sociologia dei processi culturari

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1 S S O O C C I I O O L L O O G G I I A A D D E E I I P P R R O O C C E E S S S S I I C C U U L L T T U U R R A A L L I I LOREDANA SCIOLLA *** Questo riassunto è frutto di studio, tempo e fatica ed è basato su appunti dell'autrice e sulla lettura del testo al quale esso si riferisce; quest'opera funge da supporto alla lettura del testo originale e non ne vuole essere una sostituzione. L'autrice ne VIETA la comunicazione al pubblico e la distribuzione, ai sensi della legge sul diritto d'autore (legge 633/1941).

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SSOOCCIIOOLLOOGGIIAA DDEEII

PPRROOCCEESSSSII CCUULLTTUURRAALLII

LLOORREEDDAANNAA SSCCIIOOLLLLAA

***

Questo riassunto è frutto di studio, tempo e fatica ed è basato su appunti dell'autrice e sulla

lettura del testo al quale esso si riferisce; quest'opera funge da supporto alla lettura del

testo originale e non ne vuole essere una sostituzione.

L'autrice ne VIETA la comunicazione al pubblico e la distribuzione, ai

sensi della legge sul diritto d'autore (legge 633/1941).

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IINNTTRROODDUUZZIIOONNEE

La sociologia, che per un lungo periodo aveva trascurato lo studio dei fenomeni e dei processi culturali,

negli anni ’80 è tornata a considerare la cultura come una dimensione importante dell’azione e della vita

sociale.

La crescita d’interesse verso la cultura riguarda un po’ tutte le scienze sociali: l’antropologia, che si è

sempre occupata delle culture dei popoli primitivi, di recente si è accostata allo studio delle società

complesse, avvicinandosi così alla sociologia; sono sorti anche approcci interdisciplinari, come i Cultural

Studies, nati in Inghilterra e diffusi rapidamente in altri paesi. Anche la sociologia della cultura e dei

processi culturali, che implica lo studio dei fenomeni culturali attraversi gli strumenti interpretativi della

sociologia, ha iniziato un processo di istituzionalizzazione nelle università americane ed europee, fino

all’Italia.

L’interesse per questo tipo di analisi era già presente tra i sociologi classici (Marx Weber, George Simmel,

Emile Durkheim), che avevano mostrato una particolare sensibilità per lo studio della cultura, ritenendola

parte integrante della società e dell’agire sociale, e l’avevano così posta al centro della teoria sociologica,

senza tuttavia pensare ad essa come oggetto di una disciplina specialistica.

Il compito di fornire una sistematizzazione di questo campo di studio, che possa servire da quadro

generale per le varie discipline sociologiche specialistiche, è difficile. La strada seguita da questo volume

parte dalla definizione del concetto di cultura, e di come la concezione sociologica si sia man mano

allontanata da quella antropologica. La sociologia infatti opera una distinzione tra cultura e società, visti

come due livelli della realtà sociale, di cui cerca di comprendere le influenze reciproche, avendo come

campo di studio principale quello delle società industriali e postindustriali.

Nella sociologia, in particolare, la pluralità dei paradigmi fa parte della sua storia e non va intesa come una

debolezza, ma basta aver presente che i paradigmi (approcci e strategie di ricerca generali) hanno sia

vantaggi che limiti e sono strumenti che aiutano ad affrontare campi complessi, come quello dei fenomeni

culturali.

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LLAA NNAASSCCIITTAA DDEELL CCOONNCCEETTTTOO SSCCIIEENNTTIIFFIICCOO DDII CCUULLTTUURRAA

1. UN TERMINE FAMILIARE

Pochi termini ci sono così familiari come quello di cultura. In un’accezione comune, cultura è inteso come

attributo della persona colta. Spesso però, intendiamo la cultura in un significato diverso. Ad esempio in

riferimento a tradizioni popolari, cucina tipica, costumi, danze, e dialetti: in questo caso ci riferiamo alla

«cultura regionale». La contraddittorietà tra queste due accezioni non salta subito all’occhio, ma esiste. Da

un lato, infatti, la cultura è intesa come cultura dei dotti ed essa ha pretese universali che valgono per

l’essere umano in generale; dall’altro, c’è la cultura popolare, ossia una cultura radicata e particolare.

I due usi comuni del concetto non sono altro che due tappe diverse di una stessa evoluzione storica. Essa

concerne però i paesi occidentali, dove quindi il termine italiano cultura è traducibile nelle lingue romanze

come il francese culture e lo spagnolo cultura ed esteso poi all’inglese culture e il tedesco Kultur. In altre parti

del mondo, la nostra parola «cultura» potrebbe incontrare difficoltà di traduzione perché lì non ci sono le

stesse «forme di vita» entro cui si è evoluto il nostro concetto di cultura. Chi si avventura nello studio del

concetto di cultura deve quindi tenere presente che esso non è un’essenza universale che si può incontrare

e riconoscere ovunque; esso è appunto legato all’esperienza e al linguaggio con cui un dato contesto

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storico lo ha elaborato. Tuttavia, è possibile che lo studio del nostro concetto di cultura ci dica qualcosa

anche sulle altre forme di vita. Bisogna ricordare infatti che «cultura» è uno dei concetti della «cassetta

degli attrezzi» degli scienziati sociali e che si è evoluto attraverso processi di critica e chiarificazione, nel

tentativo di utilizzarlo per comprendere il comportamento degli individui nella società. È però

impossibile pensare di poter evitare l’etnocentrismo nell’affrontare questo studio: infatti, non possiamo

“uscire” dal contesto entro cui il concetto è nato. Possiamo però avere la coscienza critica che ci renda

consapevoli di operare con categorie appartenenti a determinate epoche e società ed essere disponibili a

metterle in discussione laddove queste risultino inadeguate a rendere conto dei fenomeni indagati.

2. LA GENESI SOCIALE DEL TERMINE

I due usi del linguaggio comune rispetto al termine «cultura» sono riconducibili a due principali

concezioni: quella umanistica o classica, e quella antropologica o moderna. La parola cultura è di origine

latina e deriva dal verbo colere, nel senso proprio di coltivare la terra; si può estenderne metaforicamente il

significato dalla terra alla mente umana: in questa seconda accezione, cultura è tutto ciò che permette di

ingentilire, raffinare, nutrire l’animo umano, così come un campo attraverso il lavoro da selvatico e sterile

diventa coltivato e fruttuoso.

Questa è la concezione umanistica di cultura, che è passata attraverso l’idea rinascimentale di humanitas e

poi, nel XVIII secolo, è entrata nel vocabolario illuministico, dove è spesso seguita da una specificazione

per cui si parla di cultura «delle arti», «delle lettere», «delle scienze». In questo senso la cultura appartiene

all’Uomo in modo generale ed universale, ed è associata all’idea di progresso, in particolare come fiducia

nella possibilità di migliorare l’animo umano tramite l’educazione, distogliendolo dalle superstizioni e

dalle falsità.

Nell’800 numerosi intellettuali si fanno ancora paladini dell’ideale classico di cultura per il suo valore

universale e per il suo potenziale formativo. Questa è la posizione di Matthew Arnold (1822-1888), letterato

e pedagogo inglese dell’età vittoriana, che definisce la cultura come «quanto di meglio è stato pensato e

conosciuto» nell’arte, nella letteratura e nella filosofia. Più che un fine essa è un mezzo per rendere più

umano un mondo minacciato dall’industrializzazione, che va combattuta con una terapia che si basa

sull’ideale greco della cura e del perfezionamento dell’uomo. La cultura sta qui ad indicare la tensione

verso la perfezione che unisce bellezza e intelligenza. In seguito, questo tipo di cultura viene concepita

come «cultura alta» e indica gli aspetti maggiormente valutati all’interno di una società – come l’opera, il

teatro e la Divina Commedia in Italia – e viene contrapposta alla cultura popolare che sta a indicare le

manifestazioni e la pratiche culturali di classi sociali meno privilegiate, come la musica folk, i fumetti o la

letteratura rosa.

Già nel ‘700, però, alcuni pensatori tedeschi avevano contrapposto all’universalismo astratto

dell’Illuminismo, la particolarità, la varietà e la concretezza della cultura di ogni singolo popolo. Essi

affermano la diversità tra le culture, sostenendo che la storia non consiste nell’avvento di una ragione

astratta e unica (Illuminismo) ma nell’intreccio e contrasto tra diverse culture, che costituiscono ognuna

una comunità specifica in cui l’umanità di volta in volta esprime un aspetto di se stessa.

3. L’ANTITESI CULTURA/CIVILIZZAZIONE

All’alba nei movimenti nazionalisti, la nozione tedesca di Kultur, con la sua enfasi sulle differenze

nazionali, finisce per contrapporsi alla concezione umanistica e universalista di cultura elaborata

dall’Illuminismo e alla nozione omologa di «civiltà».

Norbet Elias nel 1936 descrive la genesi sociale dell’antitesi tra il termine tedesco Kultur concepito nel XVIII

secolo e quello di «civiltà». Elias spiega l’evoluzione del significato della nozione di cultura in Germania e il

suo successo col fatto che essa fu adottata dalla borghesia intellettuale tedesca in opposizione

all’aristocrazia di corte, per motivi di risentimento degli intellettuali del ceto medio, esclusi dall’attività

politica e dal potere: questo diede al concetto di cultura caratteri di autenticità e profondità legati ai valori e

alle prestazioni spirituali, scientifiche e artistiche che legittimavano la borghesia come ceto sociale. Il

concetto di cultura viene qui costruito in contrapposizione ai comportamenti e stile di vita dell’aristocrazia,

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visti come superficiali e convenzionali e troppo influenzati dalla «civiltà» francese. La cultura diventa così

la tipica espressione del carattere tedesco.

4. I CARATTERI DELLA CULTURA NELL’ANTROPOLOGIA

La storia delle parole e l’evoluzione dei concetti ci fanno capire che essi dipendono dall’epoca storica e dal

contesto sociale in cui sono stati formulati. Anche il concetto scientifico di cultura, le cui radici risalgono

all’attenzione del pensiero tedesco di fine ‘700 alla pluralità e particolarità delle forme di vita, ha una sua

storia che inizia quando, tra ‘800 e ‘900, entrano in campo le varie scienze sociali, che diffondono uno

sguardo più neutro sull’uomo e la società, che devono essere descritti per come sono e non per come

idealmente dovrebbero essere. Questo nuovo orientamento risente molto della stagione dei viaggi di

missionari e avventurieri che, sotto la spinta delle imprese coloniali, portano documentazioni di altre

popolazioni, ancora sconosciute e primitive.

La nozione di cultura dilata così i propri confini: dall’universalismo cosmopolita dei dotti, all’enorme

varietà dei costumi locali. La cultura, inoltre, non si applica più all’individuo, ma alla collettività, né

rappresenta un ideale normativo, piuttosto il suo significato diventa descrittivo. La centralità assunta dai

costumi costituisce una smentita alla concezione umanistica che pretendeva la cultura come universale e

unitaria. La sfida lanciata ora dalle scienze sociali è quella di pensare l’unità dell’umanità attraverso la

diversità delle culture, ossia attraverso abitudini acquisite piuttosto che razze biologicamente

determinate.

L’antropologia è la scienza sociale che ha tentato di fondarsi sul concetto di cultura come disciplina

autonoma, facendo di essa il proprio oggetto di ricerca. Edward Burnett Tylor è colui che ha definito per

primo il concetto antropologico di cultura, considerandola sinonimo di civiltà: «La cultura, o civiltà […]

include […] qualsiasi […] capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società» (1871).

Qui si riconosce l’esistenza di una cultura primitiva, del tutto trascurata dall’Illuminismo. Per Tylor il

problema era quello di rendere comprensibili fenomeni nuovi che agli occhi degli occidentali civilizzati di

allora potevano sembrare bizzarrie irrazionali.

Da questa prima definizione descrittiva di Tylor si possono enucleare alcune componenti della cultura e

alcuni suoi caratteri fondamentali:

a) Ciò che gli individui pensano: la religione, la morale, il diritto, ossia tutte quelle norme e credenze

esplicite, elaborate a livello teorico;

b) Ciò che gli individui fanno: i costumi e le abitudini acquisite per il fatto di vivere entro una data

comunità;

c) Ciò che gli individui producono: gli artefatti, ossia i prodotti del lavoro umano, che non comprendono

solo le opere d’arte, ma anche oggetti di culto e uso quotidiano, come vasellame, utensili, armi, abiti, ossia

la «cultura materiale».

I caratteri principali della cultura sono tre:

1) La cultura è appresa.

Esistono tratti fisici e comportamenti dettati da esigenze biologiche, che sono quindi innati; ma basta

analizzare secondo quali modalità gli esseri umani assumono tratti fisici o si comportano per accorgersi

della loro grande variabilità: essi sono frutto di un apprendimento e non di una reazione geneticamente

programmata.

La cultura risulta anche essere qualcosa di specificatamente umano, che distingue l’uomo dagli animali.

L’antica contrapposizione cultura/natura ora assume una nuova variante secondo la quale l’uomo si

distingue dagli animali per la variabilità dei suoi costumi. Questa nuova tesi però ha dei punti deboli:

infatti degli studi su alcune specie animali hanno dimostrato che gli scimpanzé, ad esempio, apprendono a

confezionare utensili. L’attitudine a imparare attraverso l’interazione coi propri simili non può allora più

essere un attributo speciale dell’uomo. Più recentemente alcuni antropologi hanno tentato di spostare la

questione dalla capacità di apprendere alla capacità di apprendere a livello simbolico, che

possiederebbero solo gli esseri umani: essi sono in grado di utilizzare una comunicazione simbolica, cioè

un linguaggio che produce significato anche in assenza del referente. Anche questa tesi ha mostrato

debolezze, poiché studi sulle scimmie antropomorfe hanno mostrato la loro capacità di far uso di richiami

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simbolici che vengono appresi dai piccoli della specie in modo graduale. L’uomo non è quindi l’unico

«animale simbolico». Anche l’antropologo francese Claude Levi-Strauss è giunto a questa affermazione,

aggiungendo però che la differenza tra l’uomo e gli animali debba stare nella complessità e nel grado di

organizzazione del linguaggio e dei sistemi di comunicazione vocale.

2) La cultura è un tutto integrato.

Essa rappresenta la totalità dell’ambiente sociale e fisico in cui opera l’uomo. Questa tesi deriva dalla

volontà di comprendere nel concetto di cultura tutto ciò che l’uomo apprende e crea insieme ai membri

della sua comunità. In questo significato esteso il concetto di cultura si sovrappone a quello di società. Il

carattere totale della cultura comporta anche l’idea dell’omogeneità del patrimonio culturale di ogni

popolo, visto come unitario e coerente.

3) La cultura è condivisa.

Si ritiene che per essere definito culturale un fenomeno deve essere condiviso da un gruppo. Anche se le

ricerche empiriche dimostrano incongruenze e conflitti nei sistemi di credenze dei popoli primitivi,

l’affermazione generale che troviamo nei manuali di antropologia culturale è che la cultura sia distribuita

uniformemente all’interno della società. L’immagine della cultura che emerge è di una totalità sociale

omogenea e organica al suo interno e questa immagine è stata persuasiva fino agli anni ’50 proprio perché

l’antropologia ha identificato il proprio oggetto di studio nelle popolazioni primitive, viste come società in

scala ridotta. Ma qui si tratta di una società faccia a faccia, in cui gli individui interagiscono sempre tra loro

e all’interno di un ambiente ben delimitato. Il flusso comunicativo è continuo e non interrotto da barriere

sociali in quanto la divisione del lavoro è scarsa. Tutti si conoscono fin dalla nascita e usano gli stessi

linguaggi fino alla tomba senza grandi innovazioni. Le persone si somigliano tra loro e il corso degli eventi

si ripete uguale a se stesso.

5. L’IDEA DI CULTURA IN TRE TRADIZIONI SOCIOLOGICHE

Diversamente dall’antropologia, che privilegiava gli studi empirici sulle società tribali, la sociologia aveva

l’ambizione di essere una scienza generale dei fenomeni sociali. Mentre l’antropologia, inoltre, aveva

assunto come oggetto di studio le popolazioni primitive, la sociologia si occupava della moderna società

industriale e dei processi di rapida e radicale trasformazione che l’avevano caratterizzata.

Fin dagli esordi, tuttavia, i rapporti tra antropologia e sociologia furono stretti, sia nel senso che lavori e

metodi antropologici influenzarono studi sociologici su comunità urbane che potevano presentare analogie

con le «società in scala ridotta», sia nel senso di una vera e propria alleanza in cui la sociologia elaborava la

teoria sui dati empirici forniti dall’antropologia.

Da questi reciproci rapporti non poteva non farsi strada la necessità da parte della sociologia di rivedere il

concetto antropologico di cultura. Le tre tradizioni sociologiche nazionali più attive a inizio ‘900 sono

quella americana, quella francese e quella tedesca.

5.1 La Scuola di Chicago: la diversità culturale della metropoli

Il concetto di cultura elaborato dall’antropologia ha indubbiamente esercitato una grande influenza sulla

sociologia americana, soprattutto sulla Scuola di Chicago. La principale ragione di ciò risiede nell’interesse

dei sociologi che agli inizi del ‘900 diedero forma a questa scuola per l’analisi dei processi sociali innescati

nelle metropoli americane dai flussi ininterrotti di arrivo di immigrati. William Thomas (1863-1947) fu

uno dei principali protagonisti di questo periodo e analizzò il processo con cui la cultura originaria degli

immigrati polacchi incide sul modo in cui si inseriscono nella comunità d’arrivo. Viene qui valorizzato un

nuovo metodo di indagine sociologica, cioè quello etnografico, basato non solo su statistiche ma anche su

materiale autobiografico e documenti personali che consentivano di descrivere in una situazione naturale –

cioè priva di interferenze esterne – l’espressione di valori e credenze comuni.

Per capire questi processi di inserimento degli immigrati non bastava più considerare la situazione

oggettiva ma il ruolo di mediazione svolto dagli atteggiamenti che ogni immigrato porta con sé. La realtà

sociale è dunque oggettiva, ma anche modificabile dal soggetto che la interpreta e la definisce coi propri

schemi.

Thomas accoglie la lezione dell’antropologia culturale secondo cui le differenze tra gli immigrati non

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derivano da fattori biologici di tipo razziale ma dallo specifico patrimonio culturale di cui ognuno è

portatore, cioè l’insieme di atteggiamenti e valori. Rispetto alla tradizione antropologica, inoltre, Thomas

accentua l’aspetto socialmente costruito di questo patrimonio, che viene definito dagli individui stessi

tramite il pettegolezzo, la conversazione, le discussioni, le teorie.

Thomas elabora anche quella teoria dell’«uomo marginale» che sarà sviluppata da un altro esponente della

Scuola di Chicago, Robert E.Park (1864-1944). L’uomo marginale è colui che prova un’incongruenza tra il

sistema culturale della comunità da cui proviene e quello della società d’arrivo, vivendola come una

duplice perdita: di status, ossia di riconoscimento del suo gruppo, e di senso del proprio sé, ossia del

riconoscimento del suo ruolo all’interno del gruppo. Ricollegandosi agli studi di Simmel sullo «straniero»,

Thomas descrive la crisi che sopraggiunge quando l’immigrato vede che il modello culturale con cui

interpretava il mondo non funziona più come modello indiscusso di orientamento ed è così costretto a

metterlo in discussione.

Per la prima volta viene sottolineato lo stretto rapporto tra identità e cultura, tra concezione di sé e forme

di riconoscimento sociale, che è al centro della riflessione sociologica contemporanea. Bisogna sottolineare

inoltre che la posizione di Thomas si distacca dalla concezione dominante del melting pot, cioè dal modello

di assimilazione totale degli immigrati da parte della società che li riceve.

Più tardi (1929) i coniugi Lynd condussero uno studio sulla vita di una città americana di medie

dimensioni (piuttosto che sulla grande metropoli), affrontando la ricerca da una prospettiva antropologica

e cioè guardando la città come un villaggio o una tribù di primitivi. Secondo loro la vita complessa della

società americana è riducibile alle stesse attività principali presenti in un villaggio: guadagnarsi da vivere,

farsi una famiglia, impiegare il tempo libero, partecipare a cerimonie religiose. Questa convinzione

derivava dall’idea che studiando la comunità «media» si avesse un riflesso rappresentativo della cultura

americana nel suo complesso, cercando di coglierne l’unità.

Altri studiosi invece, come Park, si concentrarono sulla diversità culturale della vita urbana americana. In

The City Park afferma che «la città possiede una propria cultura», ma è divisa in «vicinati», cioè quartieri

con proprie tradizioni e storie. Il vicinato è la più piccola unità locale e perde gran parte dell’intimità che

teneva unite le relazioni che vi si svolgono a causa della rapidità dei mezzi di comunicazione che

consentono agli individui di spostarsi facilmente e poter vivere in più “mondi” diversi. Anche se non

utilizza ancora il termine «subcultura», Park ne traccia già le caratteristiche: si tratta di una città dentro la

città.

I processi di trasmissione culturale della società moderna descritti da Park sono molto diversi da quelli

della società in scala ridotta studiata dall’antropologia. I moderni mezzi di trasporto e comunicazione

mettono in secondo piano le relazioni primarie (quelle che implicano un rapporto faccia a faccia) a favore

di quelle secondarie, che avvengono senza la compresenza fisica delle persone. La pubblica opinione

creata dalla stampa e dalla pubblicità è ben diversa da quella trasmessa col pettegolezzo nel villaggio.

Negli stessi anni in cui Thomas, Park e i coniugi Lynd studiano la vita culturale delle città americane, un

filosofo e psicologo sociale di Chicago, G. H. Mead (1863-1931) sviluppava una teoria complessa sulla

socialità della mente e dell’individuo in cui l’aspetto simbolico è messo in primo piano, e che diede inizio

alla scuola dell’«interazionismo simbolico». Per Mead l’uso di simboli è il meccanismo centrale con cui

l’individuo impara ad assumere il ruolo degli altri e sviluppa il proprio pensiero. Il pensiero e la

concezione di sé non si sviluppano in solitudine, per Mead, ma attraverso l’interazione con gli altri e si

consolidano quando riusciamo a identificarci con una norma universale, cioè col modo di pensare

dell’intera comunità.

5.2 La scuola francese di sociologia: la società come comunità simbolica

Quella che possiamo considerare la tradizione centrale della sociologia in Francia, che ha coniato il termine

stesso di “sociologia”, ha il suo maggior esponente in Emile Durkheim. A differenza della scuola

americana, più che subire l’influenza dell’antropologia, Durkheim contribuisce alla sua costituzione.

Inoltre, mentre la scuola americana trasferiva l’atteggiamento empirico con cui l’antropologia analizzava le

società primitive direttamente all’osservazione della vita urbana, la scuola francese utilizza i dati

etnografici delle società semplici per formulare una teoria generale dell’origine e funzione delle

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rappresentazioni collettive.

In realtà Durkheim non distingueva tra sociologia e antropologia, se non in base al differenze tipo di

metodo d’analisi: l’antropologia studiava la particolarità e varietà all’interno della società, mentre la

sociologia cercava di coglierne gli elementi permanenti.

Durkheim, che pure non ha quasi mai usato il termine «cultura», gli affida un posto centrale nella sua

teoria sociologica. Per lui qualunque tipo di società ha un carattere simbolico. La sua riflessione nasce da

una domanda: cosa tiene insieme gli individui di una società? La posizione utilitarista risponde che la

società scaturisce dall’incontro di individui che hanno propri interessi e concorrono sul libero mercato

insieme avendo liberamente stipulato dei contratti. Ma Durkheim ribatteva che gli individui potevano

stipulare contratti solo premettendo che li avrebbero rispettati. Dunque deve esserci a monte una sorta di

solidarietà precontrattuale che li accomuna. Non sono dunque gli interessi degli individui che tengono

unita la società, ma qualcosa che viene prima ed esso è la dimensione simbolica: «simboli» sono le

credenze e i rituali condivisi in quanto svolgono la duplice funzione di raffigurare la società e di consentire

e facilitare la comunicazione tra i membri. Essi generano un consenso morale e cognitivo che unisce gli

individui e consente loro di identificarsi come collettività. In questo senso si può dire che ogni società

permane nel tempo in quanto riesce a diventare una comunità simbolica.

Nel passaggio dalla società preindustriale a quella industriale questa «coscienza collettiva» si indebolisce

ma non scompare. Le regole di condotta e i modelli di pensiero si fanno più generali cosicché la

riflessione individuale deve intervenire per renderli applicabili a casi particolari. Si diffonde così quello

che Durkheim chiama «culto dell’individuo», che non è più solo un componente della società, ma un

oggetto sacro per la società stessa (si pensi all’importanza data alla dignità della persona come valore

condiviso e norma nel mondo moderno). Il culto dell’individuo diventa un sistema di valori condiviso

dalla collettività e fa parte di quegli insiemi di credenze e valori che Durkheim chiama «rappresentazioni

collettive»: sono forme del pensiero cognitivo, credenze religiose, miti, ma anche norme e valori morali. La

novità di questo concetto è che la cultura viene vista come qualcosa di comune e comunicabile ma anche

come qualcosa di oggettivo e istituzionale. Le rappresentazioni collettive sono per Durkheim istituzioni

sociali. Esse si distinguono dalle rappresentazioni individuali, che sono stati mentali di natura psicologica

e relativamente autonome. Durkheim vuole affermare l’esistenza di una parte della cultura che non è del

tutto cosciente e viene percepita come obbligatoria e vincolante: questo modi d’agire quindi non derivano

dall’individuo ma sono frutto di un’autorità che lo oltrepassa.

Mauss riprende l’idea durkheimiana del carattere istituzionale e oggettivo del mito, affermando che esso

non è solo un insieme di fantasie popolari ma, accostato al linguaggio, costituisce un sistema simbolico

istituzionalizzato che trasmette, come la lingua, modi di classificare e organizzare l’esperienza.

È importante sottolineare, infine, che Durkheim non è interessato a stabilire la verità o falsità dei concetti,

delle idee o credenze religiose. Per lui le credenze collettive non contano per il loro grado di verità, bensì in

quanto elemento ordinatore e regolativo del comportamento individuale. La verità o il sentimento di

verità non è nient’altro che l’apprendere che la nostra esperienze individuale p adeguata a quella del

gruppo cui apparteniamo. Qui oggettivo e collettivo coincidono. Con questo Durkheim non vuole vedere

la cultura come ontologicamente autonoma, ma anzi egli sostiene che la società non esiste senza individui e

così le rappresentazione collettive non esistono senza individui che le pensano. Piuttosto, egli metteva in

luce che queste avevano assunto un’oggettività rispetto agli individui che ne fanno uso ed esse costringono

entro regole e logiche che anche se gli esseri umani possono produrre, non possono comunque controllare a

loro piacimento.

5.3 La tradizione sociologica tedesca: il problema del significato e il ruolo attivo delle idee

Non si può parlare degli autori tedeschi che hanno affrontato il tema della cultura tra la fine dell’800 e gli

anni ’20-’30 del ‘900 come di una «scuola sociologica», come si è usato dire per la Scuola di Chicago o quella

francese. Non si tratta infatti di un approccio unitario né vi è una figura che lo rappresenti come maestro.

Eppure autori come Georg Simmel e Max Weber presentano un tratto comune nell’affrontare il tema della

cultura.

Entrambi si inseriscono nel contesto storico e nazionale tedesco che risentì molto di due dibattiti.

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Il primo è un dibattito metodologico sulle scienze storico-sociali, e sulle modalità di comprensione dei

fenomeni culturali. Al metodo delle scienze naturali, volto alla costruzione di leggi genarli, viene

contrapposto il metodo idiografico orientato a descrivere i fenomeni della vita storica e sociale così come si

presentano nella loro individualità. Sia Simmel che Weber si collocano in questo dibattito, assumendo però

una posizione originale e innovativa. Per Simmel le scienze possono formulare esclusivamente

proposizioni ipotetiche che valgono fino a prova contraria e il cui contenuto è frammentario e provvisorio,

quindi non possono aspirare a un ideale assoluto di verità. Max Weber sostenne posizioni analoghe: la

differenza tra scienze della natura e scienze della cultura non sta nell’oggetto di studio ma negli scopi

conoscitivi del ricercatore, cioè la ricerca dei significati soggettivi che muovono l’azione sociale.

Gli esseri umani sono, per Weber, esseri culturali in quanto annettono un significato al proprio

comportamento e le scienze della cultura – tra cui la sociologia - non si occupano dell’intera società ma

dell’«agire sociale», ossia all’atteggiamento degli individui. Weber definisce la cultura come una «sezione

finita dell’infinità priva di senso del divenire del mondo» alla quale l’uomo attribuisce un senso e un

significato.

Il secondo dibattito riguardò la controversia tra idealismo e materialismo e nello specifico il ruolo dei

fattori culturali: ci si chiede se essi possiedano una loro autonomia e siano quindi in grado di influenzare le

relazioni sociali o se, al contrario, siano solo un riflesso della struttura economico-sociale (come affermava

Marx). Sia Weber che Simmel avevano presente questa opposizione. Weber criticò il determinismo

economico secondo cui le forme del pensiero, del diritto, della morale sono il prodotto delle condizioni

economiche della società. Tutta la sua opera è il tentativo di mostrare il ruolo cruciale e indipendente

svolto dalle credenze e valori nell’orientare il comportamento delle persone. Così, nel suo modello, la

cultura si connette alla realtà sociale: in particolare, secondo lui c’è un’influenza reciproca tra idee e

società.

Anche Simmel non accetta la tesi deterministica del condizionamento sociale delle idee, affermando che tra

condizioni sociali e idee c’è un rapporto di causalità reciproca.

Questa prospettiva teorica e metodologica che accomuna Simmel e Weber influisce sull’approccio tedesco

all’analisi culturale. Innanzitutto cultura e società sono distinte su un livello analitico, cioè concettuale più

che ontologico: la cultura non è un oggetto ontologicamente separato da altri, ma un concetto con cui

classifichiamo i fenomeni sottolineandone gli aspetti importanti per la nostra comprensione.

In secondo luogo, le credenze e i valori sono per entrambi gli autori una cultura collettiva (simile al

concetto durkheimiano di rappresentazioni collettive) o «concezioni del mondo» come dice Weber, che

non appartengono all’ambito privato, ma sono pubbliche.

Anche l’analisi del denaro condotta da Simmel procede su questa scia: egli si sofferma sul carattere

simbolico del denaro nella cultura moderna, affermando che si tratta di un processo di progressiva

dematerializzazione che non fa altro che simboleggiare le relazioni tra individui. Il denaro ha cambiato

natura: da oggetto con un valore come mezzo di scambio, a oggetto con valore in sé. Si produce

un’oggettivazione dei valori per cui ciò che prima era un valore soggettivo, diventa una proprietà delle

cose in quanto tali. Ciò influenza anche il pensiero umano, che diventa sempre più individualista e attento

a tutti gli aspetti della vita che possono essere calcolati e quantificati. Avviene una reificazione dei

rapporti tra le persone, cioè il loro apparire come rapporti tra cose. La cultura moderna, per Simmel, si

manifesta nell’oggettivazione crescente, che mette in primo piano la cultura oggettiva: i prodotti dell’arte,

della tecnica, di uso e consumo quotidiani, dei sistemi di informazione, ecc. Ma il soggetto che tenta di far

suoi i contenuti di questa cultura rimane frustrato poiché non è in grado di farli propri e farli diventare una

cultura soggettiva. L’individuo moderno vive questa contrapposizione tra ciò che vuole ma non può

ottenere.

In terzo luogo, viene meno l’equivalenza introdotta dall’antropologia tra cultura e tradizione. La cultura

non è solo consuetudine, ossia abitudini trasmesse in maniera passiva, ma è innovazione e implica un

ruolo attivo delle idee. Questo punto identifica la principale differenza tra Weber e Durkheim: per

quest’ultimo le rappresentazioni collettive sono viste come un sistema chiuso, statico e come prodotti

anonimi di forze e meccanismi sociali che operano alle spalle degli attori sociali; in Weber, invece, le

concezioni del mondo e le idee hanno una loro logica e dinamica e sono creazioni di individui e di gruppi

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sociali, intellettuali e religiosi spesso in lotta tra loro per l’affermazione delle proprie visioni del mondo.

In Germania emerse negli anni ’20 il tentativo di dare vita a una sociologia della cultura e una sociologia

della conoscenza, intese spesso come equivalenti o complementari. Alfred Weber (fratello di Max), Karl

Mannheim suo allievo e Max Scheler contribuirono a questa fondazione.

Per Alfred Weber (1868-1958) premessa necessaria della sociologia della cultura è il riconoscimento

dell’esistenza di due mondi diversi: da un lato l’universo oggettivo e universale delle forme

dell’elaborazione scientifica, dall’altro quello soggettivo e particolare dell’elaborazione artistica, religiosa,

letteraria. Questa contrapposizione si ricollega all’antitesi concettuale che era comparsa in Germania

proprio alla fine del ‘700: cioè tra cultura e civilizzazione. In Alfred Weber si caratterizza come una

contrapposizione tra mondo culturale, vicino ai sentimenti e ai destini degli individui, e mondo

civilizzato, in cui il pensiero astratto applicato al dominio tecnico-scientifico della natura produce una

razionalizzazione oggettiva e impersonale, estranea agli affetti e alla vita emozionale delle persone. Solo la

civilizzazione si sviluppa secondo un andamento progressivo; al contrario, i prodotti culturali non sono

ordinabili in una scala, si possono ripresentare in una stessa società in periodi diversi o

contemporaneamente in società diverse. Per la cultura, dunque, non si può parlare di progresso, ma di

«fluttuazione» e «movimento». La metodologia della sociologia della cultura non deve dunque ricercare

le spiegazioni storiche causali ma arrivare a una sintesi che sappia cogliere la cultura nella sua totalità e

peculiarità.

