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7/16/2019 Teatro d'Avanguardia in Italia http://slidepdf.com/reader/full/teatro-davanguardia-in-italia 1/46 SIMONA CIGLIANA – Quali sono le date cruciali del- l’avanguardia teatrale italiana? FRANCO CORDELLI  – Alcune penso di conoscerle per- ché ne ho letto; a 18 anni avrei potuto vedere il “Cali- gola” di Carmelo Bene. Credo sia stato rappresentato al Teatro delle Arti a Roma – se la memoria non m’in- ganna – ma non c’ero. Non c’ero e sinceramente non ero appassionato di teatro e non immaginavo, anzi ero ben lontano dall’immaginare che me ne sarei occupa- to per tutta la vita, poi. Diciamo che in tutto quel decennio, tutti gli anni ’60, sono stato uno spettatore occasionale di teatro e sem- mai attratto conformisticamente dagli spettacoli-even- to, come spesso capita a spettatori occasionali. Sicché a ventitré anni ho visto “Vita di Galileo” di Brecht, mes- sa in scena da Strelher. Lo vidi a Roma nel 1964, all’E- liseo, ma non ho visto il “Caligola” né il “Pinocchio” di Carmelo Bene, né tantomeno le prime prove di Mario Ricci al Teatro delle Orsoline – altro teatro storico, nato  – credo – nella prima metà del decennio. In verità gli spettacoli di Mario Ricci di quell’epoca sono stati visti da pochissimi, nel senso che non so quanti possono essere gli spettatori in grado di testimoniare di quegli spettacoli. E non ho visto neppure la performance di Giancarlo Nanni del 1967 alla Libreria Feltrinelli di Via del Babuino. In sostanza sto citando alcune date, alcuni spetta- coli cruciali, appunto, dell’avanguardia teatrale italiana 187 L’ illu m i n is t a Sette domande sul teatro d’avanguardia a Franco Cordelli e a M arco Palladini a cura di Simona Cigliana Risponde Franco Cordelli

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Illustrazione del teatro italiano d'avanuardia

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SIMONA CIGLIANA – Quali sono le date cruciali del-

l’avanguardia teatrale italiana?

FRANCO CORDELLI – Alcune penso di conoscerle per-ché ne ho letto; a 18 anni avrei potuto vedere il “Cali-gola” di Carmelo Bene. Credo sia stato rappresentatoal Teatro delle Arti a Roma – se la memoria non m’in-ganna – ma non c’ero. Non c’ero e sinceramente nonero appassionato di teatro e non immaginavo, anzi eroben lontano dall’immaginare che me ne sarei occupa-to per tutta la vita, poi.

Diciamo che in tutto quel decennio, tutti gli anni ’60,sono stato uno spettatore occasionale di teatro e sem-mai attratto conformisticamente dagli spettacoli-even-to, come spesso capita a spettatori occasionali. Sicchéa ventitré anni ho visto “Vita di Galileo” di Brecht, mes-sa in scena da Strelher. Lo vidi a Roma nel 1964, all’E-liseo, ma non ho visto il “Caligola” né il “Pinocchio” diCarmelo Bene, né tantomeno le prime prove di MarioRicci al Teatro delle Orsoline – altro teatro storico, nato – credo – nella prima metà del decennio. In verità glispettacoli di Mario Ricci di quell’epoca sono stati vistida pochissimi, nel senso che non so quanti possonoessere gli spettatori in grado di testimoniare di queglispettacoli. E non ho visto neppure la performance diGiancarlo Nanni del 1967 alla Libreria Feltrinelli di Via

del Babuino.In sostanza sto citando alcune date, alcuni spetta-

coli cruciali, appunto, dell’avanguardia teatrale italiana

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S e t t e d om a n de sul t e a t ro

d ’avanguard ia

a Fra nco C orde lli

e a M a rco P a lla d in i

a c u ra d i Sim ona Cig lia na

R i s p o n d e Franco Cordel l i

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nella sua fase aurorale. E qui parliamo di secondaavanguardia teatrale italiana o di neo avanguardia per-ché ce n’è stata un’altra nella prima parte del secolo.

Ma non è di quella che dobbiamo parlare.Il primo spettacolo d’avanguardia teatrale italianacui io abbia assistito e di cui purtroppo non ricordo ladata – ma credo fosse il 1965 – era un Beckett messoin scena da Carlo Quartucci sulla riva del Tevere. Sen-tire sulla riva del Tevere fa ridere perché che vuol direriva del Tevere? Quale riva del Tevere? Non sapreidire; so che era nella parte nord della città, direi a Pri-

ma Porta. Ovviamente non era un teatro, era un luogoche nella memoria non so ricostruire. Era sicuramenteda quella parte, oltre Saxa Rubra.

Quello spettacolo, nel quale c’era come attore –anche qui lavoro solo di memoria nel senso che non holetto niente, almeno di recente, su queste cose – Leode Berardinis, – quello spettacolo, dicevo – mi fecemolta impressione perché obiettivamente diverso daglispettacoli tradizionali che avevo visto. Ho già citato“Vita di Galileo”; ma ricordo – anche questo del 1967 emeno tradizionale – “L’istruttoria” di Peter Weiss, mes-so in scena al Palazzo dello Sport all’Eur forse daGiancarlo Sbragia (non so se era il regista o uno degliattori). Quello spettacolo mi fece moltissima impressio-ne per i contenuti, naturalmente, perché Weiss comin-ciava ad essere famoso, era uno dei grandi testimonidell’Olocausto e in quel momento questo tema storicocominciava a rivivere in tutta la sua drammaticità per lamia generazione. Però non incideva sul linguaggio tea-trale in sé. Quindi nessuno degli spettacoli che stocitando, compreso quello di Quartucci, che aveva tut-tavia l’eccezionalità di abolire o quasi l’elemento sce-nografico e di creare una situazione in cui la corpora-lità cominciava ad essere importante – però io nonsapevo che la corporalità era importante, erano acqui-

sizioni inconsapevoli – rientrava nella nuova avan-guardia teatrale italiana.

