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Irlanda , anno Domini 1172Dominio di Fairy ManorIl duca Rhodry O’Connors viene assassinato. Sua moglie Savanne, accusata dell’omicidio, viene imprigionata nella torre di un convento. Prima di togliersi la vita in un atto di disperazione lascia una maledizione scritta col sangue sulle mura della sua cella: “Nessun O’Connors sul trono di Fairy Manor”.Irlanda, 1993.Celina Gandini è una restauratrice di dipinti dal passato turbolento.Invitata a passare le vacanze a Fairy Manor dall’amica di penna Alexandra, Celina si trova suo malgrado coinvolta in una serie di omicidi e di eventi paranormali.Al centro della vicenda lo spagnolo Rafael de Roya, che flirta con entrambe le donne, sembra nascondere segreti inconfessabili. E il fantasma della duchessa assassina torna a chiedere vendetta, legando a sé ogni azione che Celina dovrà compiere per uscire dall’intrigo di una setta che metterà in pericolo la sua stessa vita.

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Collana Le Pergamene - A cura di Solange Mela

Savanne - I edizione Maggio 2000 Collana Arca di Parole © Effedue Edizioni

II edizione Febbraio 2003 Collana Bianco e Nero © Effedue Edizioni

I edizione febbraio 2009Collana Le Pergamene © Edizioni Domino

Edizioni Domino – di Mela Solange Via San Giovanni Battista 24Gragnano Trebbiense29010 Piacenzawww.edizionidomino.euI diritti sono di proprietà esclusiva dell'autrice.

Il sito dell'autrice:www.solangemela.it

Progettazione e grafica di copertina: Antonia Romagnoli

______________________________________

Savanne

"… Non vi sono forse effettivamente delle persone presso cui ci si sente meno intelligenti, meno buoni, talvolta persino meno onesti? Non ve ne sono alcune il cui solo avvicinarsi smorza ogni credenza, spegne ogni entusiasmo? Che vi tengono avvinti a loro con le vostre debolezze, vi dominano con le vostre cattive tendenze, vi fanno lentamente morire moralmente in un supplizio pari a quello di Massenzio?

Sono dei morti che crediamo vivi… che crediamo amici."

( Elifas Levi, La NecromanziaIl Dogma e il Rituale dell'Alta Magia)

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Capitolo 1

Kement Beo A Zo Bel Maro,Kement Maro a Vezo Beo!

(Ogni vivente è stato morto, ogni morto sarà vivo!)( Proverbio Bretone )

Irlanda, Wicklow Mountains, Anno Domini 1172

La portarono in una stanza con un solo finestrino sbarrato da spesse inferiate. Da lì scorse un rettangolo di cielo plumbeo. Non c'erano mobili, solo un pagliericcio di canapa grezza sul pavimento gelido.

Niente luce. Le monache le slacciarono l'abito e glielo tolsero, senza tanti

riguardi.Savanne restò immobile e distaccata. Fissava quel rettangolo di

cielo, la mente vuota, lo sguardo spento. Quando le ebbero tolto tutto, le infilarono un sacco di tela

marrone e le strinsero una corda in vita. Le sciolsero i capelli, si misero in tasca le perle e i fermagli d'oro senza una parola in merito. Quella anziana prese le forbici e iniziò a tagliarle i riccioli rossi, una delle altre due li raccolse e li mise in un sacco. Savanne sentiva i colpi delle forbici, quattro, cinque, dieci, quindici...

Fu quello a farla tornare in sé. Si accorse di avere i piedi gelati e tremò dal freddo.

Stava venendo buio.Quando ebbero terminato le lasciarono una tazza di acqua e una

pagnotta, poi se ne andarono. Chiusero la porta e la bloccarono con un catenaccio dall'esterno.

Savanne abbassò il capo e si guardò le mani violacee e tremanti: avevano dimenticato di levarle la piccola fede d'oro. Le avevano tolto tutto, ma la fede no. L'avrebbe tenuta al dito per ricordare. Non doveva dimenticare nulla di quello che era stato fatto.

Le restava un unico scopo per continuare a vivere fino alla fine dei suoi giorni.

La vendetta.

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Capitolo 2

“ Come il drago infesta le viscere della terra, così il diavolo, simbolo dei nostri istinti più vili, infesta l’inferno della nostra natura interiore.”

( Jorg Sabellicus)

Irlanda, contea di Wicklow, 20 luglio 1993

..."Seduto a questo vecchio piano, distrutto e ferito, invano mi sforzo di realizzare a che punto è il mattino, perché una bottiglia di vodka mi riempie ancora la testa e una bionda mi ha fatto impazzire. Penso sia ancora nel mio letto... Ho in testa un film su di me, che non faranno mai quando sarò morto..."

Ascoltando la lenta melodia, amplificata da un'autoradio che aveva avuto tempi migliori, lasciai l'autostrada nei pressi di Wicklow, a non più di settanta chilometri da Dublino, per prendere la strada collinare che mi avrebbe portato a Rathdrum e alle Wicklow Mountains.

Avevo noleggiato quella vecchia Ford all'aeroporto, senza pretendere altro che reggesse al viaggio fino a Laragh. In ogni caso, non sarei stata in grado di guidare una fuoriserie. Avevo ancora il cervello annebbiato da una notte insonne in aereo, e la bocca impastata dallo champagne della prima classe.

Avevo decisamente esagerato con l'alcool, come il solito, ma ero in Irlanda e con il freddo che faceva l'avrei smaltito presto. Anche se era luglio, il brutto tempo che persisteva da una settimana aveva abbassato la temperatura, e fissavo i tergicristalli che spazzavano la pioggia con un po' di nostalgia per il caldo che avevo lasciato in Italia.

All'inizio doveva essere un viaggio di piacere e di riposo che avevo programmato con Luca già da tempo, ma un litigio aveva raffreddato l'entusiasmo di entrambi.

Insegnava al Conservatorio di Milano da solo due anni, ma i suoi impegni si erano protratti anche nelle vacanze estive. Concerti e

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festivals si erano alternati gli uni dopo gli altri, in nord Italia e a volte anche all’estero, dove il talento di Luca come direttore d’orchestra stava iniziando ad essere apprezzato nel suo pieno valore.

Quello probabilmente, era il motivo principale che aveva protratto la discussione fino al litigio. Ormai, mi ero rassegnata all’idea che venivo messa in secondo piano dietro alla sua carriera di musicista.

Molto probabilmente, appena avrebbe saputo che ero ugualmente partita senza la sua approvazione, approfittando del fatto che si trovasse fuori città, non avrebbe esitato a lasciarmi definitivamente.

La qual cosa, stranamente, non sembrava infastidirmi più di tanto. Dopo aver passato tanto tempo a tollerare le sue paranoie ero

arrivata al punto di chiedermi se il gioco valesse la candela. Così, appena mi era capitata l'occasione, mi ero fatta coinvolgere

in un preventivo di restauro che mi aveva trascinato per mezza Europa, in un posto dove non conoscevo le abitudini di vita, a parte la passione sfrenata per la birra che oltretutto condividevo, e alle quali avrei dovuto adattarmi per almeno un mese. Fortunatamente, i miei clienti avevano scelto l'estate. Non avrei retto un inverno in un luogo umido e piovoso come Laragh.

Ero partita dall'Italia con una sola valigia, nella quale non avevo saputo se mettere costumi da bagno o maglioni di lana, qualche Traveller Chèques e una cartina Michelin con la quale avrei dovuto raggiungere Rathdrum. Da lì avrei dovuto seguire le indicazioni disegnate su un foglietto per arrivare a Fairy Manor.

Il maniero era situato tra Laragh e le rovine di Glendalough, sulle Wicklow Mountains, che di montagnoso avevano solo il nome, poiché Lugnaquilla Mountain, la cima più alta, non superava i mille metri.

La mia fortuna, tra gli inconvenienti di quel viaggio male organizzato, era che i Killamore mi avevano offerto ospitalità nel loro castello dove passavano l'estate quando tornavano in Irlanda.

Alexandra Killamore aveva studiato arte a Firenze e c’eravamo conosciute quasi per caso.

Anni prima avevo inviato un'inserzione ad una rivista di musica con il quale facevo un appello ai collezionisti di musica rock per un CD, una serie limitata che era stata emessa solo sul mercato Britannico. Alexandra leggeva la stessa rivista e aveva risposto al mio annuncio, così avevamo scoperto di amare la stessa musica e di avere

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la passione per i dipinti di Tiziano e Caravaggio, per la birra irlandese e la storia medievale.

Avevo saputo proprio da lei che il mio nome, Celina, che avevo sempre considerato un nome da vecchia perché lo avevo ereditato da mia nonna, era di origine celtica e significava "Bella".

Alexandra mi chiamava Celine, come i francesi, e io la chiamavo affettuosamente Ally, con la nota mania confidenziale delle donne di darsi nomignoli che usavano solo fra di loro.

Alexandra ed io non c’eravamo mai incontrate fisicamente, ma il suo entusiasmo per i contatti con l’estero mi aveva trascinato in un inusuale circolo di penfriends appassionati di musica rock. Il mio nome e il mio indirizzo avevano iniziato a circolare in tutta Europa.

In cambio avevo ricevuto posta da luoghi di cui nemmeno conoscevo l’esistenza, e avevo contatti con persone di svariate lingue e culture. Il vantaggio di quelle amicizie postali era stato molto più interessante del previsto: avevo la possibilità di seguire le tournèe dei miei gruppi preferiti, facendomi ospitare dai corrispondenti e riuscendo ad acquistare i biglietti dei concerti a prezzi più convenienti, oltre a poter visitare le capitali d’Europa in completa libertà e con un accompagnatore del posto.

Le differenze sociali, religiose e culturali si amalgamavano al linguaggio universale della musica, e non permettevamo alla politica di intromettersi nella nostra corrispondenza. Davanti ai nuovi Dei della musica diventavamo tutti pellegrini in cerca di un mondo alternativo, che non era quello imposto dalla società moderna. Non esistevano frontiere geografiche, discriminazioni razziali e religiose o differenze di classe sociale. Si instauravano rapporti di amicizia senza data di scadenza, e diventava un obbligo prodigarsi per sostenersi a vicenda. Così come ero stata ospitata in paesi esteri, io stessa avevo ospitato i miei corrispondenti durante le loro peregrinazioni in giro per l’Europa.

Con Alexandra era stato difficile far coincidere gli impegni di entrambe per un incontro. Io avevo lasciato gli studi per iniziare a lavorare subito dopo la maturità, mentre lei aveva proseguito l’Università a Venezia, all’Istituto di Conservazione Beni Culturali, e si era laureata con la lode.

Mi aveva chiamato per telefono un mese prima, proponendomi di trascorrere un periodo di tempo nel suo castello in Irlanda, per preventivarle un lavoro di restauro in un vecchio convento diroccato,

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che la sua famiglia possedeva da secoli e che ora intendevano ristrutturare. Alexandra temeva che, rivolgendosi a sconosciuti, avrebbe potuto rimetterci del denaro, così voleva un parere sul lavoro che sarebbe stato necessario operare.

Il mio timore era che mi avrebbe proposto di firmare un contratto di restauro. L'Irlanda era un magnifico posto, ma era troppo lontano da casa. Non ero sicura di ciò che avrei trovato e ancor meno di essere all'altezza di un lavoro di quelle dimensioni.

Tuttavia mi allettava l'idea di avere nel curriculum il restauro di un convento in Irlanda, tanto da prenotare un viaggio aereo fino a Dublino, almeno per vedere con i miei occhi a cosa avrei dovuto rinunciare.

Mentre risalivo la strada che si addentrava nei boschi fitti delle Wicklow Mountains mi guardavo attorno un po' intimorita. Quei posti mi ricordavano i miei Appenini con un non-so-chè di estraneo e fuori tempo. Era come attraversare i boschi sacri delle leggende celtiche. Da un momento all'altro mi aspettavo che sbucasse dal ciglio della strada uno gnomo o una fata.

In poco tempo raggiunsi Laragh e subito dopo la deviazione per Fairy Manor.

Il piccolo castello che mi si presentò davanti non era che l'ombra dell'antica fortificazione celtica che mille anni prima aveva il controllo delle colline. La maggior parte della struttura era stata restaurata talmente tante volte nei secoli, a seconda delle mode architettoniche e dei proprietari che avevano preceduto i Killamore, da assomigliare molto ad un castello delle fiabe con qualche fiaba di troppo.

Non aveva quasi più nulla della struttura originaria, anche perché il suo utilizzo era cambiato. La facciata principale aveva una grande scalinata di travertino rosicchiato dalle intemperie, sovrastata da un porticato in stile vittoriano con l’intonaco sgretolato, sopra il quale si aprivano finestre dalle persiane scolorite. Le guglie delle due torri e il tetto del corpo principale del castello erano rivestite di un rame verdastro, ossidato da troppi inverni, e ad una prima occhiata sembrava avesse bisogno di riparazioni urgenti. Colate scure di ossidazione macchiavano i muri rivolti a nord, segno che le grondaie erano state forate dalla ruggine e mai più stagnate.

Un boschetto di lecci circondava la parte posteriore, tagliando

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l’orizzonte che digradava dietro al castello. Il viale d’entrata era una striscia di terra battuta che divideva in due un parco incolto, dove l’erba si era allungata durante la primavera, e nessuno si era impegnato a falciarla. Forse la spesa era eccessivamente alta. La pioggia battente aveva trasformato il viale in una poltiglia di fango rosso. Ciuffi d’erba fradicia sbucavano al centro del percorso, dove i pneumatici dell’auto non li calpestavano.

Un senso di trascuratezza e di desolazione mi pesò addosso, forse incrementato dal brutto tempo e dal mio cattivo umore, mentre percorrevo lentamente il tratto di viale disastrato.

Quando arrivai nel cortile, una spianata di ghiaia annegata nel fango, trovai quattro auto della Garda Síochána na hEireann, la Polizia della Repubblica D'Irlanda, e alcuni motocarri da lavoro, del tipo usato dalle imprese edili.

Parcheggiai la Ford dove pensavo non avrebbe disturbato e presi l'ombrello. Non sapendo cosa pensare, feci una corsa nelle pozzanghere del cortile fino alla gradinata del porticato vittoriano e suonai il campanello. Non avevo ricevuto il corteo di benvenuto che mi aspettavo e mi stavano passando per la mente ogni sorta di disgrazie, ma non vedendo ambulanze pensai non si trattasse di incidenti. Forse c’era stato un furto.

Mentre scrollavo la giacca dalla pioggia venne ad aprirmi un ometto anziano vestito di scuro che mi salutò in uno strano accento inglese.

– Prego, signora? – Celina Gandini. Alexandra mi sta aspettando... credo.

La mia presentazione suscitò uno certo disagio nell'aplomb dell'uomo, che forse era un cameriere.

Poi sembrò ricordare qualcosa, o il mio nome.– Oh, signorina Gandini! Prego. – mi fece segno di entrare

nell'enorme atrio del palazzo e richiuse velocemente la porta alle mie spalle. – Prego, signorina. Attenda qui.

Tesi una mano avanzando una protesta, ma l'uomo scomparve dietro un tendaggio.

Rimasta sola nell’immenso atrio di marmo non potei evitare di guardarmi intorno con un certo timore. Una grande scala d’onore saliva dal pavimento in due rampe verso un ballatoio che correva lungo tutto il perimetro dell’ingresso. Le pareti di intonaco color rosa antico portavano le tracce del tempo, e in alcuni punti si scorgevano

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le sagome più chiare di alcuni quadri che dovevano essere stati spostati in altri locali. Macchie di umidità apparivano sotto il cornicione di gesso che sporgeva dal muro. Le finestre erano oscurate da tendoni di velluto di un colore indefinito tra il blu e il verde foresta. La penombra, dovuta anche al mal tempo, era rischiarata da alcune lampade appese alle pareti, che creavano ombre asimmetriche attorno agli oggetti, senza illuminarli veramente.

Mi resi conto che le pareti secolari creavano una temperatura di molto inferiore a quella esterna. D’inverno, in quel posto, doveva fare molto freddo, ed era evidente che il castello era usato solo nei mesi estivi per quel motivo. Riscaldare tutto il palazzo avrebbe richiesto una somma spropositata di denaro.

Attesi cinque buoni minuti, sgocciolando sui miei stivali di pelle, finché mi sentii chiamare alle spalle.

Mi volsi e vidi una ragazza uscire da una delle porte di legno massiccio che davano nell'atrio. Era alta e sottile, avvolta in uno scialle con lunghe frange sopra ad un abito di shantung grigio perla, la carnagione pallida di chi viveva al nord dell'Europa, i capelli lunghi di un rosso luminoso, e una leggera spruzzata di efelidi appena sotto gli occhi di un azzurro intenso, come quello degli zaffiri.

Ci guardammo per un breve attimo in silenzio e notai un certo stupore negli occhi della ragazza.

– Celine? – Ally? Alexandra aprì le braccia con un gran sorriso.– Benvenuta a Fairy Manor, Celine! – Ally cara! Ci abbracciammo come due sorelle, ma dall'espressione che aveva

sul viso mi sembrò che Ally non fosse poi così entusiasta di vedermi.– Hai del bagaglio?– Oh, si! Una valigia nel baule dell'auto. – Vieni, Lorcan penserà alla tua valigia e la porterà in camera.

Come sono contenta che sei qui! Fino a ieri sera mi aspettavo una tua telefonata di disdetta.

– C'è mancato poco. Come puoi vedere sono sola. Alexandra mi guardò un attimo disorientata, poi scosse la testa

comprendendo a cosa mi riferivo.

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– Luca? – Abbiamo litigato. Non verrà. – È una cosa seria? – Abbastanza. Ma è meglio parlarne più tardi. Ora vorrei solo

cambiarmi e riposare un attimo. – Ma certo! Hai dormito un po' in aereo? – No, troppo scomodo. E lo champagne non era un granché, ho

un certo fastidio allo stomaco...Alexandra sorrise accondiscendente.– È perché non ci sei abituata. Vieni, ti accompagno nella tua

stanza. Mi fece strada su per lo scalone di granito che portava ai piani

superiori del castello. Mentre la seguivo non potei fare a meno di studiare la figuretta sottile della mia amica e di invidiarle i capelli rossi che mi piacevano tanto.

– Ho visto le auto della polizia. Cos'é accaduto? Alexandra si volse di sfuggita, continuando a salire le scale e

infilando un lungo corridoio.– È successo un guaio sul cantiere del convento... Ma ne

parleremo dopo. – Niente di grave, spero. I soliti atti vandalici? Alexandra si scostò i capelli dal viso con un gesto nervoso. Fece un

sorriso tirato, poi scosse la testa, eludendo il mio sguardo.– C'è stato un incidente. Uno degli operai è precipitato da un

ponteggio. La polizia sta verificando le responsabilità dell'accaduto. Mi bloccai dov'ero a bocca aperta, poi tornai a seguire Alexandra

recuperando il passo.– Scusa… ma è semplicemente caduto oppure…– E’ morto. Si è rotto l’osso del collo. Era un ponteggio molto alto,

quello della torre campanaria. Ma non voglio annoiarti con queste storie appena arrivata.

Non era affatto una storia noiosa. Mi stavo invece iniziando a preoccupare di quello che avrei trovato al convento.Un morto non era una faccenda da poco.

Mi precedette in fondo al corridoio del primo piano, un androne male illuminato da appliques appoggiate al muro tra le porte delle camere. Probabilmente al posto delle appliques qualche secolo prima c’erano dei portatorce, il cui fumo denso di pece aveva lasciato scie scure contro i muri.

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La camera dove mi condusse era avvolta nella penombra delle persiane chiuse e Alexandra accese la luce del lampadario che illuminò un enorme letto a baldacchino nei colori del bordeux e della vaniglia, stinti dal tempo e dalla polvere, una cassapanca ai piedi del letto e un vecchio armadio. L'arredamento inglese in stile seicentesco dava un aspetto severo a quella stanza che pareva inutilizzata, come se nessuno vi fosse entrato da mesi. Tuttavia, forse a causa degli spifferi che provenivano dalle vecchie finestre, non si era accumulato l'odore di muffa delle stanze chiuse. Alexandra spalancò i vetri all’inglese e le persiane per illuminare la stanza della luce grigia del pomeriggio. Il temporale si stava esaurendo, spostandosi verso la costa. Richiuse velocemente i vetri e tirò le tende di stoffa beige.

– Ecco qua. Spero che ti piaccia. Se hai freddo farò accendere il caminetto. Hai sempre detto che ami il fuoco. Dietro quella porta trovi il bagno

– È bellissima. Non ti ho ancora detto come sono contenta di essere venuta a trovarti.

Lei sorrise, questa volta sinceramente.– Devo tornare di sotto. Gli agenti della sezione omicidi hanno

bisogno di informazioni. Mi spiace lasciarti sola, proprio ora che sei arrivata, ma...

– Non ti preoccupare. Ne approfitterò per farmi un bagno caldo. – Allora vado. Verrò appena potrò liberarmi e... – tese le braccia e

mi abbracciò forte, baciandomi le guance. – Grazie per essere venuta. Ci contavo tanto...

Mi sorprese quello slancio improvviso. Era vero che non c’eravamo mai incontrate prima, ma era quasi sembrato che il suo entusiasmo fosse dettato da una seria preoccupazione.

Sciolse l’abbraccio, sorridendo di nuovo, poi mi lasciò sola nella mia camera.

Forse era stata solo un’impressione.In ogni caso, mi restava il dubbio che avrei dovuto telefonarle

prima di partire, anche se avevamo già accordato la mia vacanza a Fairy Manor.

Lo sguardo di stupore di Alexandra nel vedermi sulla soglia di casa mi convinceva che mi ero persa qualche dettaglio nella sua ultima lettera.

Un tuono scosse i vetri delle finestre, ricordandomi che ero

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bagnata come un pulcino, stanca e con una terribile emicrania da champagne.

Lorcan non mi aveva ancora portato la valigia, ma mi liberai ugualmente degli abiti inzuppati gettandoli sulla cassapanca, e mi concessi qualche minuto di riposo lasciandomi cadere sul letto e avvolgendomi nel copriletto.

Avevo l'idea di farmi un bagno caldo, ma appena toccai il materasso caddi in un sonno profondo, come se fossero passati anni dall'ultima volta che avevo dormito.

Capitolo 3

“Vedo la tempesta che si avvicina. Le onde che si alzano. Tutto quello che fu nostro sembra essere qui. Perché dovrei lasciarmi andare e morire?”

( Estranged, Axl Rose.Use Your Illusion II, Set. 1991 )

Fairy Manor, Anno Domini 1172

La sala dei ricevimenti era illuminata da centinaia di torce che riflettevano la loro luce sugli abiti e sui gioielli delle dame di corte.

C'era un'atmosfera di attesa in tutta Fairy Manor, a partire dai servi agitati dietro alle tende, fino ai Signori del Castello che attendevano l'arrivo della sposa. Il matrimonio era stato celebrato all'alba come era usanza a Fairy Manor e la sposa si era ritirata con la suocera e la cognata per il passaggio delle consegne. Rhodry si era preparato per affrontare la cena di nozze, dove tutto era stato organizzato per burlare gli sposi con ogni sorta di scherzi e canzoni allusive.

Savanne doveva arrivare da un momento all'altro. Rhodry si chinò verso Arthur, sussurrando a voce appena udibile.

– Cos'hai saputo di quella congiura di cui mi accennavi ieri? – – È tutto a posto, fratello. Abbiamo imprigionato i sospettati.

Passeranno qualche giorno nelle segrete e tu e Savanne potrete partire tranquillamente per la Francia. –

– Bene. Voglio solo evitare qualche disastro prima di partire. –

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Arthur sorrise rassicurante al fratello, poi si volse verso l'entrata della Sala Dei Ricevimenti. Uno squillo di tromba annunciò l'arrivo della sposa accompagnata dalle donne del castello.

Savanne era splendida nell'abito verde-oro, con la corona di mirto nei capelli e i nastri ai polsi. Così minuta e sottile com'era poteva scomparire in mezzo a quella marea di gente, ma l'aurea che la circondava la distingueva da tutti e creava largo attorno a lei.

Rhodry le andò incontro e le prese le mani, recitando le tradizionali frasi di benvenuto, poi i bardi presero le loro clairseach intonando una Rinnee Fada e gli sposi aprirono le danze.

Savanne sorrise a Rhodry, contando mentalmente i passi.– Ancora poche ore... non ce la faccio più a sopportare questo

cerimoniale... – Pazientate, amor mio. Diamo loro la soddisfazione di

festeggiarci e quando saranno abbastanza ubriachi ci ritireremo. Savanne rise divertita, ma il sorriso le morì quando incontrò lo

sguardo di Arthur. La guardava con occhi di ghiaccio e con una tale cattiveria che la spaventò. Stava per domandare a Rhodry cosa stava accadendo, ma quando tornò a guardare Arthur si accorse che le sorrideva benevolmente e la luce di odio negli occhi che gli aveva scorto un istante prima le parve un'allucinazione. Perché mai avrebbe dovuto odiarla?

Arthur amava il fratello maggiore e non aveva mai avuto niente da ridire sulle sue decisioni, neppure sulla scelta di Savanne come moglie. Certo era un brutto colpo scoprire che la donna per la quale Arthur aveva perso la testa era innamorata di suo fratello Rhodry, ma a questo Savanne non poteva porre rimedio. Dei due fratelli aveva preferito il maggiore per il suo carattere allegro e tranquillo, al contrario del secondo, turbolento e avventuriero per natura. Decine di donne gli vorticavano attorno come lune attirate dal suo sole. A capo del suo piccolo esercito personale aveva trasformato il Ducato di Fairy Manor in un territorio che gli inglesi preferivano non calpestare. Solo Savanne era riuscita ad oltrepassare i confini e solo perché Arthur glielo aveva consentito. I Donninghton, Signori di Helderfas e parenti di Savanne, avrebbero assicurato a Fairy Manor la tranquillità politica della quale avevano bisogno per continuare a vivere pacificamente. Tuttavia, a volte Savanne

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temeva Arthur.La corrente d'aria che le colpì la schiena riportò Savanne al

presente. Si rese conto che danzando Rhodry l'aveva trascinata sul balcone che dava sul giardino. Tutt'attorno a loro la notte era rischiarata dalla luna che creava bagliori argentei sulle fontane di pietra.

– Savanne, ascoltatemi bene. Forse non avremmo più occasione di parlare in privato, perciò devo confidarvi alcune cose che riguardano gli O'Connors e i Donninghton.

– Di cosa si tratta? –– È un testamento che ho fatto redigere tempo fa alla presenza

di alcuni testimoni, tra i quali vostro fratello Derek. Se mi dovesse succedere qualche cosa e voi vi trovaste in difficoltà, prendete il testamento e cercate protezione presso la famiglia di mia sorella. I MacKennar non permetteranno che vi sia fatto del male. Ricordatevi di non perdere quello scritto. È l'unico documento che attesta i vostri diritti su Fairy Manor.

Savanne si trovò con la gola secca dalla paura. Non riusciva a capire tutta quella premura, ma le parole di Rhodry la terrorizzarono.

– Perché... perché mai dovrebbe accaderti qualcosa? Rhodry scosse la testa.– Non preoccupatevi di questo. Il testamento è nascosto nella

biblioteca del Convento di Santa Brigida. Solo la Badessa Giulianne conosce il nascondiglio. Affidatevi a lei.

– Ma mio fratello e altri sanno del testamento. Temete forse che lo impugnerebbero contro di me?

– In questi tempi non ci si può fidare di nessuno. Penso che ci sia un traditore che stia tramando a nostre spese per impadronirsi dei nostri possedimenti e per consegnarci agli inglesi. Savanne... – Rhodry le prese le mani, stringendole forte.– ... dovete promettermi che qualunque cosa succederà sarete coraggiosa. Probabilmente si tratta solo di un semplice accorgimento, ma voglio che voi siate protetta se dovesse accadere il peggio... farete ciò che vi ho detto?

– Certo. – Savanne abbracciò il marito per rassicurarlo, ma in cuor suo tremava.

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Capitolo 4

“Si potrà definire la magia nera come l'arte di procurare agli altri una sorta di follia artificiale. È anche per eccellenza la scienza degli avvelenamenti.”

( Elifas Levi – Storia della magia)

Fairy Manor, luglio 1993

Il telefono era lì sul comodino a due palmi dal mio viso e lo fissavo già da cinque minuti buoni. Se avessi composto il numero, quel numero, avrei certamente sentito la voce registrata della società dei telefoni con la solita frase di scuse: "... Il numero da lei selezionato non è al momento raggiungibile..."

Il solo pensiero che Luca poteva aver staccato il cellulare per non ricevere una mia telefonata mi faceva stare male, ma prima o poi avrei dovuto chiamarlo, anche solo per dirgli che ero partita. Chiudere una relazione per telefono era piuttosto squallido, specialmente per una come me che amava parlare alla gente guardandola dritta negli occhi, poiché non avevo nulla di cui vergognarmi.

