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Reggio Terzo Mondo Rassegna Stampa Balcani Delegazione Caritas Emilia Romagna “Pertej detit…” Anno 4 Numero 5 Pagina 1 Rassegna Stampa Balcani DELEGAZIONE CARITAS EMILIA ROMAGNA Sommario Editoriale Pag.2 Uranio Impoverito Pag.2 Vita sotto assedio nei monasteri del Kosovo Pag.3 Bulgaria: contraffatto è bello! Pag.4 Kosovo: casa dolce casa Pag.6 Albania: sindacati assenti Pag.7 I ragazzi del Bethore Beach Pag.8 L’Albania punta sul turismo Pag.9 Zagabria sotto la pressione degli Stati Uniti Pag.10 Croazia: serve una commissione sulla verità? Pag.11 La morte dei villaggi macedoni Pag.12 Albania: dannata terza età Pag.14 Iniziative e appuntamenti Approccio alle culture emergenti: est Europa – Cina - India Pag.15 A Bologna Cineforum interculturale Pag16 Pertej detit... Maggio 2006 Anno 4 Numero 5 ---------------- Comitato di Redazione : - Silvia Riva - Mirko Baccarani - Alessandra Odone - Denis Turci

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Reggio Terzo Mondo Rassegna Stampa Balcani Delegazione Caritas Emilia Romagna “Pertej detit…”

Anno 4 Numero 5 Pagina 1

Rassegna Stampa Balcani

DELEGAZIONE CARITAS EMILIA ROMAGNA

Sommario Editoriale Pag.2 Uranio Impoverito Pag.2 Vita sotto assedio nei monasteri del Kosovo Pag.3 Bulgaria: contraffatto è bello! Pag.4 Kosovo: casa dolce casa Pag.6 Albania: sindacati assenti Pag.7 I ragazzi del Bethore Beach Pag.8 L’Albania punta sul turismo Pag.9 Zagabria sotto la pressione degli Stati Uniti Pag.10 Croazia: serve una commissione sulla verità? Pag.11 La morte dei villaggi macedoni Pag.12 Albania: dannata terza età Pag.14

Iniziative e appuntamenti Approccio alle culture emergenti: est Europa – Cina -

India

Pag.15 A Bologna Cineforum interculturale Pag16

Pertej d

etit...

Maggio 2006

Anno 4

Numero 5

----------------

Comitato di Redazione :

- Silvia Riva - Mirko Baccarani - Alessandra Odone - Denis Turci

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Anno 4 Numero 5 Pagina 2

Editoriale

Cari amici, eccoci di nuovo qui, dopo le festività pasquali con una nuova edizione della Rassegna Stampa Balcani promossa da Reggio Terzo Mondo, Centro Missionario Diocesano di Reggio Emilia e Caritas Diocesana di Carpi. In questo numero nella rubrica “Appuntamenti ed iniziative” troverete due proposte interessanti volte ad un approfondimento delle tematiche inter - culturali: Corso CERFORM "Approccio alle culture emergenti: Est Europa, Cina, India"; Cineforum interculturale "Percorsi Paralleli" promosso da CESTAS composto dalla sezione filmati inerenti il Sud America e dalla sezione Balcani, Mediterraneo e Africa. Anche se rischiamo di diventare un pò ripetitivi, riteniamo importante sollecitare nuovamente il vostro apporto alla Rassegna Stampa. Crediamo che per la qualità e completezza della Rassegna sarebbe molto importante comprendere le vostre preferenze, gli argomenti che vorreste approfondire, ricevere vostri suggerimenti circa l'impostazione della Rassegna nonché articoli o altri documenti che ritenete interessanti e che desiderate divulgare. Come potete notare, negli ultimi 4 numeri abbiamo alleggerito il "peso" della Rassegna Stampa cercando di mantenere una equilibrata diversificazione di notizie selezionando articoli differenti per Paese e tematiche. Ci piacerebbe in particolare arricchire la sezione "Appuntamenti ed iniziative" con segnalazione di eventi, corsi e/o convegni, iniziative, libri di recente pubblicazione, ecc. ma per fare questo abbiamo bisogno di ricevere le informazioni relative a tutto ciò con un certo anticipo, avendo la Rassegna cadenza mensile. Vi ringraziamo fin da ora della collaborazione che potrete fornirci ricordandovi che potete scriverci a [email protected] e RTM provvederà a girare a noi della redazioni i vostri contributi.

Non ci dilunghiamo ulteriormente, lasciandovi alla lettura della Rassegna. Un caro saluto a tutti e arrivederci a presto. Alessandra, Denis, Mirko, Silvia

L’uranio impoverito

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Articolo presi da “Il Resto del Carlino” del 20/04/06

Vita sotto assedio nei monasteri del Kosovo

«Documenti, prego», domanda il militare. «Ok, potete passare». Per entrare al monastero di Decani, culla della tradizione ortodossa, si deve passare al check-point. Davanti alle mura di pietra che custodiscono i gioielli più preziosi dell'arte medievale, stazionano giorno e notte i soldati italiani della Kfor, le forze Nato presenti nella regione. «Per noi vivere fianco a fianco all'esercito è strano, un militare armato nel monastero non dovrebbe essere la normalità. Ma ci siamo abituati. Se non ci fossero loro, le chiese sarebbero sicuramente distrutte - spiega il monaco Xenofont -. La tradizione cristiana è il cuore di questa regione, e invece guardi come siamo costretti a vivere». Si vive così, sotto presidio militare, nei monasteri ortodossi del Kosovo, protetti 24 ore su 24 dall'esercito armato. Qui si è scritta l'ultima, sanguinosa, pagina delle guerre balcaniche. Prima le razzie e gli scempi dei soldati di

Milosevic, che hanno torturato, perseguitato e ucciso migliaia di albanesi. Nel '99 le bombe della Nato hanno piegato l'esercito serbo. In Kosovo sono entrare le forze internazionali. La guerra era finita, ma la pace ancora lontana. Le parti si erano, semplicemente, invertite: era l'inizio dell'agonia del popolo serbo, diventato minoranza da proteggere. Oggi in Kosovo la popolazione è per il 90% albanese di religione musulmana, con una piccola percentuale di cattolici. I serbi, ortodossi, grandi sconfitti del conflitto, vivono relegati nella zona settentrionale della regione, oppure in enclave chiuse, protette da mezzi militari blindati. Non possono uscire se non scortati. Nemmeno per andare a messa, se la chiesa non si trova nel loro villaggio. E se la chiesa è stata distrutta in una delle recenti ondate antiserbe, il senso di isolamento cresce. «In questi sette anni - continua padre Xenofont - sono centinaia gli edifici religiosi distrutti: bruciati, razziati o fatti saltare con l'esplosivo». L'ultimo attacco è stato nel marzo del 2004. «In soli tre giorni gli albanesi hanno raso al suolo più di trenta chiese, bruciato le case serbe - racconta -. E più di quattromila persone sono state sfollate. Anche noi , qui al monastero, siamo stati attaccati: due colpi di mortaio sono arrivati fin qui. Per fortuna eravamo sotto protezione dei militari italiani, come oggi. Sono state ore

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di grande paura: da ogni parte arrivava la notizia che il Kosovo cristiano bruciava». E brucia ancora il Kosovo cristiano. Almeno nella mente e nel cuore dei serbi. Quando per strada ci si imbatte in una chiesa ortodossa, le immagini che la accompagnano sono sempre le stesse. O è ridotta a un cumulo di macerie, o è chiusa e circondata da metri di filo spinato. O è presidiata dalle truppe. Le funzioni religiose del tempo ordinario sono deserte: i fedeli non possono andarci liberamente. Nei momenti forti, il Natale, la Pasqua, la feste dei morti, vengono organizzati speciali convogli scortati dalle forze dell'ordine. Noi cristiani ortodossi ci sentiamo sotto assedio - continua padre Xenofont -. L'origine di questo odio è in prevalenza di natura etnica, è un odio prima di tutto antiserbo e solo poi anticristiano. Ma chi può escludere che, una volta cancellate tutte le tracce degli ortodossi dal Kosovo, non si inizi con i cattolici? Preoccupano per esempio le voci della presenza di missionari islamici che vengono dall'Iran e dall'Arabia Saudita». Dentro il monastero di Decani la vita è scandita dal ritmo della preghiera e del lavoro. I monaci hanno un laboratorio di icone a cui si dedicano per diverse ore al giorno. La pace e il silenzio sono quelle di tutti i monasteri. Solo che qui, per garantirle, serve l'esercito. Padre Xenofont ci accompagna all'uscita. In strada un suo confratello sta parlando con i militari. Deve andare a Belgrado. Il suo furgoncino bianco sarà scortato per tutta la strada da due mezzi militari. Fuori dalle zone serbe il Kosovo è musulmano e albanese. La priorità della gente, qui, si chiama "pavarsia", indipendenza. Vogliono staccarsi dalla Serbia, creare un proprio stato, con la propria lingua e la propria religione. Il ricordo delle violenze subite è una ferita ancora aperta: in pochi sono disposti a voltar pagina. La bandiera e i colori ufficiali sono ovunque gli stessi. Rosso e nero: Albania. È un terra contesa, il Kosovo, divisa e lacerata. Da una parte i serbi, che la sentono culla della tradizione ortodossa. Dall'altra gli albanesi. Il trattato di Rambouillet, che nel 99 avrebbe dovuto mettere fine agli scontri interetnici, prevedeva l'autodeterminazione dei popoli. «E il popolo kosovaro -spiega Arber Rexhaj, leader di un movimento indipendentista- è albanese. Dobbiamo avere l'indipendenza. Il Kosovo è nostro». A Vienna si è da poco concluso - con un nulla di fatto - il terzo round di negoziati fra le due delegazioni che dovranno decidere il futuro status della regione. I tempi della diplomazia sono troppo lunghi per i cristiani kosovari, che hanno paura. «Noi serbi del Kosovo non abbiamo più libertà. Ci sentiamo dimenticati - denuncia dal patriarcato di Pec Madame Dobrilla -. Se il Kosovo diventerà uno stato indipendente, non so cosa sarà di noi. Le truppe Nato se ne dovranno andare, chi ci garantirà la sicurezza? Forse i serbi se ne andranno. Ma che succederà alle nostre chiese? Non vedo la creazione di un Paese multietnico. Basti pensare che il nome