Una divergenza tra i due fratelli Weber si realizza proprio a proposito del concetto di cultura. Mentre per

Alfred Weber la cultura è un oggetto a sé stante, una sfera indipendente e separata, depositaria del senso

della vita di un’epoca, per Max Weber la cultura è un campo di ricerca costruito in base a un’operazione di

selezione e attribuzione di significato. Per lui non si può quindi distinguere nettamente tra mondo della

cultura e quello della civilizzazione, né dare più valore all’uno piuttosto che all’altro.

La grande notorietà i Alfred Weber non si prolungò anche dopo la sua morte e per questo la sua opera non

ha trovato continuatori.

Mannheim e Scheler, negli anni ’20, elaborarono i fondamenti di una nuova disciplina, la sociologia della

conoscenza, il cui nome fu coniato proprio da Scheler nel 1924. Questa disciplina per Mannheim doveva

essere intesa come un ambito di una più ampia sociologia della cultura, per Scheler di fatto sociologia del

sapere e della cultura coincidono.

Entrambi presero molto sul serio la questione posta da Marx del condizionamento economico-sociale del

pensiero. Essi cercarono di cogliere le relazioni tra esistenza e pensiero, tra i diversi aspetti della

conoscenza e il contesto storico-sociale in cui si sviluppano.

Max Scheler (1874-1928) opera una distinzione tra «fattori ideali», che costituiscono la sfera spirituale della

cultura, e «fattori reali», che comprendono una molteplicità di elementi, come strutture del potere, di

parentela, le razze, fino a fattori demografici e geografici. Scheler afferma l’esistenza di un ordine assoluto

di essenze eterne, simile al mondo platonico delle idee, che sono però «impotenti». I valori e gli ideali

eterni della cultura si possono realizzare solo sotto determinate condizioni sociali ed è così che entrano in

gioco i «fattori reali», i quali non determinano i contenuti della conoscenza, che sono dati a priori, ma hanno

un ruolo rilevante nella selezione di questa o quella forma di conoscenza e nel suo affermarsi.

Karl Mannheim (1893-1947) assume una posizione molto critica rispetto a Scheler, a cui contesta il ruolo

attribuito alla storia e alla società che si limiterebbero a determinare la presenza delle idee senza però

influire sul loro contenuto. Mannheim propone il programma di una sociologia della conoscenza che ha

come scopo primario quello di scoprire come le diverse forme di conoscenza e il loro stesso contenuto

siano condizionate dai fattori sociali, e di conseguenza indicare quali sono le condizioni sociali che

permettono lo sviluppo di una conoscenza valida. Tuttavia egli non riuscì a chiarire veramente attraverso

quali meccanismi i diversi sistemi conoscitivi fossero connessi alla struttura sociale.

Troppo sbrigativamente, si è soluti vedere nella concezione di Mannheim un riduzionismo sociologico in

cui le idee sarebbero il mero riflesso della società e della storia. In realtà, le idee per Mannheim non sono

mai dei riflessi meccanici, ma devono essere comprese a partire dalle motivazioni degli attori che operano

in contesti sociali precisi e inserite entro strutture di senso. Il concetto di «prospettiva» elaborato da

Mannheim ha fornito un importante dimensione sociologica per la teoria psicologica della Gestalt: viene

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messo in luce il carattere socialmente situato del modo di formulare i problemi che per la Gestalt è

all’origine del nostro modo di percepire.

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DDIIMMEENNSSIIOONNII EE CCOOMMPPOONNEENNTTII DDEELLLLAA CCUULLTTUURRAA

1. L’APPROCCIO SOCIOLOGICO ALLA CULTURA

1.1. I sociologi classici e il distacco dalla concezione antropologica della cultura

Da una parte la sociologia classica sviluppa teorie e analisi empiriche in cui la cultura assume un posto

centrale nell’interpretazione dei fenomeni sociali senza che tuttavia la si percepisca come una

sottodivisione della sociologia generale. Si parla di sociologia della cultura e sociologia della conoscenza

ma non la si intende come campo di studi specialistico. L’interesse dei sociologi classici era comunque

quello di attribuire centralità allo studio della cultura partendo dal problema di come gli aspetti simbolici e

ideazionali si connettano al livello delle relazioni sociali e della struttura sociale.

Possiamo valutare l’approccio specificatamente sociologico allo studio della cultura riassumendo quegli

aspetti per cui esso si discosta dalla concezione antropologica.

1) Il primo aspetto, la distinzione analitica società/cultura, appartiene a tutte e tre le tradizioni

considerate ed è particolarmente rilevante nella scuola sociologica francese.

2) Il secondo aspetto è tipico della tradizione americana e tedesca: l’enfasi sulla differenziazione

interna alla cultura nasce non solo dall’interesse di analizzare le diversità interne a una cultura industriale

metropolitana, ma anche dall’importanza che vi assume la dimensione storica dei fenomeni culturali. Le

culture non sono intese come strutture atemporali, fisse, ma se ne mette in luce la flessibilità e il

cambiamento, che deriva sia da contraddizioni interne che da fattori esterni, di tipo economico, politico,

ecc. La scuola francese, anche se più attenta a cogliere l’unità delle culture, resta sensibile ad aspetti di

differenziazione che contraddistinguono i sistemi normativi delle società complesse. È stato Durkheim a

individuare nell’«anomia», ossia la carenza di regole che genera l’incapacità di porre limiti ai desideri delle

persone, una delle situazioni di «disordine culturale».

3) Il terzo aspetto sottolinea la capacità creativa e innovativa della cultura, rispetto a quella della

ripetizione e riproduzione della tradizione. Sono la scuola americana e tedesca ad averla messa in luce.

Esse hanno accentuato l’esistenza di contraddizioni nei sistemi culturali moderni, dovuta alle differenze tra

gruppi e all’emergere di nuovi movimenti che possono contrastare e sostituire una dottrina ritenuta

ambigua o incoerente. Max Weber, ad esempio, usa il concetto di «carisma» per spiegare l’origine dei

nuovi sistemi di idee. Alcuni movimenti religiosi o politici si basano sulle doti di un profeta che annuncia

una nuova dottrina. Avvenne così con l’innovazione religiosa di Gesù, Maometto o Buddha.

4) La quarta caratteristica sottolinea l’importanza, nei processi di trasmissione culturale, delle forme

dell’interazione sociale, mettendo a fuoco il rapporto tra gli individui e le cosiddette «agenzie di

socializzazione» - famiglia, amici, gruppi di lavoro – dove i primi non sono intesi come veicoli passivi, ma

come agenti attivi, guidati dalle risorse cognitive e affettive che vengono gradualmente acquisendo.

Questo aspetto è il meno sviluppato dalla tradizione sociologica ma il più dibattuto. Durkheim e la scuola

francese sembrano infatti adottare il modello vicino all’antropologia, dove la trasmissione culturale è vista

come processo di condizionamento che, facendo leva su fattori inconsci, programma i membri più giovani

della società a comportarsi in maniera conforme alle regole e ai valori condivisi dalla comunità.

Gli esponenti della scuola americana, in particolare George Herbert Mead, hanno considerato i modi in cui

gli individui vengono socializzati e in cui viene socialmente costruita la loro identità personale, cogliendo

più l’aspetto adattivo e graduale del processo di trasmissione culturale. Così anche Simmel rileva che le

norme sono una realtà con cui gli individui si confrontano e che sono anche in grado di modellare e

interpretare.

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L’approccio sociologico allo studio della cultura si è dunque affermato tra la fine dell’800 e i primi del ‘900

in parte accogliendo e in parte allontanandosi dalla nuova prospettiva antropologica. Erano soprattutto le

sfide della società industriale, con i suoi processi di urbanizzazione e la crescente mobilità sociale, con lo

sviluppo dei mezzi di trasporto e di comunicazione, dei grandi flussi migratori, a portare all’attenzione dei

nuovi termini. L’interesse scientifico analizza ora il rapporto tra pensiero e società accentuando gli aspetti

di cambiamento rispetto a quelli di stabilità, e ponendo con forza la questione di come una società

internamente differenziata possa mantenersi socialmente coesa.

1.2 Da Parsons alla nuova sociologia della cultura

Alla sensibilità dei sociologi classici per l’analisi della cultura ha fatto tuttavia seguito un declino

dell’interesse sociologico per questo tema a partire dagli anni ’30.

Negli anni ’50, negli Stati Uniti, la prospettiva fortemente empirica e pragmatica della Scuola di Chicago

lascia il campo a quella più teorica e astratta dello struttural-funzionalismo del sociologo Talcott Parsons

(1902-1979). Questa rappresenta il maggior tentativo di elaborare una teoria generale dell’azione sociale,

col l’obiettivo di costruire un quadro concettuale in grado di conferire alla sociologia il riconoscimento di

scienza autentica. Parsons compie una svolta rispetto al significato totale attribuito alla cultura

dall’antropologia, che la concepiva ancora come l’insieme di costumi e abitudini acquisiti dall’uomo, e nel

farlo si collega a Weber e Durkheim. Parsons da un lato opera una restrizione dell’ambito semantico del

concetto di cultura, dall’altro ne identifica il carattere astratto e di strumento concettuale utile ai fini

dell’indagine ma non esistente come realtà immediatamente constatabile: «La cultura è costituita da sistemi

ordinati di simboli che sono gli oggetti dell’orientamento dell’azione, da componenti interiorizzate dai

soggetti individuali e da modelli istituzionalizzati di sistemi sociali».

Si possono rilevare due principali aspetti importanti nell’interpretazione di Parsons:

1) Il carattere adattivo che la cultura aveva nell’analisi antropologica delle popolazioni primitive, lascia

il posto al carattere normativo: la cultura viene ora definita come l’insieme dei modelli di comportamento

che la comunità ritiene validi e su cui esiste un consenso sociale per cui i suoi membri sono tenuti a

rispettarli e a trasmettere alle generazioni successive. Parsons rintraccia così una funzione regolativa nella

cultura, che fornisce agli individui i criteri in base ai quali orientare il proprio comportamento e scegliere

tra diverse alternative d’azione.

2) In secondo luogo Parsons sottolinea la necessità di mantenere distinte cultura e società. Esse

hanno reciproci rapporti ma non devono essere confuse. Parsons distingue quattro sottosistemi che

intervengono nell’azione sociale: l’organismo biologico, che svolge la funzione dell’adattamento

stabilendo cioè un rapporto con l’ambiente fisico a cui l’individuo si adatta e che può modificare col suo

comportamento; la personalità, che svolge la funzione del conseguimento, nel senso che essa mobilita le

energie psichiche necessarie a raggiungere gli scopi prefissi; il sistema sociale, che svolge la funzione

dell’integrazione in quanto stabilisce forme di coesione e solidarietà; la cultura, invece, svolge la funzione

della latenza: essa fornisce all’attore sociale la motivazione e il senso dell’azione attraverso i valori, le

norme, le idee condivise. Come indica il termine stesso «latenza», la cultura non agisce direttamente ma

partecipa dall’esterno all’azione, in quanto le fornisce un orientamento senza esservi impegnata in

maniera totale.

Per spiegare i rapporti tra queste componenti Parsons parla di gerarchia cibernetica: in un sistema tale le

parti che possiedono meno energia sono più ricche di informazioni e viceversa. In questo caso, il sistema

culturale si colloca in cima al sistema in quanto è il più ricco di informazione ma povero di energia, mentre

l’organismo biologico si colloca alla base per le motivazioni opposte. Ciò significa che la cultura esercita

controllo sul sistema sociale, sulla personalità e sull’organismo, mentre il sistema psichico, che controlla

l’organismo, subisce forti controlli sia dal sistema sociale che da quello culturale.

Informazioni Sistema culturale (antropologia)

Sistema sociale (sociologia)

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Personalità (psicologia)

Energia Organismo biologico (biologia)

Questa quadripartizione ha consentito a Parsons di attribuire alla sociologia un posto ben definito in

rapporto alle altre scienze, un rapporto «egualitario» in cui l’autonomia disciplinare si basa sulla specificità

dei rispettivi oggetti di studio. Mentre l’organismo è l’oggetto della biologia e la personalità della psicologia,

alla sociologia tocca il sistema sociale e all’antropologia quello culturale. Nonostante Parsons abbia sempre

ribadito che tutte le scienze umane si occupano dello stesso oggetto e che i confini tra le discipline non sono

rigidi ma aperti allo scambio, questa prospettiva ha condotto a una sorta di paradosso: nella sociologia

parsoniana, l’importanza attribuita al sistema culturale non è seguita da un’analisi approfondita della

cultura; essa anzi viene data per scontata e l’esistenza di valori viene considerata come acquisita. Il sistema

culturale, dunque, pur essendo il più importante risulta infine il più trascurato.

A partire dagli anni ’60 si fa strada una nuova sociologia della cultura, i cui più recenti sviluppi,

soprattutto in ambito americano, si articolano in una pluralità di prospettive e non hanno dato vita a una

teoria unitaria. In generale, la nuova sociologia della cultura vuole mettere al centro della sua analisi: 1) le

contraddizioni e incongruenze del sistema culturale; 2) il problema del «dissenso» e dell’innovazione sul

piano culturale; 3) il rapporto, spesso trascurato, tra cultura e azione. Della cultura si enfatizza qui il

carattere complesso, che non è solo una costrizione e un vincolo per l’individuo, ma anche un repertorio di

risorse o una «cassetta degli attrezzi» utilizzabile entro strategie d’azione.

Nonostante la teoria di Parsons chiamasse in causa la psicologia, riferendosi però più alla struttura

profonda della personalità, ora si tratta di riconoscere ciò che era già presente nelle analisi classiche di

Durkheim, ovvero dei processi cognitivi precoscienti. «Cognitivo» sta qui ad indicare i fondamenti

precoscienti del pensiero, ossia la classificazione in rappresentazioni e schemi. Il rapporto tra sociologia e

psicologia diventa necessario se si vuole capire non solo come la cultura viene prodotta ma soprattutto

come funzione e come viene utilizzata dalle persone.

Anche il rapporto con l’antropologia si trasforma. Parsons aveva definito una distinzione in base agli

oggetti di studio: l’antropologia analizza le società primitive e la sociologia quelle moderne. Questa

distinzione appare inadeguata oggi che i processi di industrializzazione hanno raggiunto anche i paesi del

Terzo mondo e che la globalizzazione ha fatto scomparire le società primitive; inoltre la spinta alla

modernizzazione si intreccia al recupero di valori tradizionali, e la diversità tra le culture viene pensata

come interazione e reciproca ibridazione. Mentre sono sempre più gli antropologi che studiano gli ambienti

urbani delle società contemporanee, i metodi della ricerca etnografica vengono ampiamente utilizzati dai

sociologi per comprendere subculture e sistemi di credenze di comunità.

2. DIMENSIONI DELLA CULTURA

La sociologia della cultura contemporanea fornisce una definizione di cultura meno inclusiva di quella

fornita dall’antropologia classica. Secondo Richard A. Petersons [1979] «la cultura è costituita da quattro

tipi di elementi: norme, valori, credenze e simboli espressivi». Da questa definizione risulta che nella

cultura rientrano tantissimi aspetti della vita: norme del Codice civile, la credenza della fine del mondo di

un movimento religioso, una filosofia, una teoria scientifica, le regole del baseball, ma anche tutti gli oggetti

materiali che veicolano e incorporano contenuti simbolici (la bandiera come simbolo dell’unità nazionale,

modi di cucinare i cibi riferiti a proibizioni religiose, ecc.).

Anche la cosiddetta «cultura materiale», dalla moda al consumo alle tecniche del corpo, rientra nella

cultura in quanto veicola significati «immateriali», ossia questi oggetti materiali rappresentano qualcosa

(norme, credenze, giudizi morali o estetici) che va oltre l’utiltà pratica dell’oggetto stesso.

2.1 Coerenza/incoerenza

Le proposizioni culturali e non culturali differiscono per quanto riguarda alcune importanti dimensioni. In

primo luogo quella della coerenza/incoerenza. Il grado di organizzazione delle proposizioni culturali è

vario: è difficile, infatti, pensare a un sistema culturale come a qualcosa di completamente integrato e

unitario. L’organizzazione non significa mancanza di contraddizioni e incongruenze.

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Nella teoria sociologica si è spesso confusa la coerenza del sistema culturale con l’integrazione della

società, ossia con l’uniformità dei comportamenti e l’ordine sociale. Forse per questa ragione si è esagerato

il grado di organizzazione e coerenza dei sistemi culturali.

George Simmel ha sostenuto che il conflitto non è sempre un fattore di disgregazione, ma può essere un

elemento di ordine. Ad esempio, il conflitto acuisce il senso dei confini del gruppo e rafforza il sentimento

di identità e di appartenenza. A volte, l’esistenza del nemico diventa addirittura indispensabile al

mantenimento del gruppo: venendo meno l’avversario anche i propri confini divengono meno chiari.

Aspetti contraddittori e conflittuali non riguardano solo gruppi diversi, ma spesso anche un unico

soggetto: «Ed infatti» - sostiene Weber - «perfino il singolo individuo può orientare il suo agire in base a

orientamenti tra loro contraddittori».

Il grado di integrazione di una cultura varia da una cultura all’altra. È più elevato nelle società semplici

rispetto alle società molto differenziate. Già Durkheim, alla fine dell’800, aveva osservato che nella società

industriale moderna la cultura è sempre più indeterminata, orienta meno rigidamente i comportamenti e

consente più alternative, dunque è più flessibile. La crescita della complessità sociale, ossia l’aumento

della specializzazione degli ambiti della vita sociale dovuta principalmente alla diffusione dei trasporti e

delle comunicazioni, ha come esito un aumento anche del grado di «differenziazione simbolica»: non solo

si moltiplicano le possibilità di scelta dell’individuo, il che produce effetti contraddittori come il

contemporaneo aumento di senso di libertà e incertezza, ma gli individui si trovano a confrontarsi con

modelli culturali contrastanti, il che genera conflitti di identità e dissonanze cognitive.

2.2 Pubblico/privato

La cultura è pubblica in quanto le proposizioni culturali di cui è costituita sono codificate entro

rappresentazioni di gruppi sociali, entro segni e simboli collettivi. Un esempio cruciale è quello del

linguaggio: esso ha un carattere pubblico che deriva dal fatto che come sistema di segni è oggettivamente

accessibile al di là delle intenzioni soggettive particolari di chi parla.

È proprio il carattere pubblico che consente di imparare la cultura di un gruppo sociale.

2.3. Oggettività/soggettività

L’aspetto pubblico della cultura e la sua forma di «oggettivazione» sono stati spesso intesi come esteriorità

dei fenomeni culturali, facendo coincidere collettivo con oggettivo. Durkheim per primo ha contribuito,

col concetto di «rappresentazioni collettive», a saldare le due dimensioni. Egli si serve della nozione di

istituzione per stabilire questa coincidenza: il patrimonio culturale di un gruppo sociale si è formato nel

tempo tramite la cooperazione di tutti ed è già presente quando un nuovo membro della società nasce e

anche quando esce di scena; gli individui danno vita alle istituzioni che, senza di loro, non esisterebbero.

Esse sono destinate a sopravvivere, però, anche col passare degli individui e delle generazioni. Questo

«sedimento collettivo» è oggettivo in quanto costituisce un vincolo esterno al soggetto agente, che gli si

impone con una forza obbligante.

Tra pubblico è oggettivo non c’è, però, completa sovrapposizione, e deriva dal duplice carattere del

significato delle rappresentazioni collettive: il loro significato, infatti, è “collocato” nei segni stessi, che

funzionano contemporaneamente come significato e significante, ossia come contenuto e come veicolo;

quando però le proposizioni culturali sono apprese dai soggetti, il loro significato si colloca anche nelle

loro menti: ciò vuol dire che esiste un livello soggettivo della cultura, formato dalle rappresentazioni

mentali degli attori sociali, il cui significato può essere conscio o inconscio. La cultura pubblica presenta

dunque un lato oggettivo e uno soggettivo. La differenza è tra «imparare» la cultura e «socializzarla»: solo

quest’ultimo processo implica che i valori, le norme, le credenze di una cultura entrino davvero a far parte

dell’esperienza personale del soggetto e vengano ritenute vere, giuste, appropriate. Bisogna dunque

comprendere come una cultura pubblica possa diventare soggettivamente plausibile. I sociologi si sono

soffermati a lungo su questo punto: hanno infatti parlato dei processi di trasmissione della cultura da una

generazione all’altra, ossia di «socializzazione», e hanno indagato, Max Weber per primo, le forme e i

fondamenti della «legittimazione», ossia come e quando le norme, i valori, le credenze vengono

considerati «validi», nel senso di vincolanti per l’agire.

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2.4. Esplicito/implicito

Vi è una cultura tacita, non detta, che fa riferimento a quei giudizi che i membri di un gruppo sociale

esprimono in maniera regolare, ma che non sono sempre in grado di argomentare. La cultura esplicita è

quella tematizzata e apertamente divulgata, spesso elaborata in forma teorica e consapevolmente

trasmessa.

3. COMPONENTI DELLA CULTURA

3.1. I valori

Nel linguaggio comune il termine “valore” è usato in due sensi diversi: 1) è un valore (o ha un valore)

qualunque cosa che sia ritenuta importante e che quindi si desidera ottenere se ancora non la si possiede o

si teme di perdere se è già nostra: sa questo punto di vista qualunque oggetto può diventare un valora sia

sul piano sociale che su quello privato; 2) valori sono gli ideali a cui gli esseri umani aspirano a e a cui si

riferiscono quando devono formulare dei giudizi.

Il linguaggio delle scienze sociali adotta un significato molto vicino a quest’ultimo: il valore non indica

l’oggetto d’interesse, ma il criterio della valutazione, ossia il principio generale col quale approviamo o

disapproviamo un certo modo di agire o di pensare. Il concetto di valore si distingue da quello di

preferenza: mentre quest’ultima indica ciò che è desiderato, il valore indica ciò che è desiderabile, o megio,

ciò che dovremmo desiderare. Per questo esso ha un valore normativo.

Una definizione chiara è fornita da Clyde Kluckhohn [1951] che ha intrapreso negli anni ’50 un vasto

progetto d’analisi comparata dei valori: «Un valore è una concezione del desiderabile, implicita o esplicita,

distintiva di un individuo o caratteristica di un gruppo, che influenza l’azione con la selezione fra modi,

mezzi e fini disponibili». Così il valore assume tre dimensioni: 1) una dimensione affettiva («il

desiderabile»); 2) una dimensione cognitiva («concezione»); 3) una dimensione selettiva («selezione»). I

valori coinvolgono gli affetti delle persone; l’attaccamento ai valori significa che conformarsi ad essi è

ritenuto «cosa buona in sé», al di là del vantaggio che ne se può trarre (l’efficacia sociale dei valori dipende

dalla loro interiorizzazione); i valori si presentano sotto enunciati che hanno un senso argomentabile («X è

buono», «X p giusto»), quindi implicano una consapevolezza e una capacità d’argomentazione da parte

dell’attore sociale e non vanno confusi coi costumi, ossia con la condotta abitudinaria; infine, in virtù della

dimensione selettiva i valori hanno la capacità di orientare l’agire sociale in quanto forniscono le

motivazioni ai comportamenti.

Prendendo in considerazione le culture moderne, Parsons identifica quattro dilemmi che ha chiamato

variabili strutturali, ciascuno dei quali richiama due risposte possibili:

1) Universalismo e particolarismo: se l’attore sociale decide di giudicare un oggetto fisico o sociale

partendo da criteri generali applicabili a tutta la categoria, allora opta per l’universalismo; se invece adotta

criteri particolari applicabili solo a quello specifico oggetto, opta per il particolarismo.

2) Prestazione e qualità: l’attore sociale deve scegliere se trattare l’oggetto alla lice delle sue

realizzazioni, cioè di ciò che fa, o se dare maggior importanza alle sue qualità, cioè ciò che è. Il valore della

prestazione, come quello dell’universalismo, è un portati del processo di modernizzazione sociale: le socieà

moderne infatti si sono costruite in contrapposizione ai privilegi che quelle rpecedenti accordavano ad

aspetti legati alla nascita e al ceto.

3) Neutralità affettiva e affettività: l’attore sociale sceglie la prima quando mette da parte i sentimenti

in vista dell’obiettivo da raggiungere (è il caso dei rapporti di lavoro); opra per la seconda, invece, nei

contesti amicali e familiari.

4) Specificità e diffusione: l’attore sociale può rapportarsi agli altri cogliendone i caratteri specifici,

oppure in maniera globale, considerando la persona nel suo complesso. Ad esempio, si orienta in manoera

specifica il medico al paziente; in maniera diffusa, la madre al figlio.

3.2. Le norme

Anche la sfera delle norme e quella dei valori non sono sempre separabili, anche se il sociologo distingue le

prime dai secondi in base al fatto che sono più specifiche e socialmente imperative. Anche se le norme

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possono essere interiorizzate come i valori, esse risultano formulate in maniera socialmente imperativa,

cioè sotto forma di obbligo («È vietato calpestare le aiuole»). Inoltre, l’efficacia sociale della norma dipende

dalla presenza di una sanzione (negativa o positiva): a differenza dei valori, la cui efficacia deriva

dall’operare di sentimenti interiorizzati, la norme è efficace se è rinforzata da forme di controllo esterno

del comportamento. Il grado di interiorizzazione delle norme è variabile: mentre i valori vengono appresi

e interiorizzati assai presto nella vita di un individuo, le norme vengono apprese nel corso di tutta la sua

vita, alcune durante la socializzazione primaria, altre nella vita adulta.

Le norme si distinguono dalle massime dell’esperienza. In generale, è difficile distinguere tra

comportamenti regolari e comportamenti regolati: se i soggetti si comportano in un certo modo per

abitudine si tratta di un comportamento regolare; se invece seguono un modello di comportamento che

ritengono obbligatorio, il comportamento regolare sarà anche regolato da una norma.

Un filosofo del linguaggio, John Searle [1969] ha distinto tra norme costitutive e regolative: le prime

costituiscono, ossia definiscono, una pratica che prima non esisteva (ad esempio le regole dei giochi); le

seconde regolano pratiche già esistenti: la maggioranza delle norme sono di questo tipo.

Si distinguono le norme anche in base al contenuto e allora ci sono tante norme quanti sono i contesti sociali:

norme della moda, dell’etichetta, della morale, della religione, del diritto, ecc.

In base al grado di formalizzazione si distinguono norme statuite e norme consuetudinarie: le prime

promanano da un’autorità a cui è riconosciuto tale potere (norme giuridiche); le seconde comprendono le

norme della morale quotidiana o dell’interazione sociale, chiamate da Goffman «microrituali», le quali

sono riconosciute dai soggetti dell’interazione ma in maniera implicita.

Vi sono anche norme deontologiche, che definiscono specifiche etiche professionali (categorie di medici,

avvocati, ecc.) e hanno un alto grado di formalizzazione, anche se l’etichetta non è esplicitamente

codificata.

Il grado di formalizzazione non è tuttavia sempre indicativo dell’importanza e dell’influenza sociale delle

norme. Il fatto che la morale quotidiana sia implicita e non codificata non la rende per questo meno

influente.

3.3. I concetti

Ancora più ampia delle norme è la categoria dei concetti. Questi, espressi attraverso il linguaggio,

comprendono proposizioni descrittive della realtà e costituiscono i modi in cui i soggetti organizzano

cognitivamente la propria esperienza. Mentre le norme stabiliscono cosa si deve fare, i concetti

stabiliscono che cosa è la realtà intorno a noi. Le prime affermano quello che la realtà deve essere, le seconde

quello che la realtà è.

Sono state distinte credenze fattuali e credenze rappresentazionali: le prime sono semplicemente cose che

si sanno, mentre le seconde corrispondono a credenze, opinioni, convinzioni e prevedono l’accettazione

consapevole del soggetto, che sa di accettare una certa rappresentazione. Potremmo dire che il significato

delle credenze fattuali è univoco, e possono essere sottoposte alla logica e al principio di non

contraddizione. Le credenze rappresentazionali, invece, hanno un significato vago e indeterminato:

credenze rappresentazionali incoerenti possono sussistere nel senso comune e nella vita quotidiana senza

per forza generare contraddizioni o paradossi.

3.4. I simboli

Il simbolo è stato spesso definito come «segno», sia convenzionale, ad esempio i segni utilizzati dai logici e

dai matematici, sia analogico, capace di evocare una relazione tra un oggetto concreto a un’idea astratta. Lo

scettro è, ad esempio, simbolo della sovranità.

In questo senso Ferdinand de Saussure ha definito la lingua come «un sistema di segni che esprimono

delle idee» e l’ha paragonata alla scrittura, all’alfabeto dei sordomuti, ai riti simbolici, considerandola la

più importante tra questi sistemi di segni. Egli ha indicato nella semiologia la scienza che studia i segni

nell’ambito della vita sociale.

Nell’ampio universo dei segni, i simboli vanno distinti dai segnali: questi hanno un valore informativo,

vengono introdotti tramite una semplice convenzione, sono univocamente interpretabili e hanno una

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funzione pragmatica (esempio: i segnali stradali). Altri segni da distinguere sono i marchi: essi hanno una

funzione rievocativa e il loro carattere è arbitrario e soggettivo (posso rompere un ramo per ricordarmi

dove sono passato, ma potrei sostituirlo con qualsiasi altra cosa). Dai simboli vanno distinte anche le

indicazioni, che non hanno carattere intersoggettivo e in cui il rimando rimane oscuro: ad esempio i segni

naturali, come il fumo che indica il fuoco.

I simboli hanno un carattere intersoggettivo, ossia sono condivisi da un gruppo sociale. Inoltre, fanno

parte della dimensione implicita della cultura, rappresentano un sapere che gli individui sono in grado di

esprimere ma non sempre di argomentare (non tutti sanno dire perché la croce è il simbolo delle fede

cristiana). I simboli non veicolano semplicemente informazioni, ma sono «significanti» associati a

«significati taciti» e quest’associazione non è arbitraria e convenzionale.

La sociologia, e prima ancora la psicologia con Mead, studia la funzione sociale e comunicativa dei

sistemi simbolici che mettono in opera i processi di riflessione e interpretazione e consentono all’identità

personale di emergere come qualità specificatamente umane.

Nell’antichità i miti costituivano sistemi simbolici complessi, e anche i riti di passaggio praticati nelle

società preletterate celebrano simbolicamente cambiamenti importanti nella vita di una persona. Nelle

società moderne le componenti simboliche continuano a sussistere, anche se non nella forma di miti e riti

di passaggio. Come aveva già notato Simmel, il denaro diventa la più adeguata espressione simbolica della

modernità. Oggi viviamo in una sorta di allucinazione estetica della realtà, in un ambiente dominato dalla

sovrapposizione di segni e dove gli oggetti sono diventati puri «significanti» di una pluralità sempre

cangiante di significati.

33

NNAATTUURRAA,, CCUULLTTUURRAA,, SSOOCCIIEETTÀÀ

1. CULTURA E STRUTTURA SOCIALE

La definizione di cultura della sociologia ha delle implicazioni riguardo a ciò che il termine cultura non

designa. Innanzitutto, essa non comprende i comportamenti: considerarli costitutivi della cultura, come si

è fatto in passato, farebbe della sociologia della cultura una disciplina coestensiva con l’intera sociologia;

infatti, le relazioni e le azioni sociali hanno determinanti sia culturali che non culturali (economiche,

politiche, ecc.). Da ciò deriva che i modelli culturali non possono semplicemente essere dedotti

dall’osservazione dei comportamenti manifesti.

La distinzione tra cultura e società è centrale per ogni analisi sociologica: mentre la cultura fa riferimento a

proposizioni sulla natura, l’uomo, la società e i loro rapporti, la società fa riferimento alla struttura delle

relazioni sociali, dai piccoli gruppi fino agli stati nazione e anche oltre, a quello che è stato chiamato

«sistema-mondo». Questa distinzione implica una relativa autonomia della cultura e la necessità per ogni

ricerca sociale di considerare il rapporto tra cultura e società come bidirezionale, di influenza reciproca.

Durkheim e Weber sono stati considerati interpreti di questo rapporto, seppur in modi opposti: mentre

Durkheim avrebbe teorizzato la stretta determinazione sociale dei fenomeni culturali, Weber avrebbe

elaborato il ruolo dei fattori culturali del comportamento sociale. Nei lavori di Durkheim le

rappresentazioni collettive dipendono da come è strutturata la società, e in quanto istituzioni regolano i

comportamenti sociali; nell’opera di Weber le concezioni del mondo e i valori etici indirizzano l’azione

sociale, ma sono considerati in rapporto alla loro affinità coi gruppi sociali che se ne fanno «portatori».

L’esigenza analitica di distinguere tra il piano sociale e quello culturale ha tra l’altro riscontro concreto

nello sviluppo sociale raggiunto dalla società moderna che crea nuovi livelli di autonomia e

specializzazione della cultura. L’evoluzione sociale ha portato alla progressiva affermazione della cultura

nella vita sociale. Essa crea un sistema culturale più differenziato e più stabile in un contesto sempre più

diversificato. Innanzitutto nel passaggio dalla società primitiva a quella intermedia l’apparizione della

scrittura ha rappresentato una vera rivoluzione che ha contribuito a rendere stabile la cultura: in una

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cultura orale, infatti, la conoscenza doveva essere costantemente ripetuta o si sarebbe persa; la scrittura

consente di fissare le idee e gli avvenimenti, consentendo così di oggettivare la cultura e renderla

disponibile a un pubblico sempre più vasto. Con la scrittura la cultura è diventata più stabile e si è staccata

dalla quotidianità e dall’interazione fisica tra le persone.

Il passaggio alla società moderna è stato segnato dall’apparizione del diritto, di un sistema codificato di

norme e di istituzioni giuridiche. Anche questo ha accresciuto la stabilità della cultura: fissando regole e

norme di comportamento, si sono istituzionalizzate le idee e gli ideali. Con il diritto i costumi sono meno

influenzati a influenze a breve termine e vengono rafforzati nella loro legittimità. A ciò bisogna aggiungere

l’emergere di istituzioni con lo scopo di trasmettere il patrimonio culturale: mentre nelle società

premoderne la socializzazione competeva alla famiglia e alle istituzioni religiose, nella società moderna

sono le scuole, le università e altri organismi (musei, televisione, Internet) che veicolano ed elaborano parti

della cultura. L’esito di questo processo è una cultura autonoma, ossia distinta dalle altre sfere sociali (

politica, economia) stabile e ricca di contenuti, sempre più differenziata al suo interno ma anche in

rapporto agli altri ambiti della vita sociale.

