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Cultura scientifica e cultura umanistica Sguardi complementari di fronte alle sfide del presente spunti di riflessione 03 La Decrescita, i broccoli e le scale di valerio bini 04 Funzione e Formazione docente tra passato, presente (e turo?) di gianluca bocchinfuso 08 Quale formazione è richiesta dal Ministero ai docenti di storia e geografia? di marina medi proposte educative 10 Dalle risorse ai beni comuni di emanuele vigo 60 parole, musiche, immagini 44 Ripensare la letteratura e l’identità (Silvia Camilotti) a cura di anna di sapio 46 Il paese delle maree (Amitav Ghosh) a cura di shara ponti 49 Hayao Miyazaki: il delicato equilibrio tra natura e téchne di stefano locati 52 Aulò! Aulò! Aulò! (di Ribka Sibhatu a cura di Simone Brioni) La quarta via (di Kaha Mohamed Aden e Simone Brioni) a cura di laura morini 55 Le nostre pubblicazioni 12 dossier Strumenti Poste italiane s.p.a. - Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1 comma 2. LO/MI in caso di mancato recapito inviare al CMP Roserio per la restituzione al mittente che si impegna a corrispondere i diritti postali. strumenti cres n.60 – supplemento al n. 482 di manitese – febbraio 2013

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Cultura scientifica e cultura umanisticaSguardi complementari di fronte alle sfide del presente

spunti di riflessione

03La Decrescita, i broccoli e le scaledi valerio bini

04Funzione e Formazione docente tra passato, presente (e futuro?)di gianluca bocchinfuso

08Quale formazione è richiesta dal Ministero ai docenti di storia e geografia?di marina medi

proposte educative

10Dalle risorse ai beni comunidi emanuele vigo

60parole, musiche, immagini

44Ripensare la letteratura e l’identità(Silvia Camilotti)a cura di anna di sapio

46Il paese delle maree (Amitav Ghosh)a cura di shara ponti

49Hayao Miyazaki: il delicato equilibrio tra natura e téchnedi stefano locati

52Aulò! Aulò! Aulò!(di Ribka Sibhatu a cura di Simone Brioni) La quarta via(di Kaha Mohamed Aden e Simone Brioni)a cura di laura morini

55Le nostre pubblicazioni

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strumenti cres n.60 – supplemento al n. 482 di manitese – febbraio 2013

L’importante è partecipare

Periodico in pdfPer ricevere il periodicoin formato pdf scrivi a:[email protected] Piccolo gesto che Permette di ridurre la nostra imPronta ecologica quotidiana.

L’importante non è vincere, ma partecipare. È un proverbio di uso popolare, citato spesso per rendere meno amara una scon-fitta. Una frase consolatoria e dal retrogusto educativo, tipica dell’allenatore che dà una pacca sulla spalla al suo atleta. Come dire: hai perso, è vero, ma la cosa più importante è che c’eri, che hai giocato.Un’espressione a prima vista innocente, che rischia però di diventare un luogo comune fuorviante e pericoloso. Non solo perché non è di particolare sollievo quando ci si trova battuti in una competizione, ma anche e soprattutto per il fatto che pone in antitesi il concetto di vittoria e quello di partecipazione, dandoli per contrapposti.Così partecipare sembra una cosa da perdenti, un contentino per i secondi.

Invece il partecipare (dal latino pars, parte, e capere, prendere) è il prendere parte di tutti i soggetti coinvolti in un’impresa di comune interesse è un fattore determinante per la buona riuscita dei processi di cambiamento, a maggior ragione se complessi e contraddistinti da un’ampia pluralità di giocatori.La parola partecipazione va molto di moda di questi tempi e viene spesso utilizzata a sproposito, motivo per cui vale la pena di fare un po’ di chiarezza intorno al suo significato.

Per prima cosa non è da confondersi con la rappresentanza, ca-ratterizzata dal meccanismo della delega, che sta alla base delle democrazie chiamate appunto rappresentative. Autorizzare qualcun altro ad agire per proprio conto non basta. Il voto di per sé non può essere considerato un esercizio di partecipazione se non è accompagnato da un coinvolgimento dei cittadini oltre e a fianco delle istituzioni. Le elezioni sono solo uno dei momenti in cui si esprimono i diritti e doveri di cittadinanza. Perderebbero tutto il loro valore se venissero meno il raccordo,

il collegamento e il controllo tra elettori ed eletti.Sarà forse per questo che un numero sempre maggiore di perso-ne sceglie di non recarsi alle urne?

Il principio vale anche per le tecnologie informatiche, da molti individuate come mezzo privilegiato per dare vita a nuove forme di democrazia diretta. La partecipazione non coincide con la possibilità di esprimere la propria opinione in qualsiasi momento, se poi questa non ha un peso reale e riconoscibile nel processo in cui si è coinvolti. La rete è uno strumento dalle infinite potenzialità, ma non può essere confusa con un fine, poiché non garantisce da sola ad un cittadino la rilevanza del suo apporto. Non è sufficiente cliccare mi piace o commentare un post su un blog per contribuire alla crescita e al cambiamen-to di una società.

Il senso più profondo e squisitamente politico del prendere par-te va cercato oltre i flussi elettorali e i mezzi che ci rendono più semplice restare in connessione con gli altri esseri umani. Si identifica nell’agire responsabile delle persone e nella continua costruzione di una comunità viva, plurale, mobile e informata, in grado di svolgere una costante funzione di collegamento tra cittadini e istituzioni. È nel modo in cui si alimentano le piccole e grandi comunità che compongono il nostro tessuto sociale, siano esse la scuola, la famiglia o il luogo di lavoro, che si gioca la partita della partecipazione. È nella cura dei processi decisionali che si può intervenire per accrescere il capitale umano e sociale di un’im-presa, un ente locale, un’associazione.Non si tratta di decidere tutti insieme, come pensano erro-neamente in molti, ma di dare ad ognuno la possibilità di incidere, di mettere a disposizione risorse e talenti potendo contare sulla rilevanza del proprio contributo. Solo così il gioco diventa davvero a somma positiva per tutti, sia per chi ha la responsabilità di guidare una comunità (diri-genti, amministratori, sindaci, presidi etc.) che per chi ne fa parte.

Allora possiamo affermare senza remore che partecipare conviene, perché:

↘ Fa crescere le persone, permettendo ai singoli di aumen-tare le proprie competenze e le proprie risorse da spendere nel progetto in cui sono coinvolti;

↘ Rende possibile il cambiamento, aiutando a risolvere i problemi delle comunità e favorendone l’empowerment;

↘ Facilita l’innovazione sociale, valorizzando la creatività dei singoli e il loro senso di appartenenza alla comunità.

Quel vecchio proverbio andrebbe cambiato. L’importante è partecipare, così si vince.

Giacomo Petitti

Cultura scientifica e cultura umanistica – editoriale

La decrescita, i broccoli e le scale di valerio bini, presidente mani tese

Cosa unisce un cristallo di ghiaccio e un broccolo romanesco? Apparentemente nulla, e invece questi due prodotti della natura, pure così diversi, condividono una stessa proprietà, quella di essere formati da una struttura che si ripete sempre uguale a scale diverse. Gli scienziati li chiamano frattali e sono un fenomeno naturale molto interessante e utile perché permette di osservare fenomeni simili in dimensioni diverse. Ma cosa c’entrano i frattali con la decrescita? Poco, forse, ma questo fenome-no può essere un utile spunto per analizza-re alcuni elementi della prospettiva teorica della decrescita e alimentare il dibattito su questo tema, anche alla luce della recente Conferenza di Venezia.

La decrescita e il localeMolte delle analisi che sostengono

prospettive di decrescita si fondano su modelli organizzativi fortemente radicati nel locale: il programma delle famose “R”, proposto anche da Serge Latouche, ad esempio, è fortemente orientato a questa dimensione, tanto che una di queste “R” indica proprio la “Rilocalizzazione”, la necessità di radicare nel locale i processi sociali e produttivi. Queste pratiche locali rappresentano un fondamentale punto di riferimento nella costruzione quotidiana di un diverso modo di vivere l’economia, la società e le relazioni con l’ambiente. Diversi autori, tra i quali lo stesso Latouche, sembrano dunque vedere in queste forme organizzative locali la base sulla quale fon-dare una futura “società della decrescita”.

Il passaggio dalla scala locale a quelle superiori però non è automatico: non basta ripetere più volte un’iniziativa che coinvolge un piccolo gruppo di persone affinché questa diventi una pratica efficace di costruzione della società. La società, potremmo dire, non è un broccolo e non funziona allo stesso modo se osservia-

mo un gruppo di amici o le relazioni tra Stati o tra organismi multinazionali. Le dinamiche che regolano un’interazione tra persone che si conoscono e che hanno scelto volontariamente un certo modello di vita non sono le stesse che si trovano a una scala più ampia, che coinvolge più persone, spesso sconosciute e con culture e idee politiche diverse tra loro.

Del resto, Mani Tese questo lo sa benissimo: i piccoli progetti di sviluppo che realizza da quasi 50 anni in tutto il mondo sono elementi fondamentali della costru-zione di un nuovo modello di sviluppo, ma nessuno ha mai pensato che questa società rinnovata si potesse costruire attraverso la semplice somma di una miriade di progetti locali. Per questo il lavoro di cooperazione dell’Associazione è sempre stato accom-pagnato da un forte impegno politico teso a cambiare in senso democratico le regole che costruiscono quotidianamente un ordi-ne diseguale.

Il problema è, dunque, riuscire a coniugare la dimensione delle pratiche con quella delle politiche. Ma cosa succede quando passiamo da pratiche di decresci-ta a politiche di decrescita? Il discorso è ovviamente molto lungo e controverso e mi limito a sviluppare alcuni punti che sono emersi nel dibattito interno a Mani Tese intorno alla Conferenza di Venezia.

Politiche economiche di decrescitaIn un recente numero della rivista di

Banca Etica, Valori, gli Autori hanno pro-vato, forse con qualche eccesso polemico, a mettere in luce alcune criticità delle teorie della decrescita nell’ambito delle politiche economiche. Due punti, molto collegati tra loro, sembrano essere dominanti, il lavoro e il welfare. Il ragionamento, in estrema sintesi, è il seguente: una politica economi-ca di decrescita avrebbe costi sociali enormi perché non solo lascerebbe a casa molti

lavoratori, ma anche perché la diminuzio-ne delle entrate fiscali generata da questa riduzione generalizzata delle attività econo-miche comporterebbe una riduzione dei servizi che lo stato garantisce ai cittadini: sanità, istruzione, pensioni, ecc.

Nel settore del lavoro, in particolare, vediamo in atto quella sorta di contrad-dizione tra la dimensione locale e quella più complessiva: se infatti risulta perfet-tamente comprensibile che una persona o un gruppo di persone decida di lavorare di meno e guadagnare di meno per dedicare più tempo alle relazioni sociali o comun-que ad altre attività che corrispondano meglio alle sue aspirazioni, diverso è il discorso di una politica economica tesa a una riduzione sistematica del lavoro e dun-que dei redditi individuali. Se applicata in assenza di una riforma del contesto sociale e culturale complessivo tale riforma risulte-rebbe semplicemente in un peggioramento della vita di milioni di persone. Per questa ragione i sostenitori della decrescita insistono molto sulla rivoluzione culturale che deve accompagnare e fondare quella economica e politica. E per la stessa ragio-ne la Conferenza di Venezia ha insistito molto sul concetto di transizione. Ciò che però mi pare utile sottolineare è che questa transizione dalle pratiche virtuose alla società della decrescita non può limitarsi a una moltiplicazione delle esperienze locali e richiede una riflessione specifica sull’im-patto che un’organizzazione sociale ed eco-nomica fondata sui principi di decrescita avrebbe sulla società nel suo complesso.

Un altro esempio in questo ambito è dato dalle politiche di welfare. In una società della decrescita, in assenza di risorse fiscali tali da garantire un sistema di assistenza come quello presente, una parte rilevante dei servizi ora forniti dallo stato potrebbero essere sostituiti dalle relazioni di prossimità che si costruiscono alla scala

3Strumenticres n.60 – febbraio 2013

locale, relazioni potenzialmente più forti in una ipotetica società nella quale si dedica meno tempo al lavoro. Ora, premesso che non tutti i servizi si possono svolgere alla scala locale, in particolar modo quelli di una certa specializzazione, quelle preziose relazioni che si sviluppano alla scala locale dalla conoscenza reciproca e dall’interazio-ne quotidiana non funzionano allo stesso modo con persone o gruppi con i quali non vi è una conoscenza diretta. L’organizzazio-ne, pure perfettibile, dello stato moderno occidentale, nasce anche per affrontare questa criticità. Il cosiddetto welfare comu-nitario funziona ed è una risorsa per molti servizi che interessano la quotidianità, ma difficilmente può sostituire l’insieme dei servizi che lo Stato fornisce ai cittadini, servizi che andrebbero semmai incremen-tati e non diminuiti.

Decrescita, diversità e dissensoIl tema dei servizi comunitari ci porta

all’ultimo punto al quale vorrei dedicare attenzione, quello della diversità e del dis-senso. La dimensione comunitaria sottesa alla società della decrescita punta a valo-rizzare le relazioni di prossimità costruite dalla condivisione di una stessa cultura e di uno stesso sistema di valori. Tuttavia, mentre è probabile (non scontato) che tale condivisione si realizzi all’interno di un gruppo di persone che abbia scelto liberamente di condividere certe scelte, è piuttosto difficile che tale condivisione si realizzi sistematicamente in una società così complessa come quella contempo-ranea dove si incontrano, si scontrano, si mescolano o si ignorano tradizioni cultura-li, politiche e sociali le più diverse. Dando per scontato che non si voglia costruire una società segregata, e che queste ipotetiche comunità debbano essere immaginate come insiemi aperti, andrebbe comunque compreso in che modo possono interagire a una scala superiore a quella comunitaria gruppi sociali che hanno, per definizione, progetti diversi sul medesimo territorio.

Accanto a questa dinamica di inte-razione tra culture diverse, infine, an-drebbe a mio parere approfondito il tema del dissenso individuale. Nel caso di un gruppo che si costruisce volontariamente il tema non si pone in modo sostanziale perché il dissenso interno si esprime secondo le regole che il gruppo si dà e, in ultima istanza, con l’uscita del dissenzien-te dal gruppo in questione. In una società fondata su un modello comunitario il

tema diventa più complesso perché non vi sarebbe un’opzione “exit” e, d’altra parte, la possibilità di manifestare il proprio dissenso non sarebbe affatto semplice in comunità locali fondate su relazioni di tipo personale. Non bisogna dimenticare infatti che la dimensione comunitaria è anche quella in cui sono più forti i condiziona-menti sugli individui e nella quale è più difficile far emergere posizioni minoritarie nelle scelte politiche, nelle pratiche sociali e culturali, nei comportamenti individuali. Ancora oggi moltissime persone vivono la dimensione comunitaria come oppres-sione e cercano relazioni sociali meno strette e meno totalizzanti perché le vivono come esperienze di libertà. La dimensione locale e comunitaria è una, non l’unica e nemmeno sempre la migliore dimensione dell’azione sociale.

Non sempre broccoli: la ginnastica delle scale

Nell’ultimo decennio la riflessione sulla decrescita ha fatto importanti passi in avanti, soprattutto nella costruzione di per-corsi di sperimentazione di pratiche locali. Queste pratiche “virtuose” ci indicano una strada e dei valori da seguire per una pos-sibile transizione, ma nulla ci garantisce che siano automaticamente applicabili a scale superiori. In alcuni ambiti potrebbero esserlo, ad esempio nel caso di certe dina-miche del settore agro-alimentare, in altri è probabilmente necessaria una riflessione ulteriore, come nel caso dei servizi sociali specializzati (ricerca e sanità, ad esempio). Le pratiche locali ci devono dunque servire a costruire delle politiche che possano vale-re a scala più ampia, ma queste politiche non sempre potranno essere la semplice ripetizione di ciò che funziona localmente. Per fare questo ci serve un sovrappiù di creatività nell’immaginare una società rinnovata che assuma le istanze della decrescita proiettandole in un futuro di libertà, uguaglianza, progresso, cosmopo-litismo… I vari movimenti per la decrescita hanno dimostrato fin dalle origini una grande creatività e capacità di immaginare il futuro. Non accontentiamoci dei broccoli.

Funzione e Formazione docente tra passato, presente (e futuro?) di gianluca bocchinfuso

4 Cultura scientifica e cultura umanistica – spunti di riflessione

La cosa più grave di tutto l’impianto relativo al reclutamento dei docenti –in atto in Italia dai mesi scorsi– è che lascia in secondo piano due esigenze fondamentali per i docenti di domani (e di oggi): il profilo professionale; la formazione permanente. Due aspetti che potrebbero cambiare l’im-pianto della scuola e l’approccio lavorativo di tutto il corpo docente.

Andiamo per gradi. Di profilo professionale docente –e di funzione docente– in Italia si è sempre parlato. Mai, però, con una visione di respiro coerente con le richieste della società, a partire dal corpo studenti. Infatti, il corpo studenti raramente è stato considerato un insieme a cui dare opportunità concrete. Nel corso del tempo, è arenata l’idea stessa dell’in-segnante che “avrebbe dovuto animare” questo corpo: sul piano dei contenuti, delle competenze, del metodo, della relazione. Il profilo professionale è giocato ormai su slogan che si ripetono incessantemente nello stesso modo, senza andare nel cuore delle questioni, cioè: la meritocrazia e la valutazione periodica dei docenti legate a una nuova organizzazione della settimana lavorativa (col riconoscimento di 35 ore a scuola per coprire il lavoro richiesto da una funzione qualificata e qualificante) riman-gono estranee alle organizzazioni sindacali e agli apparati di governo. Sono tabù su cui fintamente ci si confronta, senza mai scal-fire paradossali incoerenze e incompetenze anche dei docenti stessi.

Legato al primo è il secondo punto. La formazione permanente, infatti, deve poggiare su una trasparente funzione docente e su un profilo che contempli un’organizzazione oraria nuova e moderna. Alcune proposte: lo sviluppo, con progetti didattici mirati e con l’utilizzo delle nuove tecnologie, di reti di scuole sull’intero territorio nazionale che possano anche diventare strumento per la formazione/autoformazione in servizio; la progettazio-ne strategica tra scuole ed enti di forma-zione con scambi sul territorio nazionale ed europeo; l’aggiornamento e la ricerca anche all’estero con finanziamenti mirati al periodo di chiusura delle scuole. Formazio-ne permanente è creazione di situazioni e contesti diversi da un mero reclutamento iniziale o da corsi mirati solo al riconosci-mento di “mezzo punto” al fine di gradua-torie sempre più ingolfate.

Se i governi che si sono succeduti in questi anni, prima di avviare un recluta-mento come il TFA e l’aggiornato Concorso,

avessero tenuto in seria considerazione i bisogni e le esigenze di rinnovamento della scuola, sicuramente si sarebbero fatti i pri-mi passi in vista di un disegno da comple-tare in almeno cinque anni. Con i finan-ziamenti giusti, con scelte adeguate e con un’idea di scuola coerente con quella della società che si vuole costruire. Invece, si è fatto solo un passo formale per riattivare le procedure di reclutamento –nonostante la sovrapposizione con le graduatorie esisten-ti– lasciando all’orizzonte le questioni che abbiamo enunciato.

Non è un caso che i docenti che abbia-mo ascoltato a cornice di questa riflessione

–individuati tra quelli che hanno svolto il vecchio Concorso e le SISS e quelli che stanno svolgendo il TFA e il nuovo Concor-so– esprimono tutti le stesse preoccupa-zioni, sottolineando la scarsa importanza che si dà al ruolo profondo dell’insegnante e ai diversi livelli di formazione. Parados-salmente, così come dieci anni fa SISS e Concorso si sono intrecciati, creando dei mostri anche giuridici, oggi, TFA e nuovo Concorso s’intrecciano con tutti i possibili problemi del caso.

L’esperienza delle SISS e del vecchio concorso«L’esperienza del corso abilitante –spiega

Antonello Schioppa che ha frequen-tato la SISS per Italiano, Storia e Geografia nella scuola media e per il Sostegno– è stata positiva, sul piano didattico e metodologico, principal-mente per il tirocinio svolto nelle scuole. Il periodo di osservazione, di dialogo e infine la preparazione e l’ese-cuzione di una-due lezioni da “calare” in una classe reale, sotto la super-visione di un docente esperto, sono stati utili ed efficaci per comprendere le dinamiche della comunicazione e della relazione con un gruppo di studenti. Purtroppo, sul piano del lavoro teorico svolto sui banchi delle aule universitarie, l’esperienza non è stata generalmente altrettanto utile, soprattutto se paragonata all’enorme numero di ore di lezione che ci è stata proposto. Due anni di lavoro che, in termini d’efficacia e utilità, non hanno corrisposto ad altrettanta qualità. Se gli studi in ambito sociologico e pedagogico hanno avuto un senso

–perché hanno toccato punti scoperti della mia formazione– spesso, invece, lo studio di discipline legate alle

materie che avrei insegnato a scuola sono risultate poco utili, dato che non si è affrontato quasi mai l’aspetto metodologico dell’insegnamento, concentrandosi invece sui contenuti della materia, come fossero lezioni

“liceali” impartite a gruppi di adole-scenti. Più utile è stata l’esperienza del corso di abilitazione al Sostegno, che ha privilegiato l’aspetto laboratoriale permettendomi di calarmi, attraverso simulazioni più o meno efficaci, in situazioni reali e concrete, fornendo-mi conoscenze e spunti di riflessione utili anche nell’insegnamento delle mie discipline».

Per Maria Concetta Vono, docente di Tedesco e abilitata anche per Soste-gno, l’esperienza della SISS è stata «generalmente deludente, sebbene differenziata per ambiti». «Già a partire dal test di ingresso (esclusiva-mente incentrato sulla verifica delle conoscenze e non delle competenze di un insegnante) –spiega– si preannun-ciava la linea seguita dal percorso che, nell’area generale e dal punto di vista pedagogico, presentava un carattere didascalico. Il mio esame di pedagogia, per esempio, è stato un corso tenuto da un insegnante di matematica e consisteva in un test a crocette su co-noscenze varie, dalla docimologia alla statistica. In generale, più stimolanti e produttivi sono stati i corsi tenuti da docenti che erano effettivamente insegnanti di scuola secondaria e non professori universitari. I migliori, sul piano metodologico e sull’approccio didattico, sono stati quelli di Tedesco. Molto generale, a livello di produzione di una forma mentis, è stata invece la preparazione del corso di Sostegno. É arrivato il momento che si fornisca ai docenti una solida preparazione pedagogico-educativa di tipo pratico, oltre che teorico (quella che è man-cata a me), accanto alla già esplorata metodologia didattica. È quello che i ragazzi ci chiedono oggi, a tutti i livelli».

Concetta Casa, docente di Matematica e Scienze, considera l’esperienza forma-tiva delle SISS molto negativa. «Intan-to devo precisare –puntualizza– che la mia non è stata la SISS articolata su un biennio ma quella di un anno, alla quale si accedeva grazie al riconosci-mento di un certo numero di anni di

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*www.carlopetitti.it - [email protected]

insegnamento. Gli aspetti didattici e pedagogici che si affrontano nel tirocinio, nel mio corso non sono stati minimamente affrontati. I docenti universitari che hanno tenuto il corso, hanno affrontato qualsiasi argomento in maniera nozionistica, ignorando la profonda valenza della pedagogia e la sua applicazione all’insegnamento. Solo due materie erano strettamente legate alla pedagogia. Per una di queste, il docente ci ha costretto a comprare il suo libro; per la seconda, ci hanno fatto fare una relazione su un libro a scelta che parlasse di relazioni su un piano generico e molto opinabile. Non penso di aver dato un buon contributo per una riflessione articolata sulla formazione dei docenti perché le esperienze negative segnano e spesso si cerca di rimuoverle. La scuola, su questi piani, deve prendere altre direzioni».

Sul piano didattico-metodologico, la SISS registra un dato di fatto. Sottolinea Valeria Servadio, docente di Italiano, Storia e Geografia nella Scuola media: «ho imparato dal tirocinio nelle scuole, più che dalle lezioni tenute dai professori universitari, che si sono concentrati sul contenuto più che sull’insegnare ad insegnare. Nelle classi, ho avuto modo di “imparare facendo”: per esempio, tenendo una lezione in classe e osservando colleghi con esperienza. La mia attenzione si é ri-volta soprattutto alla relazione che gli insegnanti instauravano con gli alunni e i colleghi e alle metodologie adottate e adattate alle lezioni. Sono state utili anche le lezioni tenute dagli insegnan-ti delle scuole medie e superiori che mi hanno dato delle linee-guida sulla me-todologia e sulla didattica». Parlando invece di SISS e crescita professionale, il discorso diventa molto soggettivo. «La crescita professionale –spiega la Servadio– avviene tuttora e mi accompagnerà finché svolgerò questo lavoro. Questo è il primo aspetto moti-vazionale che mi spinge a fare ancora l’insegnante. Nel periodo di tirocinio nelle scuole ho “fissato” delle linee-guida sul mio metodo di insegnamen-to e sulla didattica che, nel corso degli anni, vanno comunque modificandosi e adattandosi alla realtà sociale ed educativa in continua trasformazione. Rispetto al Concorso, trovo che le SISS

abbiano professionalizzato la figura dell’insegnante. Sono o potrebbero essere, secondo me, anche alla luce della mia osservazione del sistema scolastico finlandese, un percorso utile, se organizzato con serietà e con insegnanti preparati. Secondo me, è importante che ci sia una scuola per insegnanti, come oggi si cerca di impiantare con i TFA».

Non sempre è stata data una chiara coerenza tra percorso della SISS e realtà scolastica vera e propria. Valeria Servadio spiega che, dal suo punto di vista, «c’è stata coerenza tra l’esperienza del tirocinio e la realtà scolastica sperimentata. Le lezioni dei professori universitari non mi hanno dato un apporto contenutistico significativo rispetto a quello che già avevo studiato durante l’Università. Le lezioni tenute dagli insegnanti delle scuole medie e superiori sono state invece utili; ho trovato coerenza tra quello che loro spiegavano della realtà della scuola e quello che ho potuto sperimentare io una volta che ho iniziato ad insegnare».

Con molta motivazione, Valeria Servadio avanza alcune proposte sulla scuola e la formazione: «1) re-introdurrei le SISS. Proporrei un anno solo di lezioni improntate sulla metodologia e la didattica, alternate al tirocinio nelle scuole; 2) avvierei corsi di for-mazione e aggiornamento obbligatori per docenti almeno due volte all’anno ed esperienze di visita nelle scuole con i migliori sistemi educativi in Europa; 3) applicherei la chiamata diretta dei docenti da parte dei presidi, i quali dovrebbero tenere conto del percorso positivo dell’insegnante e dei meriti: giudizi positivi provenienti dai presidi delle scuole dove il docente ha insegnato, giudizi positivi dei genitori e degli alunni. Sono favorevole ad una valutazione da parte di tutte queste componenti sociali. Solo con gli inse-gnanti migliori si hanno degli studenti migliori e un paese che cresce».

Ironicamente, spiega Giuseppina Lacon-ca: «avendo frequentato ben tre cicli di SISS dovrei essere una docente super competente e super preparata da ogni punto di vista. Purtroppo, devo dire che ho capito un po’ gli inse-gnamenti della SISS solo quando ho cominciato ad essere dentro un’aula

scolastica.Ho frequentato il primo biennio della SISS

tra il 2001-2002 per Inglese. Avevo materie afferenti alla lingua Inglese, del tutto simili al corso di laurea. Molto affascinanti ma una ripetizione di quanto già studiato all’università. Carente e fumosa l’infarinatura più propriamente metodologica e didat-tica che doveva essere lo specifico del corso SISS. Le materie trasversali

–Psicologia e Pedagogia– le studiavo per la prima volta e le ho trovate asso-lutamente interessanti sul piano teori-co; anche su questo piano, però, tutto è stato una trasmissione di contenuti senza un legame diretto con la classe. Il tirocinio, in questo primo biennio, è stato completamente inutile perché non sono riuscita ad instaurare con la docente che mi seguiva un rapporto di scambio vero. Forse non avevo neppure piena consapevolezza dei miei bisogni formativi.

Dopo questo primo biennio, ho frequentato la SISS di Sostegno, teorico anch’esso come corso, ma quanto meno ho visitato diverse strutture per differenti tipologie di handicap. In questo caso, ho avuto un supervisore competente e appassionato che ha saputo colmare le imperfezioni teoriche del corso, oltre ad una docente tutor durante il tirocinio molto preparata e disponibi-le. In questo caso, credo abbia contri-buito positivamente anche il fatto che avevo cominciato ad insegnare.

L’ultimo corso SISS frequentato è stato quello per conseguire l’abilitazione su Tedesco. Ho finalmente trovato una docente che ha saputo mediare le te-orie didattiche con la pratica didattica quotidiana. Questa docente ha orga-nizzato i corsi di metodi e tecniche di insegnamento della lingua in modo laboratoriale dove tutti i corsisti erano chiamati a partecipare attivamente ad ogni lezione. Finalmente, un corso che ha saputo darmi spunti di rifles-sione e un modello di riferimento per rispondere ai miei bisogni formativi di neo-docente e stimolare nuove riflessioni».

La professoressa Laconca, conclude rite-nendo indispensabile «l’idea di una formazione per chi vuole diventare docente, al pari di qualsiasi professio-ne. Ritengo però che i corsi SISS siano troppo poco dei percorsi di forma-

6 Cultura scientifica e cultura umanistica – spunti di riflessione

zione autentica per dare strumenti e modalità per imparare almeno a capire con quali attrezzi ogni docente deve riempire la propria valigetta di lavoro».

Le aspettative sul TFA e il nuovo Concorso

Il Tirocinio Formativo Attivo è già partito in molte università con pezzi di impianto simili alle vecchie SISS, altri rin-novati e con una copertura finanziaria non ancora totale per quanto riguarda anche il ruolo dei tutor, docenti di scuola media inferiore e superiore distaccati.Beatrice Saveri, docente di Matematica

e Scienze che sta frequentando da qualche mese il TFA, afferma subito che sul piano metodologico-didattico si aspetta molto poco. «La tendenza a dare maggior peso ai contenuti di materia –dice– è un problema eviden-te per la classe di concorso A059. Le conoscenze richieste devono abbrac-ciare la vastità delle scienze naturali e la complessità della matematica: i docenti si trovano necessariamente a dovere parlare ancora di contenuti. Nelle lezioni che ho seguito finora, si nota davvero lo sforzo che i docenti fanno, quando affrontano gli argo-menti di materia, per cercare di fornire a noi sia dei contenuti che degli inqua-dramenti didattici».

La Saveri continua spiegando che «prin-cipalmente, grazie alle lezioni di pedagogia, il TFA ha aperto un mondo nuovo, a me completamente sconosciuto: sinceramente ero molto scettica rispetto a questo corso in particolare. Mi rendo conto ora che questa materia di studio ha dato e dà dei contributi fondamentali alla professione dell’insegnante. Inoltre, il TFA potrebbe favorire il dialogo tra colleghi: se è davvero così importan-te il confronto e la socializzazione delle esperienze, si possono sfruttare questi incontri proprio per creare delle condizioni di scambio di saperi e d’azione, di cui tanto stiamo parlando. L’osservazione, inoltre, sarà importan-tissima. Credo si possono trarre molti spunti per riflettere su come noi stessi affrontiamo la classe».

Sul piano professionale, spiega la profes-soressa Saveri, «voglio precisare che, lavorando in una scuola sperimen-tale, l’approccio che ho avuto è stato

diverso da quello di altre colleghe. Mi rendo conto che la frase “ma a cosa mi serve tutto questo?” è molto frequente tra i colleghi: traspare così un abisso tra il percorso TFA e la realtà scola-stica che ogni giorno affrontano. Io credo che un atteggiamento positivo nei confronti delle proposte di questo TFA, che comunque siamo chiamati a fare, sia il modo migliore per trovare (o creare) coerenza in tutto questo».

Elisa Casalbordino, docente di Tecnologia, allarga il discorso su un piano genera-le. «Spontaneamente, vorrei esplici-tare non solo il mio punto di vista ma una panoramica di molti colleghi che, come me, stanno vivendo in prima persona questo momento partico-lare. Parlo dei docenti non abilitati inseriti da molti anni nel mondo della scuola. Penso che entrambi i percorsi di accesso al mondo della scuola, TFA e nuovo Concorso, offrano solo aspettative basate su una questione di sicurezza lavorativa e non formativa. Dal mio punto di vista, la questione della formazione viene poco presa in considerazione perché siamo già inse-riti nel mondo della scuola. Pertanto, si parla di autoformazione quotidiana e che a molti colleghi basta. Il TFA e il nuovo Concorso rimangono solo un bypass».

«Mi ritengo fortunata –spiega la Casal-bordino– perché ho avuto l’opportu-nità di lavorare in una scuola in cui sono sottoposta a continue prove di riflessione e verifica del mio percorso in riferimento alla figura professio-nale di docente. Solo grazie a questo contesto di lavoro ho capito cosa vuol dire formazione e perché è importante nel percorso di un docente. Per ora, la priorità è di prepararmi in base alle modalità richieste dal sistema mini-steriale (inglese compreso), esclu-dendo i bisogni formativi di docente (metodologie didattiche, TIC, DSA)».

«Il TFA, sul piano didattico-metodologico, potrebbe dare delle linee-guida in re-lazione alla didattica per le discipline che insegno. Mi piacerebbe confron-tarmi sui metodi e i contesti diversi di apprendimento in relazione agli stili dei ragazzi; sui disturbi dell’appren-dimento, sul riconoscimento del mio stile di insegnamento; sull’utilizzo delle nuove tecnologie; sull’apertura di Tecnologia come materia verso la

società. Per quanto riguarda il Con-corso, le aspettative sono solo relative ad un accesso al mondo della scuola e non ad un percorso di formazione. Per entrambi i percorsi, l’unica formazio-ne che ho avuto indirettamente è stata quella di riprendere a studiare per la preparazione ad una prova di verifica. Importante è stato sostenere le prove stesse».

Giuseppina Sessa è docente di Matema-tica e Scienze e frequenta il TFA. «Sul piano didattico-metodologico –dice– mi aspetto di colmare tutte le mie lacune in Scienze dell’educazione, mai affrontate in modo organico. Mi aspetto di acquisire definitivamente una forma mentale laboratoriale per l’insegnamento delle mie discipline. La crescita professionale subirà uno di quei “salti” formativi di cui parlano alcuni testi: conoscenza delle discipli-ne d’insegnamento; acquisizione di conoscenza e consapevolezza del ruo-lo dell’insegnante; approfondimento dell’insegnamento come professione; acquisizione di metodologie didatti-che e habitus riflessivo.