completo della nostra regione è Kosovo (che significa terra dei corvi) e Metohija (terra dei monasteri). Non so perché, ma il termine Metohjia è stato già cancellato dalla dicitura internazionale. Forse il destino di noi cristiani è già stato deciso. O magari - sorride amara - è solo più facile da pronunciare». Kosovo y Metohija, terra dei corvi e dei monasteri ortodossi. In questa terra, a sette anni dalla guerra, le due etnie sono ancora divise. Guai a parlare serbo nelle zone della maggioranza albanese. Guai a parlare di Kosovo indipendente nelle zone controllate dai serbi. Simbolo di questa divisione è Mitrovica la città pi ù a nord. Il fiume Ibar la taglia in due. Sul fiume c'è un ponte, che però non unisce le due parti. A sud ci sono solo albanesi. A nord solo serbi. Oltrepassare il ponte, per i due popoli, non è possibile. Non ancora.

da Pristina Vicsia Portel Avvenire 03/04/06

Bulgaria: contraffatto è bello!

Il mercato di Ilientzi, nei sobborghi di Sofia, è il paradiso delle merci contraffatte. Versace, Armani, Diesel. Tutto a prezzi stracciati. "Ma non è più come una volta" racconta un ambulante "ora Billa e Metro ci fanno concorrenza e la guerra nella ex Jugoslavia è finita" I mercati in Bulgaria sono inondati da beni contraffatti, vestiti, occhiali, scarpe, borse e profumi, copie di marchi famosi realizzate in Cina o in Turchia. Il mercato di Ilientzi, nei sobborghi di Sofia è il paradiso dei “mente”, parola bulgara che indica i prodotti contraffatti. I consumatori vanno ad Ilientzi soprattutto per i prezzi bassi. Tutte le marche famose che si vedono nei più di duemila negozi del grande mercato, come “Versace”, “Armani”, “Diesel”, “Miss Sixty”, “Dolce & Gabbana”, “Moschino” e tanti altri, sono riproduzioni. Si possono comprare jeans “Levi's” o “Energie” per 20 - 25 leva (10 – 13 euro). Alcune contraffazioni, come un paio di jean “Bulgari”, venduti ad appena 28 leva (14 euro), sono dei veri e propri capolavori, e si distinguono a malapena dagli originali. In una delle profumerie la giovane commessa mostra senza ritrosie due confezioni dello stesso profumo, una è originale, l'altra contraffatta. “Qual'è la differenza?” chiediamo. “I profumi originali sono più costosi, intorno a i 30 – 50 euro. Gli “altri” invece costano solo 35 – 40 leva (18 – 20 euro) ma in realtà la differenza non si sente, sono come gli originali”. Sugli

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scaffali di vetro ci sono confezioni “Chanel N°5”, “Moschino”, “Kenzo”, “Cheistian Dior” a prezzi da favola. “Alcuni commercianti vengono a rifornirsi qui da noi, e poi rivendono i profumi in centro città come originali” ci dice ancora la commessa. Fuori dal mercato c'è un boschetto immerso in un acquitrino melmoso. L'attraversa un sentiero d'asfalto rialzato, dove vari ambulanti mostrano le proprie merci. Sulle bancarelle si vedono soprattutto calzini e biancheria a buon mercato, tutto “made in China”. Nel fango rifiuti di ogni genere, bottiglie, sacchetti di plastica, cartacce. “Presto le rane cominceranno a cantare” ci dice una donna che vende calzini “Nike” a 1,50 leva (80 centesimi) al paio. Ci spiega che la municipalità ha vietato agli ambulanti di esercitare intorno a “Ilientzi”. Adesso vengono a vendere soltanto il sabato e la domenica, e nessuno pensa a portar via le immondizie. Gli ambulanti non possono permettersi di pagare i 1500 leva (750 euro) al mese che servono ad affittare uno degli spazi vendita all'interno del mercato. “Ilienzi non è più lo stesso”, ci racconta Kircho, uno dei venditori, da dietro la sua bancarella. “Gli affitti esorbitanti e la concorrenza dei grandi supermercati come “Metro” e “Billa" ci stanno strangolando. La guerra in Jugoslavia è finita, e serbi e macedoni, che erano i nostri migliori clienti, non si fanno più vivi da queste parti. Per essere competitivi dobbiamo vendere solo prodotti cinesi o turchi, quelli bulgari sono troppo cari per le tasche dei nostri clienti”. Turchia e Cina sono i principali produttori di merci contraffatte, ha dichiarato al quotidiano “Novinar” Kostadin Manev, direttore dell'Ufficio Brevetti. Per evitare di comprare tali prodotti, bisogna conoscere il negoziante e tenere d'occhio i prezzi. I prodotti delle marche più rinomate vengono venduti da negozi come quelle che si trovano sulla “Vitosha”, la via commerciale della capitale bulgara, dove alcune case di moda, come “Gianfranco Ferré” hanno aperto le loro boutique. Una borsa originale costa intorno ai 500 euro, ma molti negozi in Bulgaria le propongono a circa 10 euro. Naturalmente, se si comprano i prodotti “mente”, non is possono avere pretese sulla qualità. Questo tipo di merce è scadente, ha dichiarato recentemente Mariana Tzvetkova, direttrice del dipartimento “Attività Legali ed Internazionali” dell'Ufficio Brevetti, e talvolta rappresenta un rischio per la salute. La contaffazione dei marchi è legata alla cosiddetta “economia grigia” ha detto ancora la Tzvetkanova, all'evasione fiscale e alla fragilità sociale dei consumatori. L'Ufficio Brevetti ha presentato a febbraio agli esperti della Commissione Europea la strategia elaborata per combattere questo fenomeno. Questa prevede una più stretta collaborazione tra lo stesso Ufficio, la polizia, le

dogane e i tribunali, per una lotta veramente efficace contro la contraffazione. Oggi l'Ufficio Brevetti, nel caso venga accertata la vendita di merce falsificata, può emettere multe di varia entità. Per le persone fisiche queste vanno dai 500 ai 1500 leva nel caso di prima infrazione, e dai 1500 ai 300 leva in caso di recidiva. Per le persone giuridiche si va dai 1000 ai 3000 leva per la prima infrazione ai 3000 – 5000 leva per chi persevera nel reato. Tutta la merce contraffatta viene confiscata. Nel 2005 l'Ufficio Brevetti ha portato a termine circa 500 indagini insieme alla polizia. Nel gennaio 2006, trenta indagini hanno portato al sequestro di 742 prodotti di vario genere. Tra questi jeans e vestiti di marche come “Dolce & Gabbana”, “Diesel”, “Emporio Armani”, “Giò”, “Puma” ecc. A marzo a Dobrich è stata sequestrata merce per il valore di 300mila leva (150mila euro), proprietà della ditta “Daytona”. L'operazione è stata portata a termine da ufficiali di polizia, Ufficio Brevetti, Dipartimento per la Lotta al Crimine Organizzato e dall'Ufficio Dogane. All'interno di due depositi della ditta sono stati ritrovati orologi, scarpe, magliette e cinture di “Gucci”, “Adidas”, “Puma” e “Diesel”. La merce di contrabbando non aveva alcun documento che ne attestasse la provenienza, ma è stata sicuramente importata dalla Cina. Recentemente un'operazione contro il traffico di merce contraffatta è stata portata a termine anche al mercato di Ilientzi dall'Ufficio nazionale contro il crimine organizzato. Secondo le forze dell'ordine l'operazione ha sventato un giro di affari di milioni di euro. Le violazioni più vistose vengono fatte nei bazar e nei mercati, come quello, diventato famoso, di Dimitrovgrad, ha dichiatato Kostadin Manev. Con l'ingresso della Bulgaria nell'Ue, il paese entrerà nel Dipartimento per i marchi registrati sul territorio dell'Unione. Nel frattempo però i “mente” sono dappertutto, anche nei pressi del parlamento. Il più famoso mercato di orologi contraffatti “made in China” è quello degli antiquari che stazionano regolarmente davanti alla cattedrale “Alexander Nevski”. I modelli per uomo sono relativamente costosi, “Rolex” e “Patek Philippe” a circa 50 euro. Dopo aver provato uno “Chanel” da donna in metallo, esposto a 20 leva (10 euro) chiedo al venditore che tipo di garanzia ci sia per l'orologio. “L'unico problema che può avere è con le batterie” mi ha assicurato con un sorriso il giovane “antiquario”. E quando gli ho detto che l'orologio era “mente”, mi ha risposto allargando ancora di più il sorriso “Ma qui in Bulgaria anche i politici sono “mente”” E poi che diamine, è pur sempre uno “Chanel”, e per soli 20 leva!”.