Appunto, non avevo nulla di cui vergognarmi. Perciò, perché esitavo? Avevo forse paura di essere preceduta da Luca e di sentirmi dire che era finita?

Distolsi lo sguardo dal telefono. Non avrei mai sollevato quella cornetta, né composto quel numero. Non ero stata la prima ad iniziare quella storia, né sarei stata la prima a farla finire.

Però dovevo avvisare Luca che ero partita.Mi alzai dal letto dove giacevo ormai da quattro ore

spudoratamente in pieno giorno, mancando completamente di riguardo verso Alexandra che mi ospitava. I tamburi avevano smesso di battere nella mia testa e avevo fame. A mezzogiorno non avevo pranzato talmente ero stata rintronata e nauseata dal viaggio, ma ora il mio stomaco lamentava cibo abbondante.

Mentre dormivo Alexandra aveva fatto portare la mia valigia nella stanza. La posai sul letto e cercai una gonna di seta bianca e un pullover di cotone blu, infilandoli velocemente. I miei stivali si erano asciugati a sufficienza da poter essere rimessi.

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Mi affacciai alla finestra e spalancai i vetri. Aveva smesso di piovere e il cielo si era schiarito a tratti creando piccole nubi dai colori accesi dal sole. I boschi che circondavano il castello lo nascondevano alla vista dalla strada che avevo percorso sulle colline per raggiungerlo, mentre le Wicklow Mountains da lassù erano scure e tetre. Avevo letto da qualche parte che fino al secolo scorso erano state utilizzate da ribelli e da banditi come rifugio sicuro.

Nel cortile ridotto ad un pantano era rimasta solo la mia Ford e una piccola utilitaria rossa che dalla finestra non riuscivo ad identificare. Speravo che se ne fossero andati tutti per poter scendere da Alexandra, invece aveva ancora ospiti. Decisi, comunque, che era l'ora del té a Londra, e che perciò potevo anche fare una capatina al pian terreno alla ricerca delle cucine, per farmene scaldare una tazza dalla cuoca.

La famiglia di Alexandra era benestante e poteva permettersi un certo numero di personale per i lavori domestici. Mi aveva parlato spesso dei pranzetti succulenti che la cuoca, Erin, cucinava quando era in buona.

Mentre scendevo le scale che portavano nell'atrio, tentando di orientarmi nell'enorme palazzo, vidi Alexandra al braccio di un uomo. Era un tipo alto sulla trentina, il fisico di un ballerino, i capelli neri legati dietro la nuca e una favolosa abbronzatura. Indossava jeans di marca e una maglia di cotone, e in mano teneva una cartellina portadocumenti e un impermeabile. Sospettai che la piccola utilitaria parcheggiata nel cortile fosse sua. Doveva essere appena arrivato. Parlavano a voce bassa concitatamente e appena mi videro tagliarono il discorso rivolgendosi a me.

– Celine! Ti sei alzata. Stai un po' meglio ora? – Decisamente si. – risposi ad Alexandra, ma fissavo l'uomo alla

sua destra che aveva velocemente sfilato il braccio da quello di Alexandra e mi guardava con un'espressione indecifrabile.

– Allora vieni con noi a prendere una tazza di té? – Stavo per proporre la stessa cosa. – Le sorrisi, mentre l'uomo

sembrava palesemente interessato alla mia scollatura e all'orlo della mia minigonna di seta.

Gli lanciai uno sguardo interrogativo, piuttosto seccata da quell'atteggiamento fin troppo confidenziale che non avevo mai sopportato dagli sconosciuti.

– Ci conosciamo? – gli chiesi in tono duro.

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– Certamente. – rispose l'uomo senza esitare.Rimasi un istante senza parole, fissandolo incredula per la sua

arroganza.L'uomo mi sorrise con una certa aria di sfida ad indovinare chi

fosse e la cosa iniziò a divertirmi. Ma chi era quel tizio che assicurava di conoscermi? A parte Alexandra non avevo altre amici in Irlanda...

Lei parve trovare tutto piuttosto infantile. Diede una gomitata in un fianco all'uomo, il quale perse per un attimo l'equilibrio.

– Smettila di scherzare, Rafael. Non sono dell'umore adatto, oggi. Celine, ricordi Rafael...

– ... De Roya! – esclamai stupitissima. Dovetti sembrare quasi buffa, tanto ero meravigliata di trovare uno dei miei più assidui corrispondenti spagnoli in un posto come Fairy Manor. – Ma cosa fai qui?! – mi avvicinai a Rafael per stringergli la mano, poiché ora da perfetto conosciuto si era trasformato in uno dei miei migliori penfriends. Naturalmente non riuscii ad evitare che mi baciasse le guance, da bravo spagnolo quale era, abitudine che esisteva anche dalle nostre parti in Italia e alla quale puntualmente non riuscivo a sfuggire. Tre baci, come i francesi.

– La stessa cosa che fai tu, mi querida. Alejandra mi ha chiamato per il Convento.

– Per un preventivo? – Che idea carina aveva avuto Alexandra! Riunirci a casa sua per l'estate, con la scusa del Convento. La mia sfortunata vacanza stava prendendo una piega... diciamo, splendidamente allettante.

Rafael De Roya mi aveva sfrontatamente corteggiato via lettera per tre lunghi anni, ma pensai lo facesse anche con le altre sue corrispondenti. Tuttavia l'idea di incontrarlo e di godere della sua compagnia mi tirava su il morale parecchio.

– No. Sono l'architetto che dirige i lavori di ristrutturazione. Alejandra non ti ha detto nulla?

Guardammo Alexandra, la quale scosse le spalle con espressione distratta e innocente. Per un attimo mi sembrò seccata, come se non fosse stata contenta di quella situazione.

– Nessuno di voi due mi aveva confermato che sareste venuti. – Ci volse le spalle e si diresse verso una porta laterale sotto lo scalone. – Faccio preparare il té.

Rafael mi prese sotto braccio, guidandomi verso quelle che sospettavo fossero le cucine, parlando un terzo in spagnolo, un terzo

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in inglese e un terzo in italiano, per spiegarmi come Alexandra era riuscita a convincerlo ad accettare la supervisione della ristrutturazione del Convento.

Mentre Erin versava il té nelle tazze, ci sedemmo attorno al tavolo della cucina.

– Ally mi ha detto che c'è stato un incidente al cantiere. Com'è accaduto? I ponteggi non sono sicuri?

Rafael guardò prima Alexandra, poi fece un respiro profondo e prese a sorseggiare il suo té.

– Per la verità è il secondo incidente in due settimane. – spiegò con una certa ritrosia.

Guardai i miei amici con l'espressione più allibita e preoccupata che potessi avere.

– Il secondo. – mormorai in tono neutro, mentre mi ritornava la voce. – Qualcuno si diverte a lanciare gli operai dai ponteggi? – chiesi sarcasticamente, ma l'occhiata che mi lanciò Alexandra non era per nulla divertita.

– I ponteggi sono a norma di legge e gli operai sono persone esperte con anni di lavoro alle spalle. L'impresa sta considerando di ritirarsi e di chiudere il contratto. – continuò Rafael. – Alejandra mi ha chiamato una settimana fa, quando l'architetto che dirigeva i lavori è precipitato dal ponteggio della torre campanaria. Ho preso il primo aereo per Dublino e sono venuto a vedere cosa stava succedendo. Sul cantiere si rispettano tutte le norme di sicurezza, me ne sono accertato personalmente, neppure gli investigatori della polizia riescono a capire come sia potuto succedere. Poi, stamattina, un altro incidente.

– Hai visto come è successo? – gli chiesi, mentre elaboravo nella mia mente un'ipotesi d’atto terroristico. In Irlanda erano abbastanza frequenti, specialmente se si trattava di gente importante come i Killamore.

Rafael esitò a rispondere, poi annuì.– Non l'ha spinto nessuno, non è neppure inciampato in qualche

ostacolo sui ponteggi. Si è proprio lanciato da solo. Il problema è che la polizia non mi ha creduto, specialmente quando gli ho detto che anche l'operaio è precipitato dalla torre campanaria.

Seguì un lungo silenzio, durante il quale fissammo le nostre tazze, assorti in tristi pensieri.

– Stai pensando di chiudere il cantiere? – chiesi ad Alexandra.

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– Sono costretta a farlo. La polizia ha messo il Convento sotto sequestro per un paio di giorni, finché non l'hanno setacciato centimetro per centimetro. Del resto non c'é poi tanto da controllare, perché è già stato sventrato. Dovrò anche rimborsare i danni all'impresa... Spero di non venire indagata per gli incidenti... Appena conclusa questa storia venderò tutto il fabbricato e il terreno. Non voglio più aver niente a che fare con quel posto maledetto.

Rafael prese una mano di Alexandra stringendola nelle sue per consolarla. Mentre fissavo quelle mani intrecciate, mi resi conto che il mio viaggio in Irlanda sarebbe stato molto corto. Morto il motivo della mia presenza a Fairy Manor, dal momento che il mio parere per il Convento non era più richiesto, non sarebbe stato neppure necessario rimanere per dare sostegno morale ad Alexandra, poiché Rafael era corso da lei senza porsi problemi, mentre io di problemi ne avevo parecchi da risolvere a casa.

Decisi che sarei rimasta giusto un paio di giorni, tanto da dare un'occhiata alla contea, poi sarei ripartita per l'Italia.

– Se vuoi ti porto fino al Convento. Eri venuta per un preventivo, se non sbaglio.

La proposta di Rafael mi prese alla sprovvista.– Ma il cantiere è sotto sequestro! – Solo la parte dove sono accaduti gli incidenti, ovvero la parte

esterna delle mura, sotto la torre campanaria. L'interno è sorvegliato da un agente di polizia. Non toccheremo nulla. Il preventivo sarebbe comunque utile ad Alejandra per quando venderà il Convento. Ci sono alcune cose da stimare e altre che secondo me non hanno alcun valore. Il tuo parere sarebbe molto utile, altrimenti non avrei chiesto ad Alejandra di farti venire.

Questa era bella!Mantenni l'espressione più indifferente possibile, mentre dentro

di me si formava un dubbio: Rafael aveva chiesto ad Alexandra di invitarmi a Fairy Manor? Pensavo che l'idea fosse stata di Ally!

Iniziai a guardare la mia amica con occhi più distaccati. Che la sua professata inossidabile amicizia fosse stata dettata esclusivamente dagli interessi personali? Non potevo crederlo! Non riuscivo a crederlo!

– C'è ancora luce. Visto che ha smesso di piovere, perché non andiamo adesso? Non è molto lontano, vero? – proposi fingendomi

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interessata, quando invece ero piuttosto delusa.– È stata una giornata pesante... – iniziò a lamentarsi Alexandra.– Allora andremo solo noi. – Rafael si alzò e mi fece cenno di

precederlo alla porta. – Prendo l'impermeabile, nel caso ricominci a piovere. Ti raggiungo in auto.

Li lasciai in cucina, recuperai l'ombrello che avevo lasciato nel portaombrelli e andai in auto. Pensai che Rafael volesse parlare con Alexandra per scuoterla dallo stato di apatia in cui era caduta, ma mi raggiunse subito, perciò non si era trattenuto, perdendo solo pochi minuti per recuperare l'impermeabile bianco.

...Il Convento era stato costruito sulla cima di una delle colline più

basse delle Wicklow Mountains, a un paio di chilometri dal manor. Era un altipiano pelato, completamente primo di vegetazione boschiva, e terminava in un dirupo ricoperto di erica, dove era stato eretto il Convento. Dalle mura grigie spuntavano le gru dell'impresa edile e le impalcature che circondavano la struttura principale e la torre campanaria. Alla luce del tramonto l'intero fabbricato aveva un che di macabro e demoniaco. L'ultima volta che Dio era passato da quelle parti, molto probabilmente era stato prima della costruzione del Convento.

Parcheggiai la Ford davanti al portone d'accesso, agibile attraverso un ponte di legno costruito sopra il fossato che circondava le mura. L'auto della polizia era a pochi metri da lì e l'agente di guardia salutò Rafael con un cenno del capo.

Rafael mi guidò attorno alle mura per un breve tratto e m’indicò i cordoni di sicurezza della polizia con la scritta: "Scena del crimine". Alzai il viso verso i merli della torre campanaria in forma circolare, per la metà inferiore circondata dalle impalcature. L'altra metà non aveva finestre, a parte un piccolo finestrino quasi sotto le arcate gotiche delle sede delle campane, malridotte dalle intemperie a causa del crollo della cupola. La luce che entrava da quel finestrino doveva evidentemente servire per illuminare le scale a chiocciola che salivano fino alle campane.

– Entrambi i suicidi si sono gettati dal ponteggio più alto, giù nel fossato. Un salto di venti metri. Puoi immaginare come li hanno raccolti.

– Preferisco non immaginarlo. – Mi stupì il fatto che Rafael considerasse i due morti come suicidi. Era vero, si erano gettati, ma

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da lassù, dietro ai tendaggi di sicurezza, poteva nascondersi benissimo qualcuno. Questo però non glielo dissi. C'erano parecchie cose che non mi piacevano in quella faccenda, così come i dubbi sull'onestà delle persone che da anni consideravo amiche.

Entrammo nelle mura in silenzio, cercando di affrettarci perché stava calando il sole. L'odore di muffa era misto a quello della calcina e del cemento. Le attrezzature dell'impresa erano abbandonate con noncuranza nel cortile interno, probabilmente perché la polizia aveva fatto sospendere i lavori prima che gli operai potessero riordinare la loro roba. Una carriola piena di cemento indurito era stata lasciata appesa a una carrucola a un metro da terra e dondolava alle raffiche di vento che spazzavano il cortile.

Al centro del cortile c'era una fontana asciutta. La pietra del bordo e la vecchia statua al centro erano coperte di licheni e muschi, che col tempo avevano eroso le forme e creato crepe in tutta la struttura.

Rafael mi guidò ai piedi della torre campanaria e aprì la porta di un piccolo caseggiato che era collegato ad essa.

– Questa doveva essere stata la casa usata come dispensa, mensa e deposito dei viveri per l'inverno. È la meglio conservata perché le travature erano sane e il tetto non è crollato come nell'edificio principale. Cosa mi dici?

Istintivamente alzai lo sguardo al soffitto e scrutai fra le ombre della sera l'intreccio di travi e tavole, che formavano un eccezionale lavoro d’intaglio e pittura. I dipinti di tema religioso e gli intarsi anneriti dal fumo dei secoli si erano mantenuti straordinariamente intatti, nonostante il clima umido e freddo.

– Dai disegni sembrano risalire al sedicesimo secolo. Ce ne sono altri? – chiesi a Rafael, prima di emettere il verdetto.

– Al piano di sopra ci sono altre due stanze come queste. Nelle cucine i soffitti sono di tavelle di cotto e le travi non sono dipinte. O forse si, sono talmente annerite che non si riesce a capire. Non abbiamo voluto toccarle per non danneggiarle. Da quella parte si sale nella torre campanaria.

M’indicò una bella porta di quercia intagliata a mano, oltre la quale saliva una scala di legno.

– Vorremmo sistemare anche la scala, se non è ridotta troppo male.

Lo seguii all'interno della torre, piuttosto buia, dal momento che le finestre erano state chiuse con i teli di sicurezza e sigillate dalla

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polizia.– Fino a ieri le finestre si usavano per salire sui ponteggi. La

polizia ha sigillato tutto per evitare altri incidenti. – Da qui si sale fino alle campane? – No. Si arriva a una stanza che non abbiamo ancora aperto. La

porta è bloccata con dei catenacci arrugginiti. Prima o poi dovremmo deciderci a sfondarla.

– Tagliate i cardini. Rafael mi guardò stupito. Sembrò meditare un istante, poi scosse

la testa.– Vieni su. – estrasse dalla tasca dell'impermeabile una torcia

elettrica e mi guidò sulla rampa di scalini elicoidale fino ad un pianerottolo di legno. Dovevamo quasi essere in cima alla torre, poiché sopra di noi c'era un altro soffitto a cassettone dipinto come nella mensa e la scala finiva su quel pianerottolo. La porta che avevamo di fronte era chiusa da tre catenacci che col tempo si erano saldati nei passanti. Sarebbe stato un peccato tagliarli, ma capii che non ci sarebbe stata altra via, perché non c'era l'ombra di un cardine sull'altro lato della porta.

– Questa è una specie di porta blindata. – mi spiegò Rafael. – I cardini sono all'interno della stanza e sono lunghi tanto quanto è larga la porta. Tagliamo i catenacci, rovinandoli, o rompiamo la spalla del muro dalla parte dei cardini. Ad Alexandra non importa poi tanto entrare in questa stanza, perciò la porta è rimasta chiusa.

– Quel piccolo finestrino che si vede fuori deve essere in questa stanza, vero?

– Infatti. – mi fece segno di scendere, illuminandomi gli scalini.– Cosa mi dici del lavoro da fare?

– Ce n'è parecchio. Il restauro della parte lignea è uno scherzo in confronto ai dipinti. Vanno tutti puliti e ricostruiti, mentre il legno va risanato e protetto.

– Falegnami e pittori esperti, insomma. – Restauratori d'arte, meglio ancora. È più sicuro affidare il lavoro

a gente che se ne intende, o vi procureranno danni irreparabili. Quando uscimmo dal caseggiato il sole era ormai tramontato

dietro le mura e si stava alzando un vento gelido che portava altre nuvole cariche di pioggia.

Attese che fossimo saliti in auto prima di riprendere a parlare.– Saresti disposta a dirigere i lavori di restauro?

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Lo sapevo.Tenni gli occhi fissi sulla strada che serpeggiava nei boschi in

direzione del manor.– Non hai mai visto uno dei miei lavori. Come fai a fidarti? – Così come Alejandra si fida della mia esperienza di architetto,

io mi fido della tua di restauratrice. E non è vero che non ho visto i tuoi lavori. Sono stato a casa di uno dei tuoi clienti.

Gli lanciai un'occhiata obliqua. Aveva tenuto un asso nella manica per impressionarmi? Fatica sprecata. Io m’impressionavo solo alla vista dei ragni.

– Di chi è stata l'idea? – buttai lì dopo qualche istante di silenzio.Rafael mi guardò meditabondo, poi sorrise cinicamente. – Alejandra non è in grado di dirigere la ristrutturazione di un

edificio così antico, nonostante il suo diploma dell'Istituto d'Arte e Restauro. Quando un mese fa mi ha scritto che iniziava i lavori mi sono reso conto che aveva sottovalutato tutta la faccenda. I suoi genitori le hanno messo a disposizione una certa quantità di denaro e lei intende investirla nella ristrutturazione del Convento per trasformarlo in un museo di storia religiosa irlandese. Come saprai, nel VI e VII secolo l'Irlanda è stata un importantissimo centro di civiltà cristiana. Qui erano formati i monaci che venivano poi inviati in Europa per fondare altri monasteri. Uno dei più famosi era stato S.Colombano, che fondò alcuni dei centri culturali più importanti in Europa. Nel Convento sono stati ritrovati molti manoscritti risalenti all'anno mille, un'intera biblioteca che si è salvata per miracolo. Alcuni scritti sono talmente vecchi che è difficile anche tradurli, e Alejandra sostiene che siano stati trascritti da antichi rotoli ebraici, arrivati in Irlanda probabilmente per mezzo dei nobili di ritorno dalle crociate, se non addirittura dai cavalieri templari...

– Era un monastero di monaci amanuensi? – La prima comunità era di monaci. Nel 1030 venne assegnato alle

monache di S.Brigida. Sono rimaste proprietarie del Convento fino alla fine del 1180. È questo il fatto più importante: monache amanuensi, praticamente un evento più unico che raro. Poi l'edificio è stato sequestrato dalla corona inglese ed è passato in mano ai protestanti. Stranamente non è stato toccato nulla della biblioteca. È come se avessero evacuato il posto e sigillato tutto. A volte questo accadeva all'epoca dell'Inquisizione, quando i testi contenevano informazioni di segretezza religiosa, oppure quando veniva

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commesso qualche delitto rimasto irrisolto. – Nei libri che avete trovato non c'era qualche cronaca dell'epoca? – Ce ne sono a migliaia. Interi diari scritti da mani femminili. Vuoi

leggerne qualcuno? – Non conosco il gaelico. Però mi piacerebbe sapere cosa

nascondessero in quella torre per sigillarla così bene. Hai notato che non c'è accesso alla sede campanaria?

– Se è per questo non ci sono neppure le campane. Pensiamo che siano state rubate per fonderle durante la Seconda Guerra Mondiale, quando c'era scarsità di piombo, che successivamente qualcuno abbia abitato il convento e che abbia murato l’accesso alla sede campanaria per limitare la dispersione di calore. La costruzione è molto antica, sulla base originaria è stata costruita la sede delle campane con le finestre ad arco, che risale al 1400. Nella cappella abbiamo trovato un vecchio organo a canne del quale è rimasto solo l'organo ammuffito e marcito. Delle canne non è rimasta neppure la polvere. Tutto quello che era di metallo è stato rubato. È molto facile scavalcare le mura. Hanno lasciato solo i libri, le statue, i quadri e le stoffe. I quadri non hanno resistito all'umidità, ma Alejandra li sta valutando per capire se vale la pena restaurarli. Le stoffe erano una paccottiglia fiorita di muffa millenaria. Gli operai hanno bruciato tutto prima di infettarsi. – Tornò a guardarmi con quei suoi strani occhi a mandorla. – Non hai risposto alla mia domanda.

Arrivammo al bivio per il manor e stavamo per uscire dalla strada di contea quando Rafael mi fece segno di procedere fino a Laragh, e fermarmi davanti ad un ristorante.

– Fermiamoci a mangiare qualcosa, così sarai costretta a rispondermi.

– Ma Ally ci aspetta! – Le ho detto che avremmo cenato fuori. – Ah si? – ormai dovevo essere abituata agli uomini che

prendevano iniziative senza avvisarmi. Luca faceva sempre così. Ma era un concertista di pianoforte che non aveva una vita normale, ed era concepibile. Anche Rafael aveva quella fastidiosa abitudine? – Ally ci sarà rimasta male. Sono appena arrivata, ci siamo promesse di fare una chiacchierata. Non mi sembra molto educato cenare fuori senza di lei, che oltretutto ci ospita.

– Non ho l'abitudine di cenare con più di una donna al tavolo. – e con questo Rafael mi chiuse la bocca. Scese dall'auto e attese che

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scendessi anch'io, poi mi aprì la porta del ristorante. Aveva già prenotato un tavolo a suo nome.Forse aveva intenzione di cenare con Alexandra, mi dissi. Destino

aveva voluto che fossi arrivata io?Quando il cameriere portò la lista non mi permise di guardarla.– Non è necessario. Prendiamo il salmone d'Oengus affogato

all'irlandese e vino bianco, il migliore che avete. – Vieni qua spesso? – domandai a Rafael, mentre il cameriere si

allontanava.– No, è la prima volta che mi fermo in questo posto. Il piatto che

ho ordinato è una ricetta tradizionale irlandese. La preparano dappertutto sull'isola. Gli antichi gaelici pescavano il salmone con le mani perché lo consideravano sacro e guardiano del mondo animale.

– Interessante. – attesi che il cameriere ci versasse il vino, con la solita cerimonia dell'assaggio, poi tornai a Rafael. – Non posso risponderti subito. Per accettare un simile incarico devo prendermi due mesi interi da passare qui, cercare le falegnamerie che possono fornirmi il materiale che mi manca, cercare i colorifici che vendono le paste e le terre per ricostruire i dipinti. Devo anche costituire una squadra di lavoro, non riuscirei a fare tutto da sola nel giro di un anno. La gente che lavora per me in Italia non si muoverebbe di casa. Avrei bisogno anche di un posto asciutto e arieggiato dove poter conservare i manufatti restaurati. Per i libri, soprattutto.

– Quanto pensi che verrebbe a costarti un trasferimento in Irlanda alle tue condizioni?

Non mi aspettavo una simile domanda.– Non ho l'abitudine di parlare di soldi a tavola. Il mio misero tentativo di sviare la domanda non ebbe lo stesso

effetto della risposta di Rafael di poco prima.Mi guardò dritto negli occhi, e Dio solo sapeva se in quel momento

non mi sentii le gambe di gelatina, ripetendomi la domanda in italiano.

– Alle tue condizioni. Quanto vuoi? Se avessi risposto: " Te. " cosa sarebbe accaduto?Meglio non pensarci!Intrecciai le mani sudate in grembo, guardando fuori della

finestra, fingendomi assorta in calcoli complicatissimi. Cercai una risposta non impegnativa, quando tornai a guardarlo.

– Preferirei parlare direttamente con Ally di tutta questa faccenda.

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Tu sei solo l'architetto del cantiere. È lei che deve decidere se può sostenere la spesa di un lavoro così grosso.

Rafael sembrò digerire la mia risposta, o forse attese che il cameriere ci servisse il salmone, perché poi tornò alla carica.

– Parliamoci chiaro, Celinita. Io ho convinto Alejandra a farti venire in Irlanda con la promessa che avrei convinto te ad accettare l'incarico.

– Sarebbe a dire che Ally non voleva che venissi? – non potei più evitare la domanda, che mi uscì con tutto il rancore che mi stava nascendo dentro.

– Alejandra voleva che tu venissi in vacanza con Luca, in qualche albergo della zona. Voleva mostrarti il Convento alla fine dei lavori, voleva dimostrarti che anche lei è in gamba come te nel suo lavoro. –

La situazione si stava complicando seriamente, se Alexandra era invidiosa di me e del mio lavoro.

Non avevo ancora telefonato a Luca ed erano già le nove di sera.Rafael continuava a fissarmi con quegli incredibili occhi neri e

entro poco avrei preso fuoco.Un diavoletto in fondo alla mia coscienza mi stava dando

pericolosi suggerimenti per dare un finale da spettacolo pirotecnico a quella giornata spaventosamente lunga.

Trangugiai un boccone di salmone senza sentirne il sapore, vuotando un paio di calici di bianco. Al quarto calice mi resi conto che avevo appena smaltito una sbornia e che me n’ero procurata un'altra, sempre a causa di un uomo.

Anche noi donne causavamo simili sbronze agli uomini? Luca non aveva mai perso il controllo per causa mia, che io ricordassi. Anzi, mi aveva richiamato spesso all'ordine quando tentavo di annegare i dispiaceri nell'alcool, e non solo i dispiaceri.

Anche Rafael pareva essere uno che non perdeva mai il controllo, ma stava buttando all'aria la mia vita per fare un piacere ad Alexandra. Che fosse stato più di un piacere?

– Che percentuale prendi? – gli chiesi a bruciapelo.La domanda parve coglierlo di sorpresa.– Perché vuoi saperlo? – Rafael finse di essere impegnato a

spalmare maionese sul salmone.– Dal momento che t’interessa tanto conoscere il mio prezzo, io

volevo conoscere il tuo. Se stai facendo un piacere ad Ally, non credere che io lo faccia per te. Tengo i soldi e gli amici ben separati.–

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precisai senza esitare.– Lo so. Me l'hai già detto altre volte. Tuttavia sono certo che si

potrà raggiungere un buon accordo. Sarebbe un bel colpo anche per te, firmare questo contratto. Non ti capiterà certo tutti i giorni un'occasione come questa.

Guardai Rafael di sottecchi, mentre tagliavo a pezzi il mio salmone per farlo raffreddare.

Se voleva insultarmi aveva toccato il tasto giusto. Involontariamente mi aveva dato un buon motivo per tornarmene

a casa e dimenticarmi di tutta quella storia.– Mi sono capitate occasioni migliori di questa, specialmente se

teniamo presente l'atmosfera suicida che si respira al Convento. Negli altri posti dove ho lavorato nessuno ha avuto la brillante idea di gettarsi di sotto.

– Questo non dipende affatto dal tipo di lavoro che dovrai eseguire. I ponteggi che userai saranno alti si e no due metri dal pavimento.

– Non sto parlando del lavoro, Rafael. Sto parlando di responsabilità. Anche da un ponteggio di due metri si può cadere e rompersi l'osso del collo. – ora mi stavo veramente arrabbiando. Non avrei mai immaginato di dover discutere per rifiutare un contratto. – Non voglio discutere con te. Ti ho già detto che parlerò con Alexandra per il preventivo, ma non accetterò di firmare un contratto.

– Bene. – Rafael sorrise accomodante, come se gli avessi dato una bellissima notizia. – Avevi ragione, è meglio non parlare di lavoro a tavola. –

Stava tramando qualcosa?Improvvisamente cambiò discorso e prese a parlare dei libri

trovati nel Convento. Io non ero esperta di lingue antiche, ma a quando pareva Rafael ne conosceva almeno mezza dozzina e mi spiegò che i manoscritti erano in gaelico medio per la maggior parte, mentre alcuni erano in gaelico antico, latino, e ebraico.

