esaminati sul piano storico, po-

litico, sociologico e psicologico, dalla Arendt, per-

ché fenomeni nuovi, che mettono in discussione il

91 Circa il rapporto H. Arendt-metodo storico, cfr. in particolare: M.Salvati, Hannah Arendt e la storia del novecento, in Aa. Vv., Nazismo,fascismo, comunismo, Totalitarismi a confronto, a cura di M. Flores,Milano, Bruno Mondadori, 1998; V. Marchetti, Resistenza ebraica,antisemitismo, totalitarismo, in Aa. Vv., Nazismo, op. cit.; A. Enégren,op. cit.; G. Even-Gramboulan, Hannah Arendt face à l’histoire, in Aa.Vv., Hannah Arendt et la modernité, a cura di A. M. Roviello, Vrin,1992.

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lessico politico e filosofico e impongono nuove mo-

dalità di comprensione.

Che cosa sia il totalitarismo e che cosa abbia si-

gnificato per quella sua carica dirompente nella vita

della comunità politica è analizzato nella terza parte

de Le origini del totalitarismo in modo meno schema-

tico, ma con altrettanta intensità, a partire dal tramon-

to della società classista e da quel processo di massifi-

cazione a cui hanno rivolto la loro attenzione filosofi

e storici come T. W. Adorno, W. Reich, E. Canetti, E.

Broch, G. Mosse.92

Maggiore influenza per la Arendt ha avuto State

of the Masses di E. Lederer, in cui l’autore contrappo-

ne alla società dell’opinione pubblica la minaccia di

una società senza classi. Lederer ha studiato il rappor-

92 Sull’opera di W. Reich circa la psicologia delle masse e il fascismo esugli accenni fatto da Adorno sullo stesso argomento, cfr. S. Moscovici,L’âge des foules, Paris, Complexe, 1985; E. Canetti, Masse und macht,Hamburg, Classen, 1960, trad. it. Masse e potere, Milano, Rizzoli, 1973;H. Broch, Massenpsycologie, Zürich, Rhein, 1959; G. Mosse, L’uomo ele masse nelle ideologie nazionaliste, Bari, Laterza, 1995.

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to privilegiato della massa con il capo totalitario e ha

definito lo stato dittatoriale come fondato sul terrore

«distruggendo i gruppi sociali di ogni tipo, sradicando

la ragione, consegnando l’uomo alle sue emozioni» e

istituzionalizzando inevitabilmente le masse.93

Nella bibliografia de Le origini del totalitarismo,

si fa riferimento anche al testo di Ortega y Gasset, La

ribellione delle masse,94 di cui la Arendt non condivi-

de l’ipotesi ‘deterministica’ secondo cui è meccanico

ed inevitabile che la società moderna arrivi alla massi-

ficazione, giacché essa è fondata su individui isolati,

privi di interessi e responsabilità.

In questo senso la Arendt è molto più prossima a Toc-

queville e al pessimismo di Burckhardt, che pure avevano

sottolineato i rischi di un’attrazione a dir poco naturale e

93 E. Lederer, The State of masses. The Treat of the Classless Society,New York, W. W. Norton, 1940, trad. it. parziale, Lo Stato delle masse,in M. Salvati, Da Berlino a New York, Bologna, Cappelli, 1989.94 J.Ortega y Gasset, La rebelion de las masas, Madrid, «Revista deOcidente», 1929; trad. it. La ribellione delle masse, Bologna, Il Mulino,1962.

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spontanea verso sistemi dispotici e autoritari di individui

completamente deresponsabilizzati e «superflui», appar-

tenenti peraltro a tutte le classi sociali.

«Il termine “massa” si riferisce soltanto a gruppi

che, per l’entità numerica o per indifferenza verso gli

affari pubblici o per entrambe le ragioni, non possono

inserirsi in un’organizzazione basata sulla comunanza

di interessi, in un partito politico, in un’ amministra-

zione locale, in un’associazione professionale o in un

sindacato. Potenzialmente, essa esiste in ogni paese e

forma la maggioranza della folta schiera di persone

politicamente neutrali che non aderiscono mai ad un

partito e fanno fatica a recarsi alle urne».95

La Arendt non riconosce alcuna capacità di azio-

ne alla ‘massa’, che è soggetto passivo, facilmente

manipolabile, diversamente dall’interpretazione della

critica socialista e marxiana che ne dà una valenza

positiva.96

95 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 431.96 R. Williams, Cultura e rivoluzione industriale, Torino, Einaudi, 1968.

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Indubbiamente ella rimarca che le masse sono il

portato della degenerazione dell’individualismo bor-

ghese e di una società atomizzata in cui la competiti-

vità e il senso di solitudine dell’individuo erano state

contenute dall’appartenenza ad una classe, tant’è che

la peculiarità dell’uomo di massa era l’isolamento e la

mancanza di relazioni sociali, piuttosto che la brutali-

tà e la rozzezza. Potremmo dire con il Kornhauser che

«sotto il profilo oggettivo è società atomizzata, sotto

il profilo soggettivo è popolazione alienata».97

«Il crollo della muraglia protettiva classiste tra-

sformò le maggioranze addormentate, fino ad allora a

rimorchio dei partiti, in una grande massa, disorganiz-

zata ed amorfa, di individui pieni di odio che non ave-

vano nulla in comune tranne la vaga idea che le spe-

ranze degli esponenti politici in un ritorno dei bei tempi

andati fossero campate in aria e che quindi i rappre-

sentanti della comunità rispettati come i suoi membri

97 W. Kornhauser, The Politics of Mass Society, Free Press, Glencoe,1959.

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più preparati e perspicaci fossero in verità dei folli,

alleatisi con le potenze dominanti per portare, nella

loro stupidità o bassezza fraudolenta, tutti gli altri alla

rovina».98

E’ una massa di uomini disperati e insoddisfatti,

come i deracinés dei salotti borghesi del tardo Otto-

cento e i parassiti e gli avventurieri dell’imperialismo.

Sono la «generazione del fronte», totalmente spo-

liticizzata, educata alla guerra e alla vita di trincea, ad

un attivismo e ad una esaltazione del proprio io che si

riduceva ad un «fare qualcosa, di eroico o di crimina-

le, che fosse imprevedibile e indeterminato da altri».99

Il terrorismo di cui si vantavano esprimeva la fru-

strazione e l’odio di quanti consideravano la guerra,

con la sua implacabile arbitrarietà, simbolo della mor-

te e legge dell’universo nonché origine di un nuovo

ordine mondiale.

98 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 436.99 Ibidem, p. 459.

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Il processo di ‘massificazione’ rifletteva la disso-

luzione dei legami sociali, l’appiattimento della pira-

mide sociale, l’annullamento delle differenziazioni

individuali e di quelle strutture che garantiscono il plu-

ralismo in un istituzione democratica.

Più specificamente la società di massa è una con-

dizione necessaria, ma non sufficiente, per l’instaura-

zione di un regime totalitario.

La Arendt osserva che «per trasformare la dittatu-

ra rivoluzionaria di Lenin in un regime totalitario, Sta-

lin dovette prima creare artificialmente quella società

atomizzata che in Germania per i nazisti era stata pre-

parata dagli avvenimenti storici».100 Fu necessario,

cioè, distruggere quegli antichi rapporti di classe, fa-

miglia e villaggio molto radicati in Russia fin dal Me-

dioevo; annientare le vecchie classi; cancellare le me-

morie del passato; operare quello sradicamento che

nell’Europa occidentale si era venuto svolgendo già

100 Ibidem, p. 441.

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da tempo. La destrutturazione della società era fina-

lizzata alla edificanda società totalitaria, al «nuovo

ordine» in cui, tuttavia, occorreva mantenere la mobi-

litazione, i fattori disgreganti e le spinte massificanti,

in modo da impedire la stabilità e il dimensionamento

in dittatura monopartitica.

Aclassista, antipluralista, il totalitarismo, che pure

si basa sulla ‘disponibilità’101 di base della società di

massa, crea «il dominio permanente di ogni singolo

individuo in qualsiasi aspetto della vita».102

In questo sfacelo generale di valori e di aspirazio-

ni, sia la plebe che l’élite intellettuale erano attratte

dall’impeto dei movimenti totalitari.

Il culto della violenza e il gangsterismo sembra-

vano smascherare l’ipocrisia della borghesia. La «mo-

rale a doppio uso» era bersaglio di aspri attacchi da

101 S. Neumann, Permanent Revolution, Harper, New York 1942; D.Fisichella, Elezioni e democrazia. Un’analisi comparata, Bologna, IlMulino, 1983.102 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 451

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parte degli artisti e degli intellettuali, sia dell’arte del-

le avanguardie che della letteratura e del teatro. Parti-

colarmente significativa, a proposito, fu la calda acco-

glienza della ironica Dreigrischenoper di Brecht nella

Germania prehitleriana, dramma che identificava i

gangsters come rispettabili affaristi e gli affaristi come

rispettabili gangsters.

«La plebe applaudiva perché prendeva l’afferma-

zione alla lettera; la borghesia, perché era stata così a

lungo ingannata dalla sua stessa ipocrisia da essere

stanca della tensione e da trovare una profonda sag-

gezza nell’espressione della banalità con cui viveva;

l’élite, perché lo smascheramento dell’ipocrisia era un

divertimento meraviglioso.

L’effetto era l’opposto di quello che si era prefis-

sato Brecht».103

Questa distorta alleanza fra plebe ed élite era ba-

sata su un equivoco accidentale: la plebe, in quanto

103 Ibidem, p. 464.

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scarto della borghesia, pensava che grazie alle masse

avrebbe potuto ottenere il potere e rimpiazzare i vec-

chi strati della società borghese; l’élite, affascinata dal

radicalismo totalitario, riusciva grazie ad un certo fa-

natismo rivoluzionario, a manipolare e mobilitare le

masse, escludendole dai centri vitali del potere.

In ogni caso era necessario imbrigliare e allineare la

massa di filistei, in cui si identificava «il borghesuccio gret-

to che in mezzo alle rovine del suo mondo aveva a cuore

soltanto la sicurezza personale ed era pronto a sacrificare

ogni cosa -fede, onore, dignità- al minimo pericolo.

Nulla si rivelò più facilmente distruttibile dell’in-

timità e della moralità privata di gente che pensava

unicamente a salvaguardare l’ininterrotta normalità

della propria vita».104

104 Ibidem, p.469. Ancora più incisiva è la Arendt quando individua nelbuon padre di famiglia il tipo dell’uomo-massa: «Credo sia stato Péguy achiamare il padre di famiglia “grand aventurier du 20° siècle”, ma è mortotroppo presto per imparare che quel tipo d’uomo era anche il grande crimi-nale del secolo. Eravamo talmente abituati ad ammirare o a canzonare gar-batamante il padre di famiglia per le sue affettuose premure e la sua assidua

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E saranno proprio costoro a macchiarsi dei più

nefandi crimini, dopo anni di livellamento per mezzo

di una propaganda menzognera e una capillare orga-

nizzazione di potere.

dedizione al benessere della famiglia, per la sua solenne determinazione adassicurare alla moglie e ai figli una vita agiata, che non ci siamo accorti diquanto il devoto paterfamilias, la cui preoccupazione principale era la pro-pria sicurezza, si fosse involontariamente trasformato, sotto la spinta dellacaotica situazione economica del nostro tempo, in un avventuriero, al qualenon bastava una grande industriosità ed accortezza per essere certo di quelloche il giorno sucessivo gli avrebbe riservato. (...) Ci voleva solo il geniosatanico di Himmler per scoprire che, dopo una simile degradazione, que-st’uomo sarebbe stato completamente disposto a fare letteralmente di tuttoquando la posta si fosse alzata e la piatta esistenza della sua famiglia fosseminacciata. (...) Così oggi può accadere che quella stessa persona, il tedescomedio, che anni di propaganda nazista non erano riusciti a convincere aduccidere un ebreo (neppure quando divenne abbastanza chiaro che un siffat-to omicidio sarebbe rimasto impunito), accetti senza opporsi di mettersi alservizio della macchina della distruzione. (...) Diversamente dalle primeunità delle SS e della Gestapo, l’organizzazione totale di Himmler non con-ta sui fanatici, né sugli assassini per natura, né sui sadici; essa fa interamenteassegnamento sulla normalità dei lavoratori e dei padri di famiglia», in Col-pa organizzata e responsabilità universale, articolo del gennaio 1945, ora inEbraismo e modernità, a cura di G. Bettini, Milano, Feltrinelli, 1993. LaArendt rimarca questo carattere della ‘normalità’ anche quando ritrae Eich-mann in La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltri-nelli, 1993.

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2. Gli strumenti del totalitarismo:

propaganda, polizia segreta e burocrazia.

L’ideologia come «logica di un’idea».

La Arendt ritiene che la propaganda sia lo stru-

mento di cui il movimento totalitario si serva, almeno

in un momento iniziale, perché sia possibile «trasfor-

mare la natura dell’uomo».

Essa è rivolta in particolare alla sfera esterna, cioè

agli strati non totalitari della popolazione o ai paesi stra-

nieri perché evitassero qualsiasi ingerenza interna.

La propaganda utilizzava la menzogna e la falsi-

ficazione, che erano sì accorgimenti potestativi ma con

la subdola finalità di sommergere le masse in un mon-

do irreale di modo che fossero incapaci di lottare per i

propri interessi concreti, si sentissero profondamente

sradicate dal tessuto economico-sociale e aderissero

pienamente alle astrazioni dell’ideologia totalitaria.

La specificità tecnica della propaganda totalitaria

è quella di investire gli uomini fin nella profondità

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psichica usando come espediente il terrore. Pertanto,

oltre a forme di propaganda diretta, vi erano altrettan-

te forme di propaganda indiretta, miranti a sostenere

la mobilitazione totale, la guerra di una popolazione

contro se stessa.

Ma cosa veniva propagandato?

«Nessuna propaganda basata sull’interesse puro

e semplice può avere effetto fra masse che essendo

caratterizzate principalmente dall’estraneità a qualsi-

asi corpo sociale e politico, presentano un vero caos

di interessi individuali.

Il fanatismo dei militanti dei movimenti totalitari,

così diverso qualitativamente dall’attaccamento dei

membri dei partiti normali, è prodotto dalla mancanza

di un interesse egoistico delle masse, che sono pronte

a sacrificarsi.

I nazisti hanno dimostrato che si può condurre in

guerra un intero popolo con lo slogan «vittoria o di-

struzione» (qualcosa che la propaganda bellicista del

1914 avrebbe accuratamente evitato), e ciò non in un

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periodo di miseria, disoccupazione o ambizioni nazio-

nali deluse».105

I movimenti totalitari, secondo la Arendt, svuotano

di ogni contenuto utilitaristico i propri fondamenti dottri-

nari e annunciano le loro finalità politiche attraverso for-

me di predizione infallibile. In questo senso fanno dichia-

razioni legate al futuro piuttosto che richiamandosi al glo-

rioso passato, pensano nei termini del ‘millennio’ a veni-

re, alimentano la fuga dalla realtà delle masse.

«Prima di tirare intorno a sé una cortina di ferro

per impedire che il più lieve rumore esterno turbi la

spaventosa quiete di un mondo interamente immagi-

nario, essi possiedono già, grazie alla loro propagan-

da, la forza di segregare le masse del mondo reale».106

La finalità della propaganda, inoltre, non è tanto la

persuasione quanto l’organizzazione, «l’arte di accumu-

lare il potere senza possedere gli strumenti di potere».

105 Ibidem, p.481. Cfr. G. Sartori, Cosa è “propaganda” ?, in «Rasse-gna italiana di sociologia», IV, 1962.106 Ibidem, p.488.

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Per avere un’idea di come si strutturi l’organizzazio-

ne totalitaria, la Arendt, in Che cos’è l’autorità,107 la de-

scrive in modo molto più semplice come una cipolla: «nel

centro della quale, quasi in uno spazio vuoto, si trova il

capo (...). Tra le innumerevoli parti del movimento: le or-

ganizzazioni collaterali extrapartitiche, le varie associa-

zioni professionali, gli iscritti al partito, la burocrazia del

partito, le formazioni di élite e i gruppi paramilitari sono

reciprocamente in una relazione tale da costituire, a se-

conda del punto di vista, la superficie o il centro della ci-

polla: cioè, rispetto a uno strato costituiscono il normale

mondo esterno, mentre rispetto ad un altro rappresentano

il radicalismo più estremista. Il grande vantaggio del si-

stema è di fornire a ciascuno strato del movimento, nono-

stante il regime totalitario, la finzione di una realtà norma-

le e, insieme, la convinzione di differenziarsene e di esse-

re più radicale».

107 H. Arendt, Between Past and Future: Six Exercices in Political Thou-ght, London, Faber and Faber, 1961; trad. it. Tra passato e futuro, Mila-no, Garzanti, 1991

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In questo modo, ritenendo che ci sia solo una dif-

ferenza quantitativa tra ciascuno degli strati, nessuno

è a conoscenza dell’ abisso che si è venuto a creare tra

il mondo artificiale in cui vive e quello reale che lo

circonda.

Attraverso le organizzazioni frontiste e dei sim-

patizzanti viene creata una nebbia di normalità e ri-

spettabilità che inganna sui veri caratteri dell’ideolo-

gia del movimento totalitario. Nell’isolamento dalle

realtà, il capo totalitario prende le decisioni dall’inter-

no della struttura stessa, né dall’esterno né dall’alto: il

suo compito è «fare da magica difesa contro il mondo

esterno e insieme da ponte con esso».108

La figura del capo come leader del movimento

non è, comunque, la conditio sine qua non dell’instau-

razione del regime totalitario, anche se il Führerprin-

108 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 516. Sulla figura del‘capo’: L. Cavalli, Il capo carismatico, Bologna, Il Mulino, 1981; M.Stoppino, Totalitarismo, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Di-zionario di politica, cit.