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CIGLIANA – Di fatto, mi sembra che si giochi nel-la successiva decina d’anni il passaggio dalla “pri-ma” alla “seconda” avanguardia teatrale italiana …

CORDELLI – Direi piuttosto la “preistoria” della secon-da avanguardia teatrale italiana, che coincide poi conla mia preistoria di spettatore teatrale. Fu per un purocaso che cominciai ad andare a teatro. Per ragioni pro-fessionali. Perché fui invitato da Elio Pagliarani a col-laborare con lui che aveva ereditato quell’anno, il1968, la rubrica di critica teatrale su “Paese Sera”: allo-

ra era un giornale molto importante, benché non aves-se una diffusione nazionale. Quindi era molto gratifi-cante essere chiamato a fare questo lavoro anche seper me era più gratificante dal punto di vista del tipo dilavoro che mi permetteva di lavorare senza avere unorario . Non avendo la vocazione dello spettatore diteatro, non avevo né il senso di una missione né unproposito conoscitivo. Non avevo nulla, la mia missio-ne era opportunistica.

Ma già nel 1969 ebbi le prime rivelazioni anche sequeste le inscrivo in una “preistoria” nel senso che nonle tradussi in una reale presa di coscienza. E questisono gli spettacoli ben precisi che posso citare: 1)“L’imperatore della Cina” di Ribemont e D’Essaignes,messo in scena da Giancarlo Nanni al teatro La Fede(una specie di stalla a Porta Portese); 2) “Amleto” diGiuliano Vasilicò al Beat 72, primo di una lunga serie dispettacoli importanti messi in scena in questo teatro.Queste due rappresentazioni, completamente diverseda quanto visto fino ad allora compreso lo spettacolo diQuartucci, mi colpirono molto. Però, ripeto, non si tra-dussero in una presa di coscienza. Né ciò accadde conil successivo spettacolo “L’angelo custode” di Fleur Iaeggy; o con “I teologi” di Borges, entrambi messi inscena da Giorgio Marini al Beat 72.

La vera presa di coscienza o la prima metà di essaavvenne nel 1971, non in una cantina ma in un grandeteatro, il Sistina, dove Gerardo Guerrieri, un nostro

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grande critico traduttore e animatore, aveva organiz-zato un premio (“Roma” o “Europa”) con la partecipa-zione dei Gruppi più importanti che circolavano allora

in Europa.E lì vidi quello che per me fu lo spettacolo rivelazio-ne nel senso che coincise con il 50% della mia presadi coscienza. Non era uno spettacolo italiano, era il“Deafman glance” di Bob Wilson. Il primo spettacolo,lunghissimo, di Wilson che fu rappresentato per duesere e al quale assistetti tutte e due le sere. La secon-da sera ci sono tornato per portare gli amici, quanti più

amici potevo, perché ero convinto che dovevano vede-re quello spettacolo, che era veramente scioccante.Quello spettacolo fu per me la vera rivelazione del

teatro. Capii, cioè, che il teatro poteva essere, era, èuna potente forma d’arte che con un linguaggio tuttosuo trasmette conoscenze ed emozioni peculiari. Nonstarò qui a descrivere “Deafman glance”; posso diresolo che era uno spettacolo nel quale recitavano attorisordomuti – e già questo dà una misura dell’eccezio-nalità – e nel quale non si parlava o quasi ma tutto eraaffidato alla gestualità del corpo ovvero alla presenzadi quei corpi sulla scena. Lì capii veramente che il tea-tro è la presenza dei corpi sulla scena e sottolineo laparola presenza, che qualche anno dopo capii esserecruciale per definire il senso dell’avanguardia teatrale.

Perché dico presenza? Perché la parola presenza èla parola chiave, secondo me, di Artaud il quale con-trappone – in tutta la sua azione e teoria – l’idea di pre-senza all’idea di rappresentazione, diciamo l’idea dipresentificazione a quella di rappresentazione. Il tea-tro, dice Artaud, non deve rappresentare qualcosa d’al-tro ma essere ciò che è. Il teatro è la presenza, è ciòche accade in quel momento. Non siamo più nel cam-po della mimesi ma nel campo dell’essere, con tutta lacrudezza che ciò comporta, ovvero la crudeltà, il con-

sumo del corpo, cui il corpo presente sulla scenarimanda lo spettatore. Cominciava ad affermarsi que-st’idea, cominciavo cioè a capire che anche il corpo

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sulla scena perisce, anche l’arte perisce, anche ciòche perisce può essere arte oppure anche l’arte puòperire. Quindi, come si vede, tutto si rivoluziona. Il bel-

lo non è più soltanto ciò che è fisso, immobile, eterno.Però noi eravamo giovani che non avevamo fattoesperienza del consumo dei corpi, storia dell’avan-guardia teatrale agli inizi, tale esperienza è venuta piùtardi.

L’altra metà della presa di coscienza avvenne l’an-no successivo, nel 1972, al Festival di Chieri, quandomi sono imbattuto per la seconda volta nella mia vita,

però in modo diverso, in Leo De Berardinis che recita-va con Perla Peragallo in uno spettacolo intitolato “‘OZappatore”. Non erano soli in scena ma era come selo fossero. Mentre lo spettacolo di Bob Wilson mi abba-gliò per così dire per l’elemento di sorpresa, quindi distupore, lo spettacolo di De Berardinis, benché si pos-sa definire di avanguardia (non era certamente unospettacolo di rappresentazione), conseguì per me l’al-tra delle grandi mete che consegue l’arte: la commo-zione, possiamo chiamarla catarsi: perché, come sem-pre, in quello spettacolo Leo suonò la sua corda – cor-da lirica – e la suonò in modo altissimo. Resta sicura-mente uno dei vertici della sua storia personale e di tut-ta la storia dell’avanguardia teatrale italiana.

 Altra data cruciale, il 1973, al Beat 72 con il debut-to di Memè Perlini in “Pirandello chi?”. Quello fu unospettacolo pazzesco perché del lavoro di Pirandellonon era rimasto quasi nulla. Perlini, invece di rappre-sentare i “Sei personaggi” condensò in immagini, inelementi plastici, il concetto, la concettualità sottesa aquel dramma specifico dei sei personaggi. Non più laparola del testo ma la concettualità che quelle paroleimplicano e che Perlini traduceva in immagini.