Aveva iniziato a leggere i diari redatti dall'ultima Badessa, dove si parlava di una donna che aveva avuto parte importante nella caduta del feudo di Fairy Manor. Sapendo quanto fossi interessata alla storia medievale, mi promise di mostrarmi il libro il giorno dopo.

Forse aveva intuito che la faccenda del contratto mi aveva raffreddato parecchio, perché non ritornò più sull'argomento,

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nonostante continuasse a parlarmi della storia di Fairy Manor e del Convento, che parevano legate da un sodalizio politico-religioso, tant'era che si parlava di un antico testamento che era andato perso, attraverso il quale normanni e irlandesi pareva avessero raggiunto un accordo pacifico, ma che la scomparsa di quello scritto aveva trasformato in una guerra millenaria. Rafael ed Alexandra erano certi che l'avrebbero ritrovato fra quei libri. Le monache conservavano sempre tutto. Se l'avessero ritrovato intatto, sarebbe stato il pezzo forte del museo che Alexandra avrebbe allestito nel Convento.

Lasciammo il ristorante molto tardi, tanto che pensavamo di trovare già tutti a letto al castello, ma quando rientrammo trovammo Alexandra in piedi che aveva urgentemente bisogno di parlare con Rafael. Li lasciai in uno dei salotti del pianoterra a parlare di avvocati ed assicurazione e me ne andai in camera, maledicendomi per il mal di testa che mi ero procurata bevendo troppo vino e per aver tirato fino a mezzanotte senza aver telefonato a Luca. Doveva essere infuriato. Avevo dimenticato di chiedere ad Alexandra se lui avesse telefonato durante la mia assenza, ma se l'avesse fatto lei me lo avrebbe detto.

Non mi restava che attendere il giorno dopo e prepararmi un discorsetto di scuse da propinare a Luca. Se avesse risposto al telefono.

Capitolo 5

“La follia, nei grandi, ha da esser vigilata.”

( Shakesperare, Amleto. Atto terzo, scena II )

Fairy Manor, Anno Domini 1172

Savanne guardò ad occhi sbarrati la punta del pugnale che il fratello di suo marito le puntava alla gola.

Quello che vedeva davanti a sé era solo un terribile incubo, non poteva essere vero.

Arthur non poteva aver ucciso Rhodry, non così semplicemente.

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Rhodry era forte, nessuno lo batteva con il pugnale. Non era vero. Non poteva essere Rhodry quella sagoma stesa sul pavimento in

un lago di sangue.Non era Arthur l'assassino. Voleva bene a suo fratello maggiore,

lo ammirava e gli obbediva sempre ciecamente. Quel pugnale non avrebbe ucciso anche lei. Era solo un incubo e quando si fosse svegliata si sarebbe resa conto di essere nel letto, abbracciata a Rhodry, nella loro stanza, la prima notte di nozze.

Ma cos'era allora quello che macchiava il suo abito da sposa? Sangue? Sangue di Rhodry?

– Ora verrete con me, Savanne, e sarete buona e obbediente. Non tenterete di fuggire né di ribellarvi. Siete sempre stata una persona remissiva, vero? Se farete ciò che vi sarà detto non vi sarà fatto alcun male.

– E dovrei obbedirvi dopo quello che avete fatto a vostro... a mio...

Arthur sorrise tristemente.– Era destino. Rhodry era un debole. Non era adatto all'incarico

che sosteneva. Savanne rabbrividì.Solo poche ore prima Rhodry era stato investito Dux e subito

dopo l'aveva sposata davanti all'Arcivescovo.Non osò voltarsi a guardarlo. Aveva intravisto solo per un

istante il suo sguardo vitreo illuminato dalle candele e il sangue le si era gelato.

Arthur le fece cenno di alzarsi dalla poltrona. Due uomini la presero per le braccia e la trascinarono fuori dalla stanza.

Il corridoio era invaso di gente che correva da ogni parte. L'odore del sangue le fece venire la nausea e guardandosi

attorno si accorse di alcuni cadaveri riversi sul pavimento. Le pareti insanguinate, i tendaggi strappati, i mobili, tutto era

stato devastato e trascinato lungo i corridoi dove le lanterne cadute sui pavimenti si erano incendiate e bruciavano ciò che incontravano.

Tutto era già prestabilito.Lo zio l'aveva avvertita che un traditore tramava nell'ombra per

consegnarli ai normanni. Ma che il traditore fosse Arthur...

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Capitolo 6

“La magia è una scienza di cui non si può abusare senza perderla e senza perdere anche se stessi.”

(Elifas Levi – Storia della magia)

Fairy Manor, luglio 1993

Il giorno dopo rifiutai l'offerta di Rafael di visitare con lui le rovine di Glendalough, perciò vi andò solo.

La sua presenza iniziava ad innervosirmi, non tanto per la discussione che avevamo avuto la sera prima, quanto per il fatto che Rafael iniziava a piacermi sul serio e io non ero ancora libera, non ancora almeno secondo i miei principi morali. Mai iniziare una cosa senza averne prima finita un'altra in sospeso.

Nonostante i suoi difetti Rafael era un perfezionista come me, era ossessionato dal suo lavoro e gli dava precedenza su tutto. A differenza di me, però, era disposto a scavalcare un amico e ad usare sistemi poco onesti pur di firmare un contratto vantaggioso. Se ci fossimo incontrati per motivi diversi, magari a Valencia dove abitava, probabilmente la sera prima sarei finita dritta nel suo letto, con immenso piacere di entrambi, a quanto pareva.

Rafael non si faceva certo i miei problemi. Non mi risultava neppure che avesse una compagna fissa in Spagna.

Ricordavo una frase che mi aveva scritto: "Amarsi sempre, sposarsi mai."

Con questi cinici pensieri per la testa e una tazza di tè in mano feci un giro panoramico del castello alla ricerca dello studio di Alexandra, seguendo le indicazioni di Erin.

La trovai in uno stanzino del terzo piano, dove aveva ammucchiato contro le pareti i libri del Convento, vecchie e ammuffite pagine incartapecorite rilegate di cuoio inciso a caldo, dove erano riportati i fatti storici avvenuti nella contea di Wicklow al tempo dei Duces di Fairy Manor.

– Vi siete divertiti ieri sera? Siete rientrati tardi... Questo fu il buongiorno di Alexandra. Non v'era dubbio che fosse

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anche gelosa di Rafael e non le davo torto. Stando alla cronaca l'aveva visto prima lei, e al contrario di me lei non era impegnata sentimentalmente.

– Rafael ha tentato tutta la sera di convincermi ad accettare il contratto di restauro, ma gli detto chiaro e tondo che la decisione spetta a te, non a lui.

Mi sedetti su una vecchia poltrona rivestita di damasco, prendendo a caso un libro e sfogliandolo con delicatezza per non rompere le pagine.

Era ora di sondare il terreno minato sul quale mi stavo inoltrando.– Hai idea di quanto verrebbe a costare restaurare la casa della

mensa e la scala della torre campanaria?– Immagino sia un lavoro costoso, ma ci tengo molto Celine. È la

parte più bella del Convento, quella meglio conservata. Non sarà neppure necessario fare ricerche architettoniche per ricostruire la struttura interna, come per il palazzo principale.

– È questo che cerchi nei libri? Il progetto originale del Convento?Alexandra annuì mestamente.– Rafael insiste per ricostruirlo con tecniche moderne e strutture

adatte ad un museo secondo il piano regolatore, ma io non voglio che diventi una mostruosità post-moderna. Perciò, intanto che il cantiere è sotto sequestro ne approfitto per cercare i progetti originali. Sono sicura che devono essere qui, in qualche libro. I monaci conservavano tutto, deve esserci per forza.

– Se non fosse qui, e non sarebbe un caso, potresti cercarlo all’Archivio di Stato.

Alexandra mi sembrava così infervorata nelle sue ricerche che mi venne spontaneo sostenerla. Non avevo mai visto nulla progettato da Rafael, ma sospettavo, da quello che mi aveva detto Alexandra, che fosse piuttosto eclettico e portato verso l'architettura moderna.

– Anche l'altro architetto, quello che è morto, voleva progettare un museo futuristico, qualcosa di simile ad una cattedrale. Ma il Convento è mio, e si farà come dico io.

Mentre parlava notai che era molto pallida e aveva le mani livide, nonostante fosse una bella giornata d'estate e il sole caldo entrava dalla finestra scaldando la stanza. Si stringeva nel suo scialle e a volte rabbrividiva.

Nella mano destra portava un anello, l'unico che indossava, di fattura molto antica, una fascia d'oro con incisioni celtiche smaltate

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di rosso scuro. Un gioiello d’alta oreficeria. Doveva essere appartenuto a un’antenata. Le era largo e voltando le pagine tentava spesso di sfilarsi, ma lo rimetteva a posto con gesti nervosi.

Sapevo di essere un tipo fuori dal normale, ma che addirittura la mia presenza innervosisse le persone mi sembrava eccessivo. Tentai di cambiare argomento, per alleggerire l'atmosfera.

– Rafael mi ha detto che cercate un vecchio testamento, del quale se ne parla in una delle cronache.

– Si. – Alexandra s’illuminò improvvisamente, o così mi parve. – Leggendo questi diari abbiamo scoperto che una mia antenata, una certa Duchessa Savanne, era ereditiera del castello di Fairy Manor. Ma suo cognato, dopo che Savanne assassinò il marito, la fece rinchiudere nel Convento e impugnò il testamento. Questo accadde poco prima che i normanni invadessero l'Irlanda, occupandola. Savanne e suo marito Rhodry furono gli ultimi duces di Fairy Manor irlandesi, nonostante Enrico II d'Inghilterra avesse tentato di richiamare all'ordine di suoi sudditi per fermare l'ondata d'invasione. – parlando le era tornato un po' colore sulle guance scavate. Non mi ero resa conto, il giorno prima, dell'aria malata che aveva la mia amica e delle occhiaie scure che le segnavano gli occhi azzurri. Eppure non mi aveva detto nulla nelle sue ultime lettere. Non potei fare a meno di iniziare a preoccuparmi.

– Ally, sei molto pallida. Vuoi che ti faccia preparare qualcosa di caldo? Hai un aspetto malato.

– È perché non dormo molto in questo periodo. Ho sempre strani incubi, sono molto stanca e non riposo bene. Poi, c'è la faccenda del Convento a darmi altri pensieri.

– Hai chiesto al tuo medico di darti dei tranquillanti? – Non ce n'è bisogno, credimi. Forse dovrei cambiare aria, andare

al mare. Rafael mi ha proposto di passare una settimana a Valencia per ricambiare la mia ospitalità.

– Io accetterei se fossi in te. Il cantiere resterà fermo comunque, anche quando la polizia toglierà il sequestro. Prenditi un po' di riposo in un luogo caldo. Sono sicura che Rafael ti farà passare una settimana stupenda.

– Ne sono certa. – Alexandra sorrise, giocando con l'anello celtico.– Ma prima voglio trovare il progetto del Convento, e magari anche il testamento della Duchessa. Perché non mi aiuti?

– Volentieri. Che aspetto ha un testamento?

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Ridemmo della mia ignoranza delle lingue antiche e fui certa che Alexandra non mi odiasse. Era solo risentita perché il mio lavoro e la mia presenza la metteva in competizione con me di fronte a Rafael. Bene, se le cose stavano così, lo spagnolo era tutto suo.

Per ora.. . .

Verso mezzogiorno la lasciai per scendere nella mia stanza. Presi in mano la cornetta del telefono e digitai il numero di

cellulare di Luca. Se non era al Conservatorio ad insegnare, doveva già essere a casa. La società dei telefoni m’informò che il cellulare non era attivo. Composi allora il numero di casa sua, che suonò a vuoto per un'eternità. Senza perdere la speranza, digitai il numero della mia segreteria per ascoltare gli ultimi messaggi, ma fra gli auguri di buone vacanze delle amiche non vi era alcun messaggio di Luca.

Se io avevo preso un aereo per l'Irlanda, lui probabilmente ne aveva preso uno per l'India. Stavo per staccare la comunicazione quando riconobbi la voce dell'ultimo messaggio: era di Alexandra. Mi aveva chiamato il giorno che ero partita?

– "... così non è necessario che tu venga con tanta urgenza. Se volete spostare le vacanze a settembre, come mi avevi proposto prima, per me va bene. Vi aspetto tutti e due. Quando arriverete troverete il museo già pronto. Anzi, vi manderò l'invito per l'apertura, va bene? Salutami Luca. Ti mando un bacio." – seguì lo schioccare di un bacio telefonico, poi s'interruppe la serie di messaggi.

Posai la cornetta sull'apparecchio, fissandolo disorientata. Rafael aveva ragione, Alexandra mi aveva chiamato per disdire l'invito. Ecco perché non avevo ricevuto il corteo di benvenuto che mi aspettavo.

Rafael aveva dovuto usare tutto il suo charme per convincere Alexandra a non sbattermi fuori di casa.

Mi sedetti sul letto, prendendomi il viso nelle mani.Avevo un biglietto di ritorno nella borsa e un aereo prenotato per

qualunque momento fossi voluta rientrare in Italia. Perché cercavo ancora un buon motivo per restare?

Qualcosa in fondo al cuore mi stava dicendo che mi ero sbagliata a giudicare le due persone a cui tenevo di più, dopo Luca.

Avevo erroneamente interpretato loro amicizia epistolare,

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pensando potesse essere pari a un'amicizia fisicamente vissuta. Tra Rafael ed Alexandra pareva esserci un rapporto molto più profondo e complesso che fra me e quei due.

Lì al castello ero solo un'intrusa. Se Rafael aveva convinto Alexandra a farmi venire lì, era solo per la sua smania di fare carriera. Voleva fare bella figura e vantarsi anche del mio lavoro.

Ero abituata ad avere a che fare con gente simile, ma almeno avevano il buon gusto di non professarsi miei amici.

Rafael non mi era sembrato un uomo di quel genere. Aveva sempre sostenuto di apprezzare molto le donne lavoratrici e con un po' di sale in zucca.

Alexandra, poi, era completamente diversa da come si presentava via lettera o per telefono. Sembrava un'altra persona, così riservata e scostante, come se io fossi stata un'estranea.

La porta della mia camera si spalancò di colpo e sussultai per lo spavento.

– Celine? Verresti con me al Convento? Guardai Alexandra impalata sulla porta, con già addosso una

giacca di camoscio.– Al Convento? Cos'è accaduto? – Nulla. Mi è venuta in mente una cosa che non avevo valutato. – È mezzogiorno, Ally. Erin starà preparando il pranzo. Possiamo

andarci più tardi. – dopo le ultime scoperte che avevo fatto non mi andava più di assecondare il fanatismo di Alexandra per il suo Convento.

– Erin non cucina mai a mezzogiorno. Ci fermeremo a Laragh al ritorno, va bene?

Se le cose stavano così... Sarei comunque dovuta scendere in paese per pranzare. Da brava italiana quale ero non mi andava di saltare il pranzo come facevano spesso gli inglesi.

Ne avrei approfittato per rivedere alla luce del giorno la casa della mensa, in modo da definire un preventivo di spesa per il restauro. Dopo di ché, al ritorno, avrei telefonato all'aeroporto per prenotare il primo volo per Milano.

Prendemmo la mia Ford e durante il tragitto fino al Convento Alexandra mi spiegò il motivo di tanta fretta.

– Nel diario dell'ultima Badessa ho trovato qualcosa di molto interessante. Pare che la Duchessa Savanne fosse stata rinchiusa nella stanza della torre campanaria fino alla sua morte. Ho pensato

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che è l'unica stanza di tutto l'edificio che non abbiamo ancora aperto. Chissà cosa troveremo là dentro. Secondo me è lì che le monache nascondevano i documenti più importanti.

– In una cella? Col rischio che qualcuno li distruggesse? Iniziavo a credere che Alexandra avesse letto troppi libri gialli.– Può darsi. Ma vale la pena accertarsene, no? Le torri circoli

anticamente venivano utilizzate dai monaci per conservare i documenti importanti dall'umidità delle pioggie e dal fuoco in caso di assedio. Non so perchè non ho pensato prima di guardare là dentoro

– Ti ricordo che il cantiere è sotto sequestro. Non ci lasceranno aprire la porta della stanza.

– Ho già telefonato alla centrale di polizia per chiedere il permesso di farlo. L'agente di guardia ci accompagnerà per accertarsi che non saliremo sulla torre per trafugare delle prove.

Dovevo ammettere che Alexandra era un tipo organizzato. Organizzato e cocciuto.

Quando arrivammo al Convento l'agente di guardia ci venne incontro con un'espressione indecifrabile.

– Ho ricevuto una chiamata dalla centrale. Mi hanno detto che volete aprire una porta...

Gli facemmo segno di seguirci e infilammo la scala della torre campanaria. Arrivati al pianerottolo restammo inevitabilmente a fissare la porta chiusa con i cardini arrugginiti.

Guardai Alexandra, la quale mi fece un gran sorriso.– Sai usare un flessibile? – mi chiese.– Certamente. – Che razza di restauratrice ero se non sapevo usare

un semplice utensile? – Vediamo se riusciamo a trovarne uno per tagliare questi

catenacci. L'agente di guardia ed io ci guardammo disorientati.– Possiamo farlo? – gli chiesi incerta.L'uomo scrollò le spalle. A lui non importava. Quella porta non era

certamente collegata agli incidenti avvenuti sul cantiere.Scesi nel cortile e cercai tra l'attrezzatura abbandonata

dell'impresa edile. Trovai un piccolo flessibile che dovevano aver usato per tagliare le pietre, lo collegai con una prolunga alla centralina elettrica che era stata installata nella casa della mensa e tornai sulle scale così attrezzata.

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Non avevo nulla per proteggermi dalle schegge di ferro, ma sarei stata attenta. Feci allontanare Alexandra e il poliziotto, il quale fissava ogni mio movimento con un certo stupore: non aveva mai visto una donna con in mano un flessibile? Evidentemente no. Probabilmente, solo con in mano un fucile a ripetizione, in Irlanda erano abbastanza comuni gli attentati terroristici.

Tagliai i catenacci dove entravano nella spalla del muro e posai a terra il flessibile. Provai a spingere la porta, ma doveva essersi bloccata con la polvere. Anche i cardini potevano essere arrugginiti.

– Coraggio, datemi una mano a spingere. In tre iniziammo a dare spintoni e calci alla porta finché

riuscimmo ad aprirla quasi trenta centimetri. Era un passaggio stretto, ma sia io che Alexandra riuscimmo ad entrare, mentre il poliziotto dovette attendere fuori, sbirciando solo con la testa.

La stanza era completamente vuota. Non c'erano neppure nicchie nelle pareti dove poter appoggiare qualunque cosa. Il finestrino aveva solo quattro piccole sbarre e da lì vi entrava un'aria fredda e fastidiosa. Escrementi di uccelli colavano lungo la parete, rinsecchiti da anni, grazie al fatto che nulla impediva loro di entrare e posarsi sul davanzale. Le pareti di pietra levigata erano coperte da strani disegni scuri dipinti a caso senza un ordine prestabilito.

Alexandra si era avvicinata a una parete e fissava i disegni sfiorandoli con le dita.

– È incredibile... – Cosa? – mi avvicinai a lei, incuriosita. Sarebbe stato bello poter

ripulire anche quei colori, in modo da riportare la stanza al suo antico splendore.

– È gaelico medio. Guarda qui... – mi indicò quella che pareva una cornicetta di svolazzi, per me che ero una profana in lingue antiche. – È una maledizione: " tradi...mento ... disgrazia... e... dann... dannazione... "

– Non toccare la parete con le mani. Rovineresti i colori e potresti prendere qualche infezione. Chissà quali muffe si sono formate qui dentro negli ultimi novecento anni.

– È fantastico! C'è un diario stampato su queste pareti! Devo prendere i miei dizionari e tradurre tutto! – si volse verso di me, come trasfigurata. – Molte parole sono ricoperte di polvere. Saresti in grado di ripulire tutto in modo che si possano leggere le scritte?

Fissai Alexandra con compatimento.

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– Ally... ci vorrà una vita. Dovrei far analizzare il colore che è stato usato, tentare di riprodurlo come l'originale e installarmi qui per almeno due mesi. Pensi che ne valga la pena?

Alexandra per poco non si mise a piangere. Tornò a guardare le pareti, camminando come in trance intorno alla stanza.

– Ne vale la pena, Celine. Qui è morta una mia antenata, l'ultima Duchessa di Fairy Manor. È un fatto storico di importanza nazionale.

Mentre ascoltavo Alexandra vaneggiare le sue visioni mi chiesi come avesse fatto la Duchessa a scrivere quelle frasi.

A quanto pareva era stata un'assassina. Che senso aveva darle del colore per scrivere sulle pareti? Non credevo che la Badessa lo avrebbe permesso. Probabilmente, dopo la morte della Duchessa, che doveva essere stata seppellita, visto che non c'erano scheletri nella stanza, qualcuna delle monache era salita nella torre per sfogare il suo malumore con un pennello e un barattolo di sanguigna o di terra bruciata. Oppure con l'inchiostro ricavato dalle solanum nigrum. Anticamente lo estraevano dalle bacche mature di quella pianta. Non era una cosa così impossibile, dal momento che le monache e i monaci erano famosi per i loro distillati sia di frutta che di erbe e per le miniature che dipingevano sui libri. La solanum nigrum era una pianta medicamentosa che poteva far parte dell'erbario delle monache. Se non ricordavo male era anche abbastanza velenosa.

– L'unico modo per sapere se è stata la tua Duchessa a dipingere le pareti è far analizzare un campione di colore. Ho un'amica italiana che lavora a Londra per una casa farmaceutica. Le chiederò un favore personale. Può darsi che i disegni risalgano a qualche secolo prima del 1000. –

– No, sarebbero scritti in gaelico antico. – Alexandra si strinse nella giacca, con un brivido. – Torniamo di sotto. Qui dentro fa freddo.

Riportai nel cortile l'attrezzatura che avevo usato per tagliare i catenacci, seguita da Alexandra e dal poliziotto che discutevano fra loro la possibilità di iniziare subito i restauri nella stanza della torre campanaria.

Li ascoltavo si e no. La faccenda per me aveva perso di interesse da quando avevo ascoltato quel messaggio sulla segreteria.

Avrei dato il numero di telefono di Lucia a Alexandra, in modo che avrebbero potuto analizzare i colori della stanza, ma mi sarei ben

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guardata di mettere le mani su quel restauro. A Alexandra non importava nulla se lo avessi fatto io o qualcun altro. Se i due incidenti l'avevano spaventata al punto di convincerla a vendere tutto, l'apertura di quella stanza le aveva ridato l'entusiasmo, come se non fosse accaduto nulla.

Ero talmente demoralizzata che con una scusa evitai di fermarmi a pranzo a Laragh. Avevo solo voglia di fare le valigie e tornarmene a casa mia.

Alexandra fu contenta di non fermarsi al ristorante perché voleva riprendere a decifrare i suoi vecchi libri.

A quanto pareva, nessuna delle due voleva trovarsi a dover sostenere una farsa di conversazione.

Appena tornammo al castello, Alexandra corse a cercare Rafael per raccontargli della sua scoperta.

Io me ne tornai nella mia camera per fare le valigie. Tentai nuovamente di chiamare Luca, ma non riuscii a rintracciarlo. Potevo sperare che fosse fuori città per lavoro, in modo da rientrare a casa prima che venisse a sapere che ero partita.

Capitolo 7

Non esisterebbe l'inferno,Non esisterebbe il dolore, Non esisterebbe la paura, Se non fosse per me.

( " Il lamento di Eva "Antica poesia irlandese )

Convento di S.Brigida, Anno Domini 1172

Il coltello che teneva tra le dita aveva una lama gelida e un'impugnatura di legno rovinato. L'aveva nascosto sotto il pagliericcio, dopo che avevano portato la solita misera cena a base di acqua, pane e una mela.

Savanne fissava quella lama sporca e arrugginita senza vederla veramente, la mente persa in morbosi pensieri. Aveva il corpo stravolto dal parto del giorno prima, operazione che le aveva tolto

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le ultime forze rimaste. Non riusciva neppure ad alzarsi dal pagliericcio. Se ne stava lì a fissare la lama alla poca luce che entrava dal lucernaio, e pensava, pensava...

La Badessa aveva nascosto il testamento, dopo che la Duchessa era stata portata al Convento in catene e rinchiusa in quella cella. Erano passati mesi interminabili, in cui il suo ventre si era gonfiato, in assoluto segreto.

Savanne non poteva immaginare la sorte che le sarebbe capitata dopo il tradimento di Arthur. Se solo Rhodry avesse potuto sapere che suo figlio era nato... ma probabilmente, dal luogo dove riposavano i morti di morte violenta, aveva visto tutto quello che era capitato alla sua sfortunata famiglia.

Neppure lei sarebbe sopravvissuta a lungo. Si sentiva svuotata di ogni scopo per continuare a vivere.

Ora che il bambino era nato non aveva più alcun motivo per lottare. Però non avrebbe lasciato che la verità morisse con lei.

Si sollevò con uno sforzo di volontà e rimase intontita e tremante in ginocchio sul pagliericcio, fissando la parete alla sua sinistra.

Il muro era asciutto, di pietra grigia, dura e levigata. Appoggiò la punta del coltello alla pietra, ma non riuscì a scalfirla, neppure a segnarla. Stremata, si ripiegò su sé stessa e chinò la testa. Sarebbe stato così facile fare quello che le suggeriva la disperazione! E perché non farlo, poi? Cosa aveva da perdere?

Nulla, poiché le era stato tolto tutto, anche suo figlio.La Badessa Giulianne lo aveva portato via subito, senza farglielo

vedere.Con un movimento ipnotico fece scivolare la lama sul polso, poi

rimase a guardare il sangue scuro che usciva dal taglio. Lo toccò con le dita dell'altra mano, poi contemplò quelle dita macchiate di rosso appiccicoso. Posò la mano contro la parete di pietra, schiacciandola con forza e quando la tolse fissò l'impronta di sangue lasciata dalla mano. Era affascinata da quella forma così vivida e così precisa. Intinse di nuovo le dita nel proprio sangue e tracciò sulla parete il proprio nome.

“Io sono Savanne Donninghton, sposa di Rhodry O'Connors e Signora di Fairy Manor, prigioniera e sepolta viva... Il mio sangue parla per me a chi leggerà le parole mai dette, il sangue che può lavare quest’ingiustizia, il sangue versato da Rhodry e da Savanne... Io maledico i miei carcerieri, maledico l'assassino di

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Rhodry... Tradimento, tradimento, tradimento.... Disgrazia e dannazione al traditore Arthur... Morte a lui e alla sua discendenza... Brucino all'inferno insieme a me e al mio sposo... Nessun O'Connors sul trono di Fairy Manor.”

Una lenta nenia le usciva dalle labbra screpolate dalla sete, mentre il sangue colava a fiotti sul sacco che era il suo vestito e sul pagliericcio, colava dal muro e tracciava strani arabeschi tra le fughe dei blocchi di pietra.

Capitolo 8

I necromanti sono creatori di vampiri; non piangiamo, dunque ,se muoiono rosicchiati dai morti!

( Elifas Levi – Storia della Magia)

Fairy Manor, luglio 1993

Stavo chiudendo la valigia quando la porta della mia camera si aprì di nuovo, senza permesso.

Mi volsi già con le parole in bocca per Alexandra, quando vidi Rafael trafelato ed ansante.

– Alejandra si è sentita male. Lo seguii senza discutere giù per le scale fino al salottino dove

Alexandra era appena svenuta. Erin e Lorcan stavano tentando di farla rinvenire, mentre Rafael prendeva il telefono per chiamare il medico.

Mi chinai accanto al divano dove avevano steso Alexandra, prendendole una delle mani gelide.

Rafael ci raggiunse poco dopo.– Il medico sarà qui tra pochi minuti. Fortunatamente era in

ambulatorio. Presi Rafael da parte per non farmi sentire dai domestici e gli

parlai in italiano.– Stamattina aveva una brutta cera. Mi ha detto che dorme poco e

non riesce a riposare. Non starà covando qualche strana malattia? Quei libri che si è portata nello studio sono vecchi e ammuffiti, e

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potrebbero essere infettati da escrementi di topi o altri animali. Il Convento è rimasto disabitato per anni. Se ha preso un'infezione ha bisogno di cibo, riposo e antibiotici.

Rafael mi guardò come se fossi scesa da Marte, poi dovette ripensare a quello che gli avevo detto perché lo vidi farsi serio.

– Vorrei tanto poterti dare torto. – Lo vorrei avere anch'io. Cosa diremo al medico? – Non saltiamo subito alle conclusioni. Aspettiamo che la visiti e

poi vedremo. Alexandra rinvenne in quel momento. Le toccai la fronte che aveva

iniziato a scottare e pensai che aveva delle buone difese immunitarie. Tuttavia avrei chiesto al medico di farle un esame del sangue.