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zip e il culto della personalità non sono poi irrilevanti.

La Arendt, infatti, chiarisce che «il principio del capo»

non è di per sé totalitario ma ha colto elementi dal-

l’autoritarismo e dalla dittatura militare.

Il Führerprinzip poteva collegarsi ad una forte tra-

dizione tedesca, ancor più sentita durante gli anni del

sistema presidenziale della repubblica di Weimar, con

la reggenza di Hidemburg, e presente nelle forme mi-

litarizzanti delle associazioni giovanili e d’arma, nel

diffuso atteggiamento antidemocratico, nelle ideolo-

gie dominanti nella burocrazia e nell’esercito.

Le crisi del 1923 e del 1930 avevano dato nuovo

slancio all’appello verso l’uomo forte, un capo cari-

smatico, attraverso cui il Führerprinzip diventava una

sintesi di idee di ordine autoritario e militaresco con

forme di legittimazione pseudodemocratico-plebisci-

taria, manipolate attraverso la propaganda di massa.

E’ la «volontà del Führer» che diventa legge suprema

in uno stato totalitario e non i suoi ordini che defini-

rebbero una struttura gerarchica.

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«L’autorità non filtra dal vertice agli strati inter-

medi fino alla base del corpo politico come nel caso

dei regimi autoritari. La ragione effettiva è che non

c’è gerarchia senza autorità e che, malgrado i numero-

si equivoci sulla cosiddetta “personalità autoritaria”,

il principio di autorità è, in tutti gli aspetti importanti,

diametralmente opposto a quello del dominio totalita-

rio. A prescindere dalla sua origine nella storia roma-

na, l’autorità in qualunque sua forma è sempre desti-

nata a ridurre o limitare la libertà, ma mai ad abolirla.

Il dominio totalitario, invece, mira a distruggerla, ad

eliminare la spontaneità in genere, e non si accontenta

affatto di una sua riduzione, per quanto tirannica».109

Tutto deve convergere alla costruzione di un mon-

do fittizio: il mondo viene spogliato di quella multi-

formità, di quel pluralismo che è elemento di disorien-

tamento e disintegrazione per le masse.

La Arendt tende a sfatare così un luogo comune

109 Ibidem, p. 555.

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dei regimi totalitari, che essi siano garanti dell’ordine

e della stabilità. Hitler e Stalin si servirono delle pro-

messe di stabilità per nascondere la loro intenzione di

creare uno stato di instabilità permanente.

«Per un movimento totalitario entrambi i pericoli

sono mortali: l’evoluzione verso l’assolutismo mette-

rebbe fine al suo impeto interno, e un’evoluzione ver-

so il nazionalismo impedirebbe l’espansione esterna,

senza la quale non può sopravvivere. Esso deve ricor-

rere a quella che, con Trotsky, si potrebbe chiamare

“rivoluzione permanente”».110 La rivoluzione totali-

taria, dunque, è «rivoluzione permanente» in quanto

risponde necessariamente a quella logica di perpetua-

zione della guerra civile che l’ha originata.

110 Ibidem, p. 536. Il termine ‘rivoluzione permanente’ compare già inTrotsky nel 1905 a proposito del fallimento dell’esperienza dei soviet diPietrogrado e, in seguito, in polemica contro la cristallizzazione teoricafatta da Stalin del socialismo in un solo paese. Vedi R. Schnur, Rivolu-zione e guerra civile, a cura di P.P. Portinaro, Milano, Giuffrè, 1986; L.Pellicani, Dinamica delle rivoluzioni, Milano, Sugarco,1974. Cfr. ancheH. Arendt, On revolution, Viking Press, New York, 1963; trad. it. a curadi M. Magrini, Sulla rivoluzione, Milano, Edizioni Comunità 1996.

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All’ instabilità permanente fa da contrappeso la

completa assenza di struttura: lo stato totalitario non è

monolitico, anzi, come sistema monopartitico, esso,

in concreto, si caratterizza secondo il dualismo Stato-

partito o, per alcuni critici, secondo la divisione tra

potere reale e potere apparente.111

La Arendt sostiene che «se si considera lo stato

totalitario esclusivamente come uno strumento di po-

tere lasciando da parte l’efficienza amministrativa, in-

dustriale ed economica, la sua “mancanza di struttu-

ra” appare il mezzo ideale per l’attuazione di quello

che i nazisti chiamavano il principio del capo. La con-

tinua concorrenza fra gli uffici che, oltre a sconfinare

111cfr. F. Neumann, Behemoth. The Structure and Practice of NationalSocialism, Harper & Row, New York 1966. Neumann afferma che ilregime nazional-socialista si caratterizzava attraverso quattro centri dipotere fondamentali, ciascuno con il proprio esecutivo, legislativo e giu-diziario. Fraenkel, ne Il doppio Stato, cit., teorizza, invece, la compre-senza di uno Stato «normativo», non sospeso del tutto, che regola laproduzione, ed uno Stato « discrezionale», in cui si esprimono gli obiet-tivi programmatici del nazismo, obiettivi accettati dal capitalismo tede-sco purché gli sia riconosciuto il predominio nella sfera produttiva.

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con l’esercizio delle proprie funzioni nei settori altrui

sono incaricati di compiti identici, rende pressoché

impossibili l’opposizione e il sabotaggio».112

Il segno più evidente della mancanza di una ge-

rarchia è la moltiplicazione dell’apparato burocrati-

co, tant’è che «il cittadino del Terzo Reich era co-

stretto a vivere sotto l’autorità simultanea e spesso

contrastante di poteri concorrenti, come l’ammini-

strazione statale, il partito, la SA e le SS; e non sape-

va mai, perché nessuno glielo diceva esplicitamente,

quale di queste istanze possedeva un’autorità mag-

giore. Egli doveva sviluppare una specie di sesto

senso per capire a un dato momento a chi obbedire e

chi ignorare».113

Lo stesso accadde in Russia, dove «il regime era

ricorso in misura ancora maggiore alla continua crea-

zione di nuovi uffici per relegare nell’ombra i vecchi

centri di potere. Solo che il gigantesco sviluppo buro-

112 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit, p. 554.113 Ibidem, p. 548.

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cratico, inerente a questo metodo, veniva frenato dalle

ripetute epurazioni».114

La differenza sostanziale, secondo la Arendt, tra i

due sistemi, nazional-socialista e sovietico, era che

«Stalin, ogni qual volta trasferiva il potere da un ap-

parato all’altro, tendeva a liquidare insieme con l’ap-

parato declassato il suo personale, mentre Hitler, mal-

grado lo sprezzante giudizio sulle persone “incapaci

di saltare al di là della propria ombra”, era perfetta-

mente disposto ad utilizzare tali ombre anche in se-

guito, magari in un’altra funzione».115

Lo Stato funge da facciata, rappresentando il pae-

se per interessi di politica estera; in realtà il vero cen-

tro di potere è la polizia segreta, le cui agenzie sono le

«cinghie di trasmissione» che danno dinamismo al-

l’azione dello stato totalitario.

La polizia segreta è completamente soggetta alla

volontà di chi detiene il potere, è «interamente alla

114 Ibidem, p. 553.115 Ibidem, pp. 550-1.

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mercé delle massime autorità per la conservazione del

suo lavoro. Al pari dell’esercito in uno stato non tota-

litario, si limita ad eseguire la politica decisa da altri,

avendo perso tutte le prerogative godute nelle buro-

crazie dispotiche».116

La sua caratteristica, dunque, è ridotta ad un pia-

no meramente esecutivo e «una delle ragioni della

moltiplicazione dei servizi segreti, i cui agenti non si

conoscono, è l’esigenza di una estrema flessibilità. Per

usare il nostro esempio, poteva darsi che le massime

gerarchie, al momento della comunicazione del loro

ordine, fossero ancora indecise fra una maggiore prov-

vista di tubi e un’epurazione. La moltiplicazione con-

sentiva i mutamenti all’ultimo momento: era così pos-

sibile che, mentre gli agenti di un servizio preparava-

no la concessione dell’ordine di Lenin al direttore del-

la fabbrica, quelli dell’altro servizio si apprestassero

ad arrestarlo. L’efficienza della polizia consisteva nel

116 Ibidem, p. 585.

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fatto di poter preparare simultaneamente l’esecuzione

di incarichi così contraddittori».117 La polizia segreta,

che è uno strumento di repressione terroristica, «non

ha il compito di scoprire gli autori di delitti, ma quello

di essere pronta quando il governo decide di arrestare

una certa categoria della popolazione. La sua unica

distinzione è di essere la sola a godere la fiducia della

massima autorità e a sapere quale linea politica sarà

attuata».118 Attraverso la provocazione, i processi e le

epurazioni, gli agenti segreti hanno il compito di sta-

nare l’opposizione. Cosa significa?

Ogni forma di governo ha degli oppositori; anzi,

in via analitica, possiamo distinguere tra: 1) nemici

reali, 2) nemici potenziali, 3) nemici oggettivi, 4) «au-

tori» di delitti possibili, 5) innocenti, 6) amici e se-

guaci.

Ma ciò che caratterizza il totalitarismo è il perse-

guitare in particolar modo persone e gruppi ricompre-

117 Ibidem, p.583.118 Ibidem, p.583.

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si sotto il cliché di «nemico oggettivo» e definiti tali

ideologicamente già prima di conquistare il potere.

A sua discrezione, il gruppo di potere individua e

persegue un «portatore di tendenze»119 che in futuro

potrebbe risultare oggettivamente ostile, una catego-

ria di persone la cui inimicizia può apparire plausibile

ideologicamente, soprattutto all’estero.

E’ il «nemico oggettivo», che differisce dal sospetto,

individuato dalle polizie segrete, in quanto la sua identità

è determinata dall’orientamento politico del governo, non

dalla attività sovversiva di cui è autore.

Per questo, riflettendo quel dinamismo intrinseco

al movimento totalitario stesso, esaurita una catego-

ria, si dichiara guerra ad un’altra, procedendo così alla

tassonomia dei subumani. Ogni operazione contro il

«nemico oggettivo» di turno -il che ci induce a pensa-

re che l’unico ‘innocente’ è solo chi detiene il potere-

viene legittimata sul piano ideologico, secondo la ‘raz-

119 Ibidem.

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za’ per i nazionalsocialisti, come ‘nemico della classe

operaia’ per i comunisti.

L’esasperazione del «nemico oggettivo» conduce

alla nozione di «delitto possibile», cioè la presunzio-

ne che il crimine possa essere costruito in anticipo su

basi ritenute oggettivamente attendibili, anche se in

concreto assolutamente improbabili. In questo modo

il governo totalitario ammanta con proprie giustifica-

zioni le misure terroristiche adottate.

La Arendt, tuttavia, è dell’avviso che con la com-

pleta realizzazione del terrore totalitario, vengono ab-

bandonati i concetti di «nemico oggettivo» e «delitto

logicamente possibile» per una coerente arbitrarietà:

le vittime, innocenti, verranno scelte a caso, senza al-

cuna accusa, solo perché dichiarate indegne di vivere.

E’ il modo più efficace di negare la libertà umana.

Principio d’azione, allora, è l’ideologia, che la

Arendt definisce «come logica di un’idea».120

120 Nessun termine presenta una vasta gamma di significati così dispa-rati quanto il termine ‘ideologia’. N. Bobbio distingue un significato

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«La sua materia è la storia, a cui la “idea” è applicata;

il risultato di tale applicazione non è un complesso di af-

fermazioni su qualcosa che è, bensì lo svolgimento di un

processo che muta di continuo. L’ideologia tratta il corso

degli avvenimenti come se seguisse la stessa “legge” del-

l’esposizione logica della sua “idea”.(...) Le ideologie non

si interessano mai del miracolo dell’essere».121

«debole» da uno «forte». Nel significato «debole» designa un’insieme diidee e valori che riguardano l’ordine politico e hanno la funzione diguidare i comportamenti politici collettivi. Per il significato «forte» fariferimento a Marx che considera l’ideologia una credenza falsa, la falsacoscienza dei rapporti di dominazione tra le classi. Nella scienza e nellasociologia politica contemporanea prevale il primo significato, ideolo-gia come concetto neutro, quindi, contrapposto in modo esplicito o im-plicito a ciò che è «pragmatico» e arricchito di certi elementi tipici comeil dottrinarismo, il dogmatismo, una forte componente passionale e viadicendo. L’ideologia è lo strumento fondamentale che le élites politichehanno a disposizione per operare la mobilitazione politica delle masse eper portare ad un grado massimo la loro manipolazione. Cfr. M. Stoppi-no, Ideologia, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario dipolitica, cit. Per il nesso ideologia-simulazione, E. Voccia, L’ideologiadella provocazione, in «Porta di Massa. Laboratorio Autogestito di Filo-sofia - Simulazione», Napoli, primavera-estate 1996, pp. 6-12.121 Ibidem, p. 642. Tre anni prima nel lavoro della Arendt, così Orwellscriveva: « Tu credi che la realtà sia qualcosa di oggettivo, di esterno,che esiste per proprio conto. E credi che anche la natura stessa della

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Con certezza assoluta, l’ideologia pretende di spie-

gare, indipendentemente da ogni esperienza ed accer-

tamento fattuale, la storia, di obiettivare l’intero corso

storico, di ‘produrre’ e dimostrare come eliminabile il

nemico, non in quanto oppositore ma come simbolo

dell’alterità. E’ il diverso che, necessariamente, dev’es-

sere ricompreso nella totalità dell’esistente e annien-

tato perché non riconosciuto.

L’ideologia suggella la totale non appartenenza

al mondo degli uomini, la loro «superfluità», perché

trasforma l’isolamento e la solitudine in estraneazio-

ne, in perdita non solo dello spazio pubblico ma, so-

prattutto, del proprio io.

realtà sia evidente per se stessa. Se ti persuadi che stai pensando qualco-sa, credi che tutti gli altri vedano quella stessa cosa. Ma io ti dico, Win-ston, che la realtà non è esterna. La realtà esiste nella mente degli uomi-ni, e in nessun altro luogo. Non nelle menti individuali, e cioè in questao in quella, che invece possono commettere errori, e che in ogni caso èdestinata a svanire prima o poi: ma solo nella mente del Partito, che ècollettiva e immortale. Qualsiasi cosa il Partito ritiene sia vera, è vera.E’ impossibile vedere la realtà se non attraverso gli occhi del Partito», inG. Orwell, 1984, Milano, Mondadori, 1973.

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E il totalitarismo, abolendo l’umanità che è in ogni

uomo, disprezzando la realtà e la fattualità, attua quel

supersenso ideologico che può essere definito come

l’eccedenza di senso su cui fa perno la stessa ideolo-

gia, una logica coerente che fa apparire degno di sen-

so ogni atto arbitrario, ribaltando la situazione-limite

in quotidianità, l’illegale nel legale, l’insensato nel

sensato.

«La società dei morenti, in cui la punizione viene

inflitta senza alcuna relazione con un reato, lo sfrutta-

mento praticato senza un profitto e il lavoro compiuto

senza prodotto, è un luogo dove quotidianamente si

crea l’insensatezza. Eppure, nel contesto dell’ideolo-

gia totalitaria nulla potrebbe essere più sensato e logi-

co: se gli internati sono dei parassiti, è logico che ven-

gano uccisi col gas; se sono dei degenerati, non si deve

permettere che contamino la popolazione; se hanno

un’ “anima da schiavi” (Himmler), non è il caso di

sprecare il proprio tempo per cercare di rieducarli. Vi-

sti attraverso le lenti dell’ideologia, i campi hanno quasi

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il difetto di aver troppo senso, di attuare la dottrina

con troppa coerenza».122

Il supersenso ideologico ritiene di aver scoperto

la chiave della storia o la soluzione degli enigmi del-

l’universo, senza tener conto della fattualità, anzi, di-

sprezzandola, e, attraverso una logica deduttiva e co-

ercitiva, edificando il suo artificioso sistema.

L’antiutilità, l’antieconomicità e l’insensatezza123

sono caratteri dominanti per la preservazione del po-

tere totalitario.

«Totalitaria non è la pretesa della Russia rivolu-

122 Ibidem, p. 626.123 Sul carattere irrazionale del totalitarismo, inteso nell’assoluta incon-gruenza tra fini da perseguire e mezzi impiegati per perseguirli, cfr. Bar-rington Moore jr., Le origini sociali della dittatura e della democrazia,Torino, Einaudi, 1971; R. Conquest, Il grande terrore, Milano, Monda-dori, 1970; M. Curtis, Retrat from Totalitarianism, in C. J. Friedrich, M.Curtis, B. R. Barber, Totalitarianism in Perspective: Three Views, Prae-ger, New York 1969; A. B. Ulam, Lenin e il suo tempo, Firenze, Vallec-chi, 1967. Contestano questa interpretazione, a favore di una razionalitàintrinseca al totalitarismo, R. A. Nisbet, La comunità e lo Stato, Milano,Comunità 1957; J. G. Gliksman, Social Prophilaxis as a From of SovietTerror, in C. J. Friedrich, Totalitarianism, cit.

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zionaria che nelle condizione esistenti la dittatura del

proletariato sia la miglior forma di governo, bensì la

catena di deduzioni, tratta soltanto dal dittatore totali-

tario, in base alla quale risulta logicamente che senza

tale sistema non si può costruire una metropolitana,

che chiunque sa dell’esistenza della metropolitana di

Parigi è sospetto perché potrebbe dubitare della prima

deduzione e che, quindi, se fosse possibile, bisogne-

rebbe distruggere questa metropolitana, che invero non

sarebbe mai dovuta esistere».124

124 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit, p. 627.

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3. Terrore e campo di concentramento.

La società dei morenti e il male radicale.