Di Tanya Mangalakova 13/04/06

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Kosovo: casa dolce casa

E' nata in Kosovo una nuova istituzione che si occuperà dei casi di immobili, terreni agricoli, esercizi commerciali illegalmente occupati. Di questi soprusi in questi anni sono state vittime soprattutto le minoranze. Ora cambierà qualcosa? Sono passati 7 anni dall'intervento NATO, 7 anni dalla firma degli Accordi di Kumanovo che posero fine alla guerra. Poi sono arrivati l'UNMIK, le istituzioni provvisorie, le elezioni di un governo centrale e di amministrazioni locali. Ma alcuni nodi cruciali in Kosovo non sono stati ancora sciolti. Tra questi sicuramente la questione della restituzione di immobili illegalmente occupati durante e dopo il conflitto del 1998-'99. Sono state infatti decine di migliaia gli sfollati che hanno dovuto in quel periodo lasciare il Kosovo e le proprie proprietà e in molti casi non hanno più potuto riprendervi possesso. Molti di questi casi rimangono ancora irrisolti anche perché la questione è molto calda dal punto di vista politico. La problematica va inserita inoltre nel quadro più ampio dell'amministrazione della giustizia, ancora molto problematica in Kosovo. Alla fine del 2005 vi erano ad esempio 143.000 casi pendenti presso le corti del Kosovo. Secondo alcuni analisti le corti del Kosovo avrebbero un ritardo di 5 anni per quanto riguarda di casi di violazione dei diritti civili, 3 anni sui casi di reati penali, 4 mesi per quanto riguarda i casi di violazione del codice civile. La magistratura kosovara accusa dei ritardi il Dipartimento di giustizia dell'UNMIK, aministrazione internazionale, al quale sono riservate ancora notevoli competenze. Le ragioni del ritardo sarebbero individuabili nell'insufficente numero di giudici e pubblici ministeri e di salari troppo miseri per un lavoro di tale responsabilità. Il problema in merito al processo di restituzione di case e terreni non riguarda esclusivamente l'individuazione certa dei proprietari ma anche se questi ultimi torneranno o meno a prenderne possesso, se le corti prenderanno decisioni rapide per favorire questo ritorno e se contemporanemanete la situazione economica e di sicurezza in Kosovo renderà questo ritorno sostenibile. Tutto questo naturalmente non può prescindere dall'esito dei negoziati sullo status finale del Kosovo in atto in questi mesi tra Pristina e Belgrado. Sino ad ora la questione delle proprietà immobiliari è stata gestita da un apposito ufficio UNMIK, il Housing and Property Directorate, che, secondo fonti non ufficiali, avrebbe dato risposta sino ad ora al 70% dei

casi che sono stati sottoposti. Ma molti di coloro i quali si sono visti restituire l'appartamento o la casa dall'HPD non sono poi stati in grado di rientrare e spesso si sono trovati obbligati a vendere a prezzi sensibilmente più bassi rispetto al reale valore immobiliare. In questi giorni l'HPD sta passando la mano ad una nuova istituzione, la Kosovo Property Agency (KPA), lanciata da una risoluzione UNMIK che ne specifica struttura e compiti. Spetterà a quest'ultima ricevere, registrare i reclami ed assistere le corti locali nel risolvere questioni inerenti ad appartamenti e case private, proprietà immobiliari, terreni agricoli e proprietà commerciali. Dopo una procedura presso la KPA, dove verranno accolti o meno, i reclami verranno inoltrati alle corti locali che avranno 45 giorni per confermare o no la decisione della KPA oppure per richiedere alla KPA ulteriori indagini. E' prevista anche la possibilità di adire ad un livello ancora superiore, quello della Corte suprema del Kosovo. Per l'UNMIK l'istituzione del KPA costituisce un momento che tutti coloro i quali hanno visto usurpati i propri diritti di proprietà aspettavano da anni e che garantirà tempi rapidi e pieno accesso alla giustizia. Secondo alcune fonti potrebbero arrivare a circa 20.000 i reclami presentati dalla comunità serba del Kosovo e da appartenenti ad altre minoranze. Ma se l'UNMIK è ottimista non tutti lo sono, in particolare esponenti della comunità serba. Innanzitutto viene contestato il fatto che la KPA si occuperà di casi di violazione di proprietà avvenuti tra il 27 febbraio del 1998 ed il 20 giugno 1999. Quindi un lasso di tempo che riguarda il conflitto aperto e non la fase immediatamente successiva dell'arrivo in Kosovo della comunità internazionale e i danni e le violazioni della proprietà immobiliare dei serbi del Kosovo e delle altre minoranze avvenute in quella seconda fase. Altra preoccupazione è quella che sfollati e rifugiati, in particolare quelli in Serbia e Montenegro, ricevano adeguate informazioni in merito alle modalità per adire alla KPA ed infine i rappresentanti serbi temono che alla fine le decisioni vengano prese in modo arbitrario dalle corti locali dato che, con tutta probabilità, il diretto interessato non avrà per questioni di sicurezza probabilità di accedervi e perché sono costituite quasi sempre da giudici esclusivamente albanesi. Se a questo sommiamo le difficoltà generali del sistema giudiziario kosovaro la speranza che, nonostante questo nuovo organismo, si riesca ad affrontare seriamente la questione della restituzione degli immobili alle minoranze rimane esigua. Vi sarà una volontà forte dei giudici di affrontare celermente i casi di proprietà di serbi occupate illegalmente? Perché farlo in un contesto ancora incerto e dominato dai negoziati sullo status? Lo show continua.

di Sasa Stefanovic – Pristina

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Anno 4 Numero 5 Pagina 7

Albania, sindacati assenti

L’epoca industriale pluralista giunse in Albania 15 anni fa all’insegna dello sfacelo di fabbriche, officine, delle fattorie agricole, e altre di aziende statali, facendo sì che l’assunzione dei lavoratori venisse ormai riorganizzata in chiave capitalistica dalle unità private che sono venute a crearsi. In questo panorama nacquero e crebbero i sindacati per poter rappresentare i lavoratori presso il vertice della piramide sociale. Questi portavoce indiretti degli interessi tra i lavoratori e il governo, apparsero per la prima volta sugli schermi televisivi come un barlume di speranza di un rapporto amichevole e d’intesa. E’ un cammino lungo 15 anni, per celebrare le conquiste umane dei diritti fondamentali del ceto che si trovano a proteggere. Il secolo scorso ha segnato l’epoca appena iniziata dell’integrazione della figura del lavoratore in base ai suoi bisogni e interessi in una società che gli si addica meglio. Da noi questa integrazione si trova ancora ad uno stadio embrionale ed è concepito solo come un processo sociale globale che include tutte le sfere della vita, nel sociale, professionale, economico, familiare e religioso. Con l’avvento della democrazia da noi, i lavoratori rimasero senza alcuna protezione istituzionale, spogli del diritto fondamentale al lavoro, che si trovava ormai in maniera del tutto spontanea nella società. La disgregazione del sistema causò una disoccupazione considerevole tollerata dallo stato e dalla società, per impossibilità istituzionali e mancanza di risorse finanziarie. Venne a crearsi una situazione estremamente caotica che costrinse soprattutto una parte dei giovani a sfidare questa crisi congiunturale che gettò in strada migliaia di lavoratori riducendo in miseria altrettante famiglie, e la sfida era la fuga verso i mercati europei e altrove dove poter offrire manodopera a basso costo. Coloro che rimasero si trovarono alle prese con le nuove opportunità che offriva il neonato settore privato e l’immissione degli investimenti stranieri. Questa svolta storica creò lo stato fiscale quale stato del benessere che però spaventa il settore dei disoccupati. Le persone più a rischio sono sempre i giovani non istruiti e in minor misura anche quelli istruiti che si trovano in una situazione di insoddisfazione del presente e di mancanza di visioni per il futuro. La generazione che è stata appena inserita nel mondo del lavoro costituisce il fallimento più doloroso del nuovo sistema economico a cui si trovano letteralmente soggiogati. Queste risorse umane e intellettuali si trovano in uno stato di repressione. I lavoratori si sentono discriminati dal datore di lavoro sia