Voglio ricordare un’altra data, un po’ dimenti-cata, ma cruciale. Mi riferisco a “La conquista del Mes-

sico” di Bruno Mazzali, ancora al Beat 72, con Rosa DiLucia (attrice mitica) e Rossella Or, attrice dell’avan-guardia teatrale romana soprattutto ma che coincide

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con l’avanguardia teatrale italiana. Fu uno spettacolodi fatto rivelazione perché qualcuno riprendeva il pro-blema di Artaud e lo poneva in scena. Non c’è dubbio

che questo spettacolo è cruciale nella storia dell’avan-guardia teatrale italiana non foss’altro che per questomotivo; in ogni caso anche perché Mazzali compiva lostesso tipo di operazione di Perlini, traducendo inimmagini la concettualità sottesa. Quindi uno spettaco-lo imprescindibile.

CIGLIANA  – E poi ci furono “Le 120 giornate di

Sodoma” di Giuliano Vasilicò, al Beat ‘72.

CORDELLI – FU un grande spettacolo che proiettò lanostra avanguardia per la prima volta su una scenainternazionale. Lo spettacolo fu esportato all’estero equando fu rappresentato a Parigi ne scrisse RolandBarthes che allora era una delle grandi autorità euro-pee, mondiali. Lo spettacolo ha rappresentato unaspecie di battesimo che mostra come questa storianon sia una storia locale; non stiamo parlando di qual-cosa di piccolo e irrilevante ma di veramente impor-tante. Sicuramente la nostra avanguardia.

Ho scritto molte volte che senza “Deafman glance”di Bob Wilson l’avanguardia teatrale romana nonsarebbe mai nata. Ma è anche vero che c’erano statiCarmelo Bene, Mario Ricci, Nanni e Quartucci e dun-que c’erano già tutte le premesse. Questo fenomenotutto italiano in realtà fu un fenomeno di portata bensuperiore all’Italia e forse alla stessa Europa. Anziescludo che qualunque altro Paese europeo possavantare altrettanti titoli di merito dell’Italia. Forse sol-tanto l’America compete con la vitalità del nostro teatronegli anni ’70 o nella storia dell’avanguardia Bob Wil-son e Richard Foreman erano solo i prototipi.

CIGLIANA – Nel passaggio dagli anni ’80 ai ’90 lapoetica del gruppo (Magazzini, Gaia Scienza, FalsoMovimento, Valdoca, Socìetas Raffaello Sanzio,

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Krypton, Le Albe, Marcido Marcidorjs, Santagata -Morganti, Centro Sperimentale di Pontedera etc.) siè trasformata in una poetica più tradizionale. È tor-

nato alla ribalta il regista; o forse l’attore; o l’atto-re-regista; o l’attore-autore (Tiezzi, Lombardi, Bar-berio Corsetti, Martone, Servillo, Martinelli, Vacis,moscato ect.). È stato davvero un ritorno al teatrodegli anni ‘50 o si configura come un fenomenonuovo?

CORDELLI – Ovviamente si configura come un feno-

meno nuovo nel senso che non esistono ripetizioni, lecose non si ripetono mai nello stesso modo. Qui ilragionamento è complesso perché mentre tutto il tea-tro tradizionale, sbaragliato sul piano dell’ideologiadominante negli anni ’70, piano piano ha ricominciatoa prendere il suo spazio nel corso degli anni ’80. Que-sto sta nella natura delle cose. Ma quello che qui mas-simamente ci interessa è capire come coloro che sisono formati nella cultura avanguardista si sono poitrasformati. E allora è opportuno – anzi necessario –operare delle distinzioni.

Nel ritorno alla drammaturgia ai livelli alti – duenomi su tutti, Ronconi e Castri – non fu ininfluente l’e-sperienza degli anni precedenti. Intendo dire che sefino a Strehler la messa in scena non era connessa aun’idea di interpretazione critica (con l’eccezione dellostesso Strehler) ma all’idea di una messa in scenacome fatto artigianale, tecnico-artigianale, il traumasubìto dalla nostra tradizione teatrale implicò da partedei teatranti una presa di coscienza a livello globale. Ilritorno alla drammaturgia non poteva avvenire comese niente fosse accaduto, assumendo il testo in modoun po’ passivo o meccanico; solo in termini di bravuratecnica o meramente artigianale. Si poneva, quindi, unproblema di interpretazione storica del testo e cioè:

cosa ci ha detto il teatro italiano degli anni ’70? Ci hadetto che il teatro è un’arte a sé, con un suo linguaggiomolto complesso e che nella storia mondiale è vissuto

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come arte da pochissimo tempo, dall’inizio del Nove-cento, credo. Il teatro comincia ad essere percepitocome arte con la nascita del cinema; forse, come arte,

addirittura è più giovane rispetto al cinema. Il teatroprende coscienza di sé in quanto arte a prescinderedalla drammaturgia perché c’è il cinema. Allora GordonCraig, o Mejerchol’d o Stanislavskij o Piscator, il teatrorusso e quello inglese, quindi la prima avanguardia,compresi i nostri futuristi, comincia a percepire il teatrocome arte e ad individuare nel regista la figura dell’au-tore. Tutto questo movimento culmina in Artaud. È

qualcosa che va dagli anni ’10 agli anni ’30. Poi neglianni ’40 e ’50 c’è stato come un vuoto, un momento distasi; il risveglio c’è negli anni ’60 e la vera presa dicoscienza e la vera trasformazione e istituzione delteatro come arte avviene all’inizio degli anni ’70. Unadelle punte di questa presa di coscienza è l’Italia. Sem-bra incredibile ma non lo è, considerando il talentofigurativo degli italiani, poiché ciò che emerge è che ilteatro è un’arte di tipo figurativo ancorché narrativa. Allora che cos’è l’avanguardia se non la mediazionetra la staticità o plasticità dell’arte figurativa e la dina-mica dell’arte narrativa? Il teatro d’avanguardia è unostrano compromesso tra queste due tendenze, traqueste due virtualità implicite nel fatto teatrale.

Questa presa di coscienza del teatro come arte,questa acquisizione di consapevolezza, questa eleva-zione della figura del regista ad autore porta il registache si pone di fronte ad un testo ad assumere fatal-mente una posizione critica, una posizione di tipo sto-rico ed ecco che con il ritorno alla drammaturgia deglianni ’80, questi registi questi grandi spettacoli (gliIbsen di Castri o di Ronconi) impongono la necessitàche il teatro si faccia in un certo modo. Cioè che d’orain poi si distingua tra teatro commerciale e teatro noncommerciale ancorché apparentemente siano simili.