La Arendt sottolinea marcatamente che il terrore

è l’essenza del potere totalitario e il campo di concen-

tramento è la sua istituzione centrale.

Possono considerarsi questi tratti distintivi del

regime totalitario?

1. Il terrore totalitario

Il terrore è, secondo una definizione da diziona-

rio, lo strumento di emergenza cui un governo ricor-

re per mantenersi al potere: l’esempio più noto è

quello del periodo della dittatura del Comitato di

salute pubblica guidato da Robespierre e da Saint-

Just durante la Rivoluzione francese (1793-1794).

Potremmo riecheggiare Machiavelli, che già tre se-

coli prima ricordava che per «ripigliare lo stato», per

conservare il potere, era necessario periodicamente

spargere terrore e paura; anche Montesquieu ed

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Hobbes,125 che riconoscono il terrore l’uno come ele-

mento qualificante di comparazione fra gli Stati, l’al-

tro come concausa del sorgere del Leviatano sovra-

no.

Il terrore totalitario è ben di più: è qualcosa di

pervasivo che si insinua generando un clima di repres-

sione e colpa; è una violenza imprevedibile intesa come

minaccia generica fissa contro l’individuo; è un timo-

re paralizzante, che si instilla anche in quelli che po-

trebbero opporsi attivamente all’oppressione.

Attraverso la lettura psicoanalitica di Franz Neu-

mann, potremmo dire che ogni sistema politico si fon-

da su una angoscia nevrotica, che, pur avendo una base

reale, allontanare la minaccia di un pericolo, è prodot-

ta interiormente attraverso l’Io.126

Per il grado di alienazione dell’uomo moderno,

125 Cfr. Ch. de Secondat de Montesquieu, Lo spirito delle leggi, a cura diS. Cotta, Torino, UTET, 1952; N. Machiavelli, Il Principe, Milano, Fel-trinelli,1995; Th. Hobbes, Leviatano, Bari, Laterza, 1974.126 F. Neumann, Lo stato democratico e lo stato autoritario, Bologna, IlMulino, 1973.

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soprattutto per l’alienazione politica che permette una

totale obliterazione dell’Io, cioè l’identificazione del-

le masse con un leader abile nel manipolare le co-

scienze attraverso teorie cospiratorie, viene a crear-

si un contesto fittizio in cui si verificano le seguenti

condizioni: «che le masse si trovino in una situazio-

ne di pericolo oggettivo, che siano incapaci di capi-

re il processo storico e che l’angoscia attivata dal

pericolo venga trasformata, attraverso la manipola-

zione operata da altri, in angoscia nevrotica perse-

cutoria (aggressiva)».127 Se l’angoscia reale sembra

propria nei regimi di tipo liberale, l’angoscia nevro-

tica è istituzionalizzata in un sistema totalmente re-

pressivo. Il terrore, per Neumann, allora, è l’incal-

colabilità delle sanzioni: l’assenza di una certezza

giuridica genera quell’angoscia nevrotica persecu-

toria di cui si avvantaggia il leader o l’élite per il

mantenimento del potere.

127Ibidem.

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Così la Arendt, in Le origini del totalitarismo,

scrive: «Il terrore estremamente sanguinoso dello sta-

to iniziale del regime totalitario serve invero soltan-

to a sbaragliare gli avversari e a rendere impossibile

ogni ulteriore opposizione; ma il terrore totale si sca-

tena solo quando, superato questo stadio, il regime

non ha più nulla da temere dagli oppositori.

In proposito si è spesso osservato che in tal caso

il mezzo è diventato il fine, ma ciò dopotutto equi-

vale semplicemente ad ammettere, in maniera para-

dossale, che la categoria mezzo-fine non è più vali-

da, che il terrore non è più lo strumento per incutere

paura alla gente».128

2. Il campo di concentramento

Il terrore totalitario, che si nutre del «nemico og-

gettivo», si attua, sostiene la Arendt, nella creazione

128 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit. Cfr. R. Conquest, Il gran-de terrore, cit. ; A. Devoto, La tirrannia psicologica, Firenze, Sansoni,1960.

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di un universo concentrazionario.129

I lager sono l’istituzione centrale del potere tota-

litario. Perché?

«I campi di concentramento e di sterminio servono al

regime totalitario come laboratori per la verifica della sua

pretesa di dominio assoluto sull’uomo.(...) Il dominio to-

tale, che mira ad organizzare gli uomini nella loro infinità,

pluralità e diversità come se tutti insieme costituissero un

unico individuo, è possibile soltanto se ogni persona vie-

ne ridotta ad un’immutabile identità di reazioni, in modo

che ciascuno di questi fasci di reazioni possa essere scam-

biato con qualsiasi altro. Si tratta di fabbricare qualcosa

che non esiste, cioè un tipo umano simile agli animali, la

cui unica “libertà” consisterebbe di “preservare la specie”.

Tale fine viene perseguito sia con l’indottrinamento ideo-

logico delle formazioni di élite sia col terrore assoluto dei

Lager.(...) I Lager servono, oltre che a sterminare e a de-

gradare gli individui, a compiere l’orrendo esperimento di

129 D. Rousset, L’universo concentrazionario, Milano, Baldini & Ca-stoldi, 1997.

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eliminare, in condizioni scientificamente controllate, la

spontaneità stessa come espressione del comportamento

umano e di trasformare l’uomo in un oggetto, in qualcosa

che neppure gli animali sono. (..) In circostanze normali

ciò non può essere ottenuto, perché la spontaneità non può

mai essere interamente soffocata, connessa com’è non solo

alla libertà umana, ma alla vita stessa in quanto semplice

rimaner vivo».130

Il campo di concentramento è il paradigma na-

scosto dello spazio politico della modernità; la sua

essenza consiste nella materializzazione dello stato di

eccezione e nella creazione di uno spazio in cui diritto

e fatto, norma e applicazione diventano indiscernibili.

Solo in questo senso possiamo comprendere per-

ché esso è lo spazio del «tutto è possibile», quel prin-

cipio nichilista in cui si cristallizzano la vita e i metodi

del campo tanto da apparire come un contenitore er-

meticamente chiuso agli occhi del mondo dei vivi.

130 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit.

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Per il senso comune, infatti, tutto è avvolto in una

nube fumogena di insensatezza e le condizioni di inintel-

legibilità paradossalmente superano ogni cortina di credi-

bilità. Anzi, dice la Arendt, «chi parla o scrive sui campi

di concentramento è ancora considerato con sospetto; e se

è decisamente ritornato al mondo dei vivi, egli stesso è

talvolta assalito dai dubbi sulla sua veridicità, come se aves-

se scambiato un incubo per realtà».131

Solo l’ «indugio sugli orrori» potrebbe aiutare a com-

prendere quanto è avvenuto, anche se le memorie quanto

le testimonianze oculari restano prive di comunicativa.132

131 Ibidem, p. 601. Cfr. A. Camus, L’uomo in rivolta, Milano, Bompiani, 1958.132 Sull’inenarrabilità di quanto è accaduto e la testimonianza da affidare allamemoria vedi: P. Levi, Se questo è un uomo. La tregua, Torino, Einaudi, 1963e I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986; H. Langbein, Menschen inAuschwitz, Europa Verlag, Wien 1972, trad. it. Uomini ad Auschwitz, Milano,Mursia, 1984; B. Bettelheim, Surviving and Other Essay, Knopf, New York,1979, trad. it. Sopravvivere, Milano, Feltrinelli 1991; J. Améry, Jenseits vonSchuld und Sühne. Bewältigungsversuche eines Überwältigten, F. Klett, Stut-tgart, 1977, trad. it. Un intellettuale a Auschwitz, Torino, Bollati Boringhieri,1987; R. Antelme, L’Espèce humaine, Paris, 1947, trad. it. La specie umana,Torino, Einaudi, 1976. Per una riflessione cfr. G. Agamben, Quel che resta diAuschwitz. L’archivio e il testimone, Torino, Bollati Boringhieri, 1998.

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E’ vero che né i campi di concentramento né i campi

di lavoro forzato sono un’invenzione totalitaria.

Le fonti133 sono alquanto scarse; si ritiene che i

primi sono stati costruiti dagli spagnoli a Cuba nel 1896

per internare ben 400.000 persone tra vecchi, donne e

bambini, senza per questo conoscere il numero totale

delle vittime della repressione del generale spagnolo

Valeriano Weiler y Nicolau, inventore dei campi di

concentramento. Furono organizzati dagli americani

nelle Filippine nel 1898 per lo scoppio di un’insurre-

zione e nel 1900 dai britannici in Sudafrica contro la

guerriglia dei boeri, in particolare quelli del libero Stato

di Oranje. Si ebbero accese manifestazioni di protesta

133 Gli studi sui campi di concentramento e sulla loro organizzazionenon sono numerosi. Segnaliamo A. J. Kaminski, Konzentrationslager1896 bis heute. Geschichte, Funktion, Typologie, Münich, Piper, 1982;trad. it. I campi di concentramento dal 1986 ad oggi. Storia, funzioni,tipologia. Torino, Bollati Boringhieri, 1997. K. Hueser, Wewelsburg 1933bis 1945. Kultund Terrorstatte der SS, Paderborn, Verlag Bonifatius-Druckerei Paderborn, 1982; M. Broszat, «Nationalsozialistiche Konzen-trationslager 1933-1945», in Anatomie des SS-Staates (Band 2), Muni-ch, Deutsche Taschenbuch Verlag, 1967.

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da parte dell’opinione pubblica, grazie alla filantropa

Emily Hobhouse che denunciò la disumanità e l’in-

fanticidio del sistema dei campi, colpe infamanti che

macchiavano la classe politica inglese. E un ritorno

positivo non si fece attendere: i campi vennero chiusi.

Non esistono, invece, testimonianze sui campi di

concentramento eretti dal regime clerico-fascista au-

striaco prima del 1938. Poco dettagliate sono anche le

informazioni relative alle condizioni vigenti in Russia

prima del 1917: all’epoca zarista furono circa trenta-

duemila i condannati alla katorga, originariamente la

galera, poi pesante pena detentiva comportante i lavo-

ri forzati.

Si è cercato di schiacciare i campi nazionalsocialisti

su quelli inglesi ed ispano-coloniali, supposti modelli, ma

è questa una falsa opinione perché i secondi vennero uti-

lizzati nel contesto di guerre coloniali, furono ‘campi per

ostaggi’, mentre i primi furono creati in tempi di pace e

all’interno del territorio nazionale allo scopo di segregar-

vi gli avversari ideologici, con un eccessivo zelo per di-

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stogliere l’attenzione da quanto stava accadendo. Per

l’esperienza sovietica, si è utilizzato l’acronimo gulag

(Glavnoye upravleniye lagerej) che sta per «Amministra-

zione generale dei campi di lavoro», meglio noti come

«campi di concentramento», generando qualche confusio-

ne concettuale.

«Specialmente nel regime staliniano, i cui campi

di concentramento erano per lo più descritti come cam-

pi di lavoro coatto perché la burocrazia aveva voluto

nobilitarli con tale nome, era chiaro che non si trattava

di questo; il lavoro coatto era la condizione normale

di tutti i lavoratori russi, che non avevano libertà di

spostamento e ad ogni istante potevano essere arbitra-

riamente mobilitati per l’invio in qualsiasi luogo».134

L’inserimento dei campi di concentramento nella

società sovietica veniva “giustificato” negli anni ven-

ti come conseguenza della pianificazione generale del-

l’economia.

134Andrzej J. Kaminski, I campi di concentramento dal 1986 ad oggi.Storia, funzioni, tipologia. Torino, Bollati Boringhieri, 1997.

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Il dubbio sull’opportunità di parlare di “campi di

concentramento” o meno nell’ Unione Sovietica na-

sce dal fatto che la maggioranza dei detenuti veniva

deportata - ricordiamo che i campi sovietici sono stati

aboliti da M. S. Gorbacev- per un periodo stabilito in

base ad una sorta di sentenza che richiamava talune

leggi penali, e, quindi, da una prospettiva giuridico-

formale i gulag dovrebbero essere equiparati non già

ai campi di concentramento, bensì ai “campi di puni-

zione” nazionalsocialisti.

Un aspetto significativo dei campi di concentra-

mento sovietico consisterebbe nella legalizzazione

dell’arbitrario.

Gunther Specovius sostiene che «a differenza del-

lo Stato nazionalsocialista, l’Unione sovietica cono-

sce “soltanto” campi di punizione o le odierne colonie

di lavoro correzionale, per i quali è prevista una con-

danna a tempo determinato, mentre la condanna a cam-

pi di concentramento, come quelli istituiti dai nazisti,

prevedeva la detenzione a tempo indeterminato.

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Le condanne a vita erano e sono estranee al dirit-

to penale sovietico».135

Si sa, tuttavia, che soprattutto durante il periodo

delle purghe staliniane, i processi e le pene detentive

sono state delle farse e che i campi sono stati strumen-

ti arbitrari della polizia finalizzati alla conservazione

di un potere politico totalitario. In particolare, nella

realizzazione unitaria di una società senza divisioni

interne, compatta, interamente votata ad uno scopo

comune attraverso le varie attività, attenta, quindi, ad

eliminare i parassiti, gli elementi nocivi ed i rifiuti, si

poteva essere condannati in base all’ art. 58 del Codi-

ce penale, consistente, nel capitolo dei «delitti contro

lo Stato», di 14 punti in cui si viene dichiarati «nemi-

co del popolo». Si trattava di un autentico minestrone

perché era molto semplice affossare un uomo, soprat-

tutto per due punti, talmente vaghi da poter essere ap-

plicati a chiunque, il punto 10: propaganda antirivo-

135Ibidem.

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luzionaria, ribattezzata antisovietica; e il punto 12:

mancata delazione.

La delazione è uno degli strumenti in uso del to-

talitarismo, necessaria per creare quella fitta trama di

sospetto che rende il popolo nemico di se stesso, così

come la tortura e la presenza e l’attività della polizia

segreta, interamente alla mercé di chi detiene il pote-

re. Si tratta, tuttavia, di caratteri comuni anche a for-

me di governo autoritari, non rappresentano caratteri

distintivi del totalitarismo quanto il terrore e l’istitu-

zione dei campi di concentramento.

La domanda inquietante è: in questo spazio, che

non è esterno, eppure è posto fuori dell’ordinamento

giuridico riconosciuto -il campo di concentramento è

escluso ed incluso nello stesso tempo nel territorio

nazionale-, quale diritto, quale norma è riconosciuta?

Dovremmo identificare il campo come quello stato

di eccezione di cui parla Schmitt, in cui la norma è

sospesa e la decisione, in virtù dell’articolo 48 della

Costituzione di Weimar, è solo del capo dello Stato.

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Dovremmo, anzi, sostenere che lo stato di ecce-

zione è ‘voluto’, cioè per esso «il sovrano non si limi-

ta più a decidere sull’eccezione, com’era nello spirito

della costituzione di Weimar, sulla base del riconosci-

mento di una data situazione fattizia (il pericolo della

sicurezza pubblica): esibendo a nudo l’intima struttu-

ra di bando che caratterizza il suo potere, egli produce

ora la situazione di fatto come conseguenza della de-

cisione sull’eccezione».136 E dovremmo aggiungere

che nella parvenza di un diritto totalitario viene ma-

scherato il disordine, il caos, la violenza, anche la

mancanza di un conflitto in quanto si nega la diversi-

tà, l’esistenza dell’altro.

Colui che viene messo al bando non solo è messo

al di fuori della legge ed è indifferente a questa, ma è

abbandonato da essa, è esposto ad una soglia dove

vita e diritto, esterno ed interno si confondono.

«Il sistema dei campi era un mondo in cui non

136 G. Agamben, Homo Sacer, Torino, Einaudi, 1995.

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valevano le regole e i costumi morali che reggevano

la “normale” società tedesca. In quel nuovo mondo il

tedesco o la tedesca nazisti potevano trattare i tede-

schi così come pareva loro giusto, in base alla conce-

zione ideologica che avevano delle vittime, e ai più

bassi e profondi impulsi personali. Il nazismo, nel

mondo dei campi, lasciava loro mano libera».137

Del resto se partiamo dal presupposto che l’inter-

nato vive «una vita indegna di essere vissuta», è chia-

ro che ciò che il totalitarismo tende a creare è una so-

cietà di morti viventi, interamente piegati, liquidati di

137 D. J. Goldhagen, I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni el’Olocausto, Milano, Mondadori, 1997. Lo storico ebreo, contrariamen-te alla maggior parte delle ricerche sull’Olocausto, sostiene l’idea dellaresponsabilità individuale dei tedeschi: «è l’opposto della colpevolezzacollettiva». In questo modo, passando da un’imputazione collettiva emorale ad una personale, si eviterebbe la difficoltà implicita nel proces-sare e nel condannare i criminali nazisti, la trasferibilità sul piano giudi-ziario. La Arendt non sarebbe d’accordo perché verrebbe meno un ca-rattere del totalitarismo, la negazione di ogni filtro tra responsabilitàindividuale e responsabilità collettiva. In un sistema totalitario, «colpe-volezza e innocenza diventano concetti senza senso» cosicchè «ci sonocrimini che gli uomini non possono né punire né perdonare», in H. Aren-dt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 628.

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ogni carattere umano, incapaci soprattutto di opporsi.

La Arendt li eguaglia al cane di Pavlov che è «l’esem-

plare umano ridotto alle reazioni più elementari, elimina-

bile o sostituibile in qualsiasi momento con altri fasci di

reazioni che si comportano in modo identico, è il cittadino

modello di uno stato totalitario, un cittadino che può esse-

re prodotto solo imperfettamente fuori dei campi».138

E’ solo in questo senso che può realizzarsi quell’ide-

ale -che ogni buon senso ritiene un’utopia irrealizzabile-

di società totalitaria, in cui è possibile impadronirsi inte-

ramente dell’uomo per trasformarlo in cittadino modello.