albanese che straniero. Per non parlare poi delle condizioni di lavoro, le basse remunerazioni, la garanzia del posto di lavoro, e soprattutto ancora oggi dopo 15 anni, nella nostra libera economia di mercato i lavoratori nella maggior parte dei casi non sono assicurati. La reazione dei sindacati non accoglie l’impulso del tempo. I sindacati albanesi non si pronunciano sulle cause della disoccupazione, sulla chiusura di molti posti di lavoro, sulle misure politico-economiche da adottare, politico-congiunturali, o politico-monetarie per alleviare l’irresponsabilità istituzionale. Nell’ambito sociale interno vi sono dei fattori che hanno influenze negative sull’occupazione: l’alta tassazione per la piccola imprenditoria, gli obblighi ingiusti a diversi tipi di imprese, la competizione sleale, che dovrebbero costituire il punto fermo dell’azione sindacale. E invece la voce dei sindacati è fioca. Durante tutti questi anni nonostante la presenza di una moltitudine di mezzi tramite cui partecipare, i sindacati non si sono fatti sentire abbastanza nella difesa dei diritti e degli interessi dei lavoratori. Spesso la loro si è rivelata una presenza formale di gente che per interessi personali ha sistematicamente flirtato con il potere centrale. Nonostante siano ormai indipendenti i sindacati hanno dimostrato di non aver saputo acquisire l’indipendenza de facto dall’esecutivo e dal legislativo. Nell’Albania settentrionale hanno chiuso delle miniere a Mat, Mirdite, Bulqize, la compagnia turca Kurum ha mandato via 1000 operai, ma la sensibilità dei sindacati non va oltre la formalità d’obbligo. Molte compagnie straniere operano in Albania remunerando i lavoratori con stipendi minimi e nella maggior parte dei casi non provvedono al versamento dei contributi. Le autorità finora hanno taciuto di fronte a qualsiasi abuso, però adesso, dopo ben 15 anni, occorre dire basta per dare il via al risveglio della coscienza istituzionale e porre fine a questa situazione. Se i sindacati fossero davvero operativi, grazie a tutte le competenze e l’autorità di cui godono, avrebbero potuto facilitare notevolmente la reazione degli organi esecutivi. Se vi fosse stata una reciprocità di rapporti coerenti in base al fine dell’esistenza stessa dei sindacati tra questi ultimi e lo stato si potrebbe evitare anche l’inazione che deriva dalla mancanza dell’informazione, delle osservazioni e della collaborazione. I datori di lavoro non hanno percepito abbastanza l’opposizione dei sindacati. Non sembra affatto che i sindacati siano i paladini di qualche ceto bisognoso. Le questioni sociali sono all’ordine del giorno, prevalendo soprattutto lo scontro tra capitale e lavoro, tra lavoratore e datore del lavoro. Da difendere nel mercato odierno vi sarebbe non solo i disoccupati ma anche i pensionati, e gli studenti ecc, che esigerebbero l’informazione necessaria per l’inserimento nel mercato regionale e locale, le imprese, le istituzioni e i criteri di assunzione.

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Anno 4 Numero 5 Pagina 8

Venendo ai pensionati, nessuno può negare che la maggior parte di loro vivano al di sotto della soglia di povertà a causa delle ridicole pensioni di oggi, però finora i sindacati non hanno voluto denunciare un fatto così evidente. Non si è mai fatto un bilancio del rapporto tra i redditi di alcuni strati e il caro-vita che devono affrontare e fino a che punto ciò avviene. E’ ben noto che vi sono intere categorie di lavoratori e pensionati che non raggiungono la piena autosufficienza economica ricorrendo di conseguenza al sostegno da parte dei propri figli. Dopo 15 anni di vita è arrivato il momento di fare un bilancio del loro lavoro, del conseguimento delle soluzioni, e degli esiti concreti. Vi sono state delle manifestazioni da parte dei lavoratori per l’età della pensione, delle sovvenzioni delle medicine, sulla remunerazione degli insegnanti e del personale medico, lo sciopero della fame dei conducenti degli autobus, la chiusura di fabbriche, per compensare la posizione moderata e di complicità dei sindacati. E’ ovvio che ormai non godano neanche della fiducia degna di un’istituzione cui rivolgersi sperando nella soluzione di un problema. Tra l’opinione pubblica i sindacati vengono visti come delle ONG tra le tante che hanno pullulato nel paese questi anni in un’avida competizione di profitti privati, e che al massimo distribuiscono qualche (Fletkampi) permesso di ferie in zone turistiche per i lavoratori. Quindi niente da aggiungere al ruolo formale che hanno ereditato dal comunismo. I sindacati riusciranno ad acquisire autorevolezza solo quando saranno in grado di proporre alle autorità competenti tutta la crisi sociale che sta attraversando il paese per poter sperare in soluzioni concrete coerenti alle problematiche odierne e agli strumenti democratici.

Di Ago Nezha – Gazeta Ballkan – Tirana 12/04/06 Traduzione di Osservatorio Balcani

I ragazzi del Bathore Beach

Un gruppo di ragazzi albanesi ha promosso un progetto di turismo responsabile nel cuore dell’Albania. Incontri con la tradizione, la cucina locale, la cultura e altro ancora. Un'intervista con Erjona Shahini responsabile di BathoreBeach Il vostro sembra essere un progetto di turismo responsabile. Il programma prevede sia la conoscenza del territorio che delle tradizioni albanesi. Vorreste raccontarci più nel dettaglio come è nato questo progetto e quali sono i principali obiettivi?

Siamo un gruppo di giovani che vogliono studiare e lavorare in Albania. Per noi la formazione è importantissima ed è quella che ci permetterà di costruire, con tanta forza di volontà e impegno, una posizione all’interno della nostra società. Abbiamo bisogno, per poter raggiungere il nostro obiettivo lavorativo, di realizzare un percorso formativo e per fare questo abbiamo bisogno di qualche finanziamento economico che si aggiunga a quello che viene dato dai nostri genitori e a quello che riusciamo ad ottenere con qualche lavoretto saltuario. Abbiamo parlato tante volte tra di noi di fronte al lago di Bathore, guardando le montagne accanto a Tirana e ci siamo resi conto che bisognava trovare una soluzione. La soluzione era proprio quella che avevamo intorno: l’Albania è un paese bellissimo con natura e tradizioni invidiabili ed inoltre è vicinissima all’Italia. E’ da qui che nasce l’idea di Bathorebeach.net in cui mettiamo a disposizione la nostra ospitalità ai turisti in cambio di un contributo che va a co-finanziare il nostro percorso formativo.

Sul vostro portale c'è una frase molto significativa di come intendiate questo progetto: "è possibile costruire qualcosa nel proprio paese rifiutando l'idea che bisogna andare per forza in altri stati per poter vivere." È questa l'idea che sorregge l'intero progetto?

Questa è la base del progetto ed è quella che ci ha dato il grande stimolo per trovare una soluzione. Noi facciamo il nostro percorso di vita e potremmo essere un esempio per gli altri che hanno intenzione di uscire dal paese. Crediamo fortemente nelle potenzialità del nostro paese. Perché avete scelto Bathore beach come luogo del progetto?

Noi abitiamo a Bathore, che è una zona periferica di Tirana e anche se ha bisogno di essere costruita e sistemata, e molto bella perché è la nostra terra. I turisti soggiorneranno a Bathore e poi saremo tutti i giorni in giro per l’Albania a fargli scoprire tutte le bellezze che offre questo paese! Cosa offre una vacanza a Bathore beach? Un viaggio nella cultura e nelle tradizioni dell’Albania. Ci saranno visite a Tirana e altre città storiche albanesi, si visiterà il mare cristallino della costa e la montagna con i suoi laghi e fiumi. Si incontreranno gli anziani del paese per scoprire la storia e la tradizione, si mangeranno piatti tipici albanesi, si ascolteranno concerti di musica popolare. E’ stato entusiasmante definire tra di noi il programma da proporre ai visitatori e vedere così realizzare un bel tragitto nella bellissima Albania. Trovate tutto su www.bathorebeach.net Sembra di capire che la vostra offerta sia direzionata principalmente al pubblico italiano, grazie anche al fatto che tutti i ragazzi attivi nel progetto parlano la lingua. Che rapporti avete con l'Italia? Lavorate con qualche organizzazione che si occupa di turismo? L’Italia è vicinissima e c’è un buon rapporto e una buona collaborazione con gli italiani. Ci sono anche tanti italiani in Albania per lavoro e per piacere. Abbiamo anche attivato una collaborazione con un’agenzia di turismo responsabile che si chiama Viaggi e Miraggi.

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Tra l’altro il progetto Bathorebeach e stato reso possibile anche grazie alla collaborazione con l’Associazione Culturale Jara Birdi.

Di Luka Zanoni 11/04/06 Osservatorio balcani

L’Albania punta sul turismo

Un ambizioso programma del ministero del Turismo mira alla creazione di un’infrastruttura necessaria al turismo culturale basandosi sull’ambiente e sulla tradizione rurale. Un ambito che potrebbe rappresentare una forte risorsa per l’Albania. Nostra traduzione Recentemente il nostro ministro del Turismo ha incontrato a Berlino il segretario generale dell’Organizzazione mondiale del Turismo. Questa organizzazione è in pratica il FMI dell’industria turistica. La sua è una presenza che copre gran parte del globo mirando a sostenere lo sviluppo del turismo a un livello costante. Offre progetti e consulenze sulla gestione turistica tendendo a far beneficiare anche i cittadini oltre all’oligarchia degli investitori.

