rosso come la neve

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Daniele Cinquepalmi, thriller. Un broker newyorkese e la sua fuga disperata attraverso il Sud America. Un federale americano che gli dà la caccia. Una ragazza argentina e la sua voglia di ricominciare tutto da capo. Attorno a questi tre personaggi si sviluppa la trama del romanzo, immerso nell'atmosfera senza tempo che culla l’America Latina. Tutti e tre sono alle prese con una personale sfida contro il destino, che attraverso incontri e peripezie li porterà a meditare sui propri errori e scoprire un punto di vista diverso sul mondo.

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In uscita il 27/2/2015 (14,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine febbraio e inizio marzo 2015

(4,49 euro)

AVVISO

Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita.

La conversione automatica di ISUU a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi

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dell’anteprima su questo portale.

La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.

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DANIELE CINQUEPALMI

ROSSO COME LA NEVE

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ROSSO COME LA NEVE Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-863-3 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Febbraio 2015 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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“Nel bel mezzo dell'inverno ho infine imparato che vi era in me un'invincibile estate”

Albert Camus

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1. Michael si svegliò di soprassalto nella notte. Si portò la mano alla bocca e sentì un amarognolo sapore di sangue misto a fango. Si tirò su alla buona, trapassato come da decine di lame a ogni movimento del bacino e a ogni flessione dei suoi muscoli dolenti e irrigiditi. Si trascinò zoppicante lungo la viuzza acciottolata seguendo una luce lontana un centinaio di metri, inzuppando a ogni passo le caviglie nelle profonde pozzanghere di acqua piovana che frastagliavano il percorso. La raggiunse percosso da forti scariche di tosse miste a dolori addominali, entrò nel locale e guardò l’uomo dietro al bancone che lo fissava a sua volta, masticando foglie di coca e sputazzandone i rimasugli per terra dopo averle per bene ciancicate. «Mi dispiace per l’irruzione a tarda ora ma avrei bisogno di un bagno e di un tetto sotto cui dormire stanotte» disse nel suo spagnolo fluente, faticando ad articolare le parole a causa dei profondi tagli che gli attraversavano le labbra, senza riflettere sul tono quantomeno bizzarro della sua richiesta. «Ho avuto un piccolo incidente, nulla di grave, e fuori sta piovendo incessantemente. Se fosse così gentile, ecco, poi domani toglierei il disturbo».

L’uomo dietro al bancone lo fissò nuovamente, questa volta più attentamente e più a lungo, mettendolo a fuoco con i suoi occhiali

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rammendati che coprivano due grandi occhi scuri senza espressione. Sputò nuovamente per terra, poi voltò lo sguardo verso un corridoio buio. «Il bagno è in fondo a destra, in fondo a sinistra c’è la mia camera quindi vedi di non sbagliare, e per stanotte puoi dormire qui, sopra una di queste panche, non appena ho finito di chiudere il bar». Michael percorse il lungo corridoio, inciampò senza cadere in un grosso scatolone poggiato per terra nell’oscurità, entrò nel bagnetto e accese la luce accanto al piccolo specchio. Lo avevano ridotto davvero per bene. Un occhio era chiuso e l’altro si congiungeva all’orecchio tramite una lunga ferita sulla guancia destra. La camicia bianca di sartoria era aperta su ambedue i lati del dorso, e la fantasia di nidi d’ape era intrecciata con filamenti di sangue che andavano incrostandosi. In corrispondenza del lato sinistro del bacino, e poco più in alto accanto al rene, tre grossi ematomi iniziavano ad affiorare sulla pelle, e sempre a sinistra un profondo taglio da coltello gli lambiva l’avambraccio fino al dorso della mano sbucciata. Si mise le mani nelle tasche e realizzò che il portafoglio non c’era più. Dovevano averglielo preso dopo l’imboscata. Si sciacquò ripetutamente la faccia e la ferita sul braccio, quest’ultima aveva bisogno di essere rimarginata con qualche punto di sutura ma adesso era troppo stanco. Strappò l’altra manica e se la avvolse sull’avambraccio ferito per tamponare il sangue. Poi tornò lentamente nella sala illuminata del bar dove l’uomo stava serrando la porta con due grosse corde di iuta. Si sdraiò sulla panca, sussurrò buona notte all’uomo, e non fece in tempo a vedere spegnersi le luci che piombò in un pesante sonno senza sogni.