2. LA CULTURA COME «BUSSOLA»

C’è un termine sotteso all’analisi della cultura: il significato. I valori, le norme e i simboli hanno un

significato. I simboli, in particolare, hanno significati consci e inconsci che sono generalmente espressi in

forma di figure retoriche, come la metafora o la metonimia. È merito di Max Weber se i sociologi si sono

resi conto dell’importanza del significato delle azioni sociali. Per Weber, inoltre, la cultura è ciò che

conferisce significato all’azione umana.

Molti altri autori hanno elaborato l’idea che la funzione della cultura consista principalmente nel dare

senso alle nostre azioni e un ordine alla nostra esperienza, costituendo una sorta di «bussola» del

comportamento. Ma come mai ci serve una «bussola» per orientarci?

La risposta a questa domanda ci porta alla questione della natura umana e del rapporto tra natura e

cultura. Antropologi e sociologi sostengono la tesi che l’ordine culturale sia la risposta alla carenza

dell’organizzazione istintuale dell’uomo, rispetto agli altri mammiferi. Negli animali i modelli di

comportamento fanno parte della loro dotazione genetica: gli uccelli non devono imparare a emigrare o a

costruire i nidi, in loro il comportamento giusto si produce automaticamente.

Anche se scienziati hanno scoperto che anche gli animali apprendono alcuni comportamenti, la maggior

parte di questi rimangono istintivi. Il comportamento umano, invece, è in gran parte esente dal controllo

genetico. È vero che anche noi abbiamo istinti, bisogni e pulsioni, ma mentre il ragno tesse

instancabilmente la sua rete per attirarvi prede e cibarsene, l’uomo nel tempo ha inventato tanti strumenti

per procacciarsi il cibo, dalla canna da pesca alla coltivazione della terra.

L’enorme varietà delle risposte che gli esseri umani hanno offerto per controllare l’ambiente circostante

non è dunque imputabile alla costituzione biologica. La costruzione di un ordine culturale e simbolico

deriva da una necessità di compensazione, dal bisogno di fornire alla vita umana quelle strutture stabili

che biologicamente le mancano. Da ciò si deduce che: 1) la cultura è un’ininterrotta costruzione sociale e la

stabilità non è mai definitiva, ma intrinsecamente precaria e sottoposta al mutamento; 2) la cultura non è un

«ornamento dell’esistenza umana», ma una sua condizione necessaria.

Queste considerazioni hanno trovato espressione nella più recente teoria antropologica che è giunta a

sostenere che l’autentica natura dell’uomo sia da ricercarsi proprio nella cultura e che dunque natura e

cultura coincidono.

3. VARIABILITÀ E UNIVERSALITÀ DELLA CULTURA: IL PROBLEMA DEL RELATIVISMO

La considerazione della variabilità e molteplicità delle culture non è, d’altro canto, un risultato recente. Già

nell’antichità Erodoto aveva descritto nelle Storie la diversità delle credenze e delle pratiche funerarie tra i

greci, i persiani e gli indiani. In epoca moderna alcuni filosofi come Pascal, Montaigne e Montesquieu,

hanno sottolineato la molteplicità dei modi di pensare e agire. Si affaccia, così, l’idea della relatività dei

mondi culturali.

Il relativismo è quell’atteggiamento intellettuale che deduce dall’osservazione della variabilità culturale

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la conseguenza che ogni asserzione ne vale un’altra. La moderna scienza sociale concorda nell’osservare

la grande variabilità delle culture tra le società umane e anche all’interno di una stessa società, ma è incerta

su come interpretarla. Vi sono due posizioni opposte: 1) i modelli riduzionisti, oggi meno diffusi,

comprendono il marxismo, l’economia neoclassica, il materialismo culturale, la sociobiologia, e tendono a

minimizzare la variabilità culturale e a interpretare le variazioni come manifestazioni di superficie che

nascondono uniformità più profonde; 2) i modelli relativisti, in cui convergono la fenomenologia, lo

storicismo, gran parte della sociologia e dell’antropologia e della filosofia postmoderna, insistono

sull’unicità di ogni cultura, che può essere compresa solo nei propri termini, ossia analizzando la storia e i

contesti specifici in cui si forma; questo modelli tendono a rifiutare metodi di analisi comparativa in quanto

si baserebbero su somiglianze superficiali.

Le ragioni del relativismo sono soprattutto metodologiche. Per chi si appresta a studiare un’altra cultura è

fondamentale non affrontarla con pregiudizi e schemi concettuali appartenenti alla propria società.

Adottare una prospettiva relativista permette di contrastare l’etnocentrismo che aveva caratterizzato nel

passato molti studi di missionari, antropologi e viaggiatori. L’etnocentrismo, come lo definisce Sumner nel

1906, è in fatti «il termine tecnico per quel punto di vista secondo cui il nostro gruppo è il centro di tutte le

cose, mentre tutti gli altri gruppi sono misurati e valutati rispetto a esso».

Il relativismo come orientamento metodologico va distinto dal relativismo come impostazione filosofica,

che afferma l’incomparabilità tra culture diverse, l’impossibilità di ogni criterio di validità e di un’effettiva

comprensione interculturale. Esso considera le culture come mondi chiusi nei loro confini: ma esse non

sono, in verità, sistemi chiusi e immobili, ancor meno quelle contemporanee, poco omogenee al loro interno

e caratterizzate dalla sovrapposizione di elementi tradizionali e moderni.

Il confronto tra culture non è impossibile. Numerose indagini hanno potuto mettere in luce l’esistenza di

tratti comuni tra le culture, chiamati universali culturali: sono ad esempio il tabù dell’incesto, il complesso

di Edipo o la norma della reciprocità, per la quale è un dovere contraccambiare un favore ricevuto.

4. COME SI STUDIA LA CULTURA? ALCUNE QUESTIONI DI METODO

Qualsiasi ricerca sociologica parte da una domanda conoscitiva a cui si cerca di dare una risposta fondata

empiricamente. A volte ci si limita a domande di tipo descrittivo: come sono distribuiti i ruoli in una

famiglia? Quasi sempre però di formulano domande più impegnative, di tipo esplicativo, che mirano a

conoscere cause, funzioni, condizioni storico-sociali che hanno generato quel fenomeno. In questo caso la

domanda inizia con un «perché». Ciò che accomuna la ricerca sociologica è il fatto di utilizzare metodi

codificati di indagine al fine di orientarsi nella raccolta e nell’analisi dei dati empirici, rendendo i risultati

ottenuti aperti al confronto e alla critica della comunità scientifica. Nel corso della sua evoluzione la

sociologia ha elaborato questi metodi e tecniche in una disciplina particolare, la metodologia della ricerca

sociale. La conoscenza di tale metodologia è indispensabile per chiunque voglia intraprendere studi sociali.

Alcuni sociologi intendono la sociologia della cultura non solo come scelta di uno specifico ambito di

studio, ma come una scelta più ambiziosa che investe il modo stesso di concepire l’intero lavoro

sociologico. In seguito alla «svolta linguistica» alcuni studiosi hanno cominciato a considerare la sociologia

culturale come un vero e proprio paradigma teorico-epistemologico, ossia come un approccio totale che

definisce i problemi di potenziale interesse della sociologia e anche il modo con cui affrontarli. Viene

avanzata una concezione costruttivista della società, intesa come una costruzione linguistico-culturale, e

il linguaggio l’oggetto di studio privilegiato, in quanto è attraverso questo che ogni fenomeno viene

costruito divenendo ai nostri occhi «reale». Il costruttivismo, se esasperato, porta a sostenere che tutti gli

aspetti della vita umana sono «costrutti culturali», compresi quelli biologici. L’esito è l’assimilazione totale

tra realtà (sociale e biologica) e cultura.

L’orientamento più efficace è quello pragmatico, che potremmo chiamare «pluralismo metodologico» e

che dovrebbe condurre a scegliere i metodi in funzione agli obiettivi della ricerca. Esso va così sintetizzato:

1) i diversi metodi vanno commisurati agli obiettivi, nonché al tipo di oggetto di studio; 2) un solo metodo

per la raccolta dei dati a volte è insufficiente, così si devono integrare diverse tecniche – quantitative e

qualitative – tenendo conto che entrambe hanno vantaggi e difetti.

La cultura è un campo di studio complesso, affrontato da una molteplicità di discipline con diversi

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approcci: l’antropologia con le tecniche etnografiche basate sull’osservazione partecipante; la psicologia

interculturale con analisi statistiche per comparare una varietà di culture diverse; la semiotica con l’analisi

interpretativa dei testi. Se la scelta del metodo più appropriato dipende dallo scopo della ricerca, i problemi

più delicati non sono di tipo metodologico ma concettuale: a quale domanda vogliamo rispondere?

4.2 Rilevare il significato

Valori, norme, credenze hanno un significato che è socialmente condiviso da un gruppo, sono cioè

fenomeni collettivi o rappresentazioni collettive (Durkheim). Misurarli con la tecnica dell’intervista

standardizzata (o questionario), che è rivolta ai singoli individui, sembra inadeguato. Si è parlato di una

«fallacia individualista» che avrebbe come conseguenza la «psicologizzazione» della cultura, considerata

come la somma di orientamenti psicologici individuali. Si rischia di cogliere non quello che le persone

veramente pensato, ma pseudo-opinioni, indotte magari dal desiderio di apparire preparati all’intervistatore

o volendo dire ciò che la gente si aspetta per riscuotere approvazione.

Di seguito faremo alcuni esempi di ricerche che, pur usando metodologie diverse per rilevare i valori, i

simboli e le norme, hanno raggiunti risultati importanti.

La ricerca empirica interculturale sui valori: analizza con metodi quantitativi le configurazioni di

valori di diverse società occidentali e orientali. Queste configurazioni dipendono dal livello di

organizzazione delle diverse componenti culturali: una cultura, ad esempio, coesa e semplice è

collettivista, invece culture complesse sono individualiste.

C’è chi ha criticato lo strumento dell’indagine survey per la rilevazione del significato in quanto si

limiterebbe a rilevare opinioni e atteggiamenti individuali, ma esso ha il vantaggio di cogliere la

dimensione soggettiva della cultura; questo metodo va poi integrato con altri tipi di indagine. Altri

vantaggi sono: 1) la standardizzazione degli atteggiamenti permette di trasformali in dati statistici;

2) si possono individuare strutture latenti che organizzano numerose variabili di atteggiamento

giungendo a comporre configurazioni complesse di valori, che possono essere studiate anche

comparandole a variabili strutturali (economia, politica) e comportamentali (degli individui).

Metodi qualitativi di analisi dei valori e credenze: i vantaggi dell’indagine survey si combinano con

lo svantaggio della difficoltà di non poter scavare nelle motivazioni delle scelte morali dei soggetti.

Per questo alcuni autori preferiscono l’utilizzo delle tecniche qualitative, come interviste discorsive

libere o guidate. Questi metodi non consentono però alcuna generalizzazione dei risultati e sono

quindi inadatti all’analisi comparativa transnazionale. Inoltre, incorrono nella «fallacia

individualistica» di studiare solo gli atteggiamenti individuali. In questo caso non è più l’aspetto

generale delle culture ad essere l’obiettivo di ricerca, ma l’analisi interna a una cultura; lo scopo è

arrivare a una tipologia di soggetti intervistati che sintetizzi diversi profili emersi in rapporto al

tema scelto.

Il metodo strutturale di interpretazione dei simboli: non solo i valori, ma anche i simboli sono stati

studiati con metodi formali, che perlopiù sono metodologie quantitative. Si tratta di studi che

tendono a misurare i significati istituzionali piuttosto che individuali, con l’obiettivo di ridurre

complesse raccolte di dati culturali a più semplici strutture di significato. Questo approccio

metodologico, in sintesi, consiste nel: 1) identificare degli elementi di base entro il sistema culturale

considerato; 2) registrare il modello di relazioni tra gli elementi identificati; 3) identificare

l’organizzazione strutturale attraverso l’applicazione di criteri di riduzione al sistema di relazione

in modo da preservare il modello; 4) la struttura che ne risulta è riconnessa al contesto istituzionale

che si sta indagando.

La ricerca genetica sull’evoluzione delle norme: ogni metodo risponde a una domanda di ricerca. La

ricerca genetica si pone un problema di spiegazione domandandosi perché un dato fenomeno

sociale si è evoluto nel tempo fino a raggiungere la forma attuale. Le origini vengono cioè ricercare

nel passato. In campo culturale i classici della sociologia hanno spesso usato questo metodo di tipo

eminentemente storico.

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LLAA DDIIFFFFEERREENNZZIIAAZZIIOONNEE CCUULLTTUURRAALLEE NNEELLLLEE SSOOCCIIEETTÀÀ MMOODDEERRNNEE

1. IL PLURALISMO CULTURALE

È ampiamente riconosciuto che le società occidentali contemporanee non sono del tutto omogenee. I

moderni stati-nazione nascono dall’unificazione politica di gruppi e popolazioni spesso molto eterogenee

per quanto riguarda l’etnia, la lingua e la religione. A queste differenze se ne sono aggiunte altre create dai

processi di industrializzazione e di divisione del lavoro, differenze cioè legate alla classe sociale, alle

generazioni, alle regioni, ai movimenti politici. A queste divisioni corrisponde da un lato una diversa

distribuzione sociale della conoscenza, dall’altro una diversità di valori e norme sociali. Per descrivere

quest’ultimo fenomeno si parla di pluralismo culturale.

Ciò non significa che solo la nostra società contenga una pluralità di opzioni e modelli culturali. Anche nel

passato delle società-stato agricole esisteva una forte differenziazione culturale, ma con caratteristiche

molto diverse dal pluralismo moderno. In queste società, la cultura era statica e perciò era possibile

stabilire nette divisioni di stato, di casta, di gruppo e mantenerle senza creare tensioni e conflitti. Anzi, tali

disuguaglianze non erano messe in discussione poiché etano accettate come inevitabili e naturali. Con la

società industriale la cultura diventa mobile e instabile. Qui vengono rafforzati i confini tra le nazioni più

che tra le classi, e si pretende di rianimare una cultura già esistente ma che è spesso solo un’invenzione.

Se è stato possibile identificare cultura e nazione è perché il nazionalismo del XIX secolo è l’imposizione di

una cultura superiore su una società in cui in precedenza culture inferiori dominavano la vita della

maggioranza. Ciò che ha creato l’omogeneità culturale all’interno di una nazione è la diffusione

generalizzata di una lingua, trasmessa da istituzioni apposite come la scuola e l’università, e codificata per

precise esigenze di comunicazione impersonale e tecnologica.

Questa differenziazione culturale è legata a una società industrializzata in cui esiste un’alta mobilità sia

geografica che sociale.

Nella tradizione sociologica Durkheim e Simmel avevano colto due caratteristiche fondamentali di questa

nuova complessità sociale: 1) l’aumento del numero e della varietà di elementi del sistema; 2) la

moltiplicazione delle relazioni di interdipendenza tra queste elementi. È in questo quadro che si

ridefiniscono i rapporti tra individuo e società, e tra individuo e cultura. Se Durkheim aveva messo in

relazione la crescita della complessità sociale con l’emergere della personalità individuale, Simmel

sottolinea ancora un altro aspetto del processo di individualizzazione: nella società premoderna l’individuo

era legato dalla nascita a un numero limitato di gruppi ciascuno dei quali comprendeva quello di scala

inferiore (ad esempio il clan che comprendeva il gruppo occupazionale che comprendeva la famiglia).

L’individuo viveva, cioè, entro un sistema di cerchie sociali concentriche e non usciva mai dal proprio

«mondo». Con la complessità sociale queste sfere e gruppi perdono la loro concentricità e si

giustappongono gli uni agli altri; ciò significa che l’individuo si trova a partecipare contemporaneamente a

più gruppi e associazioni, “migrando” così da un «mondo» all’altro magari nell’arco della stessa giornata.

Il termine pluralismo identifica due aspetti caratteristici della cultura moderna: 1) la coesistenza di diversi

sistemi simbolici; 2) la specifica situazione dell’individuo che, di fronte alla pluralità delle opzioni, è

portato a pensare che la scelta tra valori diversi o contraddittori sia un aspetto irrinunciabile della propria

e altrui libertà. Da questo punto di vista, il pluralismo non è più solo un concetto descrittivo, ma anche

un’ideale della società moderna.

La condizione del pluralismo culturale, di cui soprattutto Weber aveva parlato con la definizione

«politeismo dei valori», impone di riconsiderare in modo critico il rapporto della cultura con la tradizione

e la condivisione.

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2. SUBCULTURE

Il concetto di subcultura ha assunto significati diversi da quando è stato coniato negli anni ’40, ma ha

comunque mantenuto alcuni tratti distintivi:

1) il prefisso “sub”, che descrive la cultura di un gruppo come subalterna, subordinata rispetto alla

cultura nella sua interezza della società più ampia, di cui la subcultura è come una “nicchia”; la

subordinazione significa che i gruppi studiati come subculture sono identificati come devianti rispetto ai

fini e alle norme della società.

2) il secondo tratto distintivo si basa su differenze di classe, etnia, età, o semplicemente

geografiche: una subcultura è un settore ben delimitato di una cultura che l’ingloba, rispetto alla quale non

è autonoma, pur differenziandosene in termini sociali e simbolici.

3) il terzo tratto è stato messo in luce da Albert K. Cohen che afferma che tutte queste sottoculture

hanno in comune una stessa cosa: vengono acquisite solo tramite l’interazione con coloro che già le

condividono. Dunque, perché si possa parlare di subcultura ci deve essere un sistema di interazioni a

livello microsociale, che esprime specifici modelli culturali. La subcultura presenta quegli aspetti di

coesione e di densità dei legami che l’avvicinano all’idea di comunità. Tuttavia, la subcultura si distingue

dalla comunità per il fatto che mentre quest’ultima fa riferimento a una rete di relazioni sociali stabile, che

comprende rapporti di vicinato, la subcultura è un gruppo meno stabile nel tempo, in gran parte separato

dalle relazioni familiari.

Lo studio delle subculture ha le sue origini nella Scuola di sociologia di Chicago in un periodo che va

dagli anni ’20 ai tardi anni ’60. È a partire dall’interesse di alcuni suoi rappresentanti (come Park) verso la

microsociologia urbana che nasce un progetto di ricerca volto a esplorare la grande diversità di

comportamento presente nelle città americane di inizio secolo. È tuttavia solo lo studio di Cohen [1955]

sulle bande giovanili che popolano i cosiddetti quartieri della malavita dei grandi centri urbani che il

concetto di subcultura viene esplicitato. Innanzitutto egli fornisce un ritratto della «subcultura

delinquente» sia dal punto di vista sociale che dei suoi contenuti culturali. Dall’analisi secondaria di dati

statistici risulta che essa è concentrata prevalentemente nel settore maschile della gioventù di classe

operaia. Per quanto riguarda i contenuti, Cohen osserva che essa è «gratuita, maligna e distruttiva»: è

gratuita in quanto il furto non è motivato da considerazioni razionali ma serve solo per ottenere

riconoscimento e approvazione dai compagni; è maligna perché gli scherzi, i «brutti tiri», sono sempre

motivati dal piacere sottile della provocazione e della trasgressione fine a se stesse; è anche distruttiva in

quanto prende le proprie norme dalla cultura più ampia, ma le capovolge. A questi attributi si aggiunge

quello della «versatilità», ossia il fatto che la banda non si specializza in una specifica attività criminale e si

orienta all’«edonismo immediato», non ponendosi cioè mete a lunga scadenza. Cohen critica una

spiegazione di questi comportamenti in termini di disposizioni innate e istintuali; egli sostiene che le forme

sub culturali emergano dall’interazione tra attori sociali che hanno problemi simili di adattamento sociale,

come soluzione innovativa a questi problema. Si tratta dunque di una strategia collettiva di soluzione dei

problemi.

Un secondo importante filone di ricerca è legato al Centre for Contemporary Cultural Studies dell’Università

di Birmingham durante gli anni ’70. Il fuoco dell’interesse si sposta dalle subculture delinquenti alle

subculture giovanili, particolarmente a quelle inglesi che sviluppano modi di espressione spettacolari

come i punks e gli skinheads. L’approccio teorico è qui influenzato dal marxismo, calato in una prospettiva

interdisciplinare. La sociologia cessa di essere la disciplina di riferimento per coniugarsi con discipline

letterarie, l’antropologia e la storia culturale. Le subculture giovanili analizzate hanno una chiara

provenienza e collocazione di classe: esse appartengono sempre alla classe operaia. Esse nascono

dall’intersezione tra la cultura operaia dei genitori e le istituzioni della cultura dominante. Le subculture

giovanili adottano tratti della cultura d’origine, ad esempio l’enfasi sulla territorialità e una valorizzazione

della mascolinità, che vengono tuttavia rielaborate secondo la loro identità distintiva.

In particolare, la subcultura costruisce la sua specifica identità attraverso l’uso di oggetti, la predilezione di

un certo tipo di musica, un peculiare tipo di abbigliamento e di pettinatura, combinati a formare uno stile

distintivo.

Tali subculture hanno una base economica nella società degli anni ’50-’60, nella crescita del reddito

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disponibile per gli adolescenti della classe operaia, spendibile per il tempo libero entro un nuovo mercato

orientato ai giovani. Gli oggetti di consumo, tuttavia, costituiscono solo il materiale grezzo in base a cui i

gruppi giovanili in maniera creativa costruiscono uno stile che assegna loro un significato.

Tutti questi studi tendono a fornire un’immagine segmentata della complessità culturale della società

contemporanea. La cultura di una società appare formata dall’aggregazione di subculture locali, con

confini sufficientemente delimitati da costituire gruppi sociali distinti, quasi delle comunità a sé stanti o

delle «subsocietà».

3. CULTURA ALTA, CULTURA POPOLARE, CULTURA DI MASSA

Un secondo modo in cui la sociologia ha cercato di analizzare le caratteristiche della cultura è distinguendo

tra cultura alta, cultura popolare e cultura di massa.

Il dibattito sulla cultura di massa inizia negli anni ’20 con l’avvento del cinema e della radio, con il

fascismo e il suo uso propagandistico dei mass media, ed emerge pienamente negli anni ’50 quando si

afferma una vera e propria industria della cultura, volta alla produzione e al consumo di massa.

La necessità di distinguere tra cultura alta e cultura popolare nasce dalla netta separazione tra la società

del passato e quella attuale: nella società preindustriale a una cultura alta, identificata soprattutto nell’arte,

patrimonio di un’elite sociale, si affianca una cultura costituita da costumi e tradizioni locali, radicata nella

vita quotidiana, nei riti e nelle feste di una popolazione che è ancora integrata entro una comunità; il

passaggio alla società industriale, con la creazione di una produzione industriale di massa,

l’urbanizzazione e il declino dei vecchi legami comunitari, produrrebbe degli effetti negativi sulla cultura

popolare. Essa subirebbe una metamorfosi in senso di degenerazione e scadimento: i suoi caratteri

sarebbero la passività, la sottomissione logica del consumo, la standardizzazione e la superficialità.

Volendo dare una definizione di cultura di massa si potrebbe dire che essa è la cultura popolare che è

prodotta dalle tecniche industriali di produzione di massa e che è venduta al fine di ottenere un profitto

al pubblico di massa dei consumatori. La nozione di cultura di massa ha dunque un carattere descrittivo e

uno valutativo: da un lato descrive le caratteristiche che la cultura assume quando emerge un nuovo

ordine della società (quella di massa), dall’altro la considera negativamente come cultura degradata

rispetto a un modello ideale di cultura elevata propria dei ceti intellettuali.

Si possono riscontrare notevoli somiglianze tra la nozione di cultura di massa e quella di «semicultura»

proposta in Germania dalla cosiddetta Scuola di Francoforte (tra i cui principali protagonisti c’è Adorno):

sono alcuni dei principali esponenti di questa scuola ad aver analizzato e criticato l’industria culturale a cui

si attribuisce un ruolo di manipolazione e di omologazione culturale. L’unidirezionalità dei messaggi, la

produzione orientata alla vendita e al consumo, standardizzano la cultura e la riducono a merce,

sostituendo il valore d’uso dei beni culturali con il loro valore di scambio e la trasformano in

«semicultura», ossia una cultura frammentata, che si acquisisce per il prestigio che può procurare, ma che

non ha più alcun rapporto con l’esperienza.

La nozione di cultura di massa è però imprecisa e ambigua poiché confonde diversi livelli di analisi:

rinvia allo stesso tempo a proprietà qualitative della cultura, ai mezzi attraverso i quali è trasmessa, e alle

modalità di recezione e di consumo da parte degli utenti. In primo luogo, se i messaggi hanno una certa

uniformità, ciò non significa che siano recepiti in maniera uniforme dagli individui. Il pubblico dei mass

media non è un pubblico disorganizzato come si presume quando si parla di «massa» e i messaggi vengono

invece recepiti in maniera selettiva dagli individui. Fra il mezzo di comunicazione e la massa si interpone

una fitta rete di relazioni informali che è in grado di mediare i messaggi. L’influenza esercitata dai mezzi

di comunicazione di massa avviene in maniera indiretta, attraverso i contesti sociali in cui l’individuo è

inserito. In secondo luogo, anche l’idea di una cultura di massa omologata verso il basso, che presuppone

una netta distinzione dalla cultura alta, non risponde all’esigenza di sociologi e storici che vogliono

analizzare i reciproci rapporti tra cultura popolare e cultura alta.

Già nel Medioevo la cultura popolare era molto diversificata e il «popolo» non possedeva affatto una

cultura omogenea: si diversificava secondo i modi di vita differenti tra campagna e città, e all’interno di

questi attraverso i vari mestieri; molti gruppi avevano le loro corporazioni, i loro santi, sviluppavano varie

festività ed erano consapevoli della propria identità, caratterizzata da musiche, canzoni, racconti orali.

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Esistevano poi specifiche «subculture», come quelle dei girovaghi e di altri gruppi di professionisti

itineranti, e variazioni molti forti a livello regionale e religioso.

Si mette così in luce l’esistenza di un’interazione tra i due tipi di cultura, che presentano confini

abbastanza flessibili: da un lato la letteratura «discese» lungo la scala sociale (come accadde a Dante che

entrò a far parte della cultura popolare), dall’altro ci fu l’ascesa sociale di forme popolari come il ballo, da

danza di contadini al valzer dell’800.

Emerge così che le distinzioni stesse di cultura alta e cultura popolare non sono stabili, ma cambiano nel

tempo.

Va tenuto presente che, quando si parla di questi due tipi di cultura, ci si riferisce ai prodotti culturali. Essi

costituiscono una forma della cultura che è stata chiamata «cultura documentata» ed è propria della società

industriale: si tratta dei prodotti che esistono sia come artefatti sia perché vengono mostrati a un pubblico

di spettatori: il cinema, la televisione, la letteratura, la musica, le arti.

4. CULTURA E CLASSI SOCIALI

La distinzione tra cultura alta e cultura popolare alla fine risulta imprecisa, per questo molti autori

ritengono preferibile distinguere la cultura in base al settore dell’industria che la produce. Si dovrebbero

allora distinguere una cultura urbana, prodotta dall’industria centrale e il cui pubblico è stratificato per

classe, e delle culture periferiche, in cui la classe sembra aver perso importanza. Questa distinzione

riguarda nello specifico i prodotti dell’industria culturale verso cui si esprimono i «gusti» culturali dei

consumatori.

La sociologia ha però sviluppato una prospettiva più generale che tende a collegare la variabilità di valori e

credenze di una società, che orientano le stesse scelte di consumo, alla diversa esperienza sociale che gli

individui hanno sviluppato per il fatto di occupare certe posizioni nella struttura sociale. Valori e credenze

non variano casualmente, ma seguono linee di divisione sociale. Sono le condizioni storiche e sociali a

essere maggiormente prese in considerazioni fin dagli esordi della sociologia, in particolare la classe sociale

e le generazioni; recentemente si sono aggiunti anche gli stili di vita.

4.1 Classe e coscienza di classe secondo Karl Marx

Le società complesse sono caratterizzate da una stratificazione sociale molto articolata e diversificata, ossia

da una struttura sistematica di diseguaglianze economiche e sociali. Esse esistono in tutti i tipi di società

ed epoche storiche e assumono nella società industriale moderna caratteristiche peculiari che vengono

riassunte col termine di «classi». Da esse vanno distinti gli altri tipi di diseguaglianza, basati ad esempio

sul genere, la razza e altri aspetti legati alla nascita.

Tra questi basta ricordare il sistema indù delle caste che divide la società in gruppi ereditari distinti dai

quali i membri non si possono discostare, gerarchicamente ordinati in inferiori e superiori. I ranghi sociali

non sono definiti su elementi economici, ma rituali e religiosi, per cui la gerarchia sociale si definisce in

base alla distinzione puro/impuro.

Anche il sistema dei ceti feudali aveva una struttura di diseguaglianze molto rigida basata sul valore del

sangue: era il ceto cui si apparteneva dalla nascita, e non la ricchezza, a classificare le persone collocandole

in alto o in basso nella gerarchia sociale.

L’aspetto sociologico interessante è che queste strutture tradizionali di diseguaglianza avevano una

caratteristica comune: poiché esse erano immodificabili e ognuno era destinato ad appartenere fino alla

morte allo stesso gruppo, si sono sviluppati ampi e sofisticati sistemi di legittimazione religiosa

dell’ordine sociale.

La giustificazione religiosa comincia a sgretolarsi con l’affermarsi dell’industria e del capitalismo, insieme

alle rivoluzioni politiche come quella inglese e francese, che fanno emergere nuovi valori legati all’idea che

tutti gli esseri umani nascono eguali. Alla naturalità della diseguaglianza subentra, nel XVIII secolo,

quella dell’uguaglianze ci si comincia a chiedere la ragione del permanere di situazioni di subordinazione e

diseguaglianza. Le diseguaglianze in questa nuova ottica non sono più derivanti dalla natura o dal volere

divino, ma diventano prodotti della storia e degli uomini, e di conseguenze modificabili.

Karl Marx (1818-1883), che fu teorico della società e attivista politico, ci ha lasciato una serie di

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considerazioni sia di tipo filosofico che storico-sociologico sulle classi sociali e sul loro rapporto con la

cultura. Anche se Marx non ha mai definito in maniera precisa il concetto di classe, le classi sociali sono al

centro di tutta la sua opera. Essa hanno un fondamento precisamente economico, in quanto dipendono

dalle forme di proprietà e di controllo che caratterizzano le relazioni di produzione. Da questo punto di

vista, per Marx nella società capitalistica vi sono due classi principali: la borghesia, che possiede i mezzi di

produzione, e il proletariato, che possiede solo la propria forza lavoro ed è costretto a venderla per

sopravvivere. Anche se per Marx borghesia e proletariato erano i veri motori dello sviluppo storico, in

quanto è dalla loro lotta e dalla vittoria del proletariato che sarebbe emersa una società senza più classi,

egli è comunque molto attento a cogliere le sfumature all’interno della stessa classe.

Se la classe è definita economicamente e si fonda su relazioni di produzione, qual è il suo ruolo nella

trasformazione sociale? La sua esistenza è sufficiente a farne un attore sociale collettivo? Non c’è dubbio

ch per Marx le classi non siano dei gruppi omogenei che condividono stessi interessi e concezione del

mondo. Esse sono quindi dei soggetti collettivi solo potenzialmente.

Marx infatti distingueva tra «classe in sé» e «classe per sé»: 1) la classe in sé indicava la collocazione

oggettiva delle persone entro dei rapporti di produzione; 2) la classe per sé fa riferimento alla dimensione

soggettiva, ossia alla presa di coscienza degli individui di appartenere a una comunità e avere interessi e

finalità comuni. Solo il passaggio dalla classe in sé alla classe per sé me fa un’identità collettiva capace di

mobilitare le proprie risorse per il raggiungimenti dei propri fini. Marx, tuttavia, ha interrotto il suo lavoro

là dove si accinge alla determinazione delle classi e della coscienza di classe, teoria che fu ripresa da

Gyorgy Lukàcs in un’opera molto contestata: Storia e coscienza di classe (1923).

In realtà Marx aveva offerto una spiegazione all’emergere della coscienza umana, che è centrale nella

prospettiva del materialismo storico. Marx distingue tra la «struttura» economica della società che

determina delle «sovrasrtrutture» politiche e giuridiche e forme specifiche di coscienza sociale. Questa

distinzione è stata spesso interpretata come «determinismo economico», ossia come teoria che assume che

la sovrastruttura sia un riflesso diretto dei rapporti economici. Non solo alla cultura non sarebbe lasciata

alcuna autonomia, ma le classi sociali non potrebbero sviluppare una coscienza propria.

In realtà, Marx intende il rapporto tra «essere sociale» e «coscienza» in maniera non deterministica: infatti

per lui la realtà oggettiva non è un puro dato, ma il prodotto storico creato dalla pratica dell’uomo. A sua

volta, la pratica non è solo soggettiva e funge anzi da tramite fra la realtà sociale e la coscienza: non esiste

una realtà sociale nettamente distinta dalla coscienza, ma essa si costruisce tramite l’attività pratica degli

uomini, che implica certe modalità di cooperazione, contatti reciproci tra individui e una certa divisione del

lavoro.

Se è attraverso la pratica che Marx suggerisce che possa emergere la coscienza di classe, i meccanismi di

questo fenomeno non sono stati discussi in maniera sistematica. Uno di questi meccanismi è l’omogeneità

interna a una classe raggiunta tramite la riduzione di differenziazioni, dovuta, ad esempio, ai processi

migratori e soprattutto alla concentrazione delle forze produttive nello stesso luogo, facilitando la

comunicazione tra i membri della stessa classe rendendo maggiormente visibile la struttura di classe della

società.