Grazie a questo ente la Croazia è riuscita a quadruplicare l’affluenza di turisti nel breve lasso di tempo di soli 3 anni. E’ evidente che anche l’Albania potrebbe beneficiare notevolmente grazie al coinvolgimento di questa struttura dell’ONU. In proposito, vale la pena lodare l’iniziativa del ministro Leskaj. Si spera inoltre che le sue idee sull’incoraggiamento degli investimenti nel turismo da parte delle compagnie albanesi, e l’inserimento di investitori stranieri di prestigio trovino l’adeguato appoggio nei ministeri congiunti del settore come quello del Trasporto e regolamento del territorio, delle Finanze ecc. Vi sarebbe la necessità di applicare un’agevolazione simile a quella per gli emigrati, fonte di 800 milioni di euro in Albania, che per incoraggiarli a investire in patria il governo si è impegnato a ridurre le imposte dovute allo stato. In Croazia, l’eliminazione dell’IVA dai pacchetti e dai tour turistici ebbe un esito più che positivo. Non vi è motivo che impedisca l’applicazione di tale politica anche nel turismo albanese. Si prevede in tal modo che la prossima stagione incrementi gli introiti turistici di circa 200 milioni di euro. Sulla concretizzazione di tale politica il ministero del Turismo ha già un programma molto ambizioso degno di essere vivamente sostenuto. Si sta mirando alla creazione

di un’infrastruttura necessaria al turismo culturale basandosi sull’ambiente e sulla nostra tradizione rurale. E’ una trovata intelligente. Il turismo culturale, di avventura e l’ecoturismo costituiscono il mercato più in crescita nell’ambito del turismo mondiale, segnando quote che vanno dal 15 al 20 % l’anno. Oggi questo settore costituisce più di un quarto del ricavato nel mercato mondiale del turismo. In Albania non mancano le risorse da offrire a tale mercato. Per questo motivo la sezione dedicata a noi nella fiera Internazionale del Turismo di Berlino (8-11 marzo 2006), una delle rassegne turistiche maggiori al mondo, si intitolava “L’Albania, l’ultimo segreto da svelare in Europa”.

D’altra parte la conoscenza del potenziale turistico del paese è ancora irrilevante per le compagnie e le agenzie turistiche internazionali. Naturalmente a rimediare ciò non bastano solo belle presentazioni alle fiere del turismo internazionale. Bisognerebbe accostarsi a pieno al popolo del turismo internazionale. Un ottimo mezzo sono sempre state le guide turistiche. Il ministro Leskaj ha predisposto la fornitura di tale presentazione turistica per ogni città albanese entro la fine di aprile. Entro la fine del mese si pensa anche di compilare una guida generale per l’intero paese. Entro marzo si mirava alla pubblicazione di una rassegna completa con cartina dei monumenti culturali albanesi. E in fase di preparazione un album “L’Albania dall’aria”, e una mostra dallo stesso titolo che percorrerà le città albanesi, del Kosovo e della Macedonia, altri paesi dei Balcani e oltre. Si vorrebbe anche organizzare la prima Fiera del Turismo Internazionale di Tirana. Sarà la prima prova da affrontare per inserire l’Albania nel mondo del turismo internazionale. Invece la vera sfida avrà luogo tutti i giorni sulle spiagge, negli alberghi, ostelli, e nei centri turistici di montagna in tutto il paese. Si tratterà della necessità di migliorare la qualità del servizio turistico in Albania. Per la realizzazione di questo obiettivo, prossimamente il ministero del Turismo presenterà a tutti gli operatori turistici (alle agenzie, agli alberghi ecc) il Codice Globale dell’Etica dell’Organizzazione Mondiale del Turismo. Questo codice di professionalità riconosciuto in tutto il mondo costituirà un punto di riferimento dell’attività turistica di tutti gli operatori in Albania. Si mira a far sì che il giovane cameriere albanese (di solito il cugino povero del proprietario dell’albergo) non continui a limitare la sua preparazione solo al sorriso stampato, al portamento impalato, ma che sia anche tempestivo nel servire il secondo appena vede il primo consumato. Per aggiornare il personale dei servizi turistici, la PNUD e l’Organizzazione Mondiale del Turismo hanno messo a disposizione 250 mila euro. A coordinare e ad implementare questo progetto sarà il nostro ministero del Turismo. Inoltre sempre l’Organizzazione Mondiale del Turismo e l’Organizzazione Olandese per lo Sviluppo predispongono di un progetto di 50 mila euro per la

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modernizzazione della legislazione sul turismo in Albania. Gli italiani, con la loro “Cooperazione Italiana” hanno offerto 900 mila euro per lo sviluppo del turismo albanese. Gli standard del servizio turistico per raggiungere il mercato internazionale, potremo ottenerli solo seguendo i consigli, i progetti, e gli orientamenti delle strutture professionali internazionali del settore. A questo sta mirando il ministro Leskaj e il suo staff. Però non finisce qui, tutti potrebbero dare una mano, i media, la società civile, il governo e l’opposizione. Cosi si potrebbero aiutare i poveri di Dibra e Kukes a sviluppare il turismo alpino, gli abitanti di Berat, Gjirokaster a sviluppare il turismo culturale e i cittadini di Pogradec, Saranda e Valona a servire meglio i turisti sulle spiagge.

di Fatos Cocoli,, 15 marzo 2006 Osservatorio Balcani

Zagabria sotto la pressione

degli Stati Uniti Gli USA vorrebbero che Zagabria firmasse l’accordo in base al quale i cittadini americani sospettati di crimini di guerra non verrebbero estradati al Tribunale penale internazionale. Finora la Croazia si è rifiutata di assecondare le richieste degli USA, riuscirà a farlo ancora? Firmerà la Croazia, in occasione dell'imminente visita di Dick Cheney, il vice presidente degli Stati Uniti d'America, l’accordo che si riferisce all'articolo 98 dello Statuto di Roma sulla non consegna di cittadini americani al Tribunale internazionale penale (ICC)? Questo tema scottante, incitato dall'imminente arrivo di Cheney, che soggiornerà a Dubrovnik dal 5 al 7 maggio per la riunione dei paesi firmatari della Carta dell’Adriatico, (Croazia, Macedonia, Albania), si è trovato in cima alle priorità della politica estera croata. I rapporti dei due paesi sono aggravati dai ripetuti rifiuti della Croazia di firmare l’accordo che obbligherebbe Zagabria a non consegnare i soldati americani, sospettati di crimini di guerra, al Tribunale internazionale penale. Per questo motivo gli Stati Uniti in più occasioni, in misura minore o maggiore, hanno esercitato pressioni sulla Zagabria ufficiale, e adesso si specula che la ripetizione del “no” croato, potrebbe significare anche un ulteriore rinvio dell'ingresso nella NATO. Per il premier Ivo Sanader, la firma dell'articolo 98 è quasi un problema irrisolvibile. Esistono come minimo tre buoni motivi per cui il suo governo non lo può fare. Il

primo è in che modo spiegare all’opinione pubblica croata che il Paese, che ha insistito così tanto per la fondazione del Tribunale internazionale dell’Aia, e poi ha accettato di consegnare i propri cittadini sospetti per detti crimini, adesso si opponga alla consegna degli americani, a un tribunale simile, fondato con lo Statuto di Roma il 1° maggio 2002. Il secondo, con la firma dell'articolo 98, il premier croato giungerebbe allo scontro diretto con il presidente della repubblica, Stjepan Mesic, che si oppone fortemente a una cosa del genere. E il terzo, Sanader mettendo la firma sull’accordo di non consegna degli americani si troverebbe a scontrarsi fortemente con l'Unione europea, che con la sua politica ufficiale si oppone alla non consegna degli americani. Dall'altra parte, se l'accordo con gli americani non venisse firmato, Sanader si esporrebbe ad un rischio, perché è possibile che durante la riunione del Patto atlantico nel 2008 gli Stati Uniti non mandino alla Croazia l'invito per l’ingresso nella NATO, come non lo manderanno nemmeno quest'anno a Rigi. Per la politica estera di Sanader, il cui scopo principale era l’inclusione della Croazia nell'integrazione euro-atlantica (l’ingresso nell'Unione europea e nella NATO), ciò poterebbe essere un serio colpo politico. Prima di tutto perché le elezioni regolari in Croazia sono previste per la fine dell'anno prossimo e poi perché il premier, se le cose rimangono come sono fino ad ora, non avrà una carta da giocare davanti agli elettori. Perciò per Sanader sarebbe importante almeno ricevere l'invito per la NATO, visto che non è ancora certo quando la Croazia diventerà membro dell'Unione europea. “Adesso che l’ingresso nell’Unione europea nel 2009 sembra troppo ambizioso e non reale, anche una più veloce integrazione nella NATO aiuterebbe politicamente la Croazia per accelerare il processo di diventare membro dell'UE”, dice il commentatore di politica estera del quotidiano di Zagabria “Jutarnji list”, Augustin Palokaj. Consapevole di questo fatto il premier croato negli ultimi mesi ha lasciato andare dei “palloncini di prova” fornendo a due dei suoi più stretti collaboratori di un tempo, Miomir Zuzul e Andrija Hebrang (rispettivamente l’ex ministro degli esteri e l'ex vice premier) il compito di iniziare durante le uscite pubbliche a sostenere il bisogno del consenso croato per la non consegna degli americani al Tribunale internazionale penale. Zuzul, che a gennaio del 2005 ha dovuto dare le dimissioni per uno scandalo di corruzione e Hebrang che è uscito di scena poco dopo a causa di una grave malattia, nelle ultime settimane hanno sul serio sostenuto la tesi che la Croazia dovrebbe firmare l'articolo 98. Una cosa simile l’ha fatta anche il “collaboratore silenzioso” di Sanader, il presidente del Partito croato del diritto (HSP), Anto Djapic, che dopo il recente soggiorno negli Stati Uniti ha iniziato anche lui a sostenere questa tesi. Sanader ovviamente ha lasciato che gli altri facessero questo lavoro al posto suo, perché non lo può fare lui