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2. Quando l’indomani si svegliò, il locale era già aperto e la luce calda del sole che segue la pioggia filtrava dalle persiane, riflettendosi sul pavimento in un rettangolo che gli sfiorava le caviglie. L’uomo stava fischiettando e del fumo scuro usciva sibilando da un pentolino coperto che bolliva sul fuoco. Con movimenti lenti e decisi versò il contenuto del pentolino in due grandi tazze di legno, poi prese un’altra bottiglia, questa volta trasparente, rimpinguò i vasi e si incamminò verso di lui, senza smettere di osservarlo dal fondo delle spesse lenti dei suoi occhiali. Posò le due tazze ancora fumanti su una panca lì accanto. «Caffè e pisco, questo ti aiuterà a tirarti su senza troppi dolori». Notò che per la prima volta l’uomo accennava un imperscrutabile sorriso. Prese la tazza con entrambe le mani e iniziò a berne il caldo liquido nero che trasudava alcol, mentre l’altro faceva lo stesso. A un tratto l’uomo si accese una sigaretta, ne offrì una anche a Michael e gli chiese cosa fosse successo. Michael accettò di buon grado la sigaretta, la mascella gli faceva ancora male mentre la accendeva, ma al primo tiro che fece gli sembrò che andasse già meglio. «Sono arrivato a Cartagena ieri sera».

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Rispondendo notò che ai tagli sulle labbra si erano sostituite delle croste che gli tiravano la pelle. «Stavo girando qui vicino cercando un posto dove dormire quando quattro uomini mi hanno circondato in un vicolo buio. Ho provato a difendermi, ma uno di questi ha tirato fuori un coltello». Mentre lo diceva, mostrò all’uomo, che nel frattempo aveva ripreso a masticare foglie di coca, la lunga ferita che gli attraversava ancora rossa tutto l’avambraccio. «Per quella ti servirà qualche punto di sutura». «Già, ma per fortuna non ho riportato di peggio, anche se mi hanno portato via tutto, compresi soldi e documenti». «Come ti chiami? E di dove sei?». «Mi chiamo Michele e sono italiano». Che i genitori fossero nati in Toscana, questo era vero. «Devi sporgere denuncia alla polizia». «No, non servirebbe a niente, non troverebbero mai la refurtiva», disse sapendo di mentire. «Per quanto riguarda il passaporto credo dovrò recarmi all’ambasciata di Bogotá. Adesso però non ho i soldi, me li farò recapitare dall’Italia». L’uomo lo guardò con un’aria un po’ minacciosa, poi le rughe gli sgombrarono la fronte e tornò ad accennare quella specie di sorriso. «Finisciti di bere caffè e pisco, ti vado a prendere un ago e del filo e vediamo di rabberciarti quel brutto taglio sul braccio». Poi si alzò, sputò per terra un’ultima volta e si diresse verso il corridoio senza voltare lo sguardo.

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3. Julio, così si chiamava il proprietario del locale, non era un uomo di molte parole. Era spesso affaccendato a lustrare un bancone o sistemare qualche boccale appena lavato, e nelle lunghe pause non perdeva occasione per leggere qualche vecchio libro impolverato. La mattina seguente, mentre stavano facendo colazione, Julio chiarì apertamente la sua posizione. «Dimmi Michele, cosa sei venuto a fare a Cartagena?». «Ho da poco perso il lavoro e volevo godermi qualche settimana di mare prima di cercare una nuova occupazione». Julio lo squadrò a fondo, studiandolo attraverso gli occhiali rattoppati con del nastro adesivo. «Non ti conosco e so per certo che mi stai nascondendo delle cose. Se hai intenzione di crearmi dei problemi faresti meglio a lasciare immediatamente questa casa, ti posso garantire che altrimenti te ne pentiresti. Non sono abituato ad avere ospiti, ma puoi rimanere qui per un po’, fino a che non ti sarai ristabilito, nel frattempo mi darai una mano con il locale. Ma ricordati che non voglio guai». Poi, senza neanche aspettare che Michael rispondesse, si girò e si allontanò. Julio lo aveva preso in simpatia, e nei giorni seguenti Michael rimase presso la sua abitazione. Alla sera trascinava un vecchio e pesante materasso verdastro nella sala del bar, e si ritirava a

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dormire davanti al bancone. Spazzava per terra nella grande sala, le cui pareti erano addobbate con tele a olio raffiguranti pappagalli dagli sgargianti colori. Serviva per lo più pisco ai pochi clienti affezionati che frequentavano quel locale, e quando non c’era nessuno da servire, ovvero la maggior parte del tempo, dava una mano a Julio con i lavori al piano di sopra. Stava espandendo il locale per ricavare alcune camere da affittare per la notte. Era incredibile la sua dedizione a un progetto che suonava come fallimentare già in partenza, ma questo era il suo modo di essere, e anche il bar, nonostante fosse quasi sempre deserto, veniva aperto al sorgere delle prime luci dell’alba e chiuso a tarda notte, quando oramai per le strade polverose non si aggirava più nessuno. Michael non aveva esperienza di lavori di costruzione, ma dava una mano come poteva trasportando mobili e materiali. Li andava a prendere alle officine giù al porto guidando il vecchio pick-up di Julio, sempre accompagnato da una lista preparata minuziosamente. Talvolta lo consigliava anche nella sistemazione delle abitazioni, guidato più da un gusto di tipo occidentale che da una qualche conoscenza di architettura degli interni. Le giornate passavano velocemente e le escoriazioni e le ferite sul suo corpo andavano rimarginandosi. L’occhio sinistro si era riaperto e il versamento di sangue riassorbito, gli ematomi sul dorso da violacei si erano trasformati in aloni giallastri, e i punti dell’avambraccio erano stati rimossi lasciando spazio a una cicatrice scura e irregolare. Le forze gli erano tornate e con esse i pensieri e i tormenti che si abbattevano su di lui ogni sera quando, terminata la solita bevuta di pisco con Julio, consumata nel silenzio dei loro sguardi stanchi