La «fabbricazione massiva e demenziale di cadave-

ri» non è che l’ultimo episodio di una pièce in tre atti di cui

il titolo potrebbe essere: «la preparazione storicamente e

politicamente intelligibile dei cadaveri viventi».139

138 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 624.139 Ibidem, p. 612. E’ la «fabbricazione in massa» dei cadaveri, riflessodi un meccanismo di produzione, la peculiarità del genocidio dei regimitotalitari: la morte viene privata di ogni sacertà e l’individuo è intera-mente assoggettato al potere perché cadavere-vivente. Cfr. T. W. Ador-no, Minima moralia, Torino, Einaudi, 1997; M. Foucault, Il faut défen-dre la société, Gallimard-Seuil, Paris, 1997.

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Il primo passo avviene uccidendo il soggetto di

diritto che è nell’uomo, attraverso la snazionalizza-

zione e ponendo il Lager al di fuori del sistema penale

ordinario; poi si procede attraverso l’uccisione della

personalità giuridica; infine, con la soppressione della

personalità morale, trionfo dell’ideologia totalitaria,

per cui la coscienza non è più sufficiente e decidere

cosa sia bene e cosa sia male è come valutare assassi-

nio e assassinio.

«Chi potrebbe risolvere il dilemma morale della

madre greca a cui i nazisti concessero di scegliere quale

dei suoi tre figli doveva essere ucciso?».140

Al fine di trasformare gli uomini in morti viventi,

l’atto conclusivo era l’annientamento della loro peculia-

re identità, la soppressione di quella spontanea unicità

«la quale è foggiata in parti uguali dalla natura, dalla vo-

lontà e dal destino, ed è diventata una premessa così evi-

dente che persino gemelli identici ispirano un certo disa-

140Ibidem, p. 619.

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gio, suscita un orrore che mette in ombra lo sdegno della

persona giuridico-politica e la disperazione della perso-

na morale. E’ questo orrore che dà luogo alle generaliz-

zazioni nichilistiche, le quali sostengono, abbastanza plau-

sibilmente, che in fondo tutti gli uomini indistintamente

sono bestie. In verità, l’esperienza dei campi di concen-

tramento dimostra che gli uomini possono essere trasfor-

mati in esemplari dell’animale umano, e che la natura è

umana soltanto nella misura in cui schiude all’uomo la

possibilità di diventare qualcosa di estremamente innatu-

rale, cioè un uomo».141

Se nel campo criminali e politici potevano ancora

rivendicare un brandello di capacità di riconoscimento

di se stessi e dei propri simili, «un ultimo autentico re-

siduo della loro personalita giuridica»142 in quanto ap-

partenevano ad una precisa categoria, avevano fatto

qualcosa, coloro che venivano del tutto annientati era-

no gli ‘innocenti’, vittime confuse di arresti arbitrari.

141 Ibidem, pp. 623-624.142 Ibidem, p. 616.

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La Arendt ha osservato che l’arresto arbitrario

come pratica terroristica e strumento ideologico «di-

strugge la validità del libero consenso come la tortura

distrugge la possibilità dell’opposizione».143

L’arbitrarietà nella selezione del «nemico oggettivo»

è la linfa del sistema concentrazionario. Poiché il fine era

di avere una popolazione dei campi composta da innocen-

ti, esso veniva a negare la libertà umana più efficacemente

che qualsiasi tirannide. In una tirannide, infatti, bisognava

essere un avversario per essere punito, essere all’opposi-

zione e osare la libertà di opinione. Teoricamente, anche

in un regime totalitario si poteva scegliere di stare all’op-

posizione, ma siffatta libertà cessava nel momento in cui

si profilava la possibilità di appartenere a quella moltitu-

dine scelta arbitrariamente perché ideologicamente inde-

siderabile per il regime.

«La libertà in questo sistema non solo è ridotta alla

sua ultima garanzia, palesemente indistruttibile, la possi-

143 Ibidem, p. 617.

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bilità del suicidio, ma ha anche perso il suo carattere di-

stintivo, perché le conseguenze del suo esercizio sono

condivise con persone completamente innocenti».144

La spoliazione dell’individualità, inoltre, privava

l’uomo della sua stessa morte: niente più gli apparte-

neva ed egli non apparteneva più a nessuno, come se

non fosse mai esistito.

«Nei paesi totalitari le prigioni e i lager sono organiz-

zati come veri e propri antri dell’oblio in cui chiunque può

andare a finire senza lasciare neppure le usuali tracce del-

l’esistenza di una persona, un cadavere e una tomba. In

confronto di questa modernissima invenzione per elimi-

nare la gente il vecchio metodo dell’assassinio, politico o

comune, appare davvero inefficiente e primitivo.

L’assassino lascia dietro di sé un cadavere e, ben-

ché si sforzi di fare sparire le tracce della propria iden-

tità, non ha alcun potere di cancellare l’identità della

vittima dalla memoria dei viventi.

144 Ibidem, p. 592.

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L’azione della polizia segreta, al contrario, riesce mi-

racolosamente a far sì che la vittima non sia mai esistita».145

E’ l’irruzione del male radicale, quel male che la

teologia cristiana e la tradizione filosofica, in partico-

lare Kant, non ha mai potuto definire se non in negati-

vo, come deficienza dell’essere.

«Quando l’impossibile è stato reso possibile, è di-

ventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile, che

non poteva più essere compreso e spiegato con i malvagi

motivi dell’interesse egoistico dell’avidità dell’invidia, del

risentimento, della smania del potere, della vigliaccheria;

e quindi la collera non poteva vendicare, la carità soppor-

tare, l’amicizia perdonare, la legge punire».146

145 Ibidem.146 Ibidem, p. 628. Sul male radicale cfr. La banalità del male. Eichmann aGerusalemme, cit. Per un commento critico: Il male, in R. Esposito, Novepensieri sulla politica, Bologna, Il Mulino,1993; P. Amodio, Il problemadel male nella riflessione di Hannah Arendt, estratto dagli «Atti dell’Acca-demia di Scienze morali e politiche», vol. C- 1989. In particolare R. Esposi-to, associando il male con la libertà e la legge, scrive: «Il male in politica èl’autosoppressione della libertà nella forma dell’eliminazione violenta delsuo stesso presupposto. E’ per questo che è portato al livello di massimaradicalità nell’esperienza totalitaria. E tuttavia ciò non significa che coinci-

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Il male di cui parla la Arendt e che rende l’esperienza

di Auschwitz, inteso come la metafora del campo totalita-

rio, del tutto singolare, è lo strappo della nostra realtà, la

lacerazione della nostra esperienza, il trauma del nostro

pensare.

Esso è il trionfo di un «sistema in cui tutti gli uomini

sono divenuti egualmente superflui», è l’acme di quel non-

pensiero proprio dell’uomo-massa che ha eliminato ogni

possibilità di senso comune e spazio politico.147

da con essa. Diciamo che il totalitarismo è il suo esito estremo, il suo com-pimento assoluto. Ma non la sua origine. Altrimenti verrebbe meno la con-traddittoria compresenza di male e libertà. Perchè essa sia tenuta ferma ènecessario ipotizzare che quello stesso male che ha raggiunto il proprio cul-mine nel campo totalitario nasca all’infuori -e prima- di esso. Che anzi il suoseme spunti all’origine della nostra concezione della politica e sia latenteaddirittura in quell’evento che al totalitarismo paradigmaticamente si oppo-ne come la genesi medesima della libertà.147 Il problema del male rinvia a quello della responsabilità. Era possibilenon appoggiare i crimini politici legalizzati dal sistema? Sarebbe stato pos-sibile evitare la responsabilità giuridica e morale? L’accettazione di un maleminore, come taluno ha sostenuto, è discusso insieme alla tematica dellaresponsabilità dalla Arendt nel saggio pubblicato su «MicroMega», 4, 1991,pp. 185-206 dal titolo Responsabilità, ora anche in Aa. Vv., Oltre la politi-ca. Antologia del pensiero «impolitico», a cura di R. Esposito, Milano, Bru-no Mondadori, 1996.

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CAPITOLO QUARTO

IL TOTALITARISMO A CONFRONTOCON LA MODERNITÀ POLITICA

L’inizio, prima di diventare avvenimento storico,

è la suprema capacità dell’uomo;politicamente si identifica con la libertà umana.

Initio ut esset creatus est homo(affinché ci fosse un inizio fu creato l’uomo),

dice Agostino.Quest’inizio è garantito da ogni nuova nascita,

è in verità ogni uomo.(H. Arendt)

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1. Definizione del regime totalitario

Il totalitarismo è l’evento con cui necessariamen-

te e costantemente dobbiamo confrontarci per com-

prendere il nostro presente.

Non possiamo spiegare quanto è accaduto dopo

Auschwitz o Kolyma se non teniamo conto della frat-

tura che il totalitarismo, nella sua dimensione empiri-

ca, ha imposto al pensiero e all’esperienza democrati-

ca occidentale.

«Comprendere non significa negare l’atroce, de-

durre il fatto inaudito da precedenti, o spiegare i feno-

meni con analogie e affermazioni generali in cui non

si avverte più l’urto della realtà e dell’esperienza. Si-

gnifica piuttosto esaminare e portare coscientemente

il fardello che il nostro secolo ci ha posto sulle spalle,

non negarne l’esistenza, non sottomettersi supinamente

al suo peso.

Comprendere significa insomma affrontare spre-

giudicatamente, attentamente, la realtà, qualunque essa

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sia».148 E’ la riflessione, poi, che, in sede teorica, ci

consegna quell’idealtipo con cui operare la verifica,

chiudendo così il cerchio: noi partiamo dalla singola-

rità dell’evento per analizzarlo con strumenti concet-

tuali nuovi e andarlo a verificare concretamente, te-

nendo conto delle analogie e differenze, variabili che

obbligatoriamente devono rientrare nell’analisi, una

volta che il modello euristico ha individuato le grandi

direttrici.

La Arendt non sarebbe d’accordo ad una esten-

sione del totalitarismo ad altre forme che non siano i

regimi di Hitler e di Stalin. In questo è stata molto

chiara. Il totalitarismo nasce per la crisi della società

borghese, anche laddove, in Russia ad esempio, ne

arriva solo l’esperienza. Nasce per la crisi dei grandi

valori democratici; antisemitismo, imperialismo e per-

148 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. XXXIV. Vedi ancheUnderstanding and Politics, in «Partisan Rewiew», XX, IV, !953; trad.it. Comprensione e politica. in La disobbedienza civile, Milano, Giuffrè,1985.

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dita dei diritti umani ne sono gli elementi denotativi.

Nasce per la crisi dello Stato-nazione e la perdita del-

lo spazio e del pluralismo politico.

Totalitario, dunque, è quel regime che presenta i

seguenti caratteri:

· atomizzazione della società ed estraneazione degli

individui;

· movimento rivoluzionario recante una ideologica vi-

sione del mondo;

· assenza di struttura per l’intrinseca capacità di mo-

bilitazione;

· istituzionalizzazione del caos;

· terrore organizzato al fine di privare gli uomini di

ogni spontaneità;

· sistema dei lager e dei campi di concentramento.

E’ in questo senso che per la Arendt noi non pos-

siamo confondere il totalitarismo né con le dittature a

partito unico né coi regimi autoritari.

Che il totalitarismo possa nuovamente accadere,

non è possibile prevederlo aprioristicamente.

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Gli storici sono alquanto scettici, poiché concre-

tamente di esso non se ne è mai data una realizzazione

completa, né secondo un modello di società né tramite

la creazione di ‘uomo nuovo’.

Il totalitarismo, in effetti, porta con sé i germi del-

la propria autodistruzione.

E anche in questo senso la Arendt è stata profetica.

Scrive, infatti, nelle pagine conclusive de Le ori-

gini del totalitarismo: «Le soluzioni totalitarie potreb-

bero sopravvivere alla caduta dei loro regimi sotto for-

ma di tentazioni destinate a ripresentarsi ogni qual-

volta appare impossibile alleviare la miseria politica,

sociale od economica in maniera degna dell’uomo».149

Ma che senso ha parlare di tentazioni totalitarie?150

149 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 429.150 Secondo Habermas, la Arendt ha messo correttamente in evidenzal’importanza del potere comunicativo nelle strutture della sfera pubbli-ca, la cui mancanza o soppressione dà luogo ai movimenti di massa chesottendono al regime totalitario. Parlare oggi di «tentazioni totalitarie»,in un epoca post-totalitaria, dovrebbe farci pensare alla nuova forma dimassificazione imposta dai media, per i quali gli spettatori «elettronica-mente irretiti» solo apparentemente «prendono posizione», nel senso che

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Forse che esso può essere una deviazione della demo-

crazia occidentale, qualora si diano particolari contin-

genze storiche? Cos’è che viene meno?

Se il totalitarismo rappresenta l’eclissi del politi-

co nel XX sec., allora è proprio il politico che va ri-

pensato attraverso un nuovo criterio: la libertà.

Non è un caso che la Arendt sostenga che «ciò

che è andato storto è la politica».151

Se per la modernità la politica -o il politico- si è

identificata con lo Stato, se è vero che la crisi dello

Stato-nazione ha contribuito all’accadere del totalita-

rismo, se è anche vero che con esso si è dato scacco al

pensiero occidentale, di cui già era stata preconizzato

«permangono strutture che bloccano lo scambio orizzontale di sponta-nee prese di posizione (ossia l’uso delle libertà comunicative), e cheinducono gli isolati e privatizzati spettatori a collettivizzare in manierascoraggiante le loro idee». J. Habermas, Colloquio su alcuni problemi diteoria politica. Un’intervista di M. Carleheden e R. Gabriels, in «Infor-mazione filosofica», n. 28, maggio 1995, pp.21-22.151 H. Arendt, Was ist Politik?, R. Piper GmbH & Co KG, München,1993; trad. it. a cura di M. Bistolfi, Che cos’è la politica?, Milano, Edi-zioni Comunità, 1995.

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il tramonto, allora occorre operare dei distinguo nel-

l’ordine del lessico politico, creare nuovi paradigmi

con cui decifrare la complessità dell’esistente: torna-

re, quindi, alle origini dell’esperienza umana, al di fuori

di ogni incrostazione metafisica, al di là di ogni con-

fusione concettuale.

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2. Lo Stato-Leviatano di Hobbes e lo Stato

totalitario. Confronto legittimo?

In Le origini del totalitarismo, la polemica della

Arendt è non solo diretta alla grande scuola del diritto

degli anni ‘30, di cui Schmitt ne era il portavoce più

influente, ma anche ai teorici del pensiero borghese,

Hobbes e Rousseau, teorici della sovranità ovvero di

quella capacità dello Stato di essere un unico centro di

potere e il soggetto esclusivo della politica.

Il monismo statuale, inteso come reductio ad unum

della pluralità dell’azione umana, è uno dei caratteri

della modernità che ha contribuito alla formazione della

mentalità totalitaria. Con ciò, tuttavia, la Arendt non

vuol sostenere che Hobbes o Rousseau siano i padri

del totalitarismo.

Scrive la Arendt che Hobbes è l’unico grande fi-

losofo della borghesia perché la sua concezione del-

l’individuo è «un ritratto quasi completo, non dell’Uo-

mo in quanto tale, ma dell’uomo borghese, un analisi

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che in trecento anni non ha perso d’attualità né è stata

superata».152

L’uomo borghese è una funzione della società e

la volontà di potenza è la sua passione fondamentale.

La relazione tra gli uomini che dovrebbe fondare il

corpo politico è, secondo la visione che la Arendt ha

della teoria politica hobbesiana, connessa esclusiva-

mente all’interesse privato, senza, quindi, vincoli per-

manenti, né responsabilità e solidarietà.

In Hobbes l’uomo è sempre solo, le sue azioni

hanno carattere privato e lo stesso Commonwealth,

basato sulla delegazione dei poteri, in realtà, qualora

venissero meno i presupposti del patto, manifesta la

sua fragilità perché, non essendovi una comunità ge-

nuina, ognuno proteggerebbe se stesso. «Il “Com-

monwealth” di Hobbes è una struttura vacillante che

deve procurarsi sempre nuovi puntelli dall’esterno;

152 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, op. cit., p. 196. Th. Hobbes,Leviatano, Roma-Bari, Laterza, 1989. Per una lettura del pensiero hobbe-siano: G. Borrelli, Ragion di Stato e Leviatano, Bologna, Il Mulino, 1993.

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altrimenti precipiterebbe di colpo nell’insensato assur-

do caos degli interessi privati da cui è scaturito».153

Il privato, il sociale, si è confuso con la sfera pub-

blica; il potere e la necessità hanno avuto il monopo-

lio sui diritti e la libertà.

Lo Stato-Leviatano di Hobbes precorre sul piano

ideale lo stato totalitario?

Sarebbe impossibile non pensarlo se tenessimo

solo conto dell’incisione a mo’ di frontespizio dell’ope-

ra hobbesiana: questo ‘sovrano’ mostruosamente gran-

de che sovrasta il mondo reggendo la spada e il pasto-

rale, simboli del potere temporale e religioso, il cui

corpo è formato da tanti minuscoli sudditi, i ‘molti’,

da cui esso prende vita e potere.

La Arendt mette in evidenza come la concezione uni-

taria dello Stato in Hobbes ha sacrificato la pluralità e ha

distrutto lo spazio politico: l’unità si è realizzata nel ‘do-

minio’. E il dominio distrugge lo spazio politico.

153 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 198.