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stesso apertamente, per non disturbare i rapporti con l'Unione europea. “Noi in Croazia crediamo che la partnership e l’amicizia dell'Europa e dell'America non abbiano alternative. Si tratta della nostra politica in Croazia, e si tratta anche della politica dell'UE. Sul cambiamento dei nostri punti di vista che abbiamo avuto fino adesso ci consulteremo con l’Unione europea”, ha detto in modo indiretto Sanader, quando la settimana scorsa i giornalisti gli hanno chiesto se Zagabria a breve apporrà la firma sul discusso articolo 98. Secondo i sondaggi che col tempo hanno svolto i media croati, i cittadini croati in grande misura si oppongono all'ingresso del paese nella NATO. Quasi il 60 per cento degli intervistati crede che la Croazia non dovrebbe diventare membro del Patto del Nord Atlantico, e la loro paura dalla NATO prima di tutto la spiegano col fatto che in quel caso i militari croati dovrebbero partecipare alle azioni della NATO come quella in Afghanistan o in Iraq. A dire il vero la Croazia ha un piccolo contingente di militari in Afghanistan, ma siccome le pressioni degli USA sono sempre più accentuate e siccome si chiede a Zagabria di aumentare questo contingente, la ministra degli Esteri Kolinda Grabar Kitarovic, durante una recente visita a Kabul, ha detto che, nonostante il peggioramento della situazione relativa alla sicurezza in loco, il contingente croato presto sarà aumentato e passerà a 150 soldati. Ma, il presidente croato Stjepan Mesic, è deciso sulla sua posizione che Zagabria non può firmare questo accordo con gli americani, e rifiuta ogni possibilità che ciò venga fatto durante la visita del vice presidente americano in Croazia. “Mentre noi consegnamo i nostri cittadini al Tribunale dell’Aia, non potrebbe essere in nessun modo possibile che in Croazia il pubblico acconsentirà alla decisione che i cittadini stranieri non vengano consegnati (al Tribunale internazionale penale). Questa mia opinione è nota”, ha detto Mesic. La maggior parte degli osservatori crede che la Croazia con la firma dell'accordo con gli Stati Uniti sulla non estradizione dei cittadini di questo paese al Tribunale internazionale penale perderebbe parte della sua stima internazionale come stato difensore delle istituzioni internazionali legali alla cui fondazione ha partecipato lei stessa. Ma, già durante l’imminente visita di Dick Cheney a Dubrovnik si vedrà se la pressione degli americani sarà più forte di questo principio.

di Drago Hedl Osijek 27/04/06

Croazia: serve una

commissione sulla verità? Le recenti discussioni in Bosnia Erzegovina sulla necessità di fondare una commissione per la verità e la riconciliazione hanno riattualizzato la questione anche nella vicina Croazia. Una rassegna di posizioni pro e contro raccolte dal nostro corrispondente Drago Hedl Le recenti discussioni che si stanno tenendo in Bosnia ed Erzegovina in merito alla necessità di creare una Commissione per la verità e la riconciliazione e il fatto che un tale organismo esista già in Serbia e Montenegro, hanno stimolato simili pensieri anche in Croazia. Perché anche la Croazia, nella sua recente storia, ha passato un simile periodo turbolento che ha lasciato profonde conseguenze sulla sua società, innanzitutto nei rapporti tra la maggioranza croata e la minoranza serba. Un'ipotesi però mai fatta propria dal governo e circolata esclusivamente fra le organizzazioni non governative e nei media, e nemmeno in quei luoghi si è mai trovato un consenso unanime. Sul fatto che in Croazia esistano problemi che potrebbero essere oggetto del lavoro di una tale commissione, più o meno sono d'accordo tutti, ma lo scetticismo verte sulla questione se una commissione possa essere effettivamente in grado di risolvere tali problemi. In Croazia, per esempio, nemmeno oggi esiste un’unica visione sulle molte domande legate alla storia recente. Così i serbi in Croazia non negano il carattere di "lotta per la libertà" dell'azione militare “Oluja” (Tempesta), con la quale nel 1995 fu liberata Knin e il territorio circostante, ma desiderano che nella valutazione di quest'azione venga detto che durante la stessa sono stati anche commessi crimini di guerra contro i serbi. Solo durante l’anniversario di questa azione dell'anno scorso, benché in modo timido, per la prima volta è stato nominato anche questo fatto, perché fino ad allora quando si parlava di Oluja ci si riferiva esclusivamente ad una “brillante vittoria militare”. In modo simile si parla anche del ruolo della Croazia nella guerra in Bosnia ed Erzegovina. Mentre nel periodo di Tudjman ufficialmente si diceva che la Croazia non ha partecipato alla guerra in BiH, in seguito questo atteggiamento si è evoluto, fino alla valutazione di alcuni politici dell'opposizione secondo i quali “in Bosnia la Croazia è stata un aggressore”. In modo simile si manifesta anche la percezione del Tribunale dell'Aja, che da molti in Croazia ancora oggi viene vissuto come “anti croato”, e infatti osno in molti ad affermare che al TPI vengono processati solo i croati. Oppure emblematico è

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l'esempio del generale Ante Gotovina, che per la maggior parte dei croati è un eroe, e non un possibile criminale di guerra. E di questi esempi ce ne sono parecchi. La pacifista di Zagabria Vesna Terselic, direttrice del centro Documenta che si occupa della rilaborazione del apssato recente, afferma che queste commissioni hanno un senso soltanto là dove prima è stata fatta un'ampia discussione pubblica. È particolarmente importante, rammenta lei, che in essa vengano incluse le vittime e i sopravvissuti, che dovrebbero dire se considerano una tale commissione adeguata. “È importante parlare delle sofferenze, cosa è successo veramente e tutto ciò che la gente ha vissuto”, dice Vesna Terselic. “Ma queste decisioni non possono essere prese alle spalle delle organizzazioni delle vittime e dei sopravvissuti e prima di tutto bisognerebbe domandare loro cosa ne pensano, e solo allora discutere in pubblico sui possibili vantaggi e svantaggi di tali commissioni”. Andjelko Miloradovic, direttore del Centro per le ricerche politologiche di Zagabria, è molto scettico in merito ai risultati che una commissione per la verità e la riconciliazione potrebbe ottenere: “Una commissione non può risolvere nulla, la cosa importante è indurre un clima politico di riconciliazione, che si basi sulla tolleranza e il rispetto. Se si tratta soltanto di un atto simbolico, ciò potrebbe essere accettato, ma quanto possa essere efficace, è tutta un'altra storia. Non credo nella forza di questo atto, ma credo che sarebbe un bene mostrarlo. Ma, allora si pone la domanda: se quell’atto non ha la forza, allora a cosa serve?”. Anche il commentatore del settimanale Ferale Tribune, Marinko Culic, non vede il senso dell'introduzione di una Commissione per la verità e la riconciliazione, in particolare non se essa sarà imposta dalla politica ufficiale o dalla storiografia ufficiale. “Se questo ciò accadesse sotto il cappello dello Stato o della storiografia ufficiale, allora avremmo ricevuto solo il riciclaggio delle uniformi e già esistenti verità storiche. In Bosnia ed Erzegovina ciò sarebbe terribile, perché in quel modo avremmo ricevuto la somma meccanica delle tre verità: quella bosgnacca, quella serba e quella croata. Ma nemmeno in Croazia ciò non sarebbe molto diverso, perché avremmo ricevuto due verità, quella croata e quella serba”. Culic crede che questo lavoro dovrebbero essere svolto dalle organizzazioni non governative e dai media, perché soltanto così potrebbe avere senso. Culic è stato anche uno dei critici più forti delle idee del defunto presidente Franjo Tudjman, il quale verso la metà degli anni novanta se ne era uscito fuori con l’idea della riconciliazione. Ma a modo suo. Tudjman era a favore di una riconciliazione "tra tutti i croati" e si era impegnato persino a fare un monumento unico a tutti i