Già dalle prime settimane del TFA, è emer-sa una continua riflessione fra TFA e realtà scolastica, molto stimolante per chi vuole sperimentare ciò di cui si parla in Università.

Per quanto riguarda il Concorso, a parte l’approfondimento disciplinare e con-tenutistico, per me è un tentativo di accesso alla scuola. La parte formativa è lasciata ai singoli e non è quindi guidata».

ConclusioniQuesti colloqui mettono a nudo lo

scoperto che la scuola ha sulla formazione didattico-metodologica. Si sta puntando solo sul compromesso per superare il pre-cariato –che difficilmente avverrà senza un piano di assunzioni dalle attuale graduato-rie per evitare altre code– e “dare un posto” di lavoro ai docenti, stremati da anni di insicurezza. Sui neolaureati l’investimento è inesistente così come non esiste un inve-stimento sulla formazione permanente e sul profilo professionale docente.

Punti rimasti anche orfani di una de-gna discussione e rappresentanza politica e ideale.

7Strumenticres n.60 – febbraio 2013

Quale formazione è richiesta dal Ministero ai docenti di storia e geografia? di marina medi

Le prove di accesso al tirocinio formativo attivo, che si sono svolte nell’estate 2012, avevano, secondo un Decreto del Ministero, lo scopo di “verificare le co-noscenze disciplinari relative alle materie oggetto di inse-gnamento di ciascuna classe di concorso e le competenze linguistiche di lingua italiana.” Dovevano essere quindi un primo strumento di selezione, perché è evidente che un insegnante deve sapersi esprimere in italiano e deve conoscere la propria materia, anche se sappiamo che conoscere un argomento non significa di per sé saperlo insegnare. La vera competenza dell’insegnante, infatti, è quella dell’insegnamento, cioè la capacità di progettare e guidare un gruppo di allievi in un percorso di conoscenza in modo da sviluppare in loro compe-tenze disciplinari e di cittadinanza.

In ogni caso le domande delle prove d’accesso al TFA avrebbero potuto dare l’indicazione delle compe-tenze disciplinari richieste a un insegnante e quindi, in ultima analisi, potevano servire per definire gli assi portanti di ciascuna disciplina e le finalità che essa svolge nella formazione degli studenti.

In un corso di preparazione alla prova di accesso a cura del CIDI di Milano a cui ho partecipato come formatrice per le classi di materie letterarie nelle scuole superiori di I e II grado, ho cercato di mettere in luce i nuclei fondanti della storia e della geografia (per es. fatto storico, modello di spiegazione, fonte, rapporto causa-effetto ecc.) e ho insistito sul ruolo formativo di queste due materie in quanto strumenti per la co-noscenza del presente. Ecco alcune domande che alla fine ho posto ai corsisti, secondo il modello previsto dalla prova di accesso:

A. Un fatto storico è1. un avvenimento avvenuto

nel passato2. un aspetto dell’esperienza

umana del passato oggetto dello studio dello storico

3. un avvenimento del passato che ha prodotto conseguenze profonde nel corso della storia

4. un fatto umano del passato debitamente testimoniato da fonti attendibili

B. Quale di questi imperi ha avuto la durata più breve?

1. impero cinese2. impero incaico3. impero romano4. impero etiope

C. Nel modello di spiegazione della conquista dell’America, quale di questi fatti non è utilizzabile perché è falso?

1. la fine della reconquista2. il miglioramento delle

condizioni climatiche nella seconda metà del quattrocento

3. il desiderio di una nuova crociata

4. il miglioramento delle tecniche di navigazione

D. Quali tra questi popoli aveva un modello di civiltà diverso da quello dei Greci del periodo classico?

1. Fenici2. etruschi3. romani4. maya

E. Quale tra le seguenti fonti è poco interessante per lo studio del boom economico in Italia?

1. censimenti della popola-zione

2. dichiarazioni di uomini politici dell’epoca

3. manifesti pubblicitari e inserti pubblicitari sulle riviste dell’epoca

4. Film della commedia all’italiana

F. Segna la affermazione non vera. L’introduzione delle armi da fuoco nell’Europa del Cinquecento:

1. rafforza il ruolo dell’aristo-crazia

2. modifica l’architettura difensiva delle città

3. rende i sovrani dipendenti dai banchieri

4. favorisce lo sviluppo di conoscenze matematiche e fisiche

G. Tra queste operazioni del geo-grafo, qual è la prima che svolge?

1. interpretare tracce 2. rappresentare spazi 3. osservare4. descrivere

H. Quale di queste frasi non è vera?1. gli ambienti influiscono

sulle popolazioni che li abitano

2. le popolazioni trasfor-mano gli ambienti in cui vivono

3. qualunque ambiente abitato risponde ai bisogni comuni all’umanità

4. gli uomini possono tra-sformare a loro piacimento l’ambiente in cui vivono

I. Quale di queste frontiere non è particolarmente calda in questi anni?

1. usa-messico2. cipro-turchia3. sudan-4. nicaragua-honduras

L. Per quale di questi temi non è indispensabile un approccio geo-storico-sociale?

1. l’organizzazione politico-amministrativa dello stato italiano

2. i confini tra italia e slo-venia

3. la rappresentazione carto-grafica dell’area c a milano

4. la concessione della citta-dinanza ai minori stranieri nati in italia

8 Cultura scientifica e cultura umanistica – spunti di riflessione

le risPoste esatte: Primo blocco: a2 | B2 | c2 | d3 | e2 | F1 | g3 | h4 | i4 | l3 | m3 | n4. nel secondo blocco, proposto dal ministero, la risposta esatta è semPre la prima.

A. Nel quadro delle guerre napo-leoniche la battaglia di Ulm fu combattuta nel:

1. 18052. 18033. 18094. 1810

B. Quando si svolse, in Cina, la “Lunga Marcia”:

1. 1934-19352. 1936-19373. 1943-19444. 1938-1939

C. L’anno della morte di Caio Gracco, dichiarato nemico pubblico dal Senato:

1. 121 a.c.2. 112 a.c.3. 78 a.c.4. 223 a.c.

D. Fu sconfitto nella battaglia di Teutoburgo:

1. Publio quintilio Varo2. lucio munazio Plauto3. marco emilio lepido4. gneo domizio corbulone

E. Federico Barbarossa e i rap-presentanti della Lega Lombarda sottoscrissero nel 1183 la pace di:

1. costanza2. Basilea3. ratisbona4. torino

F. Alla morte di Cavour, divenne Presidente del Consiglio dei mini-stri, il 12 giugno 1861:

1. Bettino ricasoli2. urbano rattazzi3. marco minghetti4. alfonso la marmora

G. Giuseppe Mazzini fondò la “Giovane Europa” nel:

1. 18342. 18353. 18364. 1833

M. Quali di questi aspetti caratte-rizza il cittadino?

1. identità2. diritti3. Proprietà4. Partecipazione

N. Quale di queste affermazioni non è vera? L’Italia:

1. ha votato la convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia

2. ha ratificato la conven-zione internazionale sui diritti dell’infanzia

3. ha emesso disposizioni per applicare la convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia

4. non ha ancora emesso disposizioni per applicare la convenzione internazio-nale sui diritti dell’infanzia

Queste sono invece un esempio delle domande che sono state poi effettivamente date alla prova:

H. E’ il lago più esteso d’Europa:1. ladoga2. saimaa3. Balaton4. onega

I. La città di Porto Fuad si trova in:1. egitto2. giordania3. marocco4. turchia

L. Di quale stato è capitale Kampala:

1. uganda2. nigeria3. mali4. ciad

M. Non confina con la repubblica dello Zambia:

1. Kenya2. angola3. tanzania4. malawi

N. Non confina con il Colorado (USA):

1. tennessee2. utah3. arizona4. nuovo messico

Come si può notare, il carattere delle domande del Ministero è esclusivamente nozionistico, nel senso che da una parte richiede solo di aver memorizzato date, nomi o avvenimenti senza nessun impegno di riflessione, dall’altra non presuppone che l’informazione abbia significato per comprendere un evento del passato in funzione del presen-te o un aspetto del paesaggio in relazione a un problema del nostro mondo.

È questa l’idea di storia e geografia che ha il Ministero? È questa la formazione storica e geografica che richiede ai docenti? Ci si meraviglia poi se gli studenti sono poco motivati allo studio?

Certo questo tipo di quiz è servito a decimare gran parte dei candidati. Forse era uno dei risultati che si voleva ottenere. Peccato però che i candidati abbiano perso tempo e anche soldi per cercare di superare questa prova, che è stata un insulto al loro desiderio di ac-quisire una vera professionalità.

9Strumenticres n.60 – febbraio 2013

Dalle risorse ai beni comuni di emanuele vigo, animatore mani tese

Negli ultimi cinquant’anni l’accentuar-si della visione economicista dello sviluppo e le conseguenti politiche economiche volte sempre più alla mercificazione di ogni risorsa disponibile sul pianeta (comprese quelle indispensabili per la sopravviven-za) e allo sfruttamento di queste in modo esponenziale, ha reso ormai ineludibile la questione di quale differente modello eco-nomico, sociale e politico di gestione delle risorse possa garantire il futuro del pianeta e dei suoi abitanti, soprattutto in relazione all’utilizzo di terre coltivabili, acqua dolce, foreste e altre risorse basilari. Il percorso “Dalle risorse ai beni comuni” rappresenta, idealmente, il secondo passo di un cammino di formazione e azione più ampio che comincia con il corso per insegnanti, presentato sul numero scorso di Strumenti a pag. 10, passa per l’inter-vento degli animatori di Mani Tese nelle classi e ha uno dei suoi esiti, possibili e auspicati, nella partecipazione delle classi al concorso grafico “L’asta della Terra” (vedi IV di copertina). Questi tre momenti formativi sono pensati e strutturati per poter essere proposti e affrontati anche in maniera indipendente, ma l’esperien-za dimostra che l’efficacia di un lavoro integrato insegnante-animatore-studente è significativamente maggiore.

Destinatari e durataIl percorso è progettato per la scuola

secondaria di secondo grado, in particolare per gli studenti del triennio, ed è articolato su tre laboratori tematici della durata di due ore ciascuno, naturalmente con un cer-to grado di flessibilità in base alle esigenze degli insegnanti e al livello di approfondi-mento richiesto.

Tre laboratori per tre filoni di riflessione

Risorse e sviluppo: il nostro pianeta è ricco di risorse naturali (terra, acqua, fore-ste, minerali etc.) che l’uomo ha imparato via via ad utilizzare. Nel corso della storia

l’avvento del sistema mercantile prima e di quello industriale poi hanno radicalmente trasformato questo utilizzo in sfruttamen-to intensivo nella convinzione che la Terra fosse in realtà un giacimento inesauribile di risorse dal quale attingere all’infinito. Parallelamente a ciò, però, economisti, filosofi e scienziati hanno cominciato ad interrogarsi sulla plausibilità di tale sfrut-tamento all’interno di un pianeta che per sua stessa natura è invece finito e limitato. Nella prima parte del nostro viaggio ideale dal concetto di risorse a quello di beni comuni cercheremo quindi di costruire un quadro d’insieme della situazione attuale e del sovra-utilizzo delle risorse rispetto alla capacità di rigenerazione del pianeta.

Nonostante sia sempre più evidente come questo tipo di impostazione verso una crescita continua ed esponenziale sia oggettivamente in contrasto con le regole fisiche e biologiche del nostro pianeta, non altrettanto evidenti sono le soluzioni e i provvedimenti da adottare per preservare la sopravvivenza della terra e degli esseri viventi che la popolano.

Un brevissimo e divertente video animato sarà il nostro punto di partenza.

La discussione guidata coi ragazzi prenderà spunto da poche, ma fondamen-tali domande:

↘ Quali sono le risorse del nostro pianeta? (alcune sono facilmente intuibili come l’acqua dolce, altre meno conosciute come il coltan usato per i componenti elettronici dei nostri moderni computer e telefonini e per i cui giacimenti, in Africa in particolare, si finanziano e combattono guerre sanguinose)

↘ Quante sono le risorse? Sono davvero infinite? (cercheremo di quantificare le principali per avere un quadro il più oggettivo possibile della situa-zione, analizzeremo poi quali siano rigenerabili e quali no e le differenti prospettive future presentate dagli

scienziati) –Introduzione del con-cetto di Overshoot Day e di Impronta ecologica

↘ Dove si trovano? (La collocazione ge-ografica è utile per decostruire alcuni miti come ad esempio quello della povertà intrinseca dei paesi africani)

↘ Chi le utilizza? (altro punto centrale dal momento che la questione della proprietà delle risorse porta con sé tutta una serie di conseguenze deva-stanti dal punto di vista economico, sociale e politico)

Ragionando coi ragazzi sulle risposte saremo pronti per il nostro gioco cooperati-vo chiamato “La torre”. Il gioco si propone di rendere gli studenti protagonisti di un tentativo di crescita

“infinita”: dovranno infatti costruire una torre di mattoncini di legno quanto più alta possibile, scegliendo con cura quali mattoncini mettere in cima alla torre e, soprattutto, da dove prelevarli. Evidente-mente la torre non potrà salire più di tanto sia per questioni di equilibrio (i mattoncini saranno prelevati necessariamente dal centro o dalla base…), sia perché il numero dei mattoncini è comunque fissato e anche riuscendo a disporli in una perfetta pila da uno la torre risulterà finita.

Il debriefing del gioco sarà un impor-tante momento di riflessione sul concetto di limite e sulle sue implicazioni nel ripen-sare il nostro futuro: quali sono gli aspetti positivi e negativi dell’essere limitati? Come possiamo affrontare i limiti oggettivi della crescita umana? Limiti “facili” e limiti

“difficili”: quali troviamo facili da accettare e quali ci risultano insopportabili?

Il nostro sistema di produzione-consumo: Qual è la storia del cibo che mangiamo, degli oggetti che utilizziamo, dei vestiti che indossiamo? Chi sono gli attori del proces-so di produzione? Queste due domande, spesso sottovalutate, sono tuttavia cruciali per comprendere un processo in cui ogni

10 Cultura scientifica e cultura umanistica – spunti di riflessione

scelta influisce sull’ ambiente in cui vivia-mo e su tutti gli aspetti della vita umana: sociali, politici, economici. Ogni attore influenza ed è a sua volta influenzato dal processo stesso. Essere attori consapevoli rappresenta un prerequisito fondamentale per diventare sempre meno consumatori e sempre più responsabili.

Due momenti di lavoro diviso per gruppi rappresentano il fulcro del nostro secondo laboratorio.

Il primo è incentrato sulla visione guidata del documentario animato “La storia delle cose”. Il video riprende parte dei concetti visti nel primo laboratorio ed introduce il discorso sul nostro sistema economico: estrazione, produzione, consu-mo, smaltimento. La visione del video vie-ne fermata nel momento in cui la narratrice comincia a parlare degli attori economici.

A questo punto viene proposto il secondo momento di lavoro: l’analisi del testo della canzone “Un’altra via d’uscita” di Daniele Sepe. Il pezzo raggae, musi-calmente vivace e accattivante, tratteggia le figure principali del nostro sistema di produzione e consumo. Ai ragazzi il com-pito di scegliere gli attori che preferiscono e crearne la carta d’identità su cartelloni secondo il seguente schema:

↘ Chi è? ↘ Quale ruolo ha? ↘ Aspetti positivi/negativi ↘ Nel sistema guadagna o perde?

Alla fine di questa fase i cartelloni vengono appesi fisicamente sulla slide in-completa del video ed abbiamo ricostruito così il nostro sistema economico con i suoi attori e i suoi squilibri. Siamo pronti alla discussione guidata che cercherà di tenere conto della vastità e della complessità del tema privilegiando, fin dove possibile, gli aspetti che maggiormente incontrano la cu-riosità e la partecipazione dei ragazzi. Alla fine di questo secondo incontro avremo in-trodotto il concetto del ruolo del consuma-tore (attivo/passivo) e di un diverso modo di consumare, usando cioè il proprio senso critico nella scelta, ma soprattutto impa-rando a ridurre i consumi e di conseguenza la propria impronta ecologica. Manca l’ultimo tassello del nostro puzzle.

Stili di vita e beni comuni: il nostro sti-le di vita alimenta una produzione sempre più aggressiva sulle risorse del pianeta per poter soddisfare un consumo di beni sem-

pre crescente. L’economia attuale sta via via trasformando le risorse (terre coltivabili, risorse idriche etc.) stesse in una merce che può essere comprata e venduta come qualsiasi altra sul mercato globale.

La domanda ineludibile diventa quindi: quali cambiamenti sono necessari per preservare il ciclo di rigenerazione delle risorse, l’ambiente e quindi, in ultima analisi, la nostra stessa esistenza?

Il nostro terzo ed ultimo laboratorio comincia con un riepilogo dei concetti chiave visti nell’intero percorso. Le slide sul diverso impatto ecologico dei vari paesi sono un ottimo spunto di riflessione sul nostro stile di vita. Quali sono le attività più impattanti? Sono attività che ci coin-volgono in prima persona? Sono aspetti irrinunciabili del nostro quotidiano? Alcuni esempi sotto forma di diapositive possono avviare la discussione tra i ragazzi utilizzando il gioco del termometro che permette di esprimere il proprio accordo/disaccordo (motivandolo successivamen-te) posizionandosi sulla linea di un imma-ginario termometro. Questa discussione è sempre molto aperta e deve essere guidata con cura dall’animatore perché gli aspetti legati agli stili di vita possono davvero portare la discussione ovunque!

Il nodo centrale però resta la riflessio-ne sul legame tra individuale e globale e su come incidere in prima persona sia a livello locale che internazionale nei processi di cambiamento in direzione di un sistema economico, sociale e politico più giusto ed equilibrato.

L’attività di restituzione in questo caso sarà il “gioco del bersaglio” in cui i ragazzi saranno invitati a scegliere quali siano le azioni possibili per un cambiamento positivo dal cerchio centrale dell’ “IO” via via ad allontanarsi verso la comunità locale, il proprio paese e il contesto internazionale. Sarà interessante notare sia quali azioni siano considerate realizzabili, sia in quale cerchio del bersaglio vengano collocate. Una delle regole sarà la possibilità che un’azione ricada su diversi cerchi.

Rispetto al tema dei beni comuni e dopo aver brevemente ripreso il discorso sulle risorse sarà la volta del “Gioco delle risorse”: questo gioco ha una componente fortemente dinamica (bisogna correre!) ma è fondamentalmente un gioco di strategia. L’animatore dispone infatti di un certo numero di tessere-risorse che colloca su un tavolo distante dai giocatori i quali si

dispongono sul lato opposto dell’aula sulla stessa linea di partenza. Si parte al “via” e ci si ferma allo “stop” dell’animatore. Il gioco si conclude solo in due modi:

↘ Obiettivo individuale: un giocatore ha il numero esatto di tessere stabilite dall’animatore (variabile in base al numero dei partecipanti)

↘ Obiettivo collettivo: ogni partecipante ha almeno una tessera-risorsa

La peculiarità di questo gioco risiede nel fatto che i partecipanti non possono accordarsi fra loro ma devono intuire la strategia durante il gioco. E soprattutto il gioco è truccato!

Le tessere-risorsa infatti non sono inizialmente sufficienti al raggiungimento degli obiettivi, ma sono di poco inferiori.

L’animatore però “rigenera” (cioè aggiunge da un sacchetto) un numero di tessere-risorsa doppio rispetto a quelle che vengono lasciate sul tavolo, senza mai però superare il numero iniziale. Naturalmente al primo giro tutti cercano di accaparrarsi tutte le tessere possibili. Un tavolo vuoto significa però rigenerazione zero...quindi il gioco ricomincia dall’inizio e nessuno vince.

A questo punto i più intuitivi provano a lasciare qualche tessera sul tavolo e os-servano le azioni dell’animatore. Appurato che vengono aggiunte delle tessere se non si svuota il tavolo, scatta la fase della cooperazione in cui (infrangendo un po’ la regola del silenzio...) si cerca di far sì che l’animatore rigeneri quante più tessere possibili affinché uno degli obiettivi del gioco sia finalmente conseguibile.

Il debriefing di questo gioco viene guidato dall’animatore sulle ragioni delle differenti scelte e strategie e infine sull’uni-co modo in cui questo gioco può diventare fattibile: attraverso almeno una fase di cooperazione e di gestione partecipata delle tessere-risorsa.

Eccoci al concetto di bene comune che verrà poi allargato anche a quei beni come il tempo, la cultura, gli spazi pubblici, che più difficilmente vengono percepiti come patrimonio della comunità.

Il percorso avrà quindi stimolato delle riflessioni e probabilmente mille dubbi, come è giusto che sia in un lavoro forma-tivo che non pretende di fornire ricette per cambiare il mondo, ma spunti di pensiero critico rispetto ad un esistente oggettiva-mente inadeguato a garantire un futuro al pianeta e ai suoi abitanti.

11Strumenticres n.60 – febbraio 2013

Cultura scientifica e cultura umanisticaSguardi complementari di fronte alle sfide del presente

13 Scienziati e umanisti: incomprensioni e aperturedi anna di sapio

18 Rapporti e confini tra “scientifico” e “umanistico”Quale umanità per il futuro?di piera hermann

20 Sul metodo scientificodi marina medi

22 Due culture, molte geografiedi giorgio botta

25 La letteratura e la scienzadi giovanna cipollari

28 Dalle culture agli immaginari.Spunti per un’educazione alla sostenibilitàdi elena camino

33 Bioetica: dibattito aperto tra scienza e societàdi anna marta rollier

37 Metti una sfera a cenadi antonio rodia

39 Fragili equilibri… tra scienza e poesiadi pietro olla

41 Bibliografia

desideriamo dedicare que-sto dossier ad anna amati, ispiratrice e colonna por-tante del cres fin dalla sua nascita, più di venti anni fa.anna ci ha regalato negli anni idee, consigli, artico-li, libri con competenza, impegno e l’entusiasmo di una ventenne e ha saputo combattere con tenacia gli acciacchi che ultimamente impedivano alle sue gambe, non alla sua mente, di segui-re la sua voglia di mondo. l’intreccio tra cultura uma-nistica e scientifica era per

lei qualcosa di vivo e vitale; nella sua ricca biblioteca i romanzi delle più disparate letterature si accompagna-vano ai testi di geografia su civiltà vicine e lontane mentre le opere più attuali di biologia stavano accanto ai saggi filosofici e alle rifles-sioni religiose.sicuramente anche questa volta ci avrebbe offerto piste di lavoro e chiavi di lettura stimolanti e originali per trovare il bandolo di una matassa aggrovigliata.

Il tema della cultura scientifica era già stato affrontato da Strumenti, con un taglio più didattico, nel dossier “Sapere scientifico e scuola” del numero 47. Chi fosse interessato lo può scaricare dal sito www.manitese.it/materiale/vetrina/strumenti/strumenti_47.pdf

Dossierdossier cres – febbraio 2013

12 Cultura scientifica e cultura umanistica – dossier

LA CASA CAPOVOLTA IN UNA GOCCIA

Giulia Crecchii.c. “Franco sacchetti”

scuola secondaria 1° gradosan miniato (Pi)

un tema ricorrentenel settembre 2012 sull’inserto cul-

turale del sole 24 ore compare un artico-lo dello scrittore inglese david lodge dal titolo “la letteratura torna al futuro”. in quest’articolo lodge1 ricorda che non ha senso contrapporre scienza e letteratura perché entrambe offrono chiavi di lettura, e a volte convergono in romanzieri come ian mcewan o richard Powers.

non è la prima volta che la domeni-ca del sole 24 ore affronta il tema della diffidenza, della mancanza di comuni-cazione, del disinteresse reciproco tra scienze e discipline umanistiche, in arti-coli che poi vengono ripresi da vari siti web.2 l’impressione è che ultimamente articoli di questo genere siano più frequenti, che la questione del rapporto tra i saperi sia ancora attuale.

il dibattito infatti non è nuovo, ma a una sua ripresa può aver contribuito, almeno in italia, la riedizione nel 2005 del testo di charles P. snow, Le due culture3 pubblicato nel 1963. il testo di

1. d. lodge, La letteratura ritorna al futuro, il sole 24ore, 2 settembre 2012, p. 1.; d. galateria, David Lodge: solo arte e scienza ci salvano dal pensiero mitico, “la repubblica” 16/11/2011.

2. a. massarenti, Così l’Italia azzoppò la scienza, il sole 24ore, 17 aprile 2011, pp. 2-3; Bruno arpaia, Non due ma mille culture, il sole 24ore, 10 luglio 2011, p. 33; B.garavelli, Sapere umanistico e sapere scientifico, 24 marzo 2009, www.treccani.it/scuola/tesine/letteratura_e_scienza/garavelli.html; l.nicotra, Humanae litterae, humanae scientiae, “notizie in...controluce” anno Xi, nn. 4/5 (2002); tanto per citarne qualcuno.

3. c. P. snow, Le due culture, a cura di a.lanni, con interventi di g.giorello, g. o. longo, P. odifreddi, i libri di reset, marsilio,Venezia 2005.

snow, fisico e romanziere, innesca un acceso dibattito e una serie di polemi-che che convincono sempre più l’autore di aver toccato un nervo sensibile: tra la cultura letteraria e quella scientifica si è creata una barriera, ma la mancata o scarsa comunicazione tra questi due mondi è un male che ostacola la solu-zione dei problemi del mondo.

“Molte volte mi sono trovato pre-sente a riunioni di persone reputate di elevata cultura, secondo i criteri della cultura tradizionale, che si sono preci-pitate a dichiarare di non poter crede-re che gli scienziati fossero così privi di cultura letteraria. Un paio di volte mi sono irritato e ho chiesto alla com-pagnia quanti di loro se la sentivano di spiegare che cos’è la seconda legge della termodinamica. La risposta era fredda: ed era altresì negativa. Eppure chiedevo qualcosa che è press’a poco l’equivalente scientifico di «avete letto un’opera di shakespeare?».

Credo ora che se avessi fatto una domanda ancor più semplice – per esempio, «Che cosa intendete per massa, o per accelerazione», e cioè l’equivalente scientifico di: «Sapete leggere?» - non più di una su dieci di quelle persone di elevata cultura si sarebbe accorta che stavo parlando lo stesso linguaggio. Così il grande edificio della fisica moderna diventa sempre più alto e la maggioranza delle persone più intelligenti del mondo occidentale ne capiscono quanto ne avrebbero capito i loro antenati dell’e-tà neolitica.”

il saggio-denuncia di snow, non privo di limiti e di contraddizioni, ha avuto il merito di mostrare la spaccatu-ra venutasi a creare tra le due culture, mentre nei secoli precedenti la fusione delle discipline era un dato di fatto. “il

Scienziati e umanisti: incomprensioni e aperture di anna di sapio

Le foto che accompagnano questo dossier fanno parte del progetto

“Scatti di Scienza”.

ScAttI DI ScIenzA: gLI StuDentI FotogRAFAno LA ScIenzAdi Bruno Manelli, Antonella Testa, Diletta Zannelli

Quanta scienza ci può essere in una fotografia? Quali processi cognitivi si possono innescare cogliendo uno scatto di scienza o osservando una fotografia?Queste e altre sono le domande/ipotesi di sperimentazione alla base del Progetto “Scatti di scienza” –giunto alla V edizione– promosso da Scienza under 18 e dall’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con il Museo di Fotografia Contemporanea. L’obiettivo è sperimentare la valenza educativa e didattica dell’immagine scientifica, esplorando le dinamiche che si innescano con la realizzazione dell’immagine e durante/dopo la sua fruizione.Gli studenti sono invitati a osservare soggetti, esperimenti, ambienti con occhio nuovo e scattare fotografie scientifiche assecondando la propria curiosità, fantasia e capacità di osservazione. Motivazioni, ipotesi esplicative, esperienze e sensazioni sono raccolte nella scheda di accompagnamento allo scatto.Dal 2009 centinaia di ragazzi di ogni ordine di scuola hanno documentato esperimenti o colto la bellezza di un fenomeno naturale; hanno

“immaginato” e preparato la fotografia prima dello scatto oppure hanno osservato contenuti inattesi in uno scatto fortuito.Ogni anno i giovani autori presentano al pubblico una selezione delle foto, in un workshop a Vedere la Scienza Festival a Milano, con il commento di docenti e esperti di fotografia. Le foto animano, poi, una mostra che partecipa alle manifestazioni di Scienza Under 18 in varie città e sono pubblicate in un libretto.info: [email protected]

13Strumenticres n.60 – febbraio 2013

fecondo rapporto tra umanesimo e scienze si è in parte arenato attorno alla fine dell’ottocento, ma –scrive remo Bodei– in precedenza è stato molto intenso4. attualmente ogni disciplina risulta specialistica e presenta al suo in-terno tante diramazioni; data la crescita esponenziale dei diversi saperi non sarebbe più possibile oggi un leonardo da Vinci (architetto, pittore, anatomista, scrittore, poeta, musicista), in cui si fondono discipline diverse.

cosa è cambiato oggicinquanta anni dopo la pubbli-

cazione del saggio-denuncia di snow come stanno le cose? esiste ancora questa spaccatura, e in quali termini, o nel frattempo è venuta a crearsi una qualche mediazione?

il tema proposto da snow sembra ancora presente nel panorama cultura-le, anche la divisione tra i due saperi sembra persistere. molto è accaduto in questo mezzo secolo –scrive giuseppe o. longo– sia sul versante tecnoscienti-fico che su quello sociopolitico, e alcune considerazioni e previsioni di snow si sono rivelate errate, comunque è utile riprendere alcuni problemi di fondo da lui proposti.

Per david calef5 la frattura tra le due culture non si è affatto ricomposta, ha solo assunto una fisionomia diversa. in un articolo su “nuovi argomenti” del 2007 riporta alcuni episodi come la bef-fa perpetrata dal fisico alan sokal ai dan-ni della rivista accademica “social text” per denunciare lo scarso controllo di qualità diffuso nelle riviste umanistiche e il declino di rigore intellettuale di alcu-ni circoli delle humanities accademiche americane e auspicare il ristabilimento di un corretto rapporto tra scienza e filosofia. il caso sokal scatena un acceso dibattito e ha grande risonanza anche in europa. in seguito sokal e il fisico belga Jean Bricmont scrivono Imposture intellettuali per polemizzare contro la superficialità con cui molti maîtres à penser contemporanei (si va da Jacques

4. r. Bodei, Incroci, in Terza cultura. Idee per un futuro sostenibile, a cura di V. lingiardi e n. Vassallo, il saggiatore, milano 2012, p. 52.

5. d. calef, Le due culture. Conflitti e armonie, E = mc2 Scrittori e scienze, “nuovi argomenti”, n. 39/2007, pp. 32-53.

lacan a Julia Kristeva, Bruno latour, Jean Baudrillard, gilles deleuze, Féliz guattari) si appropriano di concetti fisici e matematici, senza peraltro capirli, per costruire ipotesi filosofiche alla moda.

d’altronde oggi le cose sono più complicate di un tempo, fino all’otto-cento una persona colta aveva un’idea dell’universo che non si discostava poi troppo da quella di uno scienziato, ma oggi quanti di noi –si chiede leonardo colombati–“possono in buona fede sostenere di sapere quali leggi della fisica ci tengono appesi al firmamento o cosa succede nelle sinapsi del nostro cervello? tutto questo ci è ignoto; e tutto questo ignoto ci sembra così ricco e affascinante da risultare una minaccia alla nostra immaginazione così come una macchina a vapore doveva preoccu-pare un luddista.”6

certo, qualche passo avanti rispetto all’epoca di snow è stato fatto

–sostiene Bruno arpaia– ma il problema persiste: per essere considerati colti nelle nostre società occorre conoscere dante, Velàsquez o aristotele, mentre

“l’ignoranza su einstein, heisenberg o darwin non viene ritenuta rilevante per definirci tali, quasi che la scienza non

sia a pieno titolo ‘cultura’ (...) questo è vero in tutto il mondo, ma in italia è peggio, molto peggio.”7

la divisione tra cultura scientifica e cultura umanistica –concordano molti analisti– appartiene alla nostra storia e risale agli inizi del ‘900 con l’affermarsi del neoidealismo di Benedetto croce e giovanni gentile, il cui pensiero segne-rà il modello culturale nazionale.

nel 1907 il grande matematico Federigo enriques, uomo di ampie

6. colombati, Introduzione, E = mc2 Scrittori e scienze, cit.p.27.

7. arpaia, Non due ma mille culture, il sole 24 ore, domenica 10/07/2011, pp. 33-4.

vedute, fonda assieme a un chimico, un medico, un biologo-zoologo e un ingegnere la rivista “scientia” che auspica il superamento delle divisioni disciplinari e intende realizzare nuove forme di circolazione delle conoscenze. accolgono l’invito studiosi di diverse nazioni tra cui einstein, lorentz, Freud, russell, carnap, heisemberg, Poincaré. come presidente della società filosofica italiana enriques tende a rilanciare una rinnovata alleanza tra la scienza e la filosofia, ma viene attaccato da croce e gentile che lo bollano di incompeten-za in campo filosofico e lo invitano “a parlare solo della sua materia, cioè di matematica, un sapere non per veri filosofi”8. da questo scontro enriques esce sconfitto mentre croce e gentile diventano i punti di riferimento cultura-le, sono loro a “dare alla cultura italiana, alla sua organizzazione e riproduzio-ne, soprattutto attraverso l’istruzione superiore, un’impronta che assume carattere ‘istituzionale’ (…) che ancora oggi portiamo in eredità.”9

terza culturanel 2011 appare un volume curato

da uno psichiatra e una filosofa inti-tolato Terza cultura. Idee per un futuro sostenibile 10 in cui, sulla scia di Edge di John Brockman11, ottanta tra scritto-ri, scienziati, filosofi, psicologi, artisti rispondono alla domanda: quale terza cultura in italia?

riaffiora in alcune risposte il risen-timento verso gli umanisti: “il vezzo di

8. a. massarenti, Così l’Italia azzoppò la scienza, cit.; v. anche V. gallina, Un professore di matematica che si diletta di filosofia, 20/04/2011 in www.educationduepuntozero.it/curricoli-e-saperi/professore-matematica-che-si-diletta-filosofia-408434706.shtml.

