povertÀ e caritÀ dalla roma tardo-antica al '700 … · ancora non siamo di fronte alle ......

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/P. Brown O. Capitani F. Cardini M. Rosa POVERTÀ E CARITÀ DALLA ROMA TARDO-ANTICA AL '700 ITALIANO Quattro lezioni /Al -; ( ' b C1 !;1 o t> h--t i c FRANCISCI EDITORE

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/P. Brown O. Capitani F. Cardini M. Rosa

POVERTÀ E CARITÀ DALLA ROMA TARDO-ANTICA

AL '700 ITALIANO Quattro lezioni

/Al -; ( ' b C1 !;1 o t> h--t i c

FRANCISCI EDITORE

DALLA PLEBS ROMANA ALLA PLEBS DEI: ASPETTI DELLA CRISTIANIZZAZIONE DI ROMA

di Peter Brown

Scriveva San Gerolamo nel403: «Il campidoglio dorato sta diventando sudicio per l'incuria. La fuliggine e le ragna­tele hanno coperto tutti i templi di Roma. La città si sta in­dirizzando altrove - movetur Urbs sedibus suis- ed il po­polo romano, riversandosi tra i templi semidiroccati, accor­re alle tombe dei martiri». (Lettera 107, 1).

È una descrizione drammatica, scritta dalla Terra Santa, cioè (come spesso per i vivaci quadri di vita romana di Gero­lamo) scritta ad una bella distanza dalla realtà. Tuttavia es­sa offre un'efficace immagine di cambiamento, che è essen­ziale per la comprensione della natura della diffusione del Cristianesimo a Roma: movetur Urbs sedi bus suis -la città si sta indirizzando altrove.

Il processo che chiamiamo «cristianizzazione di Roma» non può essere ridotto alla somma totale delle conversioni individuali dal Paganesimo al Cristianesimo nel corso del quarto e quinto secolo. Poiché dietro a queste conversioni soggiace un processo meno facile da cogliere per lo storico - una trasformazione dello stesso paesaggio urbano. Gero­lamo era abbastanza romano da rendersene conto, e da aspettarsi che i suoi corrispondenti romani fossero d'accor­do con lui - che era questo il nocciolo della questione. «Ri­versandosi ... verso le tombe dei martiri», il popolo romano - questo egli sosteneva - aveva già «votato con i suoi pie-

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dh> per il Cristianesimo. Nel corso del quarto e del quinto secolo, differenti luoghi della città assursero a posizioni di preminenza, accanto e, alla fine, alle spese di più tradiziona­li centri pagani. Questo cambiamento è, soprattutto, uno spostamento simbolico. Ancora non siamo di fronte alle grandi dislocazioni della popolazione da una parte all'altra di Roma (come avverrà nel Medio Evo e nel Rinascimento). Piuttosto, alcuni foci in cui una certa definizione della co­munità urbana romana (la Urbs formata dal Senato e dal popu/us Romanus) si era un tempo estrinsecata nelle cele­brazioni rituali e nelle distribuzioni di doni, vennero ad esse­re rimpiazzati, nel corso del quarto e quinto secolo, da altri foci in cui poteva esprimersi in modo significativo una diver­sa concezione della natura della comunità urbana, mediante differenti forme di cerimonia e, specialmente, mediante for­me molto diverse di distribuzioni di doni. Di qui il titolo del­la mia conferenza: dalla plebs Romana (o popufus Roma­nus) alla plebs Dei. Di qui anche la mia accentuazione, in pieno accordo con Gerolamo, sul profondo cambiamento nell'autodefinizione della comunità romana implicito nella preminenza cui giunge il culto cristiano alle tombe dei mar­tiri, con le cerimonie ad esso relative. Di qui, anche, la mia proposta di non considerare le pratiche caritative associate alla devozione cristiana soltanto come un atto privato di mi­sericordia (come potrebbe fare un cristiano moderno), e neppure (come potrebbe fare un uomo politico moderno) come una misura di assistenza economica: piuttosto, do­vremmo guardare al fenomeno delle elemosine cristiane con occhi tardoromani - dovremmo vederlo cioè come un cata­lizzatore simbolico, la cui vera forza sta meno nelle somme elargite che nella definizione nuova di comunità urbana im­plicita nella definizione cristiana, tanto dei potenziali fruitori quanto dei potenziali distributori di elemosine. Infine, vor­rei indicare cosa significasse nella pratica questo cambia­mento, per quei Romani di Roma del quinto secolo che ave-

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va acquisito un nuovo simbolismo del dono allo scopo di esprimere nuovi legami di coesione nella loro città, nel tur­bolento secolo che vide la fine dell'Impero Romano d'Occi­dente.