Cioè Ibsen può essere messo in scena da Castri o daun regista giovane e quindi inesperto oppure non bra-vo apparentemente in modo uguale ma producendo

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due spettacoli diversi che non hanno quasi nessunrapporto con Ibsen.

CIGLIANA – Mi sembra che risalga propri a questaseconda metà degli anni ’80 la consuetudine dipubblicare i testi riscritti dai registi-autori. C’è unadrammaturgia della drammaturgia, una riscritturadei testi che è sintomatica di quello che sta avve-nendo e che va a costituire un anomalo genere let-terario, abbastanza tipico di quegli anni: il testo“della scrittura scenica”.

CORDELLI – Sì, fu Bartolucci a chiamarlo così. Nonc’è solo la scrittura drammaturgica ma c’è la scritturascenica come fatto in sé che, mentre in Bob Wilson èevidente perché lo spettacolo è quasi muto, nell’Ibsendi Castri è meno evidente: poiché c’è anche una dram-maturgia, ci sono anche le parole. Si tratta quindi divedere i punti di contatto e quelli di autonomia dellascrittura scenica rispetto alla scrittura da cui si sonoprese le mosse.

Quando alcuni dei gruppi, che si erano formati neglianni ’70 e che avevano cominciato a fare teatro secon-do modi esplicitamente avanguardistici, si sono a pocoa poco convertiti e sono tornati alla drammaturgia, nonhanno potuto fare questa operazione impunemente:meno ancora di tutti gli altri, perché condizionati dalleprecedenti esperienze. Affermo che lo erano in modoanche molto negativo nel senso che un conto è che deicorpi si muovano sulla scena come se danzassero,quindi allenati a un certo tipo di gestualità, di movi-mento, di plasticità, altro è se quei corpi appartenentiad attori giovani ma non più giovanissimi devono emet-tere dei suoni, delle voci, pronunciare discorso, dialo-gare con altre persone, insomma recitare privi in talsenso di ogni esperienza. Sicuramente si trovano in

difficoltà.Secondo me il caso più clamoroso, nella forma del

fallimento, è Giorgio Barberio Corsetti, che debuttò nel

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1976 con “La rivolta degli oggetti” di Majakovskij, titolomolto significativo, emblematico per uno spettacolod’avanguardia. Fino al 1984 ha prodotto una quantità

di spettacoli veramente notevoli, alcuni bellissimi(“Cuori strappati”, “Notturni diamanti”), specie quelliallestiti nel Parco dei Daini di Villa Borghese con Mar-co Solari, Alessandra Vanzi e Guidarello Pontani. Unconto sono questi spettacoli, altro è quando BarberioCorsetti si è messo a recitare, a far recitare i suoi atto-ri con il risultato di rendere evidente tutta la sua ine-sperienza, una forma di ritardo culturale. Questi attori

giovani, ma non più giovanissimi, con alcuni anni dicarriera alle spalle, dovevano trasformarsi all’improvvi-so in attori tradizionali, ancorché non lo fossero affatto.

CIGLIANA  – È come se Barberio Corsetti avesseceduto alla necessità della parola, senza che anco-ra fosse arrivato “storicamente” il momento di far parlare gli attori e senza aver ancora lavoratoabbastanza in tal senso.

CORDELLI – Barberio Corsetti è stato quello che hapagato di più lo scotto di questo passaggio. L’altrogruppo che avrebbe potuto pagare di più (senza checiò accadesse) è “I magazzini”, la cui esperienza èparallela a quella della Gaia Scienza. I Magazzini han-no avuto la fortuna 1) di trovarsi un attore vero, SandroLombardi, in casa e 2) di avere alle spalle una poetica,nel senso letterario del termine, molto forte, ben preci-sa. E questo era un patrimonio di Federico Tiezzi, maanche dello stesso Lombardi. Qui pensiamo soprattut-to ai rapporti di questo gruppo con Testori. Allora l’ave-re le spalle coperte ha consentito ai Magazzini di poter continuare – pur alternando spettacoli più o meno bel-li – ad elaborare le proprie visioni nel senso degli anni’70 con un patrimonio figurativo visionario e nello stes-

so tempo di poter recitare Dante a livelli elevati. Altri gruppi, come ad esempio Falso movimento,

hanno avuto una storia più complessa, più frastagliata,

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nel senso che qui è importante l’origine del gruppo. Nelcaso di “Falso movimento” è Napoli, città che ha unatradizione tutta sua e che ti consente di salvarti comun-

que. Anche lì, però, con esiti dissimili tra loro nel sen-so che un attore come Toni Servillo, un vero attore, haaffinato abbastanza rapidamente le sue possibilità diespressione fino a diventare un interprete (anchecome regista) di primo rango. Sembra quasi che abbiadissimulato all’inizio, camuffandosi.

Viceversa non sono altrettanto sicuro delle qualitàregistiche, non delle qualità figurative, di Martone.

Penso che Martone abbia una vera dote di visualizza-zione delle scene drammatiche. Ho dei dubbi sulla suacapacità di interpretare testi, sulla sua capacità di leg-gere e di far recitare adeguatamente gli attori. Ho l’im-pressione che della storia ormai più che ventennale gliesiti più alti di Martone rimangano di fatto le prime pro-ve quelle che lui ha affrontato come regista puramented’avanguardia. Penso ai primi spettacoli, a “Controllototale”, a “Rosso texaco” a “Tango glaciale”. Credo chenessuno spettacolo suo di interpretazione o di rappor-to con un testo mi abbia convinto fino in fondo. Forse ilpiù interessante che abbia visto messo in scena daMartone è il “Riccardo II”, all’inizio degli anni ’90 aNapoli. Disponeva di un cast notevole. Ecco che l’in-nata qualità istrionica dei napoletani ha il suo peso; latradizione ha il suo peso anche nella trasformazione,nell’evoluzione della cosa avanguardistica. Ho citato itre gruppi più importanti, di quelli sopravvissuti daglianni ’70 agli anni ’80 e addirittura dagli anni ’80 aglianni ’90.

In quanto agli altri, che sono citati nella domanda,Valdoca, Societas Raffaello Sanzio, Krypton e Ponte-dera, questi sono tutti gruppi nati dopo gli anni ’70 equindi già in una fase di maturazione del linguaggiosperimentale. Erano più liberi, quindi hanno potuto

mixare le due esperienze, le due culture, con menocondizionamenti rispetto ai tre gruppi citati prima.