croati che nella storia hanno combattuto sotto bandiere diverse. Con ciò certamente intendeva anche i partigiani e gli ustascia, che durante la Seconda guerra mondiale combatterono nella coalizione antifascista, cioè nella struttura dell'alleanza nazista di Hitler. Culic condannò fortemente quest'idea, definendola un “miscuglio di ossa” dei criminali e delle vittime, motivo per cui Tudjman gli fece causa. Fu minacciato col carcere, ma il processo andò per le lunghe fino alla morte di Tudjman, quando fu poi sospeso. L’idea di introdurre una commissione per la verità e la riconciliazione, come è stato il caso in alcuni stati che hanno attraversato periodi traumatici di scontri armati o di guerre civili - come il Sud Africa o la Sierra Leone - avrebbe senso, credono alcuni pacifisti in Croazia, come Vesna Terselic, solo se essa venisse introdotta su base regionale. “Quattro anni fa abbiamo parlato dell'idea di fondare una commissione per la verità e la riconciliazione anche in Croazia”, dice Vesna Terselic, “ma allora eravamo d'accordo che in quel momento, essa non fosse ancora adeguata per la Croazia. Ma, ciò non significa che non lo sarebbe stata dopo qualche anno. Credo che valga la pena pensare ad un organismo che permetta a livello regionale di parlare di alcuni avvenimenti bellici. Perché nemmeno oggi si può sapere la piena verità - sia sulla base dei fatti che sulla base dei racconti - dell'azione Oluja soltanto dalla Croazia. È molto importante ascoltare anche le voci dell'altra parte della guerra e le voci della gente che oggi vive in Serbia. E ciò potrebbe essere possibile solo se esiste un organismo regionale”.

di Drago Hedl

Osservatorio Balcani, 19 aprile 2006

La morte dei villaggi

macedoni. Nel 2001 erano 121, ora sono 147. Sono i villaggi macedoni rimasti deserti, un trend sempre più marcato avviatosi mezzo secolo fa. E c'è chi spera nel rilancio dello sviluppo locale e che le migliaia di emigrati macedoni ritornino per la pensione a vivere immersi nelle "bellezze della campagna" Silenzio, desolazione, case diroccate, assenza di persone. Questo è il tratto comune della campagna macedone. Per quanto strano possa sembrare per un territorio così piccolo come la Macedonia, la sua parte rurale sta morendo. La gente sta lasciando i villaggi e sta andando

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verso le città. Principalmente nella capitale. Questa è la situazione, per chi non ha già deciso di andare all’estero. Non si tratta di un processo nuovo. Esso è iniziato una cinquantina di anni fa. Ma col tempo le sue conseguenze sono sempre più visibili. Ed oggi il numero dei villaggi abbandonati è piuttosto allarmante.

Oggi in Macedonia ci sono 458 villaggi che hanno meno di 50 abitanti, è il dato che emerge dall’ultima indagine dell’Ufficio statale per le statistiche. C’è un alto rischio che rimangano completamente disabitati. Questo numero comprende almeno un terzo di tutte le comunità del paese. Facendo un confronto, nel 1953 in Macedonia c’erano solo 20 villaggi che avevano meno di 50 abitanti. Secondo il rapporto dell’UNDP del 2001, solo alcuni anni fa questo numero era di 360. Ciò significa che nell’arco di pochi anni il numero è cresciuto di oltre 100 villaggi.

L’Ufficio statale per le statistiche riporta inoltre un totale di 147 villaggi che attualmente sono completamente vuoti. Il loro numero nel 2001, secondo il rapporto dell’UNDP, era di 121.

Inoltre, in questo gruppo di 458 villaggi, ce ne sono oltre 100 che hanno meno di 10 abitanti. Il numero può forse essere valido per i calcoli statistici, ma è chiaro che anche questi villaggi praticamente sono già vuoti.

Gli anziani sopra i 64 anni di età rappresentano la porzione più alta della popolazione che abita in questi villaggi.

I villaggi nelle zone collinari e montagnose e nelle aree più remote sono tra quelli che più subiscono lo spopolamento. I villaggi nella parte centrale della Macedonia, attorno alla città di Veles sono fortemente affetti da questo trend negativo. La municipalità di Stip nella parte orientale del paese detiene il record di 22 villaggi con un numero di residenti ad una cifra sola o poco meno di due.

C’è una semplice parola che accomuna i vari motivi di abbandono: povertà rurale. Le scarse entrate dall’agricoltura, ma in misura più importante la scarsità dei servizi di base come quello sanitario, l’educazione, servizi sociali e la protezione dei bambini sono le sfaccettature della povertà nella provincia rurale. Ad esempio ci sono ancora villaggi che non hanno l’accesso all’elettricità. Per non parlare delle strade o delle fognature.

La popolazione rurale si scontra con un deficit di educazione e di alfabetizzazione che in aggiunta ha una forte connotazione di genere: il 75% degli analfabeti sono donne; il 58% degli adulti con un incompleto livello di educazione elementare vive nelle aree rurali.

L’occupazione nell’agricoltura è cresciuta nella decade scorsa, processo comune nei paesi in transizione e che ha assorbito i lavoratori esclusi dal fallimentare processo di privatizzazione, ciononostante le entrate dei contadini sono rimaste basse.

I problemi della società rurale d’oggi non si basano soltanto sulla transizione economica ma sono anche il risultato del basso livello di sviluppo economico e sociale degli anni scorsi.

Secondo gli esperti, è stato il processo di industrializzazione forzata negli anni ’50 che ha lasciato delle conseguenze negative sui villaggi macedoni, quando i contadini venivano forzati a lasciare la terra e ad andare nelle città per diventare proletari. Ma da allora molto di ciò è stato aggravato dal naturale processo di migrazione, e dall’incapacità della autorità di creare e implementare una possibile conservazione delle campagne e una strategia di sviluppo.

La Macedonia ha un Bureau per le aree sottosviluppate che è essenzialmente lo strumento che il paese ha per affrontare lo sviluppo rurale, tuttavia il governo lo sta “vendendo” alla UE come uno strumento per lo sviluppo regionale. Il Bureau è l’erede del meccanismo per lo sviluppo rurale che esisteva nella ex Jugoslavia, sia a livello federale che a quello delle singole repubbliche, ed esso essenzialmente implementa una strategia che è gli obiettivi di assistenza delle aree rurali della Macedonia. Il Bureau può creare delle sovvenzioni per le infrastrutture economiche (strade, acqua e sistemi di approvvigionamento, fognature, ecc.) così come sovvenzioni per quelle non economiche (scuole, librerie, centri culturali, ecc.) contribuire agli investimenti in progetti commerciali, ottenere bonus per la creazione di posti di lavoro, dare dei fondi per la ricerca, provvedere o organizzare training, coprire i benefit sociali o sanitari, e persino fornire l’aiuto di scuolabus per i bambini. È facile dire che il Bureau agisce su obiettivi operazionali che sono già stati sviluppati nel corso degli anni. Il problema è che non ha i fondi per poter apportare un contributo sostanziale. Nonostante la legislazione determini che il budget del Bureau sia dell’1% del PIL, in realtà, i fondi che l’organo riceve sono tra il 10 e il 30% di questa somma, e alcune volte anche meno. Secondo il professor Nikola Panov dell’Istituto geografico di Skopje, c’è una netta correlazione tra lo spopolamento dei villaggi macedoni e la crescita negativa della popolazione che si è avuta nella scorsa decade. “Ci muoviamo nella direzione completamente sbagliata e non abbiamo la vaga idea su come aiutare i villaggi macedoni”, afferma il professor Panov, “la terra sta per essere abbandonata e allo stesso tempo noi continuiamo a

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dire che l’agricoltura è la spina dorsale della nostra economia”. Il professor Panov avanza una strategia per far rivivere la campagna macedone. Egli sostiene che alcuni villaggi necessitino di tornare indietro a lavorare la terra ma la chiave per gli altri dovrebbe essere quella di ravvivare l’artigianato o forme di turismo alternativo. Egli argomenta inoltre che molti della diaspora macedone considererebbero l’idea di ritornare e trascorrere i giorni della loro pensione nella terra natale, solo se i villaggi potrebbero offrire buone condizioni per il ritorno. “Ci sono circa un milione di persone nel mondo che hanno origine macedone. Sono convinto che molti di loro, specialmente i pensionati ritornerebbero per trascorrere il resto della loro vita nella bellezza della campagna macedone, se verranno create le condizioni adatte”, afferma il professore Panov. Egli offre un confronto con l’esperienza della Slovenia la cui campagna è una destinazione scelta da molti pensionati dei paesi dell’UE, potendo contare su un buon ambiente e bassi costi. Questa potrebbe essere una strategia da esplorare in un medio lungo termine. Ma prima di questo, e ciò è chiaro come il sole, senza andare troppo nei dettagli, la Macedonia necessita immediatamente di fare qualcosa per la sua campagna. Ha già i meccanismi e la politica per poterlo fare. Necessita di assicurarsi i fondi.