Cominciamo da dove un Romano nel tardo Impero si aspetterebbe che cominciassimo: il peso della pura e sempli­ce dimensione fisica di Roma. Roma era stata fino a poco prima - o forse nel quarto secolo lo era ancora- il mag­gior agglomerato umano dell'emisfero occidentale:

«Vi sono in essa XXIV chiese dei beati apostoli, chie­se cattoliche; due basiliche grandi ove siede il re e si raduna innanzi a lui ogni giorno il senato. Vi sono CCCXXIV vie grandi e spaziose, II grandi capitoli', LXXX dei grandi di oro e LXIV idoli d'avorio. Vi so­no XL VI mila e seicentotre abitazioni di case (private) e mille settecento novanta sette case di primati. .. Vi sono tremilasettecentoottantacinque statue di bronzo dì re e di prefetti».

Era una città che lasciava il visitatore sbalordito -- adtoni­tus. Eppure ciò che nel quarto secolo rendeva Roma ecce­zionale non era solo la vastità delle sue dimensioni: era il fatto che essa era rimasta un gigantesco palcoscenico su cui il passato della città, inestricabilmente intrecciato con la gloria presente dell'Impero, veniva solennemente rappre­sentato. Queste cerimonie conferivano a tutti i loro parteci­panti il senso dell'unicità del loro status all'interno dell'Im­pero Romano. Un piccolo gruppo dì nobili offriva i giochi che caratterizzavano la maggior parte delle feste. Fino alla fine del quarto secolo, un gruppo più ristretto dì pagani controllava il clero ed orchestrava la vita rituale della città, che veniva a coincidere quasi completamente con i giochi. Mediante il loro ruolo in tali cerimonie, questi nobili mo-

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stravano di essere ancora l'antico Senato Romano. Le folle che assistevano ai giochi ed alle feste pubbliche sottolinea­vano la loro partecipazione con solenni acclamazioni. Così facendo, essi diventavano più che semplici spettatori: essi erano la privilegiata plebs Romana.

Infatti, nel quarto secolo, la posizione della plebs Roma­na era riconoscibile ancora secondo gli antichi criteri. Cia­scun cìvis riceveva una tessera che gli dava diritto a congrue razioni di cibo - pane, vino e carne di maiale. Si calcola che nel corso del quarto secolo avessero accesso a tali razioni fi­no a duecentomila cives. Questa annona civica, dobbiamo ricordarlo, non era mai sufficiente, di per se stessa, a mante­nere la popolazione di Roma. Ma non si trattava di rifornire la città: piuttosto si trattava di render palese l'unicità della posizione di Roma. Roma alloggiava la plebs Romana. Spe­ciali forniture di cibo, pertanto, erano il segno tradizionale della speciale attenzione dell'Imperatore per la sua «plebs» nella sua città. Si trattava in vero di un segno di grande valo­re simbolico. Ogni anno, in un Mediterraneo attanagliato dalla paura della carestia, il sicuro arrivo dell'annona civica era considerato come la prova rassicurante - in un mondo ben !ungi dall'esserlo- «della prerogativa antica della sicu­rezza del popolo Romano». La percezione dell'ampiezza con cui questi ordinamenti, che risalgono al principato di Augusto, si mantennero operativi nella Roma del quarto se­colo è, forse, la scoperta più stimolante della recente storia sociale del tardo Impero Romano.

La stessa continuità con il passato si riscontra nella vita cerimoniale della città. A metà del quarto secolo, erano de­dicati a feste pubbliche centosettantacinque giorni all'anno, il doppio che nella Venezia del Rinascimento, allora rino­mata come <<la cité la plus joyeuse et triomphante du mon­de». Dunque, l'utilizzazione del tempo nella città rifletteva fedelmente la schiacciante presenza degli edifici pubblici. Ciò che un Romano del quarto secolo faceva del suo tempo

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era un conglomerato del passato e del presente della città e dell'Impero altrettanto quanto lo erano gli stupendi ammas­si di pietra che si ergevano tutt'intorno a lui per ogni dove.

Possiamo rendercene conto osservando un Calendario approntato nell'anno 354 per un certo Valentino, un agiato residente di Roma.

La Roma di Valentino era una città permeata dal senso della cerimonia a un punto per noi difficilmente immagina­bile. Niente lo dimostra così chiaramente come la seconda metà del Calendario di Valentino. Valentino era un Cristia­no. Perciò le feste antiche sono integrate, nella seconda me­tà, dall'ulteriore elenco dei giorni festivi della chiesa cristia­na. Pagano o Cristiano, un Romano di Roma si trovava preso in una serica ragnatela di avvenimenti cerimoniali che si dilatava con brevi pause dall'inizio alla fine dell'anno.