Questo aspetto è stato approfondito da Lukàcs, che ha visto nel processo di «socializzazione della

società», ossia nell’organizzazione unitaria della società, il carattere peculiare del capitalismo che rende

possibile la coscienza sociale. Il capitalismo, infatti, abbatte le barriere spazio-temporali tra i paesi e nel suo

mondo di uguaglianza di tutti gli uomini scompaiono quei rapporti economici che hanno regolato il

rapporto tra uomo e natura: l’uomo diventa essere sociale e in questo modo la conoscenza della società

come realtà diventa possibile solo sul terreno del capitalismo.

Lukàcs riteneva, spingendosi al di là di Marx, che solo le due classi principali, borghesia e classe operaia,

potessero comprendere l’intera società, proprio per le loro posizioni privilegiate nel processo produttivo.

Con un vantaggio conoscitivo in più per il proletariato: per esso, a differenza della borghesia, gli interessi

come gruppo particolare e gli interessi generali dell’intera società coincidono e non ha quindi nessuna

esigenza di nascondere la struttura di classe della società. La sua finalità è infatti non l’affermazione del

proprio potere di classe, ma la realizzazione di una società senza classi.

In questa prospettiva, i ceti intermedi, dai commercianti agli impiegati e i contadini, per il fatto di essere

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gruppi marginali rispetto al processo produttivo, risultavano esclusi da qualsiasi possibilità di formarsi una

coscienza antagonista propria e destinati a oscillare dall’una all’altra classe principale. Il fattore sociale

fondamentale nella formazione della coscienza diventa, dunque, la centralità/marginalità nel sistema

produttivo e l’isolamento del gruppo.

4.2 Classi e ceti secondo Weber: la cultura degli imprenditori capitalisti

L’analisi delle culture di classe si è affinata con il contributo di Weber. Tra Marx e Weber vi sono molte

differenze: Marx era un militante rivoluzionario, Weber sosteneva una scienza sociale avalutativa; Marx

era interessato alle contraddizioni economiche che avrebbero portato al crollo del capitalismo, Weber si

poneva una domanda di fondo sull’origine del capitalismo, sul perché esso si fosse affermato solo

nell’Europa occidentale; Marx è riconosciuto come il fondatore del materialismo storico, Weber è stato

spesso ricondotto, semplicisticamente, all’idealismo. Indubbiamente Weber, quando tratta della cultura e

della realtà sociale, è interessato prevalentemente al ruolo delle idee nella storia e all’influenza che i valori

hanno sull’agire sociale e economico.

I riferimenti al materialismo storico nell’opera di Weber sono frequenti ed è costante anche la sua

preoccupazione che la propria opera non apparisse come un semplice rovesciamento della tesi marxiana,

ma centrata sui fattori ideali piuttosto che quelli materiali come causa principale dello sviluppo storico.

La sua concezione del mondo sociale e dello sviluppo storico non era monocausale, perché considerava una

molteplicità di elementi, oltre a quelli etici e religiosi cui era maggiormente interessato. Questa sua

posizione gli impediva di considerare la storia come un processo dominato da leggi generali o finalità

trascendenti, così come contrastava l’idea evoluzionistica di stadi successivi nello sviluppo storico. Era

dunque molto contrario a considerare, come faceva Marx, la lotta di classe come la legge storica

fondamentale. Inoltre le classi, differentemente che in Marx, non costituiscono per lui delle comunità,

anche se esse ne sono una base di partenza. Il fatto che Weber neghi alle classi un ruolo cruciale, però, non

gli impedisce di riconoscerne l’importanza nella società moderna e di sottolineare le affinità tra strati

sociali borghesi e particolari configurazioni di valori.

La classe in Weber non è esattamente la stessa cosa che in Marx: mentre per quest’ultimo le classi si

collocano all’interno dei rapporti di produzione, per Weber il luogo privilegiato entro cui si costituiscono è

il mercato. L’enfasi è dunque posta sulla distribuzione piuttosto che sulla produzione. Quella di Weber si

presenta più come un’estensione che una confutazione dell’analisi marxiana. Si può dire che l’analisi di

Weber si colloca all’interno di un discorso più generale sui processi di distribuzione del potere all’interno

della società.

Weber usa, oltre alla classe, una seconda categoria di stratificazione sociale: i ceti. Mentre le classi

rimangono legate alla sfera economica, i ceti sono situati nella sfera della cultura: sono comunità di

individui che hanno in comune uno stile di vita, una stessa concezione del mondo, uguali gusti e

preferenze. Weber chiarisce che la situazione di ceto può fondarsi su una situazione di classe, ma non è

sufficiente che esista una classe perché si creai un ceto. Ad esempio, i ricchi e gli imprenditori fanno parte

della stessa classe, ma non identificano necessariamente un unico ceto; invece, categorie come funzionari o

studenti, pur avendo diverse possibilità economiche, possono appartenere allo stesso ceto, accomunati

dalla stessa condotta di vita. Il ceto inoltre manifesta una tendenza alla chiusura sociale e il suo carattere

principale è il prestigio sociale, la distinzione e lo status sociale ce consente di ottenere ai propri membri.

Si potrebbe pensare che i ceti attraversano le classi sociali, ma per Weber esiste un rapporto stretto tra

classe e ceto. Se una classe sociale vuole diventare dominante in termini di potere, deve organizzarsi come

ceto. È necessario che un gruppo con uguali interessi economici si trasformi da semplice aggregato a una

comunità sociale. E questo può realizzarsi tramite la cultura, che si esprime nell’assunzione di regole,

norme, modi di pensare e di comportarsi.

A dimostrazione del fatto che Weber non ha mai assunto una posizione idealista, ci sono le sue importanti

ricerche sulle affinità elettive (termine coniato da Goethe per indicare l’attrazione sentimentale tra due

persone) tra strati sociali e diverse forme di religiosità. Weber sottolinea qui il carattere non

deterministico, quindi bilaterale e reciproco, tra una realtà economico-sociale e una configurazione

culturale, formata da valori morali, religiosi e visioni del mondo. Egli mostra come orientamenti religiosi

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diventino comprensibili a un osservatore esterno se ricondotti allo strato sociale che ne è stato storicamente

il portatore. Ad esempio, un orientamento mistico in cui l’uomo è tutt’uno con la divinità è tipico delle

religioni orientali: esso è connesso alla presenza dominante di strati intellettuali che favoriscono una

compenetrazione concettuale del mondo e a esperienze di tipo contemplativo. Gli strati guerrieri

cavallereschi, per via della loro vita pragmatica, risultavano estranei a qualsiasi atteggiamento mistico, ma

nello stesso tempo non erano capaci di dominarlo con orientamenti razionalistici: per questo la loro

religiosità ha una forma irrazionalistica, legata all’idea di destino. Anche lo strato dei contadini, la cui

esistenza era legata alla natura e alle stagioni, non era incline a un orientamento razionalistico e per ciò

privilegiava una religiosità di tipo magico, rivolta a procurarsi il favore degli spiriti naturali. Gli strati

borghesi, fondati sul lavoro continuativo rispetto al carattere stagionale di quello agricolo, svincolato dalla

natura, quindi su una condotta di vita razionalistica; ne deriva una predilezione per una regolamentazione

etica e attiva della vita, a motivare il proprio impegno e accrescere il proprio riconoscimento sociale. Questa

religiosità si è storicamente manifestata in quelle religioni profetiche, come il cristianesimo, dove i credenti

si sentono strumenti di Dio, con il dovere non si rifiutare il mondo ma di agirvi attivamente.

È ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905) che Weber, nel dimostrare la tesi che il capitalismo sia

stato favorito dalla diffusione della religione protestante dopo lo scisma della Riforma, si sofferma sulla

descrizione di una specifica «cultura di classe»: quella dei moderni imprenditori capitalisti. Il punto di

partenza di questa ricerca consiste nella delineazione di una configurazione culturale nuova, che egli

chiama spirito del capitalismo. La classe che è portatrice di questo spirito non è per Weber la borghesia

tradizionale, ma la media borghesia industriale.

Lo spirito del capitalismo consiste di due idee principali: 1) concepire il guadagno come fine in sé, ossia

non come mezzo per raggiungere qualche altro fine, ma per essere reinvestito e generare così nuovo

guadagno; 2) il dovere professionale, l’idea cioè che il singolo debba sentire un’obbligazione morale nei

confronti della sua attività professionale, qualunque essa sia, con l’aggiunta che il successo in questa

attività non sia solo un augurio ma anche un indice di virtù morale del soggetto.

L’aspetto più importante dell’analisi weberiana, fondamentale per introdurre la spiegazione dell’origine

storia unica, religiosa, del capitalismo moderno, è l’aver messo in luce il carattere culturale e innovativo

dell’ethos capitalistico. Esso è culturale nel senso che non è un istinto innato dell’uomo: non deve essere

quindi confuso con l’impulso al guadagno che era presente nelle epoche precapitalistiche e che si ritrova in

tutte le categorie sociali. È innovativo in quanto, essendo costituito da un atteggiamento razionale e

metodico di raggiungimento del profitto, si contrappone al guadagno senza scrupoli, non frenato da norme

interiori, che è una costante della storia dell’umanità.

L’ethos capitalistico per affermarsi si dovette dunque scontrare non solo con sentimenti istintivi, ma con

un modo di sentire tradizionalistico che era diffuso in molti strati sociali: in base a quest’ultimo l’uomo per

natura non vuole guadagnare denaro, ma semplicemente vivere secondo le sue abitudini. Weber presenta

un’immagine della cultura della moderna società capitalistica non come una totalità omogenea, né basata

interamente sulla tradizione, ma come un insieme complesso, attraversato da contraddizioni, in cui strati

sociali in ascesa lottano per affermare le proprie idee e il proprio stile di vita.

4.3 Stratificazione sociale e cultura nella ricerca sociologica contemporanea

Il lavoro di Marx sul rapporto tra classi e coscienza sociale ha suscitato numerose critiche soprattutto per

quanto riguarda l’interpretazione deterministica del rapporto tra struttura e sovrastruttura, ma ha avuto

anche una grande influenza sulla ricerca sociologica contemporanea.

Un noto lavoro di uno storico inglese, E.P. Thompson, ha criticato l’interpretazione deterministica di Marx

e, pur collocando l’origine delle classi nei rapporti di produzione, ha posto l’accento sul fatto che la classe

non è un’entità, ma un insieme di relazioni. La coscienza di classe è il modo di fare esperienza di queste

relazioni, per cui le classi non possono essere identificate separatamente dalla coscienza che se ne ha.

Thompson si concentra meno sui cambiamenti dell’economia che sulla creazione di una comunità. Egli

rintraccia le origini della classe operaia organizzata e consapevole nelle tradizioni locali del XVIII secolo,

che erano organizzate attorno al codice del rispetto di sé, tipico dell’artigiano, che enfatizzava il decoro, la

regolarità e il mutuo soccorso. Con la rivoluzione industriale si diffuse a gruppi più ampi di lavoratori che

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aderivano ai sindacati non semplicemente per ragioni economiche ma per far parte del nuovo ambiente

culturale.

La tendenza di Marx a considerare le classi sociali come veri e propri attori sociali e come forze motrici del

cambiamento sociale, nonché l’ambiguità del considerare la classe separatamente dalla coscienza, ha

alimentato l’idea che l’importanza delle classi sociali sia declinante nelle società attuali. Oggi è forse più

difficile riconoscere un rapporto tra classe operaia e cultura, e in generale tra classi e cultura. Non bisogna

tuttavia confondere la scomparsa di modi di vita che accomunano comunità con la loro minore visibilità

sociale. Infatti anche se la classe operaia ha subito un ripiegamento nella sfera privata, anche la vita

familiare viene organizzata secondo norme specifiche tipiche della loro tradizione, come la separazione

sessuale dei ruoli rispetto a quella del ceto medio.

Inoltre, anche se i confini di classe sono più mobili e permeabili, non per questo è venuto meno il carattere

di classe di molti orientamenti culturali. Due esempi di ricerche che testimoniano la permanenza di

questo fenomeno sono duella di Jack Goody [1982] sul rapporto tra cultura culinaria e classi sociali, e

quella di Basil Bernstein [1971] su linguaggio e classi sociali. La prima, che compara la cultura culinaria

di Europa e Asia, mostra che essa è sempre associata alle gerarchie sociali: vengono attribuiti cibi specifici

a specifici ruoli (i cigni per i reali inglesi, il vino col miele per la nobiltà dell’Etiopia, ecc.); esisteva un

grande divario tra la dieta frugale dei contadini e la cucina elaborata delle classi dirigenti. La ricerca di

Bernstein negli anni ’70 affronta la più ampia questione del rapporto tra ordini simbolici e struttura

sociale: secondo lui nel mondo attuale il sistema di classe ha influenzato la distribuzione sociale della

conoscenza. Solo una piccola parte della popolazione arriva fino al livello dei metalinguaggi di controllo e

innovazione, fermandosi solo al livello delle operazioni legate al contesto. C’è così un divario tra un

linguaggio esplicito e universalistico, e uno implicito e particolaristico. Attraverso la socializzazione i

bambini delle classi operaie apprendono un codice ristretto che realizza significati dipendenti dal contesto;

i figli di classe media assumono un codice elaborato, che si basa su significati indipendenti dal contesto.

Bernstein sottolinea che sarebbe sbagliato giudicare la validità di questi due sistemi sociolinguistici, in

quanto anche un codice ristretto può dare accesso a una molteplicità di significati. Il diverso rendimento

scolastico dei bambini di classe operaia e di classe media non sarebbe dovuto a un deficit di capacità

intellettive dei primi, ma è legato alle differenze di classe nell’uso del linguaggio derivante dalla diversa

struttura del processo di socializzazione.

Gli studi del sociologo francese Pierre Bordieu hanno fortemente innovato l’analisi marxiana delle classi,

andando oltre una definizione esclusivamente economica. Nella Distinzione (1979) egli delinea il rapporto

tra classe sociale e cultura. Pur essendo influenzato sia da Marx che da Weber, Bordieu non definisce le

classi in termini di relazioni coi mezzi di produzione , ma in termini più generali e multidimensionali. Egli

identifica, infatti, tre diverse forme di capitale: 1) il capitale economico, che denota il livello di risorse

materiali (reddito, proprietà); 2) il capitale sociale, costituito dalle reti di relazioni sociali in cui sono

inseriti gli individui; 3) il capitale culturale, nelle due forme del capitale scolastico e del capitale ereditato,

cioè sia il grado di istruzione che le conoscenze personali acquisite tramite la socializzazione familiare.

Bordieu sostiene che per collocare le persone nella distribuzione di classe bisogna tenere conto del modo in

cui si combinano i diversi tipi di capitale, ossia delle dimensioni complessive del capitale: a un polo

troviamo la classe superiore dei liberi professionisti, che hanno sia un capitale economico che culturale;

all’altro polo c’è chi non possiede né l’uno né l’altro, ossia le classi popolari e anche i ceti intermedi

(impiegati con scarsi titoli di studio, poco reddito e pochi consumi.

Secondo Bordieu, inoltre, come in Marx, anche a livello culturale le classi sociali dominanti cercano di

affermare i propri interessi di classe. Diversamente da Marx, tuttavia, egli si concentra non sulle ideologie

esplicite, ma sui «gusti» che considera come vere e proprie pratiche culturali, ossia come comportamenti

che incorporano la cultura della società, in quanto attraverso essi si manifestano concretamente valori etici

e giudizi estetici. È attraverso i gusti, ossia le preferenze di consumo, che nelle società capitalistiche

contemporanee si combatte quotidianamente una lotta da parte delle classi superiori per distinguersi dalle

altre. Il gusto trasforma le cose e gli oggetti di consumo in segni distinti e distintivi, innalzando differenze

fisiche tra oggetti al livello simbolico delle distinzioni. Il gusto è dunque una vera e propria arma sociale.

Ad esempio, si ritrovano nello spazio dei consumi alimentari le tendenze che ritroviamo in cambi

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apparentemente distanti come quello delle arti. Possiamo notare che le classi superiori valorizzano la forma

(qualità dei cibi ma anche l’etichetta a tavola), quelle inferiori la sostanza (cibi nutrienti ed economici).

Esiste dunque una logica che struttura i diversi ambiti della pratica culturale. Bordieu chiama «habitus»

questo principio generatore di pratiche e allo stesso tempo il sistema di classificazione di queste pratiche.

L’habitus è un sistema di inclinazioni a percepire, pensare e fare in una certa maniera, che sono state

interiorizzate inconsciamente da ciascun individuo. L’habitus ha un carattere individuale, ma habitus

prodotti da condizioni di esistenza simili formano habitus di classe. L’habitus, infatti, unifica l’insieme

delle preferenze di consumo che si manifestano in diversi ambiti in una configurazione distintiva chiama

stile di vita.

Alcune ricerche empiriche dimostrano che il rapporto del passato tra gusti culturali e classi sociali stia

declinando: alle culture di classe si starebbero sostituendo le culture di gusto, i cui membri sarebbero uniti

dall’identificazione con stili di vita che attraversano diverse classi sociali. Questo fenomeno rifletterebbe un

mutamento nel modo di definire la propria identità: mentre nella società industriale l’identità è legata al

lavoro e alla produzione, in quella postindustriale la crescita del tempo libero e la disgiunzione tra valori

dettati dalle istituzioni economiche e quelli dettati da quelle culturali comporterebbe un legame più stretto

dell’identità con il consumo di oggetti materiali, che diventano segni di distinzione e appartenenza.

Dagli anni ’70, alcuni importanti studi hanno mostrato che valori non acquisitivi si sono diffusi tra le

popolazioni delle principali società industriali avanzate, trasformando in maniera radicale l’universo

culturale precedente, portando alla ribalta nuovi temi e priorità basati sulla qualità della vita e

sull’autorealizzazione. Ronald Inglehart ha sostenuto la tesi di una «rivoluzione silenziosa» che negli anni

’50 abbia sostituito i valori materialisti dominanti (successo, reddito, stabilità economica) con valori

postmaterialisti, basati sulla difesa della natura, della qualità della vita, della partecipazione politica e della

libertà di parola.

Ciò che interessa sottolineare a questo punto è che sembra essersi verificato addirittura un rovesciamento

nel rapporto tra orientamenti di valore e stratificazione sociale. Risulta infatti che nelle società industriali

avanzate di oggi i valori post materialisti sono penetrati nelle classi sociali medio-alte, come studenti,

dirigenti, funzionari pubblici e liberi professionisti. Che cosa è accaduto? Inglehart suggerisce che sia

all’opera una dinamica generazionale dovuta alla peculiarità delle generazioni nuove, entrate sulla scena a

partire dal secondo dopoguerra, cresciute in un periodo di pace e benessere. L’aspetto nuovo, che si

inserisce come fattore autonomo di formazione culturale, oltre alla classe sociale, è dunque l’apporto della

generazione, come categoria sociale che denota una collocazione di gruppo nella struttura sociale.

5. CULTURA E GENERAZIONI

Siamo soliti usare nel linguaggio quotidiano il termine «generazione» per dare senso alle differenze tra

diversi gruppi d’età, o «coorti» secondo una recente definizione della sociologia. Nonostante l’uso

comune, la sociologia non ha approfondito, se non recentemente, il significato della generazione e il suo

ruolo nella formazione di specifici valori.

Certamente una delle ragioni di questa scarsa attenzione, rispetto a quella data alle classi sociali ad

esempio, è che solo nel decennio successivo alla seconda guerra mondiale si assiste al diffondersi in tutti i

paesi capitalisti di ondate di ribellione giovanile che mostrano una nuova capacità di generalizzazione e

oltrepassano il carattere subculturale legato a fenomeni di devianza giovanile e alla classe operaia.

Il trattamento più sistematico si deve a Karl Mannheim (1893-1947) che affronta la generazione da un

punto di vista sociologico, facendo un’indagine descrittiva che si discosta dalla tradizione marxista

dell’analisi di classe per concentrarsi sul ruolo dei gruppi d’età, ossia le generazioni come fattori sociali

che favoriscono la formazione di particolari stili di pensiero. Mannheim parte dalla critica a due diversi

modi di affrontare il problema delle generazioni: 1) quello del positivismo, per cui la generazione è una

realtà solo biologica: esso coglie solo le implicazioni legate alla durata della vita, al succedersi fisico di

individui come una successione numerica; 2) la concezione romantico-storicista intende invece la

generazione come un’entità spirituale misteriosa. Mannheim è più incline ad accogliere quest’ultima

posizione poiché permette di distinguere tra una dimensione quantitativa e una qualitativa (interiore) del

tempo: l’intervallo di tempo che separa le generazioni è infatti un tempo di cui si ha un’esperienza

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soggettiva; le unità esteriori di tempo sono sostituite dalla generazione come un’unità temporale

storicamente costruita. Far parte di una stessa generazione significa che si vive la contemporaneità in un

senso non meramente cronologico, ma perché si fanno le stesse esperienze significative e si vivono le stesse

influenze dominanti. Mannheim parla di «non contemporaneità del contemporaneo»: non tutte le persone

contemporanee vivono la stessa esperienza storica.

Il problema delle generazioni va compreso, dunque, in un contesto storico-sociale.

Mannheim distingue tra collocazione e gruppo concreto: la collocazione indica una condizione comune ad

alcuni individui che limita le loro esperienze possibili in quanto la collocazione predispone verso

particolari modi di pensare, sentire e comportarsi, escludendone altri; in una collocazione «ci si trova»

senza averne necessariamente coscienza; il gruppo concreto, invece, è formato da comunità e associazioni,

da individui che hanno coscienti relazioni tra loro.

Mannheim continua la sua classificazione distinguendo anche tra legame di generazione e unità di

generazione: il legame di generazione è qualcosa di più di una semplice collocazione in quanto indica la

possibilità che le persone di una stessa generazione prendano parte attivamente ai destini e ai problemi

comuni del periodo storico in cui vivono; all’interno dello stesso legame generazionale vi sono, poi, le unità

generazionali, ossia gruppi che elaborano diversamente le stesse esperienze e che risolvono diversamente

gli stessi problemi in funzione delle loro peculiari esperienze formative.

L’aspetto più importante dell’analisi di Mannheim consiste, dunque, nell’aver sottolineato la differenza tra

generazione come categoria storico-sociale e età come caratteristica ascritta legata alla natura biologica.

Nella generazione si intersecano due strutture temporali: quella della biografia individuale e quella della

storia della società. Una generazione sociale è quindi composta da persone che hanno più o meno la stessa

età e che hanno condiviso alcune esperienza politicamente rilevanti.

Alla fine degli anni ’50 in tutti i paesi capitalisti cominciò ad emergere una gioventù ribelle, anche se

ideologicamente muta, caratterizzata da nichilismo e ostilità verso il sistema sociale. Essa era già trasversale

alle classi sociali e con grandi capacità di diffusione e generalizzazione. Queste manifestazioni non

potevano essere ricondotte alla categoria di «subcultura» come descrizione di gruppi giovanili devianti con

una precisa collocazione nella classe operaia. Le subculture, infatti, possono essere analizzate secondo lo

schema dell’adattamento di Merton per risolvere una situazione di contrasto tra le mete culturali

dominanti e i mezzi per raggiungerle: le subculture giovanili devianti sono collocate tra gli «innovatori»,

ossia coloro che aderiscono alle mete del mondo adulto ma rifiutano i mezzi sostituendoli con altri

alternativi (e illegali). Il problema della nuova fase di ribellione giovanile consisteva proprio nel rifiuto

delle stesse mete culturali dominanti.

A questa fase di ribellione ne sono seguite altre: agli inizi degli anni ’60 appare una generazione nuova,

che non esprime più solo una generica e confusa ostilità ai valori dominanti nella cultura adulta, ma

propone propri modelli culturali basati su valori pacifisti, sull’importanza degli aspetti ludici e affettivi,

sul rifiuto della violenza e della competizione. Essa è stata conosciuta come «cultura beat» (o beat

generation), diffusa in tutti i paesi capitalisti e di cui si impossessa presto dell’industria culturale, che la

divulga attraverso riviste indirizzate ai giovani e al contempo riducendone semplicisticamente la portata al

mondo giovanile.

Verso la fine degli anni ’60 a questa generazione ne succede un’altra che dà vita a movimenti politici

radicali che sorgono prima nelle università e poi nel mondo operaio: si tratta della famosa generazione del

’68, formata da giovani nati dopo la guerra, che sostiene una rivolta etica e libertaria, contro le gerarchie

sociali e le ipocrisie nella famiglia e nel mondo adulto, presentandosi, tuttavia, come portatrice di valori

universalistici non riducibili all’universo giovanile. Per la prima volta la sociologia vede nel succedersi di

generazioni non il processo spontaneo di trasmissione dell’eredità culturale di una società, ma l’instaurarsi

di una frattura e di un «conflitto di generazioni».

Come ha sottolineato Mannheim, la capacità di incidere sulla realtà sociale e di costruire nuovi modelli

culturali non può essere spiegata solo in base all’età. Bisogna introdurre altri elementi legati al momento

storico e alle condizioni di esistenza in cui esse si sono formate. Erik Erikson, il più sociologo tra gli

psicanalisti, ha analizzato i processo che legano la biografia individuale al momento storico in cui si

manifesta, il rapporto che unisce l’identità individuale ai modi in cui le diverse fasi della vita sono

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strutturate socialmente. Egli spiega la nascita della gioventù come fase distinta e ben caratterizzata del

ciclo di vita nelle società a capitalismo avanzato degli anni ’60 rivolgendosi al contesto storico e sociale del

fenomeno. La tesi di Erikson è che la gioventù è stata organizzata socialmente come fase a sé stante solo

nelle società capitalistiche avanzate: è in questo periodo storico, infatti, che viene vista come intervallo di

attesa in cui all’individuo è consentita una vasta esplorazione sociale. La gioventù viene storicamente

costruita come uno stadio in cui si possono sperimentare ruoli, occupazioni, stili di vita e questo esito è

stato favorito di certo sia dalla scolarizzazione di massa che dal ritardo nell’entrare nel mondo del lavoro

che sancisce il passaggio alla vita adulta. La quasi totale assenza di riti di passaggio, il declino del

controllo familiare, il rifiuto di responsabilità da parte degli adulti sono tipiche della società attuale, che

rappresenta il regno dell’ambiguità in cui si attua una vera e propria crisi d’identità: essa è la conseguenza

della creazione della gioventù come fase di attesa e di esplorazione priva di punti di riferimento, a cui si

reagisce opponendo una identità negativa e attuando tutto ciò che la società proibisce.

Accanto agli aspetti storici e sociali vi sono altri aspetti più direttamente connessi al sistema culturale che

spiegano l’emergere di generazioni portatrici di valori universali e autonomi. Un primo elemento è il

«surplus» simbolico delle nostre società, ossia l’eccedenza culturale che aumenta i mondi possibili; questa

situazione di dilatazione delle possibilità può generare effetti perversi legati a aspettative crescenti che non

possono essere soddisfatte. Può anche creare sradicamento e frammentazione del sé sottoforma di

«disancoramento» sia nel senso che le generazioni non sono radicate in interessi, ruoli, occupazioni, sia nel

senso che i valori cui aderiscono sono presentati come autonomi e legati a un’umanità generica e

indifferenziata.

6. CULTURA E IDENTITÀ

Le diverse appartenenze diffuse nel mondo moderno, legate alla classe sociale, all’età, al genere, parlano

molto spesso un linguaggio identitario. Ciò avviene per due ragioni: 1) l’identità personale è sempre

anche sociale, nel senso che è formata dalle molteplici appartenenze dell’individuo: nella nostra vita

quotidiana ci consideriamo membri di numerosi gruppi che possono essere anche molto diversi tra loro;

mentre ognuno di questi gruppi contribuisce a conferirci una specifica identità, nessuno di essi può essere

considerato la nostra unica categoria di appartenenza; 2) l’identità non riguarda solo gli individui, ma

anche interi gruppi sociali che accentuano la propria differenze rispetto ad altri e utilizzando simboli,

linguaggi, rituali per favorire il sentimento di appartenenza dei singoli.

Anche se oggi siamo portati a confondere cultura e identità, i termini non sono sinonimi. Infatti, mentre

l’identità rimanda a un processo in parte consapevole di autoriconoscimento, attraverso cui il soggetto si

appropria di elementi di una data cultura a volte anche modificandoli, la cultura rimanda a processi che

spesso sono inconsapevoli, legati a comportamenti e pratiche tradizionali. Fa affrontata dunque

separatamente la questione dell’identità (personale e collettiva) e quella dell’identità culturale,

considerando quest’ultima come una particolare modalità di distinzione noi/loro che si basa sul senso di

una comune origine.

L’identità nelle scienze sociali non è intesa come un’essenza a cui si accede in isolamento né coincide con

quella che gli psicologi chiamano personalità. Nonostante la molteplicità di prospettive, esiste un accordo

sul carattere apparentemente paradossale della nozione di identità: essa infatti presenta un lato di

uguaglianza con gli altri (riconoscersi in gruppi sociali) e un lato di differenza dagli altri, per quegli aspetti

che ci rendono persone uniche e irriducibili. Ma il paradosso è solo apparente poiché la stessa capacità del

soggetto di autorappresentarsi si forma, come aveva notato Mead, nei gruppi e nelle relazioni sociali cui

prende parte. Dunque, il soggetto ha un’identità personale, distinta dagli altri, proprio in virtù del suo

essere condizionato dall’ambiente sociale ove è inserito. L’identità risulta allora composta da: 1)

identificazione: attraverso di essa le istituzioni e i gruppi classificano il soggetto entro categorie sociali (un

ruolo centrale è svolto dal linguaggio, in quanto l’identificazione procede attraverso l’attività di dare nomi

con cui gli altri ci chiamano e ci riconoscono); 2) individuazione: attraverso di essa il soggetto incorpora in

maniera attiva e selettiva le diverse identificazioni che gli sono attribuite; anche qui il linguaggio è

importante, sotto la forma della narrazione, tramite la quale il soggetto cerca di dare coerenza ai molteplici

aspetti di cui è costituita la sua identità: si tratta di un dialogo interiore, una conversazione con noi stessi in

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cui cerchiamo di dare significato a eventi frammentari, di interpretare gesti e azioni altrui che non capiamo

o che ci rimandano a un’immagine distorta di noi stessi; con le parole organizziamo le nostre esperienza,

tessendo la nostra biografia. Anche se la narrazione si riferisce ad attività passate, non è mai pura

riproduzione di ciò che è stato: il soggetto che riannoda i fili del passato, lo fa in base a un progetto, a

un’idea di sé proiettata nel futuro.

Considerata nel suo insieme, l’identità indica la capacità di un soggetto di stabilire una continuità

temporale e una consistenza simbolica nonostante i cambiamenti e i traumi che la minacciano. Essa svolge

una funzione «locativa», ossia colloca il soggetto in un sistema di relazioni tracciando dei confini tra «noi»

e «loro», e una funzione «integrativa», in quanto permette di stabilire non sono una discontinuità con

l’altro, ma una continuità con noi stessi. Queste due dimensioni non riguardano solo gli individui, ma

anche i gruppi sociali: molti di questi sono caratterizzati da un’identità collettiva che consente di delineare

i confini del gruppo, identificandolo, e di distinguerlo dagli altri. La differenza tra l’identità personale e

l’identità collettiva non riguarda, perciò, le dimensioni o funzioni, ma la loro diversa collocazione: mentre

le due funzioni nella prima sono collocate nel soggetto fisico e singolo, nella seconda sono distribuite

collettivamente in due parti fisicamente differenti: la dimensione locativa (componente passiva) risiede nei

confini territoriali e simbolici, quella integrativa (componente attiva) nei funzionari/dirigenti del gruppo.

Anche per l’identità collettiva è centrale la narrazione, in quanto assicura il mantenimento di un certo

grado di integrazione comunitaria.

Mentre l’identità di una persona è concepita come l’esito di un complesso processo di socializzazione,

l’identità di gruppo è il prodotto di un complesso processo storico. Questo è accaduto, ad esempio, ai

moderni stati-nazione: si è parlato di «invenzione della tradizione», avvenuta tra la fine dell’800 e i primi

del ‘900, da parte degli Stati nazionali per dare a contesti sociali nuovi delle nuove forme di coesione e di

lealtà cercando di cerare dal nulla miti e simboli in grado si suscitare forti sentimenti di appartenenza. Fu in

questi anni che nacquero i vari inni nazionali, si inventarono importanti cerimonie pubbliche, si

inaugurarono le bandiere tricolori e si innalzarono grandi monumenti e statue celebrative. Il fatto che qui

l’identità collettiva sia frutto di una costruzione sociale non significa però che sia meno reale ed efficace,

come dimostra il caso del Medio Oriente: qui le appartenenze non erano né generazionali, né di genere, né

nazionali, ma costituite da legami di sangue (famiglia, clan), di luogo (villaggio, tribù) e religiose (la

religione appare come l’unico fattore in grado di trascendere i legami locali).

Le due dimensioni – identificazione e individuazione – tendono ad armonizzarsi in un equilibrio stabile.

Può accadere però che vi sia uno scarto tra i due aspetti (è il caso dell’attribuzione di «etichette» in cui il

soggetto non si rivede) e ciò attiva dei meccanismi di strategia identitaria con cui i soggetti tentano di

eliminare le dissonanze sotto varie forme: accettazione, rifiuto o negoziazione dell’identità attribuita.

Dalla fine degli anni ’60 si sono sviluppate in molte democrazie occidentali specifiche azioni politiche

chiamate «politiche dell’identità», associate a minoranze (etniche, omosessuali, femministe) con lo scopo

di ottenere riconoscimento pubblico di un’identità collettiva ritenuta ingiustamente trascurata o

condannata. Tali rivendicazioni partono, dunque, dal rifiuto di categorie attribuite e identificazioni

imposte.

Vi sono però condizioni sociali specifiche che costituiscono una minaccia per l’identità del soggetto, in

quanto tendono a negarla sistematicamente. È stato il sociologo Erving Goffman, che ha condotto ricerche

in ospedali psichiatrici alla fine degli anni ’50, a sottolineare e studiare i meccanismi con cui l’identità dei

soggetti viene negata dalle istituzioni che li inglobano (ospedali psichiatrici, accademie militari, campi di

concentramento, ecc.). In questi casi vi sono processi standardizzati con cui il sé di una persona viene

mortificato, attraverso, ad esempio, la scissione dai ruoli occupati in passato, la violazione dei territori del

sé, forme varie di umiliazione e perdita di dignità fino alla cancellazione del proprio nome e la privazione

di tutti quegli effetti personali che costituiscono il corredo della propria identità.

