relazione licia mattioli assemblea unione industriale 2015
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RELAZIONE ALL’ASSEMBLEA DELL’UNIONE INDUSTRIALE DI TORINO
DELLA PRESIDENTE AVV. LICIA MATTIOLI
(Torino, 11 settembre 2015)
Questo è il secondo anno in cui l’Assemblea della nostra Unione Industriale si
svolge in un luogo ove si produce e si lavora.
Per me si tratta di una scelta di valore e di metodo.
Indica la volontà di radicare sempre di più il nostro sistema associativo nel
cuore dell’economia reale, vicino al mondo dell’impresa: nella forma dunque, ma
soprattutto nella sostanza.
L’industria, vero motore dell’economia, nel corso dell’ultimo anno ha dato un
contributo sostanziale al miglioramento del clima economico e sociale che si
inizia a percepire nel nostro Paese.
I segnali di ripresa ci sono – anche se li vorremmo più forti – e sono la prova che
l’impegno paga.
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Il cammino dell’economia italiana è ricominciato.
Certo non voglio sottovalutare gli ostacoli che incontra dinanzi a sé.
La globalizzazione si è rivelata un fenomeno ad alta instabilità.
Nel corso di quest’ultima estate, tutti abbiamo potuto constatare come
l’economia abbia avuto un andamento sussultorio.
E proceda a tratti con movimenti di stop and go.
Le tendenze economiche sono di breve periodo, soggette a incessanti variazioni
e mutamenti di segno.
Neppure gli Stati Uniti, pur avendo recuperato la loro potenza produttiva,
hanno ancora consolidato definitivamente le basi di uno sviluppo di lungo
periodo.
Le economie emergenti, che si erano affacciate in questi anni con un ruolo di
protagoniste, si trovano invece ad un passaggio critico.
La Cina, in particolare. La superpotenza asiatica non ha ancora compiuto la
propria transizione verso un nuovo assetto, guidato dal mercato interno e non
più trainato solo dall’export.
11 settembre 2015
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L’area dei Bric (Brasile, Russia, India, Cina), che fino a due anni fa sembrava
essere il possente motore dell’economia internazionale, si è molto indebolita.
Brasile e Russia sono entrati in crisi per ragioni specifiche, con una forte caduta
dei loro mercati.
L’India quest’anno sembra far meglio della Cina, ma è tutto da dimostrare che
sappia consolidare il suo sviluppo.
Per quanto riguarda la nostra parte del mondo, l’Europa, i segnali sono discordi.
Si sono indubbiamente rafforzate, nel corso dell’anno, le aspettative di ripresa,
con dati positivi sul versante della crescita dei consumi, che ora toccano anche
l’Italia.
La coraggiosa decisione di Mario Draghi e della Banca Centrale Europea di
creare una vasta base di liquidità per un significativo rilancio dell’attività
economica ha sortito risultati, al momento, non ancora così consistenti come
avremmo auspicato.
E dire che abbiamo potuto contare su fattori molto positivi, come la discesa del
prezzo del petrolio, il deprezzamento dell’euro nonché un livello dei tassi di
interesse sceso ai minimi storici.
11 settembre 2015
110 $ a barile
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11 settembre 2015
1 € = 1,40 $ 1 € = 1,12 $
Questi stimoli non bastano però a compensare la mancanza di una vera politica
economica da parte dell’Unione Europea.
Tra i grandi sistemi che compongono lo scenario globale, l’Europa è certamente
il meno incisivo.
Lo si è visto con la gestione confusa e frammentata della crisi della Grecia. I suoi
infiniti tempi di risoluzione moltiplicano i costi, anche se l’economia greca pesa
poco più del Piemonte.
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PIL Grecia
207 miliardi di dollari
PIL Piemonte
175 miliardi di dollari
Ancor più grave è stata la prolungata inerzia di fronte all’ondata sempre più
vasta e incalzante delle immigrazioni dall’Africa e dal Medio Oriente.