Quando arrivò il dottor Rowse, Alexandra iniziò a protestare che stava bene e che non voleva essere visitata, ma il medico era un tipo sbrigativo e non esitò un istante a farla trasportare in camera per visitarla da capo a piedi.

Mentre attendevamo in corridoio, raccontai a Rafael della nostra visita al Convento e della stanza che avevamo aperto.

Anche lui si mostrò molto incerto a proposito dei disegni nella stanza della torre, soprattutto sulla teoria di Alexandra che erano opera della Duchessa assassina.

Infine non potei più attendere a dargli l'ultima notizia del giorno.– Ho prenotato un aereo per domani mattina. Rafael mi guardò meravigliato e solo dopo un po' gli tornarono le

parole.– Cos'è accaduto? – Nulla di grave. Mi sono solo resa conto che Alexandra non tiene

ad avermi qui. A lei interessava che ci fossi tu. Tornerò a trovarla quando e se il museo sarà terminato.

– Ma... non puoi partire ora... ha telefonato Luca che sta per arrivare... è partito un'ora fa da Vienna...

Questa volta fui io a guardarlo come se fosse stato un marziano. Cosa aveva combinato Rafael? Aveva chiamato Luca per farlo correre qui? Io non ero riuscita a rintracciarlo, lui come ci era riuscito?

– Ti ha detto perché sta venendo? – Ma... per te suppongo... – Non supporre cose che non sai. Luca ed io abbiamo litigato. Non

sapeva neppure che ero partita. – Qualcuno deve averglielo detto, dal momento che sta arrivando.

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Presi un profondo respiro, cercando di capire perché tutti intorno a me sembrassero impazziti.

– Ha detto che atterrerà a Dublino tra un'ora e che spera che qualcuno lo vada a prendere. – precisò Rafael.

– Si, certo. – Per dare una lezione ad entrambi avrei dovuto mandare Rafael a Dublino a spiegare a Luca che non lo volevo vedere.

Il medico uscì dalla camera di Alexandra e si chiuse la porta alle spalle. Ci invitò a scendere in un salotto a parlare, per non farsi sentire da lei.

– La ragazza è piuttosto debilitata. È sotto peso, ed è facilmente esposta a qualsiasi virus. Ha bisogno di mangiare regolarmente, di riposare e di restare in un ambiente antisettico. Mi ha detto che sta studiando su alcuni vecchi libri... Non è bene che li tocchi, almeno per un po'. Dovrete costringerla ad usare una mascherina e guanti di lattice. Che voi sappiate, nell'ultimo periodo ha sofferto di anoressia?

Guardammo il medico con aria contrita. Gli spiegammo che eravamo amici di Alexandra, ma che era la prima volta che la incontravamo di persona. Forse avremmo dovuto informarci presso la sua famiglia.

– Per prevenzione le ho preso un campione di sangue. – continuò Rowse. – Vi farò sapere al più presto in che condizione si trovano i suoi valori metabolici.

Quando il medico se ne andò, Rafael salì da Alexandra per tenerle compagnia, mentre a me non restava che prendere la Ford e andare a Dublino, all'aeroporto.

Perché diavolo Luca aveva deciso di venire?! Quando avrebbe smesso di prendere iniziative senza consultarmi?

...Quando arrivai a Dublino era ricominciato a piovere. Lasciai l'auto

al parcheggio ed entrai nel grande atrio dell'aeroporto, cercando fra la gente il viso di Luca e i suoi capelli biondi. Lo trovai accanto al nastro trasportatore mentre attendeva che arrivasse la sua valigia.

Quando lo chiamai si volse subito, poi sorrise.– Celina! Mi abbracciò forte e mi baciò con il suo solito entusiasmo

straripante. Mi erano sempre piaciuti i tipi esuberanti, per questo stavo con Luca. Fino a due giorni prima. Ma lui ancora non lo sapeva.

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– È stato un successo! Un'esecuzione magnifica! L'orchestra, il direttore, la solista... Avresti dovuto esserci! Il pubblico non smetteva di battere le mani, hanno lanciato fiori sul palco, la solista si è messa a piangere per la commozione!

Chiamai Luca un paio di volte per fermare il fiume di parole che gli usciva dalla bocca, finché parve tornare alla realtà e mi diede ascolto.

– Luca, cosa ci fai qui? Lui mi guardò senza capire.– Come sarebbe a dire “cosa ci faccio qui”? Non dovevamo venire

in Irlanda? Se non sbaglio tu sei qui. O sei un clone di Celina Gandini?

Evitai di ridere a quella pessima battuta, cercando di riportare in carreggiata la mente sballata di Luca.

– Se non ricordo male avevamo programmato una vacanza... – ricominciò lui.

– Se continui a ricordare, però, sostenevi di non poterti allontanare dal Conservatorio neppure per un giorno, così abbiamo litigato ed io ho detto che sarei partita da sola e mi sarei cercata qualcuno che tenesse più a me che alla musica.

Luca annuì, mi abbracciò di nuovo e mi batté le mani sulle spalle.– So cosa hai detto e so che lo hai detto in un momento di rabbia,

che non lo pensavi veramente. Perciò sono partito subito stamattina, ma ho impiegato un sacco di tempo per il chek-in e i vari scali. Non sono riuscito a trovare un volo diretto. Oltretutto non sono riuscito a rintracciarti. Sai che in aereo non si può usare il cellulare. Quando ho potuto prendere la linea mi ha risposto quello spagnolo, come si chiama, Rafael, giusto, e mi ha detto che ti avrebbe avvisato subito appena rientravi. Avrei tanto voluto che tu ci fossi stata ieri sera, ti sei persa uno spettacolo fantastico...

Mentre Luca m'illustrava nei particolari il fantastico spettacolo che mi ero persa la sera prima all'Auditorium del Conservatorio, afferrai la sua valigia e gli feci strada fino alla Ford.

Continuò a parlare e a gesticolare ininterrottamente per tutto il tempo che trascorremmo in auto, mentre io mi distraevo a volte a causa del movimento ipnotico del tergicristalli e della musica dell'autoradio.

Avevo conosciuto Luca per caso. Suo padre stava ristrutturando una villa settecentesca nella periferia di Milano ,e mi aveva chiamato

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per restaurare una decina di porte intagliate a mano, un lavoro da certosino.

Luca era rimasto folgorato appena mi aveva visto, io avevo impiegato un po' più di tempo ad innamorami di lui, ma alla fine avevo ceduto. Tuttavia ora lo vedevo con gli occhi di un'estranea. Il suo entusiasmo non mi esaltava più come una settimana prima, il suo parlare a macchinetta, che tempo prima aveva riempito i miei lunghi silenzi, ora era quasi fastidioso. Iniziavo a chiedermi se avrei retto una settimana intera con lui a Fairy Manor, dove non eravamo i benvenuti, oltretutto.

Mentre rispondevo a monosillabi alle sue chilometriche domande, stavo pensando se a Wicklow avrei trovato un albergo o una pensione. Mi fermai proprio lì, decidendo che era ora di prendere le redini della situazione, visto che ognuno faceva a modo suo da un po' di tempo a quella parte.

Trovai una pensione che aveva anche un piccolo ristorante. Con il trambusto che c'era stato al castello avevo saltato il pasto, così mentre preparavano una camera al piano superiore ci sedemmo a un tavolino ed ordinammo due piccole “trote salmonate saltate alla selvaggia”, un'altra ricetta del posto, così mi dissero.

Finito di raccontarmi il suo spettacolo, Luca volle sapere se avevo fatto un giro nella zona in quei due giorni.

– Veramente no. Direi che ne varrebbe la pena. Alexandra mi ha detto che qui nella contea sono stati girati molti film famosi come Henry V di Lawrence Olivier, Excalibur di Boorman, Il mio piede sinistro di Pearson.

Se speravo di far tacere un attimo Luca mi ero sbagliata. Appena li nominai, prese ad elencare tutti i film che erano stati girati in Irlanda e isole limitrofe, descrivendone la qualità tecnica e la fotografia.

Me l'ero cercata, non dovevo lamentarmi.Mentre pulivo la mia trota dalle lische mi chiesi cosa ci stessi

facendo in Irlanda, con Luca dall'altro lato del tavolo che s’intratteneva da solo, con Alexandra a letto malata e Rafael che non aveva ancora avuto una mia risposta, mentre io con lui avrei voluto farci di tutto meno che rispondergli, s'intende.

Se avessi potuto mandare indietro l'orologio forse non sarei partita.

Se avessi potuto mandarlo avanti, avrei voluto trovarmi a un paio

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di paralleli di distanza da lì, magari a Valencia.– Che ne diresti se stasera cenassimo tutti insieme? Alzai il viso dalla trota e guardai Luca un po' dispiaciuta.– Ho scordato di dirti che Ally non sta bene. Posso chiamare

Rafael per chiedergli come si sente ora, ma il medico le ha ordinato molto riposo. Non credo abbia voglia di avere gente in casa.

Luca rimase zitto un attimo, poi buttò lì un po' incerto.– Non sapevo che Alexandra e Rafael avessero una relazione. – Non risultava neppure a me, ma in questi due giorni non

abbiamo avuto un gran dialogo io e quei due. Se ne stanno molto sulle loro, specialmente Ally. Ho scoperto che non le interessava affatto un mio parere sul Convento, mentre interessava a Rafael per alzare la percentuale sul suo contratto.

– Cosa ti aspettavi? Che ti accogliessero a braccia aperte? È la prima volta che li vedi!

– Non vuol dire nulla. Siamo amici da tanti anni. – Evidentemente è quello che ti hanno fatto credere, finché potevi

essere loro utile. Sei molto ingenua Celina. È uno dei tuoi difetti più grossi.

Grazie per avermelo ricordato.Purtroppo non si limitò a ricordarmi di quel difetto. Me n’elencò

molti altri che sapevo di avere e altri ancora che non sospettavo, altri che avevo ereditato dalla mia famiglia, altri che avevo trasmesso anche a lui...

Fissai il mio calice di vino bianco fermo, cercando di capire perché quel liquido giallino mi attirasse così pericolosamente verso di sé, perché avessi una così gran voglia di sentirmelo scivolare dentro gelido e poi incendiarsi nello stomaco e salirmi al cervello, oh si, e annebbiarlo tutto, galleggiare di vino, intontirmi di dolci suoni attutiti, come tappi nelle orecchie, per non sentire l'alta marea che mi stava sommergendo, l'alta marea delle infinite lamentele di Luca.

Aveva ragione, non potevo negarlo. Ero terribilmente ingenua.. . .

Passammo il resto del pomeriggio visitando i giardini di Powerscourt a Enniskerry e Russborough House a Blessington.

Luca era estasiato ed eccitato come un bambino a una gita scolastica, mentre io con la testa pensavo ad altro. Perché doveva finire in quel modo? Avevamo parlato tanto della nostra vacanza in Irlanda, facendo un sacco di progetti, e il tutto si era risolto in una

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delusione su tutta la linea. La magia si era dissolta e mi ero ritrovata a guardare con occhi disincantati la realtà nuda e cruda.

Verso sera riportai Luca alla pensione a Wicklow. Lo accompagnai fino alla porta della stanza e lo salutai.

Lui mi guardò con stupore.– Non ti fermi qui? Rimasi interdetta senza sapere cosa rispondere. Aveva creduto che

dividessi la stanza con lui? Se lo poteva sognare. Avevo di meglio a Fairy Manor!

– Ritorno al castello. Ho tutta la mia roba là. – Puoi tornare a prenderla domani. – Mi spiace, Luca. Non avevo previsto di fermarmi a Wicklow.

Non ho portato neppure un pigiama. – Un pigiama. Quando mai ti metti il pigiama per andare a letto? Accidenti a lui!– Qui fa freddo di notte. Spero che tu ne abbia uno, ti accorgerai di

averne bisogno. Luca mi abbracciò e mi baciò. Il suo solito sistema di

convincimento rapido questa volta non ebbe alcun effetto. Ero stata ben attenta a non bere più di mezzo calice di bianco. Ero abbastanza sobria da non farmi più imbrogliare.

Gli battei una mano sulla spalla, come faceva lui con me.– Buonanotte, Luca. Copriti bene, mi raccomando. – Celina... – Ci vediamo domani. Il mio aereo parte alle dieci. Forse

riusciamo a trovare un posto anche per te, a meno che tu non voglia trattenerti a Wicklow ancora qualche giorno.

– Ma Celina... Lo salutai con la mano e scesi le scale della pensione. Non mi volsi

più indietro, non commisi l'errore della moglie di Lot. Per me Luca era una faccenda chiusa, era ora che anche lui ne prendesse atto. Forse non avevo avuto tatto, ma del resto lui con me non ne aveva mai avuto molto.

Capitolo 9

“Che il focolare dell'inferno sia per l'eternità

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il letto del tuo riposo!”

( Antica maledizione irlandese )

Convento di S. Brigida, anno domini 1172

La Madre Superiora gettò i fiori nella fossa insieme con un pugno di terra d'Irlanda, pregando. Le monache assistettero alla scena senza fiatare, prese da un terrore che si andava affievolendo di mano in mano che le ore passavano da quando avevano trovato Savanne morta dissanguata nella torre campanaria.

La Madre non aveva permesso a nessuno di entrare, ma Clementine, che aveva trovato il cadavere, giurava di aver visto i muri colare sangue e ovunque la parola "tradimento".

Il becchino ricoprì la alma avvolta in un sudario con la terra rossa, poi pose la lapide. La Madre vi aveva fatto incidere un epitaffio senza nome né data di nascita o di morte. I suicidi non potevano per legge essere seppelliti in terra consacrata, ma per la Duchessa avevano fatto un'eccezione.

L'epitaffio diceva solamente: “Morì per vivere, visse per amore, amò fino alla morte.”

Clementine lo trovava di pessimo gusto. La morta era pur sempre un'assassina. Aveva o no ucciso il marito con un pugnale? La notte di nozze, oltretutto! Per fortuna il Dux Arthur aveva sorpreso la donna. Il poveretto era così sconvolto per la morte del fratello che non era stato capace di imprigionare e giustiziare Savanne. L'aveva consegnata nelle mani della Madre e non voleva più sentire parlare di lei.

La Madre fu l'ultima a lasciare il cimitero. Teneva in mano un anello d'oro, una fede nunziale. L'aveva tolta di nascosto al cadavere prima che il cadavere fosse avvolto nel sudario. Lo guardò a lungo, indecisa, poi tornò nella sua cella.

Le mura gelide del convento le si strinsero addosso con la loro umidità e il sentore costante di muffa. I sandali di cuoio schioccavano sulla pietra, facendo eco ai passi. Non si fermò alla cappella. Procedette spedita e dritta come un fuso verso l'ala riservata alle celle delle monache, intrecciando le mani dentro le maniche per riscaldare le dita intirizzite. Savanne si era tolta la vita in un inverno gelido e devastato dalle incursioni dei normanni.

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L'uomo vestito di nero e con il volto coperto che la stava attendendo alla sua scrivania le fece un cenno con il capo in segno di saluto. La Madre rimase un attimo sorpresa di trovarlo lì senza preavviso, ma evitò di far trasparire dal viso le sue emozioni.

– Com'è morta? – le domandò con voce incolore l'uomo.– Velocemente. Nessun sospetto tra le mie consorelle. Sono quasi

contente che sia morta. Iniziavano a stancarsi e a innervosirsi. – Il testamento, lo avete trovato? – le chiese lui.– Non ancora. – Non riusciamo a capire dove possa averlo nascosto. Siete

sicura che non lo avesse con sé quando l'hanno portata qui?– Le abbiamo tolto tutto, abiti e gioielli. Non aveva nient’altro

con sé. Se non lo ha consegnato a qualcuno durante il tragitto dal castello al Convento, non credo che l'abbia portato con sé.

– Chiedete alle vostre consorelle. Interrogatele e fatele parlare. Devo trovare quel pezzo di carta prima che finisca nelle mani dei Donninghton, o non ci sarà nessun altro O'Connors al feudo di Fairy Manor. E non ci saranno altre Madri dopo di voi. – L'uomo in nero si alzò e uscì dalla cella senza salutare.

La Madre attese che l'uomo si fosse allontanato, poi prese il suo diario e iniziò a scrivere. Impiegò tutta la notte per confidare a quelle pagine quello che non poté mai confessare all'abate Morrigan.

A qualcuno doveva dirlo. Quel diario sarebbe stato letto solo dopo la sua morte, quando ormai nessuno avrebbe più potuto farle nulla. Mise all'ultima pagina la fede nunziale e la bloccò con la cera lacca. Poi chiuse il libro e lo ripose sulla mensola.

Capitolo 10

“Tutti coloro che sono pronti a morire anziché ad abiurare la verità e la giustizia sono veramente vivi, perché immortali nell'anima loro.”

(Elifas Levi – Il dogma e il rituale dell'alta magia)

Fairy Manor, luglio 1993

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Quando tornai al castello lo trovai immerso nel buio. Nessuno aspettava che rientrassi. Salii le scale lentamente, facendo attenzione a dove mettevo i piedi e mi fermai davanti alla porta di Alexandra, da dove, sotto di essa, filtrava una luce rossastra.

Bussai piano, e non ricevendo risposta aprii la porta con attenzione. Non volevo spaventare Alexandra, né svegliarla se stava dormendo.

Era la prima volta che mettevo piede nella sua stanza. La penombra della sera era appena rischiarata dalla luce schermata di un’abat-jour di stoffa che creava riflessi rossastri sui mobili, ma non era solo quella tenue luce a farmi rabbrividire: l'intera stanza era ingombra di reperti archeologici, antiche armi, statue di pietra con forme grottesche simili a gargoiles. Il deposito di un museo era certamente meno fornito. Non potei evitare di fissare con un certo timore mistico l'enorme croce di pietra scolpita che troneggiava appoggiata al muro tra le due finestre, come un monolite grigiastro tra le falde dei due tendaggi di damasco scarlatto. Le parole gaeliche scolpite sui bracci e sul cerchio che la racchiudeva erano rovinate dalle intemperie. Sotto ad essa, su quello che doveva essere un tavolino da toeletta, uno dei libri del Convento era aperto e bloccato con un segnalibro d'osso.

Alexandra era lì, seduta al tavolino, china sul libro con i lunghi capelli sciolti come un velo davanti al viso, la guancia posata su una mano chiusa in un pugno, l'altra mano che seguiva le antiche parole del libro. Lo scialle le pendeva da una spalla, quasi scivolato a terra, scoprendole la camicia da notte di lino, unico indumento che indossava in quella stanza gelida.

– Ally... – mi avvicinai a lei, chiudendo la porta alle mie spalle. – Ally non dovevi alzarti ancora... come ti senti?

Le posi una mano sul braccio e lei sussultò spaventata. Si volse a guardarmi tra il velo setoso dei capelli, uno sguardo febbricitante, gli occhi troppo lucidi e segnati.

– Celine... cara... sei tornata... – mi prese la mano, stringendola spasmodicamente. – È qui, è tutto scritto qui! – mi indicò le parole che non sapevo leggere ma che per lei erano la sua madrelingua. – La Badessa ha scritto tutto qui. Lei non era l'assassina. È stata tradita!

Guardai la mia amica accalorarsi nel tentativo di spiegarmi, e guardai le sue mani, inorridendo. Le sue dita affusolate erano

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scorticate come se avesse grattato il terreno roccioso, ed erano state medicate sommariamente con la tintura di iodio, tanto che le faceva sembrare ancora più gravi di quelle che erano. Fissai quelle mani con un crescente senso di apprensione, perché ero certa che Alexandra non era uscita da quella camera per tutto il giorno, perciò si era ferita da sola. Ma con che cosa, in nome di Dio?!

– Ally, non capisco. Chi è stata tradita? Di chi stai parlando? – Di Savanne! È stata tradita, l'anno incolpata di assassinio, ma è

stato il fratello del Duca! Capisci cosa significa? Savanne era innocente! – Alexandra scoppiò a piangere disperatamente.

– Si, cara, ho capito, non ti agitare. – Abbracciai Alexandra, cercando di farla calmare. – Sei troppo suggestionabile e non stai bene. Il dottore ha detto che non devi toccare i libri senza i guanti o peggiorerai l'infezione. Vieni, torna a letto. –

Incominciai a sospettare che quei graffi sulle mani se li fosse procurati mordendosi le dita. Se fosse stato vero, se l'agitazione di Alexandra era a quei livelli, iniziavo a capire perché era così denutrita e apatica. Il suo sistema nervoso stava crollando.

La costrinsi ad alzarsi e lei si aggrappò al mio braccio lasciandosi trascinare fino all'enorme letto a baldacchino dove l'aiutai a rimettersi sotto le coperte. Sul comodino il dottore aveva lasciato l'antibiotico con un biglietto dove aveva segnato quanto doveva prenderne e quando. Gli detti un'occhiata, e rimasi sorpresa nel vedere che accanto ad esso vi era anche un tranquillante molto potente per stati depressivi e disturbi mentali. Non potei fare a meno di riconoscerlo, perché un anno prima ne avevo fatto uso anch'io. Ma cosa ne faceva Alexandra di un antidepressivo? Mi aveva assicurato che non prendeva tranquillanti.

Alexandra non mi lasciava il braccio con la sua mano gelida e nervosa.

– Celine... devi tornare al Convento... – Al Convento? – non avevo ancora detto ad Alexandra che avevo

prenotato un volo per il giorno dopo. Ora però non trovavo il coraggio di lasciarla sola e in quello stato.

– Devi leggere le frasi sulle pareti della torre. La Badessa ha scritto che è una maledizione e ha fatto sigillare la camera perché nessuno sapesse. Ha scritto lei, capisci? Savanne ha scritto la maledizione prima di morire... Ha maledetto gli O'Connors e la loro discendenza... Io sono la discendenza...

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Rabbrividii al solo pensiero di ciò che Alexandra stava accennando. Mi trattenni dal farmi il segno della croce per scaramanzia, ma mi chinai su di lei e le baciai la fronte e i capelli scomposti.

– Non devi preoccuparti di queste cose. Penseremo a tutto Rafael ed io. Ora cerca di riposare un poco o la febbre non scenderà. Tornerò tra qualche ora per vedere se dormi, va bene?

Alexandra annuì, ma non lasciò il mio braccio.Mi fissò per un lungo istante, poi sussurrò piano.– Restami vicino, Celine. Non lasciarmi proprio ora... Mi si strinse il cuore a quelle parole. Sapevo che era sincera, ma

chi le aveva detto che sarei partita? Rafael?– Non me ne andrò finché non starai bene. Promesso. – Andrai al Convento? – Certamente. Porterò con me un quaderno e copierò le parole,

così potrai tradurle. Intanto farò esaminare i colori da Lucia, la mia amica a Londra, in modo che sia possibile recuperarli e fissarli, va bene?

Alexandra sorrise debolmente e finalmente allentò la morsa al mio il braccio.

– Sei una cara amica, Celine... – mise nelle mie mani il suo anello d'oro, poi chiuse gli occhi, lasciandosi sommergere dalla febbre e dalla stanchezza. Guardai l'anello e lo interpretai come un dono, o forse come una promessa. Con un sospiro me lo infilai al dito, accettando la sua richiesta di aiuto.

Uscii piano piano, lasciando la porta socchiusa, in modo che se Alexandra avesse chiamato avrei potuto sentirla.

La mia camera era di fronte alla sua, avrei lasciato aperta anche la mia porta. Non mi fidavo a lasciare Alexandra incustodita, ma avevo bisogno di riposare anch'io.

In mezzo al corridoio mi passai le mani sul viso, sentendolo gonfio di stanchezza, ma dovevo ancora fare una cosa prima di andare a dormire.

La porta accanto alla mia era quella della camera di Rafael.Bussai e attesi l'invito ad entrare, che arrivò con qualche attimo di

ritardo.Entrai senza esitare, ma rimasi imbarazzata a fissarlo mentre

usciva in accappatoio dal bagno, asciugandosi i capelli con una salvietta.

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– Scusami! Torno più tardi. – Non essere sciocca, Celinita! – Con un sorriso tra il malizioso e

lo sfacciato, Rafael mi indicò la poltrona accanto al letto. – Siediti. – Mi sedetti, lanciando un'occhiata alla bottiglia di whiskey che

Rafael teneva sul comodino con un paio di bicchieri.Rafael seguì il mio sguardo e fece un cenno col capo.– Serviti pure. Non è la tua marca preferita, ma è sempre whiskey. Evitando di commentare l'osservazione di Rafael mi vuotai un

quarto di whiskey e lo tenni tra le mani facendolo ondeggiare lentamente.

Rafael intanto si era acceso un cubano e si sedette sul letto. I capelli bagnati formavano una cascata di riccioli attorno al suo viso, come le immagini dei santi negli affreschi delle cattedrali. Chissà se anche l'arcangelo Raffaele era di origini latine...

– Allora, dov'è Luca? – A Wicklow. – Tutto solo? – Se lo merita. Sai quante notti sono stata lasciata sola io? –

Bevetti un sorso di whiskey e me lo sentii scendere come fuoco giù nello stomaco. Tra poco avrebbe fatto effetto e sarei stata meglio, molto meglio. Tutto si sarebbe fatto soffice e leggero e i pensieri tristi sarebbero fuggiti via come farfalle da un vaso lasciato aperto.

– Troppe, immagino. – mormorò Rafael, con un'occhiata compassionevole.

– Immagini bene, ma non sono qui per parlare di Luca. Ho visto Ally poco fa. Sei stato in camera sua?

Rafael annuì, tirando una boccata dal sigaro.– Si, ci sono stato. Curioso arredamento, non trovi? – Rafael... – mi fregai gli occhi con la mano libera. Il whiskey

iniziava a fare il suo effetto. – Quella stanza assomiglia alla camera mortuaria di una piramide. Manca solo la mummia, ma Ally la sta sostituendo con molta maestria.

– Non dovresti dire queste cose. Porta male. – Porterà male, ma è la verità. Posai il bicchiere sul comodino per evitare di farlo cadere.

Iniziavano a tremarmi le mani.– Dobbiamo cambiarle camera. Quella stanza è infetta. Ally non

guarirà se resterà chiusa con tutta quella polvere e quella roba vecchia. Nella camera dei suoi non c'è nessuno, non ci saranno

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problemi se si trasferirà finché Erin non avrà ripulito la sua da cima a fondo. Devi aiutarmi a convincerla che è per il suo bene.

Rafael mi fissò in silenzio finché non smisi di parlare, poi annuì di nuovo, espirando un nuvoletta di lento e denso fumo.

– Sarebbe la cosa migliore da fare. Vedo che ti stai prendendo molto a cuore la sua salute.

– C'è dell'altro. Le ho promesso che farò sistemare la stanza della torre campanaria e restaurerò i dipinti delle pareti. Forse quando li avrà tradotti per intero si accorgerà che non è nulla di più che una serie di rune benaugurali, e si tranquillizzerà. Ora come ora, forse per la febbre alta, continua a farneticare.

– Farnetica? A proposito di cosa? – Dice che la Duchessa assassina, la sua antenata, è stata

imprigionata per errore. Pare che la Badessa che l'aveva in custodia avesse scritto nel suo diario che il vero assassino era il fratello del Duca. Ally sostiene che le parole dipinte sulle pareti della torre campanaria siano state scritte dalla Duchessa, ed è convinta che abbia maledetto l'assassino e i discendenti della sua famiglia. Ally è terrorizzata, Rafael...

Rafael scoppiò a ridere, piegato in due sul letto, mentre lo guardavo interdetta.

Si asciugò gli occhi, cercando di riprendere il contegno, ma gli bastò guardare me per tornare subito serio.

– Stai scherzando, vero? Presi il cuscino che avevo dietro alla schiena e glielo tirai addosso

con frustrazione.– Sono le dieci e mezzo di sera, ho avuto una giornata pesante, la

mia migliore amica è a letto ammalata, ho appena lasciato il mio ragazzo e sto cercando di trattenermi dal prendermi una sbronza, con scarsi risultati. Ti sembra che stia scherzando?!

Rafael scosse la testa di riccioli neri, alzando le mani in segno di tregua.

– No, non stai scherzando. Va bene, domani mattina sposteremo Alejandra nella stanza dei suoi, così Erin ripulirà quella topaia. Poi ti accompagnerò al Convento e proveremo a decifrare le scritte sulle pareti. Pace?

Mi alzai per andarmene. Rafael aveva un carattere più positivo del mio, ma in quel momento non ero dell'umore adatto per apprezzarlo.

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– Ti aspetto in cucina alle otto. Sii puntuale. – lo minacciai con un dito, sventolandoglielo ad un palmo dal naso.

Rafael mi afferrò la mano, la volse all'insù e depose un bacio nel palmo.