Un’altra condizione sociale minacciosa per l’identità personale è legata al fenomeno migratorio.

Ricordiamo quanto è stato detto sull’«uomo marginale» dalla Scuola di Chicago: egli è colui che occupa

una posizione problematica in cui sperimenta una discrepanza tra il sistema culturale della comunità di

provenienza e quella d’arrivo, sperimentando una condizione di estraneità ed esclusione. L’espressione

dell’identità culturale è utilizzata qui per rendere conto della diversità che nascono non da aspetti ascritti

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(sesso, età, razza) ma dal sentimento di un’origine comune.

Rispetto alla situazione studiata dalla Scuola di Chicago, le cose sono molto cambiate. Oggi la maggior

parte dei paesi è caratterizzata da questo tipo di diversità che costituisce una sfida per le democrazie. La

nuova importanza assunta dalle differenze etnoculturali nei paesi sviluppati dipende da due processi

distinti: 1) l’immigrazione, con l’accelerarsi della globalizzazione, interessa tutti i paesi europei, Italia

compresa (ove è un fenomeno però recente); questi paesi, definiti «polietnici», hanno assunto il modello

del melting pot o crogiolo, che prevede l’assimilazione delle diverse culture in un’unica grande cultura;

in seguito però ha prevalso una linea più morbida di integrazione che desse spazio al mantenimento delle

diversità culturali; 2) un’altra fonte di diversità culturale è la persistenza, all’interno di uno stato, di

minoranze culturali che spesso esprimono spinte autonomistiche, per la costruzione di identità nazionali

distinte; la loro caratteristica è di essere gruppi nati da una storia di conquista e colonizzazione (indiani

d’America, indigeni delle Hawaii, Irlanda del Nord, ecc.). Per descrivere entrambi i tipi di diversità

culturale – quella derivante dall’immigrazione e quella derivante dai processi di assorbimento per

colonizzazione e conquista – si usa sempre più spesso l’espressione di «società multiculturale» o

«multietnica», a volte estesa fino a comprendere anche le diversità legate alle minoranze escluse

(handicappati, gay) o a settori sociali che vivono condizioni diseguali (le donne).

L’identità culturale, come forma di distinzione noi/loro, è stata intesa come predominante su tutti gli altri

status: ciò significa che di fronte alla molteplicità dai gruppi che contribuiscono alla formazione

dell’identità personale, l’identificazione etnica può apparire come il principale punto di riferimento per il

proprio senso di appartenenza, col rischio dell’esaltazione univoca e acritica di «radici» considerate innate

e oggettive. Una prospettiva «primordialista» di questo tipo si scontra con una concezione relazionale che

mette in luce il carattere costruito e spesso «immaginato» anche di questa dimensione identitaria.

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SSOOCCIIEETTÀÀ EE CCUULLTTUURRAA:: CCOOMMEE LLAA SSOOCCIIEETTÀÀ IINNFFLLUUEENNZZAA LLAA CCUULLTTUURRAA

1. QUATTRO APPROCCI TEORICI

Si è detto che la sociologia della cultura si occupa dei rapporti che esistono tra la cultura – intesa come un

insieme di proposizioni normative e cognitive sulla natura, la società, gli esseri umani e sovrumani – e

specifici contesti storico-sociali. Questi ultimi possono essere riferiti a differenti forme delle relazioni

sociali, da quelli più semplici come l’interazione faccia afaccia, a quelle più complesse, come i moderni

stati-nazione fino al cosiddetto «sistema-mondo». Il rapporto è molto complesso e non è a senso unico.

L’idea fertile è che concetti e valori, ossia strumenti con cui valutiamo e classifichiamo cose e persone,

operino entro contesti e forme di vita sociale e non siano comprensibili né in astratto, né isolatamente.

Il rapporto tra cultura e società è bidirezionale. Le più importanti questioni sollevate dalla tradizione

sociologica possono essere raggruppate in tre titoli principali: 1) La dipendenza delle forme culturali dalle

strutture sociali: la cultura viene considerata come una «variabile dipendente», ossia una variabile che si

vuole spiegare in base ad altri fattori (dunque dalla società alla cultura); 2) Il ruolo che le forme culturali

svolgono nella determinazione dell’azione e dello sviluppo sociale: la cutlura è intesa come «variabile

indipendente», ossia una variabile che spiega altri aspetti e comportamenti sociali; 3) I processi sociali in

base ai quali la cultura viene trasmessa da una generazione all’altra, si diffonde e si trasforma: ovvero i

meccanismi tramite i quali la cultura entra a far parte dell’universo soggettivo delle persone.

Il fatto di prendere in considerazione ora l’una ora l’altra direzione del rapporto cultura/società è del tutto

legittimo a patto di non concepirlo come univoco e unidirezionale, non derivando cioè meccanicisticamente

la cultura dalla struttura sociale o viceversa. I programmi sociologici odierni considerano il carattere

bidirezionale del rapporto, anche se alla fine ne analizzano solo un senso.

Un senso riguarda l’asse determinismo culturale/determinismo sociale, che rispecchia l’opposizione

filosofica idealismo/materialismo: da un lato, l’idea come principio del conoscere e della stessa realtà,

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dall’altro la tesi della materia come fondamento della realtà. Il materialismo storico di Marx ed Engels, che

interpreta la storia come sviluppo di fattori economici e la «sovrastruttura» culturale come rispecchiamento

della «struttura economica» è stata la versione più influente sul pensiero sociologico.

Soprattutto la tradizione sociologica tedesca si è misurata col dibattito idealismo/materialismo. Weber e

Simmel hanno entrambi preso le distanze dalla posizione idealista con cui sono stati spesso identificati. Ma

anche la tradizione sociologica francese è stata spesso identificata con la posizione con la posizione

opposta, ossia col determinismo sociale. E non sempre a torto: basta pensare a quando Durkheim parla

delle rappresentazioni collettive come meri prodotti dell’organizzazione sociale. Molti punti dell’opera di

Durkheim affrontano espressamente la questione dell’autonomia relativa della cultura, il cui substrato

continua a essere collocato nella struttura delle relazioni sociali. L’evoluzione delle credenze è, per

Durkheim, l’esempio più dimostrativo di questo sviluppo autonomo.

A grandi linee si possono individuare quattro modelli principali che riguardano l’emergere di forme

culturali: 1) modelli funzionalisti; 2) modelli causalisti; 3) modelli interazionisti; 4) modelli

strumentalisti. Un quinto modello, quello strutturalista,in realtà non si preoccupa di chiarire i rapporti tra

contesti sociali e cultura, ma ha avuto comunque influenza sulla sociologia degli anni ’60 ed è importante

per la questione dell’analisi «interna» della cultura.

Modelli funzionalisti. Il termine «funzionalismo» nasce negli anni ’30, utilizzato da etnologi e

antropologi. In analogia con quanto sostiene la biologia riguardo le diverse parti di un organismo (ogni

parte svolge una funzione per la sua sopravvivenza), le scienze sociali intendono individuare la

funzione che la cultura svolge nello stabilire e mantenere il sistema sociale.

In questo modello sono ricompresi sia Parsons che Merton, che presentano due modi diversi di

intendere la funzione. Parsons, alla metà degli anni ’50, riferendosi alla propria posizione col termine

«struttural-funzionalismo», cerca di stabilire una congruenza tra il sistema di valori e la struttura

sociale. L’analisi funzionale consiste, ad esempio, nel presentare le norme deontologiche che regolano le

professioni come soluzioni ai problemi di asimmetria di potere da cui è caratterizzata la relazione tra

professionista e cliente.

Merton distingue tra «funzione manifesta» e «funzione latente», slegando l’idea di funzione da quella

di finalità; egli osserva che se l’effetto di un rito non viene raggiunto (ad esempio, la danza della

pioggia non provoca la pioggia) non ne consegue che il rito non abbia prodotto alcun effetto. Le sue

funzioni possono essere latenti, ossia avere conseguenze oggettive non volute né ammesse (la danza ha

come funzione latente quella di rinsaldare l’unità del gruppo in una situazione difficile).

Sono state fatte alcune obiezioni a questo modello. Per esempio è stato fatto notare che si tratta di un

tipo di spiegazione che trascura il significato che le azioni hanno per il soggetto che le compie. Le

spiegazioni funzionali concepiscono la cultura come un insieme consensuale, legato ai benefici collettivi

che essa procura, mentre il soggetto è inteso come «imbevuto» della cultura cui passivamente si

conforma.

Modelli causalisti. Si tratta di un insieme di teorie che hanno in comune l’idea che la cultura in

generale e nelle sue diverse componenti (valori, norme, credenze) sia direttamente causata da processi

che sfuggono alla coscienza degli individui. A seconda delle discipline queste cause possono essere

biologiche, psichiche, economiche o sociali. Ne consegue che se vogliamo comprendere perché una

norma o un valore emerge, non dobbiamo rifarci al significato che essi hanno per il soggetto, perché le

forze psichiche o sociali operano per lo più alle spalle del soggetto, sfuggono alla sua coscienza e sono

indipendenti dalla sua volontà. Pertanto le ragioni addotte dai soggetti non vengono considerate. Il

casualismo ha ispirato l’opera di importanti autori dell’800 e del ‘900, come Marx, Freud, Durkheim e

Pareto.

Vilfredo Pareto, in maniera molto diversa da Freud, attribuisce l’origine dei valori e credenza a cause

psichiche. Se la causa reale sono gli istinti, allora valori e credenze non sono altro che fragili e mutevoli

tentativi dell’uomo di dare una parvenza logica a ciò che obiettivo non è.

Marx e Durkheim hanno sostenuto la rilevanza di cause sociali: la «sottostruttura», definita dai

rapporti di produzione, genera una «sovrastruttura» morale, estetica, giuridica che la rispecchia. Anche

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Durkheim utilizza modelli causali per spiegare l’emergere delle rappresentazioni collettive. Dall’idea

fertile che i concetti e le categorie siano «collettivi», ossia comuni e comunicabili, deduce la tesi che vi

sia una relazione causale tra l’ordine sociale e quello concettuale. Ad esempio: il concetto circolare di

spazio nelle società tribali dell’Australia e del Nord America sarebbe causato dall’organizzazione a

cerchio dell’accampamento tribale.

Molte ricerche in ambito sociologico e antropologico hanno utilizzato questi modelli. È il caso del

cosiddetto programma forte di sociologia della conoscenza, secondo cui anche le conquiste delle

scienze naturali non appartengono a un mondo puro delle idee, ma fanno parte della cultura e possono

essere ricondotte a dimensioni sociali, come conflitti di potere, interessi di gruppi sociali, ecc. il

«programma forte» sostiene che gli stessi contenuti e procedure della scienza sono condizionate da

fattori sociali. Questo indirizzo teorico ha contributo al recente sviluppo della sociologia della scienza

come sottodisciplina autonoma.

Dagli anni ’70 è sorta negli Stati Uniti una prospettiva originale che si autodefinisce «produzione di

cultura»: essa sostiene la tesi che siano gli aspetti istituzionali e organizzativi dell’industria culturale a

condizionare il contenuto dei prodotti culturali. Tra i fattori sociali viene data una particolare

importanza alla struttura dei mercati, a meccanismi di accesso a specifici ambiti culturali, alle catene

decisionali che portano al prodotto finito e ai modi in cui sono strutturate le carriere artistiche e

professionali.

La novità di questo approccio è nel focalizzarsi su «oggetti culturali», come libri, dipinti, rapporti di

ricerca scientifici, cerimonie religiose, sentenze legati ecc., che danno espressione concreta a norme,

valori, credenze, ossia agli elementi della cultura.

Modelli strumentali. Le teorie utilitariste hanno avuto un’influenza notevole in sociologia. Il soggetto

dell’azione è pensato come individuo attivo, razionale, che persegue consapevolmente i propri scopi,

calcolando il rapporto costi/benefici di ogni azione. Le norme emergono come effetto di queste scelte e

la cultura viene a rappresentare una combinazione di tante scelte individuali. Dunque, le norme

tendono a emergere per soddisfare esigenze tese a mitigare aspetti negativi o promuovere benefici per

l’attore sociale. Se l’attore sociale aderisce a una norma o valore lo fa perché ne trae un vantaggio,

seguendo quindi il proprio interesse.

Questa teoria può avere diverse ragioni, tutte intese a ridurre le norme alla razionalità. Infatti le norme

sono razionalizzazioni a posteriori del proprio interesse; le persone seguono le norme per paura di

ricevere una sanzione, anche se quando la norma è interiorizzata la si persegue anche se si sa che la

violazione passerebbe inosservata; infine, si aderisce alle norme sociali perché spesso hanno

conseguenze benefiche.

Modelli interazionisti. In questo approccio convenrgono autori differenti, interazionisti simbolici,

fenomenologia sociale, e molte prospettive neordurkheimiane. Questi modelli, pur vedendo l’attore

sociale come un soggetto attivo, si discostano nettamente dai modelli strumentali. Essi, infatti, non

danno la priorità al calcolo strumentale, ma alla interazione comunicativa tra individui impegnati in

attività o «pratiche» di diversi livelli di complessità (dall’organizzazione familiare alla coordinazione in

istituzioni lavorative). Le norme sociali non emergono dal calcolo ma dalla ripetizione di soluzioni a

problemi ricorrenti di cui si è fatta esperienza nel passato. L’esempio più rilevante è il linguaggio:

possiamo scegliere con cura le parole da usare in una certa situazione, ma le parole non sono inventate

per la loro utilità. Secondo il filosofo pragmatista Peirce, le rappresentazioni simboliche del significato

evolvono attraverso l’uso ripetitivo di segni quanto attori interdipendenti tentano di coordinare

efficacemente la loro interazione.

Se questo sfondo culturale intersoggettivo risulta dato per scontato, ciò non preclude la consapevolezza

e progettazione dell’azione, né l’attività continua degli attori sociali di negoziare significati,

contribuendo così alla loro evoluzione. Infatti, come mette in luce l’interazionismo simbolico, esistono

situazioni problematiche, non affrontabili sulla base dell’esperienza, di cui i partecipanti all’interazione

possono avere interpretazioni contrastanti. In tali situazioni gli attori devono negoziare una definizione

della situazione, una comune attribuzione di significato, su cui accordarsi perché l’interazione possa

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continuare.

Interessanti orientamenti neodurkheimiani propongono una spiegazione del modo in cui si

privilegiano dei significati riguardo a particolari azioni e situazioni, andando oltre studi semplicemente

descrittivi. Per Randall Collins [1988], che opera sulla scia di Durkheim e Goffman, il meccanismo che

produce idee e significati condivisi è il rituale, di cui la religione è l’archetipo, ma che si presneta come

modalità normale di interazione quotidiana. Il contenuto dl rituale è arbitrario; importante è invece che

sia condiviso, infatti esso si basa sulla possibilità di accomunare le persone con stessi simboli di

appartenenza.

Modelli strutturalisti. Il termine «strutturalismo» deriva dall’applicazione all’analisi della cultura della

cosiddetta linguistica «strutturale», legata al nome di Saussure [1916], che aveva spostato l’interesse

della linguistica dalla descrizione storica dello sviluppo delle lingue all’analisi della struttura interna

del linguaggio inteso come sistema formale, una combinazione non casuale di segni. Il principale

esponente del metodo strutturale applicato alla cultura è l’antropologo Claude Lévi-Strauss. Egli si

concentra nell’analisi della cultura considerata in se stesa, come si esprime nell’arte, nel rituale, nelle

regole della parentela, che vede come la rappresentazione di superficie di una struttura profonda

della mente umana.

Lo strutturalismo ha influenzato molti pensatori, non solo francesi, anche se l’influenza maggiore si è

realizzata in questo ambito. Michel Foucault, anche se ha rifiutato di definirsi strutturalista, si rifà

molto a questa corrente, tanto da venire definito come neostrutturalista, soprattutto per l’importanza

data alle relazioni interne agli elementi del discorso da cui si possono derivare regole e uniformità

profonde.

Sempre in Francia l’approccio strutturalista si è innestato nel marxismo, creando la scuola marxista-

strutturalista, che intendeva rileggere Marx cercando di mostrare che le formazioni sociali, come

sistemi fonetici, sono combinazioni strutturate di tratti distintivi. Il rapporto struttura/sovrastruttura

rispecchiava lo schema marxiano, anche se l’economia era ritenuta il fattore determinante solo in utlima

istanza e sosteneva la relativa autonomia della cultura.

2. L’IDEOLOGIA COME SISTEMA CULTURALE

2.1 Cos’è l’ideologia?

Il termine ideologia è usato in una varietà di accezioni. Si può comunque partire dal fatto storico che

l’identificazione di un fenomeno ideologico e la presenza di ideologie nascono dalla percezione che, a

partire dal XIX secolo, le religioni cristiane, nei paesi occidentali, entrano in competizione con altre fonti di

legittimazione che pretendono di fondare la vita sociale e collettiva su sistemi di idee e di valori secolari.

Si è parlato di «ideologie post-cristiane» come sostituti delle grandi religioni universaliste in declino,

riferendosi al nazionalismo, all’individualismo liberale e al comunismo. La società industriale sconvolge

le forme tradizionali di legittimazione dell’ordine sociale, dando vita a «visioni del mondo», ossia credenze

e valori integrati in un sistema i cui elementi sono connessi tra loro, e che non chiamano in causa la

trascendenza bensì l’autorità della scienza moderna.

I criteri che consentono l’individuazione di un’ideologia sono: 1) una visione del mondo con un alto

grado di coerenza interna; 2) prodotto esplicitamente da gruppi di intellettuali e poi diffuso a più ampi

strati della popolazione; 3) che ha la funzione di legittimare i rapporti di potere in un gruppo sociale o in

un’intera società; 4) a partire da fonti non ultraterrene, ma richiamandosi all’autorità scientifica.

Il concetto di potere e quello di ideologia sono sempre strettamente legati. Il potere è un concetto chiave

della sociologia e indica la capacità da parte di un individuo o di un gruppo di far valere i propri desideri

anche di fronte alla resistenza altrui. L’esercizio del potere comporta spesso l’uso della forza e della

violenza, ma è anche accompagnato dallo sviluppo di idee che giustificano l’azione di chi lo detiene. La

risorsa opposta alla forza è la legittimità, concetto utilizzato da Weber. Un potere diventa legittimo

quando è capace di far accettare le proprie decisioni come ben fondate. L’ideologia è un tipo possibile di

giustificazione del potere.

Un’osservazione importante sulla specifica funzione di legittimazione svolta dall’ideologia è stata fatta dal

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sociologo tedesco Niklas Luhmann: egli la chiama legittimazione ponderata, per sottolineare che

l’ideologia stabilisce una graduatoria tra i valori che funge da regola di priorità nei casi di conflitto tra

valori; l’ideologia, dunque, stabilendo un ordine di priorità, integra valori contraddittori, scarta alcune

possibilità d’azione riducendo la complessità del processo decisionale. Per questo motivo le ideologie non

sono qualcosa di irrazionale ed emotivo, anzi costituiscono la condizione dell’azione razionale.

Esempi opposti di legittimazione ideologica del potere sono stati il comunismo, nella sua forma leninista e

stalinista, e il nazionalsocialismo della Germania hitleriana. Entrambi mantennero caratteri mitico-

religiosi che hanno fatto parlare di «religioni politiche».

I temi centrali del nazionalsocialismo presentavano una notevole coerenza basata sulla centralità dell’idea

etno-razziale di «Volk» e sulla teoria, che si presentava come scientificamente valida, di un centro nordico

da cui sarebbero partire le tribù conquistatrici dell’Africa del Nord, dell’Egitto, della Persia, dell’India, fino

alla Grecia omerica e a Roma antica. Su questa idea veniva fondata la superiorità razziale del popolo

tedesco. A questa si aggiungeva l’idea di un anti-razza, quella ebraica, inferiore e maledetta, da

sottomettere e neutralizzare. Un aspetto importante di questa ideologia totalizzante era quello di

rivitalizzare elementi mitici e rituali tipici di società arcaiche e tradizionali. Ritroviamo, infatti, le due

strutture mitiche della temporalità: 1) il prestigio delle origini, che dà valore al presente in quanto si radica

in un passato originario che ha costituito i fondamenti dell’agire sociale; il mito giudeo-cristiano viene

sostituito col mito ariano delle origini nordiche; 2) la prospettiva escatologica, l’annuncio della fine del

mondo, si esprime nel mito del millennio nazista visto come la restaurazione dell’uomo ariano nella sua

purezza originaria. L’ideologia nazionalsocialista si completa poi con rituali e cerimoniali che rinnovavano

periodicamente l’adesione alle sue idee e valori centrali (anniversario della presa al potere, del Fuhrer, festa

commemorativa degli eroi, del lavoro, delle donne, ecc.).

2.2 Concezioni e modi di operare dell’ideologia

L’ideologia come difetto della ragione. Il termine «ideologia», coniato alla fine del XVIII secolo dal

filosofo Antoine Destutt de Tracy, designa originariamente la scienza dell’origine delle idee che egli si

proponeva di fondare. Il problema che gli stava a cuore era quello di dare alla conoscenza un

fondamento sicuro. Questa concezione dell’ideologia oggi è del tutto obsoleta.

L’identificazione del fenomeno ha successivamente riguardato le forme distorte del pensiero e le cause

che producono questa distorsione. In questo senso il vero anticipatore del problema è stato Francesco

Bacone, che più di un secolo prima ha elaborato la «teoria degli idola» a cui si sono successivamente

ricondotti gli illuministi francesi ma anche Marx ed Engels. Egli intendeva analizzare gli elementi che

possono influire sul pensiero umano, distorcendolo e intralciando il raggiungimento della vera

conoscenza. Con questa teoria Bacone apre la strada alla concezione accolta a partire dal XVIII secolo

secondo cui il «pregiudizio» si fonda su un complesso di impulsi irrazionali, condizionati dagli

interessi di dominio di potenti gruppi sociali, tra cui una particolare importanza era attribuita al clero

accusato di diffondere strumentalmente certe idee superstiziose. In questa prospettiva il pregiudizio

viene considerato come una consapevole manipolazione dei ceti subordinati da parte dei potenti che se

ne servono per legittimare l’assolutismo feudale.

Il limite principale di questa concezione risiede nell’idea semplicistica che un’ideologia si possa

imporre a un gran numero di persone attraverso l’inganno e la menzogna consapevole. L’dea

dell’impostura comporta anche l’idea altrettanto ingenua che basti smascherare l’inganno per evitare il

pregiudizio. Vengono sottovalutate le reali condizioni sociali che contribuiscono a rendere pregiudizi e

idee credibili da parte delle persone. Dietro questo modo di affrontare il pregiudizio (l’ideiologia) c’è

l’assoluta fiducia degli illuministi nella ragione umana e nella possibilità di arrivare a una conoscenza

autentica.

L’ideologia come falsa coscienza. Con Marx, che si colloca nella scia della tradizione illuminista,

l’ideologia perde il carattere psicologico per assumere un più marcato carattere storico e sociale. Marx

non ha comunque fatto una trattazione sistematica dell’ideologia, che viene vista in due modi diversi:

1) ne L’ideologia tedesca (1845) l’ideologia è intesa come pensiero metafisico che capovolge i rapporti

reali: nel contesto della critica all’idealismo dei giovani hegeliani, il pensiero ideologico è quello che

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erroneamente concepisce le idee come autonome, mentre in realtà sono emanazione diretta del loro

comportamento materiale; all’origine del capovolgimento esiste un processo storico concreto,

individuato nella divisione del lavoro, che separa il lavoro materiale da quello individuale e così crea

una categoria di individui impegnati nella produzione di idee che concepiscono come indipendenti,

«puri» prodotti dell’intelletto individuale; 2) ne Il capitale (1867) Marx parla di un altro capovolgimento

ideologico del pensiero che egli chiama reificazione o «feticismo delle merci» e che verrà ripreso da

Lukàcs: con questo termine egli intende sottolineare un diverso modo di operare dell’ideologia che

tratta i reali rapporti tra le persone come se fossero rapporti tra cose, oggettivizzandoli; così il

commerciante pensa che siano le merci a scambiarsi tra loro e che il capitale produca spontaneamente

altro capitale; anche qui c’è un processo concreto all’origine, ovvero l’autonomizzazione del mondo

delle merci nella società capitalistica.

In tutti e due i tipi di ideologie essa opera dietro le spalle del soggetto, indipendentemente dalla sua

volontà; essa è, per Marx, una falsa coscienza che si produce inconsapevolmente nel soggetto. Marx

utilizza un approccio causalista allo studio dell’ideologia, in quanto i fattori storici e sociali

producono direttamente rappresentazioni distorte, senza che si prendano in considerazione le ragioni

soggettive che i soggetti hanno per accoglierle.

L’ideologia in Marx non è solo il risultato della divisione del lavoro, ma anche la condizione per il

funzionamento del sistema di classe dominante: in quanto nasconde la reale relazione tra le classi,

facendo apparire come armoniosi rapporti in realtà conflittuali, legittima la struttura di classe e così

serve gli interessi della classe dominante.

Ideologia come razionalizzazione. L’oggetto più importante del Trattato di sociologia generale di

Vilfredo Pareto (sociologo ed economista italiano) (1848-1923) è l’analisi dell’uomo in quanto animale

ideologico, anche se egli non usa il termine «ideologia». Eppure se per ideologia si intende un insieme

di idee e valori politici, spesso camuffati da teorie scientifiche, ma che in realtà nascondono interessi

diversi, non c’è dubbio che lo studio dei fenomeni ideologici è stato una delle preoccupazioni principali

di Pareto. Gli esseri umani si distinguono dagli animali non perché sono razionali, ma perché, pur

essendo anch’essi mossi da istinti e impulsi, si affannano a presentarli sotto forma di ragionamenti e

argomentazioni razionali. Le forme ideologiche operano dunque come razionalizzazioni «a

posteriori», sono cioè una «vernice logica» che gli individui applicano a motivazioni sottostanti senza

averne coscienza. Il meccanismo è lo stesso della falsa coscienza marxiana, solo che qui la cause

determinanti la falsità non sono sociali, bensì psichiche. Si tratta dunque di pseudoragionamenti, di

credenze fragili, che si manifestano nell’attribuire nessi causali apparenti che non esistono in realtà.

Il contributo più importante di Pareto è principalmente quello di aver distinto chiaramente tre livelli

d’analisi, infatti le ideologie possono essere analizzate secondo: 1) l’aspetto oggettivo, in base al nesso

logico o non logico di alcuni dati che vengono collegati; 2) l’aspetto soggettivo, in base alle ragioni che

gli individui hanno per accoglierle, ossia la forza persuasiva; 3) infine in base alla loro utilità sociale:

esse infatti possono essere utili o nocive alla società.

Ideologia come concezione del mondo di un’epoca. Con Ideologia e utopia (1929) Karl Mannheim

formula una nuova concezione di ideologia, chiamata totale. Secondo Mannheim si tratta di passare da

una concezione particolare dell’ideologia, intesa come semplice distorsione o menzogna dovuta a

interessi particolari, a una concezione totale, che emerge quando spostiamo l’attenzione dal livello

psicologico a quello della struttura mentale, dello stile di pensiero, del modo di affrontare e

interpretare la realtà di un’intera società o epoca storica.

Mannheim prende posizione per un metodo interpretativo di studio dei prodotti culturali, che si

distacca dei metodi delle scienze naturali e implica la loro collocazione entro una totalità strutturata di

cui essi costituiscono singole parti. Egli individua tre livelli di significato: 1) significato obiettivo, che

riguarda semplicemente l’identificazione di un’azione; 2) significato espressivo, ossia l’intenzione

soggettiva dell’attore sociale; 3) significato documentario, il significato totale che deriva dal connettere i

singoli significati tra i loro e dal metterli in relazione col principio dominante. Quest’ultimo coincide

con la concezione del mondo di un’epoca, che risulta dunque concepita non come qualcosa di statico,

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ma di storico e modificabile.

La relativizzazione del concetto di ideologia conduce Mannheim a proporre una concezione positiva

e neutrale dell’ideologia, che va al di là dell’approccio tradizionale all’ideologia come falsa coscienza o

pseudoragionamento. Così facendo l’ideologia perde però ogni specificità come concetto, in quanto

diventa un altro nome per definire l’insieme delle credenze e dei valori di una società.

3. IL SENSO COMUNE COME SISTEMA CULTURALE

3.1 Che cos’è il senso comune?

Del senso comune è stato detto che è «quello che tutti sanno». Anche il linguaggio comune lo intende

come un modo ordinario, proprio della maggior parte della gente, di intendere e di giudicare. Comune

significa dunque nello stesso tempo ordinario e condiviso intersoggettivamente.

Ma che cos’ha di specifico il senso comune perché se ne possa parlare come di un sistema culturale?

Innanzitutto si tratta di un insieme di quadri di pensiero, rappresentazioni e schemi percettivi che

presentano sia aspetti cognitivi che simbolici, utilizzati dai soggetti a un livello implicito, ossia

precosciente. Il che non significa ipotizzare un inconscio collettivo, ma un sapere incorporato in pratiche e

regole sociali, un sapere presente nella mente allo stato latente, che può quindi essere mobilitato senza

rendersene conto.

Del senso comune non fanno parte solo categorie e nozioni generali, ma anche modi di rappresentarsi gli

altri e di percepire l’ambiente sociale, che hanno un carattere sia descrittivo che normativo. Ad esempio,

possiamo rappresentarci qualcuno come «straniero» e come «tedesco»: in base alla prima etichetta ci

avremo diffidenza verso quella persona, pensando che possa comportarsi in modo inusuale; secondo l’altra

etichetta ci aspetteremo una persona dura, fredda e disciplinata. Questi schemi sono chiamati anche

stereotipi e sono stati studiati dalla psicologia sociale.

Nel senso comune rientrano anche quelle modalità pragmatiche e contestuali dell’attribuzione del

significato – formule di cortesia, di deferenza, di contegno; fino ai rituali del saluto – studiate da Goffman

e da Garfinkel e, in generale, da quella branca della sociologia chiamata etnometodologia, che significa

studio dei metodi impiegati dagli attori nel ragionamento pratico della vita quotidiana. Harold Garfinkel,

per far capire che cosa è il senso comune, invitava i suoi studenti a far saltare le regole comuni,

mostrandone così la fragilità (come avvicinarsi eccessivamente a una persona, violando così la distanza tra i

propri “territori del sé”).

Lo studio del sapere implicito, che è stato al centro della filosofia e della psicologia cognitiva, all’interno

della prospettiva sociologica acquista un diverso orientamento. Dai processi psicologici individuali si passa

ai processi sociali che sono alla base dei quadri di pensiero comune: è nelle pratiche sociali, nei momenti

associativi, nelle istituzioni, nelle relazioni sociali, che si trovano i dispositivi materiali che producono

questo tipo di sapere. Due tradizioni in sociologia si sono occupate di questo tema: la scuola

durkheimiana, che ha studiato le categorie della mente e le forme primitive di classificazione; e un

orientamento che innesta pragmatismo e fenomenologia, rivolto soprattutto a studiare la modalità del

ragionamento pratico e della costruzione pragmatica di un ordine simbolico.

3.2 Forme di classificazione e categorie della mente

Durkheim e Mauss [1901] e Hubert e Mauss [1909] hanno esplorato il carattere sociale sia di alcune

categorie fondamentali del pensiero, sia di alcune modalità di classificazione della realtà.

Durkheim e la scuola francese precisano che le categorie fondamentali del pensiero – come la categoria di

tempo, spazio e causa – e le forme classificatorie – come quelle di genere e specie – sono rappresentazioni

collettive, e non prodotti della mente individuale, in quanto dipendono direttamente dal modo in cui il

gruppo sociale è organizzato. Questo carattere oggettivo ed esterno alle coscienze individuali le rende

vere e proprie istituzioni sociali, strumenti forgiati dai gruppi umani in modo cooperativo, capaci di

influire efficacemente sul loro comportamento.

Nell’ultima sua opera, Le forme elementari della vita religiosa (1912), Durkheim elabora una vera e propria

teoria del pensiero, che cerca di farsi strada tra due opposte filosofie della conoscenza: 1) l’empirismo, che

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sostiene che la mente umana è una sorta di “magazzino” in cui lì individuo accumula tutto ciò che conosce

dall’esperienza individuale; 2) il kantismo, secondo cui la mente umana è una sorta di “faro” che illumina,

ossia seleziona a propri, solo una parte della realtà. Durkheim scarta l’empirismo èperchè postula

l’importanza della psiche individuale; e anche il kantismo, in quanto postula una natura umana invariante.

Egli formula invece la tesi che sia la società l’origine della conoscenza: essa viene prima dell’individuo e

per mantenersi ha bisogno che i suoi membri si comprendano e comunichino tra loro.

Durkheim e Mauss sostengono con chiarezza la tesi che la «funzione classificatrice» non sia innata, ma

abbia origine extralogica e che sia quindi necessario costruire una «storia della logica». Ad esempio, nelel

società totemiche da loro studiate, l’origine della classificazione secondo genere e specie deriverebbe dalla

divisione della tribù in fratrie e clan: la divisione in fratrie ha generato il principio di opposizione (categorie

di genere); quella in clan quello di affinità (categoria di specie). Così, ciò che a un occidentale può apparire

bizzarro, ha in realtà una struttura logica complessa.

Durkheim e la sua scuola non si sono limitati alle forme della classificazione, ma sono andati più in là,

mettendo in luce la natura sociale di categorie fondamentali della mente umana, come la categoria di

tempo e la categoria di persona.

Per quanto riguarda la categoria di tempo, Durkheim fa una distinzione molto importante tra questa

categoria e il sentimento personale del tempo. Tuttavia, per lui il tempo è anche e soprattutto un tempo

sociale, comune al gruppo, oltre che un’istituzione specifica dell’uomo e assente negli animali. Il tempo

sociale è un tempo diviso e misurabile, in una successione di anni, mesi, giorni, ore. L’origine di questa

suddivisione va ricercata nella periodicità di riti, feste e cerimonie pubbliche, un calendario che esprime il

ritmo dell’attività collettiva e ne garantisce la regolarità.