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La ragion d’essere dello Stato hobbesiano è nel

bisogno di sicurezza dell’individuo che si sente mi-

nacciato dai suoi simili e l’uguaglianza tra i sudditi

non è l’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla

legge perché hanno uguali diritti e uguale dignità,

bensì è un’uguaglianza che poggia le sue fragili basi

sulla concezione della forza nella lotta per il potere.

L’interesse privato, dunque, è il bene comune, il po-

tere è la forza e ad una accumulazione illimitata di

beni corrisponde un’accumulazione illimitata di po-

tere: da qui l’intrinseca instabilità del Commonwe-

alth, basato, appunto, su una delegazione di potere

piuttosto che di diritti.

La versione verticale del potere che si trova in

Hobbes, in virtù del patto di soggezione, comporta

che ciascun individuo dia il suo consenso «ad essere

sottoposto ad un governo, il cui potere consiste nella

somma totale delle forze che tutti i singoli individui

hanno incanalato in esso, e che vengono monopoliz-

zate dal governo per il preteso beneficio di tutti i

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sudditi».154 L’azione dei pattuenti, cioè, è vincolata

alla rinuncia di uno spazio politico, quindi all’azione

interrelata, e ciò che ne deriva è l’isolamento, l’ato-

mizzazione degli individui. «L’azione -dice la Aren-

dt- non è mai possibile nell’isolamento; essere isolati

significa essere privati della facoltà di agire».155

Più che come autore di una possibile Weltaschau-

ung totalitaria, tuttavia, per la Arendt, Hobbes contri-

buisce a quella ideologia ‘progressista’ del tardo XIX

sec. che preannuncia l’ascesa dell’imperialismo.

Lo stessa critica, potremmo dire, traspare nella

valutazione della volontà generale in Rousseau, che

pure è considerato padre dei giacobini e teorico della

democrazia diretta. La Arendt mette in evidenza che

anch’egli opera quella reductio ad unum dello Stato

che azzera il pluralismo come singolare capacità

154 H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit. L’opera, pubblicata dalla Arendtnel 1963, è stata riedita nel 1965 con alcune «piccole ma importantimodifiche».155 H. Arendt, The Human Condition, Chicago, The University of Chi-cago Press, 1959; trad. it. Vita Activa, Milano, Bompiani, 1964, p. 137.

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d’azione degli individui e fa coincidere la volontà ge-

nerale con la sovranità unica e indivisibile.

Secondo la Arendt la sovranità non può essere

confusa con l’autorità.

Tale identificazione darebbe luogo a deviazioni

dittatoriali perché da una stessa matrice,

sovranità=autorità, deriverebbero il potere e l’autori-

tà, la legalità e la legittimità, istanze che, invece, do-

vrebbero restare separate per il corretto funzionamen-

to delle istituzioni democratiche.

Ciò che ha a cuore la Arendt, in effetti, è capire come

sia possibile che le democrazie possano deviare in dittatu-

re e totalitarismo, se sono già in esse i germi di questa

devianza e quale è la condizione ottimale, se esiste, per-

ché questa deviazione verso il terrore o verso il dominio

totalitario di una maggioranza non accada.

Il suo approccio ermeneutico consiste nello stu-

diare l’origine delle democrazie moderne, la fonda-

zione di queste come fondazione del nuovo, la crea-

zione, nel senso romano del termine, di una tradizione

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e di una autorità. Ella si pone, cioè, questo interrogati-

vo: è stata possibile la fondazione di un nuovo corpo

politico in cui ogni singolo ha potuto partecipare alla

vita politica? E come? Cosa ha significato fondare un

corpo politico sulla libertà? Che cosa è storicamente

avvenuto?

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3. L’inedito nella storia: le rivoluzioni.

‘Liberazione da’ o ‘libertà di’:

qual è il fondamento del nuovo corpo politico?

La politica come natalità.

La Arendt individua nella rivoluzione il momen-

to in cui è possibile l’affermazione, nell’età moderna,

di una politica autentica, intendendo per ‘età moder-

na’ quel periodo di tempo in cui sembra che l’azione

politica progressivamente vada scomparendo fino ad

estinguersi del tutto con il totalitarismo.

La rivoluzione, anzi la storia delle rivoluzioni, quella

americana del 1776, quella francese del 1789, infine quel-

la ungherese del 1956, diventano, quindi, la chiave inter-

pretativa dei fenomeni storici moderni.156

156 Alcune critiche sono state mosse a riguardo: 1) Habermas sostieneche la Arendt abbia distinto e contrapposto una ‘buona’ ed una ‘cattiva’rivoluzione, l’una politica, la rivoluzione americana, l’altra sociale, quellafrancese. Si potrebbe obiettare che la Arendt comunque sottolinea che larivoluzione americana fallisce nei suoi effetti perché i cittadini poi in-tendono la libertà come libertà della sfera privata contro il mondo poli-tico. 2) Lo storico Hobsbawm ritiene che la Arendt avrebbe dovuto te-

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Che cosa s’intende per rivoluzione?157

La Arendt cerca di recuperare il significato au-

tentico della nozione in relazione con i concetti di li-

bertà e potere, anch’essi sclerotizzati da schemi e teo-

nere in debito conto anche la prima rivoluzione inglese. Questo non èpossibile perché la Arendt è stata molto più attenta a quelle rivoluzioniche sul piano delle istituzioni hanno dato luogo a delle reali modifiche:la rivoluzione dei livellatori è stata una rivoluzione mancata, sebbeneabbia aperto la strada alla monarchia costituzionale. 3) Per Nisbet laArendt ha minimizzato la questione sociale presente in America. Questaobiezione non tiene conto, tuttavia, che non c’era la stessa pressione sulgoverno americano come dei sanculotti sui giacobini, né le stesse ver-tenze economiche.157 «La rivoluzione è il tentativo accompagnato dall’uso della violenzadi rovesciare le autorità politiche esistenti e di sostituirle al fine di effet-tuare profondi mutamenti nei rapporti politici, nell’ordinamento giuri-dico-costituzionale e nella sfera socio-economica. (...) La necessità del-l’impiego della violenza come elemento costitutivo di una rivoluzionepuò essere teorizzato in astratto, ma senza fondamenta storiche, rilevan-do come le classi dirigenti non cedano il loro potere spontaneamente esenza opporre resistenza e come quindi i rivoluzionari siano costretti astrapparlo loro con la forza, e sottolineando inoltre che i mutamenti in-trodotti dalla rivoluzione non possono essere accettati pacificamente,poiché significano perdita di potere, status e ricchezza per tutte le classicolpite. (...) ...in taluni casi le rivoluzioni sono forzature della storia,forse inevitabili ma pur sempre forzature». G. Pasquino, Rivoluzione, inN. Bobbio, N. Metteucci, G. Pasquino, Dizionario di politica, op. cit.

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rie reciprocamente escludentisi. Ella sostiene che non

esiste il mito della violenza rivoluzionaria creatrice,

né che la rivoluzione vada interpretata come una ‘fi-

gura’ del progressivo avanzare dello spirito assoluto

oppure come lo sbocco necessitato delle contraddizioni

economico-sociali.

Lontano dalla prospettiva hegeliana e marxista,

la Arendt opera un distinguo tra libertà e liberazione:

«la liberazione può essere una condizione della liber-

tà, ma è assolutamente da escludere che vi conduca

automaticamente; (...) il concetto di libertà implicito

nella liberazione può essere solo negativo, e quindi

l’intenzione di liberare non si identifica col desiderio

di libertà».158

La libertà non può essere ‘liberazione da’ così come

l’evento rivoluzionario non può essere necessitato o de-

terminato da forze storiche. Esso, anzi, si sostanzia della

libertà che è ciò che appare nella relazione plurale tra gli

158 H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit.

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uomini che partecipano alla vita pubblica, è capacità cora-

le di dare vita e partecipare al nuovo assetto politico.

Libertà non è necessità né atto di volontà.

La rivoluzione, dice la Arendt, «si decide da sola»,

sulla base di fatti ed avvenimenti per i quali gli uomini

sono attori-spettatori e non autori.

Vicina alla teoria di Rosa Luxemburg, ella ritiene

che «una buona organizzazione dell’azione rivoluzio-

naria può e deve essere appresa nel corso stesso della

rivoluzione, allo stesso modo in cui si impara a nuota-

re soltanto nell’acqua. (...) Le rivoluzioni non sono

“fatte” da nessuno, ma erompono spontaneamente».159

Le rivoluzioni sono gli eventi che irrompono nel-

la routine della storia e ne cambiano il volto; sono atti

inaugurali di un nuovo inizio, la cui conoscenza, da

parte dei protagonisti, emerge solo «dopo che essi erano

giunti, in gran parte contro la loro volontà, ad un pun-

to da cui non si poteva tornare più indietro».160

159 Ibidem.160 Ibidem.

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Il termine rivoluzione venne mutuato dall’astro-

nomia e solo nel 1660 venne utilizzato per designare

un cambiamento politico, la restaurazione della mo-

narchia in Inghilterra.

La rivoluzione era essenzialmente ‘rivoluzione

conservatrice’.

Chi era entrato nel gioco rivoluzionario credeva di

poter restaurare un antico ordine di cose, cose appartenen-

ti al passato, e, solo nel corso stesso della rivoluzione, si

rese conto che ciò era impossibile. Si trattava di una im-

presa totalmente nuova, una novità assoluta.

«Ciò che essi avevano concepito come una restau-

razione, un recupero delle loro antiche libertà, diven-

ne invece una rivoluzione».

Gli uomini della rivoluzione si resero conto solo

dopo che avevano la possibilità non già di ripristinare

una tradizione consumata bensì creare un nuovo ordi-

ne politico, la repubblica, un novus ordo saeclorum.

E’ questo il significato autentico di rivoluzione,

la cui idea centrale «è l’instaurazione della libertà, os-

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sia la fondazione di uno stato che garantisca lo spazio

in cui la libertà può manifestarsi».161

L’analisi comparativistica delle due importanti ri-

voluzioni dell’età moderna, quella americana e quella

francese, pur presentando delle limitazioni, tenta un

discorso che non si riduca all’astrattezza, che resti, cioè,

puramente teorico, anche se per gli specialisti questo

è un aspetto spesso insoddisfacente.

Il disegno della Arendt è seguire la tradizione de-

mocratica per raccontarne la fondazione e capire come

mai la tradizione filosofica, sia da Hobbes a Schmitt

che da Rousseau agli eredi dei giacobini, non è riusci-

ta ad impedire il totalitarismo.

«In termini generali possiamo dire che nessuna

rivoluzione è addirittura possibile là dove l’autorità

dello Stato è veramente intatta (...). Le rivoluzioni

sembrano sempre riuscire con straordinaria facilità

nella loro fase iniziale e la ragione è che i loro arte-

161 Ibidem.

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fici all’inizio non fanno che strappare il potere ad un

regime in piena disgregazione.

Sono insomma la conseguenza non la causa del

crollo dell’autorità politica».162

Dovremmo pensare che l’avvento del nazional-

socialismo è stato conseguenza della crisi della Re-

pubblica di Weimar: la vulnerabilità delle istituzioni

e il malcontento sociale hanno favorito il partito na-

zionalsocialista e la violenza adottata per giustifica-

re la trasformazione radicale del ‘vecchio ordine’.

La presa di potere di Hitler in Germania era sa-

lutata dai nazionalsocialisti come «rivoluzione na-

zionale»163 : in realtà, sebbene «nei primi anni del loro

162 Ibidem.163Cfr. Bracher, che sostiene «Propagandisti, politici e giuristi nazionalso-cialisti fin da principio si preoccuparono particolarmente di sottolineare cheil governo hitleriano avrebbe significato l’inizio di una rivoluzione, di unprofondo mutamento di tutte le cose, ma che si trattava di un processo lega-le, svolgentesi nell’ambito del diritto e della costituzione. Mediante il con-cetto paradossale di rivoluzione legale vennero uniti artificiosamente dueassiomi della azione politica che si contraddicevano reciprocamente». K. D.Bracher, La dittatura tedesca. Origini, strutture, conseguenze del nazional-

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regime i nazisti riversarono sul paese una valanga di

leggi e decreti»,164 non venne mai abrogata la carta

costituzionale di Weimar, tant’è che essa era formal-

mente in vigore ancora al momento della dissoluzio-

ne della Germania e della morte del Führer.

La rivoluzione in quanto tale non può non condur-

re, secondo l’accezione arendtiana, ad una nuova co-

stituzione, segno tangibile della fondazione del nuovo

corpo politico.165

Nonostante la dichiarazione di voler attuare una

socialismo, Bologna, Il Mulino, 1973. Anche Nolte scrive che in Germania«si compì una rivoluzione senza alcuna violazione rivoluzionaria della le-galità vigente (e insieme senz’ombra di rispetto per essa) ». E. Nolte, I trevolti del fascismo, Milano, Mondadori, 1971.164 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit. , p. 541.165 La costituzione è la struttura stessa di una comunità politica organiz-zata. L’esigenza di una costituzione scritta fu per la prima volta avvertitain Inghilterra durante il periodo delle guerre civili, sebbene questa re-stasse poi fedele alla costituzione consuetudinaria. La prima costituzio-ne scritta fu quella della Virginia nel 1776, a cui seguirono altri statiamericani, fino a che, nel 1788, venne portato a termine il processo co-stituente con la ratifica, da parte della maggioranza degli stati, della co-stituzione degli Stati Uniti d’America, stesa alla Convenzione di Fila-delfia, costituzione da allora ancora vigente.

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«rivoluzione permanente»,166 con il nazionalsociali-

smo, invece, non si è avuto alcun ammodernamento

delle istituzioni.

In America, invece, con la rivoluzione del 1776,

era accaduto proprio il contrario.

La rivoluzione americana aveva avuto il pregio di

mettere in evidenza la possibilità dell’agire politico

autentico: nel nuovo mondo, il patto sottoscritto l’11

novembre del 1620 sul Mayflower dai Padri Fondato-

ri aveva coniugato potere politico e libertà, felicità e

vita pubblica grazie ad una nuova concezione del po-

litico come «pratica di libertà». «Ciò che in realtà fece

la rivoluzione americana fu di portare alla ribalta la

nuova esperienza ed il nuovo concetto di potere ame-

ricano. Come la prosperità e l’uguaglianza di condi-

zioni questo nuovo potere era più antico della rivolu-

166 La nozione di ‘rivoluzione permanente’ rinvia al carattere di movi-mento incessante, di mobilitazione che doveva impedire la stabilità delgoverno. Per questo l’hitlerismo mette in atto una selezione razziale in-cessante affinché si prevenga l’anchilosi del Volk, mentre lo stalinismoattua una lunga serie di epurazioni e trasferimenti della popolazione.

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zione, ma non sarebbe sopravvissuto senza la fonda-

zione di un organismo politico, destinato esplicitamen-

te a difenderlo e a conservarlo; senza rivoluzione, in

altre parole, quel nuovo principio di potere sarebbe

rimasto nascosto».167

Diversamente era stato per la rivoluzione france-

se, il cui esito fu fallimentare, da una parte perché si

rivelò più astratta, progettata da intellettuali interessa-

ti ad elaborare idee e teorie piuttosto che pratica poli-

tica, dall’altra per l’emergenza della questione socia-

le, per cui la libertà veniva ad identificarsi con la libe-

razione dal bisogno.

Non la libertà pubblica era lo scopo dei rivoluzio-

nari, bensì il benessere del popolo.

In concreto, «quando si scatenò questa forza, quan-

do ognuno fu convinto che solo l’interesse nudo e il

167 H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit. Peraltro, il patto dei Padri Pellegri-ni, che erano giunti sulle desolate spiagge di Cape Cod, servì a fondarela comunità politica di Plymouth: fu il punto di avvio di altrettanti cove-nants ed agreements da cui, nel New England, nacquero numerose co-munità.

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bisogno erano senza ipocrisia, i malheureux si cam-

biarono in enragés, perché la rabbia è in realtà l’unica

forma in cui la miseria può diventare attiva».168

Per la Arendt viene a confondersi ciò che è neces-

sariamente legato alla natura dell’uomo e ciò che gli

conferisce identità e dignità, poiché con la rivoluzio-

ne francese la politica viene subordinata alla questio-

ne sociale, ergo all’economico.

Tale confusione è particolarmente evidente nella

nozione di popolo.

«La definizione stessa del termine era nata dalla

compassione e la parola divenne sinonimo di sfortuna

e infelicità -le peuple, les malheurex m’applaudissent,

soleva dire Robespierre; le peuple toujours malheu-

rex, come si esprimeva perfino Sieyès, una delle figu-

re meno sentimentali e più lucide della Rivoluzione».169

Il termine popolo rinvia tanto al soggetto politico

costitutivo quanto alla classe che di fatto é esclusa dalla

168 H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit.169 Ibidem.

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politica. Sia nell’italiano popolo che nel francese peu-

ple o lo spagnolo pueblo, con i connessi aggettivi, è

presente questa ambiguità semantica; lo stesso per l’in-

glese people, che conserva, anzi, un ordinary people

in opposizione alla nobiltà.170

Popolo e popolo, quindi, una frattura che ha de-

viato l’azione politica in Europa fin dalla Rivoluzione

francese.

In Le origini del totalitarismo, la Arendt aveva

rimarcato che nel momento in cui il popolo tedesco si

era riconosciuto nella razza ariana era Volks per il di-

ritto, corpo politico integrale, e sanciva così l’esclu-

170 «Nella costituzione americana si legge, senza distinzioni di sorta,“We, the people of the United States...”; ma quando Lincoln, nel discor-so di Gettisburgh, invoca un “Governement of the people by the peoplefor the people”, la ripetizione contrappone implicitamente al primo po-polo un altro», da G. Agamben, Mezzi senza fini, op. cit., p.30. L’abateSieyès, autore del famoso Qu’est-ce que le Tiers Etat? (1789) avevaparlato della ‘nazione’ come se intendesse l’intero popolo francese. Inrealtà il riferimento era per la borghesia: la ‘nazione’ borghese era un’uni-tà compatta esprimente non l’empirica volontà generale, bensì l’assolu-ta volontà generale per cui si condannavano i partiti e le fazioni. Anchein questo caso il termine popolo risulta equivoco.