Il Cristianesimo, in effetti, presentava un profilo pubbli­co analogo a quello della vecchia vita cerimoniale della cit­tà. Sin dalla conversione di Costantino, nel312, esso fu una religione che ogni Romano poteva senza esitazione ricono­scere come tale: era una forma di culto pubblico, associato a nuove costruzioni dall'aspetto sontuoso, alle quali eminenti personaggi (il Papa, i diaconi ed il clero) si recavano in pro­cessione in solenne corteggio per parvi in scena rappre­sentazioni religiose non meno ricche di colori, suoni e movi­menti (benché in un linguaggio assai differente) di qualsiasi

altra festa tradizionale. Come il senato romano la Chiesa romana era convinta

che rappresentazioni e luoghi parlassero più efficacemente delle parole. In un tempo in cui le basiliche di Milano, Co­stantinopoli, Antiochia, Ippona e Cartagine risuonavano delle prediche di Ambrogio, Giovanni Crisostomo e Agosti­no, il vescovo di Roma non era rinomato per le sue predi­che. Ciò che si ricordava, piuttosto, erano le esibizioni ca­nore dei diaconi della chiesa romana, che riempivano le

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nuove spaziose volte del culto cristiano col loro solenne e ce­rimonioso salmodiare.

È per questo motivo che la cristianizzazione di Roma può essere meglio compresa nei termini di un cambiamento di significato, nel quarto, quinto e sesto secolo, di quella vi­ta di fasto e di cerimonia che rese Roma unica tra le città tardo antiche. Un tale approccio può aiutarci a mantenere il senso delle prospettive. Poiché il problema di Roma nel quarto secolo non era il conflitto del Cristianesimo col pa­ganesimo. Il problema di Roma era Roma stessa. Vista dall'esterno, Roma era virtualmente ingovernabile. Per gli Imperatori della fine del terzo e del quarto secolo, questa città allargatasi a macchia d'olio, con una popolazione che non accennava a diminuire, abitata da una chiusa aristocra­zia i cui palazzi rivestiti di marmo si innalzavano su quartie­ri sovraffollati in gran parte abbandonati al controllo di una teppaglia vociante e bizzarra, poneva un problema di ordine pubblico che essi preferivano non affrontare direttamente. L'ossequio ufficiale alla «libertà» di Roma era dovuto in larga misura a questa decisione prudenziale. Roma era come un gigantesco congegno nucleare, ereditato da un'era più prospera e previdente: doveva essere trattata con la massima attenzione proprio perché le autorità avevano deciso di ab­bandonarla senza poter però mai rischiare, per trascuratez­za, di farla esplodere.

Come risultato, l'aristocrazia residente a Roma era co­stretta ad occuparsi della sua città. I nobili salirono al ruolo dell'Imperatore tenendo viva loro personalmente, con un si­stema di rotazione degli obblighi di organizzazione dei gio­chi, la relazione cerimoniale altamente personalizzata che si supponeva esistesse tra l'Imperatore e la plebs Romana. Ar­mati di poco più che quella relazione, gli aristocratici di Ro­ma furono lasciati dall'Imperatore a fronteggiare la più grande città del Mediterraneo senza truppe e con la mera parvenza di una forza di polizia.

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In qual modo specifico sì possa fare, col solo ricorso a pubbliche cerimonie, «gentile violenza» agli abitanti di uria grande città preindustriale, è un tema che ha cominciato ad interessare gli storici dell'Impero Romano, di Bisanzio e dell'Italia rinascimentale. Ciò che vorrei ora sottolineare è il modo in cui, nelle centosettantacinque feste del Calendario di Valentino, la comunità urbana romana e le relazioni idea­lì fra i suoi membri venivano ripetutamente messe in risalto. Ad ogni occasione, la gerarchia della città era fastosamente ostentata - nella designazione annuale dei maestri dei gio­chi, nella composizione e negli ordini di precedenza delle pompae, le solenni processioni dai templi che inauguravano la maggior parte dei giochi, nella distribuzione dei posti nel Colosseo e nel Circo Massimo. Per tutto il giorno, e in mol­te occasioni, per più giorni consecutivi, la struttura sociale di Roma era sia resa visibile che localizzata in un unico luo­go. Il funzionamento dei vincoli che univano Roma all'Im­peratore e la nobiltà alla plebs Romana veniva resa evidente da ciò che si sperava fosse un dialogo euforico tra chi dona­va e chi riceveva.