– Claro que si, mi querida. Dormi bene... e non bere troppo stanotte.

Rimasi paralizzata con le gambe di gesso, gli occhi verdi, i miei, in quelli neri, i suoi.

Un solo attimo, prima di riprendermi, poi liberai la mano e afferrai per il collo la bottiglia del whiskey, uscendo da quella stanza senza aggiungere altro.

In trenta secondi ero in camera mia.Chiusi a chiave la porta, gettai le scarpe in un angolo e mi lasciai

cadere sul letto, il whiskey sollevato a mezz'aria sopra il mio viso.Con un po' di fortuna sarei riuscita a svenire dalla stanchezza

prima di accorgermi di essere completamente persa di alcool.Chi aveva detto a Rafael che bevevo? Alexandra? Maledette, e

benedette, amiche troppo zelanti!Posai la bottiglia sul letto e fissai la mia mano, dove il bacio

affettuoso di Rafael mi bruciava ancora la pelle... si, un bacio affettuoso... Se quello era un bacio affettuoso io ero Biancaneve!

Accidenti a lui e a Luca! Per colpa loro stavo precipitando nell'alcolismo più disperato. Ma non potevo continuare a scappare, prima o poi avrei dovuto prendere una decisione.

Avevo ancora un biglietto aereo nella borsetta e la valigia era ai piedi del letto, pronta.

Dovevo solo alzarmi da quel letto e prendere il primo aereo diretto in Europa, per un posto qualsiasi purché lontano dall'Irlanda.

Potevo dimenticarmi di tutto, di quei due uomini che mi stavano sconvolgendo la vita e di quella donna che più passava il tempo e più consideravo come una sorella e come una nemica.

Dovevo solo alzarmi da quel letto......

A svegliarmi fu un incubo. Mi trovai a fissare il soffitto del baldacchino, nella mia stanza appena illuminata dalla luce di una luna pallida, senza riuscire a capire dove mi trovavo. Mi ci vollero un paio di minuti, trattenendo il senso di panico, prima di ricordarmi che ero a casa di Alexandra. Fortunatamente avevo dimenticato di chiudere le imposte delle finestre e la luce della luna mi aveva

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aiutato a riprendere l'orientamento.Mi sollevai a sedere sul letto, rendendomi conto che ero ancora

vestita e mezza congelata. La bottiglia dell'whiskey era sdraiata accanto a me, ancora piena. Mi dovevo essere addormentata senza accorgermene, prima di potermela scolare.

Accesi l'abat-jour per vedere l'ora sulla radiosveglia, che segnava le due dopo mezzanotte. Avrei dovuto svestirmi e infilarmi sotto le coperte, ma il sonno mi era passato completamente. Non me la sentivo di riaddormentarmi col pericolo di proseguire l'incubo che mi aveva svegliata, come mi capitava spesso. Scesi dal letto, cercando le pantofole che solo dopo un po' ricordai di aver messo nella valigia. Rinunciandovi, decisi di scendere in cucina a piedi scalzi, per scaldarmi una tazza di latte e per riprendere un po' di calore.

Fairy Manor era un luogo piuttosto tetro di notte. Avevo sempre desiderato abitare in un castello, invidiando Alexandra, ma quegli androni bui dai soffitti altissimi mi stavano facendo passare il fanatismo per le case vecchie.

Prima di scendere in cucina mi affacciai alla stanza di Alexandra. La luce sanguigna della sua abat-jour mi faceva ancora più paura del buio del corridoio. Mi avvicinai al letto, dove la mia amica era semiscoperta e si agitava freneticamente.

Immediatamente venni presa dal timore che fosse peggiorata. Le toccai la fronte che trovai bollente, ancora più che al pomeriggio, ed era sudata come se fosse appena uscita da una sauna. Alexandra non era sveglia, ma i suoi occhi erano spalancati come in trance e mi fissavano con le pupille dilatate. Le sue labbra screpolate mormoravano qualcosa di incomprensibile in uno strano dialetto che non conoscevo.

Senza aspettare oltre mi lanciai fuori dalla stanza e presi a bussare freneticamente alla porta di Rafael, urlando come un’ossessa.

– Rafael! Rafael, svegliati! Ally sta male! Rafael! Mi trovai di fronte Rafael quasi come un fantasma che uscisse dal

buio, i capelli arruffati davanti al viso assonnato, i pantaloni del pigiama come unico indumento. Afferrò le mie mani per fermare la gragnola di colpi che avevo abbattuto sulla porta, e mi guardò con il viso distorto da un una maschera di disappunto.

– Che ti prende, Celinita! Vuoi farmi venire un colpo?! – Ally sta male! Dobbiamo chiamare il medico!

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Rafael mi spinse da parte ed entrò nella camera di Alexandra.Ne uscì un istante dopo, questa volta seriamente preoccupato.– Non c'è tempo per chiamare un dottore. Ha le convulsioni.

Sveglia Lorcan, intanto che mi vesto, la portiamo via subito.Tutto si svolse talmente in fretta che quasi mi sembrò di stare

ancora sognando il mio incubo. Di quei lunghi frenetici istanti ricordavo solo quando Rafael era

disceso dalle scale portando di peso Alexandra stravolta dalla febbre avvolta in una coperta, io dietro a loro con una borsa nella quale avevo cacciato alcune cose di Alexandra alla rinfusa, Lorcan che guidava l'auto lanciata ad alta velocità sulla strada di contea che portava all'ospedale a Dublino, e l'infermiera che mi tartassava di domande per la compilazione del modulo di accettazione, domande alle quali non sapevo rispondere, perché nella fretta avevo lasciato a casa i documenti di Alexandra.

Fu una notte interminabile.Mi trovai a barcollare, svanita, nella sala di attesa del Pronto

Soccorso, incapace di restare seduta su quelle sedie gelide sotto la luce biancastra dei neon che disegnavano ombre spettrali sui nostri visi.

Rafael e Lorcan se ne stavano immobili su quelle sedie, stringendosi nei cappotti, un po' fissando il vuoto, un po' fissando me che camminavo per non addormentarmi.

Ogni tanto mi fermavo, appoggiandomi al muro intontita dalla stanchezza, guardando dalla finestra l'alba che spuntava dietro i tetti delle case salutando un buongiorno che per noi non lo era affatto.

Nella mano destra rigiravo l'anello d'oro di Alexandra, come se quell'insignificante oggetto avesse potuto compiere un incantesimo e guarire la mia amica.

Non sapevo che ora fosse quando Rafael mi si avvicinò con un bicchiere di plastica del distributore automatico di bevande calde, parlandomi a mezza voce per non farsi sentire dalle altre persone che occupavano la sala d'attesa del pronto soccorso.

– Bevi un po' di té. Forse preferivi del caffè? – No, va bene questo, grazie. Che ore sono... perché non ci dicono

ancora nulla di Ally? Rafael guardò per l'ennesima volta l'orologio al polso.– Sono le nove e trenta. Vuoi mangiare qualcosa? Hai un aspetto

terribile. Perché non vai in un bar a riprenderti un attimo? Resto qui

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io ad aspettare i medici.– No... Preferisco restare qui. Appena mi lasciano vedere Ally devo

chiederle dove sono i suoi documenti... devo anche sistemare la sua biancheria. Può darsi che la trattengano per qualche giorno...

Rafael dovette darmi ragione.– Allora rimando a casa Lorcan che sta crollando dal sonno. Posso

dirgli di far preparare da Erin una valigia per Alejandra. – Si, è una buona idea. – Cos'è quello? – Mi indicò l'anello che rigiravo nella mano.– È di Ally. Me lo ha dato ieri sera. È una specie di patto che

abbiamo fatto... Rafael mi prese l'anello dalla mano e lo rigirò alzandolo verso la

luce.– Deve essere l'anello che ha trovato nel libro della Badessa. È

molto antico, si vede dalla fattura. Da quando l'ha trovato non se l'è più tolto...

– L'ha trovato nel libro? Quello che ha nella sua camera? – Proprio quello. Pare che fosse fissato alla copertina con della

ceralacca. Sai com'è fanatica Alejandra. Raccoglie tutto quello che trova nel suo Convento. – Mi rese l'anello, come se per lui non avesse alcun valore.

– Chissà di chi era... e perché è stato messo nel libro. Forse era della Badessa. – mi figurai la Badessa che nascondeva i propri tesori tra i libri, nel materasso e sotto le tavelle del pavimento.

– Molto probabile. Erano donne strane, quelle monache. Tutti quei diari sulla politica dell'Irlanda, la stanza sigillata del Convento, la torre campanaria senza campane... – Mormorò Rafael, elencando senza volere le cose che avevano lasciato perplessa anche me.

– ... La maledizione della Duchessa... Tu ci credi? Rafael alzò un sopracciglio con un'occhiata interrogativa, meditò

un istante poi scosse la testa.– No... Molti pensano che noi spagnoli siamo superstiziosi, forse

perché l'Inquisizione Spagnola a suo tempo fece bruciare molte donne con l'accusa di stregoneria. Ma io non sono Torquemada e non credo nella magia nera. Giudico i fatti da ciò che la scienza può accertare, e quel che vedo è solo una ragazza che ha una febbre probabilmente di origine virale, qualcosa che ha intaccato il suo sistema immunitario indebolito dal suo stile di vita. Io e te stiamo bene, no? Se fosse stato contagioso saremmo ammalati anche noi.

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Gli diedi ragione, se non altro per quel che riguardava lui. Rafael era il simbolo della buona salute, così abbronzato dal sole della Spagna e con un fisico da atleta.

Io forse davo più l'idea dell'anoressica, pallida e sbiadita dalla nebbia della Pianura Padana, ma le mie misure erano sicuramente più abbondanti di quelle di Alexandra.

– Ah! Sei qui! Ecco dove ti eri cacciata! Ci voltammo verso l'entrata della sala d'attesa e ci trovammo a

guardare Luca che entrava a spron battuto, sollevando quasi la polvere ad ogni suo passo.

– Sono tre ore che giro avanti e indietro per la contea, cercando di ritrovarti. – mi si piazzò di fronte con uno sguardo tempestoso rivolto sia a me che a Rafael. – Ci sono alcune cose da chiarire, bella mia. – mi afferrò per un braccio senza preoccuparsi se stesse stringendo troppo. Si volse verso Rafael, senza dargli il tempo di capire cosa succedeva. – Più tardi parleremo anche noi due.

Luca mi trascinò lungo il corridoio fino all'uscita del pronto soccorso, dove riuscii finalmente a puntare i piedi e bloccarlo.

– Si può sapere che cosa stai facendo? – gli chiesi sottovoce, tra l'andirivieni del personale e dei pazienti. Riuscii a farlo spostare dall'uscita e a liberare il braccio, massaggiandolo per riprendere la circolazione.

– Che sto facendo? – Mi aggredì di nuovo Luca.– Sto cercando di portarti via di qua e di metterti sul primo aereo diretto a Milano! Stamattina sono andato al castello in taxi e mi hanno detto che la tua amica è stata male, e che tu non avevi per nulla intenzione di andare all'aeroporto, così come mi avevi detto ieri. La Governante non sapeva neppure chi fossi io, non aveva mai sentito parlare di me. L'ho dovuta minacciare per farmi dire dove eri. – Si sistemò la giacca di tweed e la cravatta, che nella corsa si era spostata tutta di traverso.

– Celina, sto perdendo la pazienza. Prima mi fai una scenata perché vuoi venire in Irlanda quando sai che ho delle scadenze da rispettare al Conservatorio, mi dici che non ti considero e altre storie di questo tipo. Poi, quando finalmente riesco a raggiungerti, facendomi sostituire da Angela che è stata tanto gentile da dirigere al mio posto l'orchestra per il concerto di ieri sera, salti fuori con la storia che Alexandra non ti vuole qui, che quello spagnolo sta cercando il sistema per guadagnare più del dovuto da quel lavoro maledetto, e che tu vuoi tornartene a casa. Volevo parlare con calma

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con te e tu invece te ne vai, e mi pianti in albergo come un imbecille. Stamattina con tutte le buone intenzioni, dopo aver passato una notte in bianco, vengo a sapere che non parti affatto, anzi, sei in ospedale a dare sostegno morale allo spagnolo che si fila la tua cara amica del cuore. – Riprese fiato, un istante, rosso di collera, trattenendosi dall'urlare. – Celina, non mi piace questa storia, non mi piace per niente. Voglio una spiegazione, e fai in modo che sia plausibile, perché altrimenti sarò io a prendere quell'aereo per Milano e sta tranquilla che non sentirai mai più a parlare di me!

Lo guardai per tutto il tempo che parlò, mentre nella testa mi passavano mille spiegazioni da dargli, vere o presunte, e altrettante rimostranze da fargli per il suo atteggiamento arrogante ed egocentrico. Ma quando finì di parlare, nello stesso istante in cui mi minacciò, lo vidi finalmente per quello che era: squallido, patetico e quasi commuovente nel suo disperato tentativo di riaggiustare quello che ormai era rotto. La relazione che avevo con lui era in crisi già da tempo, ma tentava di scaricare la colpa di quella situazione, come sempre, su di me. Ebbene, era finita. Male, ma era finita.

Cercai nella borsa il biglietto aereo per Milano e lo porsi a Luca.– Tieni. È a mio nome, ma puoi dire che te l'ho venduto.Luca fissò il biglietto, allibito. Poi guardò me per un lungo istante

durante il quale sul suo viso passarono varie espressioni, prima di rabbia, poi di rassegnazione e infine di compatimento.

Se ne andò senza dire una parola. Al grande musicista e compositore che conoscevo non era rimasto neppure un saluto.

Lo seguii con lo sguardo mentre usciva dal pronto soccorso, dirigendosi verso un taxi, il capo chino, le spalle ricurve, il passo affrettato di chi non ritorna sulle sue decisioni.

Quando tornai in sala d'attesa non trovai Rafael. Un'infermiera mi venne incontro stringendo al petto una cartella medica.

– La signorina Gandini? Il dottor Owens desidera parlarle. Mi segua, prego.

Strinsi nella mano l'anello di Alexandra, preparandomi al peggio.L'infermiera mi accompagnò in un piccolo studio medico, dove un

uomo in camice verde sulla cinquantina mi fece accomodare su una poltroncina di similpelle.

– Il signor De Roya mi ha detto che non è possibile rintracciare i signori Killamore, perciò parlerò con lei.

– Dov'é Rafael?

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– È con la paziente, in questo momento. Gli ho permesso di vederla qualche minuto mentre parlo con lei. Sarò sincero, signorina, la sua amica non è in buone condizioni. Un'ora dopo il ricovero, nonostante abbiamo tentato di farle scendere la febbre, la signorina Killamore è entrata in coma.

Ringraziai Dio di essere seduta, altrimenti sarei caduta sul pavimento.

Istintivamente infilai al dito l'anello di Alexandra e intrecciai le mani che tremavano vistosamente.

– Quello che non riusciamo a capire è cosa sia successo. – continuò il medico. – Dagli esami non risulta alcun contagio da virus, ma un'intossicazione da psicofarmaci. Il collasso è stato sicuramente causato da un sovraddosaggio di tranquillanti mischiati ad altri farmaci. Abbiamo trovato tracce di Carbamazepina nel sangue, sufficienti a addormentare un elefante.

Non sapevo di cosa stava parlando, non ero pratica di psicofarmaci, ma capivo che la situazione era veramente grave.

– Ma... Crede che il coma sia reversibile? – Non so cosa dirle. – Owens mi fissava molto dispiaciuto. – Io

credo che dipenda tutto dalla paziente. L'abbiamo disintossicata. Tocca a lei ora reagire e superare la crisi. Deve trovare la forza per risvegliarsi.

Mi passai le mani sul viso, disperata. Solo ventiquattr'ore prima stavo chiacchierando con Alexandra nel suo studio. Mi ero accorta che non stava bene, perché non ero intervenuta subito? Per quale assurdo egoistico motivo avevo finto di non vedere e di non capire che Alexandra stava collassando?

– Posso vederla un attimo? – Certo. Ma non si trattenga troppo. Ha bisogno di quiete e di

riposo. La febbre alta e le convulsioni l'hanno portata vicino ad un infarto.

Owens mi accompagnò nel reparto di terapia intensiva. Al di là di un vetro vidi Alexandra, pallida come un cadavere, distesa su un lettino. Le avevano raccolto i capelli in una cuffia, e vari filamenti la collegavano alla macchina che la induceva a respirare. Sui monitor batteva lentamente il suo cuore.

Rafael era in piedi infondo al lettino e la fissava con un'espressione indecifrabile sul viso.

Dopo qualche istante si volse verso di me e nei suoi occhi vidi

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balenare un odio e un disprezzo che mi gelarono il sangue.Presa dal terrore entrai nella stanzetta, col cuore in tumulto. Ma

quando mi avvicinai a lui vidi che sorrideva mestamente. Mi prese la mano dove avevo infilato l'anello e la strinse con affetto.

– Ce la farà! È una ragazza in gamba, molto forte... Annuii ripetutamente. Poi lasciai Rafael, uscii dalla stanzetta e

quando fui nel corridoio scoppiai a piangere.

Capitolo 11

" ... Sapete che è stato detto ai nostri padri: Non uccidere. Chi ucciderà un altro sarà portato davanti al

giudice... Chi gli dice 'traditore' può essere condannato al fuoco dell'inferno..."

( S. Matteo 5 , 21-22 )

Fairy Manor, anno domini 1172

Arthur O'Connors fissava il fuoco nel caminetto, tenendo con entrambe le mani la coppa di vino.

Lampi e tuoni scuotevano il cielo alternandosi a scrosci di pioggia e grandine. Il pomeriggio invernale era diventato immediatamente buio, tanto che i servi avevano acceso le torce fin dalle prime ore del mattino.

Fairy Manor aveva tutte le imposte chiuse. Solo nella stanza di Arthur erano spalancate. Le tende di canapa, che avrebbero dovuto tenere fuori il freddo, svolazzavano con colpi secchi e strappi improvvisi. Arthur non pareva farci caso. Era concentrato nell'attesa. Entro pochi momenti si sarebbe conclusa per sempre la faccenda di Savanne Donninghton.

La Badessa Madre Giulianne arrivò avvolta nel suo mantello nero, fradicio di pioggia. L'orlo dell'abito da monaca era infangato, e così anche i sandali calzati sui piedi nudi. Rimase in piedi dietro alla poltrona di Arthur, gocciolando sull'assito del pavimento. Non abbassò neppure il cappuccio. Da una tasca interna tolse una pergamena sigillata e la posò sul tavolino accanto alla poltrona.

– Il testamento del Dux

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Arthur bevve un lungo sorso dalla coppa per trattenere un eccesso di rabbia. Rhodry era morto da un anno e ancora veniva considerato come il “Dux”. L'ultimo vero Dux di Fairy Manor, che dopo la sua morte era passata nelle mani del conte di Pembroke, il normanno che aveva una sua idea tutta particolare di servire l'Inghilterra.

Arrivato alla testa dei suoi cavalieri in armatura, il conte di Pembroke, detto Strongbow, era stato chiamato dal re irlandese Macmurrough di Leinster in guerra contro il proprio Grande Re.

Pembroke si aspettava un riconoscimento. Aveva conquistato Dublino. L'Irlanda si stava sfaldando, e Enrico II d'Inghilterra con i suoi tentativi di sedare le lotte tra i vassalli si stava impossesando anche della terra irlandese.

Doveva andarsene o soccombere alla prepotenza di Pembroke. Oppure ritrovare l'oro degli O'Connors e armare cavalieri a difesa di Fairy Manor.

Posò la coppa sul tavolino, prese la pergamena, ruppe il sigillo e iniziò a leggere.

– Puoi andare. È inutile dire che non farai parola con nessuno di tutto questo.

– È perfettamente inutile. – La Madre guardò la coppa del vino. Era troppo semplice perfino da pensare... Un solo gesto, infinitesimale, sufficiente per risolvere ogni problema. Poi girò su se stessa e uscì.

Il cortile del castello era tetro come l'intero fabbricato. La Madre si affrettò verso la carrozza che l'aveva trasportata fino al castello, ma non vi arrivò mai. Qualcosa la colpì alla tempia e fu l'ultima volta che la si vide in circolazione.

Arthur rimase a contemplare il fuoco ancora per un po', dopo che la Madre fu uscita. Poi si alzò e gettò la pergamena nelle braci del camino. Un istante di fiamma viva e del testamento non rimase che un mucchietto di cenere leggera.

Riprese la sua coppa di vino e terminò di bere. La pioggia era il suo tempo preferito. Adesso sapeva dove Rhodry aveva nascosto l'oro. Doveva solo recuperarlo, armare gli uomini e riprendersi ciò che gli apparteneva. Uscì sul balcone senza neppure coprirsi e guardò di sotto, mentre alcuni uomini trafficavano nel cortile con un sacco abbastanza voluminoso, tanto da poter contenere una persona.

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Com'era strana la vita: nove mesi per nascere e un solo istante per morire...

Una fitta improvvisa lo piegò in due. Qualcosa gli attanagliava lo stomaco, come un animale che lo stesse divorando dall'interno. Si portò la mano alla bocca e quando la tolse la trovò sporca di un liquido verde e nero, lo stesso liquido gelatinoso che ora iniziava a vomitare oltre la balaustra. Un tremito lo scosse fino ai piedi. Solo un istante per aggrapparsi al muretto del balcone, o forse un movimento di troppo verso l'esterno. Perse l'equilibrio e cadde, ma quando toccò il suolo era già morto.

Com'era strana la vita...“San Paolo riunì a Efeso tutti i libri che trattavano di "cose

curiose", e li bruciò pubblicamente. Non ci sono dubbi sul fatto che si trattasse di opere dedicate alla goezia o alla negromanzia degli antichi."

(Elifas Levi – Sintesi e realizzazione divina nel magismo)

Fairy Manor, luglio 1993

Aspettare con pazienza non era mai stata una delle mie virtù. A mezzogiorno cercai il numero di telefono di Lucia nella mia

agenda e provai a chiamarla. Era inutile restare con le mani in mano. Avevo promesso a Alexandra che avrei restaurato i dipinti della torre, perciò prima avrei iniziato e prima avrei finito. Con un po' di ottimismo e di fortuna al risveglio di Alexandra avrei già potuto presentarle un preventivo dei lavori, ma avevo bisogno di un’esperta come Lucia per sapere cosa fare.

La voce chiara e brillante di Lucia squillò nel ricevitore come il trillo di un canarino, e mi parve quasi stonata con il mio stato d'animo.

– Celina! Cosa fai in Irlanda? Perché non mi hai detto che saresti salita al nord, venivo a trovarti !

– Sono ospite di Alexandra, ti ricordi di lei, te ne ho parlato tempo fa...

– Sicuro, la tua amica castellana. Hai deciso di accettare quell'invito alla fine?

– Molto di più. Alexandra mi ha chiesto di sovrintendere il restauro di una parte del suo convento. Il problema è che si tratta di

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affreschi molto antichi. Ho bisogno di un'analisi dei colori e della base. Saresti in grado di farlo?

– Allora mi hai chiamato per lavoro! Sei sempre la solita, non riesci a prenderti una vacanza neppure per sbaglio. Ma certo che posso farlo! Dovrei essere a Dublino entro tre ore, il tempo di prendere il primo aereo in partenza. Naturalmente a spese della tua amica. Ma come farai a organizzarti? Hai già preso contatto con restauratori e colorifici che possono fornirti il materiale?

– A dire la verità in questo momento sono nella sala accettazione del Saint James Hospital di Dublino. Alexandra si è sentita male ieri sera... Io non riesco a stare con le mani in mano, lo sai. Tanto vale che mi metta a lavorare, stare qui ad aspettare non la farà sentire meglio.

Ci fu qualche istante di silenzio dall'altra parte del ricevitore, poi Lucia riprese a parlare.

– Aspettami all'aeroporto. Porto con me la mia roba così inizierò subito le analisi. Mi serve anche una prenotazione in una pensione. Ci pensi tu?

– Si. C'è una piccola pensione a Wicklow, gestita da persone molto ospitali. Appena arrivi ti accompagno al Convento, così potrai rilevare i campioni. Purtroppo non avrò molto tempo da dedicarti...

– Non preoccuparti per me. Non vengo per essere intrattenuta. Ci vediamo fra tre ore.

– Ti aspetto. . . .

Le mie intenzioni erano di accompagnare Lucia al Convento, farle rilevare i campioni e ritornare subito dopo in ospedale, ma appena ne parlai a Rafael lui mi costrinse a promettergli che sarei rientrata al castello e mi sarei messa a letto.

Il dottor Owens aveva insistito perché seguissi il consiglio di Rafael, dal momento che per Alexandra c'era ben poco da fare da parte nostra. Lorcan ed Erin si erano offerti di restare a vegliarla per la notte, in modo che Rafael ed io potessimo riposare un po' e sostituirli il giorno dopo. Non vedevo l'ora di tornare a casa per cambiarmi gli abiti che avevo addosso dal giorno prima e che avevano assorbito l'odore di disinfettante dell'ospedale. Un bagno bollente e una cena tranquilla mi avrebbero rimesso in sesto. Poi sarei andata subito a dormire.

Il cielo si era di nuovo coperto e minacciava di piovere da un

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momento all'altro, mentre il taxi usciva da Dublino dirigendosi verso l'aeroporto.

Anche Rafael aveva lasciato l'ospedale, una mezz'ora prima di me. Il capocantiere lo aveva avvertito che la polizia aveva tolto il sequestro ai ponteggi del Convento. Del resto non avevano prove per incriminare qualcuno di omicidio. Pareva proprio che i due morti fossero stati colti da follia suicida collettiva, il ché mi lasciava piuttosto perplessa. Tuttavia non era affar mio.

Lucia mi aspettava all'entrata dell'aeroporto con una valigetta nella mano destra e una borsa da viaggio nella sinistra. Non ci dilungammo in convenevoli perché il tempo non era dei migliori. Forse allontanandoci da Dublino ci saremmo lasciati alle spalle il temporale che si stava accumulando sopra di noi.

Sistemandosi la gonna di raso, Lucia si accomodò meglio sul sedile posteriore, poi recuperò dalla borsa da viaggio il beauty-case e controllò il trucco nello specchietto da viaggio.

– Questo vento! E pensare che a Londra c'era un sole così bello! – si sistemò alcune ciocche di capelli biondo grano che erano sfuggite al perfetto caschetto che le incorniciava il viso. Poi si volse verso di me, scrutandomi con aria critica. – Hai l'aspetto di una profuga. Perché non mi racconti cosa è successo?

– Ally è molto grave. Pensiamo abbia tentato di suicidarsi con dei tranquillanti. È in coma ormai da circa dodici ore. I medici stanno aspettando che si risvegli prima di considerarla fuori pericolo.

Lucia ripose il beauty-case nella valigia, poi mi prese una mano, consolandomi con un sorriso di comprensione.

– Vedrai che si riprenderà. Non sentirti responsabile per una cosa di cui non hai colpa.

Guardai Lucia interdetta. Come aveva immaginato che mi sentissi in colpa per lo stato di Alexandra?

Ero così trasparente che me lo si poteva leggere sul viso? Oppure ricordava ancora la notte che lei e Luca mi avevano trasportato d'urgenza al pronto soccorso dopo che avevo ingerito tranquillanti e wyskey con l'intenzione di farla finita?

– Ho trovato nella sua stanza gli stessi antidepressivi che prendevo io, ma ero talmente concentrata sui miei casini personali che non mi sono neppure soffermata a domandarmi perché li prendesse. Avrei potuto evitare che s’intossicasse. Gesù, Lucia! Che razza di persona sono diventata? Luca era venuto fino a Dublino per

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parlarmi, per riappacificarsi con me, e io l'ho rispedito a casa. Eppure ho bisogno di lui come dell'aria che respiro. Se non ci fosse stato lui, ora non sarei qui a piangermi addosso.

– Non è la prima volta che litigate. Forse sei solo stanca e hai bisogno di una pausa di riflessione. Luca ti vuole molto bene, altrimenti non sarebbe venuto fin qui, non ti sembra?

– Già... Ma io ti sto annoiando con i miei problemi. Parliamo invece del Convento. Quanto pensi che impiegherai per le analisi dei colori?

– Il tempo di rilevare i campioni e immergerli nei rivelatori chimici. Entro domani sera avrai i risultati. Ho portato tutto con me tutto l'occorrente.

– Allora possiamo andare subito al Convento. Rafael è andato là circa mezz'ora fa perché la polizia ha tolto i sigilli. Torneremo indietro insieme a lui.

– I sigilli? – mi chiese Lucia stupita.Avevo omesso di dirle dei due omicidi. Quando glielo spiegai lei mi

fissò con aria sospettosa e contrariata. Potevo capirla, anch'io non mi sentivo molto convinta di lavorare

in un posto ad alto rischio come la scena di due delitti. Ma Lucia non protestò in merito, così, appena fuori Bray indicai al taxista la strada panoramica che attraversava le Wicklow Mountains per raggiungere il Convento.