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e compiacenti, si coricava sul materasso e, dopo aver spento le lanterne a olio che illuminavano i quattro angoli delle pareti scrostate, rimaneva a fissare il soffitto buio. Come bagliori accecanti nella notte si inseguivano nella sua testa le immagini sfocate delle ultime settimane. I soldi. I federali. L’incidente. Helena. I lunghi giorni bui nell’umida stiva di quella nave. L’agguato. E di nuovo Helena. La sua mente era quasi sempre a lei, a quella lettera, al loro ultimo incontro, le lacrime che come piccoli emissari confluivano nelle fossette del suo sorriso. La doveva raggiungere.

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4. Julio non accennava mai al suo passato, e in questo era molto simile a Michael. Solo una volta si era lasciato scappare di una donna e di una figlia che dovevano essere però ormai lontane. I suoi grandi occhi coperti da quelle spesse lenti, la fronte spaziosa che terminava in piccoli e ribelli riccioli bianchi, la camicia di lino color panna, il tono pacato della sua voce nelle rare occasioni in cui proferiva parola, lo facevano somigliare a un colto signorotto, di quelli vissuti mezzo secolo prima. Cucinava tutti i giorni riso, patate e pollo, e lo serviva in due tegami di cotto rossastro senza mai mascherare il suo apprezzamento per una portata che di entusiasmante aveva ben poco. Era più socievole la sera, quando dopo cena passavano i soliti tre amici a farsi una bevuta e a masticare per ore foglie di coca, fino a quando nei borselli di tela dove le trasportavano non ne era rimasta più traccia. Gli amici sembravano essere molto diversi da Julio, più scuri e muscolosi, alcune cicatrici in bella vista, chiassosi e talvolta volgari nel linguaggio, ma pareva esserci tra loro un’amicizia che li legava da lungo tempo e molte avventure. Michael a volte li ascoltava in silenzio mentre passava la scopa sotto le panche della sala per togliere le ragnatele che quasi quotidianamente andavano formandosi, altre volte si sedeva con loro per sentire i loro

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racconti e girarsi qualche sigaretta con il tabacco delle loro buste senza etichetta che sempre gli mettevano a disposizione. Andò avanti così per quasi un mese, le camere al piano superiore erano quasi terminate fatta eccezione per gli infissi, le storie degli amici di Julio andavano avanti tutte le sere tra incontri di caimani notturni e anaconda nella selva, e le idee di Michael su come spingersi verso l’Argentina con un mandato internazionale di cattura sulla testa erano pari a zero. Eppure doveva andare, doveva raggiungerla lì, in Patagonia, dove lei gli aveva scritto che sarebbe andata per dimenticarlo. In quella straziante visita di pochi minuti, divisi da una fredda grata di sbarre, le uniche parole che lei era riuscita a pronunciare furono: «dimmi solo se è vero». Al suo annuire con la testa pieno di amarezza e rassegnazione, lei era scoppiata in lacrime, gli aveva lasciato quella lettera che teneva in mano e che piano piano andava bagnandosi al crescere del suo pianto, poi si era voltata avvolta nel suo scialle di cachemire turchese uscendo per un’angusta porta di metallo accompagnata da una guardia carceraria. E Michael ancora adesso, la sera, piangeva, soffocando i suoi singhiozzi violenti sul cuscino al ricordo di quel fugace e inconcluso ultimo incontro.

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5. Un giorno andarono tutti insieme, Michael, Julio e i suoi tre amici, a recuperare due grandi cassoni di metallo da mettere sul tetto della locanda di Julio, per fornire di acqua i due nuovi bagnetti del primo piano. Partirono in tarda mattinata a bordo del vecchio pick-up, uno di quelli che giravano negli Stati Uniti una trentina di anni prima, e Michael viaggiava dietro, all’aperto, seduto sulla grossa gomma di un autoarticolato insieme a due dei tre amici di Julio. Gli avevano detto che avrebbero impiegato un’oretta ad andare, il paese dove erano diretti non era poi così lontano. Lungo il tragitto, i due accanto a lui non facevano altro che parlare fittamente, senza prestargli attenzione, di un viaggio in barca che si apprestavano a fare di lì a pochi giorni. Si ribattevano puntigliosamente su una serie di cose da portare lungo la traversata e ribadivano alcuni dettagli della partenza. Michael faceva molta fatica a seguirli conversare nel loro colombiano, sussurrato e dialettale, ma quando lo udì per la seconda volta fu sicuro fossero diretti in Ecuador, e che il viaggio non fosse uno di quelli che si fanno sotto la luce del sole scambiandosi abbracci e convenevoli con la polizia di frontiera. Senza badare a ciò che stava per dire, con il suo caratteriale impeto di persona lucidamente irrazionale, irruppe nella conversazione affermando di voler andare con loro. Il più alto dei