L’incapacità decisionale delle Istituzioni comunitarie è costata cara a un Paese
come il nostro, in primissima linea su questo fronte.
Dobbiamo prendere atto che l’Europa convive con un duplice freno allo
sviluppo: una situazione demografica ed un’economia entrambe “mature”.
Per uscire da questo stallo sono necessarie scelte coraggiose sul fronte
dell’immigrazione ed un incisivo piano economico.
Serve un grande piano di investimenti finalizzato alla crescita del mercato
interno, senza il quale l’Europa non conoscerà un nuovo duraturo ciclo di
sviluppo.
Occorre un’ampia modernizzazione del sistema infrastrutturale che serva a
rilanciare investimenti, consumi e competitività.
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Il modello economico fondato sull’export non è sufficiente per sostenere una
nuova stagione di crescita.
Non ci si può più illudere di poggiare le fondamenta dello sviluppo soltanto sulle
esportazioni.
* * *
L’economia internazionale ci restituisce oggi un’immagine appannata e instabile.
Con una globalizzazione che moltiplica gli elementi di volatilità. Dove l’enorme
massa di liquidità creata in questi anni si sposta da un capo all’altro del mondo,
producendo nuovi squilibri.
In questo scenario, le opportunità esistono, ma vanno colte al volo, con
prontezza e rapidità. Occorre bilanciare la presenza sui diversi mercati per
ridurre i rischi.
E occorre soprattutto sapersi muovere tempestivamente tra una realtà
economica e l’altra.
Flessibilità e versatilità sono doti indispensabili per tutti. Per gli imprenditori e
gli operatori economici, come per i lavoratori.
La crisi ha dato origine ad un mondo economico nuovo e inedito, che ci
condiziona tutti e con il quale siamo costretti a convivere.
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Pur in un quadro complicato come quello attuale, l’Italia sta finalmente tornando
in campo anche grazie ad alcuni provvedimenti con cui il Governo ha sottratto il
Paese al suo prolungato torpore: in primo luogo il Jobs Act, la decontribuzione
delle nuove assunzioni e la riduzione dell’Irap.
Così l’Italia sta riscoprendo la sua vocazione produttiva, che trova conferma
nello straordinario apprezzamento dei suoi prodotti nel mondo.
Anche per questo il Made in Italy va tutelato a livello comunitario con una azione
ferma ed incisiva.
Forse nemmeno noi italiani ci rendiamo conto fino in fondo di quanto può valere
il possesso del terzo marchio più diffuso e apprezzato al mondo: il Made in
Italy.
Per questo vorrei dire: Made in Italy more than ever.
Più che mai dobbiamo fare del Made in Italy il vettore della nostra crescita.
È riduttivo pensare che esso riguardi solo la moda e il lusso.
Tutt’altro. L’Expo ha messo in evidenza il suo straordinario valore nel campo
dell’agroalimentare.
Ma esiste anche il Made in Italy della meccanica, di quelle numerose imprese del
mid-tech che dimostrano quotidianamente una sorprendente capacità di
adattare e fare evolvere le tecnologie.
Da una ricerca di KPMG emerge con chiarezza che esiste una correlazione
percettiva tra il valore aggiunto del Made in Italy e la capacità dell’azienda di
comunicarlo al mercato facendoselo riconoscere attraverso un prezzo di vendita
finale superiore. Tale capacità a farsi riconoscere un premium price è molto
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elevata per le aziende che hanno un contatto diretto con il consumatore finale
mentre è più contenuta per quelle industriali che operano in prevalenza nel B2B.
Sono campi in cui siamo pressoché imbattibili. Lo stiamo dimostrando con i
risultati del nostro export.
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+5,0%
USA +27,5%
INDIA +13,7%
TURCHIA +10,1%
Primo semestre 2015
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Considero il Made in Italy come l’autentico risultato del genius loci del nostro
Paese.