Volevo assicurarmi che gli operai non avrebbero utilizzato quella stanza della torre come ripostiglio degli attrezzi. Appena rilevati i campioni avrei fatto sigillare di nuovo la porta finché non fossi stata in grado di proteggere i dipinti da chi poteva danneggiarli.

Quando arrivammo al Convento verso le cinque trovai la mia auto a noleggio parcheggiata fuori dalle mura. Probabilmente Rafael si era fatto portare dal taxi fino al castello ed aveva usato la mia auto per salire al Convento, dal momento che la sua la usava Lorcan per fare spola dall'ospedale al castello. Decidemmo così che saremmo rientrate al castello insieme a lui.

Pagai il taxi e lo rimandai a Dublino. Quando entrammo nelle mura vidi che gli operai stavano sistemando le attrezzature che avevano lasciato sparpagliate nel cortile durante il sequestro della polizia. Passammo tra loro rispondendo ai saluti ma cercando con lo sguardo Rafael.

Quando chiesi di lui mi dissero che era all'interno del Convento,

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nel palazzo principale, a discutere di impianti idraulici con il capocantiere e gli impiantisti. Non lo andai a disturbare, sapendo che erano già andati persi due giorni di lavoro. Mi risultò strano che la stessa impresa edile proseguisse i lavori di restauro nonostante vi fosse in atto un'inchiesta di omicidio per due persone, ma di nuovo mi dissi che la cosa non mi doveva riguardare. Io avevo solo il compito di redigere un preventivo di restauro dei dipinti.

Entrai con Lucia nella casa della mensa e infilammo la scala che portava in cima alla torre. Intanto che Lucia rilevava i campioni io avrei copiato le parole degli affreschi, in modo che anche se non avesse potuto lasciare l'ospedale Alexandra avrebbe potuto decifrare le frasi, appena si fosse sentita meglio.

Quando arrivammo al pianerottolo fui felice di trovare la porta così come l'avevo lasciata il giorno prima. Probabilmente gli operai non erano ancora saliti nella torre, non sapendo che avevamo aperto la stanza.

Entrai con un po' di fatica attraverso la stretta fessura, litigando con la cinghia della borsa che si era incastrata nei catenacci, e Lucia mi seguì imprecando a mezza voce perché si era impolverata la camicetta di lino. Ma quando fu all'interno della stanza si guardò attorno con una strana eccitazione negli occhi, la stessa che avevo notato in Alexandra.

La stanza era tagliata a metà dalla lama di luce pomeridiana che entrava dal finestrino, e ispirava un senso di antico e di mistico che impressionava facilmente chi non era abituato a frequentare antichi luoghi religiosi.

Lucia cercò nella valigetta le bustine per i campioni e il raschietto da vetro, e prese a grattare dalla parete qualche angolo di colore che avrei ricostruito in seguito fedelmente, dopo averne tracciato i contorni con una matita. Il colore pareva uguale per tutte le scritte che erano state dipinte, ma per sicurezza presi tre o quattro campioni di polvere colorata da ognuna delle righe. Nel frattempo io le giravo attorno copiando sulla mia agenda le frasi gaeliche esattamente come erano state scritte, cercando di riportare fedelmente la loro posizione sulle pareti.

Lucia finì prima di me e vedendo che il mio lavoro avrebbe richiesto più tempo si avviò giù per le scale alla ricerca di Rafael.

Quando terminai di copiare riposi accuratamente il tutto nella tasca interna della borsa e tornai sul ballatoio. Nel giro di un paio di

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giorni Lucia mi avrebbe fornito le analisi del materiale di base del colore e avrei potuto stilare un preventivo per il recupero degli affreschi. Volendo essere più scrupolosi, avrei potuto far analizzare i campioni al Carbonio 14, per accertarmi dell'esatto periodo in cui erano stati fatti i dipinti.

Scesi velocemente la chiocciola, con in mente il pensiero di arrivare al castello il prima possibile per avere le ultime notizie su Alexandra. Ma quando arrivai infondo trovai la porta chiusa. Non ricordavo di averla chiusa, ma probabilmente un colpo d'aria l'aveva fatta sbattere. Abbassai il chiavistello un paio di volte, facendo forza per aprirla, ma inesorabilmente il battente non si spostò di un millimetro.

Un leggero senso di panico iniziò ad allarmarmi, ma non tanto da offuscare la ragione. Avevo sempre sofferto un po' di claustrofobia, ed avevo imparato a controllarla. Picchiai sulla porta chiamando ad alta voce e rimasi in ascolto per qualche istante. Non sentivo più alcuna voce o rumore che dava segno della presenza di altre persone all'interno delle mura. Preoccupata, risalii la scala fino alla prima finestra, dove si poteva accedere al sesto livello di ponteggi che erano stati precedentemente messi sotto sequestro. Mi sporsi quel tanto che potei per guardare nel cortile.

Rimasi sconcertata nel notare che non c'era anima viva. Il portone delle mura era stato chiuso, le attrezzature erano ben riposte sotto un riparo di lamiere e nello spiazzo esterno non vi era neppure un'auto.

Iniziai a tremare, mentre la paura diventava un fatto reale. Dalla cima della torre non mi ero accorta che gli operai se n’erano andati, compresi Rafael e Lucia. Forse Lucia si era fatta accompagnare alla pensione e Rafael probabilmente pensava che sarei rientrata al castello con il taxi.

Forse per scrupolo, gli operai avevano chiuso la porta che dalla mensa dava nella torre, ricordando quanto fossero stati fatali i ponteggi per le due persone morte, senza sapere che io ero ancora all'interno.

Stupida! Mille volte stupida!Perché non avevo avvisato il capocantiere che ero ancora nella

torre?! Era tutta colpa della mia stupidità!La collera verso me stessa sopraffece il forte senso di panico per

essere rimasta chiusa in un edificio abbandonato, freddo e pieno di

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correnti d'aria. Nessuno sarebbe tornato fino al mattino dopo!Dovetti prendere due profondi respiri e impormi la calma per

riprendere a ragionare con lucidità. Non ero poi così sola e abbandonata, per la miseria! Avevo un cellulare che mi aveva prestato Alexandra il giorno prima, nella borsa.

Mi aveva detto che poteva tornarmi utile, dal momento che le linee telefoniche a Fairy Manor non erano molto buone e cadeva spesso la linea durante le telefonate.

Presi il cellulare e digitai il numero di Fairy Manor. Purtroppo non rispose nessuno. Forse Rafael si era fermato a Laragh per cenare con Lucia, dal momento che Lorcan ed Erin ci avevano sostituito all'ospedale.

Non cedetti ancora alla disperazione. Cercai nella mia agenda il numero della compagnia di taxi e ne

chiesi uno indicando la strada del Convento. La segretaria mi assicurò che in mezz'ora avrei avuto un autista che mi avrebbe ricondotto a casa.

Riposi il cellulare nella borsa e m’imposi di stare tranquilla, ma forse per colpa della stanchezza e del senso di claustrofobia iniziava a girarmi la testa e sentivo uno strano senso di nausea allo stomaco. Era dal mattino di due giorni prima che avevo lo stomaco sottosopra ma detti la colpa allo stress. Avevo passato troppo tempo sveglia e avevo bisogno di riposare.

Da quella finestra si accedeva ai ponteggi che partivano dal fossato e salivano in una rete intricata fino a metà torre. Dovevo solo scendere con calma attraverso sei livelli di ponteggi, così come avevo fatto altre mille volte quando avevo restaurato gli affreschi delle volte di una cappella nella provincia di Brescia.

Non era difficile e avevo ancora un paio di ore di luce. Dovevo solo sbrigarmi ad arrivare in fondo, prima dell'arrivo del taxi. Lo avrei atteso fuori dalle mura.

Misi la borsa a tracolla e iniziai la discesa attraverso la rete di tubi delle impalcature che fiancheggiavano la torre, imponendomi di non guardare di sotto e di non pensare ai due che erano caduti.

Fui felice di posare i piedi sulle tavole di acciaio del quinto livello e mi concessi una pausa per riprendere il fiato. La copertura del ponteggio iniziava da quel livello e avrei avuto meno paura di guardare di sotto, riparata dal vento che si era alzato. Con un po' di buona volontà potevo scendere in un quarto d'ora.

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“Aiutami!”Sussultai spaventata a quel grido che mi scoppiò nella testa come

una fucilata. Mi volsi d'istinto alla mia destra, dove il quinto livello curvava attorno alla torre, con il cuore che mi esplodeva nel petto.

“Aiutami!”Mi aggrappai ai tubi d'acciaio delle impalcature mentre fissavo in

preda al terrore la figura esile di Alexandra che, un passo dopo l'altro, si avvicinava a me tendendomi le braccia. Il viso cadaverico era semicoperto dalla massa incolta dei capelli rossi, mentre la camicia da notte bianca e le braccia erano macchiate di sangue.

“Aiutami, ti prego! Portami via da qui!”Un istante solo, il tempo di sentirmi tuonare nel cervello

quell'ultimo grido lamentoso, e svenni....

Il pendolo della cucina batté l'una di notte, mentre fissavo le volute di vapore che salivano dalla tazza di té che Rafael mi aveva preparato. Con il capo nelle mani e la mente annebbiata, aspettavo che il té si raffreddasse, mentre Rafael, all'altro capo del tavolo si fumava un cubano fissando me e scuotendo la testa.

– Madre de Dios, Celinita! Non riesco a capire perché ti ostini a sostenere un'idea che hai solo sognato. Te lo dico e te lo ripeto: ti ho trovato svenuta infondo alle scale, dopo che uno degli operai, che era venuto a chiudere la porta della torre, mi disse di aver sentito qualcosa rotolare sugli scalini. Sei rimasta svenuta così tanto tempo che ho chiamato il dottor Rowse per prudenza, ma mi ha detto che poteva essere un calo di glicemia, poiché che hai passato la notte in bianco e non hai mangiato molto. Lucia si è spaventata a morte. L'ho quasi costretta ad andare alla pensione per riposare. Mi ha detto di dirti che dovrà tornare a Dublino per alcune analisi, ma che si farà sentire presto.

Prese una lunga boccata dal sigaro, come per riprendere il controllo dei nervi, già molto provati dallo stato di coma di Alexandra.

– Celinita, non voglio metterti in secondo piano nei confronti di Alejandra, ma devo chiederti di tenere di più alla tua salute, perché non ce la faccio a star dietro a un'anoressica e a un'alcolizzata contemporaneamente. Tu sei più sana e più forte di lei. Ho bisogno del tuo aiuto, non crollare proprio adesso!

Non replicai alle parole di Rafael. Avevo tentato per più di due ore

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di spiegargli cosa mi era accaduto e cosa avevo visto, ma la sua versione dei fatti era molto diversa, era sostenuta dagli operai del cantiere, e Lucia era insieme a Rafael.

Dunque ero svenuta quando avevo lasciato la stanza della torre? E nell'incoscienza avevo sognato di essere rimasta chiusa dentro, di essere discesa dai ponteggi, di aver visto... il fantasma di Alexandra? Mi vennero i brividi solo a ricordarlo!

Cos'era stato? Una visione premonitrice? Alexandra ricoperta di sangue che mi supplicava di aiutarla... Stavo facendo tutto ciò che era in mio potere per aiutarla, ma il suo stato di salute non dipendeva da me. Come potevo aiutarla, se io stessa avevo le allucinazioni?!

Sentii Rafael imprecare di nuovo a mezzavoce in spagnolo, forse più per rispetto dei santi che per me.

– Diablo! Per quale motivo non sei tornata subito a casa come ti avevo detto? Che motivo avevi di salire in quella stanza con il rischio di romperti una gamba cadendo dalle scale? Ti ho pur detto che non sono sicure. Se tu mi dessi ascolto qualche volta, oltre che ad ubriacarti, adesso non staremmo qui a chiederci perché ti ho trovata svenuta in fondo alla scala. – Rafael si alzò dalla sedia, come se improvvisamente fosse stato morso da una tarantola. – E Luca? Era necessario trattarlo in quel modo, dopo che ha mollato i suoi impegni per raggiungerti? È incredibile! Ci scriviamo da tre anni e ormai ero convinto di conoscerti bene, ma la donna che ho qui davanti non la riconosco! Non sei neppure l'ombra di quello che immaginavo di te.

A questa considerazione mi scappò un sorriso sarcastico, che fortunatamente Rafael non vide, perché si era messo a girare in tondo come una mosca impazzita. Il suo livello di adrenalina stava salendo tanto quanto il sonno stava facendosi strada nel mio cervello. Il sonno e un forte senso di intontimento.

Non mi riconosceva? Neppure da dire! Era molto facile descrivere se stessi al meglio attraverso una lettera, avere il tempo necessario per pensare alla frase più adatta, alla battuta più spiritosa, alle parole che il destinatario avrebbe voluto sentirsi dire. Con tre righe si poteva conquistare la fiducia di una persona, lusingarla al punto da farla sembrare insostituibile.

Rafael non mi conosceva, così come io non conoscevo lui, me ne stavo rendendo conto. Stranamente, la cosa non m’interessava.

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Rafael poteva pensare di me quello che voleva, non ero la sua donna, né sua sorella.

– Notizie di Ally? – chiesi lentamente, sorseggiando il mio té.Rafael mi guardò sconcertato dal mio cambio di argomento, poi

scosse le spalle.– Sempre il solito. Le stanno riportando alla normalità il

metabolismo, ma non ha dato segni di svegliarsi. Posai la tazza nel piattino e fissai l'anello di Alexandra che mi ero

infilata al dito. Non avevo osato pensare, fino a quel momento, che Alexandra avesse tentato il suicidio.

Cosa poteva averla spinta a riempirsi di tranquillanti? Cosa l'aveva logorata al punto di infliggersi dolore alle mani? Non potevo credere che si trattasse solo dei due omicidi, o suicidi, accaduti nel Convento, anche se Alexandra era sempre stata fragile e suggestionabile. C'era qualcos'altro, qualcosa che Alexandra mi aveva nascosto, che l'aveva scossa al punto da farla crollare.

– Era piuttosto reale, e anche piuttosto spaventoso. – mormorai rivolta a me stessa.

– Cosa? – – Il fantasma di Ally. M’implorava di aiutarla, di portarla via da

lì... E se fosse stata una premonizione? Rafael si avvicinò a me scrutandomi preoccupato in viso.– Celinita, stai dando i numeri? – No... Mia nonna era una strega, o almeno così dicevano di lei.

Succedevano sempre cose strane quando lei era nelle vicinanze. Porte che si aprivano e si chiudevano da sole, ombre che seguivano le persone, strane malattie... Forse ho ereditato un po' del suo senso di premonizione. Sono veramente preoccupata per Ally, Rafael. Quando sei arrivato, due settimane fa, come stava?

– Bene, ma... – Era pallida e patita? – No, anzi, era in ottima salute. – Ha preso freddo forse, è rimasta tra le correnti d'aria, è venuta

al Convento senza coprirsi... – Mah, non saprei... No, era sempre vestita bene... – Prendeva qualche psicofarmaco? Mi ha detto che non riusciva a

chiudere occhio, che non riusciva a riposare bene. Ho trovato una scatola di tranquillanti in camera sua.

– Non so, credo di no. Me lo avrebbe detto...

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– Perché mai? Non sei il suo medico, e il dottor Rowse non sa nulla. Cos'è che l'ha debilitata allora?

Non attesi la sua risposta. Stavo crollando dal sonno, avevo il cervello confuso e mi era tornato il senso di nausea del pomeriggio. Mi alzai lentamente cercando di tenere a fuoco la vista.

Avevo bisogno di riordinare le idee e di riposare.– Stanno succedendo cose molto strane, Rafael. Non metto in

dubbio la tua parola, ma sono sicura di ciò che mi è successo e di ciò che ho visto. Vado in camera mia a dormire un po'. Se hai notizie di Ally chiamami subito.

Rafael rimase a fissarmi in silenzio, lo sguardo oscurato da pensieri che avevo paura ad interpretare, mentre uscivo dalla cucina.

– Domani Lucia mi saprà dire di cosa sono composti i disegni dei dipinti, così potrò stilare un preventivo per il restauro. Dopo di ché tornerò a Milano.

Non ebbi risposta da Rafael. I buoni rapporti si erano rotti definitivamente. Ormai, eravamo come due estranei.

. . .Mi sedetti sulla sponda del letto, massaggiandomi la fronte che mi

pulsava dolorosamente. Il senso di nausea non sembrava voler passare, nonostante il té alle erbe che avevo bevuto.

Fissai la mia valigia aperta sul letto, gli abiti disseminati sulle coperte. L'avevo lasciata così la notte prima, quando avevo cercato un maglione, prima di portare Alexandra in ospedale.

Cos'ero venuta a fare in Irlanda? Cercavo forse la soluzione dei miei problemi? Non l'avrei certamente trovata in quel posto dimenticato da Dio, dove la gente aveva problemi ben più grossi dei miei.

Alexandra mi mancava più di ogni altra cosa, in quel momento. Le sue lettere mi erano state di conforto durante il brutto periodo in cui ero stata schiava dell'alcool. La bottiglia di whiskey ancora piena, abbandonata sul mio letto e semisepolta dai panni, mi ricordava quanto mi era stata vicina una persona sconosciuta come Alexandra. Forse esserci conosciute di persona aveva rotto la magia di quell'incanto che ci aveva legato per tre anni.

Presa dallo sconforto mi alzai, afferrai la bottiglia e la vuotai nel lavandino del bagno, gettandola poi nel cestino.

Era inutile piangere sul latte versato.A passo lento mi diressi nella camera di Alexandra. Erin non aveva

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avuto il tempo di riordinarla. Il letto sfatto aveva ancora tracce del peso del suo esile corpo e nell'aria aleggiava un intenso profumo di caprifoglio.

Raccolsi il suo scialle nero, abbandonato a terra, e me lo avvolsi attorno alle spalle guardandomi attorno con un disperato senso di impotenza, in cerca di un segno, qualcosa che mi spiegasse cosa era accaduto alla mia amica più cara.

Non riuscivo a riconoscere in quella stanza ingombra di roba vecchia la ragazza allegra che mi scriveva della sua Irlanda, delle scogliere che voleva tanto portarmi a vedere, dei castelli, dei prati, della sua gente.

La croce di pietra incombeva tra le tende di damasco scarlatto, l'unica cosa che capivo in quel mausoleo, perché sapevo quanto Alexandra fosse religiosa e timorata, e al tempo stesso così legata alle leggende del passato della sua terra.

Ma quel libro, quello che Alexandra aveva abbandonato sulla toelette, quello non lo capivo.

Possibile che il suo fanatismo religioso la portasse al punto di credere che le parole di una Badessa vissuta nel 1100 potessero condizionare la sua vita?

Fissai il libro con un misto di repulsione e di timore, immaginandomi la donna che lo aveva redatto, utilizzando un vecchio pennino intinto nell'inchiostro. La scrittura minuta e incomprensibile per i miei occhi rievocava tempi in cui le donne erano schiave del loro retaggio e del fatto stesso di essere donne. Come una cronista d'altri tempi, la Badessa aveva annotato fatti che se fossero stati conosciuti alla sua epoca avrebbero certamente cambiato il destino della famiglia di Alexandra, ma ora come ora sarebbe stato impossibile per i morti poterlo fare. Erano passati così tanti secoli che anche volendo non sarebbe stato possibile raddrizzare i torti subiti da una donna che era morta in una torre campanaria.

Alexandra aveva lasciato delle annotazioni su un blocchetto e lo raccolsi dalla toelette.

Non riguardava il libro, pareva invece un promemoria che Alexandra aveva segnato: " Spedire lettera a Celine. "

Restai a fissare quell'appunto per un paio di secondi, poi cercai fra la confusione della stanza la lettera che Alexandra avrebbe dovuto spedirmi, l'ultima, dal momento che non mi scriveva da un mese.

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Probabilmente era stata talmente presa dalla faccenda del Convento che non aveva trovato il tempo per spedirmela.

Tra un paio di scartoffie finalmente trovai una busta che recava il mio indirizzo scritto con l'elegante grafia di Alexandra.

Era sigillata e già affrancata, pronta per essere spedita.Strappai la busta senza esitazione, poiché era indirizzata a me.

Portava la data dei primi giorni di Luglio, tre settimane prima del mio arrivo a Fairy Manor.

Dopo i saluti di convenienza e le solite notizie suoi gruppi rock che seguivano entrambe, Alexandra parlava del lavoro di restauro del Convento. Accennava ad alcuni problemi causati da incomprensioni fra lei e l'architetto, che intendevano svolgere la ristrutturazione in modi diversi. Pareva vi fossero stati anche dei furti e degli atti vandalici sul cantiere, in alcuni casi erano successi fatti inconsueti.

Alcuni dei dipendenti dell'impresa edile si erano sentiti male senza motivo, altri dicevano di vedere strane ombre o di sentire voci che parlavano dialetti antichi. L'intera questione la stava facendo uscire di senno, tanto che pensava di accettare l'invito di Rafael a raggiungerlo a Valencia per cambiare aria. Tuttavia non poteva allontanarsi dal cantiere, perché temeva che in sua assenza l'impresa edile e l'architetto ne avrebbero approfittato per condurre i lavori a modo loro, raddoppiando la spesa più del dovuto.

Oltretutto stava catalogando i libri della biblioteca del Convento, che sarebbero stati esposti al termine dei lavori proprio nel museo che intendeva allestire.

M'incoraggiava a raggiungerla al più presto, perché aveva bisogno di un mio parere professionale, e sopratutto per aiutarla a convincere l'architetto a non appaltare il restauro dei dipinti a persone incompetenti.

Ripiegai la lettera, tenendola tra le mani per un po', senza riuscire a capire.

Un mese prima Alexandra mi invitava a Fairy Manor per il preventivo. Mi aveva riscritto quella lettera tre settimane prima supplicandomi di raggiungerla al più presto. Due settimane prima l'architetto era precipitato dal ponteggio e Rafael era venuto al castello per sostituirlo.

La sera prima che io partissi da Milano, Alexandra aveva lasciato un messaggio sulla mia segreteria per invitarmi a non partire perché il mio aiuto non era più necessario.

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Il giorno del mio arrivo, al mattino, era precipitato il secondo operaio dal ponteggio. Rafael mi aveva detto che Alexandra non voleva che io venissi in Irlanda perché era invidiosa del mio lavoro.

Non ero riuscita a scambiare che poche parole con Alexandra, prima del suo collasso. Non mi voleva al castello, ma non aveva neppure accennato al restauro, se non quando si era sentita male. Allora mi aveva pregato di preservarei dipinti della stanza nella torre, come se tutto il resto non avesse avuto importanza.

C'era qualcosa che mi sfuggiva in tutta quella storia. Avevo l'impressione che uno dei due mi avesse raccontato un mucchio di bugie, e l'impressione mi faceva pensare a Rafael.

Lui sapeva un sacco di cose su di me e su Alexandra. Anche su Luca, sui nostri rapporti piuttosto tempestosi. Per essere uno che non avevo mai incontrato personalmente, ne sapeva più lui su di me che io del miei fatti personali.

Tornai nella mia camera in preda a brutti presentimenti, e misi la lettera nella valigia, insieme ai panni. Dall'altra parte della parete sentivo i passi di Rafael vibrare sul pavimento finché non si tolse le scarpe e non riuscii più a captare i suoi movimenti. Spostai la valigia sulla poltrona e mi misi a letto, ma lasciai accesa l'abat-jour, tentando di rimettere ordine nei pensieri confusi che mi vorticavano nel cervello, ma subito caddi in un sonno senza sogni.

. . .“Apri gli occhi, Celinita, apri gli occhi e guardami...”I suoni ripetitivi, come lo sgocciolio di un rubinetto, il ticchettio di

una sveglia, lo scatto metallico di un contascatti, lenti, insistenti, interminabili s'infiltrarono nel mio cervello, bucando la sfera del sonno come spilli appuntiti.

“Apri gli occhi... apri gli occhi... apri gli occhi...”Tentavo di aprirli, incitata da quei suoni continui, ma erano

pesanti. Solo due deboli fessure appannate intravedevano la realtà distorta in negativo, le figure nere in sfondo bianco, prive di distinzione, di nome, di corpo, come fantasmi bidimensionali, piatti e anonimi.

“Apri gli occhi... apri gli occhi... guardami... guardami...”Riuscivo a vedere a fatica, ma potevo sentire, sentivo bene. Anche

il tatto funzionava, sentivo il contatto di qualcosa di morbido come seta scivolare sulle braccia, sulle mani, sul viso, fresco, così fresco... Poi caldo, morbido e caldo.

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Un leggero cullare, un dondolio cadenzato con i suoni, coordinato alla precisione, un così perfetto ondeggiare come sospesa nell'aria fredda e umida al ritmo dello sgocciolio e del ticchettìo.

“Guardami... guardami, Celinita... mi querida... mi alhaja... mi amor...”

Le gambe molli, erano molli, lontane, paralizzate, insensibili, le braccia morte, il sangue come acqua, veloce come le rapide, schiuma di sangue al cervello, il tamburo nel cervello che batteva forte, accorciando il ritmo.

“Celine... Celina... Celinita... Celinetta... Netta... ““Non chiamarmi Netta! Netta era mia nonna, la mia nonna strega,

con le unghie ricurve come artigli, gli occhi grigi d'acciaio, la bocca sdentata che mi baciava e puzzava d'aglio e di stantio. Non mi piacciono i baci, non mi baciare... non mi baciare...”

Il profumo di vetiver nel cervello, dentro la gola, giù nello stomaco. Il profumo devastante come l'ossigeno puro, mi mancava l'aria, non respiravo, respiravo profumo, il cervello sciolto e i sensi intorpiditi di vetiver.

“Dove sei... dove sei... Non ti vedo...”“Sono qui... sono qui... sono qui...”Era lì, lo sentivo, vicino a me, sopra di me, sotto di me, attorno a

me, ovunque, il sangue veloce, il tamburo veloce, il ritmo veloce, più veloce, dentro di me, fuori di me, caldo umido, freddo umido, troppo caldo, troppo freddo...

Sentivo di nuovo le mani, le vedevo, non erano le mie mani.Sentivo di nuovo le gambe, le mie, sì erano le mie, ma non erano

solo le mie. I colori erano tornati, come una frequenza in un canale televisivo, ci vedevo ora, lo vedevo ora, vedevo i suoi occhi neri e bianchi, il viso nero, i capelli neri, la bocca rossa, bella, così bella e vicina, si muoveva come al rallentatore, come in un film muto con il doppiaggio, come in un playback sballato e sfasato.

“Guardami... Guardami... toccami... toccami... Celine... Celina... Celinita...”

“Ti vedo... Ti vedo... ti sento... ti tocco...”Riconoscevo il tatto, il caldo, il respiro irregolare, il mio e il suo, il

profumo come una droga, le mani ovunque, ma in punti precisi, senza sbagliare, qui e qui... là e laggiù... no, là no... sì, oh sì!...

“Vieni con me... vieni con me... vieni con me...”“Dove sei... C'è troppa luce... Portami con te...”

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“Vieni Celinita... Vieni Celinita... Vieni con me...”Il caldo saliva dai fianchi, dal ventre, dalla gola.Il tamburo batteva veloce, più veloce, il soffitto bianco vorticava,

oppure io vorticavo sotto il soffitto e ondeggiavo, avanti e indietro, avanti e indietro... Lo stomaco, le viscere, il respiro, il profumo, le mani, le mani...

“Vieni con me... Vieni con me...”“Vengo... vengo... vengo...”Il rombo lontano di un tuono, la pioggia contro i vetri, forte,

cadenzata da raffiche di vento, il freddo, così freddo ora, e lontano, e squallido, e immobile.

Il soffitto vorticava ancora, ma era nero ora e non lo vedevo veramente, era un sogno ed era gelido. Era rimasto solo il profumo, vecchio e stantio, e le immagini in negativo di un viso nero con i capelli bianchi e ricci che era chino sopra di me.

“Chiudi gli occhi, Celinita... Chiudi gli occhi... Cerras los ojos mi amor."

Chiusi le fessure gonfie e pesanti e non vidi più nulla, non sentii più nulla.

. . .Mi svegliai di colpo, spalancando gli occhi verso la finestra. Un

mattino grigio di pioggia penetrava delle tende di pizzo beige, mentre mi alzavo a sedere fra le coperte.

Mi guardai attorno senza riuscire a capire dove ero.Che non era la mia stanza l'avevo capito subito.Mi levai dal viso i capelli aggrovigliati, combattendo contro una

fitta lancinante di mal di testa. Dovetti chiudere gli occhi, trattenendo un senso di nausea che mi saliva dallo stomaco. Conoscevo quei sintomi. Era parecchio tempo che non li provavo, ma li conoscevo bene. Individuai la porta del bagno appena in tempo, prima di buttar fuori l'anima.