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due lo fulminò con uno sguardo che esprimeva tutto il suo disgusto per la sua intromissione inappropriata. Stava per sbraitargli qualcosa contro dopo essersi tirato in piedi quando l’altro tipo, più basso e più giovane, che era rimasto seduto, gli toccò con una pacca amichevole la gamba invitandolo con lo sguardo a farsi da parte. Poi prese parola. «Gringo lo sai dove stiamo andando?». «State andando in Ecuador». «E lo sai cosa stiamo andando a fare?». «A essere sincero no». «E allora per quale ragione vuoi venire con noi?». Le domande erano improvvisamente formulate in un perfetto castigliano e con una cadenza chiara e decisa. «Devo andare anch’io in Ecuador, e diciamo che il passaporto è scaduto anche a me». Provò ad accennare a un sorriso di intesa ma lo ritirò subito, perché il tipo più alto, nonostante si fosse riseduto, continuava a guardarlo di traverso. Il ragazzo più giovane e basso riprese a parlare. «Fra cinque giorni scenderemo in canoa lungo il Rio Napo. Ci sposteremo durante la notte con un carico di pasta di coca. Sia il Napo sia i suoi affluenti sono abbastanza controllati dall’esercito ecuadoriano, ma di notte la situazione è più tranquilla. Se qualcosa dovesse andare storto ti useremo come merce di scambio con i militari, che vanno matti per i gringo con passaporto scaduto. Sei ancora convinto di voler venire con noi?». Il ragazzo, avrà avuto la sua età anche se le cicatrici a forma di croce sulla spalla sinistra e i denti consumati dalle foglie di coca

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lo facevano sembrare dieci anni più vecchio, ricambiò il sorriso di intesa, e adesso anche quell’altro sembrava ridere, e i due si scambiavano occhiate compiaciute. Michael rimase per un po’ immobile, si sentiva sprofondare nel pneumatico sottostante, mentre provava a mettere a fuoco e valutare una situazione che continuava a roteargli come un tornado nella testa. Poi deglutì sonoramente, prese fiato e si girò verso il ragazzo con uno sguardo immobile, che si era riempito di decisione e consapevolezza. «Sì, ci sto, vengo con voi».

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6. I giorni seguenti trascorsero animati a definire gli ultimi preparativi del viaggio. Il trasportatore sarebbe passato a prenderli con il carico. Li avrebbe lasciati, dopo due giorni di viaggio, alla canoa che avrebbero trovato legata in un punto di approdo di un piccolo affluente del Napo, dieci chilometri a nord del villaggio di Puerto Colòn. Gli incontri si tennero nel bar di Julio nel tardo pomeriggio, e avevano preso l’abitudine di cenare insieme prima di darsi al pisco e alle foglie di coca. Studiavano per lo più l’intreccio di fiumi e fiumiciattoli intorno al Rio Napo, su una vecchia cartina geografica oramai ingiallita, disegnando una rotta di massima in base alla navigabilità delle acque in quel periodo dell’anno, ai punti che offrivano un miglior riparo per la notte e alle tratte più battute dalla polizia, che andavano assolutamente evitate di giorno. Julio non partecipava agli incontri, e si poteva leggere chiara sul suo pensieroso volto la sua ostilità al progetto, ma anche la vinta rassegnazione di chi sa che non potrà fare nulla per cambiare il corso degli eventi. Il carico, sei sacchi di pasta pura, aveva un valore al dettaglio su New York di alcuni milioni di dollari. Per i nuovi tre complici di Michael invece rappresentava il rischio di una vita da passare in una cella buia in cambio di un migliaio di dollari a testa o poco

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più. Il gioco non valeva la candela, si diceva. Poi ripensava al vortice di avidità e desolazione in cui lui stesso si era lasciato risucchiare, alla sua attuale condizione di fuggiasco, e si rese conto che quando si trattava di mettersi contro la legge, il gioco la candela non la valeva mai. I suoi tre complici ostentavano sicurezza e scherzavano a voce alta tutto il tempo, allo stesso modo di quando li aveva conosciuti un mese e mezzo prima. Avevano già fatto la traversata lungo il Napo una volta e, sebbene nessuno dei tre accennasse mai a racconti di quel viaggio, sembrava non ci fossero stati incidenti di percorso. Michael invece prendeva coscienza con il passare delle ore dell’impresa che si apprestava a compiere, e con la consapevolezza cresceva la paura che lo costringeva a continue trasalite nel cuore della notte, quando si svegliava sudato dopo un brutto incubo che non gli permetteva di riaddormentarsi prima di diverse ore. Aveva già scelto di infrangere la legge diverse settimane prima, e questa decisione se la portava dietro come un’onta che lo aveva saccheggiato della sua dignità e lo faceva vivere di rimpianti. Adesso però era diverso. Perché non aveva alternative, se voleva rivedere l’unica persona per cui valesse la pena di tirare avanti. E perché alla frode azionaria che aveva perseguito per mesi con un semplice click del mouse del suo computer, si era sostituita una situazione che metteva a rischio non solo la sua libertà ma la sua stessa vita. Questi pensieri gli ronzavano nella testa come un incessabile solletico, e per quanto li approcciasse con razionalità al fine di convincersi che stesse facendo la cosa giusta, gli sfuggivano come lanugine al vento e si ritrovava da capo smarrito e