Esso è infatti un mix speciale di elementi materiali e immateriali.
Gli asset materiali riguardano la concretezza del nostro “saper fare”, che unisce
alla qualità tecnologica le radici artigianali della nostra tradizione. L’Italia ha
saputo creare, da questo punto di vista, una combinazione unica, che non si
ritrova fuori di qui.
Gli asset immateriali dipendono dal nostro patrimonio culturale, unico e
irripetibile, diventato col tempo ricerca incessante di valori estetici, creativi e di
innovazione.
Soltanto al Made in Italy è riuscito di fondere assieme queste due anime.
Per questo, la nostra crescita non può che far leva su questo straordinario
elemento insieme alla vitalità delle nostre imprese che investono, innovano ed
esportano.
Che scommettono sul valore della creatività, della qualità e dei marchi italiani.
Elementi che vanno difesi dalla contraffazione e dalle imitazioni. A questo
proposito sarebbe necessario rinnovare un provvedimento di nicchia, ma di
grande utilità, denominato “DISEGNI+2” che mira a sostenere la capacità
innovativa e competitiva delle PMI attraverso la valorizzazione e lo
sfruttamento economico dei disegni e dei modelli industriali sui mercati
nazionale ed internazionale.
Insieme con i timidi segnali di ripresa è riapparsa la fiducia nelle grandi
potenzialità dell’industria italiana.
È l’industria il vero motore dell’impresa!
Per questo abbiamo voluto fare del reshoring il tema portante della nostra
Assemblea.
E sono vincenti le imprese con le quali ci confronteremo tra poco, che saliranno
su questo palco per testimoniare la loro scelta di tornare ad investire in Italia.
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Reshoring significa che l’industria torna a investire da dove è partita.
Non solo: vuol dire che spesso essa riporta in Italia lavorazioni e attività in
precedenza trasferite all’estero ed è tutt’altro che una rinuncia
all’internazionalizzazione.
I nuovi scenari esigono scelte più complesse ed articolate di prima.
Da un lato, un’ulteriore delocalizzazione comporta lo spostamento delle attività
a minore valore aggiunto dalla Cina verso altri Paesi del Sud Est asiatico, dove i
costi sono ancora molto bassi (come, per esempio, il Vietnam e il Laos) o dove la
qualità delle produzioni è cresciuta (in Thailandia come in tutta l’area ASEAN) .
Dall’altro lato, la possibilità di riportare in Occidente alcune attività fa convivere
fenomeni di offshoring con attività di reshoring.
Dobbiamo abituarci a considerare queste due dimensioni non in radicale
contrapposizione tra di loro, ma piuttosto complementari l’una all’altra.
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11 settembre 2015
Per essere forti sui mercati internazionali bisogna controllare al meglio il ciclo
della logistica e le fasi della produzione.
Questo conduce a riallocare le attività là dove è possibile saldarle meglio le une
con le altre. Per ricostituire, in questo modo, sia le filiere del prodotto sia le
catene del valore.
Anche il reshoring è una lezione della crisi. Essa ci viene dal luogo dove la crisi è
esplosa, dagli Stati Uniti dove hanno compreso, già nel 2009, che trasferire
all’estero i cicli produttivi significa abdicare a un patrimonio di conoscenze e di
competenze.
È stata l’amministrazione Obama a lanciare la parola d’ordine “Make it in USA”.
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In seguito, altre nazioni, come il Regno Unito, si sono mosse nella medesima
direzione. E la Germania non ha mai abbandonato la centralità della manifattura,
conseguendo gli enormi risultati che sono davanti agli occhi di tutti.
Prima della crisi, si considerava come un fatto scontato che la produzione
industriale fosse destinata a trasferirsi presso le economie emergenti e la Cina
fosse la nuova fabbrica del mondo.
In Occidente, nei paesi più sviluppati, doveva evolversi un’economia dei servizi
completamente terziarizzata.