9. F. de anna, saperi umanistici e saperi scientifici?, 04/05/2011 in www.educationduepuntozero.it/curricoli-e-saperi/deanna11-409640316.shtml

10. V. lingiardi, n. Vassallo, Terza cultura. Idee per un futuro sostenibile, op. cit.

11. v. box a fianco: John Brockman Edge e Terza cultura; v. anche la tesi di d. rodino, Costruire una superstar: John Brockman e la rivoluzione dell’editoria, master in comunicazione della scienza, 2009, al sito digitallibrary.sissa.it/bitstream/handle/1963/6226/rodino.pdf?…1

“Solo la letteratura ci fa capire l’esperienza umana: questo serve

anche agli esperti di biologia e viceversa”

david Lodge

14 Cultura scientifica e cultura umanistica – dossier

esibire la propria ignoranza in fatto di scienza resta uno degli esercizi preferiti di certa intellighenzia nostrana. le pagi-ne culturali dei quotidiani si contorcono da anni in una palude di controversie letterarie insignificanti, di revisionismi storici di maniera, di cannibalismi incrociati. mentre là fuori succede di tutto, loro si citano e si controcitano voluttuosamente.”12

alcuni sostengono che la contami-nazione tra le due culture è già in atto, se mai è preoccupante la progressiva emarginazione della cultura dai media, in particolare la televisione. secondo remo Bodei oggi i rapporti tra scienze umane e scienze matematiche, fisiche e naturali “si stanno rinsaldando e seguo-no nuovi percorsi”, il problema grave in italia riguarda invece lo stato della ricerca e dell’università, e la difficoltà di far arrivare i risultati della ricerca a un pubblico infantilizzato dai media. altri denunciano le carenze dell’educazione scientifica nella scuola, la scarsità, in italia, di bravi e seri divulgatori.

il momento delicato che stiamo vivendo –sostiene Jacopo romoli– ci pone di fronte a sfide straordinarie (crisi climatiche, crisi alimentari, esaurimento delle fonti energetiche) per cui abbiamo bisogno non di una scienza chiusa e nep-pure di una filosofia e conoscenza uma-nistica che non si misura con la scienza, ma di prospettive integrate e ampie per riflettere sui grandi temi del futuro.

chiara saraceno nota che la famiglia, oggetto dei suoi studi, è “un ambito privilegiato non solo di diverse specializzazioni disciplinari, ma anche di dialogo e del confronto tra discipli-ne.” di famiglia si occupano tanto gli storici e i demografi quanto economisti, sociologi, psicologi, psicoanalisti, peda-gogisti, scienziati della politica, giuristi e filosofi. Per non parlare di romanzieri come thomas mann, drammaturghi come henrik ibsen, registi come ingmar Bergman che “hanno fornito rappre-sentazioni della famiglia borghese tra le più affascinanti e acute.”. inoltre gli sviluppi della medicina e della procre-azione assistita hanno posto nuove domande a giuristi, sociologi, psicologi circa il significato della filiazione e su

12. le citazioni di questo paragrafo sono tratte tutte da V. lingiardi, n. Vassallo, Terza cultura, op. cit., pp. 185; 54; 197; 210-11; 94.

come essa si costruisce.Per chiara de cesari la terza

cultura può essere un terreno fertile di potenzialità, ma anche ambiguo e pieno di trabocchetti. quella di Brockman le sembra una pratica del sapere mer-cificata: se un libro non vende e non diventa un bestseller appare destinato ad essere messo da parte come cultura tradizionale ormai decrepita. “mentre la divisione disciplinare e la compar-timentalizzazione del sapere perman-gono, purtroppo un certo scientismo un po’ spicciolo, economicistico è oggi dominante dentro l’università e si porta dietro la brutta idea che la conoscenza se non è utile, se non è funzionale a un progetto definito nel concreto imme-diato, non serve più. (...) È questa idea di cultura fashion e consumistica che a volte rischia di profilarsi dietro al discorso della terza cultura.”

non solo conflitti da quanto detto finora appare

chiaro che la separazione tra le due culture persiste, ma nello stesso tempo esistono vari tentativi per superarla. Vi sono studiosi, provenienti dai due cam-pi, che superano il confine della propria disciplina per avventurarsi nel campo opposto; contemporaneamente è in atto un fenomeno di convergenza fra le scienze naturali, in particolare biologia e neuroscienze, con le scienze umane (filosofia, storia, immaginario).

eric B. Kandel, neuroscienziato, premio nobel per la medicina 2000, ha pubblicato L’età dell’inconscio. Arte, mente e cervello dalla Grande Vienna ai nostri giorni 13 in cui esamina i punti di contatto tra psicoanalisi, neurobiologia, letteratura e arte a partire dalla cultura viennese di inizio novecento. Kandel si concentra su cinque personaggi (Freud, schnitzler, Klimt, Kokoschka e schiele) e il fermento culturale della Vienna dell’epoca, nei cui salotti si discutevano idee che avrebbero segnato una svolta nella psicologia, nella neurobiologia, nella letteratura, nell’arte. il dialogo tra scienza ed arte –sostiene Kandel– può

13. e. r. Kandel, L’età dell’inconscio. Arte, mente e cervello dalla Grande Vienna ai nostri giorni, raffaello cortina, milano, 2012, v. anche P. Zanuttini, Un Nobel racconta di quando arte e scienza si incontrarono a Vienna, il Venerdì di repubblica, 2 novembre 2012, pp. 72-5

JoHn BRockMAn: eDge e teRzA cuLtuRAÈ uno dei più noti agenti letterari, specializzato nella letteratura scientifica: ha tra i suoi clienti diversi famosi scienziati (tra cui molti premi Nobel) e divulgatori scientifici. Partendo da una riflessione sul libro di Charles P. Snow nel 1995 scrive La terza cultura. Le nuove rivoluzioni scientifiche in cui spiega che l’intellettuale tradizionale è in declino, perché non basta più avere un background storico, filosofico, politico per esprimere il nostro tempo. La terza cultura è quella alimentata da scienziati e pensatori che con il loro lavoro di ricerca e divulgazione esprimono il significato più profondo della vita umana e che hanno la capacità di trasmetterla a un vasto pubblico. Sono loro i nuovi intellettuali. Nel 1998 crea Edge (www.edge.org) una specie di club virtuale, un luogo di incontro tra scienziati e intellettuali di discipline diverse, il cui scopo è quello di promuovere la discussione su temi culturali importanti. Con il progetto The World Question Center ogni anno Brockman pone una domanda a un gruppo ristretto di scienziati o personaggi in vista, raccoglie le risposte e confeziona un libro.Sicuramente Brockman ha rivoluzionato la circolazione delle idee scientifiche negli ultimi decenni ed è diventato l’agente più richiesto da chiunque voglia scrivere di scienza, ma non mancano perplessità sul suo operato. C’è chi gli rimprovera di affidare al solo scienziato la capacità di intendere il reale, chi come Bruno Arpaia lo definisce un “gran filibustiere intelligente”, chi si chiede se davvero prospetta un’unificazione del sapere o semplicemente opera un ribaltamento tra letteratura e scienza, oppure se dietro il suo discorso non si celi un’idea di cultura consumistica.Sulla scia di Edge anche in Italia si è costituita Terza cultura, il primo passo di un progetto più ampio con l’ambizione di creare una comunità italiana, che, attraverso una pluralità di strumenti, si confronti, discuta, si contamini, allo scopo di diffondere la ricerca fra tutti gli strati della società. Terza cultura. Idee per un futuro sostenibile, il libro curato da Vittorio Lingiardi e Nicla Vassallo, nello spirito di Edge, vuole offrire una prima ricognizione della volontà di innovazione della cultura italiana.

15Strumenticres n.60 – febbraio 2013

ampliare la nostra visione e fornirci nuove intuizioni tanto sulla natura quanto sulla creatività dell’arte.

l’astrofisico roger malina, del massachussets institute of technology, crede fermamente nell’incontro delle due culture, in particolare nella collabo-razione tra scienziati e artisti. quando si affrontano problemi molto difficili, come quelli cui ci troviamo di fronte noi oggi, –dice in un’intervista– spesso è nelle aree interdisciplinari che si veri-ficano importanti progressi scientifici, non all’interno delle vecchie discipline e riporta l’esperienza del sound artista david dunn e dello scienziato della complessità James crutchfield, che han-no collaborato nell’ambito della “eco-logia acustica”. Partendo dall’interesse del musicista per il suono che emettono gli alberi durante la loro crescita, hanno lavorato assieme producendo non solo interessanti scoperte scientifiche, ma anche una musica molto suggestiva.14

malina fa parte anche dell’imera (istituto mediterraneo di ricerche avanzate)15, il cui obiettivo è di stimo-lare degli scambi che oltrepassino i limiti disciplinari. interessante anche la collaborazione tra giovani ricercatori e ricercatori senior. qui un cineasta come harold Vasselin sta lavorando con una climatologa, con neuroscienziati e nanoscienziati, mentre il fisico Jim gimzewski lavora sia con artisti che filosofi. Penso –aggiunge malina– che le arti e le scienze umane debbano essere protagoniste della sfida con la quale le varie crisi ci portano a confrontarci.

Vittorio gallese, docente di neurofi-siologia all’università di Parma, fa parte del gruppo di scienziati che ha sco-perto l’esistenza dei neuroni specchio, scoperta che pone una base fisiologica all’empatia. gallese è uno scienziato con un’ampia apertura culturale, con un in-teresse particolare per le forme dell’im-maginario (poesia, narrativa, teatro, arti plastiche e figurative, architettura).

in un lungo colloquio con remo

14. t. de Feo, La sfida dell’Open Observatory. Roger Malina and the New Leonardos, www.digicult.it/it/digimag/issue-053/open-observatory-challenge-roger-malina-and-the-new-leonardos/.

15. www.imera.fr.

ceserani,16 gallese racconta di essere stato lui, nel suo gruppo, a iniziare un dialogo con la filosofia pubblicando un lavoro nel 1998 insieme al filosofo sta-tunitense alvin goldman sul rapporto tra neuroni specchio e simulation the-ory of mind reading. si tiene in stretto contatto con il dipartimento di filosofia del proprio ateneo, anche se –aggiunge– c’è sempre qualche collega che storce la bocca perché non capisce l’utilità di queste “contaminazioni”. Corpo e azione nell’esperienza estetica. Una prospettiva neuroscientifica, è un lungo e articolato saggio, pubblicato come Postfazione a Mente e bellezza. Arte, creatività e innovazione, di ugo morelli, docente di psicologia della creatività. scrive gallese:

“Oggi le neuroscienze hanno la po-tenzialità di illuminare, seppure da un diverso angolo prospettico, la natura estetica della condizione umana (…) le intuizioni artistiche ci fanno compren-dere molto della natura umana, spesso molto di più rispetto all’orientamento

oggettivante tipico dell’approccio scientifico. Essere umani significa divenire capaci di interrogarsi su chi siamo. Da sempre la creatività artistica ha espresso nella forma più elevata questa capacità. Taluni temo-no che affrontare queste tematiche con l’armamentario prosaico della scienza possa in qualche modo sminuire, se non addirittura distruggere la magia che ci invade quando contempliamo

16. la lunga intervista di ceserani a gallese, può essere scaricata dal sito www.unipr.it/arpa/mirror/pubs/pdffiles/gallese/2012/unibo_rivistaonline.pdf; v. anche Neuroni specchio: il “futuribile” dell’apprendimento, intervista a Vittorio gallese a cura di cinzia mion, “rivista dell’istruzione”, 6/2010 pp. 75-79 in www.andis.it/it/documenti_nazionali/ri6-2010-gallese-mion-def.pdf, in cui si parla delle ricadute didattiche della scoperta dei neuroni specchio.

un’opera d’arte. Se condividessi que-sta preoccupazione dedicherei il mio tempo ad altro. Al contrario, è proprio il convincimento che la prospettiva neuroscientifica consenta un’ulterio-re valorizzazione della dimensione distintiva e straordinaria dell’arte e dell’esperienza estetica che mi convince che ci stiamo muovendo in una direzione potenzialmente gravida di risultati interessanti per chiunque sia interessato a meglio comprendere chi siamo.”17

una critica dall’interno

non mancano voci critiche all’inter-no di ciascuno dei due campi. richard lewontin, uno dei maggiori studiosi mondiali di genetica, con Biologia come ideologia. La dottrina del DNA e Il sogno del genoma umano e altre illusioni della scienza18 affronta in termini accessibili a tutti, il problema del senso generale della ricerca scientifica e dell’ideolo-gia implicita nella scienza biologica. la scienza –sostiene– è “un’attività

produttiva umana che richiede tempo e denaro e dunque è guidata e diretta da quelle forze che nel mondo esercitano il controllo sul denaro e sul tempo.”. il sapere scientifico non può fingere di essere autonomo e fuori della mischia, ma deve assumere un atteggiamento di riflessione critica.

una critica serrata e documentata viene rivolta al “determinismo biologi-co” secondo il quale le caratteristiche (fisiche, psichiche, morali, comporta-

17. u. morelli, Mente e bellezza. Arte, creatività e innovazione, umberto allemandi editore, torino, 2010; il saggio di gallese si trova anche al link www.unipr.it/arpa/mirror/pubs/pdffiles/gallese/2010/mente_bellezza_2010.pdf.

18. r. lewontin, Biologia come ideologia. La dottrina del DNA, Bollati Boringhieri,torino 1993; Il sogno del genoma umano e altre illusioni della scienza, laterza, roma-Bari, 2002.

“L’immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata mentre l’immaginazione abbraccia il mondo,

stimolando il progresso e facendo nascere l’evoluzione”albert einstein

16 Cultura scientifica e cultura umanistica – dossier

mentali) di un individuo, ma anche le attitudini o le tendenze, sono dovute a fattori biologici innati, quindi le diffe-renze socioeconomiche non sono che un riflesso delle differenze biologiche ereditate dai genitori. in questo modo si finisce per legittimare l’ordinamento gerarchico della società come diretta conseguenza di differenze biologiche; questa ideologia ha delle chiare impli-cazioni politiche. siamo in presenza di una vera “genomania” che fa “del dna un feticcio.”

di volta in volta lewontin mette a fuoco quelli che sono i temi centrali del nostro tempo, dall’ingegneria genetica all’uso delle statistiche in sociologia, dai risvolti legati al Progetto genoma uma-no a quello della clonazione, dai test per misurare l’intelligenza alle applicazioni forensi della tecnologia del dna.

albero oliverio, docente di psico-biologia e psicofarmacologia, nel suo Dove ci porta la scienza19 affronta in modo divulgativo alcuni nodi problema-tici, alcune questioni che vedono fronti contrapposti di fautori e oppositori co-me, ad esempio, nel dibattito sugli ogm, ma anche la possibilità di una scienza solidale. oliverio aiuta il lettore a riflet-tere sul significato e la funzione della scienza e dello scienziato, sul ruolo della tecnologia, sul peso dell’economia nella ricerca. gli sviluppi della biologia molecolare, dell’ingegneria genetica, della biologia della riproduzione e delle neuroscienze hanno trasformato il mondo in cui viviamo e suscitato anche timori e proteste. si pensi alle discus-sioni scaturite da problemi collegati alla fecondazione artificiale, agli ogm, alle cellule staminali, alla clonazione, agli studi sul cervello umano, questioni che sollevano dubbi e dissensi soprattutto di carattere etico, ma i tempi lenti delle riflessioni etiche mal si accordano con i tempi rapidi della scienza.

la scienza moderna è sempre più specialistica, settoriale e parcellizzata per cui i giovani scienziati “rischiano di produrre i mattoni di un edificio, ma di ignorarne le caratteristiche d’insie-me”. il sistema ricerca è una macchina complessa con tempi e modi sempre più competitivi, caratterizzata da un linguaggio sempre più specialistico che

19. a.oliverio, Dove ci porta la scienza, laterza, roma-Bari, 2003.

crea una barriera tra mondo degli scien-ziati e quello dei non addetti ai lavori. diminuiscono i finanziamenti pubblici alla ricerca, questo comporta una forte competizione per accaparrarsi i fondi, crea una corsa verso la privatizzazione, spinge alcuni scienziati a mettersi in proprio creando imprese piccole (talvol-ta grandi) e entrando così nella logica del profitto. il settore biotecnologico è quotato alla borsa valori di new York, londra e Francoforte “il che sancisce lo stretto intreccio che si è venuto a creare tra scienza e tecnologia e il predominio della ricerca applicata o ‘applicabile’ su quella pura.”20

altri aspetti della scienza e della tecnologia su cui si può discutere in modo critico –secondo oliverio– riguar-dano la fiducia quasi fideistica nella possibilità della scienza di trasformare la realtà sempre per il meglio; il con-cetto di universalità delle spiegazioni scientifiche che non tiene conto di altre chiavi di lettura della realtà, proprie di altre culture; lo scollamento tra la scien-za come è praticata nei paesi ricchi e i problemi dei paesi poveri; la sfida della complessità con cui “la scienza deve confrontarsi e su cui hanno giustamen-te richiamato l’attenzione, anche se in modo non sempre condivisibile, i movimenti di contestazione nei riguardi della scienza.”.

il testo di martha nussbaum Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica uscito in italia nel 2011 ha ricevuto un di-screto successo, ma anche critiche non solo sul versante scientifico ma anche su quello umanistico. in generale, le si rimprovera di riproporre la divisione tra le due culture, si esprime il timore di una rinnovata pretesa egemonica delle humanities sulle scienze, con conse-guenze negative per l’italia che già soffre di un deficit di cultura scientifica. di fronte alla innegabile marginaliz-zazione delle discipline umanistiche

20. V. anche Y. castelfranchi, Quando il dato non c’è. Comunità scientifica (e società) di fronte al bivio della disclosure, sissa, trieste, jcom.sissa.it/archive/03/02/F030201/jcom0302(2004)F01_it.pdf; V. Pellegrini, La bolla speculativa delle scienze, www.claudiogiunta.it/author/vittorio-pellegrini/; e. lombardi Vallauro, Come i soldi strozzano la ricerca scientifica, “il mulino” n. 6/03, pp. 1171-74.

nel mondo attuale non serve –sostiene claudio giunta docente di letteratura italiana all’università di trento– porsi in una situazione di difesa limitandosi al

“piagnisteo” o ad inalberare l’ “orgoglio dell’umanista”.21 la marginalizzazione probabilmente è irreversibile visto che la tradizione occidentale, egemone fino a qualche generazione fa, ora diventa una delle tante tessere del mosaico culturale mondiale, ma l’insegnamento dei classici “va difeso e migliorato nella scuola e nell’università, perché è una parte fondamentale della nostra cultura nazionale: è quanto di meglio abbiamo da offrire al mondo, è un patrimonio che è affidato soprattutto alla nostra custo-dia”, va però ripensato il modo in cui insegnarli oggi, a scuola e all’università.

il grande ambito disciplinare delle scienze umane –ricorda il latinista e filologo giovanni guastella dell’univer-sità di siena22– per quasi due secoli ha goduto di una autorità indiscussa e ha formato intere classi dirigenti, ma oggi è fatta oggetto di molte critiche. che fare di fronte alla perdita di autorevo-lezza e prestigio del mondo umanistico? occorre lottare per affermare le proprie ragioni –sostiene guastella– senza pretendere che vengano accolte perché sono “evidentemente” giuste. occorre affrontare il tema, complesso, della riconfigurazione dell’intero sistema educativo. il sistema di accesso al sape-re sta cambiando, molte delle funzioni tradizionalmente svolte da scuola e università potrebbero, in teoria, essere svolte dal canale informatico in modo più veloce, mirato ed economico; in teo-ria, perché il canale informatico non dà garanzie di affidabilità che di solito si pretendono dalle fonti della conoscen-za. si è passati dalla centralità della biblioteca alla delocazzizazione del cyberspazio e in questo nuovo contesto tecnologico e informativo è necessaria un’interazione organica tra canali tradi-zionali e canali tecnologici, una sinergia

21. c. giunta, Ripensare l’umanesimo, “il sole 24 ore, domenica 16 ottobre 2011; Piagnistei, www.claudiogiunta.it/2012/04/piagnistei/.

22. g. guastella, Le Humanities e il futuro della memoria culturale in www.claudiogiunta.it/wp-content/.../guastella-le-humanities…pdf; Scienze umane e memoria culturale “il mulino” n. 4/12, pp. 626-636.

17Strumenticres n.60 – febbraio 2013

costruttiva fra i luoghi tradizionali della formazione e quelli immateriali del web, cercando di adeguare i tempi lenti della cultura umanistica all’accelerazione che le nuove tecnologie imprimono ai flussi dell’informazione.

le scienze umane così come le conosciamo si sono costituite nell’ot-tocento attorno a un progetto culturale nazionalistico inadeguato in un mondo ormai globalizzato, ci sarebbe bisogno di un progetto culturale adeguato alla nuova realtà sociopolitica, un proget-to unitario in cui possa riconoscersi l’ambito disciplinare, vasto e diso-mogeneo, come quello delle scienze umane, un progetto che partisse da una domanda: “quale memoria intendiamo porre alla base del nostro rapporto col presente e col futuro?”. non si tratta di privilegiare il presente rispetto al passato, come vorrebbe la cultura di massa, che ha perso la profondità di senso storico, ma spetta alle istituzio-ni culturali di rimodulare la memoria culturale, di selezionare e archiviare i contenuti divenuti accessori. È già av-venuto in altre epoche, ad esempio nel settecento, con la Querelle des anciens et des modernes. come? ripensando i canoni delle discipline “senza perdere di vista l’orizzonte generale dei processi evolutivi cui la produzione artistica e scientifica è andata soggetta nel corso dei secoli. e senza nemmeno perdere di vista quell’orizzonte della cultura condivisa che (…) le strutture formative devono continuare ad avere, per non disgregarsi e non disperdere la base stessa di una memoria collettiva. (…) si dovrebbe avere il coraggio di affrontare una serie di scelte radicali, che tengano conto delle nuove priorità culturali. l’e-satto opposto, cioè, del modo ipocrita con cui sono stati di recente riformulati i programmi ministeriali delle singole discipline scolastiche, che conservano intatti i canoni preesistenti e li integra-no ulteriormente, facendone dei conte-nitori insensatamente ipertrofici, privi della più vaga parvenza di sostenibilità.”

Rapporti e confini tra “scientifico” e “umanistico”

Quale umanità per il futuro? di piera hermann

un problema a diversi livelli:livello antropologico

niki Vendola ha reso quasi popo-lare l’uso della parola “narrazione”. in essa si cela, in realtà, un concetto non facile: quando si racconta (si narra) una storia non si trasferisce in parole, immagini o altro la realtà tutta. si scelgono invece in essa elementi tra i quali viene stabilita una relazione. e’ l’operazione mentale semplice, spon-tanea, quotidiana oppure formalizzata o addirittura metafisica, con la quale sempre e da sempre diamo senso, significato alla realtà. e’ l’uomo che dà senso alla realtà. e la realtà muta e le scelte e le relazioni mutano con essa sia nel tempo che nello spazio. da que-sto deriva l’affascinante e infinitamente complesso nascere, crescere, convivere, contaminarsi e anche morire di culture (o “narrazioni” appunto) che vanno da quelle individuali a quelle collettive, vuoi di popoli, vuoi di generazioni. e perché le culture, le“narrazioni” o i paradigmi (che di queste sono in qualche modo gli elementi strutturanti) muoiono o vengono progressivamente abbandonate? accade quando l’in-sensato scorrere della realtà e la lettura che se ne dà divergono in modo non più conciliabile. non possiamo infatti vivere chiusi nel nostro pensiero e nel nostro immaginario. Basti l’esempio del problema ambientale: era inesistente nella nostra mente, nel nostro vivere e sentire fino ad alcuni decenni fa e oggi si propone, spesso brutalmente, come orizzonte totalizzante!

ma anche all’interno di uno stesso universo di senso le narrazioni sono e sono state plurime e variamente vincenti le une sulle altre. Penso qui alla cultura occidentale (intesa per praticità di discorso in una accezione

volutamente stereotipata). mio padre, uomo di mondo e ben scolarizzato, ancora negli anni ‘60-’70 amava dire

“per carità non fatemi vedere dei conti (oppure “non fatemi cambiare una lampadina”) perché io non ne capisco niente!” non era del tutto vero, ma esprimeva, in un modo un po’ snob l’idea che queste cose (la matematica, la tecnica...) si potevano anche lasciare ad altri, senza vergogna, perché la vera cultura, quella nobile e ineludibile per un pensiero raffinato, era della filosofia, della letteratura, dell’arte... e molti altri, allora, erano come mio padre! infatti lo stereotipo culturale del tempo, in italia, era il primato della cultura umanistica su quella scientifica.

ma le cose andavano da un’altra parte. la scienza e la tecnica si sono prese una bella rivincita arrivando a connotare, nella vulgata corrente, il primato stesso dell’occidente sul resto del mondo (ma senza arrivare a coinvolgere veramente la nostra scuola, come vedremo più avanti, lasciandoci così tra incongruità e contraddizioni, tra canoni disciplinari bloccati e realtà galoppante).

la riflessione culturale occidentale però si è andata via via strutturando in-torno alla consapevolezza che l’oggetto delle discipline umanistiche e di quelle scientifiche è sempre lo stesso: la realtà di cui siamo parte. e che diversi sono invece i metodi e i linguaggi con cui la leggiamo e la narriamo. da qui l’idea che solo un approccio complesso possa avvicinarci a capire chi siamo, come viviamo e se e come vivremo.

Vivace infatti è stata la volontà di esprimere la più recente cultura scientifica e tecnologica anche con la letteratura, il cinema e l’arte.

ma il compito è diventato sempre

18 Cultura scientifica e cultura umanistica – dossier

più difficile. già il novecento aveva percepito che la scienza ci forniva una lettura del mondo sempre più lontana dalla percezione comune, dal senso comune e dalla millenaria cultura comune1. oggi poi la tecnologia, con la sua potenza prima inimmaginabile2, permette addirittura che le più ardite ipotesi del formalismo matematico, massima astrazione del pensiero scientifico, possano risultare “vere” o

“false”. chi ne capisce pensi ad esempio al bosone di higgs.

io, invece (degna figlia di mio pa-dre?) sarei vilmente tentata di pensare quanto sarebbe bello continuare a non sapere niente di queste cose e così non essere travolta dalla vertigine di un mondo (di cui però noi stessi siamo fat-ti!) che nulla ha a che fare con i nostri sensi, i nostri sentimenti, il nostro stes-so corpo percepito. cosa significherà tutto questo per l’uomo comune, legato carnalmente al proprio minimo tempo, che resta lineare e fuggevole, al proprio minacciato spazio fisico, così spesso misconosciuto in nome di altri “spazi”, ai suoi sentimenti e emozioni, che, al di là di tutto, spesso sottomettono così potentemente calcolo e ragione? in parole più asciutte: quale sarà l’uomo di domani e la sua “narrazione”? Vera-mente nessuno lo sa.

ma giuseppe longo, scienziato e letterato, dice invece (cito a memoria):

“unire le due visioni è difficilissimo ma non bisogna arrendersi e comunque la letteratura, l’arte e la ricerca scientifica offrono narrazioni alternative, ma, credo, legate tra loro nel profondo, dell’uomo e della natura e sono entrambe tentativi di dare un senso a noi e a noi nel mondo”.

livello sociologico scolastico

tutto quanto detto fin’ora può sem-brare una questione teorica che in nulla c’entra con la vita di tutti i giorni della

1. lo spazio è insieme curvo e piatto, i corpuscoli sono onde e le onde sono corpuscoli, c’è la materia e c’è l’antimateria… cose di noi del tutto incomprensibili a noi stessi!

2. Possiamo fotografare singoli neuroni (sic!) e risonanze e scansioni permettono di guardare anche le nostre emozioni sullo schermo di un computer ecc. ecc. …

scuola, degli insegnanti e studenti. ma proprio non è così. il problema della ricomposizione del sapere (sia pure senza toccare le vette più alte della ricerca nella fisica o nella biologia) è di importanza fondamentale nella for-mazione culturale che in molti ambiti continua ad andare nella direzione opposta.

ho detto che la cultura tecnico-scientifica resta inserita nella scuola italiana quasi come un corpo estra-neo in una matrice che resta ancora fondamentalmente storico-letteraria e verbale. lo si vede non tanto nei suoi contenuti quanto nella sua struttura e nei suoi metodi. Progettazione e ricerca quasi assenti (e qui ovviamente non parliamo solo di scienze), spazio pove-ro o nullo per la creatività e per tutti i linguaggi non verbali, metodi e oggetti di valutazione e verifica . anche i nuovi media restano per i più solo un nuovo strumento per apprendere secondo i vecchi schemi di sempre (in fondo, solo

nuove e più ambigue enciclopedie o nuove lavagne più vivaci) e non come nuovo modo per usare la mente e le relazioni.

eppure da anni morin, ceruti e altri pedagogisti hanno portato nella scuola l’idea di complessità e di nuovi para-digmi3. si ripete che la sola formazione disciplinare, formalizzata e totalmente avulsa dalla realtà, è un apprendimento sterile che può dare solo conoscenze, ma non quelle competenze necessarie per affrontare il compito che si pre-senterà ai ragazzi che oggi sono tra i banchi: sperimentare un nuovo modello di individuo, di relazioni e di società che sia capace di avere futuro.

anche nelle famiglie, oggi che il presente è così incerto, si discute molto di quale sia la cultura più utile per i figli affinché possano avere più opportunità.

3. Basti solo guardare le date degli scritti fondamentali del sociologo francese edgard morin, oppure quelle del nostro mauro ceruti.

19Strumenticres n.60 – febbraio 2013

CACCIA AL TESORO

NELL'“ORTO RITROVATO”

Classe 2 A scuola Primaria

di via moscati, milano

in anni recenti sono state nettamente superiori le iscrizioni ai licei e, tra que-sti, il valore più indiscusso era quello del classico. gli istituti tecnici erano per quelli non all’altezza del liceo. Per non parlare delle scuole d’arte e, in generale, del posto della manualità nella formazione in italia. oggi invece, data la crisi, ci si dice che gli indirizzi tecnico scientifici e le lingue straniere sono i più importanti per essere concor-renziali (e che “l’arte e la cultura non si mangiano”). e, per chi non può farcela, è meglio imparare un mestiere, senza perdersi nella scuola.

come porci di fronte a idee così contraddittorie? Possiamo trascurare le radici, la gioia della cultura, dell’educa-zione all’arte in nome di un futuro tutto tecnologico che di queste cose non avrebbe bisogno? o dobbiamo rimane-re rivolti al passato, ancorati all’espres-sione, al pensiero, ma senza “visione” del presente e quindi senza capacità progettuale di fronte a un mondo che, comunque, non potrà sopravvivere senza alte competenze scientifiche e tecnologiche (perché il problema, in vista di auspicati nuovi stili di vita, non sarà la rinuncia alla tecnologia, ma la capacità di scegliere dove e quale tecnologia volere)?

livello scolastico-didatticoquello appena enunciato potrebbe

superficialmente sembrare un problema insolubile, ma in realtà è solo un pro-blema posto male. il punto, infatti, non è quale indirizzo di studi privilegiare per i nostri figli. Per questo il criterio, oggi più che mai, dovrebbe essere quello delle attitudini4. il punto invece, ancora una volta!, è quale sarà l’approc-cio pedagogico-didattico all’interno di

4. scagli la prima pietra l’insegnante che , volente o nolente, non ha stilato giudizi di orientamento al termine della scuola media seguendo i criteri più sopra citati dove le uniche attitudini realmente considerate sono quella verbale e, qualche volta, matematica!

ogni tipo di indirizzo. se l’epistemolo-gia delle discipline, implicita e spesso inconsapevole nella insegnamento a scuola5, resterà la stessa, ferma ai primi del ‘900; se lo scopo dell’insegnante continuerà ad essere solo la conoscen-za formalizzata delle discipline, non se ne esce. e la nostra scuola, ricordiamo-lo, è strutturata oggi totalmente sulla distinzione delle discipline.

Noi del CRES lo diciamo da sempre: didattica per progetti, laboratori di ricerca, approccio interdisciplinare e transdisciplinare sono la condizione per un insegnamento finalmente per temi e problemi e per filoni, dove il presente sia la domanda su cui far confluire le discipline, ma su cui, anche, far sbocciare consapevolezza, interessi, passioni, coinvolgimento e far scopri-re attitudini e capacità.

Volendo chiudere con una citazio-ne mi piace riportare le parole non di un pedagogista o insegnante, ma di un noto psicologo e psichiatra , gustavo Pietropolli charmet6:

“E’ necessario che le singole discipline che attualmente dominano la scena della scuola con i loro programmi indipendenti riconoscano la necessità di ricomporre la conoscenza, superino la frammenta-zione dell’attuale didattica e si integrino in un nuovo quadro di insieme”.

5. la visione che separa l’uomo dalla natura (fatta di animali, piante e quant’altro e, sì, anche il corpo umano); l’idea che la storia è solo la trasmissione di un racconto difficile e soprattutto noioso che si deve imparare e ripetere perché...perché la scuola così vuole; la mancanza di qualsiasi educazione alla tecnologia; l’idea che il laboratorio sia solo per le materie scientifiche: sono solo esempi del risultato residuo (non solo per l’infanzia!) di una didattica su cui contenuti anche a volte pregevoli di alcuni manuali non riescono ad avere la meglio. mutatis mutandis, possiamo dire che il mezzo (struttura, manuali ecc.) è il solo messaggio che arriva!