di Risto Karajkov Osservatorio Balcani, 19 aprile 2006

Albania: dannata terza età

L’assistenza agli anziani in Albania è un punto dolente. Il modo migliore per assisterli sembra sia il ricovero, ma questo spesso non fa che peggiorare la loro condizione, limitandone l’autonomia. Nostra traduzione In Albania sembra che il ricovero sia il miglior modo per assistere gli anziani, nella maggior parte dei casi però ciò non comporta miglioramenti bensì conseguenze negative per la loro salute e persino problemi gravi e diagnosi psichiatriche. Il degrado verso queste fasi fatali non è che la conseguenza della totale mancanza di assistenza medica nei loro confronti, che costituisce ormai una situazione allarmante riscontrabile nella maggior parte

degli ospedali e delle case di riposo. I problemi assistenziali, senza tener conto della prevenzione, causano in primis un aumento del rischio di malattie, affezione da malattie croniche e spesso anche invalidità funzionale in fase avanzata. Tutti coloro che accusano la mancanza di un’adeguata assistenza presso gli ospedali o in altri centri adibiti a tale funzione, vengono definiti dai medici come categoria “anziani a rischio”. Rientra in questa categoria ben il 15 % della popolazione over 65. Sono esposti allo stesso rischio una percentuale che oscilla tra il 25 e il 50 % degli anziani che hanno superato l’età di 85 anni. Mentre nelle case di riposo il fenomeno interessa tragicamente il 70-90 % degli anziani che vi vivono. Ed è proprio tra le mura delle case di riposo che ha luogo l’incubo senile. Secondo alcune osservazioni si è giunti alla conclusione che l’86% degli anziani è affetto da patologie psichiatriche tra cui la più diffusa risulta la demenza. I fattori che hanno fatto sì che la situazione deteriorasse fino alla condizione attuale, non sempre riguardano l’aspetto oggettivo dell’avanzamento delle malattie, sono piuttosto conseguenze favorite dalla noncuranza con cui si affronta l’assistenza medica dell’anziano, annoverando tra l’altro imprecisione della diagnosi, e spesso la sovrastima della gravità, per poi sfociare nella prescrizione inadeguata di farmaci che invece di migliorare la condizione dell’interessato ne comportano effetti collaterali, e complicazioni del tutto evitabili. “Fino ad oggi, i luoghi tradizionali dell’esecuzione delle cure mediche sono stati principalmente lo studio del medico specializzato e l’ospedale nei casi più acuti. L’aumento del bisogno di assistenza dovuto al rapido aumento della popolazione ha comportato un’evoluzione delle modalità tradizionali. Ad esempio fino a poco tempo fa, il ricorso a terapie da applicare negli ospedali era considerato un caso da evitare a causa dell’ovvio rischio di peggioramento dei pazienti, particolarmente se si trattava della cosiddetta terza età. Da qualche tempo l’atteggiamento nei confronti degli ospedali è cambiato, facendo sì che il ricorso ad essi sia preferibile grazie anche ad un’assistenza sufficiente che vi si offre, però sarebbe necessario l’aumento di questi centri altrimenti l’assistenza offerta perde di efficacia nell’insieme dei casi” afferma il medico Kiri Zallari. Però col ricovero, che risulta essere così preferito dai medici di oggi, si corre soprattutto il rischio della perdita dell’autonomia dell’anziano. Gli stessi anziani, che affetti da malattie diverse, hanno dovuto recarvisi frequentemente, affermano che negli ospedali si sentono isolati, spersonalizzati poiché perdono la loro autonomia, dovendo affrontare una situazione difficile che ha delle conseguenze negative sul loro miglioramento e anche sulla ripresa della vita fuori dalle mura dei centri di ricovero. A tutto questo vanno aggiunti gli effetti collaterali dei farmaci prescritti quali le reazioni, le trasfusioni, le conseguenze dovute alla complicazione e

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le diagnosi errate, e da non dimenticare ovviamente le infezioni ospedaliere. Inoltre, un’alta percentuale degli effetti collaterali è dovuta al motivo più che evitabile delle cure incompatibili con le diagnosi degli anziani. Si tratta del 40,5 % dei casi di anziani ricoverati presso gli ospedali statali, tra cui l’8,8 % hanno meno di 70 anni. E così che si spiega il verificarsi indiscriminato di anoressie e turbamenti vari. Gli esperti in questo campo insistono da tempo sull’istituzione di centri specializzati che diano assistenza ai pazienti della terza età, in tempi ragionevoli, rendendo possibile anche il controllo tempestivo dell’andamento, cosa che oggi pare sia piuttosto trascurata visto che i medici dedicano meno attenzione ai pazienti della terza età, e spesso mancano addirittura anche i rapporti diagnostici. Secondo uno studio sulla condizione degli anziani, i fattori che influiscono sulla depressione in aumento degli anziani albanesi sono, il ricovero in strutture inadeguate, diagnosi incompleta, mancanza di coordinazione dei servizi da parte degli enti locali, somministrazione imprecisa di farmaci, insufficienza di utilizzo dei metodi tecnici della riabilitazione fisica. L’80% degli anziani si dichiarano di buona salute, il 20% sono affetti da malattie varie e si recano spesso nelle strutture ospedaliere statali, il 12% avverte la mancanza dell’assistenza medica adeguata tra cui il 20-50% sono i pazienti che hanno superato gli 85 anni, e il 70-90% sono coloro che vivono nelle case di riposo. L’86% degli anziani che vivono nelle case di riposo risultano affetti da depressione cronica.

di Sonila Isaku Osservatorio Balcani, 19 aprile 2006

Iniziative – Appuntamenti:

Approccio alle culture emergenti:

Est Europa – Cina – India.

Il progetto che Cerform propone con questa azione formativa di carattere seminariale si inserisce all’interno dell’obiettivo di arricchire lo spettro di opportunità di educazione degli adulti con una “progettualità centrata sulla pluralità dei linguaggi espressivi e comunicativi degli adulti italiani e stranieri”. Ogni seminario ha una durata di 6 ore

1° seminario: Approccio

alla cultura cinese

Obiettivi: Obiettivo di questo seminario è di introdurre agli aspetti più caratterizzanti della cultura cinese con particolare riferimento ad abitudini, aspetti della vita quotidiana, della vita sociale e comportamentale. inoltre affronta la tematica del rapporto con il nuovo mercato emergente per illustrarne le opportunità. Contenuti: Lo stile di presentazione personale,il

riconoscimento di un'identità culturale; La tavola, le abitudini e la filosofia del cibo; Come organizzare un pranzo per ospiti cinesi: buone norme e innovazioni ; La famiglia come modello di aggregazione sociale: la sua centralità fra vecchio e nuovo mondo; Somiglianze e differenze tra i nostri mondi: la cultura è come un iceberg; Il mercato cinese: caratteristiche e organizzazione; Integrazione con il mercato cinese: minaccia o opportunità?

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date : 08/05/2006 dalle 19.00 alle 22.00 15/05/2006 dalle 19.00 alle 22.00

2° seminario: Approccio alla cultura indiana

Obiettivi: Lo scopo di questo seminario è fornire informazioni che permettano a chi opera e commercia con questo paese di conoscere e comprendere a livello generale le caratteristiche del mercato locale avendo consapevolezza alla realtà sociale, politica, culturale ed economica dell’India. Contenuti: Introduzione storico – geografica al mondo indiano Cenni sulla religione; Cultura e abitudini: come comportarsi nelle varie situazioni del quotidiano Situazione socio-politica; Le principali caratteristiche del mercato indiano; Cenni ai principali aspetti normativi, legali e contrattuali del mercato indiano date : 29/05/2006 dalle 19.00 alle 22.00 05/06/2006 dalle 19.00 alle 22.00

3° seminario: Approccio alla culturadell’Europa dell’Est

Obiettivi: Lo scopo di questo seminario è fornire informazioni che permettano di conoscere e comprendere i mercati dell’Est con particolare riferimento al contesto economico che si è sviluppato negli ultimi anni. Contenuti: Il sistema economico di riferimento; L’evoluzione dei paesi dell’Est nell’ultimo decennio; Il mercato dei paesi dell’Est: caratteristiche e potenzialità; La nuova classe imprenditrice dei paesi dell’Est; Le joint – venture: caratteristiche, vantaggi e opportunità Delocalizzazione e/o partnership con la realtà imprenditoriale del territorio? date : 12/06 dalle 19.00 alle 22.00 19/06 dalle 19.00 alle 22.00 CONDIZIONI DI PARTECIPAZIONE:

I seminari sono aperti a tutti coloro che hanno compiuto la maggiore età . L’attività verrà realizzata al raggiungimento di 15 partecipanti minimo. Non è prevista quota di partecipazione. Sede dell’attività: CERFORM Via Matteotti, 82 Sassuolo MO tel 0536/999811; fax 0536 804001 [email protected] E’ essenziale iscriversi compilando la scheda che trovate di seguito ed inviandola a Cerform.

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CINEFORUM INTERCULTURALE

Il CESTAS promuove il cineforum interculturale

"Percorsi Paralleli" all'interno del "IV MASTER IN POLITICHE SOCIALI E DIREZIONE STRATEGICA

PER LO SVILUPPO DEL TERRITORIO".

Ingresso gratuito

Di seguito trovate la locandina

chiusa in redazione il 03/05/06