Come risultato pratico, gratitudine, rassicurazione e la­mentele in una città ingovernabile venivano espresse e, gene­ralmente, contenute in una serie di scene di cerimonia, gra­zie al cielo limitate. La relazione intensamente personale, faccia a faccia, che il Prefetto della città (un magistrato re­clutato tra l'aristocrazia residente che restava in carica per circa un anno) doveva instaurare con la p/ebs, condensava un'intera strategia di controllo, condivisa dalle classi supe­riori della città nel loro insieme. Per il popolo di Roma il Prefetto era la Città. Era contro di lui che inveiva quand'era a corto di cibo; era sua la casa che andava a bruciare; era lui che linciava: ma era anche la sua morte che poteva lasciare la città «sconvolta dal dolore», ed era dietro la sua bara che tutta Roma si sarebbe riversata piangendo a calde lacrime.

I visitatori stranieri non tardavano a rendersene conto.

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Roma era i suoi giochi. Nel quarto secolo, uno straniero acuto come Ammiano Marcellino poteva osservare:

«ed è assai rimarchevole vedere un'innumerevole folla di plebei, lo spirito pieno di un misterioso ardore, che aspetta con ansia il risultato della corsa».

E aggiungeva acutamente:

«queste e simili cose impediscono che a Roma avven­ga alcunché di memorabile o serio». (Ammiano Mar­cellino, Res gestae XIV, 6, 26)

Vedendo come il resoconto di Ammiano prosegua, nel capi­tolo successivo, con una descrizione da far rizzare i capelli di rivolte, linciaggi, epurazioni e incendi nella città di Antio­chia, l'attenzione riposta nel mantener viva la «cerimonia­lizzazione» dell'aristocrazia e del popolo di Roma dovrebbe apparire giustificata. Data la natura esplosiva della vita tar­do romana, «felice era la città senza storia». Gli Imperatori e la nobiltà residente erano ben decisi a far sì che tale fosse il caso di Roma.

Le relazioni tra i membri pagani e quelli cristiani dell'aristocrazia romana, e l'impatto del Cristianesimo sulla vita pubblica di Roma, dovrebbero essere considerati in questo contesto. Vivendo in una città di subbuglio, il cui controllo era stato attribuito ad essi da un imperatore lonta­no, i senatori di Roma, per tutto il IV e V secolo erano in primo luogo una classe di governo e solo secondariamente pagani e cristiani.

Possiamo cogliere bene l'enorme benché in gran parte inespresso peso della situazione, la cui pressione si esercita­va ugualmente sui nobili cristiani e su quelli pagani, osser­vando brevemente le ininterrotte testimonianze di apparente distacco tra fede privata e contegno pubblico dei senatori

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cristiani, dal IV secolo fino alla fine del V. Non solo è noto che le famiglie pagane e quelle cristiane combinavano matri­moni tra di loro con apparente disinvoltura nel corso del IV secolo e ancora agli inizi del V. Esse agivano in tal modo perché si sentivano accomunate da uno stesso ethos, in gran parte determinato da una comune interpretazione del loro ruolo nella città. Per gli aristocratici cristiani, come Valenti­no, queste cerimonie, benché ereditate palpabilmente e di­rettamente da un passato pagano, e benché investite dai loro colleghi pagani di un massiccio carico di religiosità pagana, non parlavano di dei: parlavano invece di loro stessi. Esse ratificavano la speciale posizione di Roma come la città in cui le classi dirigenti dell'Impero- a prescindere dalla loro fede - potevano partecipare con imperturbato entusiasmo alla grande rappresentazione del quarto secolo della securi­tas saeculi- l'ininterrotta sicurezza del loro mondo. Invic­ta Roma, Felix Senatus ... - le parole incise sulle medaglie che circolavano a Roma in occasione dei giochi - erano ciò che la loro posizione sociale li portava a prevedere e a desi­derare che continuasse. Le differenze di fede religiosa ven­nero perciò a scomparire in un comune linguaggio di status sociale. Così, i contorniati, medaglie commemorative distri­buite dai senatori ai giochi, hanno un'iconografia tanto strettamente connessa al passato pagano da essere stati in­terpretati come «strumenti trascurati della propaganda se­natoria (pagana)». Ma questi contorniati recano i nomi di famiglie cristiane non meno che di quelle pagane. È più che probabile che Alipio, il Prefetto della città che ordinò l'im­mediata esecuzione di Almachio, il monaco cristiano che nel 391 aveva tentato di interrompere i giochi gladiatori, fosse egli stesso un cristiano ed un corrispondente di Sant' Am­brogio; certamente, un Senato nella maggioranza cristiano tenne in vista queste truci manifestazioni fino al 430 circa. E ancora nel 496 i senatori cristiani celebravano i Lupercalia. Tutto sommato, nel linguaggio pubblico del ceto patrizio a