6. corriere della sera 1/9/2012

Sul metodo scientifico di marina medi

la certezza nel metodoa partire dalla formulazione di

galileo galilei, metodo scientifico è la modalità tipica con cui la scienza proce-de per raggiungere una conoscenza della realtà oggettiva, affidabile, verificabile e condivisibile. esso si basa su quattro elementi fondanti: l’osservazione di un fenomeno di cui si vuole cercare le cau-se, la formulazione di ipotesi di spiega-zione, la realizzazione di esperimenti per verificare queste ipotesi, la definizione di una teoria generale.

in base a questa definizione il meto-do scientifico sembra essere applicabile solo ai fenomeni naturali e non a quelli umani perché i primi si ripetono in modo uguale e possono essere quindi verificati da esperimenti.

ma alla fine dell’ottocento nacque l’idea che la distinzione tra le scienze non dipendesse dall’oggetto di studio ma dal metodo, uno proprio delle scienze naturali ed un altro delle altre scienze. così Windelband distinse le scienze in nomotetiche (dal greco nómos e thetikós: «che stabilisce leggi») e idiografiche (dal greco ídios e graphikós: «che descrive il particolare»), ma affermò anche che entrambe mirano alla formazione di con-cetti e alla spiegazione di cose e eventi. i concetti scientifici mirano alla gene-ralizzazione (“leggi”), mentre i concetti storici si riferiscono agli eventi indivi-duali in quanto essi incarnano i “valori” costitutivi di una determinata civiltà e sono proprio questi valori che indiriz-zano la conoscenza storica. secondo rickert, conoscere significa esprimere un giudizio di valore, ma questo non è soggettivo, quanto piuttosto una valu-tazione che approva/riprova in base ad un “riferimento oggettivo” ai valori quali essenze eterne.

secondo questa interpretazione la differenza tra le scienze della natura e le scienze dello spirito non dipende quindi dalla specificità dell’oggetto di studio: uno stesso fenomeno può essere studia-to sia cogliendone la similarità rispetto ad altri fenomeni (prospettiva nomote-tica), sia sottolineandone l’individualità

20 Cultura scientifica e cultura umanistica – dossier

Sul metodo scientifico di marina medi

e l’irripetibilità (prospettiva idiografica). la realtà diviene “natura” se la si consi-dera in riferimento all’universale, ovvero se viene osservata come il ripetersi di fenomeni nel tempo, individuando leggi generali che spiegano la connessione tra fenomeni. la realtà diviene “storia” se la si considera in riguardo al particolare e all’individuale, ovvero se viene osserva-ta nella sua singolarità ed irripetibilità e nel suo significato culturale.

la crisi delle certezzema nel corso del novecento questa

distinzione tra due possibili metodi scientifici è stata messa in discussione e la fiducia stessa nel metodo scientifico come strumento per leggere e compren-dere la realtà è andata in crisi.

lo sviluppo delle scienze sociali è servito a fare chiarezza sul suo impianto metodologico.

la differenza epistemologica fra scienze naturali e sociali consiste nel fatto che la realtà sociale non può essere semplicemente osservata, ma necessita di interpretazione; il metodo per inter-pretarla è quello della comprensione. comprendere significa cogliere l’inten-zionalità dell’agire umano, attraverso il senso soggettivo attribuito dall’indivi-duo al proprio comportamento.

ciò nonostante l’oggettività delle scienze sociali è garantita dalla validità delle procedure interne alla ricerca, ov-vero dal metodo che contempla il ricorso alle imputazioni causali e alla valutati-vità, e dalla possibilità di confrontare la singola azione con le azioni possibili costruite concettualmente (tipi ideali).

secondo max Weber, obiettivo delle scienze sociali è comprendere il signifi-cato interno all’azione. esiste quindi una sola scienza perché unico è il criterio di scientificità delle diverse scienze, quello della spiegazione causale. nel caso dei fenomeni sociali, la spiegazione di rapporti causali avviene tra fenomeni individuali, singolari, ma sulla base di regole generali basate sull’esperienza

(storica). in altre parole si suppone che ad un certo fenomeno “singolare” (causa) segue un altro fenomeno (effet-to), secondo una regola di probabilità che è determinabile e, nel caso ideale, formulabile in termini quantitativi. la sociologia comprendente, per esempio, è una scienza generalizzante, che elabora concetti univocamente definiti, somma-mente astratti e relativamente vuoti e che ricerca regole generali del divenire.

nell’ambito delle scienze naturali si è visto come gli elementi del metodo (osservazione, ipotesi, sperimentazione, teoria) non fossero sempre applicabili. la fiducia nel carattere di certezza della scienza, che era il proposito cartesiano fatto proprio nell’ottocento dal positi-vismo, cominciò via via a declinare per molte ragioni.

↘ non sempre è possibile riprodurre sperimentalmente delle osservazioni naturali. ad esempio, in alcune scien-ze, come l’astronomia o la meteorolo-gia, non è possibile riprodurre molti dei fenomeni osservati e allora si ricorre ad osservazioni e simulazioni digitali. l’evoluzionismo per essere verificato direttamente richiederebbe tempi d’osservazione talmente lunghi (milioni di anni) da non essere ripro-ducibili in laboratorio. in biologia e medicina molte leggi sono di tipo probabilistico e non possono essere espresse con una formula matemati-ca; quindi, per riconoscere la scienti-ficità di un discorso medico, si ricorre ad un controllo empirico basato sulla ripetibilità, statisticamente signifi-cativa, delle osservazioni da parte di altri ricercatori.

↘ albert einstein formulò la teoria della relatività partendo non da esperimen-ti o da osservazioni empiriche, ma ba-sandosi su ragionamenti matematici e analisi razionali compiuti a tavolino.

↘ il Principio di indeterminazione, alla base della meccanica quantistica, sancisce il sostanziale indetermini-smo comportamentale delle entità

appartenenti al mondo subatomico, che quindi non sono osservabili e sono sottratte totalmente ai criteri della fisica classica.

↘ Karl Popper ha sostenuto che non si può attingere con sicurezza il sapere dalla realtà esterna in maniera indut-tiva, al riparo dalle deformazioni del nostro pensiero. c’è infatti sempre il rischio della soggettività dell’inter-pretazione, che può venire falsata da un preconcetto o da una nostra chiave di lettura. l’osservazione non è mai neutra, ma è sempre intrisa di teoria, di quella teoria che, appun-to, si vorrebbe mettere alla prova. secondo Popper, la teoria precede sempre l’osservazione: anche in ogni approccio presunto “empirico”, la mente umana tende inconsciamente a sovrapporre i propri schemi mentali, con le proprie categorizzazioni, alla realtà osservata.

↘ ancora secondo Popper una teoria può essere sottoposta a controlli efficaci e dirsi scientifica solo se formulata a priori in forma deduttiva. la peculiarità del metodo scientifico consiste nella possibilità di falsificar-la, non nella presunzione di “verificar-la”. la scienza è sempre congetturale e si può avere certezza solo del falso. gli esperimenti empirici non possono mai “verificare” una teoria, possono al massimo smentirla.

21Strumenticres n.60 – febbraio 2013

Frontespizio de Il Saggiatore di galileo galilei, realizzato per l’edizione pubblicata nel 1623 dall’accademia dei lincei a roma.

Due culture, molte geografie di giorgio botta, ordinario di geografia, università degli studi di milano

geografia e storiaa chi si accosta alla geografia, è

riecheggiato talvolta, come una sorta di richiamo, Geographia ancilla historiae. sulle prime, il significato di questa frase può ragionevolmente apparire ne-gativo, e qualcuno ha voluto accogliere questa interpretazione, rimarcando la sudditanza della geografia, confinata unicamente a funzione passiva di supporto degli eventi storici, altrimenti non ubicabili, privi del loro spazio e luoghi, perciò indefiniti e irriconoscibili. altri, forse più ragionevolmente, hanno invece individuato il primato della geografia nel dare ai fatti della storia un dove, a individuare i luoghi dell’acca-duto, con tutto il loro portato di valore. Fatti che così caratterizzati dai luoghi, non verranno fagocitati dalla contem-poraneità, e inesorabilmente destinati all’oblio.a suffragio di questa tesi, da-niello Bartoli, padre gesuita, letterato e storiografo del 1600, in una sua opera, darà una sintetica ed efficace interpre-tazione:

“...quanto all’ Historia, ella, senza la Geografia è come orba: così tutta al buio non sa a qual parte della Terra si volgere per rinvenire il dove de’ fatti, che suo mestiero è far palesi al mondo...”.1

ma proprio di seguito a questa affermazione sul “primato” della geografia, ecco che il nostro autore completa e tempera le sue stesse con-siderazioni sulla storia, per certi versi comode perché “esatte”, concluse, con altre considerazioni che ci guidano al meno “esatto” e più scomodo processo cognitivo del sapere:

“Cieca dunque è l’Historia, se a veder la Terra, le manca il lume della Geografia. Altresì la Geografia, se l’historia non le dà che parlare, da sé

1. daniello Bartoli, La Geografia trasportata al Morale, introduzione, Venezia 1666.

sola è mutola; e come tale, null’altro fa, che accennare col dito il seco nome dè luoghi, ch’è il quanto, e il tutto del saper suo. Hor facciasi che con il cambievol servigio, si prestino, l’una gli occhi l’altra”.2

risulta qui evidente la funzione di una materia in relazione a un’al-tra –ognuna con le sue peculiarità, per comprenderne reciprocamente ruoli e significati. È quasi impensabile, per comprendere a fondo le cognizioni e le relazioni reciproche tra entità culturali, che non si debba ricorrere al sostegno e ai lumi di altri, di numerosi altri saperi.

si può ben comprendere quale attenzione abbia richiamato un breve trattato, poco più di una cinquantina di pagine, che charles P. snow pubblica alla fine degli anni cinquanta in gran Bretagna, intitolato Le due culture. il tono del saggio è discorsivo, ma snow verrà criticato da taluni suoi contempo-ranei inglesi per essere scaduto in una prosa giornalistica. il grande successo riscosso da snow è invece da ricercare nell’aver portato alla luce questa frat-tura che fin dall’ottocento in occidente ha visto lo scienziato e l’umanista assumere ruoli specifici, diremmo oggi

“professionali”. certamente a snow va riconosciuta la grande finalità della sua “pubblica-zione”, nel significato pregnante del termine: l’avere cioè reso pubblico, palese lo iato che si protrae da tempi remoti e caratterizza fortemente, come una sorta di peccato originale, anche la nostra contemporaneità, tra cultura tecnico-scientifica e cultura umanistico-letteraria. una criticità svelata, dunque, e tuttavia attuale, tanto che ancora oggi

“l’abisso di reciproca incomprensione”, come dice snow, persiste.

2. daniello Bartoli, op, cit., introduzione, Venezia 1666

Proseguiamo con le parole, dotte e chiarissime, con le quali il filosofo lu-dovico geymonat, inizia la prefazione dell’opera di snow, nell’edizione italia-na del 1964, portando il suo fondamen-tale contributo all’acceso dibattito:

“Nessuno può essere, oggi, così cieco da non rendersi conto che l’esi-stenza di due culture, tanto diverse e lontane l’una dall’altra quanto la cultura letterario-umanistica e quella scientifico-tecnica, costituisce un grave motivo di crisi della nostra civiltà; essa vi segna una frattura che si inasprisce di giorno in giorno, e minaccia di trasformarsi in un vero muro di incomprensione, più profondo e nefasto di ogni altra suddivisione”.3

critico nei confronti di snow, e non solo per questioni formali, sarà pure l’autorevole filosofo giulio Preti (1911-1972), che tuttavia difende ener-gicamente l’impresa di snow, indicando come pregio indiscutibile della sua opera l’indurci a considerare e com-

3. charles P. snow, Le due culture, prefazione di ludovico geymonat, Feltrinelli, milano 1964, prefazione, p. Vii.

22 Cultura scientifica e cultura umanistica – dossier

SPECCHIO RIFLESSOEmilia Crespi, Gilda Marcato

liceo socio Psico Pedagogico “marie curie”, tradate (Va)

tenza per presentare la figura di snow e il rovello delle “due culture”. noi che partecipiamo al discorso propo-nendo di seguito alcune considerazioni più specifiche e dedicate alla geografia, vogliamo tuttavia concludere queste note riferite allo scrittore britannico e al suo saggio, con una citazione tratta dall’opera più importante dell’illustre matematico inglese godfrey harrold hardy (1877-1947), grande amico di snow, personaggio che caratterizza l’universo culturale britannico nei primi cinquant’anni del novecento, proprio quell’universo che indurrà snow a produrre il suo saggio:

“Una sedia, una stella non asso-migliano minimamente a quello che poi vengono a rappresentare: quanto più noi ci pensiamo,tanto più soffusi diventano i loro contorni nell’alone di sensazioni che li ravvolge. Invece “2” o “317” non hanno nulla a che vedere con le sensazioni...317 è un numero primo, non perché noi pensiamo così, o perché la nostra mente è conformata in un certo modo...ma perché la realtà matematica è così costruita”.6

hardy, che qui scrive nel 1940, po-ne fermamente in evidenza i due fronti: quello matematico e il mondo degli og-getti che producono sensazioni. ma vo-lendo dare seguito all’esemplificazione di hardy, proprio nel solco delle “due culture”, ci piace ricordare che la sedia esiste grazie a calcoli matematici per costruirla e renderla salda per reggere un corpo, e la matematica, come è noto, ci permette di conoscere gran parte della volta celeste e delle sue leggi. le culture sono due, ma quante e quali relazioni producono per la comprensio-ne dell’universo!

6. godfrey h. hardy, L’apologie d’un mathématicien, postface de c. P. snow, Bellin, Paris, 1985, p. 48. la traduzione è di chi scrive.

geo-grafia da sempregeo-grafia significa “scrittura della

terra”, cioè “ segni della terra”. questo brevissimo chiarimento tributa già una maggiore dignità che la corren-te intitolazione scolastica della mate-ria, “geografia”, fin troppo mal trattata nell’ambito dei programmi scolastici e dell’insegnamento, ha raramente conosciuto. geo-grafia, geo-grafie più esattamen-te, perché numerosi sono gli indirizzi geografici da indagare per compren-dere i problemi dei territori e delle popolazioni.

ogni termine proprio della geo-grafia è, pur nella sua generalità, noto e usato correntemente per comunicare uno stato, una condizione, una pre-carietà, ecc. spazio, suolo, territorio, luogo, paesaggio, ambiente, natura, viaggio, popolazione, città, campagna ecc. sono forme concettuali, fisiche e linguistiche che appartengono alla nostra vita corrente, ma che stanno a rappresentare nel contempo, categorie oggetto di studio della geografia. siamo geografi da sempre, perché da sempre siamo naturali fruitori di queste entità.

ulisse racconta la sua odissea con la descrizione delle terre e dei mari che visita, e a noi piace quel ‘racconto’ proprio perché proiettiamo in quelle avventure le nostre attese. mutano i paesaggi, mutano le modalità di ap-prendere gli insegnamenti e di redigere i resoconti di viaggio, ma la spinta della curiosità, l’elemento forse più significa-tivo del viaggio, si va perpetuando nei secoli. dai tempi di ulisse, appunto. ci limiteremo qui a qualche riferimen-to specifico. il Paesaggio è uno dei capitoli più importanti della materia, proprio perché rappresenta, come pochi altri, il settore più ampio, dove si possono osservare varietà di oggetti e di problemi, individuando la correla-

prendere le lettere e le scienze, nella profondità e vastità del loro valore, ma soprattutto nella loro reciprocità, per la comprensione della nostra storia culturale. un’operazione, questa, che ci vede invece ancora troppo indifferenti e insicuri. scrive al proposito Preti:

”l’opposizione è tra due “forme”. Forme mentali [...] due diverse scale di valori, due diverse nozioni di “verità”, due diverse strutture del discorso”.4

il curatore dell’edizione del 2005, alessandro lanni, proprio sulla questione delle lettere e delle scienze, conclude con il pensiero di Preti:”Prima che i letterati e gli scienziati [...] esisto-no le lettere e le scienze ed è a queste che dovremmo rivolgere l’interesse per capire fino in fondo il problema posto da snow”.5

altri colleghi, curatori del presente dossier, hanno il compito e la compe-

4. si veda al proposito: charles P. snow, Le due culture, interventi di giulio giorello, giuseppe o. longo, Piergiorgio odifreddi, a cura di alessandro lanni, marsilio, Venezia 2005, p. 10.

5. charles P. snow, op.cit., p.11.

23Strumenticres n.60 – febbraio 2013

zione di ciascuno di essi. È un campo che modernamente studiato, esige interdisciplinarità, multidisciplinarietà. È importante da parte degli studiosi sa-persi muovere con la propria competen-za, valutando contestualmente l’utilità di altre competenze per completare il quadro della ricerca.

i primi documenti pienamente attendibili del Paesaggio sono prodotti nell’arco di tutta la sua vita, da un personaggio illustre, alexander von humboldt (1769-1859), padre fonda-tore, unitamente a carl ritter, della geografia accademica presso l’univer-sità di Berlino. i suoi resoconti sono rigorose comparazioni di paesaggi osservati in diverse parte del mondo. di quei paesaggi, humboldt ha proceduto a una catalogazione dei dettagli di ordine fisico. come si può comprendere, si trattava di una concezione di “pae-saggio” assai diversa da quella attuale, ma che già dagli inizi del novecento andava mutando, come ogni elemento culturale, influenzato dalle correnti filosofiche della sua epoca.

oggi, il Paesaggio continua a rappresentare un particolare e fonda-mentale oggetto di studio del geografo, ancorché non si possa dire che l’inter-pretazione di questa entità sia univoca-mente intesa dai geografi contempora-nei, italiani e stranieri. il concetto di paesaggio per noi di riferimento è quello che discende dagli studi di lucio gambi (1920-2006), au-torevole figura della geografia italiana.7

ai nostri tempi, nella mentalità comune, il Paesaggio è ‘istintivamen-te’ rappresentato dai luoghi della natura: monti, fiumi, mari, campagna, deserto, ecc. il cinema, la televisione e perfino la musica hanno contribuito a costruire un’idea di paesaggio nella fantasia delle persone. il geografo continua a pensare che l’osservazione del Paesaggio sia un’ot-tima occasione per leggere la realtà e comprenderla. così, una parte di spazio –il Paesaggio appunto– scelto intenzionalmente per essere indagato, diviene “laboratorio del geografo”, per ricostruire le sue origini, conoscere

7. lucio gambi, Critica ai concetti geografici di paesaggio umano, in, Una Geografia per la Storia, einaudi, torino 1973, pp. 148-174.

la sua storia e gli elementi naturali e antropici che lo caratterizzano. questa è l’importanza del Paesaggio in geografia, che si raggiunge grazie alla sinergia di molte discipline che parlano e che si parlano.

la geografia e il rapporto con le al-tre scienze è fondamentale nello studio degli eventi naturali estremi: alluvioni, frane, terremoti, ecc. Per affrontare questi problemi, si terrà conto che è funzione specifica della geografia anche quella di creare colle-gamento tra scienze naturali e scienze sociali. invece proprio all’interno della ricerca geografica che concerne lo studio degli eventi naturali estremi, determinati da dinamiche naturali o indotti da errori umani, “due culture”, la geografia fisica e la geografia umana, tendono a rima-nere divise, mute l’un l’altra, riottose a comprendersi. Fin dall’inizio della nostra attività di ricerca, segnatamente sugli eventi natu-rali estremi, questa separazione ostina-ta ha segnato la nostra esperienza:

“Bisogna rilevare che [gli studi di Geografia fisica] troppe volte si mostrano esclusivamente protesi ad individuare il rapporto causa-effetto, le dinamiche che hanno determinato il fenomeno, tralasciando di conside-rare in misura sufficiente le numerose concause di origine storica e di poli-tica del territorio, senza comprendere dunque l’evento naturale nella sua complessità. Si studia, si scruta, si scandaglia, si descrive un ‘territorio senza uomini”.8

la storia delle catastrofi è in larga misura anche storia d’italia. non è qui il luogo per ricordare il lungo elenco di eventi che hanno distrutto territori e colpito popolazioni, dal dopoguerra ad oggi. ci sembra opportuno tuttavia ricordare il più grave di questi eventi, la catastro-fe del Vajont nel 1963, di cui quest’an-no cade il cinquantenario. Per la realizzazione di un lago artificia-le per la produzione di energia elettrica, nella Valle del torrente Vajont, tra udi-ne e Belluno, è progettata la costru-

8. giorgio Botta, in Atti del Convegno dell’Associazione dei Geografi Italiani “La ricerca geografica in Italia: 1960-1980”, ask edizioni, Varese 1980, p. 1019.

zione di una diga. i lavori hanno inizio nel 1957 e determinano l’esproprio dei pascoli comunali per creare l’area che verrà inondata dal lago artificiale. la popolazione è così privata della propria vocazione agricola che rappresenta lavoro vita e sapere da generazioni. nel corso dei lavori di costruzione della diga che deve essere ancorata ai due versanti della Valle, si verificano crolli di materiali che evidenziano l’instabi-lità di quei suoli. i crolli si ripetono per anni, segnatamente dal 1960 alla ca-tastrofe, periodo di collaudo dell’invaso. Fermare i lavori significa causare una grave perdita economica e di immagine. infatti, gli esperti che sovrintendono i lavori sono autorevoli figure delle università e, a roma, nei ministeri. il tempo che passa rende sempre più evidente il divenire della catastrofe. il 9 ottobre 1963 una frana con un’e-stensione di 700 metri di altezza e una base 2 chilometri circa, gran parte del versante del monte toc, scivola nelle acque del lago artificiale e solleva un’ondata di 60 milioni di metri cubi di acqua e detriti, alta 250 metri, che, superato il coronamento della diga, si riversa nella sottostante valle del Piave, dopo un salto di 200 metri, distrug-gendo longarone e i centri limitrofi. duemila le vittime.

charles Percy snow è tornato qui a parlarci delle “due culture” e noi com-prendiamo che il mancato dialogo tra studiosi non può essere considerato un semplice contrasto teorico, oggetto di pur accese dispute universitarie. si trat-ta, in verità, anche di una richiesta di assunzione di responsabilità culturale e politica. infatti può addirittura rappre-sentare, per un mondo, la sua fine.

24 Cultura scientifica e cultura umanistica – dossier

La letteratura e la scienza

di giovanna cipollari

al centro del connubio tra lettera-tura e scienza è la questione sull’irridu-cibile unità del pensiero umano e sulle responsabilità, equamente divise tra scienziati e umanisti contemporanei, nel non vedere la fecondità delle interazioni tra i loro rispettivi campi di ricerca; i primi spesso limitati da ottiche prag-matiche e fortemente specialistiche; i secondi da una creatività fondata su una ristretta visione del mondo.

l’immagine del lancio di una bomba atomica nel deserto del nevada o su hiroshima e nagasaki mostra l’irragio-nevolezza di un progresso tecnologico cieco, metafora assurda e tragica della modernità. la macchina, costru-ita dall’uomo come bene strumentale diventa una macchina fine a se stessa, crudele simbolo di un agire irrazionale e disumano, la cui unica funzione è quella di sterminio e morte.

dall’altra parte una letteratura che non si apre al mondo e che non ab-braccia al suo interno le questioni che hanno a che fare con l’astronomia, la biologia, la fisica, l’informatica ecc., si mostra anch’essa come una forma vitale incompleta nel tradurre letterariamente il cosmo e il senso del mondo.

del resto, a partire dalla fine degli anni cinquanta il mondo non è quello di prima: la scienza e la tecnica lo stanno cambiando vorticosamente e per cercare di comprenderlo e narrarlo non basta più la percezione sensibile di ciò che si vede, ma dobbiamo imparare a educare pensando all’universo fin dall’inizio del-la conoscenza, come una vera e propria traduzione giusta per favorire una narra-zione e una lettura del mondo che possa

aiutare l’uomo a vivere degnamente il proprio tempo.

se il mondo, come sempre, non è più quello di prima, se l’esterno è mutato e muta continuamente, se il fuori non è più quello di qualche decennio fa e se, al tempo stesso, si vuole stabilire e diffondere una forma conoscitiva da condividere, occorre mutare prospetti-va e urge trovare e proporre un nuovo immaginario pedagogico partendo da un diverso rapporto tra scienza e lettera-tura.

l’ecumene di riferimento per l’uomo d’oggi si è, infatti, allargato a dismisura passando, in pochi decenni, da uno spazio loco-nazionale a uno molto più ampio che comprende non solo il continente d’origine, ma tutto il mondo per la possibilità reale di muo-versi in aereo da un punto all’altro del globo e per quella virtuale di navigare in internet e comunicare, nel tempo di un istante, con persone di altri popoli e culture. a ciò si aggiunge l’ingresso, or-mai da diversi decenni, in una nuova era spaziale e cosmica, caratterizzata dai lanci dei primi satelliti artificiali e dalle prime stazioni interplanetarie, da novità celesti straordinarie come le fotografie della faccia nascosta della luna inviate da lunik nell’ottobre del 1959, dalle imprese spaziali compiute a bordo degli sputnik, explorer, Vanguard, Pioneer, ma soprattutto del Voyager che porta con sé la storia, le immagini, le musiche della terra e della specie umana, fino ai più recenti veicoli spaziali mandati su marte e oltre il sistema solare.

le nuove dimensioni della real-tà, così come anche della storia della

seconda parte del novecento e dell’ini-zio del nuovo secolo-millennio, hanno bisogno di nuove mappe per orientare la mente e il cuore dell’uomo, data l’ine-sauribile complessità e molteplicità di orizzonti di cui ormai è composto il suo spazio e sulle cui caratteristiche e di-mensioni va ripensata la morale pratica ovvero ciò che serve all’uomo moderno per organizzare la sua azione in maniera

“virtuosa”, come si diceva una volta, ma mondialista, come si pronuncia oggi.

il nuovo concetto di spazio cosmico e la sua tangibile estensione, impli-cano un ampliamento della coscienza, promossa da una letteratura chiamata a trasformarsi e a spazzare via in primo luogo ogni forma, più o meno camuffata, di antropocentrismo di fronte all’ac-quisita invenzione di un immaginario cosmico che contiene, fin dalla sua nascita nel novecento della Science Fiction nordamericana sia letteraria sia cinematografica, il tema cruciale dell’incontro tra noi e gli “alieni”, da et ai gamberoni di District 9.

non letteratura di evasione o di fantascienza, ma una narrazione del cosmo qual è suggerita dalla scienza per meglio comprendere la condizione uma-na segnata oggi dall’attività tecnica e scientifica. il letterato, che interpreta le pagine delle nuove situazioni esistenzia-li, non può non permettere all’uomo co-mune, tramite la “traduzione” letteraria, di vivere nel quotidiano il dato scienti-fico che, apparentemente lontano dalla sua conoscenza, incide sostanzialmente sulle sue azioni e sul suo pensiero.

Funzione della letteratura è quella di avvicinare l’uomo comune alle

“I miei erano botanici… Forse sono diventatoscrittore per fuggire dalla scienza

… Poi ci sono tornato naturalmente come in un percorso circolare.

Mi sono avvicinato alla scienzaattraverso l’astronomia”

i. calvino

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innovazioni tecnologiche e scientifiche che ne influenzano le scelte quotidiane per stabilire canali di comunicazione proficui e non subalterni tra immagina-zione letteraria e mondo tecnologico. il letterato si occupa della scienza per esprimere le nuove situazioni esisten-ziali, per comprendere il nostro inseri-mento nel mondo, per occuparsi delle immagini del mondo che la scienza produce e dei linguaggi che impiega per produrle. e infine, per salvaguardare il nostro destino insieme con quello del pianeta che ci dà la vita. la scienza non è un semplice pretesto per trovare nuovi generi o sottogeneri letterari o cinema-tografici, ma il mezzo indispensabile per acquisire una migliore conoscenza del mondo.

Per comprendere il mondo e per tradurre il suo immaginario occorre ritrovare l’antica saggezza dei popo-li primitivi che guardavano in alto verso il cielo sapendo che la loro vita era strettamente legata ai fenomeni astronomici, e verso la terra per sentirsi parte di un’armonia, come dice ungaret-ti, propriamente “cosmica”. tali principi sono i nostri inizi umani, e l’uomo sa di avere una caratteristica tutta particolare rispetto agli altri animali: la posizione eretta, per cui il cielo stellato è la prima e fondamentale esposizione alla quale l’uomo, che alza la fronte verso l’oriz-zonte, rivolge la vista.

“Il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me” afferma i. Kant che mirabilmente congiunge cielo e terra, conoscenza e “ragion pratica”. Bisogna alzare la testa per guardare il cielo stel-lato, bisogna guardare dentro se stessi per ritrovare la legge morale che è in noi. occorre entrare nel buco illuminato della scienza per connettere insieme il cielo stellato, la legge morale e la co-scienza della propria e altrui esistenza. il “tutt-uno” che è l’inizio e che permette di scegliere, con attenzione e con occhio sapiente, i valori della convivenza tra umani e tra umani e natura.

leopardi nella Ginestra ci fa vedere con lui “il purissimo azzurro [che] veggo dall’alto fiammeggiar le stelle” e giusep-pe ungaretti nella poesia I fiumi sente di essere “una docile fibra dell’Universo”. Poesia e letteratura cosmica traducono e narrano il cosmo e il mondo in conti-nuo mutamento.

in un “Cosmo sempre incipiente”

come dice il poeta usa Wallace stevens, i letterati non possono non tener conto delle infinite domande che la nuova dimensione cosmica, sia scientifica sia immaginaria, va ponendo dagli inizi del novecento. da qui è nata l’urgenza di una letteratura scientifica come forma di crescita e ampliamento della coscienza che sia in grado di dare risposte alle domande antropologiche cosmologiche antiche e costanti, e da cui la filosofia per prima si è estraniata: Da dove venia-mo? Chi siamo? Dove stiamo andando? Questo mondo è reale o è un’illusione? Siamo noi a sognarlo o è esso che ci so-gna? Siamo soli in questo cosmo, che più si conosce e più si allontana, ma insieme con noi? Ecc.?

questi interrogativi caratterizzano la curiosità dell’essere umano fin dal suo crescere da bambino che nel crescere è attratto dalla curiosità conoscitiva del mondo circostante, dalla luna e dal sole e dalle altre stelle. il bambino, allo stesso tempo, pone ed esprime –spin-gendola fuori di sé come una specie d’irruente emanazione, una specie di tempesta solare– l’apertura verso il co-smo e verso il mondo: il buio della notte e l’esistenza di una natura che sempre più lo riguarda, in una relazione e in una vicenda complessa e che è anche la sua: pensiamo al bambino che, all’incirca

fino al 18° mese di vita non vede gli ani-mali, i cani per strada ad esempio, e poi li vede e gli sembrano esseri straordina-ri da conoscere con forte paura e grande attrazione al tempo stesso.

l’educazione primaria attraverso la scuola è, o dovrebbe essere, la risposta a un costante principio a “educarsi” proprio del bambino che consiste nel portare fuori, nell’e-ducere ciò che è già in nuce in ogni essere umano che, nell’istintivo moto di alzare il capo e di guardare il cielo, pensa con il cosmo e questo pensiero –se ben coltivato– si trasforma in una vera e propria attitudi-ne immaginaria e morale.

nella nuova era scientifica e transculturale, le enormi disparità e ingiustizie presenti nelle diverse aree del mondo, richiedono la costruzione di un Mundus Novus: il senso del legame unificante con il cosmo e con il pianeta terra, e il senso di appartenenza a un’u-nica umanità come specie tra le specie, e forse come vita e altre vite nel cosmo. questo nuovo pensare con il mondo invita, attraverso una diversa paideia, le antenate generazioni –che siamo noi– e le nuove generazioni del secolo XXi ad accedere a un comune senso di apparte-nenza a una rete di relazioni cosmiche e di solidarietà tra le specie della natura del pianeta terra.

Da tanti anni ormai andiamo ripetendo che la scuola attuale non è assolutamente al passo col mondo in cui viviamo perché il curricolo che in essa viene, più o meno con-sapevolmente, trasmesso è rimasto etnocentrico e fondato su una didattica rigidamente disciplinare che valorizza solo comprensione, memorizzazione ed esposizione, oltre a favorire sterile competizio-ne, e ignorando invece, per lo più completamente, ricerca, creatività, complessità. E’ evidente dunque che ci fa molto piacere segnalare ai lettori il libro

“Una ricerca a prova d’aula. Per una revisione transculturale del curricolo di italiano e di letteratura” a cura di Armando Gnisci e Giovanna Cipollari.Non si tratta di un insieme di propo-ste di lavoro più o meno mirate ad

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dobbiamo, quindi, passare a una paideia di un insegnamento non più ristretto nella separazione tra linguisti-co e scientifico e letterario, e passare da un’impostazione strutturalista-semiotica a una immaginativa-ermeneutica che comprende ragione e sensibilità, come diceva Jane austen.

la poetica della relazione è una poetica latente, aperta, a vocazione mul-tilingue, connessa con tutto il possibile, che permette a “ognuno di essere qui e altrove” e che cerca incessantemente “di perfezionarsi, di dirsi, di completarsi”: essa va appresa a scuola anche con per-corsi didattici non lineari, ma ramificati e pluridirezionali.

oltrepassato il guado del paradig-ma riduzionista di una cultura di stampo meccanicistico, si profila una conoscen-za della complessità che si sbarazza di ogni forma frammentaria del pensiero per riannodare i fili con l’antica matrice ordinatrice mitico-cosmologica in cui mito e scienza, lessico mitopoietico e linguaggio scientifico non sono mondi separati, in quanto entrambi concorro-no a liberare quell’immaginazione che consente di rimodellare di volta in volta il rapporto tra gli uomini e le cose. così come nel mondo globalizzato è sempre più difficile distinguere tra centro e pe-riferia, particolare e universale, interno

ed esterno, allo stesso modo nell’ordine della conoscenza è definitivamente sal-tata la bipartizione tra scienze naturali e scienze umane.

sulla base di una riconquistata in-terconnessione “orizzontale” tra saperi, si muove anche una dimensione “verti-cale” che non riconosce la separazione né tra letteratura e grammatica, né tra generi linguistico-letterari. l’insegna-mento dell’italiano, individuato l’obietti-vo formativo di educare alla cittadinan-za culturale del mondo attraverso una lingua potente e aperta, il sentimento cosmico e a un tempo critico, si avvale della pluralità delle lingue e dei dialetti e oscilla tra il gioco delle scritture e le altre forme di comunicazione, che dalla prosa e dalla poesia incontrano il teatro, la musica e il cinema, ricomprenden-do e valorizzando una molteplicità di linguaggi e di significati per sollecitare la “tenerezza dell’umano”, quale filo conduttore e incuriosito della coscienza cosmica.

l’etica della relazione congiunge cosmo-mondo-umano. la cura del-la coscienza cosmica ci riporta alla primordiale e fondamentale esigenza di interrogarci sulle nostre origini per capi-re chi siamo e dove stiamo andando così da ritrovare il senso dell’esistere oggi, in questa svolta epocale, meravigliosa ma

ingiusta. la riflessione sulle domande esistenziali si inserisce nell’orizzonte conoscitivo della nuova concezione del Principio antropologico cosmologico per cui l’universo è un organismo com-plesso, di cui l’uomo è parte, la parte capace di pensarlo. in questa coscienza e conoscenza dell’universo l’uomo è l’osservatore della conoscenza cosmica.

la prospettiva mondialista, dopo quella cosmica, si nutre, a sua volta, di una nuova traduzione mitica della terra che torna a essere sacra e madre di tutti, per stabilire una nuova giusta e compas-sionevole relazione tra le civiltà umane. le scienze della Vita e della terra, sotto la pressione della catastrofe ambientale, superano il dominio della pratica liberi-sta di avvilire la terra e distruggere ogni forma di solidarietà tra gli umani.

in questo punto cruciale ci aiuta a formare il nostro giudizio ciò che possiamo con sartre chiamare “coscien-za di specie”, che può trovare la sua dimensione nella rivoluzione tecnologi-ca della comunicazione, che ha messo in contatto planetario persone diverse in reti sociali sempre più fitte e ampie, sti-molando il neurone dell’empatia in grado di tessere le diversità in un arazzo socia-le integrato, ma nella conoscenza e nella simpatia piuttosto che nella volgarità generalizzata. ogni differenza propone

un obiettivo formativo e più o meno trasferibili in altri contesti. E’ invece un bilanciato insieme di riflessione teorica e percorsi didattici che si propone, con coscienza di causa, di

“spostare l’attenzione dai contenuti dei saperi all’interconnessione tra i concetti che costituiscono la struttura dei saperi” con l’intento di mirare alla formazione di identità dove l’educazione al sé non sia più “distinta dalle relazioni con il mondo”. Possiamo dire, penso, una nuova formazione per una nuova Cittadinanza.Nel libro, a nostro avviso, c’è molta lodevole chiarezza sul compito e certo una feconda competen-za e abilità didattica. Inoltre si tratta di uno stimolo importante per una discussione che prenda in considerazione anche tutte le implicazioni relative all’organizza-

zione dei diversi percorsi scolastici e alle competenze attese al termine degli stessi. E anche (cosa di non minore rilievo) in merito ai soggetti dai quali sembra credibile aspettarsi adeguati contributi di elaborazione (università ? docenti in servizio? studiosi disciplinaristi? altro?) per questo compito epocale.Sarebbe molto interessante se alla lettura che qui consigliamo seguisse l’apertura, su queste pagine, di un confronto con i nostri lettori, molti dei quali, è evidente, non hanno nessuna intenzione di ridurre la propria professione alla mera sopravvivenza cui li si vorrebbe spingere.