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sione dai diritti il cittadinanza degli ebrei e di quanti

identificava con la categoria di «nemico oggettivo».171

Una legge di natura, dunque, aveva finito per per-

meare il diritto rendendo ancor più catastrofica la frat-

tura Popolo e popolo.

L’equivoco, dunque, che compromise il buon esi-

to della rivoluzione francese fu il voler «emancipare

la natura», voler porre una soluzione ai bisogni natu-

rali: «La necessità invase così il campo del politico,

l’unico in cui gli uomini possono essere liberi».172

In America esistevano delle precondizioni, la relati-

va eguaglianza e la mancanza di una radicale questione

sociale, le quali permisero che il sociale, il privato, non

inficiasse la politica. La felicità era ‘felicità pubblica’, il

consenso era ‘scambio di opinioni tra eguali’, la sovranità

del popolo non era concezione assoluta.

171 Con la ‘soluzione finale’, i nazisti tentarono di eliminare dalla scenapolitica gli ‘indesiderabili’, compito che essi ostinatamente andavanoad assolvere anche per gli altri popoli europei.172 H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit.

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La pratica politica del Mayflower Compact, mai

interrotta dalla posterità dei Padri Fondatori, aveva

portato in risalto che la capacità umana di costituire il

mondo avrebbe di per sé garantito e tutelato gli uomi-

ni dalle pulsioni naturali.

Nessun ricorso, quindi, a finzioni circa la natura

dell’uomo, come volevano le classiche teorie contrat-

tualistiche, né alcun ricorso all’Assoluto - Robespierre

aveva reclamato l’ «Essere Supremo» come garanzia

della stabilità della repubblica laddove nel contesto re-

ligioso, tipicamente europeo, si faceva ancora appello

al «Dio Onnipotente» che aveva dotato gli uomini di

«diritti inalienabili».

La rivoluzione francese non aveva fatto altro che

sostituire la volontà del popolo, che si rivela come

dispotismo della maggioranza, sul dominio dell’uomo

sull’uomo e riconoscere la sottomissione dell’uomo

alla legge divina o morale, mantenendo ben ferma la

confusione tra potere e dominio.

E per la Arendt il dominio è una interpretazione

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falsificata e falsificante del potere.173 Non solo. Il buon

esito della rivoluzione francese sarebbe stato deviato

dal terrore.

La considerazione che il terrore sia lo strumento

che permetta la conservazione del potere e che la vio-

lenza sia necessaria per la creazione di un corpo po-

litico viene confutata dalla Arendt facendo riferimen-

to al racconto di Melville, Billy Budd, e all’episodio

del Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov di Do-

stoevskij.

Ella si serve di queste due opere letterarie per

mostrare come, nella storia, chiunque, sia esso popo-

lo, classe o individuo, si ponga come depositario del

bene assoluto risponda poi con la violenza all’ingiu-

stizia. Non esiste nessuna violenza necessaria, anzi essa

testimonia di un vuoto del diritto e, quindi, di un vuo-

173 Illuminante è il saggio di P. Ricoeur «Pouvoir et violence», in Politi-que et pensée. Colloque Hannah Arendt, Éditions Payot & Rivages, Pa-ris, 1996. Questa raccolta di saggi è apparsa per la prima volta con iltitolo Ontologie et politique. Hannah Arendt, presso le edizioni Tierce,1989.

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to della giustizia. Lo stesso deve dirsi per il terrore

totalitario.

Durante la rivoluzione, in Francia, la compassione

dei miserabili si era impadronita degli animi più elevati e

li aveva spinti ad azioni non pertinenti alla politica. Il loro

obiettivo divenne lo smascheramento dell’ipocrisia, del-

l’inganno sociale, in un tempo, quello della monarchia as-

soluta, in cui facilmente si violavano i giuramenti e si pas-

sava all’intrigo. Già per Rousseau il male principale della

società era l’ipocrisia, cioè la mancanza di promesse, non

mantenute dal potere centrale, verso il popolo. Se per So-

crate l’ipocrita era il falso testimone di se stesso, il peggio-

re degli uomini quindi, per Machiavelli, con cui la Arendt

è d’accordo, l’ipocrita è colui che appare quale vuole es-

sere stimato.174

174 Simulazione e dissimulazione sono termini chiave per il discorso sulpolitico. Simulazione è mostrare di essere ciò che non si è ed ha unospettro di comportamenti ben più ampio, in campo politico, della dissi-mulazione, che, in quanto è nascondere ciò che si è realmente, si limitaalla sola sfera dell’inganno più o meno cosciente. cfr. N. Machiavelli, IlPrincipe, Milano, Feltrinelli, 1995.

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Nel campo delle relazioni umane, infatti, là dove c’è

apparenza di virtù, ci sono anche gli effetti della virtù e

poco importa se qualcosa di imperscrutabile vi si nasconda.

La deviazione verso il terrore per la rivoluzione fran-

cese deriva dal fatto che elementi moralistici erano, come

la compassione e lo smascheramento dell’ipocrisia erano

entrati nella pratica politica, scatenando furori e annullan-

do il regno del diritto che garantisce e tutela tutti.

Lo stesso Robespierre, che pretendeva di essere il

depositario della virtù, era diventato l’uomo del terro-

re. Nel clima di sospetto che circondava i rivoluziona-

ri, chiunque poteva essere sospettato di ipocrisia e di

essere nemico del popolo.

La Arendt, per questo motivo, sostiene la teoria

di Montesquieu,175 che, peraltro, contrappone a Rous-

175 Montesquieu, fedele all’antica iurisdictio, teneva soprattutto all’in-dipendenza della funzione giudiziaria dal politico e al governo misto,visto in funzione dei checs and balances, dei pesi e dei contrappesi perrealizzare un equilibrio costituzionale. Era, dunque, necessaria la sepa-razione di «questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire lerisoluzioni pubbliche e quello di punire i delitti o giudicare le controver-sie dei privati».

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seau. Secondo l’autore dell’ Esprit des lois la virtù non

è un assoluto, deve essere moderata e non deve entra-

re nella politica. Il teorico del costituzionalismo rite-

neva che la garanzia della pluralità risiedeva nella ri-

partizione del potere, in modo tale da mediare le ten-

sioni e i rapporti di forza.

Riproporre Montesquieu e il contrattualismo an-

glosassone come riflessione sul patto e sulle istituzio-

ni realmente esistenti, conduce la Arendt a riflettere

anche sulle modalità della rappresentanza.

La pluralità non può essere rappresentata, innan-

zitutto perché è l’unicità degli esseri che la esclude,

poi perché il concetto di rappresentanza implica l’as-

senza dei rappresentati, quindi la spoliticizzazione della

politica. La rappresentanza si definisce, dunque, come

rapporto di dominio di alcuni uomini su altri, come

organizzazione della forza dei governanti, come di-

sciplinamento centralizzato della decisione. Non c’è

alcunché in comune se non uno spazio.

Alla constitutio libertatis, dunque, cosa occorre?

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Storicamente in tutte le rivoluzioni si è attuata l’orga-

nizzazione spontanea dei consigli: in quella americana di

Jefferson, nella Comune di Parigi, nei Soviet, persino nel-

la rivoluzione ungherese del 1956. Essi sono la manife-

stazione della vera democrazia perché si dà a tutto il po-

polo la possibilità di agire e di essere responsabili delle

proprie azioni e dell’andamento egli eventi.

E’ garantita l’imprevedibilità, la pluralità, la par-

tecipazione diretta. Nella tradizione occidentale que-

sti sono caratteri a cui si è pensato sempre di porre

rimedio, ad esempio con la formazione dei partiti.

Ne Le origini del totalitarismo, la Arendt aveva già

espresso un giudizio secco e negativo sull’attività dei par-

titi. Questi funzionavano come cinghia di trasmissione

dell’interesse individuale nell’interesse collettivo, come

gruppo di interesse senza riuscire a garantire la singolarità

che si manifesta nella relazione plurale.

Sono esposti alla corruzione e all’inefficienza;

sono antidemocratici per il fatto che indicano i candi-

dati che il cittadino-elettore andrà a votare.

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Nei consigli, invece, il popolo poteva gestire gli

affari politici direttamente; ogni consiglio avrebbe elet-

to i rappresentanti da inviare ai consigli superiori, se-

condo una piramide che avrebbe formato una élite af-

fettivamente democratica.

Pur proponendo l’abolizione del suffragio univer-

sale, la Arendt ritiene che il metodo dell’alternanza di

due soli partiti possa preservare il sistema da eventua-

li blocchi e pericoli: l’opposizione di un periodo sarà

al potere in un altro momento, senza per questo perde-

re la responsabilità dell’azione politica. Una respon-

sabilità che manca nel caso di più partiti al potere e del

tutto assente sia nella società di massa, in cui i singoli

sono deresponsabilizzati alla politica, sia nel totalita-

rismo, ove tutto è nelle mani del capo.

E’ chiaro che istituzioni e leggi sono il perno fon-

damentale per il corretto funzionamento della demo-

crazia, quanto il consenso.

Quanto, però, i consigli, contrari all’isolamento del

singolo e luogo privilegiato della pluralità irrapresen-

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tabile e dell’azione intesa come nuovo inizio, sono pra-

ticabili? L’orientamento della Arendt resta un’alterna-

tiva utopica o, quantomeno, non realistica?

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CONCLUSIONI

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In Le origini del totalitarismo la Arendt sottoli-

nea spesso come il totalitarismo distrugge il presup-

posto di ogni libertà, annulla la capacità di agire di

concerto, azzera quello spazio che esiste tra ciascun

uomo libero estraniandolo.

Abbiamo visto come i prodromi dell’ideologia

totalitaria siano nella crisi dello Stato-nazione e nel

contesto socio-culturale-politico in cui si attua l’anti-

semitismo e l’imperialismo. Abbiamo visto come ai

margini della tradizione egemone siano esistite poten-

zialità politiche che si sono sottratte alla categoria del

dominio: l’esperienza della rivoluzione americana e

dei sistemi consiliari.

Se è necessario ripensare la politica, cosa la Arendt

intende per politica?

Un punto è da tener ben presente: la deviazione della

politica è stata evidente quando la sfera del privato si è

confusa, anzi, si è identificata con la sfera pubblica; in

altre parole, quando lo Stato si è aperto alla società o, se

vogliamo, la società è permeata nello Stato. Sono venute

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meno le categorie tradizionali del pensiero politico: Stato,

sovranità, autorità, potere ed altre.

La Arendt non ha mai identificato il politico con

lo Stato, semmai ne ha rivendicato l’autonomia sottra-

endolo al dominio, lo strumento di coercizione con cui

da Platone in poi si è pensato il potere politico. Anzi,

nella tradizione del pensiero occidentale, il potere è

stato sempre connesso alla violenza come qualcosa di

inscindibile; invece, essi si escludono a vicenda.

I Padri Fondatori americani erano riusciti a istituire

uno spazio politico senza fare ricorso alla violenza, ser-

vendosi solo di una costituzione, anche non erano riusciti

a comunicare nel tempo a venire lo spirito della loro inno-

vativa esperienza. E’ possibile una fondazione senza vio-

lenza; è possibile esercitare il potere senza violenza.

Nella tradizione occidentale, la Arendt rileva che

molti attori rivoluzionari confondono l’atto plurale e

politico della fondazione, da cui deriva l’autorità del

nuovo corpo politico, con la violenza. Ricordando

Machiavelli e Robespierre, dice che «il loro problema

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era, alla lettera, quello di come fare un’Italia unita o

una repubblica francese, e la loro giustificazione della

violenza nasceva e riceveva la sua intrinseca plausibi-

lità dall’argomentazione sottesa: come non si può fare

un tavolo senza abbattere degli alberi, o una frittata

senza rompere le uova, neppure si può fare una Re-

pubblica senza uccidere qualcuno».176

Così dovremmo giustificare anche il terrore totalitario?

E’ indicibile il passaggio dal «tutto è permesso»

al «tutto è possibile» dei campi di concentramento e

della violenza psicologica che riduce gli uomini ad «un

unico fascio di reazioni».177

«Il dominio per mezzo della pura violenza entra

in gioco quando si sta perdendo il potere».178

176 H. Arendt, What is Authority?, in Between Past and Future, cit.; trad.it. Che cos’è l’autorità? , in Id., Tra passato e futuro, cit.177 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit.178 H. Arendt, On Violence, Harcourt, Brace & World, 1970, poi in TheCrisis of the Republic, San Diego- New York- London, Harcourt BraceJovanovich, 1972; trad. it. Sulla violenza, in Politica e menzogna, Mila-no, SugarCo,1985, p. 201.

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E ancora: «La violenza può sempre distruggere il

potere; dalla canna del fucile nasce l’ordine più effi-

cace, che ha come risultato l’obbedienza più imme-

diata e perfetta. Quello che non può mai uscire dalla

canna di un fucile è il potere».179

Il potere è tale per l’essere-insieme degli uomini,

non è rappresentabile né alienabile, né coincide sul-

l’unanimità.

La Arendt pensa il consenso nei termini di un ‘dis-

sidio’ su cui si acconsente e si può continuare a dis-

sentire. E’ rispetto delle differenze, riconoscimento

della pluralità.

Lo spazio in comune, che non è unicamente spa-

zio fisico, territoriale, bensì è la possibilità dello sta-

re-insieme avendo qualcosa in comune, è il mondo.

Il ‘mondo’ è la ‘casa’ che ‘abitano’ gli uomini. E’

lo spazio dell’apparenza, è il pubblico.

«Il termine “pubblico” equivale al mondo stesso,

179 Ibidem, p. 202.

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in quanto è comune a tutti e distinto dallo spazio che

ognuno di noi vi occupa privatamente. Questo mondo

tuttavia non si identifica con la terra e con la natura,

come spazio limitato che fa da sfondo al movimento

degli uomini e alle condizioni generali della vita orga-

nica. Esso è connesso, piuttosto, con l’elemento artifi-

ciale, il prodotto delle mani dell’uomo, come pure con

le relazioni che intercorrono tra coloro che insieme

abitano il mondo fatto dall’uomo».180

La Arendt è preoccupata -e Le origini del totali-

tarismo lo confermano- per la riduzione degli uomini

in esemplari seriali nella ‘società di massa’, e, soprat-

tutto, se si tratta di una società totalitaria.

E’ come se la vita stessa, nella sua nudità, fosse

entrata per necessità nel dominio pubblico creando

uniformità e spersonalizzazione.

«Il carattere monolitico di ogni tipo di società, il

suo conformismo che concede un interesse solo e una

180 H. Arendt, The Human Condition, op. cit.

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sola opinione, è in ultima analisi radicato nell’ essere-

uno del genere umano».181

La società è così omogenea perché tutti gli indivi-

dui hanno i medesimi bisogni materiali, la stessa ur-

genza di provvedere alle necessità della vita. E se un

tempo la distinzione era il contrassegno dell’azione

politica, ora è la moda, l’atteggiamento stravagante,

l’effimero.

Pertanto è la burocrazia che politicamente la ri-

flette.

«Ciò che noi tradizionalmente chiamiamo Stato e

governo lascia qui il posto alla pura amministrazione: a

quello stato di affari che Marx giustamente prediceva come

“l’estinzione dello Stato”, benché sbagliasse nel credere

che solo una rivoluzione potesse causarla».182

Si concretizza «the rule of nobody».

«Il governo di nessuno non è necessariamente un

non-governo; esso può, anzi, in certe circostanze, pro-

181 Ibidem, p. 34.182 Ibidem, p. 33.

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dursi in manifestazioni ancora più crudeli e tiranniche

di quelle consuete».183

Il totalitarismo ne è il mostruoso esempio.

Ich selber wirchen? nein, ich will

verstehen. Und wenn andere menschen

verstehen-im sselben Sinne, wie

ich verstanden habe dann gibt mir

das eine Befriedigung wie ein Heimatgefühl.184

183 Ibidem, p. 30.184 «Io esercitare un influsso? No, io voglio capire. E se altri poi capisco-no -alla stessa maniera in cui ho capito io- mi dà un senso di soddisfa-zione come una patria comune».

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BIBLIOGRAFIA

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1943We Refugees, in «Menorah Journal», XXXI, January 1943, pp. 69-77;

ristampato in The Jew as Pariah, cit., pp. 55-66; trad. it. Noi pro-fughi, in Ebraismo e modernità, cit., pp. 35-49.

Why the Crémieux Decree Wa Abrogated, in «Contemporary JewischRecord», VI, 1943, n. 2, pp. 115-123.

Portrait of a Period, in «Menorah Journal», XXXI, October 1943, pp.307-314; recensione di S. Zweig, The World of Yesterday: An Au-tobiography, New York, The Viking Press, 1943; ristampato inThe Jew as Pariah, cit., pp. 112-121; trad. it. Ritratto di un perio-do, in Ebraismo e modernità, cit., pp. 51-62.

1944Race-Thinking Before Racism, in «The Rewiw of Politics», VI, 1944, n.

1, pp. 36-73.The Jew as Pariah: A Hidden Tradition, in «Jewish Social Studies», VI,

1944, n. 2, pp. 99-122; ristampato in The Jew as Pariah, cit., pp.67-90; versione tedesca ampliata: Die verbogene Tradition, in H.Arendt, Sechs Essays, hrsg. von D. Sternberger, Heidelberg, L.Schneider, 1948; ristampata in H. Arendt, Die verbogene tradi-tion. Acht Essays, cit., pp. 46-73; trad. it. parziale della versionetedesca, in frammenti con i segueni titoli: parte I, Heinrich Heine:Schlemihl e principe del mondo di sogno; parte III, Charlie Chaplin:il sospettato; parte IV, Franz Kafka: l’uomo di buona volontà, inH. Arendt, Il futuro alle spalle, a cura di L. Ritter Santini, Bolo-gna, Il Mulino, 1981, pp. 63-71; 271-274; 73-84.