Ora nessuno sottoscrive più questa visione miope.
Senza la manifattura nessuna nazione può pensare di uscire dalla crisi.
Basta guardare all’Italia per accorgersene.
Senza le nostre esportazioni, senza gli investimenti nell’industria, senza il denso
tessuto produttivo formato dalle nostre imprese, l’unica prospettiva sarebbe
quella di una recessione interminabile.
Di questo mutamento e delle sue implicazioni siamo consapevoli da tempo: già
all’inizio dello scorso anno, abbiamo lanciato il nostro motto “La ripresa passa
dall’impresa”.
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Se ora il Paese è pronto a riprendere il cammino interrotto dello sviluppo, è
perché stiamo riscoprendo l’importanza decisiva della produzione industriale. E
molte imprese hanno ricominciato a riportare qui le loro lavorazioni, mentre
altre stanno pensando di farlo nel prossimo futuro.
Tutti i settori sono coinvolti nel processo di reshoring, sebbene in grado
diseguale e in forme eterogenee.
Come spesso accade in Italia, si tratta di un fenomeno spontaneo, che avanza
sotto traccia.
Esso deve, viceversa, essere sostenuto e incentivato, e - soprattutto -
accompagnato dalle Istituzioni.
* * *
La nostra Unione, in collaborazione con la società Efeso che ringrazio per la qualità
del contributo scientifico e l’alta professionalità, ha condotto un sondaggio sulle
ragioni del reshoring.
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Uno dei principali driver dell’offshoring era stato il costo del lavoro; oggi invece sul
reshoring i driver sono quelli che vedete nella slide.
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(secondo le imprese torinesi)
Il divario sul costo del Lavoro, in particolare quello qualificato, si è quasi azzerato
mentre sono cresciuti i prezzi dell’energia e dei trasporti.
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E la crescente automazione e il progresso tecnologico hanno modificato l’incidenza
dei diversi fattori sul costo totale di produzione, riducendo fortemente il vantaggio
competitivo dei Paesi a basso costo del lavoro.
L’eccessivo allungamento delle catene di produzione e la distanza tra centri di
innovazione e siti produttivi ha danneggiato il processo evolutivo dei prodotti,
determinando una perdita di contatto con il mercato con una dilatazione del time to
market.
Infine, i rischi legati alla protezione della proprietà intellettuale e dei brevetti, la
maggiore complessità del business e, non da ultimo, un ambiente geopolitico
tumultuoso, rendono sempre più problematiche le tradizionali scelte di localizzazione
delle produzioni.
11 settembre 2015Source: Reshoring Initiative Library, March 2014.
Alcuni Paesi occidentali hanno compreso tempestivamente le potenzialità del nuovo
trend e si sono mossi per tempo, al fine di sfruttare le opportunità che si stanno
aprendo.
In testa a tutti, gli Stati Uniti e, in Europa, il Regno Unito.
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* * *
Negli Usa, l’amministrazione Obama ha avviato una robusta politica industriale,
finalizzata a incoraggiare la ripresa del settore manifatturiero.
Gli effetti delle politiche di reindustrializzazione sono stati consistenti.
Ne hanno beneficiato la produzione, i redditi, l’occupazione.
Grazie a questa scelta l’America si è sottratta per prima alla morsa della crisi.
Significativi fattori di contesto hanno facilitato la creazione di un ambiente
favorevole al reshoring. Ricordiamo in particolare la riduzione dei costi energetici,
l’efficace connessione esistente tra centri di ricerca e imprese, le prerogative politiche
e culturali legate alla rinascita della manifattura americana e alla ripresa
dell’occupazione.
I produttori americani hanno operato soprattutto sui vantaggi legati al ritorno delle
attività. Essi vanno dall’impiego di una forza-lavoro qualificata al richiamo
dell’immagine e del brand del prodotto, dalla disponibilità di tecnologie più avanzate
ai costi energetici inferiori.