BIBLIOGRAFIA Barrow J.D., Tipler F.J., Il principio antropico, Adelphi, Milano 2002Brunelli C., Cipollari G., Oltre l’etnocentrismo. I saperi della scuola al

di là dell’Occidente, EMI, Bologna 2007Calvino I., Palomar, Mondadori, Milano 1994Calvino I., Le cosmicomiche, Mondadori, Milano 2000Damiano E., L’insegnante etico, Cittadella Editrice, Assisi (PG) 2007Glissant É., Poetica del diverso, Meltemi, Roma 2004Glissant É., Poetica della relazione, Quodlibet, Macerata 2007Gnisci A., Creolizzare l’Europa, Meltemi, Roma 2003Gnisci A., Mondializzare la mente, Cosmo Iannone, Isernia 2006Gnisci A., Decolonizzare l’Italia, Bulzoni, Roma 2007Gnisci A., Letteratura mondiale, letteratura europea, letteratura

nazionale, Porto San Giorgio (FM), Direzione Didattica Porto San Giorgio, 21 novembre 2008: www.speranzacvm.eu/didattica/sperimentazione/

Gnisci A., L’educazione del te, Sinnos, Roma 2009Gnisci A., Sinopoli Franca, Moll Nora, La letteratura del mondo nel

XXI secolo, Bruno Mondadori, Milano 2010aGnisci A., La coscienza cosmica in Kant e Leopardi, Ancona,

ITIS “Volterra” di Ancona, 19 febbraio 2010 b: www.speranzacvm.eu/didattica/sperimentazione

Serres M., Tempo di crisi, Bollati Boringhieri, Torino 2010

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Dalle culture agli immaginari.Spunti per un’educazione alla sostenibilità di elena camino, istituto di ricerche interdisciplinari sulla sostenibilità

schemi concettuali dicotomicisembra passato un secolo da quando

–nel 1964– fu pubblicato il saggio di charles Percy snow su ‘le due culture’. l’autore denunciava una preoccupante inconciliabilità tra la cultura umanisti-co / letteraria e quella scientifica nel mondo occidentale, e indicava “una sola via per uscire da questa situazione: e naturalmente passa attraverso un ripen-samento del nostro sistema educativo”.

l’approccio di snow nell’individua-re e sottolineare la dicotomia tra le due forme di cultura evidenzia uno schema concettuale tipico del pensiero occiden-tale, che tende a distinguere, etichettare, catalogare, sottolineando le differenze a scapito delle somiglianze, evidenziando opposti schieramenti invece di mettere in luce i nessi e le interconnessioni. in questo senso il suo libro ricevette qualche critica.

quante dicotomie hanno segnato e condizionato il nostro tempo! tra Paesi sviluppati e sottosviluppati (sachs, 1992), tra occidente e oriente (huntington, 1996), tra natura e cultura (latour, 2010), tra approcci scientifici e tradizionali di conoscere (aikenhead & michell, 2011). queste dicotomie vengono spesso riprese e accentuate nei processi formativi, dove gli spazi per la riflessione –che richiedono tempo e dialogo– vengono sempre più sostituiti dalle proposte di schematizzazione, che consentono di affrontare i problemi in modo semplificato, rapido, spesso acritico.

difficile gestire l’eccesso di conoscenzesotto certi aspetti la separazione tra le culture nella formazione si è appro-fondita ulteriormente. la quantità di conoscenze accumulate dalla scienza

rende sempre più problematico per gli insegnanti trovare il tempo per appro-fondire adeguatamente un qualunque argomento. inoltre la forte propensione all’approccio quantitativo e la crescente distanza dagli “oggetti” osservati (che siano galassie o molecole) rendono diffi-cile la piena comprensione di molti con-cetti importanti: concetti che sarebbero utili per capire le implicazioni dell’uso di prodotti e servizi che ormai fanno parte del vivere quotidiano (dalle nozio-ni di elettromagnetismo che riguardano i telefoni cellulari alle conoscenze di genetica che potrebbero orientare certe scelte dei consumatori). il carico concet-tuale associato all’enorme sviluppo della conoscenza tecno-scientifica ha finito per approfondire il divario tra umanisti e scienziati, nonostante la generale convinzione dell’importanza di una formazione più equilibrata, attenta ai processi storico-letterari come a quelli scientifico-tecnici.

due culture nel mondo scientifico?la crescente suddivisione delle cono-scenze scientifiche in aree sempre più specialistiche ha creato nuovi problemi, nuove inconciliabilità. si continua a parlare di “scienza” come di un corpo di conoscenze tra loro coerenti e integrate, mentre in realtà si sono sviluppati modi diversi di vedere, descrivere, interpre-tare il mondo naturale. l’idea di una co-noscenza scientifica oggettiva, neutrale, universale, orientata a offrire benefici all’umanità è stata progressivamente messa in discussione con il manifestarsi di problemi socio-ambientali di dimen-sioni globali.

dalla metà del ‘900 alcuni grup-pi di scienziati hanno iniziato a fare esperimenti non più in laboratorio, in

valori nuovi e mirati, concreti, diversi e complementari: la mutualità, la creati-vità, la fraternità, la decrescita, la con-vivialità, la coevoluzione delle diversità, la solidarietà, la corresponsabilità, la condivisione, la creolizzazione mondiale e la transculturazione tra le civiltà e tra le persone che imparano a incontrarsi e a convivere nella diversità creativa, come i migranti assieme agli indigeni, europei e nordamericani. sono queste le qualità richieste agli uomini del Mundus Novus che operano nella logica cosmica della nuova etica mondiale.

in questo quadro d’insieme si pone la proposta di un nuovo curricolo il cui valore abbia come orizzonte non più quello dell’Homo oeconomicus, ma quello dell’Homo sociologicus relaziona-le, non più il cittadino stanziale di uno stato nazionale, ma il soggetto migrante della società mondiale.

dall’impostazione etica discende la matrice curricolare e la possibilità di una revisione di percorsi didattici interdisciplinari per mappe concettuali che promuovono una visione multidi-mensionale e poliprospettica, in linea con la rieducazione non solo del sapere ma anche dell’etica, essendo questa l’anima più urgente dell’educazione. come affermava il filosofo Filodemo di gadara “dobbiamo salvarci l’un l’altro” o altrimenti nessuno si salva.

su queste linee di pensiero si è impostata una sperimentazione sco-lastica, documentata nel testo curato da a. gnisci - g. cipollari: Una ricerca a prova d’aula. Per una revisione tran-sculturale del curricolo di italiano e di letteratura, molfetta, ed. meridiana 2012, con l’apporto importante della prova d’aula impostata e curata dalle docenti alessandra Berardi (ic Pergola), isabella Bruni (ic mercantini senigallia - nord) e Paola gobbi (ic monte san Vito) negli anni 2010-11.

28 Cultura scientifica e cultura umanistica – dossier

condizioni controllate, ma direttamente nell’ambiente: i primi test nucleari ne sono l’esempio più clamoroso. le speri-mentazioni con organismi geneticamen-te modificati sono le più recenti.

questo radicale cambiamento di scenario è stato reso possibile soprat-tutto dallo sviluppo di una grandissima potenza (intesa come energia a dispo-sizione nell’unità di tempo) da parte di alcuni gruppi umani: potenza fornita dallo sviluppo tecnologico e industriale, che ha messo a disposizione macchinari, strumentazioni e apparecchiature tali da poter esplorare sempre più in dettaglio i processi naturali e agire sempre più rapidamente e a fondo per trasformarli.

il luogo principale di sperimenta-zione tecno-scientifica è ormai il pianeta terra, con due conseguenze significati-ve: (a) data la complessità del sistema coinvolto (l’intero pianeta) è impossibile individuare tutte le variabili signifi-cative e monitorarne i cambiamenti; (b) tutti gli abitanti del pianeta sono diventati “parte in causa”, in quanto le conseguenze, attese o inaspettate, degli esperimenti possono ricadere anche su di loro. il cambiamento climatico in atto ne è un esempio significativo (ma non l’unico).

non tutta la ricerca scientifica si è orientata in questa direzione. mentre i centri di ricerca più prestigiosi, soste-nuti dal potere economico e politico, procedevano a sviluppare quella che oggi viene chiamata “big science”, una vasta base di studiosi cominciava a mettere in discussione l’idea di scienza come di una impresa neutrale, oggetti-va, intrinsecamente positiva, in grado di “dire la verità al potere” (Wildavky, 1979). alcuni ricercatori (non solo scien-ziati, ma anche filosofi e sociologi della scienza, ed esperti di giurisprudenza) a partire dagli anni ’90 del secolo scorso proposero di introdurre delle norme di cautela rispetto alle decisioni che i po-litici –anche se “consigliati” dagli scien-ziati– intendevano prendere. il 1992 è l’anno dell’introduzione del “Principio precauzionale”1. negli anni successivi si svilupparono in parallelo l’intuizione

1. e’ il Principio n. 15 della dichiarazione di rio su ambiente e sviluppo, che suggerisce prudenza nell’agire, anche se l’eventualità di seri e irreversibili danni all’ambiente non è ancora scientificamente accertata.

della complessità dei sistemi naturali e la consapevolezza della molteplicità di circostanze in cui le decisioni umane sono prese in condizioni di incertezza, indeterminatezza, ignoranza (stirling, 2010).

nel 1993 due ricercatori, Funtowicz e ravetz, propongono un’idea nuova di scienza, la “scienza post-normale”, che a loro parere trova applicazione là dove i fatti siano incerti, i valori contrastan-ti, la posta in gioco alta e le decisioni urgenti

il modello post-normale offre una prospettiva nuova del processo di costruzione di conoscenza: l’idea della dimostrazione scientifica è sostituita dall’ideale di un dialogo pubblico aperto. nel processo di produzione di conoscen-za i cittadini diventano sia critici che creatori. il loro contributo non deve più essere definito come “locale”, “prati-co”, “etico”, “spirituale”, ma deve essere accettato come componente di una pluralità di sguardi e prospettive, tutte ugualmente legittime. (liberatore & Funtowicz, 2003). sulla scia del modello post-normale si è poi sviluppata quella che è stata definita la scienza della so-stenibilità (gallopin, 2004), caratteriz-zata da un duplice processo: da un lato la democratizzazione della scienza, che diventa il frutto di un sapere condiviso da una vasta base di cittadini, tutti legit-timati a esprimersi perché tutti coinvol-ti; dall’altro lo sviluppo di competenza, di perizia da parte della democrazia, non più vincolata a seguire passivamen-te le indicazioni degli esperti.  

immaginari e narrative inconciliabilida un lato si è sviluppato l’immaginario della tecno-scienza, con le sue promesse di dominare i sistemi naturali e assicu-rare il progresso umano grazie al per-seguimento del benessere economico per tutti. tra le narrative con le quali la tecno-scienza si rivolge al pubblico vi è quella del controllo dei sistemi biofisici: dal livello microscopico a quello plane-tario, come illustrano questi esempi.

↘ l’ingegno umano è in grado di fare meglio della natura. John ellis, biologo inglese, nel 2010 scriveva sulla rivista scientifica nature che

“l’enzima chiave della fotosintesi, il rubisco, è un relitto di un’era ormai passata”. e osservava che “l’abilità

di assemblare il rubisco in provetta offre la prospettiva di manipolare geneticamente l’enzima in modo da renderlo adatto al mondo moderno”.

↘ c’è sempre una soluzione tecnologi-ca ai problemi ambientali. secondo alcuni scienziati l’unica via per miti-gare l’inarrestabile aumento di co2 nell’atmosfera è quello di intervenire con gli strumenti della “geoinge-gneria”, cioè con la manipolazione intenzionale su larga scala dell’am-biente globale (the royal society, 2009). tra le azioni proposte vi è quella di interferire con la radiazione solare (per esempio con grandissimi specchi) rimandandone una parte nello spazio, oppure di seppellire la co2 in enormi depositi sotterranei o in fondo agli oceani.

questo approccio alla conoscenza ha trovato notevole consenso nel mondo dell’economia, pronto a investire in attività di ricerca che offrano possi-bili ricadute sul mercato. nel mondo della ricerca, anche in risposta ai forti ridimensionamenti dei finanziamenti pubblici, si stanno moltiplicando le

“joint ventures” tra scienziati e imprese multinazionali.

dall’altra –più in sordina– sta sviluppandosi la scienza della sostenibi-lità: sempre più numerosi sono articoli e libri scritti a più mani da studiosi che attraverso il confronto e il dialogo tra di loro e con membri di altre popolazioni e culture, cercano di individuare le strade che le comunità umane dovrebbero percorrere per diventare più “resilienti”. l’immaginario proposto dalla scienza della sostenibilità è molto preoccupante: è ben documentato che le attività uma-ne hanno provocato delle perturbazioni di tale rilevanza nei sistemi naturali, che è plausibile che il nostro pianeta si rias-sesti su equilibri nuovi, non necessaria-mente tali da consentire ancora la vita umana (Folke et al., 2011). le narrazioni che accompagnano questo scenario sono (fino a oggi) ottimistiche: è ancora possibile agire, se ci si contiene all’in-terno di due confini: il “tetto” biofisico imposto dalla natura (rockstrom et al., 2008) e il “pavimento” sociale imposto dall’etica (raworth, 2011). l’esplora-zione scientifica deve essere orientata a conservare e rispettare la diversità biologica e culturale, e ad assicurare il soddisfacimento dei bisogni di tutti.

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gli immaginari della tecno-scienza e della scienza post-normale si tradu-cono dunque in narrazioni divergenti, e condizionano con diversa intensità ed efficacia i membri della società civile: i cittadini, gli amministratori, i decisori pubblici, gli insegnanti, i giovani nei loro cammini di formazione, i ricercatori stessi. da un lato si dice che la crescita è necessaria, che l’innovazione tecno-logica ci salverà; il naturale può essere sostituito dall’artificiale; la scienza può misurare e controllare il mondo; il pro-gresso si valuta con il Prodotto interno lordo (Pil); la competizione è una virtù… dall’altra le narrazioni si soffermano sui limiti biofisici alla crescita, e sulla ne-cessità che l’etica orienti sia la politica, sia l’impresa scientifica. si sostiene che noi dipendiamo totalmente dai sistemi naturali, che il progresso si misura con il grado di “sarvodaya”2 (il ben-essere collettivo); che non si possono separare equità ed ecologia, che la cooperazione è indispensabile… la separazione tra cultura umanistica e cultura scientifica (che era, a suo tempo, frutto di una discussione tutta interna al mondo occidentale) è stata sostituita da una frattura ben più profonda, e di dimensio-ni globali: quella tra due modi di vedere il mondo, che si traducono anche in modi di agire nel mondo.

dalle controversie ai conflittiai tempi di snow le polemiche tra umanisti e scienziati si risolvevano per lo più in controversie accademiche. sul piano educativo i giovani, a seconda dell’indirizzo scelto, approfondivano di più le conoscenze artistico/letterarie oppure quelle matematico/scientifiche. adesso non è più così: la dicotomia tra modi di vedere il mondo si è trasferita alla dicotomia su come agire nel mondo. la “big science”, forte delle sue certezze e della sua potenza, manipola e trasfor-ma i sistemi naturali e, (riprendendo l’idea di scienza neutrale e orientata al benessere umano) sostiene che il domi-

2. sarvodaya, il benessere di tutti, è un termine introdotto da gandhi in riferimento a una società in cui tutti sono valorizzati e vedono soddisfatti i bisogni primari. il termine e stato ripreso di recente anche dagli economisti della “decrescita”, come serge latouche (2012).

nio e il controllo della natura porteranno crescita economica e benessere a tutta l’umanità.

ma sono sempre più numerosi gli esempi di conflitti alimentati proprio dalle applicazioni tecno-scientifiche moderne: la rivoluzione verde e quella blu, le coltivazioni destinate ai biocar-buranti, il moltiplicarsi di grandi dighe, enormi miniere, imponenti centrali per la produzione di energia. a confrontarsi

“sul campo” ci sono da un lato gli scien-ziati esperti, consulenti delle grandi imprese multinazionali, che esibiscono i risultati dei loro esperimenti, frutto di indagini super-specialistiche, con cui orientano le scelte dei politici e tranquillizzano i cittadini. dall’altra ci sono gruppi eterogenei: scienziati, ma anche filosofi, sociologi, testimoni di esperienze personali, voci di diverse culture o prospettive spirituali, che cercano di far sentire la loro voce e/o di opporsi praticamente alla realizzazione di attività il cui impatto ambientale può essere imprevedibile e il cui bilancio costi/benefici è molto asimmetrico.

uno sguardo sull’indiauna lunga esperienza di collaborazione con una ong indiana, l’asseFa (asso-ciation For sarva seva Farms)3 mi ha permesso di seguire gli eventi degli ultimi 40 anni di “sviluppo” dell’india da una prospettiva diversa da quella proposta dai mass media. l’asseFa in-dia si è sempre definita un “movimento”, e si è posta al fianco di piccole comunità rurali –le più povere ed emarginate dell’india– sostenendole nell’intrapren-dere iniziative volte a promuovere uno sviluppo caratterizzato dagli aspetti che gandhi considerava i più significativi per un reale ben-essere per tutti (sarvo-daya): le decisioni prese per consenso (gramsabha), l’autosufficienza (swaraj), la capacità di contare sulle proprie forze (swadeshi), l’attenzione verso gli ultimi (antyodaya), il dono del lavoro (shramdan), l’educazione alla nonviolen-za (ahimsha).

mentre l’india, a partire dagli anni ‘80, si orientava sempre più a seguire il modello occidentale dello “svilup-

3. nota ai lettori di cres perché anche mani tese ha collaborato con questa associazione gandhiana finanziandone numerosi e importanti progetti.

po”, l’approccio dell’asseFa risultava davvero “alternativo” e –a detta di molti– ormai superato. che senso aveva continuare a proporre il lavoro manua-le, incoraggiare i contadini a restare in campagna? a sviluppare –insieme alle competenze tecniche– anche le doti di compassione, di introspezione, di ascolto, e incoraggiare il coinvolgi-mento di tutti i membri delle comunità nei processi decisionali? lo “sviluppo” era ormai a portata di mano: sarebbe arrivata la ricchezza per tutti. eravamo in pochi a sostenere, con ammirazione e speranza, le attività dell’asseFa.

mentre il Pil della “shining india” continua a crescere, le piccole comunità contadine che l’asseFa affianca nel loro cammino di autosviluppo gandhiano incontrano sempre maggiori difficoltà: il costo dei generi di prima necessità aumenta; attività industriali e cantieri edili occupano e cementificano terreni agricoli; i monsoni arrivano con minore regolarità e intensità…

la situazione è drammatica in tutta l’india. in termini di indicatori sociali l’india è scesa molto in basso nella lista dei Paesi dell’asia del sud, nonostante le eccellenti prestazioni economiche. le disuguaglianze sociali si sono appro-fondite, tanto che addirittura l’india registra una percentuale di bambini sottopeso superiore a qualunque altro Paese al mondo (dreze & sen, 2011).

un recente studio di singh et al (2012) presenta le trasformazioni dell’india negli ultimi decenni non solo in termini di sviluppo economico, ma anche di condizioni biofisiche (dispo-nibilità delle risorse energetiche e materiali). abbracciando l’opzione della crescita economica, alimentata in tutti i campi dai progressi della tecnoscienza, l’india ha perso in 40 anni la sua auto-nomia energetica e alimentare.

la soluzione prospettata dall’im-maginario del dominio e del controllo è quella di sostenere la crescita indu-striale alimentandola con nuove fonti di energia. Più di 300 grandi dighe sono in fase di progettazione o di costruzio-ne nella sola regione himalayana (qiu, 2012), con la previsione di sommergere o danneggiare 1.700 km2 di foreste, portare all’estinzione varie specie di ve-getali e di pesci, costringere numerose comunità ad abbandonare i loro campi. in india sono in funzione 20 reattori

30 Cultura scientifica e cultura umanistica – dossier

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31Strumenticres n.60 – febbraio 2013

GEYSER - Francesco Paleariliceo scientifico ”Primo levi”, san donato milanese (mi)

nucleari, 7 sono in costruzione, e la lista delle centrali progettate o proposte è di una quarantina, nonostante il crescere delle proteste da parte delle popolazioni coinvolte.

singh et al. (2012) concludono il loro lavoro sulla situazione biofisica dell’india affermando che se i flussi di energia e materia che attraversano l’in-dia attualmente continuano con questo ritmo “le sfide che si pongono a livello regionale, nazionale e globale sono immense in termini di disponibilità di risorse, di conflitti sociali, per pressioni sugli ecosistemi e sull’uso delle terre, sulle emissioni atmosferiche”.

intanto la comunità scientifica dell’india è impegnata a scalare la clas-sifica della “lega delle principali super-potenze scientifiche del mondo” grazie a una ambiziosa politica di sostegno all’innovazione scientifica e tecnologica (subhra Priyadarshini, 2013).

l’immaginario della scienza post-normale si manifesta con le narrative di molti studiosi e di molte componenti della società civile. gli studiosi cercano di accrescere la consapevolezza dei rischi che l’umanità sta correndo trasfor-mando gli ecosistemi, riducendo la bio-diversità, costruendo in aree a rischio sismico (come è la regione sub-himalay-ana in cui dovrebbero sorgere le grandi dighe), aumentando le disparità sociali. le altre narrative presenti in india sono espresse attraverso le manifestazioni di protesta contro i saccheggi di natura compiuti nei confronti di popolazioni ru-rali e indigene. mentre fanno notizia le

poche rivolte armate (i naxaliti nascosti nelle foreste nord-orientali dell’india) i mass media tacciono delle migliaia di manifestazioni non violente di protesta di contadini, pastori, pescatori che da sempre vivono grazie alle risorse natu-rali del loro territorio e che si vedono espropriare in nome dello sviluppo. un report dell’uneP4 nel 2012 segnala che i servizi degli ecosistemi e altri beni esterni al mercato rappresentano tra il 47% e l’ 89% del “Pil” di questa compo-nente della popolazione indiana.

nel report asseFa del 2010/2011 si legge: “attualmente l’asseFa fornisce servizi alle organizzazioni di base (peo-ple based organizations) per realizzare la propria missione, che è quella di dare vita a comunità in grado di contare su se stesse (self-reliant) con programmi diversificati, volti ad conseguire ben-es-sere e sicurezza sociale ed economica”. le comunità rurali che, insieme all’as-seFa, stanno seguendo un percorso di sviluppo “sostenibile”, contano poco più di un milione di famiglie: una goccia nell’ oceano! ma anch’esse sono portatri-ci di una narrativa che, nello scenario della scienza post-normale, è legittimo e merita attenzione. in effetti la strada che gandhi indicò più di cento anni fa (1908) viene attualmente riscoperta, così come le sue idee –all’inizio rifiuta-te– sulla natura e sul ruolo della scienza (camino, 2011).

4. il Programma per l’ambiente delle nazioni unite

quali prospettive per una educazione alla sostenibilità?alla dicotomia –tutta occidentale– tra cultura umanistica e cultura scientifica è subentrata una dicotomia di dimen-sioni planetarie, tra la prospettiva di un mondo senza confini, dominato dalla tecnologia, e quella di un mondo con chiari limiti biofisici, in cui l’equità deve fare i conti con l’ecologia. la formazione scolastica e universitaria svolgono un ruolo cruciale nell’orientare i giovani verso l’uno o l’altro immaginario. sia nell’organizzare l’ambiente scolastico (offrendo più o meno tecnologie, più o meno dialogo e interazione sociale, più o meno percorsi interdisciplinari, più o meno uscite nella natura…), sia nell’in-coraggiare o trascurare i momenti di ri-flessione su se stessi, sugli orientamenti della società, sulle possibili alternative all’esistente. gli insegnanti influenzano i loro studenti anche nel modo con cui offrono le loro conoscenze, privilegian-do gli elementi di contenuto disciplinare da apprendere oppure richiamando l’attenzione dei ragazzi sugli strumenti concettuali e linguistici che ne stanno a fondamento; isolando le conoscenze dalle loro implicazioni pratiche o propo-nendole all’interno di contesti sociali.

gli insegnanti di area scientifica, in particolare, possono (anche implicita-mente) presentare la scienza nel modo più convenzionale-neutrale, oggettiva, a-valoriale, orientata al bene dell’umanità - oppure mettere in luce la dipendenza della conoscenza scientifica dal sistema di valori della cultura che la esprime

32 Cultura scientifica e cultura umanistica – dossier

Bioetica: dibattito aperto tra scienza e società

di anna marta rollier, docente università degli studi di milano

le origini e le peculiarità della bioeticala nascita della bioetica si può far risalire al 1970, dopo che nel preceden-te decennio alcune grandi innovazioni (dialisi, primo contraccettivo orale, trapianto di cuore, definizione di morte cerebrale) introdotte dalla biomedicina in prorompente sviluppo avevano dato luogo a significativi progressi in ambito sanitario e terapeutico e contempora-neamente messo in discussione limiti considerati naturali e immutabili fino a quel momento. nello stesso anno il biologo statunitense Van rensse-laer Potter utilizzava per la prima volta il termine bioetica nel titolo di un articolo “Bioethics, the science of survival”. con questo neologismo Potter battezzava una nuova disciplina che avrebbe dovuto fornire gli strumenti e le garanzie per la sopravvivenza e il benessere dell’uomo messi a rischio dallo sviluppo tecnologico e scientifico considerato un’autentica minaccia per gli equilibri naturali. Potter pensava dunque ad una nuova scienza di matri-ce biologica e di approccio globale al problema del rapporto uomo-ambiente e il suo messaggio, parzialmente mo-dificato e affidato a due testi successivi (Bioethics, bridge to the future e Global Bioethics), fu accolto dagli addetti ai lavori del settore dando luogo ad accesi dibattiti su una serie sempre più ampia e differenziata di questioni. a dimo-strare il vivo interesse degli operatori in ambito biomedico verso le nuove tematiche e l’urgenza che essi avevano

di confrontarsi su quelle sta il fatto che, a soli 8 anni dalla comparsa del nuovo termine, già veniva pubblicata negli stati uniti la prima Encyclopedia of Bioethics, a cura di W. reich, in cui si affermava che “la bioetica è lo studio sistematico della condotta umana nel campo delle scienze della vita e della cura della salute esaminata alla luce dei valori morali e dei principi etici”: al centro dell’attenzione della bioetica in senso stretto stanno dunque tutte le questioni etiche originate negli ultimi decenni dai mutamenti che la rivoluzio-ne biomedica ha provocato per quanto riguarda il nascere, il curarsi e il morire degli esseri umani.

ma la bioetica, oggi, può essere considerata una disciplina autonoma?

Benché essa sia un campo del sapere di natura costitutivamente in-terdisciplinare, tuttavia come indicava scarpelli1 “la bioetica non può essere caratterizzata quale disciplina autono-ma né con riguardo all’oggetto né con riguardo al metodo. Per l’oggetto, non c’è atto relativo alla macchina (il corpo) che non investa anche lo spettro nella macchina (lo spirito): la stessa contrap-posizione fra la macchina e lo spettro è fallace e va abbandonata. Per il metodo la bioetica essendo parte dell’etica ne condivide il metodo o la mancanza

1. uberto scarpelli (1924-1993) filosofo del diritto impegnato nella diffusione della bioetica ai suoi albori in italia, nonché attivo sostenitore di una concezione laica e pluralista della disciplina.

(ravetz, 2005), incoraggiando l’esplora-zione di altre forme di conoscenza (per es. quelle dei popoli indigeni: aikenhead & michell, 2011; camino, 2010, 2013). questo approccio offre un naturale superamento della dicotomia tra cultura umanista e cultura scientifica: ogni forma di conoscenza offre un contribu-to prezioso, ed epistemologicamente necessario.

nel gruppo di ricerca5 con cui lavo-ro da molti anni abbiamo sperimentato molte attività educative (colucci-gray et al., 2012;), e documentato varie pro-poste ed esperienze: da brevi percorsi (come l’ecologia del pomodoro globa-lizzato: camino et al., 2012) ad attività più complesse (come i giochi di ruolo: camino et al., 2008; camino & colucci-gray, 2012). e ci sentiamo a nostro agio nell’immaginario della scienza post-normale. tutta la mia ricerca, inoltre, è stata influenzata dalla conoscenza con l’asseFa e dalla lettura dei testi di gan-dhi (camino, 2011) e dei suoi collabora-tori, come Kumarappa (1945).

5. istituto di ricerche interdisciplinari sulla sostenibilità (www.iris.unito.it)

33Strumenticres n.60 – febbraio 2013

ALLIUM CEPA: DALLO SCANNER AL MICROSCOPIO, PASSANDO DALLA CAMERA OSCURARosalba Fucci, Maria Minic’, Shai Rabà

liceo scientifico “luigi cremona”, milano

di metodo”. non è dunque possibile occuparsi di bioetica senza affrontare le questioni che si pone l’etica, ma in parallelo non ci si può esimere dal considerare le altre competenze in gioco, come la scienza medica, il diritto, l’epistemologia, le scienze sociali, la psicologia che continuamente si incon-trano e si incrociano nel tessuto della riflessione bioetica.

il corpo umano, campo di applicazione della biomedicinala ricerca biomedica e biotecnologica che ha come campo di applicazione il corpo umano interviene negli aspetti più personali della vita degli individui, mettendo contemporaneamente in gioco sia il corpo sia l’identità di coloro che vi fanno ricorso.

l’ambito individuale o collettivo in cui devono essere prese le decisioni che la riguardano è poco chiaro. nelle conte-se su specifiche applicazioni biomediche e biotecnologiche, il processo decisiona-le che porta alla loro regolamentazione si accompagna, secondo vari autori, con un più chiaro delinearsi del confine pubbli-co/privato, mettendo in atto quello che viene definito un «processo di copro-duzione tra norme sociali e sviluppo scientifico»2. se, da una parte, la scienza è coinvolta nella definizione di parametri normativi e istituzionali, dall’altra «il diritto e la politica utilizzano e modifica-no le conoscenze scientifiche secondo le proprie esigenze»3. si stabilisce dunque una stretta interazione in cui scienza e istanze normative partecipano alla reciproca definizione, modificandosi e influenzandosi a vicenda con modalità che sono di grande interesse per l’analisi delle complicate dinamiche tra scienza e

2. m. Bucchi, F.neresini (a cura di), Cellule e cittadini. Biotecnologie nello spazio pubblico, milano, sironi, 2006 e s. Jasanoff (ed. by), States of knowledge. The Co-production of Science and Social Order, london-new York, routledge, 2004.

3. s. Jasanoff , Fabbriche della natura. Biotecno-logie e democrazia, il saggiatore, milano 2008.

società proprie delle democrazie attuali4.le tecniche di fecondazione in vitro,

quelle di clonazione e i loro prodotti (l’embrione umano, il clone e le cellule staminali embrionali) sono un buon esempio. applicandosi al campo della riproduzione umana, esse conferiscono al processo di coproduzione tra norme sociali e sviluppo scientifico una valenza simbolica particolare, poiché pongono la delicata questione delle radicali mutazio-ni culturali derivanti dalla trasformazio-ne di riferimenti fondativi dell’individuo quali l’essenza del generare umano, le nozioni di identità e filiazione, di padre e di madre, di vita e di morte.

“Poiché l’essere umano nella sua dimensione corporea è il luogo privile-giato d’incontro degli sviluppi scientifici e dell’evoluzione degli ordinamenti giuridici”5, nell’ambito dei limiti che lo spazio concesso ci pone, analizzeremo alcuni risvolti etici della ricerca biome-dica nell’intreccio tra nuove tecnologie riproduttive, clonazione e ricerca sulle cellule staminali6, focalizzando l’attenzio-ne sul divenire dei corpi nella continua crescita del controllo umano sui processi biologici e sulle innumerevoli questioni che esso solleva.

la nascita di louise Brown, la prima bambina concepita fuori dall’u-tero materno mediante fecondazione

4. molto interessante come esempio di demo-crazia partecipativa e contributo al processo di coproduzione è l’esperienza degli Stati Generali della Bioetica, conclusasi in Francia alla fine di giugno 2009. Per sei mesi centinaia di cittadini raccolti in tre forum regionali hanno discusso con modalità diverse –riunioni, week-end di formazione– e fatto proposte su cinque temi: la ricerca sulle cellule staminali embrionali, i trapianti, i doni d’organo e di gameti, la procreazione assistita, la medicina predittiva e i test genetici. le indicazioni dei cittadini sono state raccolte in un documento, rese pubbliche durante un convegno svoltosi alla fine di giugno e dovranno costituire la base del prossimo pro-getto di legge di revisione delle leggi di bioetica che verrà discosso dal Parlamento nel 2010.