Concerning Minorities, in «Contemporary Jewish Record», VII, 1944,n. 4, pp. 353-368.

Our Foreign Language Groups, in «Chicago Jewish Forum», III, 1944,n. 1, pp. 23-34.

Franz Kafka: a Revaluation. On the Occasion of the Twentieth Anniver-

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sary of his Death, in «Partisan Rewiw», XI, 1944, n. 4, pp. 412-422; versione tedesca ampliata: Franz Kafka, in H. Arendt, SechsEssays, cit.; ristampata in H. Arendt, Die verbogene Tradition.Acht Essays, cit., pp. 88-107; trad. it. della versione tedesca: FranzKafka: il costruttore di modelli, in H. Arendt, Il futuro alle spalle,cit., pp. 85-103.

Das zeitweilige Büdnis Zwischen Mob una Élite, in «Hochland. Monats-zeitschrift für alle Gebiete des Wissens», 1944, pp. 51-52, 511-524.

1945Organized Guilt and Universal Responsability, in «Jewish Frontier», XIII,

1945, n. 1, pp. 19-23; ristampato in R. Smith, (a cura di), Guilt:Man and Society, New York, Doubleday Anchor, 1971; ripubbli-cato in The Jew as Pariah, cit., pp. 222-236; trad. it. Colpa orga-nizzata e responsabilità universale, in H. Arendt, Ebraismo e mo-dernità, cit., pp. 63-76.

Approaches to the German Problem, in «Partisan Rewiew», XII, 1945,n. 1, pp. 93-106.

The Stateless People, in «Contemporary Jewish Record», VIII, 1945, n.2, pp. 137-153.

The Assets of Personality, in «Contemporary Jewish Record», VIII, 1945,n. 2, pp. 214-216, recensione di M. W. Weisgal, (a cura di), ChaimWiesmann.

Nightmare and Flight, in «Partisan Rewiew», XII, 1945, n.2, pp. 159-260, recensione di D. de Rougemont, The Devil’s Share.

Dilthey as a Philosopher and Historian, in «Partisan Rewiew», XII, 1945,n. 3, pp. 404-6; recensione di H. A. Hodges, Wilhelm Dilthey: AnIntroduction.

Christanity and Revolution, in «The Nation», 22 settembre 1945, pp.288-89.

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The Seeds of a Fascist International, in «Jewish Frontier», giugno 1945,pp.12-16.

Zionism Reconsidered, in «Menorah Journal», XXXIII, agosto 1945, pp.162-196; ristampato in M. Selzer, (a cura di), Zionism reconside-red, New York, Macmillan; ripubblicato in The Jew as Pariah,cit., pp. 131-163; versione tedesca Der Zionismus aus heutigerSicht , in H. Arendt, Die Verbogene Tradition, 1976, pp. 127-168;trad. it. Ripensare il sionismo, in H. Arendt, Ebraismo e moderni-tà, cit., pp. 77-116.

Imperialism, Nazionalism, Chauvinism, in «The Rewiew of Politics»,VII, 1945, n. 4, pp. 441-463.

Parties, Movements and Classes, in «Partisan Rewiew», XII, 1945, n. 4,pp. 504-512.

Power, Politics, Triumphs, in «Commentary», I, 1945, n. 1, pp. 92-92,recensione di F. Gross, Crssroads of Two Continents.

1946Über den Imperialismus, in «Die Wandlung», I, 1946, pp. 650-666; ri-

stapato in H. Arendt, Sechs Essays, 1948; H. Arendt, Die Verbo-gene Tradition, 1976.

Privileged Jews, in «Jewish Social Studies», VIII, 1946, n. 1, pp. 3- 30;ristampato in A: G. Duker e M. Ben-Horin, Emancipation andCounteremancipation, New York, KtavPublishing House, 1947;pubblicato in modo parzoale con il titolo The Moral of History, inH. Arendt, The Jew as Pariah, cit., pp. 96-105, trad. it. parziale Lamorale nella storia, in H. Arendt, Ebraismo e modernità, cit., pp.117-122.

The Nation, in «The Rewiew of Politics», VIII, 1946, n. 1, pp. 138-141;recensione di J. T. Delos, La Nation, Editions de l’Arbre, Mpntreal.

Proof Positive, in «The Nation», 5 gennaio 1946, p. 22; recensione di V.Lange, Modern German Literature.

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The too Ambitious Reporter, in «Commentary», II, 1946, n.2, pp. 94-95;recensione di A. Koestler, Twilight Bar e The Yogi and Commisar.

What is Existenz Philosophy?, in «Partisan Rewiew», XIII, 1946, n.1, pp.34-56; trad. ted. in Sechs Essays, 1948; trad. it. Che cos’è la filosofiadell’esistenza?, a cura di S. Maletta, Milano, Jaca Book, 1998.

Imperialism: Road to Suicide, in «Commentary», II, 1946, n. 3, pp. 27-35.French Existenzialism, in «The Nation», 23 febbraio 1946, pp. 226-228.Tentative List of Jewish Cultural Treasure in Axis-Occupied Countries,

in «Supplement to Jewish Social Studies, VIII, 1946, n.1; curatodal gruppo di ricerca «Commission on European Jewish CulturalReconstruction» sotto la direzione di H. Arendt.

Tentative List of Jewish Educational Istitutions in Axis-Occupied Coun-tries, in «Supplement to Jewish Social Studies, VIII, 1946, n. 3;curato dal gruppo di ricerca «Commission on European JewishCultural Reconstruction» sotto la direzione di H. Arendt.

The Street of Berlin, in «The Nation», 23 marzo 1946, pp.350-351; re-censione di R. Gilbert, Meine Reime Deine Reime.

The Jewish State: 50 Years After, Where Have Herzl’Politics Led?, in«Commentary», II 1946, n. 1, pp. 1-8; ristampato in Jew as Pa-riah, cit., pp. 164-177; trad. it. Lo stato ebraico: cinquant’annidopo. Dove ha portato la politica di di Herzl?, in H. Arendt, Ebrai-smo e modernità, cit., pp. 123-137.

The Image of Hell, in «Commentary», II, 1946, n. 3, pp. 291-95; recensionedi The Black Book: The Nazi Crime Against the Jewish People, cura-to da World Jewish Congress, e a M. Weinreich, Hitler’s Professor.

No Longer and not Yet, in «The Nation», 14 settembre 1946, pp. 300-302; recensione di H. Broch, The Death of Virgil.

The Ivory Tower of Common Sense, in «The Nation», 19 ottobre 1946,pp. 447-49; recensione di J, Dewey, Problem of Men.

Expansion and the Philosophy of Power, in «Sewanee Rewiew», LIV,1946, pp. 601-16.

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1947Creating a Cultural Atmosphere, in «Commentary», IV novembre 1947,

pp. 424-426, ristampato in H. Arendt, The Jew as Pariah, cit., pp.91-95; trad. it. Creare un’atmosfera culturale, in H. Arendt, Ebrai-smo e modernità, cit., pp. 139-144.

The Hole of Oblivion, in «Jewish Frontier», luglio 1947, pp. 23-26; re-censione di Anonimo, The Dark Side of the Moon.

1948Sechs Essays, Heidelberg, L. Schneider, ristampati in H. Arendt, Die

Verbogene Tradition, 1972.Jewish History Revised, in «Jewish Frontier», marzo 1948, pp. 34-38;

ristampato in H. Arendt, The Jew as Pariah, cit., pp.96-105; trad.it. Una rilettura della storia ebraica, in H. Arendt, Ebaraismo emodernità, cit., pp. 145-156; recensione di G. Scholem, MajorTrends in Jewish History, New York, 1946.

Beyond Personal Frustation: The Poetry of Bertold Brecht, in «TheKenyon Rewiew, X, 1948, n.2, pp.304-312, recensione di B. Bre-cht, Selected Poems.

To Save the Jewish Homeland: There is Still Time, in «Commentary», V,maggio 1948, pp.398-406; ristampato in H. Arendt, The Jew as Pa-riah, cit., pp.178-192; trad. it. Salvare la patria ebraica: c’è ancoratempo, in H. Arendt, Ebraismo e modernità, cit., pp. 157-173.

The Concentration Camps, in «Partisan Rewiew», XV, 1948, n.7, pp.743-763; versione tedesca in «Die Wandlung», III, 1948, pp.309-330.

The Mission of Bernadotte, in «The New Leader», XXXI, 23 ottobre1948, pp. 808-819.

About Collaboration, in «Jewish Frontier», XV, Ottobre 1948, pp. 55-56; ristampato in H. Arendt, The Jew as Pariah, cit., pp. 175-178.

cura del volume di B. Lazare, Job’s Dunheap, New York, SchockenBooks, 1948.

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1949Hermann Broch und der moderne Roman, in «Der Monat», I, 1949, nn.

8-9, pp. 147-151.Totalitarian terror, in «The Rewiew of Politics», XI, n.1, pp. 112-115;

recensione di D. J. Dallin e B. I. Nicolaevsky, Forced labor inSoviet Russia.

Single Track to Zion, in «Saturday Rewiew of Literature», XXXII, 1949,n. 5, pp. 22-23; recensione di C. Waizmann, Trial and Terror: TheAutobiography of Chaim Waizmann.

Parteien und Bewegung, in «Die Wandlung», IV, 1949, pp. 451-473.The rights of Man: What Are They?, in «Modern Rewiew», III, 1949, n.

1, pp. 24-37.The Achievement of Hermann Broch, in «The Kenyon Rewiew», XI,

1949, n. 3,pp. 476-483.

1950Social Science Techniques and the Study of Concentration Camps, in

«Jewish Social Studies», XII, 1950, n. 1, pp.49-64.Peace or Armistice in the Near East?, in «The Rewiew of Politics», XII,

1950, n. 1, pp.56-82; ristampato in H. Arendt, The Jew as Pariah,cit., pp. 193-222; trad. it. Pace o armistizio nel Vicino Oriente?, inH. Arendt, Ebraismo e modernità, cit., pp179-213.

Religion and the Intellectuals. A Symposium, in «Partisan Rewiew», XVII.1950, n. 1, pp. 113-116.

Der Dichter Bertold Brecht, in «Die Neue Rundschau», LXI, 1950, pp.53-67; trad. it. Il poeta Bertold Brecht, in V. Santoli, (a cura di), DaLessing a Brecht. I grandi scrittori nella grande crisi tedesca,Milano, Bompiani, 1968, pp. 573-589, poi in «aut aut», 1990, nn.239-240, pp.145-160.

The Imperialist Character, in «The Rewiew of Politics», XIII, 1950, n.3, pp.303-320; versione tedesca Der imperialistische Charakter.

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Eine psychologisch-soziologische Studie, in «Der Monat», II, 1950,n. 4, pp. 509-522.

The Aftermath of Nazi Rule. A Report from Germany, in «Commentary»,Iv, 1950, n. 10, pp.342-353.

Mob and Elite, in «Partisan Rewiew», XVIII, 1950, n. 8, pp. 808-819.

1951The Origins Of Totalitarianism, New York, Harcourt, Brace and Co, 1951;

seconda edizione ampliata: New York, The Word Publishing Com-pany, Meridian Books, 1958; terza edizione con nuove prefazioni:New York, Harcourt Brace and World, 1966; la versione inglese dellaprima edizione è apparsa con il titolo The Burden of Our Time, Lon-don, Secker and Warburg, 1951; la versione inglese della secondaedizione reca il titolo The Origins of Totalitarianism, London, Allenand Unwin, 1958; trad. it. Le origini del totalitarismo, Milano, Edi-zioni di Comunità, 1967; trad. ted. Elemente und Ursprünge totalerHerrschaft, Frankfurt, Europäische Verlangsanstalt, 1955.

The Road to Dreyfus Affair, in «Commentary», XI, febbraio 1951, pp. 201-203; recensione di R. F. Byrnes, Antisemitism in Modern France.

Totalitäre Propaganda. Ein Kapitel aus «Ursprünge des Totalitari-smus», in «Der Monat», III, 1951, n. 33, pp. 241-248.

Totalitarian Movement, in «Twentieth Century», 1951, n.149, pp. 368-389.Bei Hitler zu Tisch, in «Der Monat», IV, 1951, n. 37, pp. 85-90.Die Geheimpolizei, in «Der Monat», IV, 1951, n. 38, pp. 370-388.

1952The History of the Great Crime, in «Commentary», XIII, marzo 1952,

pp. 300-304; recensione di Poliakov, Bréviare de la haine: le IIIè-me Reich et les Juifs.

Magnes. The Coscience of the Jewish Peeople, in «Jewish Newsletter»,VIII, 1952, n. 25, p. 2.

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1953Ideology amd Terror: a Novel Form of Government, in «The Review of

politics», XV, 1953, n. 3, pp. 303-327; ristampato in H. Arendt,The Origins of Totalitarianism, Second Enlarged Edition, cit., 1958,pp. 460-479; pubblicato in versione tedesca in Offener Horizont.Festschrift für Karl Jaspers, München, Piper, 1953, pp. 229-254.

Rejoinder to Eric Voegelin’s Review of «The Origins of Totalitarianism», in «TheReview of politics», XV, 1953, n. 1, pp. 76-85; trad. it. in Eric Voegelin:un interprete del totalitarismo, Roma, Astra, 1978, pp. 73-87.

The Ex-Communists, in «Commonweal», LVII, 1953, n. 24, pp. 595-599.Understanding and Politics, in «Partisan Review», XX, 1953, n. 4, pp. 377-

392; trad. it. Comprensione e Politica, in H. Arendt, La disobbedien-za civile ed altri saggi, Milano, Giuffrè, 1985, pp. 89-111.

Religion and Politics, in «Confluence», II, 1953, n. 3, pp. 105-126; trad. it.Religione e politica, in G. A. Brioschi, L. Valiani, (a cura di), Totalita-rismo e cultura, Milano, Edizioni di Comunità, 1957, pp. 285-304.

Understanding Communism, in «Partisan Review», XX, 1953, n. 5, pp.580-583; recensione di W. Gurian, Bolshevism.

1954Tradition and the Modern Age, in «Partisan Review», XXII, 1954, n. 1,

pp. 53-75; ristampato in H. Arendt, Between past and future. SixExercises in Political Thought, New York, Viking Press, 1961, pp.17-40; trad. it. La tradizione e l’età moderna, in H. Arendt, Trapassato e futuro, Milano, Garzanti, 1991, pp. 41-69.

Europe and America: Dream and Nightmare, in «Commonweal», LX,1954, n. 23, pp. 551-554.

Europe and the Atom Bomb , in «Commonweal», LX, 1954, n. 24, pp.578-580.

Europe and America: the Threat of Conformism, in «Commonweal»,LX, 1954, n. 25, pp. 607-610.

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1955Dichten und Erkennen, Introduzione a H. Broch, Gesammelte Werke, a

cura di H. Arendt, Zürich, Rheir, 1955; trad. it. Hermann Broch:poeta-scrittore contro la sua volontà, in H. Arendt, Il futuro allespalle, cit., pp. 171-216.

The personality of Waldemar Gurian, in «The Review of politics», XVII,1955, n. 1, pp. 33-42; ristampato in H. Arendt, Men in Dark Times,New York-London, Harcourt Brace Jovanovich, 1968, pp. 251-262.

1956Was ist Autorität, in «Der Monat», VIII, 1956, n. 89, pp. 29-44; ristam-

pato in H. Arendt, Fragwürdige Traditionsbestände im politischenDenken der Gegenwart. Vier Essays, Frankfurt a. M. , Europäi-sche Verlagsanstalt, 1957.

Authority in Twentieth Century, in «The Review of politics», XVIII, 1956,n. 4, pp. 403-417.

1957Misstrauen gegen Kultur, in «Die Kultur», VI, 1957, n. 12, p. 10.Natur un Geschichte. Die Anfänge der griechischen Geschichtsschrei-

bung, in «Deutsche Universitätszeitung», XII, n. 8, pp. 6-9, n. 9,pp. 9-14.

Geschichte kann nicht gemacht werden. Die Entstehung des historischen-Bewusstseins, in «Deutsche Universitätszeitung», XII, 1957, n. 20,pp. 7-11; n. 21, pp. 10-14.

History and Immortality, in «Partisan Review», XXIV, 1957, n. 1, pp. 11-53.Fragwürdige Traditionbestände im politischen Denken der Gegenwart,

Vier Essays, Frankfurt a. M., Europäische Verlagsanstalt, 1957.Karl Jaspers as Citizen of the World, in P. A. Schlipp, (ed.), The Philosophy

of Karl Jaspers, La Salle, Open Court, Pub. Co., 1957, pp. 539- 550;ristampato in H. Arendt, Men in Dark Times, cit., pp. 81-94.

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1958The Human Condition, Chicago, University of Chicago Press, 1958; trad.

it. Vita Activa, Milano, Bompiani, 1964, 1988; edizione tedescarielaborata dall’autrice, Vita Activa oder von tätigen Leben, Stutt-gart, Kohlhammer, 1960, München, Piper, 1967.

Rahel Varnhagen: the Life of a Jewess, London, East and West Library,1958; ed. tedesca, Rahel Varnhagen, Lebensgeschichte einer deu-tschen Jüdin aus der Romantik, München, Piper, 1959; ed. ameri-cana Rahel Varnhagen: the Life of a Jewish Woman, New York,Harcourt Brace Jovanovich, 1974.