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Roma non risuonano accenti cristiani fino a quando questo ceto s~esso viene ad estinguersi. Ciò che essi credevano in privato era un altro discorso. Un buon senatore cristiano della fine del quinto secolo, Turcio Rufio Aproniano Aste­rio, console per il 494, nel chiuso del suo studio poteva scri­vere «non confidando in me stesso, ma in Lui al Cui volere io sono soggetto in tutte le cose». Eppure, ciò che egli pro­duce è un'edizione di lusso delle Egloghe di Virgilio, da do­nare ai suoi amici in occasione dei giochi consolari in cui or­gogliosamente annuncia di aver dissipato una fortuna «co­me prezzo della fama». Insediato al Colosseo tra i suoi pari, acclamato dalla p/ebs Romana, Asterio non apparteneva né a Cristo né agli dei pagani, bensl, senza alcuna remora, a Roma.

Alla luce di tali testimonianze sulla sopravvivenza a Ro­ma di una vita cerimoniale lasciata intatta dal Cristianesi­mo, non si può affermare che Roma cessò di essere «paga­na» quando la maggior parte dei senatori, individualmente presi, divennero cristiani. Ciò di cui ci occupiamo, piutto­sto, è la tenace sopravvivenza di un particolare modo sim­bolico di esprimere l'identità di Roma, ed il continuo, quasi pressante attaccamento ad esso, come ad un bene collauda­to strumento di controllo sociale. Il simbolismo della comu­nità urbana continuò senza fratture ad attingere al passato pagano anche quando, nel quinto secolo, esso passò sotto il controllo di nobili notoriamente cristiani. Il reale cambia­mento nella vita pubblica di Roma si verifica quando questa particolare forma di espressione della comunità urbana vie­ne a scontrarsi e, in larghe aree della vita quotidiana, ad es­sere sostituita da un'alternativa. Nel 354, quando il cristia­no Valentino leggeva il suo Calendario, era difficile pensare che le celebrazioni associate alla plebs Dei cristiana potesse­ro mai assumere una valenza simbolica atta ad esprimere la natura della comunità romana nel suo insieme, e ancor me­no che potessero svolgere una qualche funzione di controllo

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sociale simile a quella assoc::ialla alme~ cerimonie della città. Dentro Roma, la popollaziomre n::spiilr.ava ancora l'aria di un mondo antico che si ll13llllife5ìU:lB.a JOdllle immagini paga­ne, così come noi abitanti drdllla Tenra respiriamo ossigeno. Non c'erano alternative.

Davvero, si può dire andlte rdiD. piùì: 11111 *'vuoto» enorme nella cristianizzazione della cittltit ...ame reso quasi inevitabile dal fatto che i dirigenti della Ouil:sa (m Oocidente, almeno fuori di Roma, molto rigomri rdiD. dìroolte alme cose del saecu­lum) non volevano offrire ai cn:dmtti medii una vita rituale atta ad esprimere preoccupaziooi per il ~in o collettivo di qualsiasi comunità fuori della Cllniesa stessa - né dell'Impe­ro, né dell' Urbs. La lunga storia dd! catt.ollicesimo «Comuni-, tarlo» medioevale non dovrebbe f.m:i dimenticare questa la­cuna straordinaria della mmtalliuà cllericale del quarto seco­lo, né la lentezza con cui ques11a 11acuuma vemne colmata. I no­stri romani lo sentivano bene. Rcuiimai quasi viscerali che si scatenarono nel corso dd quimo cd aDChe del sesto secolo in ogni momento di vera milla!l'llia alllla atta (reazioni che ab­biamo tendenza a designare ~nte «reazioni pa­gane», guardando di solito a llll1IJN:Ik:i arisìil:ocratici pagani) erano spesso, in realtà, reazicDi OOJIIIIfuse (((Collettive» nelle quali vennero coinvolti credcmltti aHttDani e forse anche mem­bri del clero. Quando 1JisognDa tJlCliD.'Ii3l"e alla comunità ur­bana nel suo insieme, cioè aDa.5l118&1s Urbis, .si pensava anco­ra, istintivamente, alla pagana. ~te, però, il sen­so stesso della comunità divcone più aistianizzato. Nel494, quando il cristiano Asterio ~nel Colosseo ali' anti­co dialogo con la plebs ROIIIIIIIIL, a questo dialogo si era af­fiancata e, in larga misura, sm1iU .. ila una forma assai diver­sa di relazioni, espressa dalla disllribuzione di elemosine alla plebs Dei, in luoghi assai diveni- Ire basiliche cristiane.