Norbert Elias [1984] arricchisce l’analisi durkheimiana, non trascurando il legame tra tempo sociale e

tempo vissuto, ma continuando a considerare la nozione di tempo come il prodotto di un processo

cooperativo e di apprendimento collettivo, che si evolve verso un grado crescente di astrazione fino al

«tempo esatto», ossia il tempo standardizzato e calcolato da strumenti sempre più precisi.

È Marcel Mauss [1938] a delineare una delle prime e più importanti analisi della genesi della categoria di

persona, considerata una categoria fondamentale come quella di tempo e spazio. Mauss distingua tra una

struttura stabile che chiama «il senso dell’”io”», ossia il senso della propria individualità materiale e

spirituale, e «il concetto che gli uomini nelle varie epoche se ne sono fatti», variabile dunque in base ai

contesti storici e sociali. È su quest’ultimo che si sofferma, delineandone l’evoluzione storica: dalla

nozione di «personaggio» nelle popolazioni tribali, che coincide coi ruoli sociali nel clan, alla persona

titolare di diritti e doveri nell’antica Roma, a cui successivamente il cristianesimo aggiunge l’idea di

coscienza e di vita interiore. Si arriva così all’epoca più recente, alla società moderna in cui la persona

assume un carattere sacro, viene concepita come entità unitaria, indipendente, dotata di autonomia e

responsabilità sociale.

3.3 La memoria collettiva

L’insieme dei quadri di pensiero, delle rappresentazioni dello spazio e del tempo, dei modi di classificare il

mondo, costituisce quello che Maurice Halbwacks ha chiamato memoria collettiva. Egli, uno dei membri

più importanti della scuola durkheimiana, approfondendo l’analisi delle rappresentazioni collettive,

sostiene che la fissazione dei ricordi è mediata da categorie a priori, da «quadri» che hanno un’origine

sociale, dipendono cioè dall’appartenenza a un gruppo e dal fatto di condividere con altri una stessa

esperienza. Come già Durkheim, anche Halbwacks ritiene che aspetti a funzioni studiati in psicologia come

fenomeni individuali siano il prodotto di un processo cooperativo. La memoria di ciascuno è infatti una

costruzione sociale: per trovare e fissare ricordi, abbiamo bisogno di collocarli in un sistema di idee più

ampio che consenta di dargli significato. L’idea originale di Halbwacks è che la memoria operi non

attraverso la conservazione, ma attraverso la ricostruzione e selezione del passato in funzione del

presente.

La memoria di una nazione o di un gruppo sociale dà forma ai ricordi individuali e svolge la funzione di

dare continuità e coesione alla vita collettiva, anche nelle fasi «passive» in cui la società non è mobilitata

da eventi straordinari come la guerra. Le cerimonie e rituali che vengono celebrati periodicamente servono

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per rinnovare la partecipazione dei cittadini e rinforzare i legami sociali.

La memoria è dunque un insieme dinamico, la cui coerenza è parziale, ricostruita di volta in volta, formata

non tanto da manipolazioni esplicite, ma da un sedimento oggettivato nello spazio dell’esperienza

accumulata da un gruppo, all’esterno degli individui.

L’analisi dei modi in cui le società ricordano si è arricchita notevolmente in anni recenti, mettendo a fuoco

gli aspetti conflittuali del processo di costruzione della memoria collettiva. In questo stesso contesto vanno

anche segnalati studi che indagano il modo in cui eventi cruciali e traumatici marchiano per sempre la

memoria e l’identità di una collettività, come la Shoah, la schiavitù o l’11 settembre nel caso dell’identità

nazionale americana.

3.4 Tipizzazioni e routine

La scuola di Durkheim ha considerato le categorie e le forme di classificazione come rappresentazioni

collettive, mettendone in luce il carattere sociale e condiviso; ma il loro aspetto subconscio è stato anche

associato al ruolo del rituale, momento fondamentale di interazione in cui gli individui sperimentano stati

emotivi comuni.

Il fatto che Durkheim riconosca un’attività di interazione all’origine delle forme conoscitive lo avvicina al

pragmatismo americano (filosofi come Perice e Dewey; sociologi come Mead) che collega il ragionamento

quotidiano non al calcolo (modello strumentale) ma alla ripetizione di soluzioni di problemi nelle

pratiche della vita quotidiana. In questa prospettiva l’interesse si posta verso le forme di interazione e

pratica sociale che entro contesti specifici, a livello microsociale, incorporano saperi e competenze dati per

scontati, che non richiedono cioè una riflessione.

Berger e Luckmann, ne La realtà come costruzione sociale (1966), opera che si rifà sia a Weber che a

Durkheim, riprendono esplicitamente il lavoro del sociologo di matrice fenomenologica Alfred Schutz: in

quest’opera l’obiettivo di fondo è studiare il senso comune, inteso come un sistema di significati e

definizioni della realtà che si colloca a un libello preteorico, diverso al livello teorico delle ideologie e

dottrine filosofiche. Gli apporti principali di Schutz si possono così riassumere:

Oggettività. Percepisco la realtà quotidiana come una realtà ordinata e già oggettivata, cioè costituita

da un ordine di oggetti che sono stati designati come tali ancor prima della mia comparsa. Il linguaggio

è l’esempio più chiaro di questa oggettivazione.

Intersoggettività. La realtà mi si presenta inoltre come un mondo intersoggettivo, che io condivido con

altri. Diversamente dal mondo onirico o dell’immaginazione, che vivo in solitudine, quello della vita

quotidiana è reale tanto per me che per gli altri. Assumo costantemente che vi sia una corrispondenza

tra i miei significati e quelli altrui; così idealizzo l’intercambiabilità dei punti di vista.

Naturalità o auto evidenza. Il senso comune è un tipo di sapere che adotta un atteggiamento naturale

rispetto al mondo circostante, in quanto accetta la realtà così com’è, senza ulteriori verifiche: è un fatto

indiscutibile e autoevidente. Così sono portato a sospendere il dubbio per via della necessità

pragmatica di seguire delle procedure o regole – delle routine – che mi consentano di agire senza

dovere ogni volta riflettere sul da farsi.

Tipizzazioni. Le relazioni quotidiane con gli altri non sono semplicemente registrate nella mente come

una fotografia, ma vengono modellate in base a schemi di tipizzazione: questi implicano la selezione

di alcuni tratti che min consentono di collocare l’individuo in una categoria più generale per dare

ordine alla mia esperienza; inoltre ciò mi permette di prevedere il comportamento dell’altro, capendo

quale sia il comportamento più consono alla situazione. Tali schemi non hanno un’origine

contemplativa, ma pragmatica e perseguono i miei scopi e interessi in base a i quali io seleziono i tratti

altrui più utili.

Fondo di conoscenza comune. Le persone interpretano la propria situazione usando un fondo di

conoscenze e simboli che su sono mostrati adatti a risolvere problemi ricorrenti e che sono dati per

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scontati. Questa conoscenza non è omogenea, ma è socialmente distribuita, ed è solo relativamente

coerente.

L’idea di un sapere «incorporato» in regole di routine non rimanda, tuttavia, a individui passivi o

autonomi che ripetono modelli già confezionati. Esiste sempre la possibilità che la routine e l’autoevidenza

siano messe in discussione e interrotte dalla comparsa di un problema (un evento insolito e imprevisto)

che non ho ancora trasformato in routine. Di fronte a questi problemi il senso comune opera integrando il

settore problematico in ciò che è già non problematico, ovvero incorporando l’ignoto nel già noto,

riconducendolo a categorie familiari.

L’etnometodologia approfondisce i modi in cui gli individui attribuiscono senso agli eventi sociali; essa

considera il sistema di significati condiviso entro un sistema sociale come una realizzazione contingente da

parte di persone coinvolte in attività specifiche. Il senso di un comportamento è continuamente negoziato e

rinegoziato nel corso dell’interazione.

4. LA RELIGIONE COME SISTEMA CULTURALE

4.1 Religione e religioni

Quando le credenze, i valori e i simboli sono integrati in un sistema più o meno coerente si parla di

concezioni del mondo. Le ideologie sono concezioni del mondo secolari, poiché si riferiscono all’autorità della

scienza. Quando una concezione del mondo riguarda i rapporti tra umano e divino si parla di religione.

Questa definizione molto generale individua i tratti distintivi del fenomeno ma non ha la pretesa di

cogliere la «verità» dell’oggetto che essa delimita, ma semplicemente la loro specificità come fenomeno

storici e sociali, distinguendoli da altri oggetti non religiosi.

Parlare di religione come sistema culturale significa identificare quelli che sono i suoi tratti distintivi: 1) la

presenza di una struttura di significati, espressi sia in dottrine e dogmi sia in precetti e divieti sia in

simboli; 2) che inserisce l’individuo e la realtà umana in un ordine cosmico sacro; 3) ha un carattere

pubblico acquisito attraverso processi sociali di apprendimento.

Dottrine, precetti e simboli. Le dottrine sono delle proposizioni teoriche, elaborate in maniera

esplicita, come la dottrina cristiana dell’onnipotenza di Dio. Nelle religioni rivelate sono spesso

espresse in forma dogmatica, come verità obbligatorie e indiscutibili. Le credenze si connettono a

norme che danno delle indicazioni pratiche su come comportarsi nella vita. I simboli, infine,

rappresentano oggetti o eventi dell’universo religioso: la croce cristiana simboleggia il sacrificio di

Cristo.

Ordine cosmico sacro. La religione connette il microcosmo al macrocosmo, inserendo l’individuo e la

realtà umana in un ordine universale. Il sacro è qualcosa che si stacca dalla routine quotidiana, qualcosa

di potenzialmente pericoloso; tuttavia esso è anche in rapporto con l’uomo. Il cosmo postulato dalla

religione quindi trascende e include l’uomo allo stesso tempo.

Carattere pubblico. Il sistema religioso di credenze è pubblico in quanto non è rappresentato solo dalle

immagini interiori del credente, ma anche da simboli esterni presenti nella cultura e acquisiti

attraverso l’apprendimento di un complesso di idee e di valori che ha origine nella storia del gruppo

sociale ed è trasmesso attraverso un processo di educazione da una generazione all’altra.

Se questi possono essere identificati come tratti comuni alla religione, è sempre con diverse religioni

sviluppate entro specifici contesti storico-sociali che si ha a che fare. Bisogna dunque tenere conto di una

pluralità di tipi di religione. Robert Bellah [1964] descrive la transizione da forme più semplici a più

complesse di religione: il tipo primitivo (ad es. quella degli aborigeni australiani) è basato sull’azione

creatrice di demiurghi e figure mitiche ancestrali umane e non; il tipo arcaico (popolazioni indonesiane e

africane) p basato su esseri mitici potenti, gli dei; il tipo storico (come il protoebraismo) stabilisce la

separazione tra naturale e soprannaturale e afferma il concetto di libera volontà; il tipo protomoderno

(Riforma protestante) stabilisce un rapporto diretto tra l’individuo e il soprannaturale e il concetto di fede;

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il tipo moderno, infine (religioni contemporanee), accentua la responsabilità e la ricerca di un codice etico

particolare.

Max Weber [1920] considera le grandi religioni universali, quelle che non hanno ambito solo locale ma

riguardano territori vastissimi e si estendono a una molteplicità di popolazioni, come il buddismo,

induismo, ebraismo, cristianesimo, islam.

Due sono i criteri di classificazione: 1) l’immagine del mondo e 2) il modo di ottenere la salvezza.

L’immagine del mondo può essere: 1) teocentrica (islam, ebraismo, cristianesimo), basata sulla concezione

di un dio personale trascendente; 2) cosmocentrica (induismo, buddismo), fondata sulla concezione di un

potere divino impersonale e immanente.

A queste due concezioni del mondo corrispondono altrettanti modi di concepire il rapporto uomo/dio e di

ricercare la salvezza. Nella tradizione mediorientale e occidentale l’uomo è visto come strumento di dio, che

agisce nel mondo per suo volere. Weber chiama questa concezione ascetismo. Nella tradizione asiatica

l’individuo è invece un «”vaso” del divino», ossia contenitore della divinità. Questa concezione è chiamata

misticismo. L’essere umano, comunque, è in entrambe le tradizioni l’imperfetto e il precario, ma mentre in

quella teocentrica è «creatura peccatrice», in quella cosmocentrica è «creatura transeunte» (effimero,

transitorio). Inoltre, nel primo caso si tratta di ottenere il favore del dio e ciò che si teme di più è la

violazione dei suoi comandamenti; nel secondo caso si tratta di comprendere e possedere dio dentro se

stessi, e il timore è di non riuscire a farlo e rimanere legati al ciclo della morte e della rinascita.

Queste diverse concezioni del rapporto uomo /dio hanno modellato più in generale l’intero carattere della

cultura. Infatti, si spiega come l’ideale occidentale sia diventato quello di personalità attiva, mentre

l’orientale sia quello di atteggiamento passivamente contemplante.

Se il tratto distintivo della religione come sistema culturale è l’insieme di credenze, essa è sempre anche

connessa a riti, ossia pratiche periodiche volte a commemorare la ricorrenza di eventi mitici o di una storia

sacra.

Inoltre, le religioni si sono espresse in precise forme organizzative: mentre nelle religioni primitive non

esiste un ceto sacerdotale, nelle religioni storiche emerge una divisione del lavoro che porta al costituirsi di

un ceto specifico di persone addette al culto, i sacerdoti.

Noi siamo orientati ad attribuire molta importanza alle istituzioni religiose perché nella tradizione

occidentale i movimenti religiosi, raggruppamenti di persone intorno a un profeta o capo carismatico,

hanno storicamente dato vita a organizzazioni molto strutturare e potenti: la chiesa e la setta. La chiesa è

una comunità di credenti stabilizzata, a cui si appartiene per nascita, caratterizzata da un corpo di

professionisti – il clero – ordinato in una gerarchia ecclesiastica che si dedica al manteniemento delle

finalità dell’organizzazione religiosa. Un esempio di chiesa che ha dimostrato nel tempo permanenza e

flessibilità è quella cattolica. La setta – che non ha nell’analisi storico-sociologica quella connotazione

negativa poi attribuitale dal linguaggio comune e giornalistico – si distingue dalla chiesa per alcuni tratti

fondamentali: alla setta non si appartiene per nascita, ma per scelta, che presuppone un processo di

conversione individuale; la comunità di credenti è dunque molto più ristretta, anche perché accoglie solo le

persone «virtuose» che si sentono «toccate» dalla divinità. Esempi di sette sono molte organizzazioni nate

dalla Riforma protestante o anche i testimoni di Geova.

I livelli di analisi della religione come sistema culturale sono molteplici. Riguardano innanzitutto la

ricostruzione delle credenze; poi la spiegazione della loro struttura; le motivazioni degli attori sociali ad

accettare tali credenze; infine, le funzioni e le conseguenze che l’adesione ad esse comporta sia per i singoli

che per il sistema sociale.

4.2 Genesi e funzioni della religione

Quando l’antropologia e la sociologia si occupano della religione la trattano come un fenomeno sociale. Il

problema non è quello di stabilire la verità della religione, obiettivo proponibile da un punto di vista

scientifico, ma di comprendere quali sono le esperienze sociali all’origine della sua variabilità e

permanenza. Un approccio filosofico sostiene l’autonomia della religione in quanto la riconduce alla natura

stessa dell’uomo, alla sua essenza religiosa; ciò significa che la religione non ha altro fondamento che

l’esperienza individuale e privata del «sacro», descritta come sentimento di essere «creatura», sentimento

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irrazionale insieme di terrore e fascinazione verso il trascendente.

Le principali interpretazioni in ambito sociologico sono due: causali e funzionali. Mentre quelle causali

cercando di rendere conto degli aspetti culturali della religione riportandoli a condizioni sociali

antecedenti, le spiegazioni funzionali si rifanno alle conseguenze di questi stessi aspetti per la società e gli

attori sociali. Numerosi autori le adottano entrambe nelle loro ricerche, come Durkheim, che studiando le

religioni totemiche dell’Australia e dell’America del Nord, riconduce l’emergere delle credenze nel totem

ad alcune situazioni sociali particolari: si tratta di momenti rituali in cui l’intero gruppo sociale, il clan, si

ritrova creando un’interruzione temporanea delle attività della vita quotidiana per svolgere attività come

danze e altre pratiche ad alta intensità emotiva. Il meccanismo che genera le rappresentazioni religiose è

dunque un cambiamento emotivo nel senso di una maggiore intensità che crea nei partecipanti l’dea di

essere in contatto con un’entità superiore e potente. Durkheim aggiunge un elemento interpretativo: l’idea

di una potenza sacra che pervade ogni cosa viene poi trasferita nel totem, insieme emblema e nome del

clan. Questa sovrapposizione tra divinità e clan mostra che il simbolismo religioso altro non è che il modo

in cui la società venera se stessa in una sorta di drammatizzazione estetica ed espressiva. I limiti di

questa spiegazione consistono nell’incapacità di spiegare la grande variabilità delle rappresentazioni

religiose e nella difficoltà della sua verifica empirica.

Durkheim, nella stessa ricerca, avanza anche una serie di ipotesi sulle funzioni della religione, che

concernono soprattutto le conseguenze sulla società e sulle relazioni sociali. Egli sostiene che la religione ha

la funzione di rinforzare i legami che connettono l’individuo alla società di cui è membro. La religione,

secondo Durkheim, svolge questa funzione in una duplice maniera: 1) come sistema di comunicazione di

idee e 2) come insieme di norme regolativo delle relazioni sociali. Durkheim è convinto che le funzioni

della religione non siano limitate alle religioni primitive, ma siano comuni a tutte le società e abbiano

quindi un carattere universale.

Se si esclude la spiegazione causalista di Marx ed Engels, per i quali la religione è una sovrastruttura che

esprime i rapporti di sfruttamento della struttura economica della società, e non è diversa dunque da altre

forme di ideologia e falsa coscienza (“La religione è l’oppio del popolo”), le scienze sociali sembra abbiano

preferito studiare le funzioni della religione.

Merton, uno dei sociologi più influenti della scuola funzionalista, ha introdotto la distinzione tra funzioni

manifeste e funzioni latenti. Con il termine funzioni manifeste si riferisce alle conseguenze oggettive che

contribuiscono all’adatta,ento del sistema e sono riconosciute e ammesse dal gruppo. Le funzioni latenti,

invece, riguardano le conseguenze oggettive che non sono né volute né ammesse. Ad esempio, la

descrizione dei riti della pioggia non deve arrestarsi alle azioni rivolte a ottenere il favore degli dei nei

fenomeni meteorologici (funzione manifesta) ma deve anche descrivere e ricostruire le relazioni tra i

partecipanti, portando alla luce altre funzioni (latenti) come quella di dare fiducia al gruppo in momenti

difficili.

Alle ipotesi funzionaliste si è sempre contestata l’eccessiva sottolineatura del consenso e dell’integrazione

sociale, che trascura l’aspetto conflittuale e di protesta insito nei fenomeni religiosi. Weber, che anzi ha

sottolineato con forza il carattere rivoluzionario di certe religioni, ha rilevato una funzione sociale delle

religioni universali: quella di giustificare razionalmente la diversa distribuzione dei beni tra gli uomini e

certe assetti della stratificazione sociale. Il problema di fondo a cui la religione cerca di dare risposta è

l’incongruenza tra il destino e il merito. Le soluzioni a questo problema prendono il nome di teodicea e

sono la dottrina della predestinazione e la dottrina indiana del karman: la prima interpreta il destino

umano come conseguenza della volontà imperscrutabile di Dio, non influenzabile dall’azione umana; la

seconda lo interpreta come conseguenza di un meccanismo universale di retribuzione delle azoni umane

che si lega alla dottrina della compensazione di azioni buone o cattive tramite un tipo più onorevole o

vergognoso di rinascita.

4.3 La religione nella società moderna

Il problema centrale affrontato fin dagli esordi della sociologia, in una società sempre più industrializzata,

era se la funzione della religione potesse essere la stessa delle società primitive. In queste ultime la

religione è davvero il sistema culturale per eccellenza, che domina tutta la vita sociale. Nei paesi

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occidentali (di matrice giudaico-cristiana) l’inurbamento e la differenziazione della società hanno mutato la

presenta stessa della religione nella vita quotidiana. L’esito più rilevante della modernizzazione è stato

quello di sottrarre alla religione la predominanza che aveva nel passato, limitandola a un ambito

circoscritto e specializzato. Ne parla chiaramente Durkheim, sottolineando la divisione della funzione

religiosa da quella economica, politica e scientifica, diventate indipendenti. Anche Weber si riferisce a

profondi cambiamenti nel rapporto tra religione e società, parlando del processo occidentale di

razionalizzazione, inteso come progressivo affermarsi dell’idea che ogni cosa possa essere dominata con la

ragione. Lo sviluppo socioculturale dell’Occidente gli appare segnato dal «disincantamento del mondo»,

che ha una duplice dimensione: 1) viene rilevata la progressiva autonomizzazione della religione rispetto

ad altre sfere (politica, economica); essa, così resa autonoma, entra inoltre in competizione con altri aspetti

della cultura, come la sfera etica e intellettuale; 2) la seconda dimensione riguarda la dinamica interna alle

stesse religioni occidentali, che collocando il divino su un piano assolutamente trascendente, tendono a

eliminare ogni elemento magico del rapporto uomo/dio, ogni residua idea che le potenze sovrannaturali

possano essere piegate al volere umano. Sono dunque le stesse religioni occidentali ad aprirsi a un

orientamento laico e razionale, che non vede più il mondo come permeato da spiriti che bisogna

ingraziarsi o dominare.

Questo processo di cambiamento della religione viene chiamato processo di secolarizzazione, termine nato

in ambito giuridico per indicare il trasferimento di beni dalla Chiesa a possessori civili. Esso può essere

definito come il processo tramite cui alcuni settori della società vengono sottratti al dominio delle

istituzioni e dei simboli religiosi. In maniera più analitica questo processo presenta tre aspetti: 1) l’aspetto

istituzionale, che riguarda la differenziazione strutturale della società; 2) l’aspetto culturale, che riguarda il

mutamento intenro alle credenze religiose; 3) l’aspetto comportamentale, che riguarda il grado di

integrazione tra credenze e il concreto agire degli individui.

Per quanto riguarda la differenziazione istituzionale, essa è un tratto acquisito nei paesi occidentali

moderni poiché si è realizzata storicamente con la separazione tra Stato e Chiesa, che non è avvenuta in

molti paesi mediorientali in cui la religione islamica pervade la vita politica. Questa separazione ha aperto

la via al pluralismo religioso, per la presenza di una molteplicità di organizzazioni religiose che

competono tra loro entro quello che è stato chiamato «mercato delle fedi».

Il secondo aspetto, quello culturale, mette in luce che il pluralismo religioso si connette alla

individualizzazione delle credenze: l’adesione religiosa è diventata una scelta individuale, comporta cioè

una decisione personale che prescinde dalla tradizione.

Per quanto riguarda, infine, il piano dei comportamenti, in tutta l’Europa occidentale si assiste al declino

della partecipazione religiosa, tanto che la pratica regolare rimane una disposizione di una minoranza

della popolazione; la religione è sempre meno capace di orientare le scelte in campo etico, le quali

risultano indipendenti dalla fede e dall’autorità religiosa.

Nella situazione delle società contemporanee, la religione perde dunque le sue caratteristiche di sistema

culturale? La risposta è complessa. Sicuramente la religione entra in competizione con altri grandi «disposi

viti di senso» (ideologie politiche, la scienza) mentre vengono indeboliti i riferimenti alla tradizione.

Tuttavia nuove ricomposizioni sono in atto. Da un lato il religioso è investito di significato come luogo di

memoria culturale in cui la tradizione viene ricreata per compensare l’indebolimento delle radici collettive.

Dall’altro latro sono proprio le identità collettive minacciate dalla modernità ad essere rivitalizzate: di

questo processo sono esempi i vari movimenti fondamentalisti che si sono affermati sulla scena mondiale.

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CCUULLTTUURRAA EE SSOOCCIIEETTÀÀ:: CCOOMMEE LLAA CCUULLTTUURRAA IINNFFLLUUEENNZZAA LL’’AAZZIIOONNEE SSOOCCIIAALLEE

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1. DUE APPROCCI TEORICI

È stato detto che il rapporto tra società e cultura è di influenza reciproca. Questa premessa è indispensabile

per comprendere quegli studi condotti tramite una prospettiva culturale che fa leva cioè sui fattori

culturali per spiegare alcuni comportamenti rilevanti delle persone (da quelli economici a quelli politici), a

livello microsociale, sia andamenti più generali, a livello cioè macrosociale.

Si possono identificare due modelli teorici per rispondere a questa domanda: come avviene che i valori, le

norme e le credenze abbiano un impatto sui comportamenti concreti delle persone?

Modello dell’attore socializzato. Questo modello può essere fatto risalire alla teoria di Talcott Parsons:

l’idea di base è stata anticipata da Freud e Durkheim, ma è stato Parsons ad aver sviluppato una teoria

sistematica di come i valori sociali rendono conto dell’integrazione degli attori sociali nel sistema

sociale. I valori condivisi da una collettività si traducono in azioni conformi attraverso il processo di

interiorizzazione che avviene essenzialmente durante l’infanzia e che comporta l’inserimento dei valori

nel sistema della personalità. Questi si trasformano in motivazioni profonde, stabili, indipendenti da

ogni uso strumentale. La conformità è, nelle fasi successive della vita, rinforzata da meccanismi di

controllo sociale che fanno parte della normale interazione quotidiana. Le disposizioni profonde della

personalità diventano la base per la realizzazione delle aspettative legate ai ruoli sociali, rendendo

prevedibili i comportamenti dei singoli e della collettività.

Questo modello è stato molto influente nella ricerca sociologica anche se ha ricevuto numerose critiche:

alcuni hanno osservato che questo modello accentua gli aspetti consensuali mentre trascura la

possibilità di conflitto e anticonformismo; inoltre appare vago e difficilmente verificabile

empiricamente.

Modelli dell’identità sociale. Questo modello, così definito da Francesca Cancian [1976] parte dalla

constatazione empirica che la connessione tra valori e comportamenti non è sempre chiara. Secondo

Cancian, le credenze normative sono collegate al comportamento se esse sono condivise da un gruppo e

definiscono un’importante identità che è convalidata da questo gruppo. Ciò significa che 1) solo certe

classi di credenze condivise possono correlarsi al comportamento, ossia che solo le credenze che

definiscono l’identità del singolo come membro del gruppo saranno in relazione con l’azione; 2) gli

individui agiscono in conformità a una norma perché questo è il modo per dare validità a una

particolare identità. Questa prospettiva suggerisce che le norme comuni possono cambiare anche molto

rapidamente e senza che vi siano rapporti intensi di interazione; 3) le credenze condivise sulla realtà

delimitano possibili azioni significative: ad esempio, è impossibile essere una strega o uno scienziato

finché l’esistenza di queste identità non sia stata pubblicamente accettata.

Questo modello stabilisce, dunque, che le credenze e i valori devono dare forma a specifiche identità

sociali perché siano in grado di orientare l’azione. Max Weber ha utilizzato uno schema teorico per

certi aspetti simile quando ha identificato la logica in base alla quale le immagini del mondo (le idee

religiose) orientano l’agire sociale. Vedremo ora come Weber applica questo schema teorico generale

alla spiegazione della genesi del capitalismo moderno.

2. CULTURA E SVILUPPO ECONOMICO

2.1 Il ruolo dell’etica protestante nello sviluppo del capitalismo moderno

Ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo [1905] Weber si concentra sulle condizioni culturali che

hanno favorito lo sviluppo del capitalismo moderno identificandole nell’etica religiosa nata con la

Riforma protestante e diffusa, in particolare, delle sette ascetiche di matrice calvinista.

La tesi di Weber si inseriva in modo originale in un dibattito più ampio sulla genesi dell’economia

capitalistica. La domanda da cui parte Weber riguarda una regolarità statistica: come mai gli imprenditori

capitalisti e il personale tecnico o commerciale qualificato sono di religione protestante? Weber cerca di

rispondere a questa domanda risalendo ai motivi storici di questa predisposizione.

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Innanzitutto identifica nello «spirito del capitalismo» la configurazione di idee e valori che

contraddistingue il «capitalismo moderno», di cui sono portatori i ceti borghesi in ascesa. I suoi tratti

peculiari sono la ricerca razionale del guadagno e la concezione della professione come dovere morale e

vocazione. Weber dunque mette in luce il carattere unico di questo spirito, il fatto cioè che esso sia emerso

solo in Occidente e in una definita epoca storica, tra il XVII e il XVIII secolo. Esso non è una caratteristica

innata della natura umana e non va quindi confuso con la bramosia di denaro che caratterizza qualsiasi

epoca storica e categoria sociale. Esso inoltre per affermarsi deve lottare col tradizionalismo, l’inclinazione

cioè a guadagnare quel tanto che basta per soddisfare abitudini consolidate. Lo spirito del capitalismo è

profondamente innovatore rispetto ai modi di vita tradizionali: irrompe sulla scena culturale provocando

tensioni e conflitti. È su questo aspetto unico che secondo Weber necessita di essere spiegato

riconducendolo a fattori sociali, politici e culturali preesistenti.

Non bisogna infatti pensare che gli unici fattori individuati da Weber come rilevanti per lo sviluppo

capitalistico siano di tipo culturale. Tuttavia è ai fattori culturali che egli dà preminenza. Senza

l’affermazione e la diffusione dell’etica protestante, ossia di una particolare configurazione di credenze

religiose, l’agire sociale avrebbe seguito direzioni differenti. Come mai un’etica religiosa, rivolta quindi a

problemi ultraterreni, ha potuto influenzare in maniera così decisiva comportamenti tanto profani come

quelli economici?

La spiegazione di Weber segue alcune tappe. Si basa 1) sull’identificazione di due diverse etiche

economiche: l’etica cattolica predominante nell’epoca medievale e l’etica protestante, nata con lo scisma

della riforma luterana; 2) sulla messa a fuoco della rottura introdotta dalla Riforma rispetto all’etica

cattolica e della particolare affinità che lega l’etica protestante alla vita professionale laica; 3)

sul’individuazione dei meccanismi psicologici che generano un comportamento pratico a partire dalla

credenza religiosa calvinista della predestinazione.

In primo luogo Weber sostiene che il mondo cattolico oscillava tra un atteggiamento ostile e uno più

accomodante verso la ricchezza, vista sia come guadagno indispensabile per la sopravvivenza che come

qualcosa di cui vergognarsi e che non doveva costituire un fine in sé. Questa posizione era condivisa dai

ceti borghesi cattolici, che occupavano il gradino più basso di una piramide sociale il cui apice sommo era

invece la vita monacale. Con la Riforma protestante si attua una rottura con la concezione cattolica: la

dottrina luterana della vocazione svaluta l’ascesi monacale del cattolicesimo e estende l’idea di vocazione

e lavoro professionale che si realizza nella vita di tutti i giorni. Viene introdotta l’idea rivoluzionaria del

sacerdozio universale: per vivere in grazia di Dio non serve rinchiudersi in convento, ma adempiere al

proprio dovere nelle professioni di questo mondo; non c’è differenza tra sacerdoti e comuni credenti.

È soprattutto con Calvino che la rottura col cattolicesimo si compie definitivamente. Egli introduce la

dottrina della predestinazione, secondo la quale Dio, per suo imperscrutabile volere, ha salvato una parte

dell’umanità e condannato un’altra, senza che l’uomo possa intervenire a modificare la situazione.

Tale dottrina ha avuto anche conseguenze per l’azione. Weber parla di spinte pratiche all’azione, ossia di

meccanismi microsociali che indirizzano l’agire di grandi masse in direzione di un nuovo tipo di

imprenditorialità capitalistica. La predestinazione, in realtà, poteva condurre al fatalismo: se l’uomo non

può fare nulla per ottenere la salvezza, tanto vale accettare passivamente il proprio destino. Se, invece, la

predestinazione ha condotto a un atteggiamento addirittura opposto, di attivismo in questo mondo, è

perché quando il protestantesimo cominciò a diffondersi presso un numero crescente di persone sorse il

problema della certezza della salvezza. Se i protagonisti della Riforma potevano pensare di far parte degli

“eletti”, gli uomini e donne comuni vivevano in uno stato d’angoscia per il fatto di non sapere a quale parte

dell’umanità (salvati o dannati) erano destinati. Il meccanismo sociopsicologico di risposta fu quello di

dedurre la scelta divina dal successo nel lavoro professionale onestamente conseguito, in una condotta di

vita che Weber chiama ascesi laica.

Ne Le sette protestanti Weber accentua il ruolo dell’appartenenza alle sette nel favorire lo sviluppo

economico. Qui non si tratta più di spiegare l’origine del capitalismo moderno, bensì di rendere conto della

permanenza, nella società americana di inizio ’900 in cui il capitalismo è ormai radicato, di un forte

rapporto tra religione e mondo economico. Per Weber, gli Stati Uniti rappresentano un caso

paradigmatico dell’instaurarsi di un circolo virtuoso tra etica religiosa e sviluppo economico. Qui

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l’ascetismo intramondano puritano, favorendo la formazione di sette, creava un tessuto sociale capace di

rispondere all’esigenza del mondo economico di poter valutare su solide basi l’affidabilità delle persone

con cui entrava in affari. La presenza di reti sociali capaci di fornire «certificati di onorabilità», di garantire

cioè la reputazione morale delle persone che ne facevano parte, rappresentava un’indispensabile base

fiduciaria.

2.2 Gli effetti della cultura sulla crescita economica

Weber, negli scritti su L’etica economica delle religioni universali [1920] svolge un’analisi comparativa delle

religioni universali con l’intento di trovare una conferma della tesi dell’influenza del protestantesimo

sullo sviluppo capitalistico estendendola ad altri contesti sociali, non più limitati all’Occidente europeo,

ma entro una prospettiva storico-universale. Weber mostra che le religioni della tradizione asiatica e

mediorientale hanno ostacolato lo sviluppo del razionalismo economico tipico del capitalismo moderno,

favorendo invece un’etica economica tradizionalistica.