Quest’orientamento ha fatto sì che siano rientrate negli Usa, dal 2011 a oggi, circa
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350 imprese. I settori più coinvolti sono quelli dell’elettronica, dei trasporti,
dell’automotive, dell’abbigliamento e degli elettrodomestici. I posti di lavoro che
sono stati creati, in maniera diretta o attraverso il potenziamento delle filiere
produttive e di servizio, sono oltre 320.000, la maggior parte dei quali ad elevata
specializzazione.
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Buy American
Programme
Più acquisti di prodotti
Made in USA
$250 miliardi di nuovi
acquisti di prodotti
americani previsti in
10 anni
Previsti 300.000 nuovi
posti di lavoro nel
manifatturiero; 1
milione in totale
Reshoring dalla Cina a
Louisville, KY
Water-heaters, frigo,
lavatrici (nuovi modelli
high-tech)
1300 posti di lavoro,
investimento di $800
milioni
Costi cinesi: il -30%
diventa un +6%
calcolando problemi di magazzino e consegne
Non c’è dubbio che dietro la maggiore consistenza della ripresa americana (con una
crescita del Pil pari al 3,7% nel secondo trimestre di quest’anno) ci sia anche la
decisa spinta impressa dal reshoring.
E pensate: in America gli imprenditori che fanno reshoring sono considerati eroi
nazionali!
Quello del Regno Unito costituisce per noi un caso ancora più interessante ed
emblematico.
Prima della crisi, l’economia inglese era, in Europa, quella più indirizzata verso i
servizi, dopo decenni di riduzione dell’apparato produttivo.
Oggi la Gran Bretagna ha rivalutato l’importanza strategica della manifattura e ha
intrapreso un’aggressiva politica finalizzata a riportare in patria le produzioni
delocalizzate verso il Far East.
Il Governo Cameron dal 2011 ha avviato un’iniziativa di politica industriale con il
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“Reshore Uk Act”, allo scopo di sostenere le imprese che vogliono tornare a produrre
nel Regno Unito.
11 settembre 2015
Gli obiettivi del progetto inglese riguardano lo sviluppo di una partnership tra
Governo e imprese, al fine di incrementare investimenti ed esportazioni. Per attrarre
maggiori investimenti, il Governo ha poi stanziato un fondo di 245 mln di sterline per
ricreare le filiere produttive.
L’approccio adottato dal Regno Unito, di cui ci parlerà tra poco l’ing. Commito, ha
già dato risultati significativi e con prospettive interessanti.
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* * *
In Italia, il ritorno delle attività manifatturiere ha iniziato ad assumere importanza a
partire dai settori della moda, del Made in Italy e del lusso.
Ma oggi il fenomeno del reshoring sta coinvolgendo anche una pluralità di settori,
anche a elevata intensità di capitale come l’automotive, il metalmeccanico, il
farmaceutico ed il biomedicale.
Settori in cui i fattori intangibili, come la qualità, il marchio, la tecnologia e
l’innovazione consentono di beneficiare in alcuni ambiti di un premium price medio
pari al 20% riconosciuto dai consumatori finali, soprattutto stranieri, come emerge
dall’approfondita indagine di KPMG.
Le nostre filiere produttive costituiscono la base e il vero punto di forza per il
reshoring italiano.
Dobbiamo puntare ancora più su di loro. Dobbiamo potenziarle, facendo affluire
ulteriori risorse nella loro direzione.
Il nostro sviluppo passa dalle filiere produttive, perché siamo l’unico Paese europeo,
insieme con la Germania, ad averne una rete articolata.
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La specializzazione produttiva dipende dalla loro forza, che è condizione essenziale
per mantenere e creare nuove nicchie di eccellenza.
La flessibilità organizzativa delle catene produttive è infatti determinante per
sostituire le forniture e sub-forniture estere con quelle italiane.