Per capire come la cbiesa abtiana locale non avesse al­cun impatto su di uno stile di da pubblica tanto indifferen­te e puntigliosamente peso:tJatto. dobbiamo prendere in

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considerazione la seconda parte del Calendario di Valenti­no. In questo «calendario», è la totale disgiunzione tra la Roma pagana e quella cristiana che balza agli occhi. I centri di celebrazioni cristiane non coincidono infatti in nessun ca­so con i tradizionali punti d'incontro dei senatori tra di loro con laplebs Romana. Per assistere alle feste dei martiri, Va­lentino avrebbe dovuto allontanarsi non poco dal Foro, dal Colosseo, dal Circo Massimo. Avrebbe dovuto attraversare il pomerium, i sacri confini della città, uscendo fuori dalle Mura Aureliane, per arrivare alle aree cimiteriali che si di­stendevano lungo le principali direttrici d'uscita dalla città. Ma lo stesso vale anche per la grande Basilica del Laterano, che Costantino aveva dato al Vescovo di Roma quale base residenziale e di culto all'interno della città. La Basilica sor­geva su di un'antica proprietà imperiale che non si sovrap­poneva affatto alle aree dove si celebravano le rappresenta­zioni dell'immagine pubblica di Roma. Tutti i luoghi eccle­siastici all'interno di Roma, nel IV secolo, continuavano a recare evidente il segno di un fastoso isolamento dalla vita del Foro e del Circo, che contraddistingueva la privilegiata «cintura verde» snodantesi lungo i bordi della città all'inter­no delle Mura Aureliane. Come le tombe dei martiri tanto generosamente patrocinate da Costantino e dalla sua fami­glia- essi si ergevano nel mezzo di cimiteri considerati l'an­titesi della città dei vivi. Il fluire ad essi del popolo di Roma, secondo la descrizione di Gerolamo, era davvero, per la cit­tà, un «cambio di indirizzo».

Eppure, la cristianizzazione di Roma è dovuta in gran parte a questo «cambio di indirizzo». Infatti, paradossal­mente, era precisamente la collocazione periferica dei san­tuari cristiani che lavorava a favore della Chiesa. Ciò che ad uno straniero avrebbe potuto apparire come un'area esterna alla città tradizionale, riservata a commemorazioni funebri strettamente private, si affermò come lo scenario in cui cele­brare una nuova, più flessibile definizione della comunità

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romana. Le folle che si raccoglievano in questi nuovi luoghi di aggregazione sperimentavano infatti, in modo fortunata­mente indolore, il brivido di oltrepassare un'invisibile fron­tiera sociale: lasciavamo un mondo dalle strutture forte­mente marcate per una condizione più «liminale». Come ci ha fatto capire Victor Turner, l'abbandono di strutture note per una situazione in cui esse sono largamente assenti, e il conseguente fiorire di sentimenti di comunanza - di com­munitas -, è parte rilevante del fascino costantemente eser­citato dall'esperienza del pellegrinaggio nelle società forte­mente stabilizzate. Era un fascino cui i Cristiani romani fu­rono eccezionalmente sensibili. Infatti in confronto con le cerimonie che si tenevano all'interno della città, dove la sca­la gerarchica veniva intenzionalmente esibita, le feste dei martiri costituivano un'occasione in cui la gerarchia veniva a smorzarsi. Al santuario di Sant'Ippolito, il poeta cristiano Prudenzio poteva presentare una Roma spoglia, per un ma­gico istante, delle vistose distinzioni sociali e topografiche:

«L'amore della loro religione riunisce in un solo cor­po Latini e stranieri... L'augusta città riversa a fiumi i suoi Romani; con eguale ardore, i patrizi e la folla plebea si confondono insieme, spalla a spalla, poiché la fede bandisce ogni distinzione per nascita».