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incompleto, con quella sensazione di chi sta subendo la vita invece di viverla. Una sera tutto questo cessò di colpo, quando Julio gli si avvicinò quasi in punta di piedi mentre stava sorseggiando un distillato di mais, e gli disse che l’automobile era arrivata, lo stavano aspettando. Poi lo abbracciò, lo fissò lungamente dalla profondità dei suoi occhiali, e senza proferire parola si girò e si incamminò per il corridoio che portava alla sua camera da letto. Senza voltarsi, come sempre. Michael afferrò il maglione di alpaca che Julio gli aveva regalato qualche giorno prima e uscì. Stava iniziando una leggera pioggerella, l’odore del cuy cucinato allo spiedo dal banchetto ambulante era più forte del solito, e il tramonto mostrava un cielo senza nubi, che si andava velocemente colorando di un rosso intenso simile a un sudario di sangue.

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7. Il viaggio sulla vecchia Ford verde oliva sembrò interminabile, per lo più lungo solitarie stradine non asfaltate che ti facevano sussultare a ogni buca, spesso impossibile da evitare. Il tizio che era venuto a prenderli guidava silenzioso, con lo sguardo fisso sui paesaggi che mutavano velocemente, passando dalle iniziali colline aride, disseminate di pochi arbusti, a scenari molto più verdi e fitti di boscaglia mano a mano che andavano avvicinandosi alla foresta nebulare. Anche i tre amici di Julio avevano abbandonato i loro usuali schiamazzi per far posto a un atteggiamento molto più sobrio e silente, sonnecchiando qua e là quando possibile, e scambiandosi sguardi a volte dubbiosi, altre volte severi. Michael guardava fuori dal finestrino e non pensava ad altro che al carico avvolto in grosse sacche di paglia che trasportavano nel bagagliaio, e a cosa sarebbe successo se avessero incontrato un punto di controllo della polizia colombiana lungo il percorso. Ma nulla di tutto questo accadde. Giunsero a Puerto Colón quando anche le ultime luci del sole si erano assopite dietro le alte fronde degli ebani, e gli unici rumori che si potevano udire erano gli intensi canti delle rane che, nascoste in qualche palude nella foresta, celebravano il loro arrivo con un concerto di baritoni gracidii. Dopo aver salutato il guidatore della Ford, che accennò a un buona fortuna prima di ripartire per la strada sterrata, ognuno dei

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quattro si caricò un grosso zaino sulle spalle contenente il carico di coca e le provviste per la traversata, per poi incamminarsi nel buio profondo di una notte senza stelle in direzione della canoa. La raggiunsero dopo un paio d’ore non senza difficoltà, a causa delle radici grandi ma invisibili in cui si trovavano a incespicare di frequente. Come secondo i piani, la barchetta era legata a un grosso tronco coperta da spessi teli di plastica, per evitare che le piogge frequenti di quel periodo la potessero riempire d’acqua. Jorge, il ragazzo più giovane dei tre amici di Julio, in uno slancio di entusiasmo, urlò alcune frasi dal significato incomprensibile alle orecchie di Michael. Suonavano come un incoraggiamento denso di ottimismo agli amici che, nonostante la prima fase della missione fossa andata a buon fine, continuavano a mantenere un atteggiamento pensieroso e poco convinto. I quattro salirono sulla canoa facendo attenzione a distribuire il peso uniformemente, poi afferrarono i remi e, dopo aver slegato l’imbarcazione, iniziarono piano piano a scivolare lungo le acque scure e melmose del fiume. Remarono incessantemente fino alle prime luci dell’alba, quando, esausti, si fermarono in un piccolo slargo del fiume che avevano puntato durante gli incontri di preparazione del viaggio. Legarono la canoa e la coprirono con le grandi foglie di un banano, poi si allontanarono con gli zaini sulle spalle. Jorge faceva strada tra la rigogliosa vegetazione con un machete, fino a quando raggiunsero un punto in cui gli intrecci delle fronde e delle liane erano talmente fitti da sembrare impenetrabili. «Ci accamperemo qui» sentenziò Jorge rivolgendo un’occhiata di sostegno a ognuno dei compagni di viaggio, e tutti senza proferire parola si sistemarono alla meglio sdraiandosi tra le radici dei grandi arbusti. Pochi minuti dopo si addormentarono mentre il sole si stagliava oramai alto sopra di loro.