E’ una strategia che Walmart, la più grande catena distributiva al mondo, sta
perseguendo con grande determinazione. Negli ultimi dieci anni i suoi acquisti negli
USA sono infatti cresciuti di 250 miliardi di dollari a seguito del programma “Buy
America”.
Anche il nostro sondaggio, realizzato con Efeso, conferma questo trend di
riposizionamento delle forniture a vantaggio, nel nostro caso, delle filiere italiane.
La strategia del ritorno trova la sua base nell’esistenza delle filiere e delle
piattaforme produttive che l’Italia e, in primo luogo il nostro territorio, possiedono.
Al loro interno, si sono sperimentate efficaci forme di cooperazione tra imprese,
centri di ricerca, università ed enti territoriali, che hanno realizzato agili sistemi di
sinergia, operando con un linguaggio comune.
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MEchatronics and Systems for Advanced ProductionInnovation Cluster in Piedmont
Le nostre “fabbriche intelligenti”, in grado di integrare una pluralità di saperi, sono
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nate da queste esperienze.
E anche la nuova dimensione del manufacturing - INDUSTRY 4.0 - ci consentirà,
entro breve, un significativo incremento di produttività ed un più efficace
coordinamento fra logistica e produzione. Si tratta di un cambiamento che, se ben
governato, ci offre un’opportunità per recuperare una quota rilevante di competitività.
Il reshoring ci permetterà, quindi, di valorizzare al massimo il nostro grande
patrimonio di competenze, di esperienza, di qualità, facendo leva sui gangli vitali del
nostro sistema produttivo.
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Ma per poter beneficiare di questa opportunità il nostro Paese deve dotarsi, come gli
USA e gli UK, di una specifica azione politica finalizzata a riportare in Italia parte
della sua produzione manifatturiera.
Abbiamo caratteristiche più favorevoli di molti altri nostri competitor europei:
sfruttiamole!
In Italia finora si è proceduto in ordine casuale e grazie all’iniziativa di singoli
imprenditori o di singole Amministrazioni locali (ad es. nel caso de L’Oreal a
Settimo Torinese).
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Ma manca ancora una politica industriale specifica, finalizzata al reshoring.
Per conseguire questo risultato è necessario:
a livello europeo,
continuare la battaglia sul “Made in” riconoscendolo come priorità politica
nazionale
accelerare i negoziati per concludere rapidamente i TTIP
a livello nazionale,
fornire maggiore certezza nel diritto
sburocratizzare la quotidianità della vita delle imprese
ridurre la pressione fiscale, per implementare il reshoring, non solo delle
manifatture ma anche degli Headquarters.
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Italia 65,4%
Spagna 58,2 %
Germania 48,8%
Stati Uniti 43,8%
Media Unione Europea 41,9%
Regno Unito 33,7%
(Pressione fiscale sui profitti di impresa)
Un punto di partenza è la riduzione dell’IRES, l’imposta sui redditi d’impresa,
che ha un peso eccessivo.
L’aliquota al 27,5% è troppo penalizzante.
La nostra proposta è scendere - gradualmente - al 20%.
Passare dal 27,5% al 20% ha un costo, di circa 9 miliardi: un obiettivo alto, ma
non impossibile, che può essere raggiunto nell’arco di due o tre anni.
Rendere strutturale un vero e proprio credito d’imposta per l’attività di ricerca e
sviluppo. Un credito d’imposta consistente, allineato a quello dei nostri
competitor, ma soprattutto non limitato, come ora, agli investimenti
incrementali.
Su queste tematiche, segnali positivi arrivano dalle prime bozze della Legge di
Stabilità, ove sottolineiamo l’importanza che venga riproposta anche la norma
relativa al credito di imposta sull’acquisto di beni strumentali che ha contribuito –
con la “nuova Sabatini” – alla consistente crescita degli investimenti in macchinari,
stimati dall’UCIMU nell’ordine del + 46% nel primo semestre di quest’anno.