(Prudenzio, Perìstephanon Xl, 191-202)

Prudenzio, naturalmente, era un poeta. In realtà, la co­munità cristiana romana dava ancora importanza alle sue distinzioni. Era disposta ad accogliere i membri laici dei ceti superiori come un gruppo privilegiato di donatori completa­mente pubblici. Ma la gerarchia di donatori e beneficiari consolidata all'interno della comunità cristiana venne utiliz­zata per delineare una differente immagine della città. Per mezzo di relazioni cerimoniali pienamente comprensibili a tutti i Romani del quarto secolo, beneficiari significativa-

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m~ ate diversi poterono cs:sere messi in relazione con signifi­cativamente diversi donatori_

Bisogna essere precisi: non si può parlare di una conti­nuità diretta tra JDUJJificmza tradizionale ed elemosine cri­stiane. Si tratta di una «t:OODVergenza>> in gran parte inaspet­tata di due sistemi paralldi ndlo stretto senso geometrico -formalmente nessun sistema avrebbe potuto incontrare l'al­tro. Da un lato troviamo somme sbalorditive, accumu­late in un lungo periodo (normalmente, per un decennio in­tero), e versate in momenti solenni da un solo donatore alla volta, come segno d'euere membro di un gruppo privilegia­to di padroni deDa città. DaD'altro, le elemosine cristiane consistevano in un sistema di dono quasi privo di struttura: somme piccole o medie venmmo versate, in teoria, in qual­siasi momento, da cn:dm1i di qualsiasi ceto sociale, senza distinzione di sesso o di ria:bezza, non come emblema di privilegio ma, al10001traJrio, oome segno della solidarietà di ogni membro dd gmere umano in una necessità spirituale comune. Da un lato, dunque, i beneficiari formavano una classe specifica che potu:bbe includere ricchi e umili, ma che consisteva, nella I!D3gior )llillte, di cittadini validi ed occu­pati, simbolo der -rigore •civico» della città. Dall'altro lato, i beneficiari delle elemm;ine vennero scelti perché vennero considerati i membri più deboli ed inutili della comunità -emarginati, malati, str.urieri, simbolo dello stato di abban­dono e della povertà ddJa roodizione umana. Che due siste­mi così differenti in teoria J)O!i.'Sano in qualche modo conver­gere, nel corso del quinto secolo, è sintomatico sia della for­za delle tensioni iniloke nella comunità tradizionale roma­na sia del volere dd clero romano di investire il sistema «ele­mosinario» cristiano di una panoplia architettonica e ceri­moniale di forte risonanza da.mca. Nei decenni turbolenti della metà del quinto !a:Ofo, quando papa Sisto III donò la sua splendida basilica di Santa Maria Maggiore alla Plebs Dei, era già comiTlciaJta qucsua •convergenza>> paradossale

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di munificenza alla ronuzflll ed elemosine alla cristiana che caratterizzò la Roma papale dell' Alro Medio Evo.

Nella situazione del tardo quarto secolo, la coesistenza di due tali sistemi contrapposti non poteva avvenire senza immediate ripercussioni sociali. Una recente tradizione di studi (associata in particolare alle ricadte di Evelyne Patla­gean) ha dimostrato che il maggior cambiamento nel pas­saggio dalla società classica a qudla post-classica consistette nella sostituzione di un modello di società con un altro. Un modello «civico» di società. la ali unità era la città, definita in termini di cittadini e non-cittadini. con una giusta gerar­chia tra i cittadini vista nei termini della relazione tra la po­polazione e i suoi magistrati, venne rimpiazzato da un mo­dello «economico» maggiormente onnicòmprensivo, in cui tutta la società, urbana come rurale, era considerata attra­verso la divisione tra ricchi e poveri, dove la relazione tra i ricchi e i poveri si esprimeva nel gesto strettamente religioso dell'elemosina.

In nessun luogo questo cambiamento si manifestò in mo­do più esplicito che a Roma. All'interno delle mura della cit­tà, la plebs Romaflll aveva ricevuto razioni di viveri, fre­quenti donazioni e simili prove pubbliche di sollecitudine da Parte dei grandi. Ma ciò accadeva perché essi vivevano lì, non perché erano poveri. Essi er.mo laplebs Romana. Tut­tavia, nelle condizioni della tarda antichità, questa defini­zione politica era sottoposta a continue tensioni. Poiché mai la realtà sociale di Roma aveva coinciso meno con la sua im­magine cerimoniale. La città del quarto secolo significava molto di più che non la plebs rom111111 e i suoi patroni. La popolazione di Roma si era maqtmuta ad un livello anor­malmente elevato, quasi catamaate per una massiccia im­migrazione dai piccoli centri e dai latifondi dei dintorni. Tuttavia nessuno di questi nuovi venuti veniva considerato come un membro della plebs ROIIIIIIftl. Inoltre, mentre l'an­nona imperiale rimaneva una ptaogativa di grande rilievo

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della condizione speciale della plebs Romana, essa era ben !ungi dall'essere l'unica, o anche solo la principale, fonte di vettovagliamento. Roma era rifornita da un'economia più informale di relazioni commerciali con le campagne italia­ne.