Weber riconduce l’inclinazione al tradizionalismo di queste religioni al mancato sviluppo di una profezia

etica come nell’ebraismo e nel cristianesimo. In questa il profeta si presenta come inviato da Dio per

predicare comandamenti che impongono degli obblighi morali generali. Tutti devono seguirli se vogliono

raggiungere la salvezza. Nelle religioni orientali, invece, si è affermata una profezia esemplare, che non

impone obblighi morali alle masse, ma indica con l’esempio la strada da seguire.

Tra le religioni universali è stato il confucianesimo, tipico della moderna società cinese, che non ha

sviluppato alcuna profezia di redenzione, a costituire il maggiore ostacolo alla formazione di un

comportamento economico razionale e allo sviluppo di un’economia capitalistica. Weber gli contrappone il

protestantesimo ascetico, mostrando il diverso ruolo – positivo in uno, negativo nell’altro – che essi hanno

avuto sull’agire economico. La differenza centrale consiste nel fatto che, a differenza del protestantesimo, lo

specifico razionalismo confuciano era costituito da un insieme di massime politiche e di regole di buon

comportamento sociale per uomini di mondo colti; l’uomo ideale confuciano era il gentiluomo che

adempiva ai doveri tramandati e la virtù principale era il rispetto del decoro cerimoniale rituale. Il

presupposto di quest’etica convenzionale era dovuto al permanere di una religiosità magica che

esprimeva un insieme di valori centrato sul culto degli antenati e sulla devozione alla famiglia. In netto

contrasto con l’etica puritana, l’etica confuciana ha consentito che nella società cinese dominasse una

coesione di gruppi parentali: da qui i limiti che aveva la fiducia, il che condizionava in maniera

sfavorevole lo sviluppo dei un’economia che andasse al di là della ristretta cerchia della comunità naturale

del gruppo parentale.

Molte altre ricerche hanno condotto un’analisi comparata tra paesi sviluppati e sottosviluppati,

affrontando la questione se i fattori culturali influenzino lo sviluppo economico. Inglehart [1996] ad

esempio, svolge un’analisi comparata ad ampio raggio che si basa su dati quantitativi che riguardano 43

paesi che rappresentano il 70% della popolazione mondiale e che comprendono tutte le variazioni da quelli

con reddito procapite più basso al più alto. Inglehart, per dimostrare l’importanza dei fattori culturali per

la spiegazione della variabilità economica dei diversi paesi, ha elaborato un indice della motivazione al

successo tratto da una lista di qualità a cui i bambini vengono educati. L’ipotesi è che società diverse

mettano l’accento su valori diversi nell’educazione e che tali valori siano correlati ai rispettivi tassi di

crescita. Da questa ricerca emerge che Giappone, Cina e Corea del Sud hanno l’indice più elevato di

motivazione al successo e tassi più alti di crescita, mentre Stati Uniti e paesi europei , dove predominano i

valori post-materialisti (autorealizzazione, qualità della vita), si collocano a metà strada: qui questi valori

hanno una correlazione negativa con la crescita economica.

In definitiva, gli studio sociologici sullo sviluppo economico richiamano sempre più l’attenzione sulle

dimensioni culturali che possono favorire o ostacolare la modernizzazione.

2. CULTURA E SVILUPPO POLITICO

Le nozioni di «cultura politica» e «cultura civile» si sono recentemente imposte nelle scienze politiche e

sociali per spiegare una serie di fenomeni, dalla formazione delle preferenze politiche, al cambiamento

politico, all’efficacia delle istituzioni democratiche. Si mette in rilievo l’influenza che la dimensione

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culturale esercita sui processi politici e sulla stabilità della democrazia. Uno dei primi e principali

contesti in cui tali nozioni sono state elaborate è quello dell’accesso all’indipendenza dei paesi colonizzati:

la formazione di nuovi stati del Terzo mondo ha rivelato che l’importazione di istituzioni democratiche

non è sufficiente ad assicurare il funzionamento della democrazia. Di qui sociologi e scienziati politici sono

stati condotti a interrogarsi sui fattori culturali della democrazia.

Sul piano teorico si è cominciato a dare importanza al problema di come si formano le preferenze

politiche, e come cambiano e orientano l’azione politica. Mentre la teoria economica non ci dice nulla

sull’origine delle preferenze, in quanto vengono considerate come date, la teoria culturale, basata sulla tesi

che le preferenze siano endogene, ossia che emergano dall’interazione sociale e valori condivisi che

legittimano diverse pratiche sociali, è in grado di spiegare i loro meccanismi di formazione. La teoria

culturale della democrazia sembra rivivere in anni recenti una stagione di grande influenza e successo nelle

scienze sociali. La sua origine risale al programma di ricerca sulla cultura politica formulato agli inizi degli

anni ’60. La tesi di fondo è che ogni sistema politico sia legato a un insieme di valori e credenze condivisi

dai membri di una data società, ossia a una cultura che si forma e sedimenta nel tempo e attraverso

processi di apprendimento in famiglia, a scuola e in altri gruppi sociali, entra a far parte della personalità

degli individui, originando delle disposizioni ad agire costanti. Viene qui applicato il modello dell’attore

socializzato. La teoria della cultura politica formula tre tesi di base: 1) gli attori non rispondono

direttamente alle situazioni ma attraverso la mediazione di orientamenti, ossia in base a disposizioni ad

agire in certe situazioni date; 2) tali orientamenti non sono meri riflessi di condizioni oggettive, ma variano

in base a funzioni che sono di tipo culturale; 3) gli orientamenti non sono acquisiti in maniera automatica

ma sono appresi attraverso un processo di socializzazione alla cultura di una data società. Alla fine di

questo processo, che ha aspetti cognitivi, affettivi e valutativi, si formano predisposizioni o orientamenti

all’azione che costituiscono un insieme coerente e omogeneo e consentono la prevedibilità dell’interazione

sociale. Questi tratti sono sufficienti a tipizzare i membri di una comunità nazionale rispetto a un’altra.

A questo livello di riflessione il concetto di cultura politica ha molto a che vedere con la nozione di

carattere nazionale, che venne studiata durante la seconda guerra mondiale dalla scuola

psicoantropologica americana: essa studiava la relazione tra cultura e personalità, ricollegandosi a

psicanalisi e scienze sociali, con l’intento di spiegare le propensioni politico-culturali delle principali

nazioni coinvolte nella guerra. Si deve a questa scuola anche l’introduzione della nozione di «personalità

di base» che rappresenta lo stile comportamentale di fondo di una certa popolazione, che lascia spazio alle

variazioni individuali e al cambiamento culturale.

Entro questo quadro teorico, il concetto di cultura civica rappresenta una specificazione di quello di

cultura politica, intesa in generale come l’orientamento psicologico dei membri di una società nei

confronti della politica. Essa viene descritta concretamente come «cultura politica mista» che combina

tratti di due diversi modelli: il modello «attivista» della cittadinanza democratica e quello «passivo» basato

sulla deferenza e fiducia verso l’autorità. Questo tipo «misto» di cultura politica sarebbe il più adatto al

mantenimento di un moderno sistema politico di democrazia e nel concreto viene incarnato, negli anni ’50,

dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti. La cultura politica italiana, invece, si presenta come una «cultura

particolarista», frammentata, basata su interessi locali, sulla fiducia ristretta alla famiglia, caratterizzata

cioè da quei tratti culturali che l’antropologo americano Edward Banfield aveva definito «familismo

amorale». La cultura politica dell’Italia del dopoguerra risultava dunque più adeguata a mantenere una

struttura politica tradizionale piuttosto che a favorire la stabilità di istituzioni democratiche.

La spiegazione dell’arretratezza politica e dell’inefficienza delle istituzioni democratiche in Italia in termini

di carenza di cultura civica è stata in anni recenti ripresa, in particolare da Putnam [1993] che ha inteso

dimostrare sulla base di dati empirici come il diverso rendimento istituzionale delle amministrazioni

italiane sia dovuto alla maggiore o minore presenza di civicness (spirito civico) nelle diverse aree del paese:

essa è il tessuto di regole, norme, valori, che favoriscono la cooperazione sociale, la fiducia allargata e il

perseguimento del bene collettivo. Da questa ricerca emerge che il sud è meno civico del centro o del nord

Italia, e la ragione di ciò va ricercata nel passato: nell’Italia meridionale dominava la monarchia normanna

con rapporti gerarchici verticali; al centro-nord dominavano i liberi comuni, basati su regimi ugualitari e

relaziono sociali orizzontali.

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Va menzionata anche l’indagine di Inglehart [1996] che, considerando gli indici di livello di fiducia negli

altri e quello di mantenimento e continuità di un ordinamento democratico, ha dimostrato la stretta

correlazione tra questi due fattori. Nelle democrazie più stabili almeno il 35% della popolazione ha alti

livelli di fiducia interpersonale. Nel 1990, inoltre, questo livello è il più basso nel sud Italia e molto più alto

al nord, anche se in generale l’indice Italiano è comunque inferiore a quello degli Stati Uniti. Tuttavia la

fiducia interpersonale in Italia è raddoppiata nel decennio successivo e ciò dimostra che l’indicatore di

cultura civica di un paese non è una costante ma può cambiare anche rapidamente.

Secondo altre ricerche [Sciolla e Negri 1996] hanno analizzato il concetto di cultura civica sotto diverse

dimensioni: una morale, che rileva i valori orientati alla difesa dell’interesse comune e dei diritti della

persona; una dimensione di fiducia, che fa riferimento alla presenza di inclinazioni alla cooperazione

sociale; e una di identificazione, che fa riferimento al senso di appartenenza a una comunità territoriale. La

cultura civica in Italia alla fine del ‘900 è davvero poco omogenea e la situazione descritta dalle ricerche

degli anni ’50 appare superata: non si presenta più con quelle caratteristiche di asocialità che le erano state

attribuite; anzi, la fiducia verso gli altri e la partecipazione politica sono cresciuti colmando in gran parte le

differenze con gli altri paesi. Il tratto culturale che resta piuttosto carente è invece quello della fiducia verso

le istituzioni, in particolare quelle politiche (parlamento, governo, partiti).

Lo stesso Inglehart [2005] ha inoltre rilevato che nel favorire la democratizzazione entrano in gioco anche

altre variabili culturali: si tratta dei valori cosiddetti «post-materialisti», che pongono l’accento sulla

diversità umana, la libertà di scelta e l’autonomia dell’individuo. Questi hanno il maggior impatto sul

sorgere di istituzioni democratiche e le rendono ancora più efficaci laddove esistono già, in quanto

sostengono l’autonomia non solo individuale ma anche di minoranze e si coniugano bene con finalità

universali (come la protezione dell’ambiente).

4. CULTURA E CONSUMO

I comportamenti di consumo, trattati oggi da discipline diverse come sociologia e antropologia, sono stati

in precedenza al centro degli interessi dell’economia neoclassica. Il consumatore neoclassico è un soggetto

astratto, volto alla soddisfazione di bisogni che ordina secondo una gerarchia stabile di preferenze. Dati

certi vincoli di prezzo e reddito a disposizione, egli cercherà di effettuare la scelta migliore in base alle

proprie preferenze. Il modello economico neoclassico si basa sulla tesi che il consumatore agisca

razionalmente, calcolando rapporti qualità/prezzo. A un cambiamento di prezzi egli reagirà cambiando i

propri consumi. La sua sovranità si esprime nel fatto che egli con le sue scelte influenza il mercato e stimola

la concorrenza tra imprese favorendo quelle più competitive. Le preferenze di consumo sono per gli

economisti dati da cui partire, ma a loro non interessa sapere come si sono formare.

La sociologia invece parte proprio dalla domanda: perché la gente desidera ciò che desidera?

La nostra è stata definita da alcuni una «società dei consumi», in cui il consumo è diventato un fenomeno

di massa, e il consumatore stesso è un soggetto anonimo, un target di mercato a cui si indirizzano le

strategie di marketing e pubblicità. Per comprendere questa nuova prospettiva non basta più vedere un

consumatore che sceglie in base a una gerarchia di utilità dei beni che desidera, ma bisogna ricercare la

risposta nei fattori culturali che influenzano le preferenze. Si mette qui in luce il valore simbolico dei

beni, che sono acquisiti per il prestigio e la distinzione che consentono di ottenere dagli altri e la funzione

di identificazione all’interno di un gruppo.

Nella sociologia classica sono stati Veblen e Simmel ad avere per primi formulato l’idea che il consumo sia

ricercato come fonte di prestigio e distinzione sociale, collegando quindi l’attività di consumo non

direttamente a valori sociali ma alla stratificazione sociale e alle strategie di classe per mantenere le loro

differenze. Ne La teoria della classe agiata (1899) Veblen sviluppa un’analisi lucida e critica della società

americana di fine ‘800. Le attività economiche nella società moderna non hanno motivazioni solamente

utilitaristiche, ma il consumo è appunto fonte di prestigio sociale. La «classe agiata», che non svolge un

lavoro produttivo, ricerca la ricchezza e la esibisce con un consumo vistoso di beni superflui, in una sorta

di competizione e di distinzione antagonistica dalle altre classi. La classe agiata, proponendo il suo

consumo vistoso, provoca l’imitazione delle classi inferiori che lo seguono come modello ideale di vita. La

distanza dal modello economico neoclassico è grande: non siamo più di fronte a consumatori che

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soddisfano razionalmente e autonomamente le proprie preferenze, ma a consumatori che dipendono dal

giudizio degli altri e cercano di ottenere riconoscimento in una continua gara emulativa per il

raggiungimento di uno status sociale più elevato.

Simmel [1911] si avvicina all’analisi di Veblen per l’importanza data ai processi emulativi anche se si

concentra maggiormente sui meccanismi di diffusione dei comportamenti di consumo nella società.

Nell’analisi del fenomeno della moda egli rintraccia due principi: 1) l’imitazione, come tendenza a

conformarsi a modelli di vita altrui e che esprime la tendenza umana alla ricerca dell’identità con gli altri;

2) e, all’opposto, la differenziazione, ossia distinguersi dagli altri. L’imitazione sollecita le classi superiori a

un’incessante innovazione del gusto per continuare a mantenere la distanza dalle classi inferiori; non

appena queste ultime si appropriano del nuovo gusto esso svaluta e viene abbandonato dalle classi

superiori alla ricerca di un altro.

Anche Bordieu riprende la prospettiva di Veblen sulla funzione di distinzione sociale dei gusti. Veblen,

pur parlando di pratiche e costumi consolidati, considerava il consumo vistoso come un obiettivo

coscientemente ricercato dalle classi superiori per mantenere le barriere con altre classi. Bordieu, col

concetto di habitus, accentua l’aspetto di disposizione inconscia interiorizzata di un gruppo sociale,

formatasi attraverso processi di socializzazione e partecipazione a modi di vita particolari. I consumi,

dunque, sono espressione dell’habitus, che è sempre habitus di classe: esso è il principio unificatore di

tutte le scelte e pratiche sociali realizzate da un attore sociale (dalla scelta dell’arredo domestico a quella

di come vestirsi e cosa mangiare); la totalità di tali pratiche costituisce uno stile di vita, ossia un insieme

unitario di preferenze distintive. Differenti habitus generano pratiche differenti che non sono più

considerate isolatamente, ma fanno parte di schemi di percezione e di valutazione che consentono di

distinguere e classificare i membri di un gruppo sociale. La spiegazione delle scelte di consumo è

ricondotta agli schemi di percezione e organizzazione cognitiva del mondo. L’habitus, cioè, trasforma le

cose materiali che acquistiamo in segni che hanno un significato sia per il consumatore che per altri

membri della società.

Bordieu, comunque, rimane ancorato al ruolo determinante della stratificazione sociale nel condizionare i

diversi habitus. Altre ricerche hanno invece puntato proprio sui fattori culturali, come quella di Douglas e

Isherwood, secondo cui l’attività di consumo non è solo una faccenda privata, ma un’area di

comportamento delimitata da norme. Che sia così risulta dal fatto che nella società vi sono determinate

cose che non possono essere vendute né comprate (non si può comprare il successo in politica altrimenti si

viene sanzionati; non si possono vendere la propria moglie o figli). Ed è per questo che viene nettamente

distinto il pagamento in denaro dal dono (si può offrire una cena o un mazzo di fiori, ma donare

l’equivalente in denaro può risultare offensivo). Douglas e Isherwood suggeriscono di dimenticare che i

beni servono per attività necessarie e pratiche (nutrirsi, vestirsi, ripararsi) ma il consumo deve essere

considerato come strumento per la definizione della cultura. I beni diventano così accessori riturali con

cui si cerca di dare senso al flusso degli eventi: si tratta ad esempio di caricare di significato alcune date

(matrimonio, nascita); i beni di consumo servo anche a questo, a fare distinzioni e fissare simbolicamente

un evento. Il consumatore, in questo processo, non ha un ruolo meramente passivo in quanto sceglie i beni

con cui costruire un universo intelligibile. La funzione principale del consumo non è tanto erigere barriere

di classe quanto invece creare meccanismi di esclusione e inclusione di tipo cognitivo, usando i beni

come «marchi» di identificazione e classificazione degli eventi.

In generale, le indagini sociologiche recenti, sulla scia di Bordieu, sganciano i gisti dal riferimento alle

classi sociali, riconoscendo la difficoltà odierna di distinguere tra cultura alta e cultura popolare, e

pongono l’accento sullo stile di vita, inteso come fonte di identità, come codice simbolico autonomo di

identificazione di un gruppo. Al fondo vi è l’idea che l’identità nella società postindustriale non sia più

legata alla professione ma venga costruita attivamente sulla base di risorse culturali e simboliche

autonome.

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II PPRROOCCEESSSSII DDII TTRRAASSMMIISSSSIIOONNEE,, CCOONNSSEERRVVAAZZIIOONNEE EE CCAAMMBBIIAAMMEENNTTOO

CCUULLTTUURRAALLEE

1. I PROCESSI COMUNICATIVI

1.1 Cultura, linguaggio e comunicazione interpersonale

La cultura circola nel mondo sociale prevalentemente sotto forma di discorsi, espressioni, parole dette o

scritte, attraverso dunque il linguaggio (nei suoi aspetti verbali e non verbali). Quest’ultimo si basa sulla

capacità degli esseri umani di utilizzare simboli. È già stato osservato che il linguaggio è la principale

forma di oggettivazione dell’espressività umana, la cui caratteristica è proprio quella di staccarsi dalle

manifestazioni immediate della soggettività, assegnando ai diversi elementi dell’esperienza dei suoni e

segni convenzionali che ogni volta li richiamano, anche se non sono presenti. Il linguaggio, però, non è

semplicemente un’associazione psicologica, un fenomeno privato e individuale. Per essere linguistica,

un’associazione deve essere simbolica: la parola deve denotare, etichettare, l’immagine, e richiamarla ogni

volta che serve. Il simbolo, per diventare elemento del linguaggio, deve poter rimandare inoltre non a una

singola esperienza ma a un insieme di esperienze con caratteri tanto simili da essere raggruppate sotto una

categoria, ovvero un concetto.

Ci si è chiesti se il pensiero sia possibile senza linguaggio. Se ogni elemento del linguaggio è un’etichetta di

un concetto, è difficile concepire il pensiero senza la sua realizzazione linguistica. Ciò non vuol dire però

che siano del tutto sovrapponibili: innanzitutto l’uso del linguaggio non solo e sempre concettuale, poiché

attraverso di esso noi comunichiamo anche emozioni, sensazioni e ricordi; inoltre il pensiero prendere

forma attraverso il mezzo linguistico, costituendone il contenuto. Non possediamo davvero un concetto,

non siamo in grado di dare un ordine cognitivo all’esperienza, finché non troviamo la parola adatta. Ma

questa viene trovata alla fine di un processo faticoso al termine del quale ci sentiamo sollevati e soddisfatti.

Anche per questo motivo per comprendere fenomeni nuovi si passa attraverso la creazione di termini

nuovi.

Quando ci riferiamo al linguaggio pensiamo comunemente alla sua forma orale o scritta. Esistono però

molte possibilità di trasposizioni linguistiche (codice Morse, linguaggi dei gesti come quello dei

sordomuti…). Oltre a queste possibilità molto ampie, il linguaggio verbale è spesso accompagnato da

segnali non verbali (gestualità, postura del corpo, espressioni facciali) o segni paralinguistici (tono della

voce, ecc.). Goffman, nei suoi studi sull’interazione e la presentazione del sé nella vita quotidiana,

sottolinea l’aspetto non intenzionale dell’espressività corporea che, diversamente da quella verbale, è

«lasciata trasparire». Quest’ultima può anche essere in contraddizione con quella verbale e rivelare all’altro

aspetti utili per interpretare quanto trasmesso intenzionalmente con espressioni verbali. L’importanza dei

segnali del corpo nella comunicazione non è da mettersi in rapporto esclusivamente con gli aspetti

psicologici e individuali, ma anche con aspetti culturali. Per esempio un modo di gesticolare accentuato è

tipico delle popolazioni mediterranee.

La caratteristica generale del linguaggio è la sua universalità. Non esiste popolazione sul globo che non

abbia un sistema linguistico sviluppato. Considerato una facoltà innata dell’uomo, il linguaggio è stato

trattato da gran parte della linguistica come un sistema a sé, sganciato dai modi in cui viene concretamente

usato da una comunità sociale.

In anni recenti si è sviluppata la sociolinguistica, interessata ad analizzare la variabilità e variazione della

lingua, a mettere in luce cioè gli aspetti contestuali e le funzioni comunicative del linguaggio, i modi in

cui il linguaggio viene concretamente utilizzato entro comunità e situazioni di interazione specifiche. È

stato così dimostrato che il linguaggio varia in funzione della struttura sociale di una data società e anche

dei diversi contesti comunicativi (più o meno formali ad esempio).

Tra linguaggio e cultura (tra ciò che un gruppo sociale pensa e crede, e una particolare modalità di

espressione di questo pensiero o credenza) esiste un rapporto di interazione. Questo rapporto può essere

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inteso in due modi: 1) il linguaggio non è neutro, ma esprime diverse valutazioni sociali, ad esempio

parlare la lingua standard è considerato elemento di prestigio sociale, mentre il dialetto indicare strati

sociali inferiori; alcuni gruppi devianti usano il linguaggio inventando dei gerghi che svolgono una

funzione di identificazione collettiva; la lingua è dunque un mezzo per esprimere valori positivi, di

prestigio, o negativi, di inferiorità sociale; 2) il linguaggio riflette per buona parte la cultura a cui serve:

l’inserimento di nuovi vocaboli testimonia l’arricchimento culturale di una data società, spesso grazie

all’importazione di culture diverse.

Tra linguaggio e cultura esiste anche un rapporto nel senso che la storia della lingua e quella della cultura

scorrono parallelamente. Basti pensare alle moderne nazioni in cui al sorgere di culture superiori unificate

è corrisposta l’unificazione linguistica e la diffusione di una lingua standard e formale. La storia dell’Italia

ne è un esempio: nel 1860 gli italofoni erano il 2,5% della popolazione totale ed erano concentrati in

Toscana; negli anni ’50 del ‘900 la lingua si è diffusa notevolmente grazie alla scolarizzazione di massa e la

diffusione di mezzi come la televisione. L’acquisizione di una lingua standard – l’italiano – va di pari passo

con l’unificazione culturale dell’Italia, senza che ciò significhi l’annullamento dei dialetti, che anzi

costituiscono una varietà colloquiale usata nel quotidiano.

Per quanto riguarda il processo comunicativo interpersonale (faccia a faccia), i suoi elementi vengono così

distinti: emittente, ossia chi produce il messaggio; ricevente, ossia chi riceve il messaggio; codice, ossia il

sistema di riferimento con cui il messaggio è prodotto; messaggio, ossia il contenuto informativo trasmesso

secondo le regole del codice; canale, ossia il mezzo che consente la trasmissione del messaggio; contesto,

ossia il quadro in cui il messaggio è inserito e a cui si riferisce.

La ricezione e decodifica del messaggio è un processo complesso, non riducibile al semplice

riconoscimento di segni. Il ricevente, per comprendere il messaggio, non deve solo conoscere la lingua, ma

attribuirgli anche un significato. Infatti le singole parole o gesti non sono univoci: un termine può denotare

(«cavallo» denota un gruppo do mammiferi erbivori della famiglia degli equini) o connotare, cioè riferirsi

alle sue associazioni implicite, di tipo valutativo. Così la stessa parola può essere positiva in una cultura e

spregiativa in un’altra.

La ricezione e decodifica del messaggio implica dunque una operazione di interpretazione in cui il ruolo

degli elementi culturali è decisivo. L’interpretazione è un processo attivo di attribuzione del significato e

si realizza riportando il messaggio sia al contesto più ampio in cui la comunicazione ha luogo, sia al

contesto situato dell’interazione e alle sue regole implicite. Nello schema della comunicazione, la cultura

occupa due posizioni: 1) come contenuto del codice, ossia come messaggio; 2) come contesto della

recezione, ossia come insiemi di rappresentazioni, valori, schemi comuni a un uditorio.

1.2 La comunicazione di massa

La comunicazione interpersonale è la forma più diffusa di comunicazione fra gli esseri umani, in quanto si

può dire che non esista quasi interazione sociale senza che si instauri un processo comunicativo (verbale o

non). I processi comunicativi delle società primitive erano principalmente faccia a faccia, anche se in

seguito non mancarono tecnologie efficaci per realizzare una comunicazione mediata (iscrizioni, lapidi,

segnali di fumo, suoni di tamburi). Per arrivare ai processi comunicativi su vasta scala, che raggiungono

un vasto numero di riceventi sparsi in località diverse, chiamati dunque processi di «comunicazione di

massa», bisogna attendere lo sviluppo della stampa (libri, giornali) e dei media (cinema, radio,

televisione). Tutte queste tecnologie hanno raggiunto una diffusione di massa nelle società contemporanee

a partire dal XIX secolo. Alcune di queste, come la stampa, esistevano già ma riguardavano solo delle elite.

Si cominciarono a stampare libri a metà del XV secolo ad opera di Gutenberg, anche se la stampa esisteva

già in Cina e Giappone già nel VII secolo. Le prime stamperie erano piccole imprese commerciali destinate

alla stampa di manoscritti religiosi o giuridici. Tuttavia coloro che sapevano leggere costituivano una

minoranza esigua e anche se l’abitudine della lettura a voce ampliava la diffusione, non si può certo dire

che la stampa abbia cambiato i modi di trasmissione della cultura, che rimanevano principalmente orali. I

giornali cominciarono ad apparire a metà del XVII secolo, rivolti a un pubblico borghese urbano, e

contribuirono alla nascita della «sfera pubblica», stimolando il pensiero critico e razionale.

Furono il cinema, apparso alla fine del XIX secolo, e dagli anni ’30 la radio e la televisione, a caratterizzarsi

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fin dall’inizio come mezzi di trasmissione culturale rivolti alle masse urbane con funzioni molto

diversificate, da quella di intrattenimento a quella informativa.

Il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa è divenuto così centrale nella vita quotidiana delle società

moderne che sarebbe difficile immaginare cosa sarebbe vivere senza. Sarebbe, tuttavia, riduttivo

considerare i media solo dal punto di vista tecnologico, come mezzi in grado di trasferire informazioni in

modo sempre più immediato e a distanze sempre più grandi. Per comprenderne appieno le valenze è

necessario distinguere tra diversi aspetti dei processi di trasmissione culturale legati all’azione dei media di

massa: 1) il mezzo tecnico della trasmissione; 2) l’apparato istituzionale della trasmissione; 3) il

distanziamento spazio-temporale che essa comporta.

Il mezzo tecnico della trasmissione. I media di massa come i libri, i giornali, la radio e la televisione

fino ai media telematici, hanno componenti tecniche molto diversificate. La scrittura, la stampa e i

computer sono spesso intesi come mezzi per tecnologizzare la parola, come ha sostenuto W.J. Ong: egli

ha insistito sulla portata generale e sull’influenza che le diverse tecnologie hanno sulla cultura di una

società. Secondo lui essi modificano gli stessi modelli di pensiero e stili cognitivi dominanti.

Gli studi di Ong mettono in luce il rapporto tra tecnica e cultura. In particolare, grazie alla stampa la

scrittura è stata profondamente interiorizzata, incoraggiando modelli più astratti di pensiero a causa

dello spostamento dall’ambito sonoro a quello visivo; ciò ha consentito anche una maggiore

introspezione che ha avviato lo sviluppo di quel senso della privacy che caratterizza la società moderna.

Un attributo del mezzo tecnico è quello di contribuire alla fissazione delle forme simboliche e a

introdurre nuovi e più efficaci meccanismi di archiviazione della conoscenza. Basti pensare agli

archivi dotati di sistemi computerizzati di catalogazione. Ciò comporta anche una maggiore

accessibilità alle fonti culturali (ad esempio i motori di ricerca sulla rete) e quindi a una più ampia

diffusione della cultura. Ciò influisce anche sulla memoria collettiva di una società: ciò che è passato è

reso oggettivo tramite fotografie o film e la conoscenza del passato passa sempre meno attraverso

l’interazione con persone concrete.

Le diverse tecnologie consentono anche un alto grado di riproducibilità delle forme simboliche. Su

questo ha insistito Walter Benjamin, che ha trattato la riproducibilità tecnica in rapporto all’opera

d’arte: secondo lui quando un oggetto è prodotto in serie, non esiste per definizione l’originale. L’aura

che circondava l’evento artistico, legata alla sua unicità, svanisce contribuendo alla cancellazione del

valore tradizionale dell’eredità culturale.

Un terzo aspetto importante, sottolineato da Thompson, riguarda i diversi gradi di partecipazione.

Media diversi richiedono diverse capacità e abilità per decodificare i messaggi trasmessi. Ad esempio,

il fruitore di un libro ha maggior libertà e necessità di concentrazione rispetto a uno spettatore

televisivo.

Diventa chiaro che il medium tecnico non può essere separato dal contesto sociale e culturale in cui è

impiegato. L’analisi del contesto delle recezione dei messaggi è diventata un campo di ricerca

rilevante per la comunicazione, con risvolti importanti anche per la sociologia della cultura, in quanto

l’idea di massa amorfa è sostituita da quella di pubblico, per cui si tende a rivalutare l’idea di

destinatari passivi a favore di una risposta attiva da parte dei pubblici.

L’apparato istituzionale della trasmissione. I mass media costituiscono anche un vero e proprio

apparato istituzionale che comporta una struttura gerarchica, regole, risorse e organizzazione. Hirsch

[1972] ha schematizzato i rapporti tra i diversi sottosistemi esistenti in quello che ha chiamato il sistema

dell’industria culturale, che descrive l’insieme delle organizzazioni che porducono articoli culturali di

massa, come dischi, film, libri. In questo schema i media rappresentano un sottosistema tra gli altri, ed

è in questo passaggio che possono sorgere rapporti poco trasparenti e di corruzione. Il pubblico infatti

viene a conoscenza del nuovo prodotto attraverso i media.

In quanto apparati istituzionali i media costituiscono anche canali di diffusione selettiva delle forme

simboliche. Essi acquisiscono un ruolo chiave nei processi di valorizzazione economica ed è attraverso

questa diffusione selettiva che si esercitano posizioni di potere.

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Il distanziamento spazio-temporale. Come osserva Thompson, la trasmissione di una forma simbolica

comporta un distacco di essa dal contesto della sua produzione e il trasferimento in contesti nuovi

collocati entro tempo e luoghi differenti.

La forma di comunicazione più comune è quella interpersonale: si tratta di un’interazione dialogica, in

quanto il flusso di comunicazione è bidirezionale. Questa è presa come punto di partenza da

Thompson per analizzare i cambiamenti introdotti dalla comunicazione mediata (lettere, telefonate). Il

tipo di interazione mediata che ne discende si estende nello spazio e nel tempo e coloro che vi

partecipano non condividono più lo stesso riferimento spazio-temporale. Con i mezzi di comunicazione

di massa, viene introdotto un quarto tipo di interazione, quella «quasi mediata», che si allontana sia

dall’interazione faccia a faccia sia da quella mediata. Qui le forme simboliche vengono prodotte per un

pubblico indefinito; inoltre alla modalità dialogica delle altre due si sostituisce un flusso

unidirezionale, simile a un monologo.

2. LA SOCIALIZZAZIONE

2.1 La socializzazione nelle società complesse: un processo molteplice e incompiuto

Comunicazione e socializzazione sono processi che si compenetrano. Entrambi servono a trasmettere e

diffondere rappresentazioni culturali. Gran parte della socializzazione dell’adolescente avviene in forma

comunicativa (interpersonale o mediata). Dall’altro lato, buona parte della comunicazione interpersonale e

mediata ha funzioni esplicite e latenti di socializzazione (basti pensare a programmi televisivi o radiofonici

esplicitamente rivolti all’educazione dei giovani).

Questi due processi di trasmissione culturale, tuttavia, non si sovrappongono. Attraverso la

comunicazione le rappresentazioni culturali si diffondono selettivamente e perlopiù intenzionalmente e in

maniera discontinua. Con la socializzazione la cultura viene trasmessa da una generazione all’altra, non

solo attraverso processi comunicativi e messaggi espliciti, ma anche in modo non intenzionale attraverso

l’esempio, la vita comune, l’adattamento, in cui giocano un ruolo centrale il coinvolgimento e il sostegno

emotivo. È attraverso la socializzazione che si costruisce l’identità del singolo e i diversi aspetti della

cultura diventano per lui significativi.

La cultura di una società è comprensibile a partire dal contesto storico-sociale in cui è radicata, in quanto è

il frutto di un processo cooperativo e ha acquisito nel tempo un carattere «oggettivo» e naturale nel senso

che viene data per scontata. Essa va a formare, inoltre, la base valutativa e cognitiva che rende possibile ai

membri della società di comunicare tra loro, organizzare cognitivamente la loro esperienza e orientare alla

loro azione nel mondo. La società è pero formata da tanti individui, appartenenti a generazioni diverse. In

ogni società l’individuo, pur avendo una certa predisposizione naturale alla socialità, non nasce membro

della società. In tutte le società c’è l’esigenza di introdurre i nuovi arrivati alla vita sociale.