Quando riuscii a fare mente locale, seduta sul bordo della vasca e piegata in due per il dolore delle contrazioni allo stomaco, mi resi conto che il completo scuro da sera appeso all'attaccapanni accanto a un accappatoio nero potevano appartenere solo ad un uomo. Nel caso non ne fossi stata sicura, il paio di stivali texani abbandonati accanto alla vasca erano certamente troppo grandi per essere miei.

La domanda era: cosa ci facevo nella camera di Rafael De Roya?O meglio: nel letto di Rafael!

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Quando c’ero entrata?!Quando fui sicura che l'ondata di nausea fosse cessata uscii dal

bagno, rasentando il muro per paura di cadere. Non c'era l'ombra di abiti di mia proprietà, neppure la mia vestaglia. Avevo addosso solo una camicia bianca che non era la mia, ed esalava un forte profumo di vetiver che dava alla testa e toglieva il respiro.

Mi sedetti sulla poltrona, facendo l'inventario di ciò che di me funzionava ancora, a parte lo stomaco che era rivoltato tanto quanto la poca lucidità che mi era rimasta.

Non volevo ancora cedere al panico.Quel cervello razionale che mi ritrovavo m’impediva ancora di

fuggire via gridando come un'ossessa, come dovevo apparire in quelle condizioni.

Facendo un rapido riassunto dei danni dovevo aver bevuto come minimo un litro di whiskey, che il mio stomaco aveva rifiutato di digerire, ma avevo uno strano sapore metallico in bocca che mi faceva pensare d'aver ingurgitato chiodi.

Lanciai un'occhiata alla sveglia sul comodino che segnava le undici del mattino.

Dall'una della sera prima alle undici di quel mattino non ricordavo assolutamente niente, neppure l'ombra di un sogno.

Balzai dalla poltrona e uscii di corsa dalla stanza, senza urlare però.

Sentii il pavimento gelido sotto i piedi scalzi, ma non persi tempo a cercare le pantofole, appena entrai in camera gettai all'aria la valigia per cercare qualcosa da indossare velocemente. Avrei voluto fare una doccia, ma il pensiero di restare ancora un istante in quella casa mi metteva addosso il panico.

Mentre m’infilavo i collant lanciai un'occhiata alla bottiglia di whiskey vuota ai piedi del letto. Il mio pigiama di flanella era ammucchiato accanto a essa. La mia borsa era sparita.

Cercai fra i vestiti la lettera di Alexandra, ma era sparita pure essa.Mi diedi della stupida, afferrando le chiavi della Ford che avevo

lasciato sul comodino e mi precipitai al piano di sotto. Trovai Lorcan che stava arrotolando un tappeto nell'atrio.

– Il Signor De Roya è già uscito? – Da almeno un paio d'ore, signora. Mi ha detto di avvertirla che

la signorina Alexandra si è svegliata e che i medici hanno dato il permesso perché rientrasse al castello.

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– Quando... Quando si è svegliata? – – Erano circa le sei di ieri mattina. Erin se n'è accorta per prima e

ha chiamato subito i medici. La signorina si è ripresa bene, la febbre è sparita completamente. Ha chiesto subito di lei, sa?

Ieri mattina.Mi presi la testa tra le mani, fissando le scale sotto i miei piedi.Cristo Santo! Ma per quanto tempo avevo dormito?! Non erano

passate dieci ore come credevo, erano passate trentacinque ore!Mi guardai le mani, mentre un terribile sospetto iniziava a farsi

strada nel mio cervello confuso. Non sarei mai riuscita a dormire così tanto spontaneamente. Qualcuno mi aveva drogato.

– Vado a Dublino. Se Rafael ed Alexandra arrivassero prima di me non dica loro che sono uscita. Ho una sorpresa per Alexandra. – strizzai l'occhio a Lorcan, il quale mi guardò un po' stupito.

Salii in auto con il batticuore. Pioveva forte, ma ormai mi ero abituata ai cambiamenti meteorologici di quelle colline.

Presi due profondi respiri prima di mettere in moto e immettermi sulla strada principale.

Mi girava ancora la testa e lo stomaco non era nelle migliori condizioni, ma il dubbio iniziava a radicarsi nel mio cervello, insieme a una sana paura.

Sapevo di non essere andata con le mie gambe nella camera di Rafael. Certamente ero attratta da lui, con un po' di incoraggiamento da parte sua non avrei certo rifiutato di infilarmi nel suo letto, ma ero sicura di non essere stata incoraggiata e io non ero il tipo da offrirmi su un piatto d'argento. Mi conoscevo troppo bene, conoscevo anche le mie reazioni da ubriaca.

Tendevo a rinchiudermi in me stessa e ad autocommiserarmi, non cercavo la compagnia della gente, rifiutavo ogni genere di conforto umano. A volte ero diventata così aggressiva che i dottori avevano dovuto somministrarmi dei calmanti in dosi abbastanza potenti da farmi perdere la cognizione del tempo e delle cose, tenendomi perennemente intontita. In quei momenti il mio cervello sollecitato dai farmaci aveva sviluppato una realtà alternativa, dove tutto era buono, bello e tranquillo.

Mentre scendevo per la strada collinare mi tornarono in mente i ricordi allucinati di quel periodo terribile in cui le crisi depressive mi avevano portato alla soglia di un tentativo di suicidio, miseramente fallito per fortuna.

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Ne avevo parlato solo ad Alexandra, ma Rafael doveva esserne venuto a conoscenza in qualche modo.

Le mie lettere!Sbandai pericolosamente, ma ripresi subito il controllo dell'auto.Ecco come Rafael sapeva dei miei problemi! Alexandra conservava

tutte le mie lettere, ma passava così tanto tempo tra i libri del Convento che doveva averle lasciate incustodite. Per Rafael doveva essere stato un gioco da ragazzi trovarle nella camera di Alexandra e leggerle. Sapeva tutto di me, di Luca, delle mie crisi, dei tranquillanti...

Mio Dio! I tranquillanti di Alexandra!Mi tremarono le mani al solo pensiero di ciò che il mio cervello

confuso stava elaborando, mentre mi immettevo sulla statale a Rathnew.

Rafael non poteva aver fatto una cosa simile! Eppure era proprio quello il sapore metallico che mi era rimasto in bocca.

Avrei riconosciuto quel sapore anche mischiato al miele.Quanti tranquillanti i dottori mi avevano fatto ingurgitare quando

ero in cura?Quanti ne avevo rigettati per sovraddosaggio? Quella roba era

peggio della morfina e ne ero diventata dipendente.Non riuscivo a credere che Rafael fosse arrivato al punto di

drogarmi per avermi nel suo letto!Dovevo avergli fatto un torto, e non solo io. Alexandra era sempre

stata in ottima salute fino a due settimane prima...Pioveva più forte verso la costa. Raffiche di pioggia si abbattevano

sul vetro dell'auto trascinate da un vento che soffiava da nord, impedendomi quasi di vedere la strada.

Un autocarro mi sorpassò ad alta velocità, spaventandomi. Nella furia avevo dimenticato che in Irlanda si guida a sinistra, ed ero in mezzo alla strada. Sbandai di nuovo, ma questa volta non riuscii a controllare l'auto e uscii di strada, arenandomi in un prato molle d'acqua. Battei la testa contro il vetro, e questo fu l'ultimo ricordo prima che tutto diventasse nero.

Capitolo 12

"Allora vidi i morti, grandi e piccoli, in piedi davanti al trono.

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Furono aperti i libri, e fu aperto anche un altro libro, quello della vita. I morti furono giudicati secondo le loro opere, come stava scritto in quei libri."

( Apocalisse 20 – 12 )

Convento di Santa Brigida, Anno Domini 1172

Angelik aspettò che la Madre Superiora salisse sulla carrozza, prima di salutarla. La donna chiuse lo sportello poi si sporse dal finestrino.

– O'Connors starà aspettando. Non posso tardare ancora. – Fate attenzione, Madre. – si raccomandò Angelik.– Io farò attenzione, ma tu fai esattamente quello che ti ho detto,

e non farti seguire. – State tranquilla, Madre. I vostri ordini saranno eseguiti alla

lettera. – Angelik fece segno al vetturino di partire, e la carrozza uscì dal cortile del Convento.

Angelik rimase per un po' nella notte gelida a fissare la carrozza che scendeva la strada verso valle, poi si strinse nel saio, rabbrividendo, e tornò nelle cucine.

Desirée la guardò di traverso, pulendosi le mani nel grembiule. Il pollo che stava squartando sul tavolo da cucina le aveva insanguinato e arrossato le mani e le braccia, come a un assassino.

– E allora? – domandò Angelik.– È di là che urla come un demonio. Quand'é che lo porti via? – Ora, subito. Il tempo di togliermi questi stracci da monaca. – Forse dovresti tenerli. Avranno più compassione per te e

terranno il bambino. – No, non lo faranno. Mi direbbero che dovrei occuparmi io degli

orfani, io che sono una sposa di Dio. No, farò come ha deciso la Madre.

Desirée sbuffò e fece spallucce. Poi prese un cesto e lo riempì di stracci di lana.

– Mettilo qui dentro. Farà più impressione. – Pensi che i Ryan non si impressioneranno? Quel bambino è

pelle e ossa come un gatto randagio affamato. – Secondo me lo prenderanno per accontentarti. Poi appena giri

l'angolo, lo annegheranno nel Liffey.

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– Sarebbe veramente un crimine atroce. Mi meraviglio di te, Desirée! Dov'è finita la tua fede nella Divina Provvidenza?

– Qui. – Desirée si batté una pacca sullo stomaco prominente. – Me la sono mangiata quando ho perso l'ultima scommessa sulla Divina Provvidenza.

Angelik rise, scrollando la testa.Desirée non rise, invece. Aveva lo sguardo duro e incollerito.– Non sono affari miei, e neppure spero che non lo diventino mai,

ma non ho capito perché la Madre ha fatto fuori la Duchessa e ha lasciato in vita suo figlio. Poteva ammazzare anche lui e farla finita. Ora ci tocca nasconderlo come un bandito e rischiare la pelle anche per lui.

Angelik si tolse gli stracci da monaca e indossò una veste da contadina. Si avvolse in una cappa nera, poi prese la cesta dalle mani di Desirée.

– Non sono affari tuoi, infatti. Sta attenta a quello che dici, Desirée. Potresti passare dei guai.

– A causa di quella peste? Certo che passerò dei guai. Me lo sento nelle ossa. – Desirée tornò ai suoi polli sanguinolenti, mentre Angelik entrò in uno sgabuzzino. Dalla porta aperta uscivano gli strilli di un neonato, che lentamente si acquietarono. Angelik uscì dopo pochi minuti con il cesto nascosto sotto la cappa. Prese un fagotto da una cassapanca e una coperta di pecora.

– Io vado, prima che inizi a piovere. – Ti tengo in caldo la cena? – No. Non so quando torno. Non si salutarono. Solitamente, tra le monache, non ci si

parlava, ma il Convento di Santa Brigida era una di quelle eccezioni che confermavano la regola. Lì, lontano dai lussi e dalle loro famiglie, le monache figlie di principi e re vivevano prigioniere della loro stessa posizione. Nessuno le aveva sposate, erano pesi inutili delle loro famiglie, non avevano sorelle o fratelli per i quali fare da balie o addirittura per fare da balie ai loro figli.

Il Convento era la loro ultima frontiera. Al Santa Brigida gli avvenimenti degli ultimi tempi avevano modificato non poco la monotona vita di reclusione. La Duchessa Savanne era stata prima imprigionata, trattata come un avanzo di galera, poi assassinata.

O morta suicida, come diceva Clementine, che l'aveva trovata dissanguata nella sua cella della torre campanaria. Due giorni

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prima la Duchessa aveva partorito un bel bambino, rosso di capelli come la madre, vispo e molto agitato. Solo le monache sapevano del bambino.

La Madre aveva scoperto, tre mesi dopo la sua reclusione, che la Duchessa era incinta, proprio perché non era più possibile per lei nascondere il suo stato. Angelik le aveva fatto da levatrice. Quando il bambino era nato Savanne aveva detto loro un nome, la persona più fidata che conosceva, che avrebbe curato suo figlio come un padre naturale. Un bambino sfortunato. Avrebbe dovuto essere Dux di Fairy Manor.

Angelik salì sul carretto e incitò il suo asino. Il cesto, accanto a lei sulla tavola che fungeva da sedile, era silenzioso. La giovane monaca non aveva alcun timore di viaggiare sola di notte. Era figlia di un valoroso ufficiale che le aveva insegnato a non temere nulla se non gli amici infidi. E lei di amici non se n'era fatti.

La casa di Ryan era dalle parti di Dun Lully, un paese troppo piccolo per essere segnato sulle carte territoriali. Angelik fermò il carretto davanti alla casa, prese con sé il cesto e bussò alla porta.

Un vento gelido portò con sé le prime gocce di fredda pioggia ghiacciata. Un uomo aprì la porta, portando sopra la testa la lanterna. Il viso scarno della donna lo rese diffidente. In mano aveva un bastone.

– Che volete? – Mi manda la Madre Superiora del Convento di Santa Brigida.

La Duchessa è morta. Prima di spirare ha chiesto che vi prendiate cura di suo figlio.

Angelik alzò il cesto e scoprì il capo ricciuto di un neonato. L'uomo fissò i capelli rosso fuoco e gli occhi azzurri per un lungo istante.

– Il figlio della Duchessa? – Qui c'è del denaro per voi, e una lettera da dare al bambino

quando sarà in grado di capire. La Duchessa ha detto che ci si può fidare di voi. Che non tradirete il figlio di Rhodry O'Connors.

– Ha detto così? È vero. Ma Rhodry è morto. Ora governano i normanni di Pembroke.

– Non per molto. Se il bambino vivrà sarà lui a governare. Voi guadagnerete molto per questo.

Ryan afferrò il cesto, dopo aver appeso la lanterna al muro. Si accertò che ci fosse il denaro, poi chiuse la porta.

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Angelik sorrise ambiguamente. Risalì sul carretto e riprese la strada del Convento.

Stava risalendo la collina quando esplose il temporale. Un fulmine cadde davanti all'asino in uno schianto. La bestia spaventata s'impennò e strattonò il carro, poi prese a correre ad un galoppo sfrenato. Angelik tento di fermarlo, ma a una curva il carro sbandò e si rovesciò su di lei.

Un attimo dopo la pioggia torrenziale si abbatté sull'asino strangolatosi con le briglie e sul carro rovesciato.

Angelik, sotto di esso, fissava ad occhi sbarrati un cielo che ormai non vedeva più.

Capitolo 13

" Ci sono cose, cose magiche,che devono restare intere.Se si comincia a guardarne le singole parti, svaniscono."

(I ponti di Madyson County, Robert James Waller)

Fairy Manor, luglio 1993

– Celine... Celine... come ti senti? Aprii gli occhi nell'oscurità e intravidi un viso famigliare. – Ally? – Come ti senti? Ti fa molto male la testa? Richiusi gli occhi, poiché era troppo doloroso tenerli aperti. Con

una mano incerta raggiunsi la mia fronte. Dove la sfioravo sentivo un dolore atroce. Sotto i polpastrelli intuivo il rigonfiamento di un ematoma.

– Dove sono... – Al castello, a casa mia. Alexandra mi sistemò una coperta, così scoprii di essere distesa in

un letto, probabilmente il mio.– Ti ho portato una tazza di té. Te la senti di berne un po'? Mormorai un no lentamente. Il solo pensiero di sollevarmi mi

creava fitte lancinanti nella testa.

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– Il dottor Rowse ha detto che non è grave. Hai una leggera commozione celebrale, nulla di preoccupante. Ti ha dato un sedativo per farti dormire un po', così non sentirai molto dolore.

Riaprii gli occhi di colpo e fissai il viso di Alexandra in penombra.– No! Niente tranquillanti! Ascolta, Ally: devi buttare via tutto!

Non prendere quella roba. Non permettere a nessuno di farmi iniezioni... Rafael...

Alexandra mi prese per le spalle con un sorriso rassicurante.– Non ti agitare, cara. Ci sono qui io a vegliarti. – Rafael... – Rafael è al Convento. Deve lavorare, lo sai. Mi ha detto di aver

cura di te finché torna. – No! Devi mandarlo via! Ci ha drogato tutt'e due! È pazzo! Alexandra mi pose un dito sulle labbra.– Shht... Dormi un po'. Non pensare a Rafael. Sentii Alexandra scivolare via con un fruscio di raso, e allontanarsi

verso la porta. La poca luce se ne andò quando, lasciandomi completamente al buio.

Tesi una mano alla cieca alla mia destra e colpii il comodino con le dita. Cercai su di esso finché trovai il telefono, lo trascinai sul letto e alzai in ricevitore. Il segnale era libero, fortunatamente. Allungai di nuovo la mano e riuscii a trovare l'interruttore dell'abat-jour.

Quando l'accesi la luce mi trafisse gli occhi, tanto che dovetti richiuderli immediatamente.

Presi un respiro profondo, tentando di calmarmi.Se mi fossi agitata troppo mi sarebbe venuta una crisi di nervi, e in

quel momento non potevo permettermelo.Riaprii lentamente gli occhi che si abituarono alla luce azzurrina

dell'abat-jour e fissai la tastiera del telefono. Composi il numero un tasto dopo l'altro e attesi. Dall'altra parte suonava libero.

Quattro squilli, un quinto, poi finalmente qualcuno sollevò il ricevitore.

– Pronto? – Pronto? Lucia? – Si? – la voce di donna sembrò esitare nella attesa di capire chi

fossi.– Lucia, sono Celina... – Celina! Sono quattro ore che tento di rintracciarti! Ho fatto le

analisi che mi hai chiesto e... non ci crederai mai... forse è meglio se

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ti porto gli stampati... Non si tratta affatto di colore, né di inchiostro. È sangue! Sangue umano! Celina, sei ancora lì? Hai sentito cosa ho detto?

– Si... ascolta, Lucia... Ho bisogno di un favore... – Si, dimmi pure.– Dovresti venire qui a Fairy Manor. Ho bisogno del tuo aiuto...

Puoi venire? – Subito, adesso? Sono le due di notte. Verrò domattina e porterò

le analisi, va bene?– Va bene, domani va bene. – Le diedi l'indirizzo del posto, poi ci

salutammo e chiusi la comunicazione. Riposi il telefono sul comodino, ma lasciai la luce accesa. Iniziavo ad avere paura delle ombre. La sveglia segnava le nove di sera, ma non sapevo più di quale giorno si trattava.

Perchè Lucia aveva detto che erano le due di notte?Mi riaddormentai e mi svegliai ancora molte volte. L'orologio

segnava ore sempre diverse, così come la luce che filtrava in lunghe lame attraverso le persiane ogni volta cadeva da direzioni diverse.

Il sonno annullò il dolore alla testa causato dall'impatto contro il vetro dell'auto, ma appena mi svegliavo la fronte mi pulsava come un martello. Nel dormiveglia percepii la presenza di persone nella mia camera, qualcuno che medicava la mia fronte e qualcun altro che trafficava con il mio braccio sinistro.

La mia speranza di riuscire a parlare con Lucia svaniva ad ogni risveglio, quando vedevo alternarsi le ore di luce con le ore di buio totale. Se non mi alzavo da quel letto mi sarebbe stato impossibile andarmene da lì.

. . . Non sapevo per quanto tempo ero rimasta in quello stato, sotto

l'effetto delle droghe.Mi risvegliai all'improvviso una sera, e la mia mente si schiarì di

colpo. Ero seduta sul letto, intenta a intrecciarmi i capelli in una foggia

complicata con nastri di seta verde.Mi guardai attorno sbalordita, riconoscendo la camera di

Alexandra, completamente ripulita. Erano stati tolti i reperti del museo ed ogni mobile, a parte la piccola toeletta con il libro della Badessa.

La croce celtica era ancora appesa tra le due finestre, dove le tende

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di damasco erano state raccolte e i vetri erano aperti su un magnifico cielo stellato, il più limpido che avessi mai visto.

Le fiammelle di una trentina di ceri illuminavano la stanza creando lunghe ombre mobili contro le pareti.

Mi guardai le mani, che avevano interrotto il lavoro di intreccio, e i nastri di seta che avevo in grembo.

La mia treccia nera era rimasta a metà e mi chiesi perché mai stessi facendo una cosa simile.

Un flash, un'immagine di venti anni prima mi riportò in un vecchio casolare di campagna, dove una donna dai capelli bianchi e arruffati intrecciava i capelli neri di una bambina di cinque anni, irrequieta e annoiata.

Dopo la morte di mia nonna Netta nessuno mi aveva più intrecciato i capelli. Mi ero rifiutata di sottopormi ancora a quella lunga tortura e ai terribili mal di testa che mi procurava. A sei anni, un giorno che ero in casa sola, mi ero tagliata i capelli con il coltello da cucina.

Con le mani tremanti sciolsi la treccia e gettai a terra i nastri sgualciti, lontano da me.

Mi alzai dal letto e mi avvicinai alla toeletta fissando un'immagine nello specchio che quasi non riconobbi come il mio viso. Ero pallida come uno spettro, qualcuno mi aveva evidenziato il contorno degli occhi con eye-liner nero e la bocca con del rossetto rosso fiammante. Probabilmente, avevo fatto tutto da sola. Indossavo uno strano abito di seta nera, assurdamente fuori moda, lungo e scollato, a vita alta.

Mi stavo vestendo per Halloween? Non eravamo ancora in ottobre. O si?

Nella mia mano brillava l'anello d'oro di Alexandra.Ero ancora in Irlanda.Nei miei lunghi e tormentati sogni ero tornata a casa ed ero con

Luca.Non ero mai partita. Mi avevano fatto credere di averlo fatto.Fissai il libro della Badessa con un misto di orrore e di ribrezzo,

sensazioni che mi venivano da un subconscio tormentato.Rimasi folgorata quando mi accorsi di stare leggendo quelle

parole. Non conoscevo il Gaelico! Quando avevo imparato a leggerlo?!

“... Secoli bui si apprestano a discendere sul popolo d'Irlanda. Vedo sangue e spade colpire fratelli e parenti. La mia opera qui è

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compiuta, il mio dovere terminato. Consegnerò al traditore il falso testamento, perché gioisca nelle sue ultime ore di quella vittoria che pagherà all'inferno. La morte di innocenti non resterà impunita. La Duchessa ha dannato la sua anima per avere vendetta e giustizia, e così sarà fatto. Nessun O'Connors sul trono di Fairy Manor...”

Distolsi la vista dal libro, trattenendo un fitta allo stomaco. Le parole del libro mi squarciarono la mente ad altri ricordi, a ricordi di altre persone, a cose che non potevo aver visto, se non attraverso altri occhi...

... La stessa stanza, la stanza di Alexandra, le tende strappate, il letto sfatto dove giaceva un corpo esanime, le lenzuola intrise di sangue, sangue sulle pareti, sul pavimento... Il fuoco oltre la porta, le fiamme che bruciavano i cadaveri, le urla disumane e le spade, le lame insanguinate che trafiggevano la mia gente, la mia gente... la mia gente...

Mi riscossi, frastornata. La visione era scomparsa tra le fiammelle delle candele, così come le urla dei morenti erano state assorbite dalle pareti della stanza.

In quella stanza era stato compiuto un crimine.I brividi mi si arrampicarono su per la schiena. Dovetti affacciarmi

alla finestre per respirare l'aria fresca, per allontanare quei ricordi che non erano miei, ma ero io a ricordarli, io sentivo l'orrore dentro la mente.

Oppure qualcuno lo ricordava attraverso me.Sentii Alexandra un istante prima che bussasse alla porta ed

entrasse.– Non sei ancora pronta? È quasi ora. La fissai intimorita, mentre entrava a passo leggero nella stanza

venendomi incontro. Indossava un abito simile al mio e aveva intrecciato i capelli rossi con nastri blu. Così acconciata mi assomigliava molto.

Il suo viso cereo era truccato come il mio, ma gli occhi azzurri erano vacui e spenti.

Era sotto l'effetto di un allucinogeno?Poteva essere la mia salvezza! Se approfittavo di quel momento

potevo fuggire da quel posto infernale!– Non riesco a trovare i miei nastri... – mormorai.

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Alexandra mi fissò immota, poi andò al comodino accanto al letto ed estrasse due nastri verdi dal cassetto.

– Puoi prendere i miei... Mi avvicinai a lei con cautela.– Mi aiuteresti? Lei mi guardò un istante meditabonda, poi andò alle mie spalle e

iniziò ad intrecciarmi i capelli.Non sapevo come comportarmi. Fino a quel momento avevo agito

sotto l'effetto di una droga, ma ora ero lucida e ben presente.I movimenti di Alexandra erano lenti e misurati, a volte si

interrompeva, poi riprendeva. Pareva quasi che quel gesto fosse parte di un rito, un cerimoniale che precedeva un evento.

Un evento per il quale “non ero ancora pronta” e che “era quasi ora”.

– Quanto manca? – chiesi, senza sbilanciarmi.– Poche ore. Ore.Mi bastavano solo una manciata di minuti per fuggire in corridoio,

precipitarmi giù dalle scale, spalancare la porta ed essere fuori da lì.L'ultima volta che avevo visto Alexandra da lucida era stato troppo

tempo fa. Non potevo neppure più chiedere il suo aiuto.Mio Dio! Cosa ci aveva fatto Rafael?!– Hai terminato di leggere il diario?La domanda di Alexandra mi prese alla sprovvista e lì per lì non

seppi cosa rispondere.– Io... non capisco alcune parole. Sono quasi illeggibili. Alexandra terminò la mia treccia, che già sentivo pesarmi dietro la

schiena, poi si sedette alla toeletta. Sfogliò le pagine all'indietro, all'inizio dell'ultima annotazione, e lesse a voce alta.

– “... Trenta luglio millecentosettantatre. Ieri pomeriggio, per mezzo di una lama, Savanne Donninghton si è tolta la vita. All'alba di stamani il suo corpo è stato seppellito in terra consacrata, eccedendo alla regola che impone la sepoltura dei morti suicidi in terra non consacrata

Credo fermamente che la Duchessa non meriti questo ennesimo affronto. Dio possa donare pace alla sua anima tormentata dal dolore e dalla follia. La povera morta è una vittima innocente, mentre noi siamo i peccatori e dovremo rendere conto davanti a Dio di ciò che abbiamo fatto. La cella è sigillata. Ai posteri, il

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compito di rendere giustizia e raddrizzare i torti.Arthur, il traditore, l'assassino, il Caino che ha ucciso il fratello

per invidia, gelosia e cupidigia, subirà per mano mia la vendetta supplicata dalla Duchessa.

Angelik, la mia fedele consorella, penserò al resto. Il bambino porterà con sé il testamento e riavrà ciò che gli spetta in nome di Dio e del Re: il trono di Fairy Manor a un Donninghton di sangue O'Connors, il potere del Ducato conferitogli dal Re d'Irlanda e dal Re d'Inghilterra, e l'oro purificato dalla vendetta contro il traditore...”

Alexandra alzò il viso spettrale verso di me, citando a memoria le parole finali dell'annotazione, sillabandole con un ritmo cadenzato, come il ticchettio di un orologio, lo sgocciolio di un rubinetto, lo scatto metallico di un contascatti...

… Il suo viso cambiò forma e divenne quello di una donna anziana, tormentato dai rimorsi e segnato da anni di ostinato silenzio. Il saio che indossava, nero e squallido, era cinto in vita da un cordone di canapa intrecciata ed annodata in vari punti. Mi fissava in silenzio, ma le parole che sentivo nella mia mente provenivano da lei. Mi porgeva una lama arrugginita, un vecchio coltello da cucina. Presi la lama tra le mani e la fissai intensamente...

– Mi avete chiesto se intendo tenervi qui dentro per sempre. Io non posso impedirvi di andarvene con le vostre mani.

– Cambierebbe qualcosa? – mi sentii domandare alla donna velata.

– Avreste finito di soffrire. Là dove andrete, O'Connors non potrà farvi altro male, né a voi, né al bambino. Se resterete...

– Dunque solo l'assassino di mio marito si ricorda di me in questa prigione? Che ne è stato di mio fratello? La mia famiglia?

– I Donninghton marciano sull'Irlanda al seguito del Re Enrico II. Se volete giustizia, lascerete che O'Connors vi usi come ostaggio?

Meditai su quella domanda per qualche istante, poi chinai il capo fulvo.

– Salvate mio figlio. – Così sarà fatto, mia Signora.

Quando rialzai gli occhi la scena era cambiata e dovetti orientarmi

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nell'ombra di una stanza buia e fredda.Un quadrato di gelido cielo occhieggiava da un finestrino alto,

dove la luna entrava a disegnare solo un piccolo spazio rettangolare sul pavimento di tavelle di cotto.