Su questi temi il Premier Matteo Renzi ha fornito, proprio in questi giorni,
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rassicurazioni che confidiamo possano tradursi, in fretta e a valere per tutto il Paese,
in provvedimenti legislativi.
A livello locale,
le misure nazionali e comunitarie devono trovare una corrispondenza
nell’azione degli Enti Territoriali, altrettanto determinante per le prospettive
del rilancio produttivo.
L’impegno delle Istituzioni a livello locale è un passaggio ineludibile per
rendere più competitivo il territorio regionale per le imprese che vorranno
tornare in patria o investire nella nostra area.
Per sfruttare al meglio le filiere e le piattaforme produttive torinesi e del
Piemonte è necessario definire un insieme di condizioni tali da esaltarne le loro
potenzialità: accordi di programma per specifici investimenti e contratti di
insediamento restano gli strumenti indispensabili.
Tali strumenti vanno innanzitutto pensati in modo complementare con le
risorse messe a disposizione a livello nazionale dal Fondo per lo sviluppo e la
coesione. Infatti, a livello regionale, sono inseriti nell’asse “competitività” dei
fondi strutturali 2014-2020 che sarà disponibile solo per le PMI lasciando di
fatto scoperta la componente trainante dell’economia, le imprese di maggiori
dimensioni. Sarebbe inoltre opportuno che questo strumento valesse anche per
le aziende già insediate nel nostro territorio che effettuino un nuovo
investimento in loco.
Servirebbe anche creare la figura del referente unico, ovvero di un “one stop
shop”, a cui l’impresa interessata a investire in Piemonte, possa rivolgersi per
ottenere tutti i permessi, le autorizzazioni e le certificazioni indispensabili per
avviare una nuova attività in tempi rapidi. Il modello da seguire potrebbe
essere quello del portale francese Colbert 2.0, lanciato nel 2013 dal Ministero
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per lo sviluppo economico francese, al fine di aiutare le imprese a verificare la
possibilità di riportare in Francia alcune attività.
11 settembre 2015
Al di là dei provvedimenti specifici, ciò che più conta è la capacità delle
Istituzioni locali e delle imprese di lavorare insieme, per obiettivi condivisi.
Ci sono stati casi di eccellenza nel nostro territorio, che hanno dimostrato come
uno stretto rapporto fra Enti locali e imprese abbia portato a localizzare sul
territorio nuovi investimenti, avendo la meglio sulla concorrenza straniera (ad
esempio il caso Pirelli). Bisogna quindi lavorare su progetti “tailor made”.
Interessante potrebbe essere, al fine di riutilizzare le aree dismesse nel nostro
territorio, l’esonero dall’IMU, per un certo numero di anni, per chi vi realizzi
nuovi investimenti industriali.
* * *
L’economia italiana viene da un ventennio di crescita inferiore rispetto alla media
dei paesi sviluppati.
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Venti anni in cui l’industria ha visto decrescere i propri livelli di produttività e di
competitività.
Per vent’anni ci siamo disallineati rispetto ai nostri maggiori partner europei.
Ora dobbiamo porre fine a questa stagione opaca, durata troppo a lungo ed aprirne
una piena di progetti, speranza e libertà.
Vogliamo riallinearci al resto del mondo sviluppato, per tornare in squadra insieme
con i nostri partner.
Sono persuasa che il reshoring sia uno strumento fondamentale in questo cammino di
recupero della crescita.
Perché ridà fiato alle nostre qualità e ai nostri saperi migliori di cui oggi, più che mai,
dobbiamo andare fieri.
Perché racchiude una promessa per il domani, sia per gli imprenditori sia per i
lavoratori.
Perché parla del Paese e delle sue straordinarie capacità.
Perché è una sfida che riguarda tutti.
Una sfida che possiamo e dobbiamo vincere.