Ognuno ha sviluppato un suo linguaggio, chi più chi

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meno interessante. Non mi sembra sia il caso di espri-mere giudizi singoli. Certamente oggi posso dire che laSocietas Raffaello Sanzio accanto a spettacoli fasti-

diosi come il “Giulio Cesare”, hanno prodotto spettaco-li molto belli, con immagini folgoranti di grande poten-za plastica. Quindi non un ritorno al teatro degli anni’50 ma un fenomeno nuovo che ha delle sue diverse emolteplici pecularietà.

CIGLIANA – Due date: nel 1988 il ministro Carrarosegna la nascita del teatro azienda, nel 1989 la fine

dell’attività di Giuseppe Bartolucci come criticomilitante.

CORDELLI  – La circolare Carraro è uno dei grandidrammi della storia del teatro italiano, forse è lo spec-chio di uno dei drammi della storia d’Italia, è uno deipunti di americanizzazione del nostro Paese. Può dar-si che questa americanizzazione sia necessaria. Vivoquesta data come un fatto forse storicamente neces-sario ma da un punto di vista dell’evoluzione di un lin-guaggio è una data molto negativa, nel senso che nelmomento in cui Carraro stabilisce che i teatri che van-no finanziati dallo Stato sono quelli che producono dipiù e meglio, decreta la morte del teatro come formad’arte e istituisce il fatto che il teatro è un’azienda.Esso fornisce prodotti cosiddetti estetici. Muore la pos-sibilità di parlare di teatro di ricerca. Muore l’idea che ilteatro sia un’arte. Naturalmente questa idea non èmorta, è morta a livello istituzionale. Si potrebbe obiet-tare che il teatro vive contro o al di fuori delle istituzio-ni. E infatti è vero, cioè sopravvive in questo modo, maè anche vero che il teatro è, come l’arte figurativa clas-sica o come l’opera lirica, una forma d’arte fuori delmercato. Ha troppo poco pubblico perché il pubblico lopossa sostenere. Coloro che fanno teatro, e i cui corpi

trent’anni dopo vediamo che sono invecchiati, si sonoconsumati: perché i corpi sulla scena si consumanopiù che altrove, e se devi produrre uno o due spettacoli

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l’anno, le facoltà immaginative e fantastiche tendonoad esaurirsi prima del tempo. Con l’idea del teatrocome azienda non puoi rispettare un tuo ritmo natura-

le di creazione, sei obbligato a trasformare quella chesarebbe una tua crescita naturale, sei obbligato adaccelerare questi ritmi per fornire prodotti anziché ope-re, o creazioni. Ecco che l’accelerazione dell’elementotemporale – ciò in cui consiste l’americanizzazione – èla vera strozzatura, che se da una parte sembra incre-mentare, dall’altra depaupera, impoverisce, isterilisce.In effetti, il teatro italiano degli anni ’90 è un teatro

poverissimo di date, non dell’avanguardia totale, ma dispettacoli importanti, belli rispetto a quelli degli anni ’70e ’80.

CIGLIANA  – Anche perché la Circolare Carraro,obbligando i gruppi di ricerca a immettersi sul mer-cato, in concorrenza con le compagnie di teatrotradizionale, finiva, nei fatti, per indurli a tradire laloro più vera natura e a produrre, per necessità disopravvivenza, spettacoli più indulgenti con i gustidel grande pubblico.

CORDELLI  – In questo è implicita la constatazioneche gli anni 1988 e 1989 sono uno vicino all’altro. Il1989 vede l’uscita di scena di Bartolucci come demiur-go. Bartolucci girava in lungo e in largo l’Italia alla ricer-ca di giovani, di nuovi gruppi, che poi invogliava attra-verso la sua grande capacità di stimolazione, unacapacità socratica, maieutica. I giovani credevano inlui; e lui era capace di farli sentire importanti, come eragiusto. Creava continuamente gruppi, figure singole,festival, rassegne. E tutto questo ovviamente era vita-lità.

Bartolucci ha pagato duramente questa sua militan-za perché ha vissuto la sua attività come una militan-

za. Critico militante perché non lo è stato solo nel sen-so teorico e concettuale ma nel senso di uno chescendeva in campo, si muoveva fisicamente. Qualco-

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sa che rappresenta lo spirito ribellistico e guerrierodegli anni ’70 e ’80.

CIGLIANA  – È plausibile l’idea che il vero teatrosperimentale sia fatto ancora da due soli gruppi adun certo livello la Socìetas Raffaello Sanzio e laValdoca?

CORDELLI  – No, non è plausibile. Probabilmente laSocìetas Raffaello Sanzio e la Valdoca sono i duegruppi che definirei più rigorosi; oggi si direbbe inte-

gralisti. Non so se è il termine giusto perché integrali-smo fa pensare al fanatismo che non c’entra nientecon ciò che fanno questi due gruppi anche se all’inter-no ci sono delle persone veramente fanatiche. Sempli-cemente questi due gruppi elaborano un loro linguag-gio, seguono la loro strada. Non si può dire che non sipiegano a nessun compromesso perché non si pongo-no nemmeno il problema se piegarsi o no ad un com-promesso, non sarebbero capaci di farlo. La parolaintegralismo forse non sarebbe giusta ma è certamen-te vero che il discorso del teatro d’avanguardia, cheprima ho cercato di delineare, in questi due gruppi con-tinua con una sua pienezza d’intenti: nel senso cheessi non si manifestano attraverso la messa in scenadi testi drammaturgici preesistenti. Nel loro comporta-mento, cioè, non c’è nessuna soggezione di tipo idea-listico. Intendo dire questo: tutto il teatro tradizionaleper me pecca di idealismo, cioè considera la dramma-turgia come un’idea platonica, qualcosa di dato da cuisi deve dedurre qualcos’altro, che è di necessità quel-lo, e il più bravo è chi si avvicina di più a questa formaimplicita nel testo drammaturgico. Questo è davvero l’i-dealismo. L’avanguardia, cioè il materialismo, è il pro-cedimento opposto: si parte dal basso, dal corpo, dal-l’assenza di un testo. Il testo si va scrivendo sulla sce-

na e il fatto che poi un attore si aiuti con parole preesi-stenti è un fatto normale perché nessuno nasce al difuori di un contesto. Ed ecco allora che le parole che la

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Valdoca e la Socìetas Raffaello Sanzio usano nei lorospettacoli, i testi scritti, poniamo, da Mariangela Gual-tieri o da Claudia Castellucci, sono parte del contesto.