Nell'attimo in cui mi ripresi, mi resi conto che ero caduta in trance ipnotica e che avevo perso la mia possibilità di fuga. Quando ne uscii mi accorsi che il tempo era passato in un lampo e non eravamo più nella stanza di Alexandra.

E non eravamo sole.Mi ritrovai inginocchiata davanti a un tavolino di pietra, sul quale

erano stati deposti il libro della Badessa e l'anello d'oro della Duchessa, in mezzo a gigli bianchi.

Una sola lampada a olio con la luce fioca, appena sufficiente ad illuminare gli oggetti, era stata deposta sul tavolino e accanto a essa un portaincenso era stato preparato con alcuni sticks.

In un angolo sotto il finestrino qualcuno aveva accatastato alcuni legnetti sottili di cipresso, il cui profumo resinoso era esaltato dal piccolo fuoco che li bruciava senza fare luce.

Attorno al tavolino di pietra, in ginocchio e con i visi coperti dalle mani, riuscivo a distinguere la forma segaligna di Lorcan e la sua testa calva, la treccia rossa come fuoco di Alexandra, la cuffietta bianca di Erin, mentre Rafael, di fronte a me, mi fissava con il suo sguardo di fuoco.

Era ora, e io non ero ancora pronta. Ero spaventata a morte, tanto che mi tremavano le mani e mi sentivo gelare in tutto il corpo. La suggestione, o il fatto stesso di essere stata trascinata contro la mia volontà in quel macabro gioco, mi infusero la convinzione che se non avessi partecipato al rito volontariamente mi avrebbero costretto con la forza e sarebbe stato peggio. Ma così, a mente lucida e senza nessuna preparazione a ciò che stava accadendo, avrei sicuramente fatto un errore di troppo. Per un attimo desiderai ripiombare nella trance, ma era una cosa stupida.

Ero fuggita per una vita. Ero fuggita dai problemi annegandoli nell'alcool, ero fuggita da Luca, dall'Italia. Ero fuggita dai miei fallimenti, dal mio corpo che a volte era troppo esigente. Ero fuggita dal dolore, dall'effetto dei sedativi, dalla sottomissione, dalla collera senza controllo. Ero perennemente in fuga, ed ora ero al capolinea. Non potevo più nascondermi dietro una maschera di tranquillanti. Dovevo affrontare i miei demoni, quelli che io stessa avevo creato:

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Rafael ed Alexandra.Li avrei usati contro di loro. Dovevano solo darmi un'arma, dal

momento che mi avevano già dato un buon motivo per usarla.Il piccolo fuoco lentamente si spense. Quando anche l'ultima brace

divenne nera, dopo che Rafael vi aveva cosparso sopra dell'incenso, le persone intorno a me alzarono i visi dalle mani e iniziarono a mormorare una lamentosa invocazione.

– Potenze del Regno, siate sotto il mio piede sinistro e nella mia mano destra...

Li guardavo inebetita, mentre fissavo gli oggetti appartenuti a donne morte secoli prima, e capii: era un rituale per evocare i morti!

Ma non era possibile che nel ventesimo secolo si credesse ancora ai rituali per evocare gli spiriti dei morti!

Rafael stesso mi aveva esternato il suo scetticismo in materia di stregoneria. Aveva dubitato perfino della mia sanità mentale quando gli avevo parlato di mia nonna Netta!

– Gloria ed Eternità, toccate le mie due spalle e menatemi per le vie della Vittoria. Misericordia e Giustizia, siate equilibrio e splendore della mia vita...

Un lampo di luce mi abbagliò di nuovo, come nella stanza di Alexandra, e ciò che vidi davanti a me fu di nuovo il caos.

...Uomini armati di mille anni prima entravano nel mio castello, saccheggiando, uccidendo, incendiando... Dal balcone della mia camera fissavo paralizzata i mercenari di mio cognato mentre si disputavano ciò che apparteneva a mio marito. Arthur era accanto a me e m’indicava la forca al centro del cortile interno.

“Potrei farti appendere a quella corda, ma sarebbe troppo drastico ed inutile. Devi dirmi dov'è il testamento. Non lascerò che gli inglesi diventino i padroni dell'Irlanda, e neppure di Fairy Manor.”

Rhodry era già morto? Perché sentivo il vuoto dentro di me?…

– Intelligenza e Saggezza, datemi la corona. Spiriti di Malcut, conducetemi fra le due colonne su cui s'appoggia tutto l'edificio del tempio...

La testa mi vorticava paurosamente, mentre le immagini della devastazione di Fairy Manor si confondevano con i visi pallidi e

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segnati di coloro che mi stavano accanto al tavolo di pietra.

– Angeli di Netsah e di Haod, ponetemi sulla pietra cubica di Jesod...

Di nuovo il senso di ondeggiamento e l'odore penetrante dell'incenso che m’invadeva il cervello.

– Allelu-ja, Allelu-ja, Allelu-ja, Amen.

D'incanto la mente mi si squarciò, come l'atto supremo di un'ordalia: i pensieri di coloro che mi attorniavano divennero i miei pensieri.

Sentii la mente ottusa di Erin, con la sua cieca fedeltà alla famiglia Killamore e la sua devozione a Alexandra.

Lorcan e i suoi pensieri intricati riflettevano sgomento ed esaltazione, dove avrebbe dovuto esserci la ragione, che invece era ridotta ad una flebile scintilla.

Alexandra mi trasferì tutte le sue emozioni ardenti e sconvolte dalle droghe, le sue visioni confuse di demoni e di angeli, il paradiso e l'inferno in un unico gorgo nel quale stava sprofondando.

Infine Rafael, come una belva selvatica che m’incanalava nel cervello frenesia, furia rabbiosa, concupiscenza e fuoco che divampava e distruggeva...

– Savanne... dimmi dov'é l'oro degli O'Connors... Dimmi dov'é l'oro... Dimmi dov'é l'oro, Savanne...

Un dolore intenso mi trafisse le braccia, mentre brancolavo con la mente confusa e affollata dei ricordi di altre persone, cercando di non perdere la mia vera identità.

– L'oro... Non so dov'è, l'oro... Mi guardai le mani, cercando di rimettere a fuoco la vista. Vidi

solo due artigli bianchi macchiati di sangue che colava sul vestito, e la mia mano che tracciava parole su una parete di pietra.

" Tradimento... Disgrazia e Dannazione... Il mio sangue parla per me... Brucino all'inferno insieme a me e al mio sposo..."

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Il fuoco, il sangue, la furia di Rafael, mi stavano trascinando insieme a Alexandra nel suo gorgo senza ritorno, e io non reagivo e attendevo la risposta alla domanda, paralizzata dalla paura e dall'esaltazione della droga.

– Dov'é l'oro, Savanne... Dimmi dov'é l'oro... Dio aiutami! Non so dove sia ciò che cercano! Io non sono

Savanne! Io sono Celina! Savanne è morta! Morta!

– Dov'é l'oro Savanne... Dov'é l'oro...

Dio mio, dimmi cosa devo fare! Fai uscire tutti dalla mia mente! Sto impazzendo!

“Veni Creator Spiritus... Mentes Tuorum Visita...”

Le parole di un'antica sequenza mi si intrufolarono nella mente sconvolta, insinuandosi tra le lamentose litanie di Rafael e degli altri.

“... Imple Superna Gratia Quae Tu Creasti Pectora...”

Mi aggrappai a quelle parole latine che avevo recitato da bambina con mia nonna Netta. Potevo quasi riconoscere la sua voce tra il caos, la cantilena che si ripeteva ogni sera prima di dormire, invocando lo Spirito Santo perché ci proteggesse.

“... Accende Lumen Sensibus, Infunde Amorem Cordibus, Infirma Nostri Corporis, Virtute Firmans Perpeti...”

Un colpo improvviso, come una fucilata, mi fece sobbalzare, spaventandoci tutti.

Fasci di luce cruda ci accecarono, urla di gente viva, ordini secchi e veloci ci distolsero dal rituale.

Una ventata d'aria gelida raffreddò la stanza facendomi rabbrividire.

Sentii una mano stringermi una spalla e la voce di un uomo che mi scuoteva risvegliandomi dalla trance.

– Signorina! Signorina! – poi si dovette voltare e parlò ad altri. – Un medico, presto! Sta perdendo molto sangue! Si é tagliata le vene!

Il volto era una maschera deformata dalle ombre, indistinguibile.Venni afferrata da più persone che mi trascinarono fuori dalla

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stanza in un corridoio illuminato da altri fasci di luce.Mi avvolsero in una coperta.Qualcuno mi sosteneva mentre le forze mi venivano meno. Mi

sentii scivolare a terra di colpo, poi sollevare contro un corpo solido e caldo, il battito accelerato di un cuore che non era il mio.

Il cielo stellato fu all'improvviso sopra di me, poi le luci si confusero con la notte.

Capitolo 14

" Dove c'è un cadavere, là si radunano anche gli avvoltoi."

( Luca 17 – 37 )

Convento di Santa Brigida, Anno Domini 1172

Desirée bruciò le vesti della Duchessa. Fissò per qualche istante il fuoco fumoso del caminetto dove ardeva l'ultimo lembo di damasco rosa.

Le aveva conservate per venderle di nascosto al mercato, ma ora che era morta aveva paura che qualcuno incolpasse lei. Avrebbe venduto le vesti di Clementine e quelle di Prudence.

I gioielli li aveva tenuti Angelik e li aveva venduti ad un mercante di preziosi.

Desirée era sicura che la badessa avesse consegnato il testamento al nuovo Dux, ci scommetteva la testa. Quell'uomo era terrorizzato di perdere il suo Ducato, poichè che gli Inglesi ormai dominavano buona parte dell'Irlanda.

Clementine invece aveva voluto tenere le ciocche di capelli rossi della Duchessa, non si sa per quale rito macabro. Desirée era convinta che la morte della Duchessa fosse colpa di Clementine, perché andava in giro a dire che la Duchessa aveva lanciato una maledizione su tutte loro. Chi avesse posseduto un solo oggetto appartenuto alla Duchessa rischiava di morire di morte violenta.

Desirée teneva di più alla vita che ai soldi, questo era risaputo, perciò aveva deciso di purificarsi. Bruciare gli abiti e recitare un esorcismo per allontanare l'anima dannata dell'assassina morta suicida, doppiamente peccatrice.

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Prese il mantello della Duchessa dallo sgabuzzino e se lo mise sotto un braccio con l'intenzione di gettare anch'esso sul fuoco.

Nell'altra mano sgranava il rosario, recitando tra i denti le avemarie. Stava per gettare il mantello sulle braci quando sentì un bruciore forte al braccio. Lasciò cadere a terra il mantello con un urlo di dolore, poi guardò terrorizzata la serpe che usciva dalle pieghe della lana. Si stringe il braccio al corpo, indietreggiando e sudando freddo, mentre la serpe scivolava velocemente sulla pietra del pavimento.

Appena scomparve in una crepa del muro, Desirée corse ad aprire il battente, ma il legno restò fisso allo stipite. Gridò a gran voce, ma nessuno le rispose. Lentamente scivolò a terra con una nuova consapevolezza: Angelik aveva messo la serpe nel mantello e aveva sigillato la porta. Angelik, la favorita della Badessa. Gliel'aveva detto di farsi gli affari suoi, che avrebbe passato dei guai! L'aveva avvertita!

Un tremito violento la scosse.Desirée fissò il mantello, che caduto malamente quando l'aveva

gettato a terra, si era avvicinato troppo alla fiamma del camino e ora iniziava a fumare e a bruciare. In un attimo divenne un piccolo rogo che intaccò le tavole del pavimento e si allargò sempre di più nella stanza. Desirée chiuse gli occhi, stringendo il rosario.

– Mio Dio... perdona i miei peccati...

Il mattino dopo Clementine trovò la porta delle cucine bruciata e il cadavere di Desirée mezzo carbonizzato. Nella stanza non si era salvato un solo oggetto dalle fiamme, che stranamente non erano uscite nel corridoio, ma si erano soffocate e spente dopo aver bruciato tutto all'interno.

Clementine lasciò il Convento quello stesso giorno per tornare dalla sua famiglia, dove morì di febbri allucinanti una settimana dopo.

Prudence venne nominata Badessa al posto dell'altra, il cui cadavere fu trovato in un fosso, gonfio d'acqua dalle parti di Aughrim.

Nessuno seppe più che fine avesse fatto Angelik.Nessuno s'interessò alla sorte del bimbo di Savanne Donninghton

e Rhodry O'Connors, perché nessuno sapeva della sua esistenza.Ryan battezzò il bambino Peter e gli diede il suo cognome.

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Capitolo 15

"Il demonio inganna i sensi sconvolgendo l'immaginazione, di cui non saprebbe pertanto cambiare la natura. Dalle apparenze che colpiscono la vista dell'uomo si forma immediatamente un corpo immaginario nell'intendimento e fino a quando dura il fantasma, le apparenze lo accompagnano"

( Torreblanca – Magia Operatrice)

Dublino, Ospedale Civile, agosto 1993

Al fianco di Lucia passeggiavo lentamente nel giardino dell'ospedale, stringendomi le braccia attorno al corpo.

La mia vestaglia di felpa stonava terribilmente con il suo vestito di seta rosso, che si intonava così bene con in suo caschetto biondo.

Erano passati tre giorni da quella notte, la notte più lunga della mia vita.

La polizia mi aveva interrogato, ma non avevo saputo molto da loro sulla sorte di Rafael. Per quel motivo avevo chiesto a Lucia di raggiungermi in ospedale.

– Il commissario mi ha detto che potrai tornare in Italia presto, appena i medici termineranno di disintossicarti dagli allucinogeni. Come ti senti ora?

Guardai Lucia con un sorriso rassicurante.– Mi sento già molto meglio. Devo ancora ringraziarti per tutto

quello che stai facendo: i documenti, i medici... – Lo faresti anche tu se io mi trovassi nei guai. A cosa servono le

amiche altrimenti? Siamo straniere in terra straniera, non dimenticarlo!

Ridemmo insieme di quella pessima e frusta battuta, più vera di quel che credevamo.

– Hai notizie di Rafael? – le chiesi dopo un po'.–Lo trasferiranno a Valencia la prossima settimana. Il

commissario mi ha detto che verrà accusato di duplice omicidio, dell'architetto e dell'operaio, di truffa aggravata ai danni

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dell'impresa edile e di sequestro di persona per te e Alexandra. Avrei voglia di assistere al processo. Ti chiameranno a testimoniare, lo sai?

– Si, me lo hanno detto. Non posso fare diversamente, anche se sarò costretta a rivederlo. Voglio solo che questa storia venga chiusa definitivamente, e purtroppo non posso contare su Ally. Hai parlato con i medici? Cosa ti hanno detto di lei?

Lucia non rispose. Si limitò ad indicarmi una donna anziana, in abiti eleganti, che spingeva una carrozzella a pochi metri da noi. La ragazza che vi era abbandonata sopra, con un panno sulle ginocchia, fissava davanti a sé un punto nel vuoto, gli occhi vacui e spenti che riflettevano una mente perduta per sempre.

Non le avevo viste subito, e quella scena mi raggelò il sangue per l'ultima volta. Non mi volli avvicinare a loro, non ne ebbi più il coraggio, ma salutai con un cenno del capo la signora Killamore, la quale mi rispose con un lieve triste sorriso, poi tornò a guardare il capo fulvo della figlia che non la riconosceva più.

Ad Alexandra era andata molto peggio che a me. Aveva subito il trattamento per un tempo più lungo e la sua mente si era chiusa per sempre nei ricordi allucinanti di una morta, tutto ciò che era rimasto della sua ragione.

Non avrei più ricevuto le sue lettere affettuose, non avremmo più discusso su chi di noi era più brava a dipingere, non avremmo più riso insieme.

Le dissi addio con la mente e col cuore, mentre si allontanava, spinta da sua madre sui viottoli del giardino.

– Come hanno scoperto che Rafael aveva organizzato l'omicidio dell'architetto e dell'operaio? – chiesi a Lucia per cambiare discorso.

– Pare che Rafael fosse nei guai a Valencia e voleva andarsene per un po' per far perdere le sue tracce dopo l'ultima truffa. Alexandra gli aveva offerto involontariamente la possibilità di nascondersi, ma lui si era fatto abbagliare dall'idea della ristrutturazione del Convento e dei soldi che avrebbe potuto accumulare se avesse gestito bene tutta la faccenda. Oltretutto il ritrovamento dell'antico libro della Badessa, dove era nascosto il testamento della Duchessa Savanne, parlava di un tesoro nascosto da qualche parte nelle cantine di Fairy Manor. Rafael lo aveva cercato ovunque, mentre Alexandra svolgeva le sue ricerche, ma non lo aveva trovato. Poi gli era venuta l'idea della Negromanzia. Vedendo Alexandra così ossessionata dal diario della Badessa la convinse a sottoporsi ad ipnosi regressiva. A quanto pare

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Rafael aveva indotto Alexandra a credere di discendere da quella Duchessa, a comportarsi come lei, a fare tutto ciò che faceva lei da viva. Era sicuro che se il suo piano avesse funzionato, Alexandra avrebbe formulato un'ipotesi molto vicina alla realtà sul luogo preciso del nascondiglio dell'oro. Non so come potesse credere che una cosa del genere potesse funzionare... – Lucia scosse la testa, scetticamente.

– Funzionava, credimi. Quando ero sotto l'effetto degli allucinogeni ho visto scene incredibili accadute in quel castello. La suggestione, forse. Ma se credi negli spiriti, quel posto ne è saturo. – mormorai a mezza voce.

Lei mi guardò un attimo incerta, poi continuò a raccontare ciò che mi ero persa sotto l'effetto delle droghe.

– Quando mi telefonasti due settimane fa chiedendomi di aiutarti, arrivai subito quella notte. Pensai che dovevi essere nei guai, o malata. Mi trovai di fronte una porta chiusa e una casa disabitata. Non c'era anima viva, nessuno che rispondeva al campanello, né al telefono. Me ne tornai in albergo, pensando di aver capito male l'indirizzo, ed ebbi l'idea di telefonare a Luca. Riuscii a trovarlo dopo due giorni, sai quanto è occupato. Mi disse che era venuto a trovarti qui, ma che avevate litigato e vi eravate lasciati molto male. Mi confermò che eri ospite di Alexandra al castello, e che non vedeva di buon occhio la tua amicizia con Rafael, perché di lui si sapeva poco, troppo poco.

In quel momento, ascoltando le parole di Lucia, mi rammaricai per l'ennesima volta di non aver dato ascolto a Luca.

– Così chiamasti la polizia. – la incitai a proseguire.– Si. – continuò Lucia. – Chiamai la polizia e denunciai la tua

scomparsa. Il commissario pareva conoscere bene i proprietari del castello e mi raccontò che c'erano stati i due omicidi al Convento e che tutta la storia sembrava essere montata per far credere che il cantiere fosse sotto una maledizione, che spingesse la gente a suicidarsi. Fortunatamente il commissario non credeva ad una sola di quelle storie, e aveva iniziato a fare indagini sul conto di Alexandra e di Rafael. Alexandra risultò pulita, mentre Rafael era in un mare di guai in Spagna. Il suo vero nome d'anagrafe è Luis Montego. Rafael De Roya era uno pseudonimo che usava per corrispondere con te ed Alexandra. Sapeva tutto sul vostro conto, ogni minimo particolare. Si era preparato il terreno per organizzare

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la più grossa truffa della sua vita, dal momento che non è affatto un architetto. A lavoro terminato avrebbe incassato le percentuali sul progetto di ristrutturazione del Convento, sui preventivi, sui restauri, sul materiale, su ogni mosca che fosse volata all'interno di quella costruzione e senza spendere un soldo in tasse.

Stentavo a credere che si potesse fare una cosa simile, poiché Rafael l'aveva fatta, Alexandra e io eravamo esattamente le stupide che lui credeva che fossimo. Era riuscito ad imbrogliarci molto bene.

– Aveva fatto uccidere l'architetto? – Un suo socio all'interno dell'impresa edile lo aveva spinto dal

ponteggio. Quando Rafael arrivò al Convento una settimana dopo si occupò personalmente di chiudere la bocca al suo socio...

– ... Facendogli fare la stessa fine dell'architetto. – terminai per Lucia. – Ma perché drogarci? Aveva il controllo di tutta l'operazione!

– Forse per cupidigia. Scoprire che un tesoro era stato sepolto sotto il castello lo aveva eccitato al punto che avrebbe fatto qualunque cosa per averlo. Nella stanza di Rafael la polizia ha trovato alcuni libri di occultismo. Conoscendo i vostri punti deboli non gli ci é voluto molto per indurvi ad avere allucinazioni. Drogava le vostre bevande, anche quelle della servitù. Rischiò di fallire quando Alexandra collassò per sovraddosaggio, perciò iniziò lo stesso trattamento su di te. Con due persone suggestionabili e ricettive come Alexandra e te non faticò più di tanto. Poi non gli restò che inscenare il rituale di Negromanzia, che a volte dicono funzioni veramente.

Non replicai alle parole di Lucia. Mi vergognavo di essere stata così fragile e suggestionabile. Luca me lo diceva sempre che ero troppo ingenua.

– Quando il commissario iniziò a fare ricerche dopo che denunciai la tua scomparsa, scoprimmo che Rafael aveva sequestrato tutti voi dentro al castello, mantenendovi perennemente sotto l'effetto delle droghe. Così facendo, aveva avuto campo libero nella ricostruzione del Convento. Aveva fatto firmare a Alexandra gli appalti di almeno dieci imprese edili, facendosi anticipare da lei le caparre per i contratti e la sua commissione su ogni appalto. Le aveva fatto firmare gli atti di vendita di tutti i reperti archeologici e di tutti i libri della biblioteca del Convento, incassando cifre astronomiche da collezionisti americani e francesi. Tutto ciò che è stato trovato nel Convento è stato venduto al mercato nero. Gli acquirenti hanno

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pagato in contanti, in dollari naturalmente, senza lasciare tracce e ricevute. Non è più possibile recuperare quella roba. Si è salvato solo un diario che Alexandra non voleva cedere a Rafael.

Pensai al diario della Badessa e capii perché Rafael non l'aveva venduto. Doveva servire per il rito di Negromanzia. A parte l'anello di Alexandra non aveva altro che fosse appartenuto alla Badessa o alla Duchessa Savanne, le uniche due persone che sapevano dove gli O'Connors tenevano nascosto il lascito del testamento.

– Il commissario riuscì ad ottenere un mandato di perquisizione e con i suoi uomini sfondò il portone d'entrata. C'ero anch'io quella sera, ma tu non ti ricordi. Il commissario mi aveva chiesto di essere presente per riconoscere te ed Alexandra, in caso vi fossero state altre persone all'interno del castello. – concluse Lucia.

– Che ne è stato di Lorcan e di Erin? – Non ricordano nulla. Hanno le idee molto confuse. Resteranno

comunque al servizio dei Killamore, perché Rafael li ha scagionati. – Lucia prese un respiro profondo, poi tornò a guardarmi. – Che hai intenzione di fare ora? Resterai in Irlanda ancora un po'?

– No. Appena i medici mi diranno che posso viaggiare tornerò a casa. Ho voglia di starmene tranquilla a dipingere nella cascina di mia nonna.

Lucia sorrise e mi strinse la mano.– Allora buon viaggio. Chiamami più spesso quando sei a casa. – Lo farò. – promisi sinceramente. – Ho un grosso debito con te. – Troverò il modo per fartelo saldare. Lucia mi baciò lievemente sulla guancia, poi tornò sulla strada che

portava al cancello dell'ospedale, salutandomi con una mano.Ritornai sui miei passi, stringendomi il corpo con le braccia. Avrei

conservato le cicatrici di quella vacanza in Irlanda per tutta la vita, poiché non era stato facile ricucirmi le vene dei polsi che mi ero tagliata durante il rito di Negromanzia.

Non volli continuare a pensare ad Alexandra, né a Rafael. Con loro avevo chiuso la partita.

Mi restava però un conto in sospeso in Italia e dovevo rientrare al più presto per chiudere anche quello.

O riaprirlo, se ne fosse valsa la pena.

Capitolo 16

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"Che la religione e la scienza riunite nell'avvenire si aiutino dunque tra di loro e si amino come due sorelle, poiché hanno avuto la stessa culla!"

( Elifas Levi- Storia della magia)

Milano, interland. Agosto 1993

– “... Ora le fotografie che hai lasciato indietro sono solo i ricordi di una vita diversa. Alcune di queste ci hanno fatto ridere, altre ci hanno fatto piangere. Una di queste ti ha fatto dire addio.”...

La mia Chamade filava sulla tangenziale tra il traffico di inizio agosto, il sole abbacinante delle due di pomeriggio che colava l'asfalto e il condizionatore che mi sbatteva in viso l'aria gelida.

Avevo scelto un bel periodo per rientrare in Italia, ma ero disposta a sopportare anche i trentacinque gradi di calore che aleggiavano come un miraggio all'altezza degli occhi, pur di ritornare a casa.

C'era un paesino fuori della periferia di Milano, ed era lì che ero diretta.

La casa più bella era una villa settecentesca con i soffitti a volta affrescati e i pavimenti di marmo a mosaico, avvolta nella penombra dei suoi antichi porticati, dove grappoli di glicini scendevano a rinfrescare un'atmosfera antica di secoli.

Era lì che Luca passava le vacanze estive, quando gli impegni glielo permettevano.

Era lì che ci eravamo conosciuti due anni prima.Mentre guidavo composi sul cellulare il numero di Villa Toscani a

memoria e attesi. Riconobbi immediatamente la sua voce, forse per averla ascoltata tanto tempo.

– Luca? Ci fu un istante di silenzio dall'altra parte, poi un rumore

indistinto, come di chi si schiarisce la voce.– Ciao, Celina. – Ciao. Sei solo? – Si. – un'altra pausa, più lunga questa volta. – Da dove chiami? – Sono in auto, sulla tangenziale. Sono atterrata tre ore fa a

Linate. – Stai andando a casa?

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– Pensavo di fermarmi a salutarti. Mi immaginavo la sua faccia, l'espressione indecisa, le sopracciglia

aggrottate, mentre si mordeva il labbro inferiore, come faceva sempre quando doveva prendere decisioni importanti.

– Ti aspetto. Non metterci una vita.Sorrisi a me stessa e alle auto che sfrecciavano sulla corsia di

sorpasso, mentre io rallentai e imboccai lo svincolo per uscire dalla tangenziale.

Non sapevo se fosse stata o meno una buona idea.Certamente dopo tutto quello che ci eravamo detti non sarebbe

stato facile ricominciare da capo, ma sapevo che buona parte della colpa era mia e l'avrei ammesso. Solo il futuro avrebbe saputo dire se quella storia sarebbe finita bene.

In quanto al passato, non mi restavano che alcune lettere ingiallite, dove le parole non avevano più valore della carta sulle quali erano state scritte, e un vecchio diario di una donna morta otto secoli prima, di inestimabile valore storico, del quale gli occulti segreti sarebbero rimasti tali per ancora parecchio tempo, finché fosse rimasto nelle mie mani.

Fermai la Chamade davanti all'ingresso del viale di Villa Toscani e scesi.

Luca stava venendomi incontro per aprire il cancello, camminando lentamente sotto il sole del pomeriggio che illuminava come l'oro i suoi capelli biondi.

Alla radio stava terminando la canzone che mi aveva accompagnato fino lì, e mi chiesi se anche il cantante, quando l'aveva scritta, si fosse trovato al di là di un cancello ad attendere che qualcuno lo aprisse ancora una volta.

– "... Ebbene, non c'è fortuna in questi dadi truccati, ma se tu mi dai una possibilità, possiamo impacchettare i nostri vecchi sogni e le nostre vecchie vite, e troveremo un posto dove il sole brilla ancora... "

_____________________________________________Ringraziamenti

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È tradizione per ogni scrittore introdurre un’opera con una dedica verso coloro che con il loro supporto, la loro amicizia e il loro lavoro hanno contribuito alla pubblicazione.

Mia madre e mia sorella Lizzia, le mie più grandi sostenitrici.

Michela Sanseveri per le sue conoscenze mediche, e per avermi aiutato e seguito nei meandri della psichiatria e delle patologie.

Paola Consensi, Lorella Battaglia, Sonia Sdraiati, Silvia Formenti per il loro incoraggiamento e la loro amicizia.

Virginia Parisi, che ha dato un significato più intenso alla parola “amiche”. Questo romanzo è scritto per te, per esserci sempre e comunque.

Antonia Romagnoli, che ha curato la copertina, chiedendo a gran voce di entrare in questo interminabile progetto. Grazie di tutto.

Le Jovi-sisters, ovunque voi siate, per avermi insegnato che non esistono frontiere oltre a quelle che creiamo volutamente. Let it rock and keep the faith, anytime, anywere.

Solange

Casaliggio, 09 febbraio 2009