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8. Quando Michael aprì gli occhi, una pioggerella leggera ma intensa si stava abbattendo sul bosco, esaltando gli odori delle bacche e delle foglie tra le quali si era accucciato qualche ora prima. Gli altri tre erano in piedi e stavano fumando, il sole non era ancora tramontato ma si stava abbassando sulla linea dell’orizzonte. Stabilì che dovevano essere più o meno le otto. Raggiunse i compagni che stavano parlando del fatto che con questa pioggia sarebbe stato difficile accendere un fuoco. Jorge, che nonostante sembrasse il più giovane del gruppo da quando erano partiti aveva assunto un atteggiamento di comando, pur non cercando di prevalere bensì grazie alla lucidità e ragionevolezza delle sue idee, disse che avrebbero mangiato avocado e yucca e sarebbero partiti di lì a un paio d’ore, poiché la distanza che dovevano percorrere quella notte era la più lunga della traversata. Si sarebbero accampati nuovamente poco prima del confine ecuadoriano. Mangiarono velocemente, mentre la pioggia andava facendosi più forte e battente, poi si sedettero vicini, coperti dai loro grandi e pesanti poncho marroni, e iniziarono a bere pisco, mandando giù rumorose sorsate da una grande bottiglia ricoperta di vimini che Jorge portava nel suo zaino. Il pisco, che inizialmente risultava al palato di Michael troppo forte e amaro abituato com’era ai cocktail della Grande Mela, adesso non solo gli piaceva molto ma

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gli aveva dato una specie di assuefazione, e si chiedeva dopo ogni bevuta come avesse potuto farne a meno per tutti quegli anni. Michael si defilò ai piedi di un largo banano, per una mezz’ora fu avvolto da una calda sensazione di smarrimento e si dimenticò di dove fosse e di cosa stesse facendo. Mentre il pisco iniziava ad avvolgergli il cuore in una morbida stretta, la sua testa volò lontana a quella prima volta in cui aveva conosciuto Helena. Si trovava a una serata di raccolta fondi organizzata da un importante cliente della sua società, in un lussuoso appartamento all’ultimo piano di un elegante grattacielo cilindrico vicino a quello della Chrysler. Odiava quelle situazioni, ritrovarsi a parlare con eccentrici personaggi dai più improbabili accoppiamenti di papillon verdi e completi color panna, discutendo dell’inefficacia della politica estera della Casa Bianca in Cina o dell’ultimo ristorante alla moda aperto di recente nell’Upper East Side. Ma il suo capo era stato chiaro, non sarebbe potuto mancare. Si aggirava con la sua terza coppa di Cristal in mano, lanciando sorrisi e occhiate compiacenti in risposta a quelle degli invitati, ma stando ben attento a non lasciarsi incastrare in tediose conversazioni, quando si imbatté in un gigante quadro raffigurante due grandi visi dal collo lungo in stile Modigliani, truccati però come clown con tanto di naso rosso e cappellino. “È davvero di cattivo gusto” pensò tra sé e sé storcendo un po’ il naso, quando per la prima volta udì quella voce calda e sensuale che gli chiedeva se non lo trovasse decisamente pacchiano. Si voltò e la vide avvolta in un lungo vestito rosso a balze adornato di boccioli di rosa bianchi, i capelli, raccolti in una specie di cipolla, erano tenuti su da un fermaglio d’argento lucido,

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anch’esso a forma di bocciolo di rosa, e il trucco tanto leggero da sembrare inesistente mostrava dei riflessi verde acqua su due grandi occhi castani. Dopo un minuto di esitazione in cui andava scoprendo nuovi particolari di una ragazza vestita in modo perfetto, annuì. «Sembra che mi stessi leggendo nel pensiero, un quadro così non lo regalerei neanche al mio peggior nemico». Le sorrise, e lei rispose al sorriso mostrando due piccole fossette. Quindi si presentò. «Sono Helena, un’amica di Richard. Glielo dico sempre che questo quadro stona con l’ottimo senso estetico con cui è arredato il resto della casa, ma lui non ne vuole sapere di levarlo, dice che gli trasmette un senso di pace». Il sorriso di lei si fece più intenso e ammaliante, e Michael fece fatica a non perdersi nei lineamenti morbidi della sua bocca e delle sue guance. Poi stringendosi un poco nelle spalle, in fondo i gusti sono gusti, si presentò a sua volta. «Piacere Helena, io sono Michael, e Richard è uno dei miei migliori clienti. Ogni sua stravaganza è ovviamente la benvenuta!». Sorrise a sua volta e rimasero a conversare un po’ di fronte a quei due clown dai colli lunghi. Michael le raccontava del suo lavoro come gestore di un importante fondo d’investimento, e lei della sua carriera come stilista in un’etichetta di moda francese, e i minuti sembravano non trascorrere mai. Lui era come inebetito e contento, e pensava “grazie capo per avermi mandato qui stasera”, e poi tornava a guardarla nelle sue buffe e tenere espressioni, e capì che quella ragazza vestita di rosso non sarebbe uscita tanto presto dalla sua vita.