Totalitarian Imperialism: Reflections on the Hungarian Revolution, in«The Journal of Politics», 1958, n. 1, pp. 5-43; ristampato in H.Arendt, The Origins of Totalitarianism, Second Enlarged Edition,cit., pp. 480-510; ed. ted. Die Ungarische Revolution und der To-talitäre Imperialismus, München, Piper,1958.

Karl Jaspers. Reden zur Verleihung des Friedenspreises des deut-schen Buchhandels, München, Piper,1958; trad. ingl. Karl Ja-spers: A Laudatio, in H. Arendt, Men in Dark Times, cit., pp.71-80.

Kultur und Politik, in «Merkur», XII, 1958, n. 12, pp. 1122-1145; ri-stampato in Untergang oder Übergang. Erster Kulturkritikerkon-gress in München, München, Piper, 1959, pp. 35-66.

The Modern Concept of History, «The Review of politics», XX; 1958, n.4, pp. 570-590.

Totalitarianism, in «The Meridian», II, 1958, n. 2, p.1.The Crises in Education, in «Partisan Review», XXV, 1958, n. 4, pp.

493-513; ristampato in H. Arendt Between Past and Future. SixExercises in Political Thought, cit., pp. 173-196; trad. it. La crisidell’ istruzione, in H. Arendt, Tra Passato e futuro, cit., pp. 228-255; versione tedesca Die Krise in der Erziehung, in «Der Mo-nat», XI, 1958-59, pp. 48-61.

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1959What Was Authority?, in C. Friederich, (ed.), Authority, Cambridge,

Harward U. P., 1959.Reflections on Little Rock, in «Dissent», V, 1959, n. 1, pp. 45-56.

1960Von der Menschlichkeit in finsteren Zeiten: Gedanken zu Lessing, Mün-

chen, Piper,1960; trad. ingl. On Humanity in Dark Times: Thoughtsabout Lessing, in H. Arendt, Men in Dark Times, cit., pp. 3-31.

Freedom and Politics: A Lecture, in «Chicago Review», XIV, 1960, n. 1, pp. 28-46.Society and Culture, in «Daedalus», LXXXII, 1960, n. 2, pp. 276-287.Der Mensch, ein gesellschaftliches oder ein politisches Lebewesen, in

«Die deutsche Universitätszeitung», XV, ottobre 1960, pp. 38-47.Revolution and Pubblic Happiness, in «Commentary», XXX, novembre

1960, pp. 413-422.1961

Between Past and Future. Six Exercises in Political Thought, New York,The Viking Press, 1961; trad. it. Tra passato e futuro, Firenze,Vallecchi, 1970; Milano, Garzanti, 1991.

Freedom and Revolution, New London, Connecticut College, 1961; ri-stampato in Zwei Welten: S. Moses zum 75. Geburstag, Tel Aviv,Bitaon, 1962.

1962Action and «The Pursuit of Happiness», in A. Dempf, H. Arendt, F.

Engel-Janosi, (hrsg.), Politische Ordnung und Menschliche Exi-stenz. Festgabe für Eric Voegelin, München, Beck, 1962, pp. 1-16; trad. it. in «Trimestre», XVIII, 1985, nn. 1-2, pp. 127-147.

The Cold War and the West, in «Partisan Review», XXIX, 1962, n. 1, pp. 10-20.Cura del volume di Karl Jaspers, The Great Philosophers, New York,

Harcourt, Brace and Co., vol 1, 1962.

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1963A Reporter at Large: Eichmann in Jerusalem, in «The New Yorker», 16

febbraio, pp. 40-113; 23 febbraio, pp. 40-113; 2 marzo, pp. 49-91;9 marzo, pp. 48-131; 16 marzo, pp. 58-134.

Eichmann in Jerusalem: A report on the Banality of Evil, New York,The Viking Press, 1963; seconda edizione ampliata, 1965; trad. it.La banalità del male. Eichmann in Gerusalemme, Milano, Feltri-nelli, 1964; versione tedesca: Eichmann in Jerusalem: ein Berichtvon der Banalität des Bösen, München, Piper,1964.

Reply to Judge Musmanno, in «The New York Times Book Review»,VIII, n. 4, 23 giugno 1963; ristampata in M. Fredman, P. B. Davis,(eds.), Contemporary Controversy, New York, MacMillan, 1966,pp. 312-317.

Man’s Conquest of Space, in «American Scholar», XXXII, autunno 1963,pp. 524-540; ristampato con il titolo The Conquest of Space andthe Stature of Man, in H. Arendt, Between Past and Future. EightExercises in Political Thought, New York, Viking Press, 1968, pp.265-280.

Kennedy and After, in «The New York Review of Books», I, 1963, n. 9, p. 10.On Revolution, New York, Viking Press, 1963; seconda edizione ri-

vista, 1965; trad. it. Sulla rivoluzione, Milano, Edizioni di Co-munità, 1983; versione tedesca Über die Revolution, München,Piper, 1963.

1964«Eichmann in Jerusalem». An Exchange of Letters between Geschom

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What is Permitted to Jove, «The New Yorker», 5 novembre 1966, pp.68-122; ristampato con il titolo Bertold Brecht. 1898-1956, in H.Arendt, Men in Dark Times, cit., pp. 207-249; versione tedescaQuod Licet Jovi… Reflections über den Dichter Bertold Brechtund sein Verhältniss zur Politik, in «Merkur», XXIII, 1969, n. 6,pp. 527-542 e n. 7, pp 625-642; versione ristampata in H. Arendt,Walter Benjamin, Bertold Brecht. Zwei Essays. München, Piper,1971, pp. 63-107; trad. it. della versione tedesca Bertold Brecht: ilpoeta ed il politico, in H. Arendt, Il futuro alle spalle. Bologna, IlMulino, 1981, pp. 217-269.

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1967Truth and Politics, in «The New Yorker», 25 febbraio 1967, pp.49-88;

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Walter Benjamin: 1892-1840, in H. Arendt, Men in Dark Times, cit.,pp.153-206; trad. it. Walter Beniamin: l’omino gobbo e il pescato-re di perle, in H. Arendt, Il futuro alle spalle, cit., pp. 105-170.

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Comment on «The Uses of Revolution» by Adam Ulam, in R. Pipes (ed.),Revolutionary Russia, Cambrige, Mass., Harvard University Press, 1968.

«Walter Benjamin», in «The New Yorker», 19 ottobre 1968, pp. 65-156;ristampato in H. Arendt, Men in Dark Times, cit., pp. 153-206.

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Isak Dinesen: 1855-1962, in «The New Yorker», 9 novembre 1968, pp. 223-236; ristampato in H. Arendt, Men in Dark Times, cit., pp. 95-109.

Walter Benjamin und das Institut fur Sozialforschung, in «Merkur», XXII,1968, n. 246, p. 968.

1969Reflection on Violence, in «Journal of International Affairs», pp. 1-35;

ristampato in «The New York Review of Books», XII, 1969, n. 4,pp. 19-31.

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1970On Violence, New York, Harcourt, Brace and World, 1970; ristampato in H.

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Civil Disobedience, in «The New York», 12 settembre 1970, pp. 70-105;ristampato in H. Arendt, Crises of the Republic, New York, Har-court, Brace and Jovanovich, 1972, pp. 49-109, e in E. V. Rostow(ed), Is Law Dead ?, New York, Simon and Schuster, 1971; trad.it. La disobbedienza civile, in H. Arendt, La disobbedienza civilee altri saggi, Milano, Giuffrè, 1985, pp. 29-88 e in Id., Politica emenzogna, cit., pp. 123-166.

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trad. it. Politica e menzogna, a cura di P. Flores d’Arcais, Milano,SugarCo, 1985.

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1994Essays in Understanding 1930-1954. Uncollected and Unpublished

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Lectures on Kant’s Political Philosophy, a cura di R. Beiner, Chicago,1982; trad. it. La teoria del giudizio politico, Genova, Il melango-lo, 1990.

H. Arendt- K. Jaspers, Briefwechsel 1926-1969, a cura di L. Kohler e H.Saner, München, Piper, 1985; ediz. italiana ridotta, trad. di Q. Prin-cipe e cura di A. Dal Lago, Carteggio (1926-1969), Milano, Fel-trinelli.

L’interesse per la politica nel recente pensiero filosofico europeo, in«aut - aut», 1990, nn. 239-240, pp. 31-46.

Was ist Politik?, a cura di U. Ludz, München, R. Piper GmbH & Co KG,1993; trad. it. Cos’è la politica, a cura di U. Ludz, Milano, ed.Comunità 1997.

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Lettere tra Hannah Arendt e Karl Jaspers, in appendice a R. Esposito,a cura di, La pluralità irrapresentabile. Il pensiero politico diHannah Arendt, Urbino, QuattroVenti- Istituto Italiano per gli StudiFilosofici, 1987, pp. 214-222.

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Il pescatore di perle. Walter Benjamin 1892-1940, Milano, A.Mondadori, 1993, ed. parziale del saggio su Benjamin comparsonella traduzione italiana Arendt, Il futuro alle spalle, op. cit.,pp.105-170.

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Karl Marx e la tradizione del pensiero occidentale, (scritto nel 1953), acura di S. Forti, in «MicroMega», n.5, 1995, pp.35-108.

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Aa. Vv, Oltre la politica. Antologia del pensiero «impolitico», a cura diR. Esposito, Milano, Bruno Mondadori, 1996.

Aa. Vv., Hannah Arendt, introduzione e cura di S. Forti, Milano, BrunoMondadori, 1999.

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Amiel, AnneHannah Arendt. Politique et événement, Paris, PUF, 1996.

Amodio, PaoloIl problema del male nella riflessione di Hannah Arendt, estratto da-gli «Atti dell’Accademia di Scienze morali e politiche», vol. C- 1989.

Bazzicalupo, LauraHannah Arendt. La storia per la politica, Napoli, Edizioni Scien-tifiche Italiane, 1996.

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Boella, LauraHannah Arendt. Agire politicamente. Pensare politicamente, Mi-lano, Feltrinelli, 1995.

Cangiotti, MarcoL’ethos della politica. Studio su Hannah Arendt, Biblioteca di Her-meneutica, Urbino, QuattroVenti, 1990.

Canovan, MargaretHannah Arendt: a reinterpretation of her political thought, Cam-bridge University Press, 1992.

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Cedronio, MarinaLa democrazia in pericolo, Bologna, Il Mulino, 1994.

Enégren, AndréLa pensée politique de Hannah Arendt, Puf, Paris 1984; trad.it. Il pensiero politico di Hannah Arendt, Roma, Edizioni La-voro, 1987.

Esposito, Roberto1. (a cura di), La pluralità irrapresentabile. Il pensiero politico diHannah Arendt, Urbino, QuattroVenti-Istituto italiano per gli stu-di filosofici, 1987.2. Categorie dell’ impolitico, Bologna, Il Mulino, 1988.3. L’origine della politica. Hannah Arendt o Simone Weil?, Roma,Donzelli, 1996.4. Nove pensieri sulla politica, Bologna, Il Mulino, 1993.

Ettinger, ElzbietaHannah Arendt e Martin Heidegger: una storia d’amore, Milano,Garzanti, 1996.

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Fistetti, FrancescoHannah Arendt e Martin Heidegger. Alle origini della filosofiaoccidentale, Roma, Editori Riuniti,1998.

Flores d’Arcais, PaoloHannah Arendt. Esistenza e libertà, Roma, Donzelli, 1995.

Focher, FerruccioLa consapevolezza dei principi. Hannah Arendt ed altri studi, Fran-co Angeli, 1995.

Forti, SimonaVita della mente e tempo della polis, Milano, Franco Angeli, 1994.

Galli, CarloModernità: categorie e profili critici, Bologna, Il Mulino, 1988.

Hansen, PhillipHannah Arendt: politics, history and citizenship, Cambridge Poli-ty Press, 1993.

Illuminati, AugustoEsercizi politici, quattro sguardi su Hannah Arendt, Roma, mani-festolibri, 1994.

Lissa, GiuseppeFilosofia ebraica oggi, in «Rivista di storia della filosofia», n. 4,1994.

A cura del Prof. Lissa e del Dott. Amodio sono in corso di pubblicazio-ne, presso la casa editrice Vivarium, gli atti del convegno sullaShoah, tenutosi a Napoli nel maggio del 1997.

Young-Bruehl, ElisabethHannah Arendt. For love of the World, Yale University Press, NewHaven and London 1982; trad. it. di D. Mezzacapa, Hannah Aren-dt, 1906-1975. Per amore del mondo, Torino, Bollati Boringhieri,1990.

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FASCICOLI DEDICATI AD HANNAH ARENDT

«Les Cahiers du Grif», n.33, Paris, Tierce, primavera 1986:1. Introduction, Actualité de Hannah Arendt2. M. McCarty, Pour dire au revoir à Hannah3. H. Arendt, Nathalie Serraute «Le Fruits d’Or»4. J. Taminiaux, La vie de quelqu’un5. E. Young-Breuehl, Les histoires de Hannah Arendt6. E. Young-Breuehl, Sur la biographie7. F. Collin: Du privé et du public8. H. Arendt, Le probleme de la femme dans le monde contempo-rain9. Th. Mann, Lettre à Hannah Arendt10. U. Johnson, Il me faut remarcier11. H. Arendt, Lettre à Wystan Auden12. H. Arendt, Philosophie et politique13. R. Varnhagen, Lettres et penseés14. H. Plard, Illusions et pièges de l’assimilation15. K. Jaspers-H- Arendt: Correspondance à propos de RahelVarnhagen16. B. Pelzer, Le vent du nord est mon plus grand ennemi

«Études Phénomenologiques», n. 2, Bruxelles, Éditions OUSIA, 1985:1. H. Arendt, Travail, œuvre, action2. R. Legros, Hannah Arendt: une comprénsion phénoménologi-ques des droits de l’homme3. D. Lories, Sentir en commun et juger par soi-même4. B. Stevens, Action et narrativité chez Paul Ricœur et HannahArendt5. J. Taminiaux, Arendt, disciple de Heidegger?

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«Aut aut», n. 239-240, 1990.1. A. Dal Lago, Il pensiero plurale di Hannah Arendt2. H. Jonas, Agire, conoscere, pensare: spigolature dall’opera fi-losofica di Hannah Arendt3. J. Taminiaux, Arendt, discepola di Heidegger?4. L. Boella, Hannah Arendt «fenomenologa». Smantellamentodella metafisica e critica dell’ontologia5. E. Greblo, Il poeta cieco. Hannah Arendt e il giudizio6. E. Heller, Hannah Arendt critico letterario7. S. Maletta, La salvezza come lode. Nota al saggio arendtianodel 1930 sulle «Elegie duinesi» di Rilke

«Comunità», XXXV, n. 183, novembre 1981, ha pubblicato i seguentiarticoli:1. J. Habermas: La concezione comunicativa del potere in Han-nah Arendt

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE SUL «TOTALITARISMO»

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Borrelli, GianfrancoRagion di Stato e Leviatano, Bologna, Il Mulino, 1993.

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Canetti, EliasMasse e potere, Milano, Rizzoli, 1973.

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Gentile, EmilioLa via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regimefascista, Roma, NIS, 1995.

Gentile, GiovanniDiscorsi di religione, Firenze, Sansoni, 1957.

Gleason, AbbottTotalitarianism, The Inner History of the Cold War, Oxford Uni-versity Press, 1995.

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INDICE

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CAPITOLO PRIMO

GENEALOGIA E TOPOLOGIA DI UN CONCETTOA PARTIRE DALLE INTERPRETAZIONISTORICO-FILOSOFICHE DAGLI ANNI ‘30 AGLI ANNI ‘501.1 - Il concetto ‘totalitarismo’ ............................................................. 31.2 - Genealogia del termine ‘totalitarismo’ ....................................... 18

CAPITOLO SECONDO

«IO PROCEDO DA FATTI E DA AVVENIMENTI.»L’INDAGINE CONTESTUALE DI HANNAH ARENDTPER COMPRENDERE L’EVENTO CHE CARATTERIZZAIL XX SECOLO: IL TOTALITARISMO2.1 - Sentieri di ricerca: anno di svolta 1933 ....................................... 482.2 - L’antisemitismo politico e la questione ebraica .......................... 632.3 - La nuova ideologia degli Stati-Nazione europei in crisi:

l’imperialismo come preludio politico ai movimenti totalitari.La questione degli apolidi e il valore dei diritti umani ................ 74

CAPITOLO TERZO

LA CATEGORIA «TOTALITARISMO»3.1 - Il mutato sfondo socio-politico tra i due secoli:

la nuova società di massa ............................................................ 1003.2 - Gli strumenti del totalitarismo: propaganda, polizia segreta

e burocrazia. L’ideologia come «logica di un’idea» ................... 1113.3 - Terrore e campo di concentramento.

La società dei morenti e il male radicale ................................... 131

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CAPITOLO QUARTO

IL TOTALITARISMO A CONFRONTOCON LA MODERNITÀ POLITICA4.1 - Definizione del regime totalitario ............................................... 1544.2 - Lo Stato-Leviatano di Hobbes e lo Stato totalitario.

Confronto legittimo? .................................................................... 1604.3 - L’inedito nella storia: le rivoluzioni. ‘Liberazione da’

o ‘liberazione di’: qual è il fondamento del nuovocorpo politico? La politica come natalità .................................... 167

CONCLUSIONI .................................................................................. 189

BIBLIOGRAFIAScritti di Hannah Arendt ...................................................................... 197Bibliografia degli scritti di Hannah Arendt ......................................... 220Bibliografia dei saggi critici su Hannah Arendt ................................. 225Fascicoli dedicati ad Hannah Arendt ................................................... 228Bibliografia essenziale sul «totalitarismo» ........................................... 230

INDICE ................................................................................................ 239