Lo spettacolo non è mai deduttivo, non è mai di tipoidealistico.Però non ci sono solo questi due gruppi, qui vedo

citato “Le Albe”. Questo gruppo costituisce un’espe-rienza importante nella elaborazione di una poeticadella corporalità che ha un rapporto importante conuna tradizione, un contesto storico, per esempio con ipoemi eroicomici, con la cultura romagnola in genere.

(All’improvviso sembra che Folengo sia il regista Mar-tinelli; come se uno vissuto quattro secoli fa si fossereincarnato, fosse trasmigrato. Cioè, c’è una consu-stanzialità, una profonda logica, possibile perché partedal basso).

CIGLIANA  – Pippo Delbono e Danio Manfredinirappresentano un fenomeno nuovo, una specie diteatro verità?

CORDELLI – Non so rispondere perché li ho visti trop-po poco. Presumo che in due modi diversi possaesserci del vero, cioè Delbono, probabilmente, comeerede di una tradizione di engagement, con il teatrosociale, il teatro impegnato, la mobilitazione in favoredei diseredati, dei dannati della terra, ecc.. Manfredinipiù sul piano di un teatro di ricerca esistenziale, diricerca di una propria verità interiore, di un proprio ten-tativo di soluzione di una dramma personale, di unamessa in questione del proprio corpo come fonte pri-maria del disagio, del malessere. Probabilmente que-sti due autori rappresentano queste due massime tra-dizioni dell’esperienza umana, non dell’esperienza tea-trale; però se ne siano i maggiori rappresentanti e sia-no un fenomeno nuovo io non mi sentirei di dirlo per-

ché, come ripeto, li conosco troppo poco.

CIGLIANA  – Alcuni nomi di nuovi gruppi: Motus,

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Fanny & Alexander, teatrino Clandestino, Accade-mia degli Artefatti, gruppo Masque, Teatro del lem-ming. Queste formazioni nascono, almeno in una

certa misura, protette dalle istituzioni. Che cosaimplica?

CORDELLI – Conosco poco anche questi gruppi. Per quel che ho visto posso dire che appartengono allastoria dell’avanguardia italiana, e i cui modi di espe-rienza, di produzione di oggetti d’arte, di modo di starein scena, di occupazione degli spazi, sono parte dell’a-

vanguardia. Però la mia impressione, superficiale, èche essi è come se avessero rimpicciolito la portatadegli interrogativi formali linguistici che avevano rivoltoa se stessi e al pubblico i gruppi nominati prima.

Forse il “Teatrino clandestino” è l’emblema di tutto ilmovimento ultimo dell’avanguardia teatrale. Cioè unaclandestinità che non è tanto avanguardia, prodromodi qualcosa che esploderà dopo, ma è qualcosa di ulti-mo e derivato e anche qualcosa di compiaciuto. Saràper colpa del contesto veramente penalizzante ma cer-to vi è anche della responsabilità personale.

“Motus” è un gruppo che ho visto un po’ di più edevo dire che non noto sostanziali differenze daglispettacoli che i Magazzini proponevano negli anni ’80.Qui siamo addirittura con vent’anni di ritardo: aggior-nati all’oggi da un punto di vista puramente tematicoma non da un punto di vista linguistico. Allora pensoche ci sia una forma di compiacimento, una specie dinarcisismo e in fondo di accademismo estetizzante.Quindi mi fa pensare che l’energia creativa dell’avan-guardia sia piuttosto ridotta in questo momento.

CIGLIANA – Si può citare una tendenza anomala opoco registrata o poco acclamata?

CORDELLI – Mi viene in mente Mimmo Cuticchio, cheho rivisto in uno spettacolo su Gesualdo da Venosa,sicuramente meno importante e meno bello del prece-

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dente da me visto, ma era uno spettacolo il cui lin-

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, pguaggio aveva una sua precisa finalizzazione, era con-dizionato a priori perché si rivolgeva ad pubblico deter-

minato, quello dei bambini.Perché Cuticchio è importante? Perché possiamoregistrarlo come tendenza anomala o poco registratae, alla fine, nuova? Proprio perché è antica, proprioperché la versione del puparo è talmente antica e tal-mente locale e Cuticchio è una persona di tale vitalitàpersonale che nel momento in cui appare sulla scenasi presentifica. Da una parte attraverso i pupi rappre-

senta, in modo addirittura meccanico, marionettistico,burattinesco e quindi in fondo parodistico, il poemacavalleresco (e quindi rende evidente la natura dellarappresentazione) e dall’altra non si limita a fare dellaparodia o dell’ironia perché è lì, presente in scena, conil suo corpo, facendo una specie di controcanto rispet-to alla sua tradizione. Si espone personalmente, si pre-sentifica, e mescola i due linguaggi ottenendo un effet-to nuovo che io non conoscevo, produce una veraemozione e una vera conoscenza della possibilità diaggirare, di dare nuovo fuoco, una nuova vita a qual-cosa che stai rappresentando e che è stata rappre-sentata mille altre volte.

Mi vengono in mente altri due nomi – Ruggero Cap-puccio e Enzo Moscato, due drammaturghi napoletaniche hanno tante cose curiose, alcune in comune altreno. In comune hanno le origini napoletane e lo scrive-re in dialetto, dimostrando così che la lingua italiana(questo si sapeva da trent’anni) a teatro non può esse-re usata e, implicitamente, che scrivendo in dialettonon si può comunicare all’universo mondo ma solo achi quel dialetto capisce, cioè a pochi. Il dialetto comu-nica che il teatro è per pochi felici, per i pochi chesaranno in grado di capire, nonostante tutto, o perchésono napoletani e perché il teatro è un fenomeno d’é-

lite. Lo era anche negli anni ’70, però l’avanguardia erail linguaggio dominante, creava una tendenza, ungusto, era accessibile ad un maggiore numero di per-

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sone – potenzialmente a tutti – poiché figurativo. Ora

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né Moscato né Cappuccio sono in grado di creare ungusto, non sono un punto di riferimento se non per 

alcuni pochi teatranti. Al di fuori del mondo del teatro,nessuno li conosce.