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A un certo punto lei lo tirò per il gomito del suo blazer blu cobalto. «Vieni, andiamo via da qua, ti mostro un affaccio di quelli che mozzano il fiato». Michael la seguì su per una scala a chiocciola di marmo rosa, poi ancora più su per un’altra scala di ferro battuto fino alla terrazza più alta dell’appartamento. Le luci di New York si espandevano a centottanta gradi di fronte a loro in tutta la loro grandiosità, racchiudendo quel senso di laboriosa intraprendenza della città, accecandoli prima, spaesandoli e avvicinandoli poi, e cullandoli nel loro senso di piccolezza di fronte a migliaia di bagliori che illuminavano la notte. Si baciarono, le loro mani e le loro labbra si intrecciarono fino a diventare un tutt’uno, mentre un mellifluo venticello carezzava i loro capelli in un turbinio di emozioni.

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9. Michael doveva essersi addormentato quando Jorge lo strattonò, facendolo ripiombare nella dura realtà del presente. Si alzò assecondando la presa offertagli da Jorge e si incamminarono nel frastuono della pioggia che scuoteva con forza le fronde degli alti alberi della foresta, spesso affondando con le gambe fino al ginocchio in quello che era diventato un vero e proprio pantano. Raggiunsero la canoa, dove già li aspettavano gli altri due. Iniziarono a remare, ma questa volta era tutto più difficile a causa dell’acqua che scrosciava dal cielo ininterrottamente, rendendo le acque del rio agitate e minando la stabilità dell’imbarcazione, obbligando Jorge ad adoperarsi di continuo con un secchio nel tentativo di svuotare l’acqua piovana che andava velocemente accumulandosi sul fondo della canoa. Andarono avanti così per un paio d’ore, alternandosi tra chi remava e chi utilizzava il secchio per buttare fuori l’acqua. Intorno a loro era oramai notte fonda e si faceva fatica a seguire la corrente del fiume, a causa delle rapide che andavano formandosi, della totale assenza di luce, e dell’impossibilità talvolta di aprire gli occhi per l’impetuosa pioggia che si abbatteva su di loro come una cascata di piccole schegge di metallo. Le operazioni di drenaggio andavano facendosi sempre più veloci. Quando fu il turno di Michael, la parte anteriore della canoa aveva imbarcato tanta acqua che i polpacci vi nuotavano

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dentro, e i suoi tentativi di abbassarne il livello sembravano non sufficienti nonostante il suo costante e deciso armeggiare con il secchio. Per guadagnare quei tre secondi nella torsione del torace si fece in piedi sui bordi della canoa. In quel momento urtarono qualcosa di grande sul fondale, Michael perse l’equilibrio e scivolò all’indietro nelle acque fredde del fiume. Si ritrovò a lottare contro le correnti che lo trascinavano giù, anche a causa dei vestiti inzuppati che adesso gli sembravano pesanti come un’armatura. Per due volte fu risucchiato nelle profondità del rio ed entrambe le volte, quando era sul punto di arrendersi, si ritrovò a emergere e respirare di nuovo con disperate e agonizzanti boccate d’aria. Poi riuscì ad afferrare un tronco che gli permise di rimanere a galla e di riprendere il controllo della situazione. Gli altri non si erano accorti di nulla e solo quando iniziò a urlare, con la barca che era ormai almeno cinquanta metri più avanti, uno dei tre lo udì e iniziò a sbracciarsi con gli altri attirando la loro attenzione sulla testa di Michael, che faceva capolino accanto al ramo in una smorfia di dolore. La barca rallentò grazie alle vigorose remate che i compagni davano contro il senso naturale della corrente, e Michael iniziò ad avvicinarsi a tal punto che vedeva nitidamente le loro facce e sentiva le loro grida di incoraggiamento. Quando oramai mancavano pochi metri alla canoa, Michael notò uno sguardo di terrore nel viso smunto e spigoloso di Jorge. Si girò nel tentativo di individuare cosa gli avesse impresso quell’alone di spavento e lo vide, un grosso caimano dagli occhi rossi iniettati di sangue, che avanzava veloce verso di lui. Michael si sentì perso e una paura che mai aveva conosciuto si impossessò di colpo di lui, e nonostante la sua mente pensasse

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all’impazzata nel disperato tentativo di trovare una soluzione, il suo corpo rimaneva immobile, come pietrificato. Il grosso caimano era adesso a un paio di metri da lui e ne vedeva chiare le grandi fauci che iniziavano ad aprirsi. Non poteva fare nulla, e iniziò dentro di sé a pregare per tutti gli errori che aveva commesso in quella sua breve e intensa esistenza. Quando oramai il caimano incombeva su di lui con la sua dentatura fitta e acuminata, due spari rimbombarono come tuoni nella notte e il grande rettile fu catapultato all’indietro e poi giù nell’oscurità del fiume. Michael, ancora incredulo e confuso, si voltò verso la canoa, dove in piedi con la pistola ancora fumante Jorge lo fissava con impresso un euforico sorriso. Poi gli altri due recuperarono Michael e lo tirarono a bordo, lui tremava per la paura, per il freddo, e, accucciato sull’imbarcazione, si lasciò trascinare dai compagni lungo il rio fino alle prime luci dell’alba. Si fermarono e legarono la canoa, e lui in uno stato quasi febbrile si addormentò senza avere neanche la forza di ripercorrere mentalmente quello che era accaduto poche ore prima.