Con il termine socializzazione si indica proprio il processo complesso attraverso il quale l’individuo

diventa un essere pienamente sociale e si integra in un gruppo. Il processo si caratterizza principalmente

come apprendimento e appropriazione interiore dei significati e delle regole di una data società. Esso si

caratterizza anche come adattamento a varie strutture e relazioni nuove in cui l’individuo si viene a trovare

nell’infanzia, ma che prosegue fino alla sua vita adulta. In queste fasi è possibile acquisire e modificare le

proprie risorse cognitive e attitudini normative.

Si distingue tra: socializzazione primaria, che indica l’apprendimento durante l’infanzia all’interno della

famiglia; e socializzazione secondaria, ovvero l’apprendimento di ruoli specializzati, legati principalmente

alla scuola, al mondo del lavoro e all’acquisizione piena della cittadinanza.

La trasmissione culturale attraverso la socializzazione avviene dunque da una generazione all’altra,

garantendo così la continuità nel sistema dei valori della società. La socializzazione è considerata un

aspetto così centrale che in molte società il suo compimento è celebrato con riti di passaggio. Questi

presentano un alto grado di obbligatorietà nelle società tribali studiate dagli antropologi. Questi rituali

esprimono la grande importanza attribuita dalla società ai cambiamenti di status dei propri membri.

Nelle nostre società questi rituali sono quasi scomparsi, anche se persistono delle forme come i balli delle

debuttanti, la festa di laurea o l’addio al celibato. Questo declino è da mettere in relazione non solo col

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generale affievolirsi delle tradizione nelle società moderne, ma anche con la specifica condizione di

incertezza assunta dalla gioventù.

Nelle nostre società la crescita della differenziazione sociale ha comportato l’istituzionalizzazione di

specifiche agenzie di socializzazione: in primis la famiglia e la scuola; a fianco di queste ne troviamo

altre, come la chiesa e l’esercito.

Un ruolo sempre più importante è rivestito inoltre dal gruppo di coetanei o gruppo dei pari, che costituisce

uno tra i più rilevanti punti di riferimento sul piano cognitivo ed emozionale nella fase dell’adolescenza,

contribuendo allo sviluppo di competenze sociali funzionali all’inserimento nel mondo adulto.

Nonostante spesso questi gruppi siano ostili al mondo adulto, si è messo comunque in luce che anche i

possibili contrasti vanno intesi nell’ottica funzionale di favorire il distacco dalla famiglia e quindi lo

sviluppo di capacità autonome.

Un ingresso recente tra le agenzie di socializzazione è quello dei mezzi di comunicazione di massa, la cui

influenza sarebbe molto elevata. L’uso della televisione ad esempio, da un lato è un modo di stare coi

propri amici e famigliari, e risponde spesso alle esigenze dei giovani di trarre conoscenze concrete

utilizzabili nella vita quotidiana (scienza, natura, medicina); dall’altro, si evidenziano gli effetti negativi

della televisione sui bambini sia perché, attraverso la pubblicità, si creerebbero bisogni e aspettative

inesistenti prima, sia perché l’esposizione a scene violente ne aumenterebbe l’aggressività, sia perché

diffondono modelli comportamentali che spesso sono in contrasto con quelli proposti dalle altre agenzie di

socializzazione.

Gli studi sulla socializzazione si sono concentrati soprattutto sull’infanzia e l’adolescenza, che

indubbiamente sono le fasi più importanti e delicate dello sviluppo cognitivo e morale dell’individuo, in

cui vengono acquisiti i modelli comportamentali e i valori rappresentati dalla generazione dei genitori.

Tuttavia la socializzazione implica anche lo sviluppo dell’individuo come essere sociale completo, che

acquisisce competenze sempre più complesse e apprende ruoli e norme nell’ambito di relazioni sociali più

ampie, che vanno al di là dell’ambiente famigliare e scolastico e si estendono al periodo post-adolescenziale

e alla vita adulta. Numerosi studiosi hanno sostenuto che nella società moderna non è più sufficiente

concertarsi sullo sviluppo del bambino e dell’adolescente, perché la socializzazione è un processo continuo

e mai definitivamente compiuto.

Il primo a sostenere questa tesi è stato lo psicologo sociale Erik Erikson, che ha individuato otto fasi

separate in cui l’individuo affronta una crisi op sfida particolare. Particolarmente difficile è proprio

l’ingresso nella vecchiaia, per ragioni sociali oltreché fisiche. Non solo la vecchiaia è priva di valore nella

nostra società, dove l’esperienza degli anni conta sempre meno e gli anziani non svolgono ruoli definiti, ma

la prospettiva e il riconoscimento della morte sono circondati da tabù, vista come esito di un processo di

isolamento e tramite la rimozione della stessa idea di morte. Se, dunque, la socializzazione alla vecchiaia e

alla morte fa parte integrante della socializzazione primaria del bambino, nella maggior parte della società

odierne questa avviene molto tardi, e in maniera frammentaria e carente.

Per indicare processi che avvengono nella vita adulta e che comportano un nuovo apprendimento di valori

e norme, si parla di risocializzazione: ne sono esperienze tipiche la conversione religiosa o la psicoterapia.

Esiste anche il problema dei conflitti di socializzazione. Da un lato la presenza di molteplici agenzie di

socializzazione sottopone gli individui a influenze contrastanti. In secondo luogo, tra gli stessi elementi

della socializzazione primaria e secondaria possono sorgere contrasti: alcune importanti crisi del bambino

avvengono quando si rende conto che il mondo dei propri genitori non è l’unico esistente. Un altro

problema deriva dall’erosione delle tradizionali strutture gerarchiche. Nella famiglia come nella scuola

ciò provocherebbe un indebolimento delle fonti di autorità e ciò sarebbe dovuto alla confusione tra i ruolo

nella famiglia moderna e all’indebolimento del sistema dei ruoli nella scuola.

In particolare, studi recenti hanno sottolineato che la struttura di autorità viene rimpiazzata da un sistema

di scambio fondato sulla negoziazione e la regolazione comunicativa. Queste ricerche mostrano una

maggiore vicinanza teorica a un paradigma della socializzazione più aderente alla realtà e flessibile

(«paradigma dell’interazione») rispetto a quello che ha dominato in precedenza («paradigma del

condizionamento»).

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56

2.2 Interazione e condizionamento: due modelli a confronto

Con «paradigma del condizionamento» si fa riferimento alla prospettiva elaborata dal sociologo

americano Talcott Parsons nell’ambito della sua generale teoria dell’azione. Il processo di socializzazione

coinvolge il sottosistema della personalità che è relativamente autonomo, ossia si sviluppa secondo

esigenze proprie, ma che, durante tutta la vita dell’individuo, entra in relazione, modificandosi, con altri

sottosistemi dell’azione, in particolare con la società e la cultura. In termini generali, la prospettiva di

Parsons si collega a quella funzionalista di Durkheim, ma intende specificare i meccanismi psicosociali

che legano la personalità individuale alla cultura di una società.

Durkheim riteneva che fosse lo stesso carattere obbligatorio di valori e norme sociali a imporsi

dall’esterno alle coscienze individuali. La forza costrittiva di questi non risiede, però, solo nell’applicazione

di sanzioni sociali molto forti in caso di trasgressione, ma anche nell’autorità morale della comunità

sociale, ossia nel sentimento quasi sacrale di rispetto, ben diverso dalla paura delle sanzioni, che essa è in

grado di ispirare nei suoi membri. Gli individui sono visti da Durkheim come dei soggetti passivi che

aderiscono a norme, valori, modelli culturali attraverso meccanismi inconsci e che imparano a cooperare

volontariamente attraverso una costrizione esterna.

Parsons continua a pensare, come Durkheim, alla socializzazione come a un processo di condizionamento

in cui i soggetti apprendono passivamente valori condivisi, ma ne approfondisce la dinamica psichica,

ricollegandosi esplicitamente alla psicoanalisi di Freud. Il processo fondamentale della socializzazione

risiede pertanto nell’interiorizzazione di oggetti sociali. Rispetto a Freud, Parsons aggiunge un aspetto

relazionale importante, in quanto il bambino non interiorizza singoli oggetti, ma insiemi di rapporti

sociali che costituiscono l’ambiente in cui si trova in diversi momenti della vita. L’interiorizzazione

trasforma aspetti oggettivi esterni della cultura in disposizioni interne della personalità. La

socializzazione è, secondo Parsons, un processo «a spirale», nel senso che progredisce attraverso una

successione di tappe ciascuna delle quali è superiore rispetto alla precedente (questa teoria si inserisce nello

schema AGIL):

- Attraverso la crisi orale, ossia il bisogno di nutrirsi con la bocca, il bambino sviluppa il suo primo

modo di interazione.

1) LATENZA: La prima fase è quella della dipendenza orale, perché la bocca del bambino ha il

ruolo dominante nel rapporto con la madre; si tratta di un’identificazione con la madre, la cui attitudine

dominante è la permissività.

- La transizione dalla prima alla seconda fase è la crisi anale, già analizzata da Freud che considerava

la defecazione come la prima produzione personale del bambino, che egli usa come mezzo di punizione o

piacere in rapporto coi genitori.

2) INTEGRAZIONE: La seconda fase è caratterizzata dalla differenziazione tra la madre e il

bambino, che inizia a percepire che la madre si aspetta qualcosa da lui e comprende che può manipolare la

sua comprensione.

- La transizione alla terza fase è la crisi edipica, reinterpretata da Parsons nel quadro della struttura

familiare e del sistema dei ruoli.

3) CONSEGUIMENTO: Venendo a contatto con i ruoli differenziati della famiglia (padre, madre,

genitori, figli), il bambino comincia ad apprendere norme universalistiche simboleggiate del ruolo del

padre e particolaristiche simboleggiate dal ruolo della madre. Il carattere erotico della crisi edipica dà

all’ambiente in cui vive il bambino una forte emotività che lo porta a identificarsi col genitore del suo stesso

sesso.

- Adolescenza: costituisce il momento di rottura che apre la fase di maturazione completa della

personalità.

4) ADATTAMENTO: maturità: con l’adolescenza l’ambiente esterno alla famiglia si allarga a il

ragazzo interiorizza valori legati alla vita adulta.

Con questo schema Parsons è riuscito ad evitare il riduzionismo biologico tipico della teoria freudiana

degli istinti, a vantaggio dell’interiorizzazione dei valori culturali e delle norme sociali. Tuttavia non

sono mancate aspre critiche alla sua teoria, che è stata condannata come «concezione ipersocializzata

dell’uomo», accusata di avere ridotto la socializzazione a mero inculca mento, a un processo cioè di

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57

trasmissione unilaterale di valori e si assimilazione inconscia di schemi culturali che lascia poco spazio

alle fasi successive all’adolescenza e all’interazione dinamica tra individuo e ambiente sociale.

Il «paradigma dell’interazione» si distingue da quello descritto prima in quanto non intende la

socializzazione come un processo meccanico di condizionamento, ma come un processo adattivo, in cui

l’individuo ha un ruolo attivo e di fronte a situazioni nuove è portato ad arricchire le sue risorse cognitive,

modificare le sue attitudini e sviluppare un’identità in rapporto ai sistemi di interazione sociale in cui è

inserito.

Un’applicazione esemplare di questo paradigma appartiene a Jean Piaget, psicologo che ha condotto studi

sullo sviluppo del giudizio morale del bambino: la sua formazione non dipende solo da una logica

interna di sviluppo, ma anche dal carattere del sistema di interazione in cui è inserito. Finché le interazioni

del bambino sono limitate ai genitori il suo comportamento è egocentrico. In questo stadio, anche quando il

bambino gioca con altri, egli gioca per sé. Il senso del rispetto reciproco e della cooperazione nasce quando

il controllo dei genitori diminuisce e nel gruppo di coetanei si costruiscono in maniera interattiva nuove

«regole del gioco», che implicano lo sviluppo autonomo della «nozione di giustizia».

Un altro autore cui può essere accordato il merito dell’elaborazione del paradigma dell’interazione è lo

psicologo sociale e filosofo George Herbert Mead, che ha influenzato l’intera corrente dell’interazionismo

simbolico. Lui intende la socializzazione come una successione di fasi, dal gioco puro e semplice al gioco

organizzato, in cui il bambino impara i ruoli degli altri astraendoli dai ruoli particolari e giungendo così al

concetto di «altro generalizzato», a riconoscere cioè il carattere generale delle norme e dei valori morali

attraverso un rapporto attivo e dialettico con gli altri. Con Mead la costruzione dell’identità diventa un

processo interamente sociale, strettamente legato all’apprendimento di ruoli, norme e valori sociali.

L’identità, come capacità di autoriconoscersi, si acquisisce non con l’introspezione, ma in maniera

indiretta, partecipando alle esperienze dei propri simili, assumendo i ruoli e atteggiamenti delle persone

vicine. Quando l’individuo è in grado di assumere il ruolo degli altri è anche capace di guardare se stesso

del loro punto di vista, iniziando così una «conversazione interiore». Questo processo esprime una

dialettica tra l’identificazione con gli altri e la differenziazione dagli altri, che porta alla costruzione

dell’identità personale.

3. L’ISTITUZIONALIZZAZIONE E LA LEGITTIMAZIONE

Le forme culturali sono trasmesse da una generazione all’altra attraverso la socializzazione, che garantisce

la continuità del patrimonio culturale di una società. Naturalmente il grado di interiorizzazione delle forme

culturali varia a seconda non solo del tipo di norme e valori ma anche degli individui. Si può dire che la

socializzazione abbia avuto successo non quando ogni conflitto o dissenso venga eliminato, ma quando

l’adesione a certi principi è talmente acquisita che in caso di conflitto questo viene risolto facendo

riferimento a essi.

Bisogna qui ribadire che certi aspetti fondamentali della cultura della società persistono grazie alla

socializzazione. Né il rispetto né la fiducia o altri valori potrebbero continuare a sussistere se le persone

non li avessero talmente interiorizzati da provare sentimenti di vergogna e colpa nel caso della loro

violazione. La socializzazione, dunque, è un processo importante sia per quanto riguarda la

trasmissione/diffusione della cultura sia per quanto riguarda la sua persistenza e conservazione, andando

ben oltre il passaggio di consegne da una generazione all’altra.

La socializzazione, tuttavia, non va confusa con un processo a cui i sociologi danno grande importanza e

che chiamano istituzionalizzazione: essa indica il processo attraverso il quale alcune relazioni e azioni

sociali vengono «oggettivate» e date per scontate dai membri del gruppo sociale. L’istituzionalizzazione

ha origine nella consuetudinarietà: ogni azione che venga ripetuta frequentemente viene cristallizzata in

uno schema fisso che può essere riprodotto. I significati delle azioni vengono immagazzinati come routine

e dati per scontati. Gli atti istituzionalizzati sono dunque oggettivi ed esteriori, perché sono ripetibili da

altri attori senza essere alterati e il loro significato è ricostruibile intersoggettivamente.

L’istituzionalizzazione è un processo garantisce la persistenza e la conservazione culturale

indipendentemente dall’interiorizzazione (che è invece implicata nella socializzazione) o dal controllo

sociale tramite sanzioni.

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Vi possono essere inoltre diversi gradi di istituzionalizzazione: lo sono di più gli atti più formali e

impersonali e che coinvolgono attori con posizioni sociali di rilievo.

L’idea che sia la ripetitività a garantire la persistenza delle rappresentazioni collettive era già ben presente

in Durkheim. Egli, tuttavia, si fermava a constatare che le istituzioni si impongono da sole, per la loro

autorità ed evidenza. In molti casi però l’autoevidenza non basta, e si rende necessaria un’opera di

giustificazione e validazione delle forme culturali. La legittimazione designa questo processo di

giustificazione e spiegazione. Secondo Berger e Luckmann essa rappresenta un’oggettivazione di secondo

grado del significato, la cui principale funzione è quella di rendere soggettivamente plausibili le

oggettivazioni di primo grado che sono state istituzionalizzate.

La legittimazione ha un aspetto cognitivo e uno valutativo: spiega l’ordine istituzionale, ossia dà validità a

significati oggettivati, e lo giustifica dando dignità normativa ai suoi imperativi pratici.

La legittimazione, tuttavia, è un processo più fragile dell’istituzionalizzazione, in quanto fa ricorso a

universi simbolici che possono essere messi a confronto con altri alternativi (come nel caso dello choc

culturale prodotto dal contatto con una cultura diversa). La comparsa di un evento critico mette infatti in

moto meccanismi specifici di conservazione culturale: soprattutto la terapia, che si occupa delle

deviazioni della realtà e mira a risocializzare il deviante portandolo verso la normalità; e l’annichilazione,

attraverso la quale l’elemento minaccioso viene spiegato nei termini di concetti appartenenti all’universo

noto (ad esempio l’eterosessuale viene giudicato da una comunità di omosessuali come animato dal

desiderio di occultare la propria omosessualità latente).

Alcuni studiosi hanno condotto ricerche sul perché insiemi di credenze, pur essendo smentite dai fatti,

continuano a sussistere in una comunità. È il caso della magia tra gli azande, in cui si mostra che l’erroneità

degli oracoli non basta a smentirne la credenza. Meccanismi simili di conservazione dei sistemi di credenze

non sono all’opera solo presso popolazioni tribali, ma anche nelle nostre società complesse. È il caso della

ricerca condotta sul mancato avverarsi di una profezia sulla distruzione del mondo negli Stati Uniti.

Nonostante la profezia non si fosse avverata, la conseguenza non è stata la smentita della falsa credenza,

ma il tentativo di rafforzarla con la scusa che la data non fosse esatta.

4. IL CAMBIAMENTO CULTURALE

4.1 I fattori del cambiamento

La cultura viene trasmessa, si diffonde, persiste, ma nel corso del tempo cambia e si rinnova, soprattutto

nell’epoca contemporanea lo fa a ritmi sempre più veloci. Poiché le ricerche in questo campo sono

numerose, è utile classificarle tramite due criteri: secondo il tipo di spiegazione, il cambiamento è visto

come dovuto a fattori endogeni (interni al sistema culturale) o esogeni (esterni, come fattori economici,

politici, ecc.); secondo il livello d’analisi esse si collocano a livello macroscopico (tendenze o strutture

sovra individuali) o microscopico (azioni e interazioni tra gli individui).

Spiegazioni endogene a livello macrosociale. Ecco due esempi importanti tratti dalla sociologia classica.

Il primo è la legge dei tre stadi di Comte (1798-1857), che è importante in quanto per la prima volta un

modello evolutivo influenza la sociologia successiva. Secondo Comte, che manifesta qui la sua

posizione positivista, il pensiero umano si evolve passando attraverso tre fasi: fase teologica,

metafisica e positiva. Questa teoria è rilevante perché identifica un processo di cambiamento interno

alla cultura occidentale riconoscendo nella diffusione dell’orientamento scientifico il principio del

cambiamento.

Il secondo esempio è la teoria weberiana che considera lo sviluppo del razionalismo occidentale come

un processo endogeno, ossia come una necessità interna al livello delle idee. Weber divide lo sviluppo

del razionalismo occidentale in due fasi: una di «disincantamento» religioso e una di modernizzazione

basata sulla distinzione tra scienza, economia e politica. Il processo di disincantamento inizia con la

religione cristiana che presenta un Dio trascendente e distante dall’uomo. Questa logica condusse alla

completa separazione tra sfera religiosa e le altre sfere, culminando nel protestantesimo ascetico e nella

dottrina calvinista della predestinazione dove il divino e il mondano divennero separati al grado più

alto.

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Spiegazioni esogene a livello macrosociale. Ecco altri due esempi classici: l’analisi del sorgere

dell’individualismo dei Durkheim e l’affermarsi del processo di civilizzazione di Elias.

Secondo Durkheim lo sviluppo dell’individualismo è l’effetto dell’intensificazione della divisione del

lavoro. Poiché nelle società primitive, dove non c’è molta divisione del lavoro, la personalità

individuale non ha modo di farsi strada, gli individui, simili tra loro, sono integrati in una solidarietà

meccanica. Quanto più avanza la divisione del lavoro, gli individui si diversificano, svolgono ruoli e

compiti specializzati, e intrattengono relazioni sociali molteplici. La personalità individuale

progredisce al pari della rilevanza sociale attribuita alla dignità e autonomia dell’individuo.

Elias delinea una delle più interessanti analisi del processo di crescente monopolizzazione del potere

che porta alla genesi dello stato moderno, e favorisce cambiamenti importanti nei costumi sociali.

Sono le corti – rinascimentali e dello stato assolutistico – che costituendosi come spazi pacificati

favoriscono l’emergere di una socialità nuova in cui si afferma lo standard di vita delle buone maniere.

Elias stabilisce dunque un nesso tra la genesi dello stato moderno e la compasa di un apparato di

autocostrizione individuale: il processo di civilizzazione è un processo di autocontrollo interiore che

innalza le soglie della ripugnanza e del pudore; è anche un processo di privatizzazione, poiché

comportamenti sconvenienti (relazioni sessuali, bisogni corporali) vengono relegati alla sfera privata.

Spiegazioni endogene a livello microsociale. Esse intendono analizzare i meccanismi individuali che

spingono i membri di un gruppo a modificare le proprie credenze.

Gabriel Tarde [1890] spiega la diffusione dell’innovazione con lo schema dell’imitazione e del

contagio: una credenza si trasforma in seguito all’effetto dell’influenza di un’altra credenza; attraverso

il contagio imitativo credenze innovative individuali si diffondono al corpo sociale, divenendo

collettive.

Sperber sostiene che la diffusione e la trasformazione delle rappresentazioni culturali avvengano per

contagio, come la diffusione di un virus. Il tentativo di Sperber è di spiegare perché certe

rappresentazioni culturali siano più contagiose di altre, considerandole come rappresentazioni

mentali che diventano sociali quando riescono a distribuirsi a un’ampia fascia della popolazione.

Spiegazioni esogene a livello microsociale. La teoria del carisma di Weber mette in luce la caratteristica

peculiare del carisma che è inteso come qualità considerata straordinaria di una persona. Il carisma

trova la sua incarnazione soprattutto nei profeti o nei condottieri politici, e si immette nei sistemi di

credenze tradizionali come una sorta di forza dirompente e rivoluzionaria che sovverte i valori su cui

si fondavano le vecchie istituzioni. Le nuove idee vengono seguite per l’autorità legittima che emana

dalla persona del capo carismatico.

Weber riconosce anche la fragilità e debolezza del carisma in quanto è destinato a diminuire col

tempo.

Inglehart ha parlato di una rivoluzione silenziosa nel dopoguerra, che ha cambiato radicalmente le

priorità dei valori delle giovani generazioni. Si tratta dei cosiddetti valori post-materialisti, basati

sull’autorealizzazione, la partecipazione alle decisioni, la qualità della vita.

4.2 Globalizzazione e cultura

Tra i fattori di cambiamento culturale si sente sempre più spesso menzionare la «globalizzazione», parola

emersi in anni recenti nelle scienze sociali ma diffusissima nel linguaggio giornalistico e televisivo. Essa

indica tutti quei processi che hanno una comune origine nell’enorme progresso tecnologico nel campo

delle comunicazioni e dei trasporti. Il primo ambito ad essere stato studiato è quello economico, dove

globalizzazione significa che i mercati assumono dimensioni sempre più estese e si assiste a una crescita

accelerate delle imprese multinazionali. La globalizzazione investe anche l’ambito politico con la creazione

di istituzioni politiche transnazionali che sembrano indebolire l’autorità dello stato nazionale. I

cambiamenti più incerti, tuttavia, riguardano l’ambito delle relazioni sociali e delle forme culturali.

A proposito dei mass media si è detto che attraverso questi le forme culturali sono trasmesse a grandi

distanze sia spazialmente che temporalmente. Noi siamo abituati a considerare i rapporti come ancorati a

territori, a comunità o società più ampie che coincidono con gli stati nazionali; inoltre pensiamo i rapporti

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come tra persone che si incontrano fisicamente. La deterritorializzazione di relazioni sociali e forme

culturali impone invece un ripensamento di questi schemi interpretativi, che non dia per scontato il vincolo

territoriale. Un fenomeno di questo tipo è quello delle comunità di appassionati di qualcosa (cantati, generi

letterari, movimenti religiosi) che si formano a partire da un interesse comune trascendendo i confini

nazionali. Essi mantengono alcune caratteristiche dei gruppi tradizionali studiati dalla sociologia

(l’interazione cooperativa ad esempio) con la differenza però che esse nascono e si sviluppaono «on-line»m

in ambienti comunicativi che riproducono in rete luoghi tipici della socialità (piazza, salotto, club).

L’esito dei processi di crescente interdipendenza a livello mondiale dei contenuti delle forme culturali è

tutt’altro che scontato. Il contatto tra le culture non è un fenomeno nuovo, ma è iniziato almeno a partire

dalle traversate oceaniche del XV secolo, fino alle grandi espansioni coloniali. La novità oggi consiste

nell’accelerazione e nell’ampliamento dei contatti tra cultura, dovute a fattori come le tecnologie sofisticate

dei mass media, la maggiore mobilità dovuta allo sviluppo dei mezzi di trasporto e l’intensificazione dei

flussi migratori. Chi si concentra sulla dimensione tecnica e industriale della globalizzazione enfatizza gli

aspetti omologanti di questo processo e la costruzione di una cultura sovranazionale. Chi invece si

focalizza sull’aumento del numero di contatti e alla crescita della diversità parla di frammentazione

culturale. Entrambe le ipotesi hanno un lato positivo e uno negativo. Da un alto, si prospettano gli aspetti

idilliaci di «villaggio globale» e di ricostruzione di una comunità perduta; dall’altro, si temono le occasioni

di scontro e conflitto tra identità inconciliabili.

4.3 Acculturazione e «culture ibride»

La globalizzazione è un potente fattore di cambiamento culturale, soprattutto in quanto mette in relazione

tra loro culture diverse. Tuttavia gli studi delle relazioni tra culture risalgono a molto prima che la

globalizzazione facesse sentire i suoi effetti dirompenti. Era questo un campo di studi privilegiato dagli

antropologi che hanno adottato il termine di acculturazione per descrivere una situazione in cui una delle

società coinvolte nel contatto è più potente dell’altra. Nel caso della colonizzazione il cambiamento

culturale avviene con l’uso della forza ma può anche avvenire senza costrizione diretta, con adattamento

da parte di gruppi subordinati ai fini della propria sopravvivenza.

Recentemente si è fatto strada tra gli antropologi un nuovo modo di intendere le relazioni tra culture che

rinnova la riflessione avviata col concetto di acculturazione, questa prospettiva, influenzata dagli studi

sulla globalizzazione, parla di «ibridazione» intendendo che i starebbe affermando a livello globale un

fenomeno di contaminazione culturale su larga scala. In definitiva, l’esito delle relazione interculturali si

situerebbe a metà strada tra l’omologazione e la frammentazione localistica. Al di là della terminologia

adottata ciò che conta è il tentativo di comprendere i nuovi livelli della complessità culturale entro i diversi

contesti sociali in cui si sviluppa.

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SSoommmmaarriioo

INTRODUZIONE .............................................................................................................................................................................2

11 LLAA NNAASSCCIITTAA DDEELL CCOONNCCEETTTTOO SSCCIIEENNTTIIFFIICCOO DDII CCUULLTTUURRAA ............................................................................................................2

1. UN TERMINE FAMILIARE ........................................................................................................................................................2

2. LA GENESI SOCIALE DEL TERMINE ..........................................................................................................................................3

3. L’ANTITESI CULTURA/CIVILIZZAZIONE ..................................................................................................................................3

4. I CARATTERI DELLA CULTURA NELL’ANTROPOLOGIA ............................................................................................................4

5. L’IDEA DI CULTURA IN TRE TRADIZIONI SOCIOLOGICHE ........................................................................................................5

5.1 La Scuola di Chicago: la diversità culturale della metropoli ..............................................................................................5

5.2 La scuola francese di sociologia: la società come comunità simbolica .................................................................................6

5.3 La tradizione sociologica tedesca: il problema del significato e il ruolo attivo delle idee .....................................................7

22 DDIIMMEENNSSIIOONNII EE CCOOMMPPOONNEENNTTII DDEELLLLAA CCUULLTTUURRAA ....................................................................................................................... 10

1. L’APPROCCIO SOCIOLOGICO ALLA CULTURA .......................................................................................................................10

1.1. I sociologi classici e il distacco dalla concezione antropologica della cultura...................................................................10

1.2 Da Parsons alla nuova sociologia della cultura ...............................................................................................................11

2. DIMENSIONI DELLA CULTURA ..............................................................................................................................................12

2.1 Coerenza/incoerenza ......................................................................................................................................................12

2.2 Pubblico/privato .............................................................................................................................................................13

2.3. Oggettività/soggettività ................................................................................................................................................13

2.4. Esplicito/implicito .........................................................................................................................................................14

3. COMPONENTI DELLA CULTURA ...........................................................................................................................................14

3.1. I valori ..........................................................................................................................................................................14

3.2. Le norme .......................................................................................................................................................................14

3.3. I concetti .......................................................................................................................................................................15

3.4. I simboli ........................................................................................................................................................................15

33 NNAATTUURRAA,, CCUULLTTUURRAA,, SSOOCCIIEETTÀÀ .................................................................................................................................................. 16

1. CULTURA E STRUTTURA SOCIALE .........................................................................................................................................16

2. LA CULTURA COME «BUSSOLA» ...........................................................................................................................................17

3. VARIABILITÀ E UNIVERSALITÀ DELLA CULTURA: IL PROBLEMA DEL RELATIVISMO ..............................................................17

4. COME SI STUDIA LA CULTURA? ALCUNE QUESTIONI DI METODO .........................................................................................18

4.2 Rilevare il significato .....................................................................................................................................................19

44 LLAA DDIIFFFFEERREENNZZIIAAZZIIOONNEE CCUULLTTUURRAALLEE NNEELLLLEE SSOOCCIIEETTÀÀ MMOODDEERRNNEE .............................................................................................. 20

1. IL PLURALISMO CULTURALE .................................................................................................................................................20

2. SUBCULTURE ........................................................................................................................................................................21

3. CULTURA ALTA, CULTURA POPOLARE, CULTURA DI MASSA ................................................................................................22

4. CULTURA E CLASSI SOCIALI ..................................................................................................................................................23

4.1 Classe e coscienza di classe secondo Karl Marx...............................................................................................................23

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4.2 Classi e ceti secondo Weber: la cultura degli imprenditori capitalisti ..............................................................................25

4.3 Stratificazione sociale e cultura nella ricerca sociologica contemporanea ........................................................................26

5. CULTURA E GENERAZIONI ...................................................................................................................................................28

6. CULTURA E IDENTITÀ ...........................................................................................................................................................30

55 SSOOCCIIEETTÀÀ EE CCUULLTTUURRAA:: CCOOMMEE LLAA SSOOCCIIEETTÀÀ IINNFFLLUUEENNZZAA LLAA CCUULLTTUURRAA ........................................................................................ 32

1. QUATTRO APPROCCI TEORICI ...............................................................................................................................................32

2. L’IDEOLOGIA COME SISTEMA CULTURALE ............................................................................................................................35

2.1 Cos’è l’ideologia? ...........................................................................................................................................................35

2.2 Concezioni e modi di operare dell’ideologia .....................................................................................................................36

3. IL SENSO COMUNE COME SISTEMA CULTURALE ....................................................................................................................38

3.1 Che cos’è il senso comune? .............................................................................................................................................38

3.2 Forme di classificazione e categorie della mente ..............................................................................................................38

3.3 La memoria collettiva .....................................................................................................................................................39

3.4 Tipizzazioni e routine ....................................................................................................................................................40

4. LA RELIGIONE COME SISTEMA CULTURALE ..........................................................................................................................41

4.1 Religione e religioni .......................................................................................................................................................41

4.2 Genesi e funzioni della religione .....................................................................................................................................42

4.3 La religione nella società moderna ..................................................................................................................................43

66 CCUULLTTUURRAA EE SSOOCCIIEETTÀÀ:: CCOOMMEE LLAA CCUULLTTUURRAA IINNFFLLUUEENNZZAA LL’’AAZZIIOONNEE SSOOCCIIAALLEE ............................................................................. 44

1. DUE APPROCCI TEORICI........................................................................................................................................................45

2. CULTURA E SVILUPPO ECONOMICO ......................................................................................................................................45

2.1 Il ruolo dell’etica protestante nello sviluppo del capitalismo moderno .............................................................................45

2.2 Gli effetti della cultura sulla crescita economica .............................................................................................................47

2. CULTURA E SVILUPPO POLITICO ...........................................................................................................................................47

4. CULTURA E CONSUMO .........................................................................................................................................................49

77 II PPRROOCCEESSSSII DDII TTRRAASSMMIISSSSIIOONNEE,, CCOONNSSEERRVVAAZZIIOONNEE EE CCAAMMBBIIAAMMEENNTTOO CCUULLTTUURRAALLEE ................................................................... 51

1. I PROCESSI COMUNICATIVI ...................................................................................................................................................51

1.1 Cultura, linguaggio e comunicazione interpersonale ......................................................................................................51

1.2 La comunicazione di massa ............................................................................................................................................52

2. LA SOCIALIZZAZIONE ..........................................................................................................................................................54

2.1 La socializzazione nelle società complesse: un processo molteplice e incompiuto .............................................................54

2.2 Interazione e condizionamento: due modelli a confronto .................................................................................................56

3. L’ISTITUZIONALIZZAZIONE E LA LEGITTIMAZIONE ..............................................................................................................57

4. IL CAMBIAMENTO CULTURALE .............................................................................................................................................58

4.1 I fattori del cambiamento ................................................................................................................................................58

4.2 Globalizzazione e cultura ...............................................................................................................................................59

4.3 Acculturazione e «culture ibride» ..................................................................................................................................60