CIGLIANA – Anche perché negli anni ’70 il teatrorappresentava il luogo dell’utopia, lo spazio diricerca “pubblico” per eccellenza.

CORDELLI  – Certo, era un’utopia di affrancamento

dai vincoli sociali ed espressivi in genere. Cappuccio eMoscato hanno in comune di esserenapoletani, di scrivere in dialetto, di scri-vere un dialetto proprio, ognuno dei duepersonalissimo. Ciò che hanno meno incomune è il fatto di essere, il primo unmitografo della classicità, che esibisceun rapporto critico con la materia lette-raria molto complesso un rapporto chetraduce immediatamente in una icasti-cità figurativa molto forte; il secondo èun esistenzialista napoletano, con un

rapporto con la classicità più controverso nel sensoche sembra averlo solo con la classicità locale (Vivia-ni, per intenderci) e forse non lo possiede veramentequesto rapporto. Moscato è un uomo solo nel sensoculturale anche se ha lavorato e lavora con i Teatri Uni-ti, è amico di Martone e di Servillo (ha lavorato conloro, insieme hanno fatto uno spettacolo meraviglioso,“Rasoi”). Però è certamente un uomo solo nel sensoesistenziale e sociale del termine e la sua forza, la suaimportanza, è di esporre questa solitudine e nuditàsebbene lo faccia collegandosi, più di quanto accada aCappuccio, ad elementi figurativi più tradizionali delteatro napoletano.

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CIGLIANA  – Quali sono dunque, a tuo parere, ledate cruciali dell’avanguardia teatrale italiana?

Marco P ALLADINI  – Più che stare ad indicare unasequenza storica e cronologica, mi interessa rifletteresulla situazione del teatro italiano quando si incomincia

a delineare, a partire dai primi anni ’60, una scena d’a-vanguardia. I primi, fondamentali segnali di rinnova-mento sono venuti nel dopoguerra con l’affermarsianche da noi del teatro della regia critica, che ha fin dasubito due indiscutibili protagonisti: Luchino Visconti eGiorgio Strehler. È in pratica l’irrompere di una culturamoderna in una scena pre-moderna, che nonostantegli sforzi di Pirandello negli anni ’20-’30 continuava arifarsi al modello del cosiddetto teatro all’antica italia-na. Ciò che voleva dire una struttura rigidamente capo-comicale, repertori modesti o polverosi, allestimentifrettolosi e pressappochisti, gli stessi classici inscenatiin modo sommario, senza alcun approfondimentointerpretativo, la medesima arte dell’attore legata acanoni ottocenteschi, esteriorizzati e manieristici. La“riforma” moderna di Visconti e Strehler non è cosa dapoco. Il primato passa dall’attore capocomico al registanon attore. Colui che è detentore di una cultura criticadella messinscena, che affronta il lavoro con unapproccio fortemente ermeneutico sia nei confronti deiclassici che dei testi contemporanei, che impone pro-lungati periodi di prove per riuscire a plasmare un nuo-vo e più elaborato stile attorale, che eleva la qualitàcomplessiva degli allestimenti, curando ogni dettaglio,dalle luci ai costumi, dal suono alle scene. Tutto ciò

introduce un inedito rigore etico, professionale e cultu-rale nel teatro, un “metodo” moderno che finirà per diventare il più importante paradigma di riferimento per 

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http://slidepdf.com/reader/full/teatro-davanguardia-in-italia 38/46la nostra scena. Alla fine degli anni ’50 questa riformapuò, quindi, dirsi compiuta: Visconti abbandona in

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p , q , psostanza il campo teatrale lasciando come sua diretta

erede la Compagnia dei Giovani all’Eliseo di Roma,che incarna il nuovo, anche sofisticato “teatro borghe-se”; Strehler che guarda al modello brechtiano ha,invece, con il Piccolo di Milano fondato e imposto unmodello di teatro pubblico animato da una tensionepedagogico-culturale di tipo socialdemocratico, maanche cosciente di dovere recuperare e rivitalizzare latradizione (vedi lo spettacolo-bandiera del Piccolo: l’ Ar-

lecchino servitore di due padroni  riproposto per cin-quant’anni).Rispetto a quest’orizzonte quali sono i punti di

attacco su cui verrà a generarsi la rivoluzione dell’a-vanguardia? Secondo me gli elementi caratterizzantisono due, distinti ma ovviamente interdipendenti. Il pri-mo è la rottura della “endoteatralità” cioè di un teatroimperniato solo su se stesso, sul proprio, peculiaresistema espressivo. L’avanguardia si propone fin dall’i-nizio come un’esperienza multidisciplinare, il suo radi-cale impeto energetico-linguistico attinge alle arti visi-ve, all’arte concettuale, alla danza contemporanea,all’happening, alla performance, al cinema, al video,alla più avanzata ricerca musicale. Tutto questo ripor-ta all’idea, già concepita dalle avanguardie del primoNovecento, di un’opera d’arte totale. È questo il filorosso che connette i capofila degli anni ’60-’70: MarioRicci (con Claudio Previtera), Carmelo Bene, CarloQuartucci, Leo de Berardinis (con Perla Peragallo) epoi Giancarlo Nanni, Perlini-Aglioti, Vasilicò, SimoneCarella, Remondi & Caporossi.

Sempre a proposito della rottura con la “endotea-tralità” non va dimenticato che i protagonisti dell’a-vanguardia praticamente si auto-inventano teatranti,senza alcun background o tirocinio specifico nel tea-

tro convenzionale. Il transito di Carmelo all’Accade-mia “Silvio D’Amico” o di Quartucci allo Stabile diGenova sono dei momentanei, brevi passaggi, utili

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soltanto a stabilire la loro incompatibilità e ad avviarela traiettoria del loro antagonismo artistico. Questa

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estraneità psicologica, personale e professionale al

teatro cosiddetto ufficiale è un fattore assai importan-te per considerare poi i pregi e i limiti dell’avanguar-dia teatrale. Ed è, d’altronde, un fattore permanenteche ha contraddistinto il teatro di ricerca nostrano per 40 anni, fino ai giorni nostri. Ci sono in pratica dueambienti, due “ecosfere” teatrali che non s’incontra-no, che rimangono in larga misura impermeabili l’unaall’altra.