5. a. santosuosso , Diritto, scienza, nuove tecnologie, cedam, milano 2011.

6. cellule indifferenziate che si trovano in svariati tessuti e organi del corpo umano e che sono chiamate adulte (multipotenti) o embrionali (pluripotenti) a seconda della loro localizzazione nell’organismo

34 Cultura scientifica e cultura umanistica – dossier

IMMORTALANDO LA SCIENZA Carlo Cattaneo

liceo scientifico “giovanni Battista grassi”, saronno (Va)

in vitro nel 1978, ha rappresentato uno spartiacque da almeno due punti di vista. da una parte, per ciò che riguar-da le sue ricadute sui singoli individui coinvolti e sulla società nel suo insieme, questa tecnica –che ha reso possibile il superamento dell’infertilità umana– ha modificato radicalmente lo scenario della procreazione, dissociando un processo biologico fino a quel momento ritenuto inscindibile, moltiplicando le figure che partecipano alla riproduzione (con l’effet-to di creare inedite relazioni tra individui del tutto estranei gli uni agli altri e il rischio di cancellare la centralità della donna e dell’uomo, cardini del progetto procreativo) e sottoponendo le prime fasi di sviluppo dell’embrione a una ferrea medicalizzazione.

dall’altra, sul versante della ricerca, l’accesso all’embrione fuori dall’utero materno ha aperto la strada alla scoper-ta e all’isolamento delle prime cellule staminali embrionali umane e ha dato il via a tutti i successivi sviluppi scientifici correlati. e’ infatti a partire da embrio-ni sovrannumerari prodotti mediante fecondazione in vitro e donati per la ricerca che l’équipe di James thomson dell’università del Wisconsin, nel 1998, ha isolato e fatto crescere in laboratorio le prime cellule staminali embrionali umane, cellule indifferenziate in grado di dar luogo a quasi tutti i tipi di tessuti, ma non a un organismo intero.

dopo il successo di thomson fu immediatamente chiaro il potenziale terapeutico delle linee cellulari embrio-nali umane per il trattamento, mediante il loro trapianto, di numerose malattie degenerative inguaribili, come il morbo di Parkinson, l’alzheimer, il diabete, oppure per riparare le lesioni provocate da infarti e da ictus. contemporaneamen-te si accesero anche le polemiche sulla liceità morale della ricerca sugli embrio-ni umani, uniche fonti possibili di cellule staminali embrionali umane, destinati a essere distrutti nel corso del prelievo di tali cellule costituenti la loro massa interna.

nel frattempo, nel regno unito, ian Wilmut era riuscito, dopo anni di tentati-vi infruttuosi, a clonare il primo mammi-fero della storia (la pecora dolly) e que-sto successo aveva alimentato l’idea che fosse possibile utilizzare la clonazione in campo umano per ottenere embrioni da usare come fonti di cellule per rigenerare

i tessuti danneggiati di individui malati. la tecnica proposta a tale scopo detta

“trasferimento nucleare somatico” o “clonazione terapeutica”7 è simile a quella utilizzata per la clonazione di dolly e, pur non essendo ancora mai stata speri-mentata sull’uomo, in molte nazioni del mondo ha aperto la strada a una serie di ricerche volte alla produzione di numero-si tipi di cellule differenziate suscettibili di applicazione clinica, dando luogo a una nuova specializzazione medica, la medicina rigenerativa.

sono passati solo 30 anni dalla nascita di louise Brown e la medicina rigenerativa, sviluppatasi a partire dalla medicina procreativa, è oggetto di impor-tanti investimenti economici e di risorse umane alla ricerca di fonti alternative di cellule staminali che non implichino il ricorso agli embrioni.

in parallelo, numerosi interrogativi sulla valenza simbolica e le ricadute sociali dell’intreccio tra generazione e rigenerazione e su come considerare la medicina rigenerativa in relazione al tema della finitezza della vita umana, stanno alimentando un ampio dibattito etico relativo alla natura dei confini proposti dalla nuova medicina.

attualmente sono in corso ricerche sulla derivazione di gameti8 da cellule staminali embrionali umane. nell’ottobre 2009 un gruppo di ricerca della stanford medical school ha annunciato di aver ot-tenuto cellule precursori di gameti umani capaci di svilupparsi in gameti maturi a partire da cellule staminali pluripotenti (embrionali). naturalmente, molti passi avanti in quest’ambito sono ancora ne-cessari e soprattutto, elemento dirimen-te, va dimostrato se queste nuove cellule possano dar luogo alla fecondazione e al susseguente sviluppo embrionale.

qualora fosse confermata, questa scoperta aprirebbe la strada all’impiego di gameti così prodotti per permettere a

7. clonazione terapeutica: utilizzo della tecnica del trasferimento nucleare somatico per generare un embrione geneticamente identico alla cellula donatrice del nucleo, dal quale verranno prelevate le cellule staminali pluripotenti da far differenziare a fini terapeutici

8. gamete: cellula germinale matura, maschile (spermatozoo) o femminile (ovocita)

35Strumenticres n.60 – febbraio 2013

individui infertili di procreare. dal punto di vista biomedico

l’utilizzo di gameti derivati da cellule staminali pluripotenti presenterebbe due vantaggi: da una parte si distinguerebbe dalla clonazione riproduttiva9 (attual-mente al bando in tutte le nazioni del mondo) perché la progenie ottenuta nel modo sopra descritto riceverebbe, come nella riproduzione naturale, il contributo genetico di entrambi i genitori, dall’altra renderebbe possibile, per le coppie in cui uno dei partner è sterile, di evitare il ricorso a un/a estraneo/a, donatore/trice di gameti.

dal punto di vista etico e legale, questa tecnica potrebbe dunque essere considerata uno strumento terapeutico per il trattamento dell’infertilità, anche se, contemporaneamente, uno sviluppo della ricerca in questa direzione ha susci-tato un notevole allarme come dimostra la pubblicazione di un articolo firmato da prestigiosi scienziati e bioeticisti americani e inglesi in cui viene sottoli-neato il valore scientifico e potenziale di tale ricerca “sia per capire i fondamenti della biologia dei gameti, che per la so-luzione di problemi clinici” e si affronta l’argomento della creazione di gameti umani derivati da cellule staminali con un’attenzione particolare per le possibili implicazioni sociali e per la regolamen-tazione di queste ricerche con una lista di raccomandazioni, la prima delle quali afferma che i decisori politici devono evitare di applicare misure restrittive sulle ricerche scientifiche sulla sola base di visioni morali divergenti.

Poiché questa è la riflessione nella quale più mi riconosco, chiudo queste pagine con uno stralcio del documento redatto nel 2009 dalla Commissione bioetica della Chiesa Valdese che delinea alcune coordinate di fondo della rifles-sione riformata sulle questioni legate alla biomedicina.

9. clonazione riproduttiva: utilizzo della tecnica del trasferimento nucleare somatico per generare un embrione geneticamente identico alla cellula donatrice del nucleo, che verrà trasferito in utero al fine di sviluppare un organismo intero.

documento“cellule staminali. aspetti scientifici e questioni etiche”

CONCLUSIONEDal punto di vista teologico, l’idea della dignità e del valore della vita umana si fonda sulla convinzione che l’uomo sia stato creato a immagine e somiglianza di Dio. É bene tuttavia evitare qualsiasi sostanzializzazione dell’imago Dei iden-tificandola con un dato oggettivo o, peggio ancora, biologico: l’immagine divina, piuttosto, è il termine di una relazione che l’uomo è chiamato incessabilmente ad attuare e si realizzerà pienamente soltanto in un futuro di cui non disponiamo. L’essere fatti a immagine e somiglianza di Dio non poggia primariamente su dati empirici e sensibili (avere un corpo), ma trova espressione essenziale nella nostra libertà, nella nostra responsabilità e nella nostra capacità di creare e trasmettere cultura1. Per questo motivo, è tipica del protestantesimo la convinzione che i problemi etici non si lascino risolvere attraverso un’argomentazione di stampo puramente naturalistico o biologico, come in gran parte della bioetica cattolica, soprattutto in Italia.La scienza rappresenta un’espressione positiva della nostra libertà di esseri umani, un modo di costruire, faticosamente, ma non inutilmente, la propria storia, distaccandosi da un destino e da una determinazione puramente naturali. Riteniamo pertanto che sia necessario rinunciare ad ogni atteggiamento pregiu-dizialmente difensivo e che sia preferibile guardare al progresso scientifico in una prospettiva laica, in grado di coglierne, al contempo, i limiti e le potenzialità emancipative.Un’etica che voglia porsi responsabilmente di fronte alle questioni che coinvol-gono l’embrione, in vista di orientamenti personali e di scelte collettive, deve abbandonare la ricerca di una definizione ultima, per mezzo della quale imporre un freno arbitrario alla ricerca, e tentare di disarticolare le questioni a livello delle relazioni coinvolte. Ogni intervento su embrioni va collocato nel presente entro cui avviene, va confrontato con le finalità che si propone, con le conseguenze che esso avrà sul mondo umano e con gli interessi e i diritti delle persone coinvolte. Non crediamo esista un principio assoluto, dal quale tutto dipenda, ma occorre tener conto di criteri e valori diversi, a volte in conflitto tra loro. Di qui il rifiuto di ogni generalizzazione, ma il tentativo sempre precario e sempre rinnovantesi, di scegliere tra possibilità umane egualmente buone e talvolta alternative.La sollecitudine verso i malati appartiene sin dalle origini all’essenza del cristia-nesimo. La salute non è la salvezza, e tuttavia non è cosa di nulla. A fronte di questo, il rispetto dell’embrione, e l’idea kantiana secondo cui «l’umanità nella nostra persona debba essere sacra per noi» e non possa (neanche da Dio, aggiun-ge Kant) essere ridotta a semplice mezzo2. Non crediamo che la blastocisti rientri in questa definizione e non pensiamo di poter accordare a un insieme di cellule (sia pure contenenti geni individuali umani), quel rispetto assoluto dell’umanità della nostra persona di cui parla Kant. Per questo motivo, siamo favorevoli alla possibilità che la ricerca si avvalga di embrioni “sovrannumerari”, altrimenti destinati alla distruzione. Allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, riteniamo inoltre che sia doveroso non vietare in maniera pregiudiziale vie di ricerca potenzialmente fruttuose e che sia dunque necessario mantenere aperta la ricerca sulle cellule staminali embrionali accanto a quella sulle cellule staminali adulte. Guardiamo con favore, pur con la prudenza che è d’obbligo in ogni impresa umana, a nuove tecniche scientifiche, come la clonazione terapeutica, che auspichiamo possano, in un futuro più o meno lontano, alleviare la sofferenza di un gran numero di malati.

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Metti una sfera a cena di antonio rodia, docente iss “rinascita-livi”, mi

titolo del progetto: “dimensionando”.il progetto del primo quadrimestre per le classi seconde, come previsto dalla programmazione di area scientifica, è legato da un filo rosso a scienza under 18, storica manifestazione cui rinasci-ta ha sempre contribuito apportando il proprio know how, il cui obiettivo principale è quello di sviluppare negli alunni la capacità comunicativa in ambito scientifico.

durante il primo consiglio di classe, in fase di programmazione delle attività didattiche, ho proposto il progetto, sentita anche la collega di arte, professoressa carla Zaffaroni, poiché inizialmente pensavo di fare un percorso matematica/arte e immagine, diventato, successivamente, parte del Progetto teatro nel secondo quadrime-stre. Fondamentale è stata la reazione entusiastica, per la proposta, da parte di tutto il consiglio, diventata da allora

“l’oggetto culturale” della ii c per l’as 2011/2012. questo mi ha spinto a tenere al corrente settimanalmente i colleghi, prima di ogni lezione, tramite una mail sul piano della lezione da svolgere il giorno successivo. tale mo-dalità di comunicazione è stata molto apprezzata, poiché ha consentito loro di ritornare su Flatlandia anche nelle proprie ore curriculari.

il progetto è partito dalla presen-

tazione alla classe del libro di edwin a. abbott, Flatlandia. considerato oltre che un classico della letteratura fanta-stica anche una delle prime riflessioni sulla quarta dimensione.

il racconto appartiene al genere fantastico e narra la vita di un abitante di un ipotetico universo bidimensionale (un quadrato) che entra in contatto con un abitante di un universo tridimensio-nale (una sfera). rappresenta uno dei racconti più popolari tra gli studenti di matematica e più in generale tra gli studenti di facoltà scientifiche, perché affronta in maniera originale il concetto di un mondo a più dimensioni. da un punto di vista più squisitamente lette-rario il testo è famoso anche per essere una satira della società vittoriana ed una critica al riduzionismo positivista.

ogni lezione è stata strutturata in due parti: una prima parte dedicata alla lettura di alcuni brani, scelti dal docen-te, su cui gli alunni sono stati invitati a riflettere e a realizzare di volta in volta un prodotto (testo scritto, foto, disegno, etc.) ed una seconda parte in cui si sono esaminati gli aspetti geometrico/dimensionali emersi dai brani letti, stimolando la riflessione e l’interesse degli alunni anche attraverso la rea-lizzazione di esperienze laboratoriali specifiche sulle figure geometriche (piane e solide) incontrate nella lettura e, più in generale, mediante esperienze,

AD 1884. Il reverendo e pedagogo Edwin A. Abbott scrive un libro divenuto nel tempo un classico della letteratura fantastica: Flatland. a romance of many dimensions.

AD 2011. La professoressa Paola Gorni (la mia collega di Italiano) mi regala per una lettura estiva un piccolo libricino verde che riporta sulla copertina una litografia del 1943 di Maurits Cornelis Escher (Rettili) ed uno strano titolo: Flatlandia. racconto fantastico a più dimensioni.

AD 2011. Il professor Antonio Rodia (autore di questo articolo) prende una decisione: il progetto di area scientifica per l’as 2011/2012 che coinvolgerà la classe II C dell’ISS

“Rinascita-Livi” di Milano, sarà legato a Flatlandia.

AD 2012. I professori Giampaolo Crotta (Scienze Motorie), Carla Zaffaroni (Arte e Immagine), Claudia Giella (Sostegno) e Lucia Galuppo (Clarinetto), mettono in scena nel secondo quadrimestre uno spettacolo teatrale su Flatlandia, naturale prosecuzione del progetto di area scientifica.

37Strumenticres n.60 – febbraio 2013

MOVIMENTI STROBOSCOPICI

Sara Botta, Ilaria Bianchi,

Marta Arenascuola secondaria 1°

grado “rinascita - a. livi”, milano

scientifiche e non, che hanno coinvolto anche altre materie scolastiche (arte, scienze, italiano, inglese, tecnologia, musica), sviluppando così numerosi collegamenti interdisciplinari, riuscen-do a collegare il mondo umanistico con quello scientifico.

Per la progettazione di ciascuna lezione, oltre al testo di abbott, sono stati utilizzati libri, saggi, film, siti in-ternet, lavori realizzati a rinascita negli anni passati, etc. e sono stati prodotti testi, immagini, disegni, power point, cartelloni, modellini, etc.

le modalità di lavoro e gli stru-menti utilizzati sono stati molteplici, ma punto fondamentale per il successo delle lezioni è stato l’uso della lim (la-vagna interattiva multimediale), di cui sono dotate tutte le classi di rinascita; la lim ha consentito di rendere coin-volgenti anche le lezioni frontali o la lettura dei brani, spesso accompagnata da sequenze di immagini.

tra le modalità, giusto per citar-ne alcune, si può ricordare il brain-storming, i piccoli gruppi, il lavoro individuale, la lettura “a passaggio di testimone”, il lavoro in laboratorio, etc; tra gli strumenti, power point, file audio, file video, immagini, foto, testi, etc.

rispetto alle idee del progetto iniziale è stato talvolta necessario mo-dificare in itinere le attività da proporre, considerando le reazioni degli alunni e gli interessi emersi, cercando di indiriz-zare le lezioni verso gli argomenti che più incuriosivano la classe e su cui la

classe chiedeva approfondimenti.il progetto, per la valutazione

quadrimestrale, non ha previsto una verifica sommativa finale, ma una serie di “verifiche” in corso d’opera, considerando il materiale e l’uso degli strumenti, il rispetto dei tempi di lavo-ro, l’utilizzo di strategie per superare le difficoltà, la modalità di lavoro in gruppo nonché il contributo apportato, l’utilizzo di diversi linguaggi e degli strumenti comunicativi durante tutte le fasi di lavoro previste dal progetto. alla fine del progetto, come previsto dalla scuola, ogni alunno ha effettuato la propria autovalutazione.

Per gli alunni con dsa (disturbi specifici dell’apprendimento) si è tenuto conto di quanto previsto dal Protocollo dell’area scientifica in meri-to, cercando di favorire l’accrescimento dei punti di forza di ciascuno, pro-muovendo le potenzialità e il successo formativo in ogni alunno unitamente ai diversi stili di apprendimento garanten-do, così, all’alunno con dsa le condizio-ni più favorevoli per il raggiungimento degli obiettivi previsti.

il progetto, inoltre, è stato pun-tualmente documentato in wikischool, la piattaforma sperimentale su cui lavorano tre scuole laboratorio in italia: rinascita-livi a milano, scuola città Pestalozzi a Firenze e don milani a ge-nova; i lavori prodotti durante il proget-to “dimensionando” hanno partecipato come exibit alla XV edizione di su18 (scienza under 18) tenutasi all’acqua-

rio civico di milano il 18 maggio 2012; ha avuto spazio nella giornata aperta di fine anno scolastico in cui sono stati presentati i molteplici lavori realizzati dagli alunni durante il progetto.

a conclusione dell’articolo tengo a ricordare che realizzare un progetto è indubbiamente faticoso, ma vedere i propri alunni stupirsi davanti alle attività proposte (a volte anche le più semplici) non ha prezzo! il successo o meno di un progetto è, certamente, legato all’esperienza degli insegnanti. nel mio caso è stato fondamentale il progetto realizzato nell’as 2010/2011,

“la geometria in gioco”, insieme alla collega di tecnologia, professoressa Paola Bottari, sempre per la classe seconda, in cui, grazie all’esperienza di colleghi esperti, è stato possibile con-dividere la progettazione e costruire la realizzazione in classe.

questi progetti, inoltre, permetto-no al docente di sperimentare sul cam-po nuove tematiche e nuove modalità di lavoro, stimolano l’aggiornamento su molti temi che non vengono affrontati dai programmi scolastici e spingono a ricercare nuove modalità di lavoro e di insegnamento, incrementando, così, le conoscenze relative alle tecnologie informatiche, sperimentando l’acqui-sizione di competenze da parte degli alunni in ambiti diversi dal tradizionale contesto classe, condividendo (anche con colleghi di altre aree e di altre materie) le proprie idee.

38 Cultura scientifica e cultura umanistica – dossier

Fragili equilibri …tra scienza e poesia

di pietro olla, divulgatore scientifico e clown didattico

la sala ampia, i bimbi seduti a terra, fermi come pietre, guardano in silenzio, la bocca aperta di stupore e meraviglia. gli sguardi si fermano su una goccia d’acqua che impiega 7 secondi a presen-tarsi sull’angolo della vaschetta, aumen-tare di peso e... tac...! cadere al suolo... il suono delle gocce d’acqua diventa musica e le pause e i silenzi sono pieni di significati, perché danno il tempo di riflettere sulle poche parole del poeta: ogni 7 secondi… una goccia d’acqua… ogni 7 secondi… una morte di sete nel nostro ingiusto pianeta, scandisce lentamen-te l’autore delle opere. quella goccia d’acqua, raccontata ai bambini dallo scultore-poeta raffaello ugo, è parte di un progetto più ampio di educazione all’arte e alla scienza. Fragili Equilibri è una mostra interattiva di corpi in equili-brio. un progetto didattico multidiscipli-nare che mira alla valorizzazione della bellezza e dell’arte povera, al migliora-mento della nostra vita, all’educazione scientifica e al rispetto dell’ambiente e del territorio che abitiamo.

l’iniziativa è di due associazioni, “le strade di macondo” e “avvoltelinver-so”, nate e operanti in sardegna.

Viviamo in un’epoca in cui la cresci-ta economica si misura ancora insieme alla crescita industriale, quando ancora troppo pochi mettono in discussione l’idea di sviluppo senza limiti e di risorse energetiche infinite. dopo il boom industriale, abbiamo la responsabilità di gridare al mondo che non si può conti-nuare così, che un altro mondo è possibile. ora ci ritroviamo a crescere i nostri figli in un pericoloso stato di incertezza sul futuro. Viviamo una crisi energeti-ca, economica, democratica: picco del petrolio, riscaldamento globale, cattiva distribuzione delle risorse, difficoltà di accesso all’acqua, guerre e terrorismo, sono tutti aspetti di un’unica grande crisi di sistema.

ci sentiamo quindi in dovere di agire, con azione politica diretta, nella

società civile, in movimenti o partiti, ma soprattutto nel quotidiano lavoro di re-sponsabilità sociale, didattica, educativa.

un po’ per scelta, un po’ per vo-cazione non siamo parte della classe dirigente del paese, e non abbiamo in mano le chiavi delle grandi decisioni. ci sentiamo però pronti sul piano educa-tivo, per promuovere buone pratiche quotidiane, offrire a bambini e bambine, a ragazze e ragazzi, informazioni e stru-menti per migliorare la comprensione dei problemi globali e quindi aiutarli a fare scelte consapevoli e importanti per la loro vita: dalle cose più semplici e immediate come limitare i consumi energetici, chiudere l’acqua mentre ci si lava i denti, spegnere le luci inutili, usare molto la bici e poco l’auto, fino alle più impegnative scelte familiari, lavatrici più ecologiche, consumo consapevole, riciclo e riutilizzo di materiali poveri ed ecocompatibili, per rispettare l’equili-brio sociale, ecologico ed economico del Pianeta terra.

sappiamo però che per cambiare bi-sogna conoscere e per conoscere capire.

Progetti come questo di divulga-zione e educazione scientifica aiutano a stimolare e promuovere la curiosità verso le leggi della natura, anche fuori dall’ambito scolastico e accademico, e ad evidenziare le intersezioni e le inte-razioni fra i saperi. nel difficile percorso di costruzione di un mondo migliore, più sano e più giusto non basta la comu-nicazione scientifica e l’educazione al sapere, occorre sperimentare e inventare buone pratiche educative necessarie alla formazione delle nuove generazioni.

ma prima ancora di quella economi-ca ed energetica, ci interessa la crisi dei principi democratici, nel senso che i di-ritti stessi (compreso quello all’istruzio-ne e a una vita dignitosa) si vanno svuo-tando, per il prevalere del dio mercato e dei tagli alla cultura e alle politiche sociali. con conseguenze drammatiche nell’offerta educativa in genere e nel pro-

cesso di insegnamento/apprendimento delle capacitá logicomatematiche, che riguardano tutti i saperi. siamo convinti che la matematica rivesta un ruolo chia-ve: “serva e regina di tutte le scienze”, la definisce christiane rousseau, vicepre-sidente dell’international mathematical union (imu), nell’introdurre il progetto Mathematics of Planet Earth (mPe2013), che promuove il 2013 come anno della matematica del Pianeta terra1:

in questa prospettiva Fragili equili-bri è un contenitore che –intersecando saperi, linguaggi e competenze diverse– consente di sperimentare nuove e ori-ginali forme di utilizzo di “tale potente strumento”: dai laboratori interattivi alla visite guidate, dal teatro agli spettacoli di circo e clown, ai giochi auto-costruiti per risvegliare la manualità anche lonta-ni dallo schermo dello smartphone. con F.e. si affrontano problemi in maniera giocosa e divertente su concetti come equilibrio stabile e instabile, statico e dinamico, il baricentro la forza di gravità, la conservazione di energia e molti altri aspetti della meccanica classica, ma anche molte metafore e messaggi diretti sugli equilibri sociali ed energetici del Pianeta terra.

gli exhibit-giocattoli sono allo stesso tempo oggetto e strumento di conoscenza ma anche di elaborazione personale e collettiva: una mostra inte-rattiva è soprattutto un’ occasione per ricevere gli stimoli adatti ad elaborare autonomamente un proprio contributo.

il percorso si presenta come un viaggio ricco di stimoli ed esperienze.

1. “si tratta di usare con intelligenza e coscienza tale potente strumento, al fine di dare quanto prima risposte concrete agli interrogativi fondamentali che è ora più che mai importante e necessario porsi sul pianeta terra, con particolare attenzione alle problematiche connesse alla sua stessa salvaguardia, dunque al nostro stesso futuro”. mathematics of Planet earth – mpe2013.org/

39Strumenticres n.60 – febbraio 2013

Un’installazione dello scultore Raffaello Ugo, esposta nella mostra Fragili equilibri.

dopo una breve presentazione poetica e interattiva, si entra negli abissi della sa-la nautilus, in un percorso che segue la spirale della conchiglia di questo affasci-nante e schivo personaggio del mare. i suoni sono quelli prodotti dal movimen-to di curiosi personaggi, piante abissali che richiamano anche nei movimenti la lenta e maestosa danza del mare. Vere opere d’arte costruite con materiali poveri, sfruttano l’energia elastica e gravitazionale che sembrano raccontare esse stesse l’equilibrio dell’ambiente e l’ingiustizia sociale.

al termine dell’esplorazione sotto-marina emotiva e poetica, si prosegue il viaggio sulla isola di galileo. si sbarca sulla terra ferma, piedi ben piantati al suolo e concretezza scientifica. exhibit-giocattoli ed esperienze dirette come trottole, sedie girevoli e automobiline a elastico, offrono ai visitatori, giovani e meno giovani, occasioni divertenti ed educative di giocare con il principio di conservazione dell’energia: piani incli-nati palline in accelerazioni di gravità, attriti e cadute libere.

dopo aver giocato tra i colori e la musica con gli oggetti in equilibrio, si entra nella sala icaro dove si intrapren-de un personale viaggio attraverso il movimento del proprio corpo: l’equili-brio qui non viene mostrato né racconta-to, bensì offerto alla esperienza diretta. È questa una sala/palestra; il suolo coperto di materassini e tappeti, musica di sottofondo e un animatore equilibri-sta che prova esercizi “impossibili” e in-teragisce con i visitatori, dando consigli e proponendo un approccio artistico e insieme scientifico alle sperimentazioni dirette.

l’intero percorso rappresenta il no-stro desiderio di riproporre una serie di situazioni a-didattiche, un contesto cioè di netta discontinuità con le tecniche proprie dell’apprendimento scolastico istituzionalizzato2.

secondo Brousseau “per apprendere l’alunno A deve accettare di rompere la

2. cfr. la teoria delle situazioni di Brousseau, che propone la distinzione fra: S. Didattica: le circostanze favoriscono l’apprendimento. S. Non Didattica: tutte le normali esperienze di vita. S. A-Didattica: contesto costruito dall’insegnante in modo che l’alunno entri in contatto diretto con il sapere, apprendimento inconsapevole e senza filtri.

relazione didattica con l’insegnante I ed entrare in relazione diretta con il sapere S.”

Fragili equilibri è pensata proprio per offrire momenti di autoapprendimen-to: i visitatori vengono lasciati a diretto contatto con le opere d’arte della sala nautilus, come con le trottole, le sedie girevoli e giochi vari, mentre osservano e promuovono il movimento del proprio corpo. l’abilità di cui andiamo fieri è l’arte di scomparire.

a guidare i giochi sono insegnanti-attori, clown didattici, sempre presenti ma con l’obiettivo di raccontare storie, offrire stimoli, diventando invisibili all’occorrenza.

tutto questo grazie al carattere pret-tamente interattivo dell’intero progetto. un’ interattività intellettuale, per lo scambio continuo domande/ risposte e il dialogo tra le parti in gioco; un’ interat-tivitá fisica, nell’esperienza diretta con oggetti e giocattoli didattici; un’interat-tivitá emotiva, nello scambio reciproco delle parti fra emozionarsi e suscitare emozioni, ridere e sorprendersi3.

il personaggio che meglio crea una situazione interattiva e di ascolto attivo è il clown didattico:

non il classico “pagliaccetto” con

3. a proposito dell’ascolto attivo: le emozioni parlano un linguaggio non verbale, analogico; ci danno informazioni non su cosa vediamo ma su come guardiamo. m.n. sclavi, 2003, Arte di ascoltare e mondi possibili, Bruno mondadori, milano, pag. 35.

parrucca a riccioli rossi e verdi, scarpe giganti e clava in mano, sempre sorri-dente e con la voce stridula. il clown didattico che si propone come guida e conduttore dei laboratori, è vestito di nero, non ha il naso rosso, non è truc-cato; ha però competenze specifiche di teatro, ascolto attivo, gestione nonvio-lenta dei gruppi4.

anche quest’anno nell’aprile 2013 Fragili equilibri, per la terza volta, ospi-terà migliaia di ragazzi di tutte le età, of-frirà centinaia di visite guidate e decine di laboratori, spettacoli ed eventi diversi, grazie ad un meticoloso lavoro di pro-gettazione, ricerca e cura delle relazioni con numerosi soggetti: ragazze e ragazzi, cittadine e cittadini di tutte le età, soci e collaboratori, istituzioni e finanziatori, sponsor e … chiunque vorrà; ma attiverà anche preziose collaborazioni didattiche, scientifiche e artistiche. ringraziamo di cuore tutte e tutti. concludiamo con un appello a lettori e lettrici: continuiamo a sintonizzarci su come cambia il mondo, quali le necessità di comunicazione culturale e quali gli spazi di intervento didattico ed educativo. il cambiamento che ci piace ha bisogno di consapevolez-za e partecipazione.

Buona scienza a tutti e tutte.

4. “Per divenire esperto nell’arte di ascoltare devi adottare una metodologia umoristica. Ma quando hai imparato ad ascoltare, l’umorismo viene da sé” sclavi, 2003, cit. pag. 63

40 Cultura scientifica e cultura umanistica – dossier

Un’accanita gara internazionale tra neuroscienziati e biologi molecolari ha come traguardo il potenziamen-to del cervello umano. Invano un celebre e vecchio filosofo, mette in guardia gli scienziati contro i rischi di un tale programma. Fra gli entusiasmi dei mass media la corsa verso il “supergene”continua senza esclusione di colpi. Un thriller scritto con lo stile di un conte philosophique da un uomo di scienza.

Per quali ragioni schiere di autori si sono occupati di interpretare, confutare o rafforzare i classici? Che senso ha oggi occuparsi di testi di un passato culturalmente e cronologica-mente anche molto lontano? L’autore individua proprio nella loro “alterità” culturale il contributo più efficace che essi sono tuttora in grado di fornire in termini di ricchezza e libertà della conoscenza.

La letteratura può offrire un tipo di conoscenza essenziale e complemen-tare (non opposta) a quella scienti-fica; essa offre a noi lettori un tipo di consapevolezza che è di fondamen-tale importanza per la comprensione delle nostre umane vicende. “Arte e scienza sono vie complementari all’indagine sul mistero dell’esistenza e del nostro posto nell’universo.”

Lolli scopre che le Lezioni america-ne possono essere lette come una parabola della matematica e che gli argomenti in esse trattati (Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Mol-teplicità) sono proprietà essenziali del pensiero matematico creativo. Libro di grande fascino, nel quale, seguendo l’esposizione di Calvino, il ragionamento matematico si rivela molteplice, paradossale, capace di mostrare insospettate analogie con la creazione letteraria.

La matematica, lungi dall’essere disciplina fredda e austera, è invece fonte culturale di riflessioni profonde, proprio come la poesia, le arti, le lettere. Con contributi di Piergiorgio Odifreddi, Michele Emmer e Gabriele Lolli, questo libro racconta di una disciplina che troppo spesso è percepita fine a se stessa.

Si parla ogni giorno di fine del romanzo, di perdita di centralità delle discipline umanistiche. Per contro, gli storici usano sempre più spesso i testi letterari come fonti, i filosofi espon-gono le loro idee in forma narrativa o aforistica; gli scienziati fanno ricorso a metafore mutuate dalla poesia. Insomma, i linguaggi e gli strumenti di analisi tipici della letteratura non muoiono, ma piuttosto si trasforma-no, e migrano verso altre discipline.

Il racconto brillante e a tratti ironico di una osservatrice curiosa, che assiste ad un dibattito sull’unità della conoscenza; ne discutono fisici, matematici,filosofi, teologi, psicanalisti , poeti. Di recente sono proprio le discipline più rigorose a essere diventate le più poetiche e imma-ginative, elaborando teorie fantasiose, come quella dell’universo-champagne, che sembrano tratte da un romanzo di fantascienza.

In questo breve saggio, destinato ai non specialisti l’autore sostiene che il cammino della scienza verso la verità non procede per gradi, ma è soggetto periodicamente a rivoluzioni che comportano un mutamento del paradigma di riferimento. Tre gli esempi: il passaggio dalla concezione aristotelica del moto a quella newto-niana; il passaggio dalla teoria delle forze di contatto a quella chimica per spiegare la pila di Volta; il passaggio dalla derivazione di Planck della legge sulla radiazione di corpo nero a quella comunemente adottata oggi.

La scienza non è l’unica strada per la conoscenza. Prendendo spunto dall’o-pera di diversi artisti (da Walt Whitman a Proust a Igor Stravinsky, dallo chef George Escoffier a Cézanne) Lehrer mostra, in una vera e propria sintesi tra cultura umanistica e cultura scientifica, il modo in cui ciascuno di essi abbia intuito e scoperto una verità essenziale sulla nostra mente, prima che la scienza la riscoprisse e la analizzasse. Un punto di vista diverso, in grado di offrire spunti e occasioni di riflessione tanto al critico letterario quanto allo scienziato.

Che cos’è oggi la natura? Per la prima volta un gruppo di scienziati (Bartoc-ci, Boncinelli, Boschi, Bignami, Canu-to, Giorello, Moroni, Musu, Navarra, Parisi, Pellicani, Regge, Rossi) si confronta sui fondamenti dell’Idea di Natura in base alle conoscenze scien-tifiche del nostro tempo. Un libro che potrà contribuire a fare chiarezza su un argomento che divide movimenti e mondo politico e fornire ai decisori uno strumento di valutazione su più solide basi scientifiche.