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10. L’ultima notte di navigazione procedette senza incidenti. I quattro dovettero accostarsi un paio di volte a causa del rumore di battelli a motore che temevano essere della polizia di frontiera, ma si trattava solo di piccoli pescherecci che scivolavano lungo il fiume con le loro reti da traino. Si spostarono di continuo tra gli emissari del Rio Napo che in quel punto si frastagliava e diramava in tanti piccoli corsi d’acqua, scegliendo sempre quelli meno battuti come avevano definito, cartina alla mano, nella pianificazione delle settimane precedenti. Probabilmente varcarono la frontiera verso le quattro del mattino, e continuarono a remare senza sosta fino alle otto circa, quando avvistarono in lontananza il porto di Lago Agrio che si affacciava sul canale principale del Napo alla loro sinistra. Lasciarono la canoa e si incamminarono con i loro zaini per la selva, che in quel punto dell’Amazzonia era meno fitta rispetto a quella che avevano attraversato negli ultimi giorni, le piccole scimmie cappuccine saltavano da un ramo all’altro sopra di loro e sembravano fargli strada in direzione del villaggio. Dopo qualche ora di cammino entrarono finalmente a Lago Agrio, e si diressero verso il bar dove avevano appuntamento con il contatto che avrebbe comprato la pasta di coca. Nel bar non c’era nessuno, si sistemarono sulle panche del patio illuminate dal sole, ordinarono una zuppa di patate e cipolle e del

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pesce fritto, si scolarono una cassa di birra scambiandosi occhiate e sorrisi, stremati dalla traversata ma contenti per la buona riuscita dell’impresa. Fumarono scherzando sull’episodio di Michael e del caimano, che oramai sembrava soltanto un lontano ricordo, fino a quando un signore con una benda nera sull’occhio destro e un cappello panama color nocciola si avvicinò con passo lento al loro tavolo. «Ben arrivato Alejandro», disse Jorge mentre si alzava in piedi e lo andava ad abbracciare, «ti stavamo aspettando». Alejandro salutò i tre amici di Julio, guardò con sospetto Michael fino a quando Jorge con un impercettibile movimento della bocca gli fece intendere che era pulito, poi li accompagnò nel retro del bar, dove aveva parcheggiato il suo furgoncino bianco. Caricò i sacchi sull’automobile, lasciò uno zainetto a Jorge e ripartì salutandoli con il cappello dal finestrino. I quattro tornarono a sedersi sulle panche nel patio, ordinarono altre birre e una bottiglia di pisco, e rimasero a bere nel silenzio dei loro sorrisi come vecchi amici di infanzia. Avevano da poco finito di scolare l’ultimo bicchiere, quando Jorge tirò fuori dallo zainetto duecento dollari e li pose nelle mani di Michael. «Il nostro accordo era che ti avremmo portato al di là del confine. Questi però ti aiuteranno ad arrivare ovunque tu sia diretto». Quindi i tre compagni si alzarono in piedi e lo salutarono con delle lunghe ed energiche strette di mano, prima di voltarsi e uscire dal locale. Michael li osservò attentamente mentre se ne andavano, sapeva che non li avrebbe visti mai più, ma un legame più forte di tanti altri li avrebbe uniti per sempre. Era arrivato in Ecuador, ce l’aveva fatta, e sebbene la Patagonia fosse ancora molto, troppo

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lontana, aveva mosso il primo importante passo per raggiungere la sua amata. Rimase solo al tavolo, ordinò un’altra bottiglia di pisco e la sorseggiò lentamente fino a quando fu finita. Si sentiva incredulo ma felice, si diceva che il peggio era alle spalle. Quando si alzò, barcollava e si rese conto di aver alzato il gomito per la prima volta dopo mesi. Fece quattro passi per il villaggio fino a trovare una piccola pensione di bambù, abbastanza decadente e appartata da fare al caso suo. Prese una camera, si fece un lungo bagno caldo mentre fumava tabacco e osservava le tante cicatrici degli ultimi tempi che oramai non dolevano più. Quasi non se ne accorse, ma quando uscì dalla vasca stava piangendo. Si buttò sul letto senza neanche chiudere le tapparelle da cui filtravano i caldi e potenti raggi di un sole senza nuvole, e in un baleno si addormentò, mentre i suoi occhi stavano ancora lacrimando. Fine anteprima.Continua...