Il secondo decisivo elemento che caratterizza l’a-vanguardia contro il teatro di regia è il rigetto del testo,del copione drammaturgico. L’unico che cerca fino adun certo momento di riferirsi alla testualità, ad unadrammaturgia innovativa, è Quartucci a cui dobbiamoalcune pionieristiche e bellissime messinscene diBeckett e il coraggioso esperimento di Zip Lap Lip Vap

Mam etc. di Giuliano Scabia alla Biennale del ’65. Per tutti gli altri è netto il passaggio dalla centralità dellascrittura drammaturgica alla primazìa della scritturascenica. Cioè ad una composizione di segni sinesteti-ci in cui il testo può anche comparire, ma come lacer-to drammatico, suggestione letteraria, frammento poe-tico accessorio. Carmelo, il più geniale di tutti, procla-ma la “sospensione” della rappresentazione e dichiara,col suo tipico gusto del paradosso, che invece di “met-tere in scena” qui si tratta di “togliere dalla scena”,ossia di dismettere tutti i pilastri dell’aborrito “teatro diprosa”.

Se è questo, sia pure detto sbrigativamente, il qua-dro essenziale del teatro “alternativo” degli anni ’60 eprimi ’70, mi sembra però necessario segnalare unnodo problematico irrisolto, una vera aporia della rivo-luzione teatrale avanguardista in Italia: la questionedell’attore. Mentre altrove — vedi la linea Stanislavskij-

Grotowski-Barba — ci si pone il problema teorico e pra-tico del training, ossia della costruzione di un attorediverso, e in definitiva di una inedita antropologia tea-

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trale, in Italia la questione della formazione di nuovaattoralità è stata completamente elusa. Nell’orizzontedella scrittura scenica l’attore è in sostanza un perfor

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della scrittura scenica l attore è, in sostanza, un perfor-

mer duttile e intercambiabile. Grande enfasi viene cer-to data alla gestualità, al linguaggio del corpo, ma è tut-to lavoro empirico, estemporaneo, improvvisato, senzavere basi e senza un’adeguata codificazione espressi-va. Il risultato è che di attori “creativi” significativi nesono venuti fuori pochissimi, ed è mancata del tuttouna pedagogia teatrale, una metodologia d’apprendi-mento. Certo, l’avanguardia ha partorito due attori tota-

li, i “mostri sacri” Carmelo Bene e Leo de Berardinis,ma si tratta di due monadi riferibili soltanto a se stesse.Carmelo, che è un genio anche culturale, ha pro-

dotto una iperbolica teorizzazione su di sé, sull’artificiodella  phoné, su “C.B. macchina attoriale”, una teoriz-zazione tanto affascinante quanto inutilizzabile daaspiranti attori perché mera emanazione del suo irri-producibile, straordinario, unico talento, sublimazioneestrema e rovesciamento nichilistico del modello delsuper attore-istrione romantico ottocentesco. Differen-te nei percorsi, assai più contradditorî e variegati, maanalogo quanto ad unicità e lucidità, il caso di Leo,figura proteiforme e metamorfica, capace di reinven-tarsi quasi ad ogni decennio, pur mantenendo un filo ditenacissima coerenza con l’idea di un attore solista“free”, capace di trascorrere da Shakespeare alla sce-neggiata napoletana, da Pirandello a Totò, dalle espe-rienze con gli emarginati di Marigliano a Dante e Leo-pardi.

Carmelo e Leo, dunque, come eccezioni autopro-dotte che sicuramente non potevano “fare scuola”.Risibile era, del resto, anche l’etichetta di “scuolaromana” affibbiata al cosiddetto teatro-immagine che sifaceva nelle cantine capitoline negli anni ’70: oltre aicitati Nanni, Perlini, Vasilicò, Remondi & Caporossi e

Carella, come non ricordare Pippo Di Marca, BrunoMazzali, Gianfranco Varetto, Ugo Margio, Giorgio Mari-ni, Giancarlo Sepe, Severino Saltarelli, Gianni Colosi-

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mo, Lisi Natoli e tanti altri. Tutto un movimento, quellodella sperimentazione romana, frastagliato, fin tropporigoglioso, e proliferato anche per metastasi modaiola,

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gog oso, e p o e ato a c e pe etastas oda o a,

che bruciò in un decennio le sue migliori energie e lesue più feconde intuizioni artistiche. Ci volle la genia-lità di Simone Carella che decise di abbandonare il tea-tro per invadere il territorio con l’evento del Festival deiPoeti nel ’79 sulla spiaggia di Castel Porziano e il col-po di mano di Leo che s’inventò nell’82 al Parco deiDaini il Censimento teatrale, altrimenti appellato comeLa strage dei colpevoli , a segnare l’apoteosi e l’effet-

tuale esaurimento di quel fenomeno.Significativo che in entrambe le operazioni ci fossela complicità intellettuale e organizzativa di FrancoCordelli. Lui che pure aveva fiancheggiato e illustratocon grande sagacia critica quella stagione, partecipa-va a decretarne il tramonto.

L’epicentro della ricerca si spostava, anzi si era spo-stato altrove. In linea col “gruppettarismo” politico deglianni ’70, i nuovi protagonisti diventavano i gruppi che illoro principale teorico e mallevadore, Beppe Bartolucci,si affrettò a definire “la post-avanguardia”. Nel ’72nasce a Firenze Il Carrozzone (con Federico Tiezzi,Sandro Lombardi e Marion D’Amburgo) che nel ’79assume il più aggressivo nome di Magazzini Criminali.Nel ’76 fa il suo esordio la romana Gaia Scienza (conBarberio Corsetti, Marco Solari e Alessandra Vanzi).Nel ’77 si avviano i napoletani Falso Movimento (gui-dato da Mario Martone) e Teatro dei Mutamenti (con Antonio Neiwiller e Renato Carpentieri). Il Teatro Studiodi Caserta (con Toni Servillo) parte nel ’78. Nel ’79 pren-de le mosse il milanese Out-Off (diretto da AntonioSixty). Nell’80 nascono il duo pugliese-toscano Santa-gata & Morganti e il Teatro della Valdoca di Cesena;nell’81 debuttano i Raffaello Sanzio, cesenati pure loro,e il torinese Teatro Laboratorio Settimo (guidato da

Gabriele Vacis). La mappa degli altri gruppi inclusi nelfilone della post-avanguardia comprende i Krypton diFirenze (’82), Padiglione Italia (’82), i Tradimenti Inci-

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