Per puro casoALBERTO OLIVERIO -Dedalo, Bari, (romanzo)

Perché leggere i classici. Interpretazione e scritturaGIUSEPPE CAMBIANO -Il Mulino, Bologna

La coscienza e il romanzoDAVID LODGE -Bompiani, Milano

Discorso sulla matematica. Una rilettura delle “Lezioni americane” di Italo CalvinoGABRIELE LOLLI -Bollati Boringhieri, Torino

Matematica, stupore e poesiaBRUNO D’AMORE

Convergenze. Gli strumenti letterari e le altre disciplineREMO CESERANI -Bruno Mondadori, Milano

Il quark e il neuroneELISA BRUNE - Edizioni Dedalo, Bari

Le rivoluzioni scientificheTHOMAS S. KUHN -il Mulino, Bologna

Proust era un neuroscienziatoJONAH LEHRER - Codice Edizioni, Torino

Idea di natura. 13 scienziati a confrontoELIO CADELO (a cura di)prefazione di Corrado Clini - Marsilio, Venezia

2012

2011

2010

2009

2008

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41Strumenticres n.60 – febbraio 2013

BIBLIOGRAFIA RAGIONATA

Il mago dei numeri è il professore di matematica che tutti avremmo voluto avere; simpatico, magico, giocherel-lone, sempre pronto a sfidarci senza che ce ne accorgiamo. Enzensberger dimostra di essere un ottimo divulga-tore. Questo libro è consigliato a chi ha da sempre «paura della matema-tica». Ci vuole un professore in grado di appassionare gli studenti, capace di mostrare quanto la matematica sia radicata nella vita di tutti i giorni. Indirizzato a un pubblico giovane, può comunque risultare illuminante anche a chi di matematica se ne intende seriamente.

Che cosa sta succedendo nel XXI secolo? Si sta caratterizzando sempre più come l’epoca in cui, grazie agli strumenti forniti da scienza e tecnolo-gia, la produzione e la distribuzione di beni materiali viene progressivamente sostituita dalla produzione e dalla distribuzione di un bene collettivo e non tangibile: la conoscenza, sia essa l’ultima frontiera della ricerca piuttosto che l’intrattenimento di massa. Tutto questo in nome di una presunta de-mocratizzazione del sapere, che però risponde ed è soggetta unicamente alle leggi del mercato imposte da un’econo-mia capitalistica sempre più globale e invasiva. Cini getta uno sguardo lucido e disincantato sul futuro che ci attende. Testo corposo di 484 pagine.

Raccoglie una serie di poesie e saggi su temi che coprono l’intero arco delle discipline scientifiche, ma la sua simpatia si rivolge in particolare alla matematica, che per i suoi rigorosi costrutti concettuali e per la ricchez-za inesauribile delle sue metafore, sembra incarnare nella maniera più perfetta l’ideale poetico della scienza. Alle figure dei grandi pionieri matematici - Leibniz, Gödel, Hardy, von Neumann, Turing - debitamente smitizzati, sono dedicati alcuni ritratti esemplari che più rimangono impressi nella memoria del lettore.

Evoluzione delle culture ed evoluzio-ne biologica a confronto: analogie e differenze. Il grande genetista allarga lo sguardo oltre i meccanismi genetici, per meglio orientare “i nostri modi di concepire le differenze culturali, la presunta esistenza di razze umane, le culture nazionali e le loro relazioni”.

Scritto a quattro mani da un linguista e un fisico è un libro ricco di spunti e argomentazioni su cui ragionare. Tantissime le questioni affrontate: serve a qualcosa il latino? I numeri sono più belli delle parole? Come rendere piacevoli le formule matema-tiche e rigorose le proposizioni discor-sive? Non è vero che abbiamo troppo umanesimo e quindi poca scienza, risponde De Mauro a Bernardini, ma abbiamo invece poco dell’uno e poco dell’altra, “non soffriamo di un deficit di scienze naturali, ma di un eccesso di pressappochismo”.

Il mago dei numeriH. M. ENzENSBERGER - Einaudi ET, Torino

Il supermarket di Prometeo. La scienza nell’era dell’economia della conoscenzaMARCELLO CINI -Codice Edizioni, Torino

Gli elisir della scienzaHANS MAGNUS ENzENSBERGER -Einaudi, Torino

L’evoluzione della culturaLUCA CAVALLI SFORzA -Codice Edizioni, Torino

Contare e raccontare. Dialogo sulle due cultureCARLO BERNARDINI, TULLIO DE MAURO - Economica Laterza. Roma-Bari

Le opere umane come l’Ulisse di Joy-ce, gli esperimenti di Galileo sui piani inclinati, i dipinti di Cézanne dedicati al Mont Sainte-Victoire, la teoria di Dirac sull’elettrone o la filosofia di Quine sono rappresentazioni cultura-li di aspetti di diversi della natura. La cultura è una e la sua evoluzione fa parte dell’evoluzione della specie.

Molte nature. Saggio sull’evoluzione culturaleENRICO BELLONE - Raffaello Cortina, Milano

Ralph Messenger, scienziato cogniti-vo, e Helen Reed, docente di scrittura creativa, si incontrano e dibattono dei loro rispettivi punti di vista sulla coscienza - e nello stesso tempo cominciano a provare una certa attrazione...

Pensieri, pensieriDAVID LODGE - Bompiani, Milano (romanzo)

La contrapposizione tra cultura scientifica e cultura umanistica. Testo aggiornato alla luce dei cambiamenti di prospettiva del nostro tempo con interventi di Giulio Giorello, Giuseppe O. Longo, Piergiorgio Odifreddi.

Le due cultureCHARLES P. SNOWa cura di Alessandro Lanni - Marsilio, Venezia

“Il matematico impertinente” fa vedere il rapporto della matematica con la letteratura, la pittura e la musica e dimostra che “scienza e arte, cioè le rispettive punte di diamante delle due culture, sono visioni complementari e non contraddittorie del mondo, sia esterno che interno.”

Penna, pennello e bacchetta. Le tre invidie del matematicoPIERGIORGIO ODIFREDDI - Laterza

Perché nell’era del web e della massima comunicazione la scienza e le humanae litterae non dialogano tra loro, ma si contrappongono ancora come “due culture” estranee e rivali? Per rispondere a questi interrogativi, studiosi della scienza si confrontano con umanisti: interventi di Balzani, Bellone ,Boncinelli, Cacciari, Cavalli Sforza, Giorello, Odifreddi, Redi, Rossi e altri.

I classici e la scienza. Gli antichi, i moderni, noiIVANO DIONIGI (a cura di) - BUR, Milano

La rivoluzione culturale in corso è quella che ha fatto dei media il principale veicolo della istruzione, al posto della famiglia e della scuola. Non è detto che questo sia un male, il problema è che questo modello culturale non sta semplicemente a fianco dei modelli tradizionali ma tende a sostituirli in toto. La scon-certante mancanza di senso storico che si nota nei giovani non è forse la giusta reazione di difesa alla massa di sempre nuovi prodotti culturali che li assedia?

L’assedio del presente. Sulla rivoluzione culturale in corsoCLAUDIO GIUNTAIl Mulino, Bologna

2007

2006

2005

2004

2002

42 Cultura scientifica e cultura umanistica – dossier

Volete provare l’emozione di un tè con Ludwig Wittgenstein, filosofo del linguaggio, di una torta di mele con Alan Turing, padre dell’intelligenza artificiale, di uno sherry con Erwin Schrodinger, fisico e biologo? Un incontro immaginario, a cena da Snow, con cinque tra i più brillanti pensatori del ventesimo secolo, che hanno profondamente cambiato la nostra visione della scienza, dell’etica, della politica e ai quali dobbiamo alcune delle più formidabili risposte a domande come “che cosa significa parlare, pensare, vivere?”.

In un’epoca in cui la cultura scientifi-ca e quella umanistica non possono permettersi di non avere un dialogo, si affrontano in un’appassionante discussione un filosofo attento ai percorsi della scienza e un biologo sensibile alle questioni filosofiche. La forma del dialogo offre il vantaggio della chiarezza e della leggibilità, anche quando gli argomenti si fanno complessi: le biotecnologie, il futuro energetico, la procreazione assistita; e ancora l’irrazionalità di un mondo pur dominato dalla tecnologia, la difficoltà di emergere come individuo nella società globale.

I cinque di CambridgeJOHN L. CASTI - Cortina, Milano

E ora? La dimensione umana e le sfide della scienzaEDOARDO BONCINELLI, UMBERTO GALIMBERTI, GIOVANNI M. PACE - Einaudi, Torino

1998

2000

Per una visione “narrativa” degli intrecci tra umanesimo e scienze, natura e tecnica si vedano gli articoli di Shara Ponti e Stefano Locati da pag.46

43Strumenticres n.60 – febbraio 2013

www.youtube.com/profile?annotation_id=annotation_771710&feature= iv&src_vid=EnNG-bFYw6E&user=raieducationalFilmati di rai educational su You tube divisi per:rai storia rai scuola (arte, ecologia, scienze...) rai Filosofia rai letteratura rai arte rai economia

www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/puntata /ContentItem-54a15b8f-7a72-44c6-aba4-590cfc997c25.html radio3 scienza è il quotidiano scientifico della terza rete. interviste, dibattiti, approfondimenti e reportage sui temi dell’attualità dal mondo della scienza. ma anche lo sguardo della scienza sul mondo.

www.arcoiris.tv/modules.php?name=Search&testo= dialoghi+dalle+due+culture&tipo=testoincontri tenutisi alla casa della cultura di milano: scienziati e umanisti,per affrontare e discutere assieme grandi questioni quali Verità, libertà, incertezza, memoria. 4 video scaricabili

www.festivalscienza.it/site/home.htmlFestival della scienza di genova, punto di riferimento per la divulgazione della scienza. È un’occasione di incontro per ricercatori, appassionati, scuole e famiglie. uno dei più grandi eventi di diffusione della cultura scientifica a livello internazionale.

www.festivaletteratura.itFestival della letteratura di mantova, cinque giorni di incontri con autori, reading, spettacoli, concerti con artisti provenienti da tutto il mondo. Festivaletteratura è oggi uno degli appuntamenti culturali più attesi

www.scienceanddemocracy.itl’obiettivo: promuovere, codificare, realizzare la partecipazione attiva della società ai processi decisionali legati all’innovazione scientifica e tecnologica, sia nelle finalità che negli strumenti. temi affrontati: etica, Politica, economia, scientismo, tecnologia, partecipazione, casi di studio.

www.fragiliequilibri.it/mostra interattiva tra piacere estetico e curiosità scientifica, per evidenziare le intersezioni e interazioni fra saperi.

SITOGRAFIA

Nel 2009 la Letteratura della migrazio-ne ha festeggiato i venti anni, ne abbiamo parlato su Strumenti dove abbiamo spesso presentato opere di questi nuovi scrittori e scrittrici, allargando lo sguardo anche ad altri paesi europei in cui il fenomeno migratorio risale molto più indietro nel tempo1. La critica accademica, così come le grandi case editrici, non hanno saputo cogliere subito la grande novità, molti contributi –scrive Camilotti– sono venuti da formatori e insegnanti attivi nelle scuole e nelle associazioni, che hanno intuito la potenzialità didattico-educative di molti testi. Ben venga quindi un saggio come questo di Silvia Camilotti che da tempo si occupa di queste scritture2.

Nella prima parte «Per una rinnovata

1. V. i dossier: Letteratura della migrazione in Italia. Riviste on line, “strumenti” n.42/2006; Europa/Europe. Riflessioni e spunti didattici per una lettura delle nuove realtà europee,

“strumenti” n. 44/2006; La scuola incontra gli scrittori migranti. Percorsi didattici, linguaggi e confronti, “strumenti” n. 49/2008.

2. ha curato i volumi Lingue e letterature in movimento. Scrittrici emergenti nel panorama letterario italiano contemporaneo. (2008); Roba da donne. Emancipazione e scrittura nei percorsi di autrici del mondo (2009); coautrice con stefano Zangrando di Letteratura e migrazione in Italia. Studi e dialoghi (2010).

coscienza del sé e della sua storia» l’Autrice ripercorre in modo ampio e articolato i pro-cessi che hanno plasmato e modificato nel tempo la coscienza dell’identità nazionale. «Ciascun soggetto –scrive– si colloca tra più appartenenze, anche tra loro contraddittorie, e lo stesso si dica per le società, che nascono dallo scambio e che sopravvivono in virtù di esso»; argomento da tempo presente nel di-battito intellettuale internazionale (Bauman, Said, Maalouf, Todorov, Glissant, Aime...) mentre nel contesto italiano sembra persiste-re una «martellante retorica che tende a con-gelare i caratteri dell’ “identità”», una retorica della paura e del sospetto che crea barriere, ostacola la conoscenza, rivela l’incapacità di immaginare una realtà complessa. (pp.20;9)

Dopo aver individuato i presupposti teorici della sua ricerca Camilotti affronta il rapporto tra identità e letteratura nazionale sottolineando la grande importanza assunta dal canone letterario nel definire e rafforzare l’identità culturale di una nazione. Nel corso della storia la letteratura è servita a plasmare la rappresentazione del paese, è il caso, ad esempio, di Cuore e Le avventure di Pinocchio, che all’indomani della nascita dello stato unitario hanno contribuito alla creazione di una rappresentazione collettiva, quindi al rafforzamento dell’idea di identità e del carattere nazionale.

«Le avventure, a prescindere dall’impo-stazione fiabesca, presentano sullo sfondo un paese in trasformazione, umile ma

sulla strada del progresso, dove il percorso di un singolo alla ricerca di se stesso è metafora dell’intera collettività. (…) Ciò che appare unanimemente assodato è che un testo come Le avventure di Pinocchio ha contribuito a rappresentare e forgiare l’idea di italiano medio» (p. 47)

La letteratura quindi offriva un reperto-rio di immagini che rafforzavano la nozione di identità nazionale anche se –va detto– nel-lo stesso periodo storico comparivano opere che mettevano in luce alcuni vizi nazionali allo scopo di contribuire a un loro supera-mento, ma che finivano invece per naturaliz-zarli. (p. 40).

In seguito questa funzione rappresen-tativa della letteratura si è indebolita anche a causa della scissione che è venuta a crearsi tra cultura e società, alle spinte centrifughe e localistiche che sono andate aumentando in un’Italia diventata nel frattempo sempre più multiculturale. In questa Italia, trasformatasi da terra di emigrazione in terra di immigra-zione, negli ultimi vent’anni è emerso un fenomeno nuovo, quello della scrittura di donne e uomini provenienti da tutti i conti-nenti. Una scrittura che sembra restituire alla letteratura italiana, dominata da un esaspera-to solipsismo, «quella funzione rappresenta-tiva della società oggi a rischio di paralisi».

Un fenomeno difficilmente etichettabile, infatti sono diverse le definizioni trovate: Letteratura della migrazione, Letteratura na-

PAROLE, MUSICHE, IMMAGINI

a cura di anna di sapio

Ripensare la letteratura e l’identità.La narrativa italiana di Gabriella Ghermandi e Jarmila OčkayovàSILVIA CAMILOTTICollana Studi interdisciplinari su Traduzione, Lingue e Culture Bononia University Press, Bologna, 2012

44 Cultura scientifica e cultura umanistica – parole, musiche, immagini

scente, Scritture letterarie, Scrittori italofoni, Scritture migranti. C’è chi pensa che non si possa continuare a considerarlo un fenome-no parallelo alla letteratura italiana, ma che vada inserito a pieno titolo in essa. Anche tra gli stessi protagonisti c’è chi, come Laila Wa-dia, Christana de Caldas Brito, Tahar Lamri, in varie occasioni hanno sottolineato i limiti di queste categorizzazioni (p. 58) e il rischio di una chiave di lettura «etnica». Oggi inoltre sono approdati al mercato editoriale alcuni autori, figli di immigrati, nati o cresciuti in Italia e per i quali l’italiano è la lingua madre, che senso avrebbe continuare a definirli scrittori migranti?

Altro errore da evitare è quello di leggere questi testi solo in chiave sociologica, un approccio giustificabile all’inizio del feno-meno, all’apparire delle prime opere scritte da migranti, oggi si pone invece il problema della letterarietà, del valore letterario di questi testi: «l’aver vissuto un’esperienza di migrazione non conferisce automaticamente la patente di scrittore: c’era chi, in origine, ha scritto della propria esperienza ed in virtù di ciò è stato preso in considerazione dalla critica, ma in vent’anni la situazione si è molto evoluta emancipandosi dalle griglie tematiche del viaggio e formali dell’autobio-grafia.» (p. 53)

Le opere di queste scrittrici e scritto-ri –scrive Camilotti concludendo la prima parte– esprimono le trasformazioni che le migrazioni hanno operato in Italia da una ventina d’anni a questa parte, mettendo in crisi una rappresentazione rigida del concetto di identità e riannodando il rapporto tra lette-ratura e società, tra narrazione e identità. «La letteratura diviene il campo privilegiato per sviluppare una presa di coscienza di sé e della realtà circostante, sia per le autrici che per i lettori». (p. 69) Vanno in questa direzione Jarmila Očkayovà e Gabriella Ghermandi che rileggono Le avventure di Pinocchio e Tempo di uccidere, due testi della tradizione italiana, riscrivendoli, togliendo e aggiungendo signi-ficati nuovi.

Così la letteratura che in un dato pe-riodo storico è servita a definire e rafforzare l’idea di identità della nazione, ora può servire ad una decostruzione di questa stessa identità. Očkayovà e Ghermandi rivedono la tradizione ma collocandosi al suo interno, la trasformano e nello stesso tempo acquisi-scono una nuova consapevolezza di sé come soggetti attivi, si riappropriano «della propria voce all’interno di una tradizione che non aveva previsto spazi per essa». (p. 71)

Alle opere di queste due autrici sono

dedicate la seconda e la terza parte del saggio: Pinocchio re-visited e Tempo di sanare.

Occhio a Pinocchio è l’opera più recente di Jarmila Očkayovà che ha al suo attivo tre romanzi (Verrà la vita e avrà i tuoi occhi; L’essenziale è invisibile agli occhi; Requiem per tre padri), la traduzione in italiano del repertorio di fiabe slovacche (Il re del tempo e altre fiabe), un libro per ragazzi (Appunta-mento nel bosco). In tutta la produzione di questa autrice –sottolinea Camilotti– forte è l’attenzione e il rispetto della natura che in Occhio a Pinocchio diventa «protagonista e interlocutrice del burattino, luogo da cui egli origina ma anche fonte di contrasti, incarnati dai maestri del bosco, ognuno con il nome di un albero.» (p. 79) La riflessione sulla lingua è l’altro elemento che ricorre in tutte le sue opere e nasce dal bisogno di parole «vere, piene, dense, toccanti» di fronte a una realtà in cui esse sono svuotate di significato, prive di autenticità3.

Occhio a Pinocchio riscrive la storia del celebre burattino di Collodi alla luce di alcune caratteristiche della questione identitaria, la ricerca di sé e di relazione con l’altro, que-stioni che animano il dibattito pubblico e che sono ben presenti nella coscienza collettiva. Pur non discostandosi dal racconto tradizio-nale Očkayovà offre una versione alternativa della storia, introducendo anche personaggi nuovi come i maestri del bosco «che vogliono nascondere le loro debolezze, mascherandole con la logica e la razionalità» (p. 97); hanno una visione egocentrica del mondo, incapaci di ascoltare le ragioni degli altri, temono tutto ciò che non riescono a capire e che non rientra nelle loro categorie. Occhio di pino è un figlio del bosco che desidera entrare a far parte del mondo degli uomini, ma si ribella ai canoni, a una visione predeterminata del mondo e del linguaggio, per questo finisce per essere rifiutato da entrambi. Anche lui alla fine riuscirà a diventare uomo, ma a differen-za del Pinocchio collodiano (per il quale la trasformazione arriva come ricompensa per le fatiche affrontate) l’epilogo non include né redenzione, né salvezza e il prezzo da pagare per diventare umano è molto più alto. (p. 114)

«L’operazione letteraria di Očkayovà –conclude Camilotti– non solo rielabora un classico, ma offre un’immagine di identità articolata, che resiste alle categorizzazioni nonostante i tentativi più o meno violenti di soppressione e silenzio. Dietro la maschera

3. V. dossier Parole, parole, parole... Restituire senso e dignità alle parole, “strumenti” n. 57/2011

della fantasia, la scrittrice descrive anche una fase della storia italiana dell’oggi, in cui tante voci marginalizzate chiedono ascolto, rispetto e riconoscimento. (…) La storia del Pinocchio re-vised, riattualiz-zando un classico scritto in un momento cruciale quale quello della fondazione dello stato nazionale, lo rende significativo alla luce del nuovo contesto in cui prende forma, dove le migrazioni ricoprono un ruolo decisivo e il dibattito intorno ai temi dell’identità e dell’appartenenza è più che mai vivace.». (pp. 121-2)4

Gabriella Ghermandi, scrittrice italo-etiope, si confronta con un altro classico italiano, Tempo di uccidere di Ennio Flaiano, offrendoci una riflessione critica sulla nostra storia e su alcuni miti duri a morire come quello di un colonialismo italiano diverso e migliore degli altri che lo hanno preceduto. Regina di fiori e di perle, così come le opere di altre scrittrici provenienti dalle ex colonie italiane5, ci invita a ripensare il periodo coloniale, un periodo della storia nazionale,

4. Per un’analisi compara dei due testi v. anche g. Bocchinfuso, Sulle tracce di Pinocchio. Un percorso di analisi comparata,

“strumenti” n. 49/2008

5. igiaba scego, cristina ali Farah, ribka sibhatu, shirin ramzanali Fazel.

45Strumenticres n.60 – febbraio 2013

Jarmila Ockayovà Occhio a Pinocchio

c. iannone editore, 2006, pp. 190.

troppo presto rimosso, offrendoci il punto di vista del colonizzato. L’immaginario coloniale costruitosi nel tempo grazie anche a lettera-tura, cinema, arte e fotografia, oggi influenza la relazione con i migranti, riemergono quin-di nella mentalità i dispositivi del razzismo coloniale.

Con Tempo di uccidere Flaiano prende le distanze dalla retorica fascista che inneggia alle imprese coloniali, ma è un’Africa statica, immobile quella che emerge dal racconto, e gli africani scorrono sullo sfondo come pedine vuote, prive di umanità. Più incisivo risulta il suo scetticismo nei confronti della guerra coloniale nelle pagine del diario, che Flaiano tiene durante la guerra in Etiopia, o nelle interviste, ma sostanzialmente la sua visione sugli africani resta nella scia dell’im-maginario coloniale.

Il racconto di Ghermandi si presenta come un controdiscorso «che riconsegna il ruolo di soggetto a persone e popoli resi per decenni oggetti dalle rappresentazioni culturali e dalla retorica coloniale». (p. 131) La scrittrice ci mostra una realtà africana complessa, dinamica, articolata, e la descri-zione dei personaggi italiani non è affatto manichea, ma piena di sfumature. E non ci sono rivendicazioni, ma l’invito agli italiani a «ripensare se stessi in rapporto a una troppo edulcorata memoria coloniale.», (p. 158) il desiderio di ricostruire la vicenda coloniale affinché diventi «occasione di una presa di coscienza e di incontro», perché oggi è il tempo di sanare quella ferita ancora aperta, il tempo di riconoscere che quella storia è una storia comune.

Tempo di uccidere e Regina di fiori e di perle cercano entrambi di far luce su un momento storico comune a italiani e etiopi, ma mentre il racconto di Flaiano si chiude con la sensazione di sconfitta, di disillusione, il racconto di Ghermandi si apre alla spe-ranza di un incontro, di «una relazione più consapevole alla luce di un passato condiviso e priva di quelle diffidenze che minano la re-alizzazione di un rapporto davvero paritario». (p. 161)

Le opere di Očkayovà e Ghermandi, frutto anche dei processi migratori che ca-ratterizzano il nostro tempo, ci dicono molto sulla nostra società e anticipano quella che sarà la letteratura (e la società) del futuro.

Amitav Ghosh, antropologo, storico, sociologo, romanziere e linguista poliglotta, indiano, nato a Calcutta e docente negli USA, ama documentarsi lunga-mente prima di ambientare un nuovo romanzo: studi scientifici e storici sono sempre l’accurata base di preparazione dei suoi te-sti e costituiscono per lui la parte più affascinante e stimolante. Questi dati scientifici o eventi storici reali, accanto a situazioni inventate, si intrecciano a nar-razioni sottaciute sia collettive che individuali, che risultano la parte pulsante, il cuore del rac-conto. Ma il narrare storie non è tanto in funzione di dare voce a chi voce non ha, dato che Ghosh non è un attivista politico. Attra-verso situazioni e personaggi, lo scrittore vuole restituire la com-plessità del mondo in cui vive/viviamo. Esplora le connessioni e relazioni palesi o tacite tra la persona e le persone, tra la Sto-ria e le proprie storie, rintraccia e ricompone tasselli scomparsi di un mosaico che vuol dar conto del contraddittorio reale. In una lettura non univoca. In una conclusione aperta. Infatti in una intervista sottolinea: Non mi interessano le tematiche intimiste, domestiche, che si sono ritirate dal territorio che un tempo apparteneva al romanzo. Balzac e Melville non avevano esitazioni

a scrivere dei sistemi finanziari o del mondo naturale. I miei inte-ressi, allo stesso modo, spaziano.1

Il paese delle maree è la storia di un luogo, le isole Sun-darban –il paese delle maree del titolo–, e di tre personaggi non autoctoni le cui vite si intreccia-no e finiscono per essere influen-zate dal posto in cui gli eventi li portano a vivere. Temi salienti del romanzo possono brevemen-te riassumersi nella questione ecologica (Piya), la dignità degli esseri umani di qualsiasi livello culturale (Nirmal, Nilima), il rispetto delle scelte di vita com-piute, dietro le quali c’è sempre una storia. E la necessità di un traduttore che le interpreti, le traduca sulla pagina (Kanai).

Il paese delle maree ha un suo ritmo particolare che sembra richiamare il flusso dell’acqua durante le maree nell’echeggian-te alternarsi delle vicende di Piya, di Kanai e di Nirmal e riesce a far dialogare escursioni temporali, viaggi e conoscenza con la poe-sia, l’economia, l’antropologia, la biologia, la storia.

La trama di per sé è abbastanza semplice. Siamo nel 2000 circa. Piya, una biologa marina di Seattle ma di origini

1. intervista di lara crinò, la repubblica, 11/06/2005

a cura di shara ponti

Il paese delle mareeAMITAV GHOSHNeri Pozza, 2005(The Hungry Tide, 2004, traduzione dall’inglese di Anna Nadotti)

46 Cultura scientifica e cultura umanistica – parole, musiche, immagini

indiane, arriva a Calcutta e sul treno per le isole Sundarban, dove intende portare avanti le ricerche sul delfino gangetico, si imbatte in Kanai, interprete poliglotta e imprenditore di Delhi, diretto a Lusibari (la più lontana delle isole abitate dei Sundarban) per i diari che lo zio Nirmal, intellettuale e marxista morto nel 1979, gli ha lasciato e che sono stati recentemente ritrovati. Piya, dopo una disav-ventura quasi fatale, é salvata da Fokir, taciturno pescatore di granchi ed esperto conoscitore dell’arcipelago, il suo mondo. Non hanno una lingua comune ma comunicano intendendosi alla perfezione, tanto che lui la saprà guidare nei luoghi che lei cerca per le rilevazioni scienti-fiche. Di ritorno a Lusibari, Piya è ospitata con Kanai dalla zia di lui, Nilima. Quando si reimbarca per proseguire le ricerche, Kanai decide di seguirla per farle da interprete. Mentre Fokir è con Piya per i rilevamenti scientifici, un ciclone devastante li investe. Piya sopravvivrà grazie alle conoscenze di Fokir, che per proteggerla perirà. Diario dello zio e appunti scientifici andran-no persi, inghiottiti dalle acque. Dopo una breve assenza, Kanai annuncia il ritorno a Lusibari e l’intento di trasferirsi a Calcutta per lavorare alla pubblicazione delle memorie dello zio. Piya, dopo un intervallo da parenti a Calcutta, pure ritorna nell’isola con finanziamenti sufficienti per la moglie di Fokir e l’istruzione del figlio e fondi ricevuti da associazioni ambientaliste per proseguire i propri rilievi scien-tifici. Ma da scienziata attenta e sensibile, alla luce degli eventi appena conclusi, aggiunge:

Non voglio fare quel tipo di la-voro che fa ricadere i costi del-la conservazione ambientale su chi meno li può sopportare. Se devo avviare un progetto qui, voglio che sia sotto l’egida del Badabon Trust e che si svolga in collaborazione con i pescatori della zona.

Le dolorose vicende del passato recente e remoto (la morte di Fokir, ma anche l’ecci-dio degli occupanti di Morichja-pi2) e la rielaborazione della loro esperienza (cioè la follia di disgiungere ideali sociali o acquisizioni scientifiche dall’im-patto di questi su vita quotidiana e persone) hanno illuminato la sua decisione.

La scienza avulsa dalla vita e dalla ricaduta su di essa è un assurdo: le/gli scienziati/e come soggetti osservanti, l’og-getto in osservazione e il conte-sto nel quale questo esiste sono strettamente interrelati ed è in questa inter-relazione vivente che le scoperte scientifiche deb-bono essere interrogate e trovare esistenza, senso e operatività. E se è vero che lo stupore è alla base della poesia, della filosofia e ma anche delle scienze, e ci spinge a porci delle domande, ad ascoltare i nostri perché, è altret-tanto vero che tutti gli ambiti del sapere muovono verso la com-prensione, se non lo svelamento, di quel nucleo indicibile, a volte indecifrabile, che sta al cuore della vita.

Co-protagonista di questo

2. gli avvenimenti principali sull’isola di morichjhapi, sono eventi storici, anche se scarsamente conosciuti, si potrebbe dire rimossi dalla coscienza storica indiana. sir daniel hamilton propose la colonizzazione di quest’area acquistandola dal governo britannico all’inizio del ‘900, così come è ben raccontato nel romanzo. chi si insediava nei sundarban otteneva da hamilton del terreno, a patto di rinunciare alla propria casta ed ai privilegi connessi. il nobile scozzese voleva dar vita ad un movimento cooperativo che fosse di esempio all’intero subcontinente. un coraggioso esperimento comunitario di sapore utopistico finito in tragedia.

testo non è tanto un personaggio, ma piuttosto un luogo: i Sundar-ban, la più vasta foresta lagunare del pianeta, arcipelago di isole sul delta di due fiumi, il Gange e il Brahmaputra, al confine tra il Bengala occidentale e il Bangladesh.

Il paesaggio non è mai uguale, cambia continuamente forma e aspetto secondo le maree e le stagioni ed è tal-mente unico che l’UNESCO ha dichiarato quest’area patrimonio dell’umanità. Anche perché qui vivono numerose specie di ani-mali selvatici in via di estinzione, tra cui la celebre tigre reale del Bengala…. e il delfino gangetico, ed entrambi hanno una parte importante nel romanzo.

In questo romanzo l’ambientazione è unica perché la sua fluidità e mutevolezza continua possono simboleggiare l’intero universo:

Le isole sono fili che restano del tessuto dell’India, la frangia sbrindellata del suo sari… sono ciò che i fiumi restituiscono, le offerte con cui essi rendono alla terra ciò che le hanno tolto… i confini tra terra e acqua sono in costante mutamento, costantemente imprevedibili…Non ci sono confini che dividano l’acqua dolce da quella salata, i fiumi dal mare. Le maree ricoprono la terra per trecento chilometri e ogni giorno migliaia di acri di foresta scompaiono sott’ac-qua per riemergere poche ore dopo…. A volte l’acqua stacca interi promontori e penisole, altre volte fa emergere argini e lingue di terra che prima non c’erano.

Nel paese delle maree non c’è soluzione di continuità tra ciò che è umano e ciò che è naturale o animale, tra il linguaggio della natura e quello degli uomini, tra mare e acqua dolce, tra terra e acqua, tra passato e presente. Inoltre, la morfologia di un luogo dà inevitabilmente forma al linguaggio che la descrive. E Amitav Ghosh sa mettere in sce-

na personaggi che si capiscono pur parlando idiomi diversi, o pur senza proferir verbo. E che sanno parlare anche a chi abita in città, a chi legge:

Da quel momento in poi ogni cosa mi apparve nuova, inaspettata, piena di sorprese… mi resi conto che un paesaggio non è molto diverso da un libro… Si apre un libro in base al gusto, all’educazione, ai ricordi, ai desideri: per un geologo si apre a una certa pagina, per un pescatore ad un’altra e un’altra ancora per il capitano di una nave, e anco-ra un’altra per un pittore… Per me uomo di città, la giungla del paese delle maree era uno spazio vuoto, un luogo in cui il tempo si era fermato, ma in quel momento mi resi conto che mi sbagliavo, che era vero esattamente il contrario…

Per Amitav Ghosh, scrittore che sa ricreare la complessità di ambientazioni piene di fascino, la bellezza dei Sundarbar più che nel paesaggio è, a-romanti-camente, nel difficile rapporto che gli uomini hanno avuto con questo fin dai primi insediamen-ti all’inizio del ‘900. La bellezza non si limita a una contempla-zione distaccata e meramente estetica, ma implica la compren-sione dei nessi sfaccettati e unici tra natura e umano. La bellezza è fatta di relazioni. E le relazioni sono più importanti delle cose in sé. Lo scrittore sottolinea l’amore della complessità, ma anche i limiti della conoscenza astratta. Esattamente come per Rainer Maria Rilke, le cui Elegie duinesi costituiscono un inter-testo dialogante di riferimento e riflessione sia per Nirmal sia per il nipote Kanai.

Il paese delle maree non vuole dar voce o sovrapporsi al punto di vista dei locali, dei

“subalterni”, rispettosamente lasciati al proprio silenzio. Sia Piya che Kanai che Nirmal non vogliono conoscere i nativi né far

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proprio il loro punto di vista, ma imparare da essi, condividere qualcosa con loro. Il nativo non è l’oggetto dello studio né della conoscenza vuoi dei protagonisti o del narratore, ma soggetto au-tonomo solo in parte conosciuto e conoscibile. E questo atteggia-mento si distanzia assolutamen-te da scrittori coloniali prece-denti come Kipling o Conrad per esempio.

L’estraneità ambientale dei tre personaggi principali li rende sensibili alla differenza, non intesa come esotismo o orien-talismo come direbbe Edward Said, e fa loro comprendere la relatività della loro cultura. Anche se talvolta sono vittime di un complesso di superiorità culturale e intellettuale, sanno infine vedere la cultura dell’altro e il proprio limite: Piya è affetta da una certa ripugnanza per il cibo, gli insetti, il fango ma deci-derà di trovare fondi e proseguire a Lusibari le sue osservazioni scientifiche; Nirmal da buon ma-terialista disprezza le credenze e quel che giudica superstizioni locali, ma alla fine troverà linfa e senso della vita condividendo gli eventi con gli abitanti di Mori-chjapi, insieme ai quali conclude la sua avventura terrena; in Ka-nai è chiara la differenza tra chi è cittadino e chi non lo è, tanto che pensava di esser scevro di pregiudizi nei confronti degli isolani, ma solo dopo l’espe-rienza nella giungla li supererà e lui, imprenditore tronfio dei suoi guadagni e della posizione sociale raggiunta, deciderà di dedicarsi alla pubblicazione del diario di riflessioni, di poesia e di stupore dello zio Nirmal.

Sebbene tutti e tre siano di origine cittadina, nessuno alla fin fine è estraneo ai Sundarban: Kanai ha trascorso un periodo a Lusibari da piccolo con gli zii; Nirmal ha lasciato Calcutta facendo il preside per oltre trent’anni a Lusibari insieme alla moglie Nilima, che con senso pratico vi ha fondato una ONG di donne il cui fiore all’occhiello

è l’ospedale; Piya è americana ma di origine bengalese, e pur avendo rimosso la lingua genito-riale ha una affinità che le viene dalla sua passione per la fauna acquatica.

Nessuno dei personaggi ha la chiave di volta o si fa interpre-te unico degli eventi. Ciascuno risulta portatore di una specifica modalità conoscitiva, che è la conoscenza scientifica nel caso di Piya, linguistica nel caso di Kanai, politica e poetica per Nir-mal, che filtra la sua narrazione e lettura attraverso Marx e Rilke.

Dice di lui il nipote Kanai:Nirmal… adorava Rainer Maria Rilke, il grande poeta tedesco, la cui opera era stata tradotta in bengali da uno dei nostri maggiori poeti, Buddhaveda Basu. Rilke di-ceva: “la vita nostra trascorre in trasformazione” e io sono convinto che Nirmal avesse assorbito quell’idea come la stoffa assorbe l’inchiostro… Per lui significava che c’è una connessione tra tutte le cose che esistono: gli alberi, il cielo, il clima, le persone, la poesia, la scienza, la natura. Scovava i fatti come le gazze raccol-gono gli oggetti che luccicano. Eppure quando li legava tutti insieme, in qualche modo diventavano delle storie… un certo tipo di storie… nel 1970 mi urlò: “Un posto è come uno se lo immagina!”

E nell’intellettuale marxista un po’ si delinea Amitav Ghosh se in una intervista lui stesso afferma:

Luoghi e persone devono inventare nuovi modi di com-prensione reciproca. Io stesso mi sento un traduttore. Parlo bengali, inglese, hindi, arabo, francese e ognuna di queste lingue crea differenti immagini della realtà e ha effetti sulla mia scrittura.3

Sarà sicuramente per questo che sa infondere una straordinaria energia narrativa

3. intervista di lara crinò. cit.

in linguaggi diversissimi, dal discorso scientifico ed ecologista di Piya a quello poetico non solo di Rilke ma anche di Bon Bibi, la creatura leggendaria della tradizione islamica che viene invocata dagli abitanti induisti dell’arcipelago come divinità protettrice contro la minaccia incombente delle tigri. Anche in questo lembo di terra ostica e lontana dai centri decisionali, gli echi della storia nazionale si son fatti sentire riverberando gli effetti delle Partizione e della coesistenza plurisecolare tra musulmani e induisti, piuttosto che gli effetti del colonialismo e dei grandi scontri ideologici del Novecento, tra comunismo e nazionalismo indiano.

Ma al giorno d’oggi non è più possibile circoscrivere i conflitti ad alcune zone, come la storia recente ci insegna, poichè questi si ripercuotono a catena, come onde, sulle zone limitrofe e non solo. La globalizzazione abbiamo imparato che è anche questo e, con Amitav Ghosh si può dire: Conosciamo il mondo solo in modo frammentario, e quello che mi interessa è esplorarne le inter-connessioni. La letteratura per molto tempo è stata, come dire, «monolingue», legata a un’unica circostanza. Quello che facciamo ora è esplorare il mondo di doma-ni, in cui sarà sempre più comune trovarsi a contatto con diverse situazioni, in cui la situazione «monolingue» non esisterà più. Per questo, penso che il vero tema del Paese delle maree sia proprio questa necessità di «traduzione».4

E chi meglio di lui può tradurci questi vasti orizzonti in modo non frammentato, lui grande curioso e viaggiatore instancabile che forse proprio per abitare più di un paese, e di ognuno voler imparare la lingua e assorbirne la cultura, per questo suo ‘spaesamento’ ha imparato e ci invita a stare ‘tra’.

4. intervista di maria teresa carbone, il manifesto

PICCOLA BIBLIOGRAFIANARRATIVA

Il cerchio della ragione (The Circle of Reason, 1986) – garzanti, 1986. Le linee d’ombra (The Shadow Lines, 1988) – einaudi, 1990. Il cromosoma Calcutta (The Calcutta Chromosome, 1995)

– einaudi, 1996. Il palazzo degli specchi (The Glass Palace, 2000) –einau-di, 2001. Il paese delle maree (The Hungry Tide, 2005) – neri Pozza, 2005. Mare di papaveri (Sea of Poppies, 2008) – neri Pozza, 2008 (primo di una trilogia). Il fiume dell’oppio (River of Smoke, 2011) – neri Pozza, 2011 (secondo della trilogia).

saggistica Lo schiavo del manoscritto (In an Antique Land, 1992) – einaudi, 1993. Estremi orienti: due reportage (Dancing in Cambodia e At Large in Burma, 1998) – ei-naudi, 1998. Circostanze incendiarie: cronaca del mondo che viene (Incendiary Circumstances: a Chronicle of the Turmoil of Our Times, 2006) – neri Pozza, 2006.

48 Cultura scientifica e cultura umanistica – parole, musiche, immagini

Hayao Miyazaki: il delicato equilibrio tra natura e téchne di stefano locati, giornalista e critico cinematografico*

*Vice-direttore dell’asian Film Festival di reggio emilia, caporedattore della rivista Widescreen.

Hayao Miyazaki, nato nel 1941 nella prefettura di Tokyo, è il più grande poeta contemporaneo dei disegni animati. La sua carriera riconcilia la passione per la narrazione pura con una sensibilità rara nell’espressione delle emozioni e con l’esplosione di un senso del meraviglioso primordiale. Premiato con l’Oscar per La città incantata (2001), già Orso d’Oro al festival di Berlino, e con un riconoscimen-to alla carriera dalla Mostra del cinema di Venezia nel 2005, è ormai un’icona a livello mondiale, i cui film raggiungono regolar-mente la vetta del box office giapponesse. Dopo il successo di Nausicaa della valle del vento (1984), crea insieme a Isao Takahata lo Studio Ghibli, diventato nel tempo sino-nimo di qualità artistica senza compromes-si, riverito da personaggi chiave come John Lasseter, tra i fondatori della Pixar.

Miyazaki ha sempre avuto un rappor-to privilegiato con l’Italia, dalla realizza-zione della serie televisiva animata Il fiuto di Sherlock Holmes (1984-5), a partire da un’idea del disegnatore Marco Pagot, figlio di Nino e nipote di Toni, i creatori di Calimero (1963), al lungometraggio Porco Rosso (1992), con protagonista un abile pilota di monoplani trasformatosi misterio-samente in maiale, ambientato nella nostra penisola nel periodo d’annunziano, come testimonia la famosa battuta “meglio porco che fascista”. Ma, soprattutto, l’artista nipponico è stato influenzato dal contatto diretto con la tecnologia: durante la secon-da guerra mondiale suo padre Katsuji era infatti direttore della Miyazaki Airplane, che costruiva timoni e altre componenti per i caccia A6M zero dell’aviazione impe-riale giapponese. Miyazaki è cresciuto con una fascinazione quasi mistica per il volo e la passione per il disegno tecnico, tramite cui riproduceva minuziosamente aeropla-ni, navi e altri portati dell’avanzamento

tecnologico nel Giappone del nascente boom economico. È da qui che prende forma la decisione di diventare disegna-tore di manga, i fumetti giapponesi, che si trasforma in quella di diventare animatore dopo la visione di Hakujaden (La leggenda del serpente bianco, 1958), primo cartone animato giapponese interamente a colori.

Dall’ingresso nel 1963 negli studi Toei Doga –la Disney d’oriente, come si definiva la compagnia all’epoca– alla fondazione del proprio studio, Miyazaki acquista len-tamente consapevolezza del proprio stile ed elabora i temi fondanti della sua opera. Uno dei più evidenti è quello ecologista, in cui l’artista mette a confronto l’inesorabile progresso tecnico-scientifico umano e le disastrose conseguenze ambientali. Intor-no a questo snodo nevralgico ruotano altri temi che hanno come comune denomina-tore l’osservazione dell’uomo, analizzato con sguardo antropologico, e il suo posto nella natura. Può sembrare strano che un giovane cresciuto con il mito dei motori degli aeroplani (e velivoli dalle forme fantastiche o avveniristiche sono quasi sempre presenti nelle sue storie) abbia una visione tanto netta delle interconnessioni nell’ecosistema terrestre, ma è proprio dall’indagine dei fragili equilibri ambientali e sociali che nasce la sua visione sincretica e poetica di ciò che ci circonda.

Lontano da qualsiasi accento mani-cheo o dualista, Miyazaki rifiuta le sempli-ficazioni e di conseguenza si tiene lontano dalla vulgata tesa banalmente a demoniz-zare la ricerca scientifica a favore di una presunta visione “naturale” o spirituale del mondo –e dell’uomo. Anche nelle pre-sentazioni più esplicite, come nella serie tv animata in 26 episodi Conan, il ragazzo del futuro (1978), ambientata nel 2028, vent’anni dopo la fine della terza guerra mondiale, l’accento estremamente critico

La Principessa MononokeHAYAO MIYAzAKIAnimazione, durata 113'Giappone 1997

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con cui è dipinta la scienza, responsabile della catastrofe naturale che ha portato l’umanità sull’orlo dell’estinzione, non si riversa sulla scienza in sé, ma sulla società tecnocratica rappresentata da Indastria, una morbosa dittatura che vuole conqui-stare a sé il resto del mondo: in questa serie dai toni nostalgici, tratta da un romanzo di formazione dell’inglese Alexander Key, il male non sta nella ricerca della cono-scenza, ma nel suo stravolgimento sociale, simboleggiato da Indastria. L’alternativa, rappresentata dall’isola di High Harbor, sembra di primo acchito una società total-mente preindustriale, in cui vige il rifiuto del progresso, basata sull’agricoltura e la pastorizia; guardando con più attenzio-ne, però, è in realtà una società a diverso sviluppo tecnologico, in cui si prefigura una differente organizzazione della società. La divisione non è quindi tra una scienza vista come nociva (Indastria) e il ritorno a una organizzazione primitiva a-scientifica (High Harbor), ma tra diverse concezioni di scienza: la scienza è necessaria all’uomo, ma anche l’uomo deve rimanere necessario alla scienza, nel senso che nel farsi fon-damento del suo utilizzo può trovare una strada di convivenza non distruttiva con il mondo circostante.

In molti lavori successivi, special-mente nei lungometraggi, Miyazaki torna a indagare lo scarto tra uomo e natura, dal capolavoro Il mio vicino Totoro (1988), con il pacioso spirito dei boschi Totoro a fare da nume tutelare alla solitudine di una bambi-na, alle maledizioni strabilianti di Il castello errante di Howl (2004), fino alla favola per bambini più piccoli di Ponyo sulla scogliera (2008). Il cuore della concezione olistica miyazakiana è comunque racchiuso in Nausicaa della valle del vento, Laputa, il castello nel cielo (1986) e La principessa Mononoke (1997).

Nausicaa della valle del vento è do-minato da uno scenario post-apocalittico come Conan, il ragazzo del futuro: mille anni dopo un conflitto catastrofico, i pochi esseri umani sopravvissuti restano ai mar-gini di una sconfinata distesa radioattiva denominata Giungla Tossica. La fine del mondo è stata causata dall’azione di gigan-teschi robot meccanici chiamati Soldati Invincibili, diventati ormai fossili –tutti, tranne forse uno, miracolosamente ancora integro, e che non deve dunque cadere in mani sbagliate. La critica al prevalere di una visione tecnocratica si fonde con la prospettiva pacifista, in cui però il polo

opposto naturale è fonte sia di perenne stupore, con le immaginifiche creature fantastiche che popolano le terre desolate, che di costante pericolo, potenzialmente mortale: il mondo è un concentrato di contraddizioni in cui solo la purezza di sguardo (di cui la protagonista Nausicaa è portatrice) può ambire a trovare una sintesi sostenibile.

Anche in Laputa, il castello nel cielo un ruolo discriminante lo svolge lo stupore esercitato dallo sguardo: i giovani Sheeta e Pazu sono alla ricerca di una mitica isola volante, secondo le leggende sede di ricchezze incalcolabili. Inseguiti dallo spietato agente governativo Muska e dalla temibile banda di pirati capeggiata da Dola, i due ragazzini riescono finalmente a raggiungere l’isola, per scoprire un mondo in disfacimento in cui la strabiliante tec-nologia necessaria alla sospensione aerea è stata erosa e riappropriata dalla natura. Atterrati nel castello volante, Sheeta e Pazu osservano rapiti l’erba che invade le costruzioni, l’architettura che si è ormai fusa con la flora, e soprattutto l’arrivo di uno sgraziato robot. Dove gli inseguitori vedono potere e ricchezza, dominio e sopraffazione, un fortino da depredare e sfruttare (la scienza e la tecnologia avulsi dal contesto), i due protagonisti esperisco-no uno stupore incantato, in cui il sogno si impossessa della realtà ed è in grado di cortocircuitare mondi creduti separati: è il loro sguardo stupito a fare emergere il meraviglioso insito in ciò che li circonda, una nuova possibilità in cui la tecnologia più sfrenata convive con la lenta catarsi na-turale del vivente, esempio di una inedita, possibile sintesi.

Ma è soprattutto La principessa Mono-noke –in cui Mononoke non è il nome di un personaggio, ma la parola giapponese per

“spettro”, lasciata erroneamente invariata nella titolazione internazionale– a svelare nella sua totalità la visione di Miyaza-ki. Ambientato nel periodo Muromachi (1337-1573), prima della riunificazione del Giappone, il film è un’attenta fusione di elementi storici, fantastici e teorici che con l’usuale maestria visiva riesce ad approfon-dire temi stratificati con estrema lucidità. Vi si racconta dell’irruzione della tecnica e della scienza nella società feudale, e quindi l’ingresso nell’era moderna, verso l’indu-strializzazione. Lo sfondo è conflittuale: da un lato la natura, personificata nella rivolta degli animali e degli spiriti dei boschi, gui-dati da San, ragazza selvaggia allevata dai

Il castello nel cieloHAYAO MIYAzAKIAnimazione, durata 124'Giappone 1986

Nausicaa della valle del ventoHAYAO MIYAzAKIAnimazione, durata 116'Giappone 1984

50 Cultura scientifica e cultura umanistica – parole, musiche, immagini

lupi, dall’altro la tecnologia umana, perso-nificata dalla “città di ferro”, fortificazione umana fondata sull’estrazione mineraria e guidata da Eboshi, signora del villaggio e padrona delle armi da fuoco, che cerca di rubare alla natura la vetta di una montagna ricca di ferro. Questa ripartizione non è però sfruttata per inscenare una sterile contrapposizione tra natura e conoscenza, spirito e scienza, in cui si voglia far passare la superiorità arcadica della natura, ma per intavolare la ricerca di un difficile equili-brio, che tramite l’armonia degli elementi permetta una sorta di omeostasi tra natura e tecnica, in grado di portare alla prosperità e allo sviluppo.

In La principessa Mononoke non esistono eroi contro cattivi, come in molte favole anti-scientifiche in cui scienziati e latori di tecnologia sono descritti come aberranti mostruosità: Eboshi è una donna indipendente, determinata a portare il benessere alla sua gente, che ha liberato le donne dalla schiavitù del patriarcato, per donare loro la dignità del lavoro, che cura i lebbrosi e ha a cuore il loro destino. Allo stesso modo San non è una semplice eroi-na indomita, ma è ormai accecata dall’odio, incapace di vedere con serenità. E di nuovo lo sguardo, la volontà di vedere, è la chiave di volta della parabola narrativa. A intro-mettersi nella guerra tra le due è infatti Ashitaka, principe degli emishi (un’etnia che abitava nella regione di Tōhoku, nel nord est dell’isola principale di Honshū), le cui carni sono divorate da un demone cre-

ato dall’odio del conflitto. “Cosa sei venuto a fare qui, straniero?”, gli domanda a un certo punto Eboshi. “A vedere cosa accade con occhi non velati dall’odio”, risponde Ashitaka. Per vedere realmente, per poter comprendere ciò che si vede, è necessario metter da parte il pregiudizio. Solo in questo modo si può confrontare gli ele-menti, e cercare un equilibrio. La soluzione del conflitto non è né nella distruzione della tecnologia, per inseguire un illusorio

“ritorno alle origini”, né nella sottomissione completa della natura –sta piuttosto nella ricerca di una possibile armonia.

In questo anelito, Miyazaki svela una visione profondamente shintoista –la religione animista giapponese, nei secoli intersecatasi con tradizioni cinesi buddiste, taoiste e confuciane– in cui il fine dell’esi-stenza è visto nella ricerca dell’equilibrio degli elementi tra loro. Miyazaki offre una concezione filosofica dello shintoismo: già di per sé lo shintoismo, fatto insolito per una religione, è più interessato alla vita che alla morte, alla ricerca della felicità terrena piuttosto che a quella ultraterrena, ma Miyazaki spoglia la sua rilettura di qualsi-asi liturgia spirituale per offrire un ritratto profondamente umano, e quindi umanisti-co. La soluzione del conflitto tra natura e scienza non può essere l’annullamento di una delle due parti, ma la sintesi armonica, che è possibile intravedere solo spoglian-dosi del pregiudizio. San ed Eboshi sono entrambe inconsapevolmente parte di meccanismi sociali votati alla distruzione.

Lo sguardo di Ashitaka offre una possibile sintesi, proponendo uno scarto che muti le società che hanno creato il conflitto. Non è dunque la scienza in sé a rappresentare un pericolo, ma la società che la controlla: non è la scienza a dover essere modificata, o avversata, ma la prospettiva entro cui si muove, in una conclusione molto simile a quella tratteggiata dall’epistemologo delle scienze sociali Serge Latouche: c’è la “necessità di «reincorporare» la tecnica nel sociale. (…) Il dramma della tecnica moderna non consiste tanto nella tecnica quanto nel moderno, cioè nella società. Il fatto che la società uscita dai Lumi, emancipata da ogni trascendenza e da ogni tradizione abbia veramente rinunciato alla sua autonomia e si sia abbandonata alla regolazione eteronoma di meccanismi automatici per sottomettersi alle leggi del mercato e a quelle del sistema tecnico, è giunto a costituire un pericolo mortale per la sopravvivenza dell’umanità.”1 Se “la vita è dolore, sofferenza. Eppure non c’è uomo che non lotti per vivere fino all’ultimo”, come dice nel film un anziano lebbroso al servizio di Eboshi, per superare la soffe-renza bisogna modificare lo spettro sociale entro cui si muove la tecnica, unica ancora per assicurare un destino all’umanità.

1. serge latouche, La megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso, Bollati Boringhieri, torino 1995, pp. 17-8

Tutto l’immaginario di Miyazaki, in una marcia trionfale dietro al suo creatore.

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Foto in basso a sinistra: Simone Brioni coordinatore

dell’équipe che ha realizzato la duologia.

a cura di laura morini

Nel presentare questi lavori multimediali di due intellettuali africane, da tempo residenti in Italia e oggi cittadine del nostro paese, lasciamo la parola a Simone Brioni, dell’Università di Warwick, coordina-tore dell’équipe che ha realizzato la duologia composta da La quarta via: Mogadiscio, Italia e Aulò: Roma postcoloniale.

“Durante questi tre anni di lavoro ero assorbito dall’ascolto di storie che mi sembrava necessario condividere, e non sono stato toccato da molti altri pensieri. A posteriori, posso però dire che questi due documentari rispondono ad alcuni bisogni , che credo abbiano animato il nostro lavoro. Il bisogno di testimo-niare e veder rappresentate esperienze spesso relegate nel silenzio che sono cruciali per comprendere l’Italia di oggi. Il bisogno di contrastare l’assurda idea che il colonialismo sia stato un evento dopotutto positivo, specialmente in questo momento storico in cui una retorica neocoloniale viene utilizzata per giustificare gli interventi militari italiani nel mondo. Il bisogno di contrastare l’immagine distorta offerta dai media na-zionali circa l’immigrazione, ascoltando le voci di due intellettuali africane in Italia. Il bisogno di sollevare l’attenzione circa alcuni temi presenti nella letteratura post-coloniale italiana…

Questi documentari sono stati letteralmente autoprodotti dal basso, il nostro obiettivo è stato quello di realizzare un’opera in cui la volontà di parlare a un pubblico di non specialisti, il rigore scientifico e l’este-tica potessero conciliarsi.”

Il progetto si articola in due documentari corre-dati da materiali di approfondimento e contestualiz-zazione.

L’intervista filmata di Simone Brioni a Kaha Moha-med, profuga somala in Italia, residente da 19 anni a Pavia, in-treccia immagini, suoni e parole con grande capacità suggestiva.

Riesce a far rivivere, attra-verso la memoria di un’esule, la Mogadiscio in cui è vissuta, senza mai dimenticare che quella città, sognata e descritta con vivacità, oggi non si affaccia più sulla costa sinuosa dell’o-ceano indiano, vive solamente nel cuore e nella mente dei suoi abitanti, scacciati dalla guerra, oggi lontani eppure ancora legati al paese di origine dove gli è negato il ritorno.

Kaha si sente divisa fra opposti sentimenti, di appar-tenenza e non appartenenza alla Somalia. Ha bisogno di rinforzare le proprie radici coltivando i ricordi dell’infanzia e adolescenza vissute a Moga-discio, ma avverte anche la ne-cessità di prendere le distanze da una città resa irraggiungibile dalla guerra e dall’instabilità politica. Per questo rivolge il suo sguardo a Pavia, cerca nei luoghi e negli edifici della città in cui oggi vive, un radicamento nel presente, emozioni che si

intreccino con i ricordi sopiti e li mantengano vivi.

La collocazione geografica di Pavia sul Ticino le consente di seguire col pensiero il corso dell’acqua che la conduce fino al mare e quindi di evocare la sua città d’origine.

Scorrono sullo schermo le immagini della bianca Mogadi-scio di un tempo, con gli edifici islamici che ne disegnano il profilo.

Kaha trova una chiave poetica e pittorica per ordinare le immagini che le si affollano in mente: vede in Mogadiscio 4 vie che la percorrono quasi parallele, ciascuna caratterizza-ta da un colore .

La via verde è quella dell’i-slam, dei suoi luoghi di culto che un tempo si accostavano con naturalezza alle chiese cristiane, perché prima della guerra la convivenza era pacifi-ca e senza tensioni. Questo le manca della sua città: vedere una chiesa e una moschea affiancate…immagini che Pavia non può (ancora) offrire.

A fianco della via verde si snoda, nella memoria, una via nera, quella che conserva gli edifici del periodo coloniale

La quarta via: Mogadiscio, ItaliaDa un racconto orale di Kaha Mohamed AdenScritto da KAHA MOHAMED ADEN e SIMONE BRIONI

Produzione: RED DIGITALDistribuzione: KIMERA FILM

Visioni postcoloniali

52 Cultura scientifica e cultura umanistica – parole, musiche, immagini

Aulo’! Aulo’! Aulo’!Poesie di nostalgia, d’esilio e d’amoredi RIBKA SIBHATURoma postcolonialeVideo intervista a Ribka Sibhatu a cura di SIMONE BRIONI

Prod. RED DIGITALDis.: KIMERA FILM

italiano; qui sorgeva anche la cattedrale cattolica, affiancata dai giardini dove giocava bambi-na, la scuola che ha frequentato, dove ha imparato la lingua che è anche sua.

La critica al colonialismo è esplicita ma non rancorosa. Kaha ricorda come negli anni di amministrazione fiduciaria, su mandato delle Nazioni Uni-te (1950/60), i fascisti italiani siano tornati, di fatto, con i loro traffici e affari a animare e inquinare le attività dell’ex colonia.

Il racconto della giovane somala ci richiama alla nostra storia, all’impegno che dobbia-mo assumere per contrastare l’i-dea che il “nostro”colonialismo sia stato, dopotutto, un evento positivo. Lo dimostrano stralci di una trasmissione televisiva sulla fine della presenza italia-na in Somalia: sono infarciti dai consueti stereotipi sulla “nostra” memoria del periodo coloniale. Memoria mai sufficientemente rielaborata e ripensata critica-mente.

Sullo sfondo delle vie di Mogadiscio si delineano fatti storici solo accennati nel racconto di Kaha, ma riassunti con precisione nel fascicolo che accompagna il DVD.

Antonio Morone, docente all’Università di Pavia, nell’ar-ticolo Il colonialismo italiano passa per Pavia, ripercorre le vicende che vanno dagli anni Ottanta del XIX sc. agli anni sessanta del XX. Sfata miti con-solidati della memoria pubblica italiana e ricorda come “ luoghi, persone e ricorrenze testimo-niano tutt’oggi …legami fra Italia e Africa passati per il colonia-lismo e poi per la sua rimozione”.

La terza via è di colore rosso: è la via del socialismo. Si presenta ampia, alberata, costeggiata da edifici signifi-cativi: il teatro, la Casa delle donne, il Liceo, l’Università…E’ il segno tangibile della rinascita post- coloniale, rappresenta il progetto di un paese che voleva

costruire il proprio futuro. Ma Siad Barre ben presto ha trasfor-mato lo stato socialista in un regime clanico e clientelare.

Nel 1982 Mohamed Aden Sheik, padre di Kaha, che rive-stiva un ruolo importante nel governo e nel contesto culturale del paese, viene incarcerato come oppositore. La sua fami-glia deve fuggire all’estero.

Immagini crude ci riportano al presente: la città è semidistrutta, animali morenti si aggirano fra le rovine. E’ la via grigia, della guerra che nega la vita, la storia, la convivenza. La via grigia ha distrutto tutte le altre…

Kaha non ha più la forza di raccontare, Mogadiscio non è più una città, una casa, un luogo….forse la città che ricorda non è mai esistita.

Dopo 19 anni, ormai cittadina italiana, la giovane è riuscita a rivedere la sua vecchia casa, il luogo delle sue radici, ma ha incontrato solo donne avvolte in burka neri o grigi, nessuna indossa l’abito rosso e nero della tradizione somala

Eppure Kaha conclude la sua narrazione proponendo l’immagine della quinta via: è la via della speranza.

Nel fragile tessuto della memoria collettiva i somali della diaspora non dimenticano che in passato hanno saputo vi-vere insieme, costruire percorsi di convivenza pacifica. Dalle dure esperienze vissute hanno imparato che “essere radicati non vuol dire essere immobili e essere in movimento non significa essere sradicati.”

Questo documento-intervista si chiude con parole e immagini toccanti. E’ forse tal-volta un po’ difficile da seguire per problemi tecnici (variazioni nell’audio e scritte poco leggibi-li), ma è così ricco di spunti di riflessione, così rigoroso nella ricostruzione del contesto sto-rico che merita di essere visto e condiviso.

Questo testo multimediale unisce in un’unica narrazione, grazie alla raccolta di poesie che accompagna il filmato, e alla presenza dell’autrice, molti temi: storie di migra-zione dal Corno d’Africa verso l’Italia, in particolare quella della poetessa eritrea Ribka Sibhatu; le politiche coloniali e postcoloniali del nostro paese; l’impatto che le une e le altre hanno avuto sulla città di Roma; e infine, con non celata ironia, una rappresentazione della inconsapevole ignoranza con cui molti italiani guardano al nostro passato e alla società in cui viviamo.

L’immagine della scrittrice si staglia sullo sfondo di luoghi affascinanti e simbolici della capitale, (la Via Appia antica, il Vittoriale..) qui si collocano anche le sue poesie che entra-no in risonanza con la città e ne fanno emergere nuovi aspetti.

Ribka esordisce dichiaran-dosi “franco abissina di Roma”, e precisa: “ditemi pure nera perché son bella così”.

Queste prime immagini e parole del documentario definiscono con chiarezza l’ambito del discorso di Ribka

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A sinistra: Kaha Mohamed Aden, profuga somala, residente da 19 anni a Pavia. Sopra: Ribka Sibhatu, poetessa eritrea, residente a Roma.

e sottolineano lo spessore del “non detto” nella nostra cultura postcoloniale.

Na volta me cantavan“faccette nera bell’abissina”E me promettevan d’esser romana.

Li ho creduti E son volata quaggiù,cantando Modugno,e “o sole mio”.

Proprio n’a capisco sta’am-nesia:ero faccetta nera ieri, so’ straniera “de colore”, oggi.

Seguono immagini altret-tanto significative di interviste volanti ad alcuni italiani di età diverse. Eccetto un signore at-tempato, nessuno sa collocare l’Eritrea sulla carta geografica e circola solo qualche vaga idea sulle vicende politiche attuali e sulla storia del paese africano.

Ma torniamo a Ribka e alla sua identità. Sente il bisogno di raccontarsi a partire dalle sue tre radici: Eritrea, Francia e Italia.

“Roma –precisa– è il frutto che sto mangiando ora, vorrei colorare questa città con i colori e i profumi di Asmara.”

Il senso di questa affer-mazione è reso evidente dalle scene in cui la donna è ripresa mentre prepara e serve il caffè

eritreo nel piccolo cortile di una casa romana, i suoi gesti ci introducono nell’intimità quotidiana, siamo pronti ad ascoltare la sua storia.

Una storia personale che tuttavia non appartiene solo a lei, è il percorso seguito da migliaia di profughi eritrei, è un fiume che viene da lontano e ha le sue origini nelle vicende coloniali del suo paese.

Da questo punto, abban-donando lo spazio semiprivato del cortile il documentario si apre su spazi e luoghi simbolici di Roma.

Le immagini della via Appia, così ricca di storia, con-sentono di riandare a un tempo lontano, quando Asmara divenne capitale e la sua storia era raccontata dai poeti.

Anche Ribka vorrebbe raccontare per scritto la storia dei suoi antenati che è stata tramandata oralmente, nella sua famiglia allargata, per dodi-ci generazioni.

Aulò si chiamano questi componimenti poetici che esprimono non solo emozioni e sentimenti personali, ma interrogano e dialogano con la storia. Ribka ricorda il nonno che compose un Aulò di protesta e invocazione contro il colonialismo.

Il cammino di migrazione di Ribka, attraverso Etiopia e Francia, prima di giungere in

Italia, racchiude in sé la storia del Corno d’Africa negli ultimi decenni. E’ un percorso che attraversa guerre, lotte per la sopravvivenza, vicissitudini personali.

Eppure la donna non dimentica (e non ci consente di dimenticare) che è approdata in Italia anche perché il suo pa-ese era stato un tempo colonia italiana.

Le tracce del nostro passa-to coloniale sono ampiamente rappresentate nelle vie e nelle piazze della capitale che i regi-sti riprendono e fanno parlare.

Ma la memoria non è “condivisa”, le intitolazioni di strade e piazze attestano la mancata rielaborazione del nostro passato coloniale.

Gli “Aulò” di Ribka sono bilingui (italiano/inglese), talvolta dialetto romano o lin-gua francese. Questo impasto linguistico, oltre ad esprimere l’identità culturale dell’autri-ce, rende i confini linguistici

“permeabili” e ci propone , per così dire, una “giusta distanza” da cui dobbiamo imparare a guardare la nostra storia.

Ribka conclude comu-nicandoci i suoi due sogni: il riscatto culturale dell’Africa ed essere considerata “romana”. Anzi, precisa con una punta di ironico realismo: se non io, almeno mia figlia Sara!

54 Cultura scientifica e cultura umanistica – parole, musiche, immagini

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55Strumenticres n.60 – febbraio 2013

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l’ironia al servizio dei beni comuniTotò riuscì a vendere la Fontana di Trevi per 10 milioni. E voi cosa riuscirete a fare? La sfida che vi lanciamo richiede tutta la vostra creatività, il vostro senso dell’ironia e la vostra immaginazione.È una gara di comunicazione paradossale. Lo scopo è scegliere uno dei quattro elementi naturali (acqua, aria, terra o fuoco) e inventare un manifesto pubblicitario 50x70 per venderlo al miglior offerente. I vincitori saranno premiati nel corso della presentazione ufficiale della mostra “L’asta della terra”, che avrà come oggetto gli elaborati più interessanti prodotti dai partecipanti.

informazioni: www.manitese.it/blog-educazioneiscrizioni: [email protected]: 02 40 75 165

i lavori devono essere inviati entro il 17 marzo!

L’AStA DeLLA teRRA

SOCI

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COM

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NRedazioneValerio Bini (dir.),

luca manes (dir. resp.),

chiara cecotti, angela comelli,

alberto corbino, giosuè de salvo

elias gerovasi, giovanni mozzi,

giacomo Petitti, lucy tattoli.

gruppo redazionaleper il supplemento

“Strumenti cres”donatella calati (segretaria di

redazione), giacomo Petitti

(responsabile di redazione),

elisabetta assorbi,

gianluca Bocchinfuso,

Piera hermann, elena la rocca,

laura morini, shara Ponti.

Hanno collaboratoa questo numero:Valerio Bini, gianluca Bocchinfuso,

giorgio Botta, elena camino,

giovanna cipollari, anna di sapio,

Piera hermann, stefano locati,

Bruno manelli, marina medi,

laura morini, Pietro olla,

giacomo Petitti, shara Ponti,

antonio rodia, anna marta rollier,

antonella testa, emanuele Vigo,

diletta Zanelli,

Gli articoli pubblicati rispecchiano il punto di vista degli autori, non necessariamente quello della Redazione.

Quando non specificato, gli autori sono formatori Cres.

Il Cres,costituito da esperti ed insegnanti, cura le attivi-tà formative di Mani tese in campo scolastico. obiettivo fondamentale della sua iniziativa di ricerca e di innova-zione didattica è la diffusione di una nuova cultura dello sviluppo e della mondialità nella scuola.

Organismo contro la fame e per lo sviluppo dei popoli.

Si può sostenere la rivista StrumentiCres con una offerta minima di 10,00 € specificando “Sostegno a Strumenticres”:Versamenti on-line su www.manitese.it,su c.c.p. 291278 intestato a Mani Tese,con bonifico bancario Banca Popolare EticaIBAN IT 58 W 05018 01600000000000040

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