In tali circostanze, le elemosine cristiane assunsero un si­gnificato simbolico ed un peso rituale la cui attrattiva veniva sempre più aumentando per i membri della classe superiore, dato che permetteva loro di sostenere spese socialmente si­gnificative ad un costq minore. Infatti, il donare cristiano era diretto alla sola, indistinta categoria dei poveri. Esso evitava le tensioni generate in una comunità urbana in corso di trasformazione dalla definizione cerimoniale della plebs Romana. Sin dalla fine del quarto secolo, gli immigrati ave­vano raggiunto nella vita economica e sociale della città una posizione di importanza eguale a quella della plebs. Ma essi erano eguali in tutto tranne che per il cruciale punto «politi­co» dello status. Alla prima minaccia di carestia, la vecchia definizione riprendeva vigore. Quanti provenivano da fuori, anche un insigne straniero come Ammiano Marcellino, era­no espulsi dalla città, «senza neppure il tempo di respirare». I capi laici di Roma lasciavano allora posto solo per i loro tradizionali clienti, la plebs Romana, e per i modi tradizio­nali di stabilire un rapporto con loro. Ammiano ricorda amaramente come, mentre i professori di letterature veniva­no cacciati, il Senato trattenesse tremila dànzatrici con cui divertire, e controllare, la plebs Romana in quei momenti pericolosi.

Questa forma di controllo per mezzo di cerimonie pote­va apparire scarsamente elastica e anomala in una città co­stretta sempre più a badare a se stessa e a trarre alimenti e popolazione attiva da fonti che mal si adattavano alla vec­chia immagine «civica» della comunità. Di qui la risonanza, del tutto spropositata rispetto alle somme relativamente mo­deste che vi si distribuivano tra i poveri, di cui cominciò a

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godere il tempio di San Pietro sul Colle Vaticano, quale po­tente antitesi simbolica al Circo Massimo ed al Colosseo. Nel 365 il prefetto della città era Lampadio:

«Un prefetto che era un ex-pretoriano, uno che se la prendeva a male anche se non si elogiava il suo modo di sputare, poiché riteneva di farlo meglio di chiunque altro ... Costui, durante la sua pretura [ca. 335-340] diede dei magnifici giochi e distribuì molti ricchi doni; ma, esasperato dagli schiamazzi dellap/ebs, che conti­nuava a pretendere doni per chi non li meritava affat­to, per ostentare la sua generosità ed il suo disprezzo per la plebaglia, fece venire dei mendicanti dal Colle Vaticano e offrì loro regali di gran valore ... »

(Ammiano Marcellino, Res gestae XXVII, 3,5)

È il tributo derisorio della vecchia Roma al nuove senso della comunità che si viene sviluppando ai suoi margini. Quarant'anni più tardi, tuttavia, il gesto di Lampadio era divenuto più di uno scherzo. L'assedio dei Goti ed il sacco di Roma nel 409-410 misero in crisi il sistema dell'annona, mentre i riscatti portarono all'impoverimento dell'aristocra­zia residente. Ne seguì un'immediata caduta nella popola­zione. Il rifornimento cerimoniale di cibo alla plebs Roma­na venne mantenuto con grande tenacia il più a lungo possi­bile mediante prodotti italiani, come la carne di maiale ed il vino; ma il grande emblema annuale della prerogativa della sicurezza del popolo romano, rappresentato dalla flotta del grano, venne meno con la conquista vandalica dell'Africa nel 429-432. 11 mercato romano fu allora costretto ad aprir­si.

Mercanti greci vennero incoraggiati a stabilirsi a Roma. In tali condizioni, la nuova definizione cristiana della plebs Dei risultava effettivamente più realistica. Di conseguenza le cerimonie ad essa correlate acquistarono un valore di

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strumento di controllo che non possedevano durante la belle époque del quarto secolo. Esborsi che nel quarto secolo po­tevano apparire come faccende puramente private, fonda­mentalmente estranee al fine essenziale della sicurezza della città, assursero ad un ruolo centrale in una comunità urbana che era alla ricerca, e aveva bisogno, di un diverso tipo di dialogo tra le sue classi. Nel quinto secolo, il consueto epite­to cristiano amator pauperum, se usato in riferimento a pa­pi e a membri del clero romano, aveva assunto un valore in­dicativo di status pubblico che non possedeva nei giorni an­tecedenti il sacco dei Goti.

Inoltre, la chiesa romana era anche riuscita ad allargare la cerchia di donatori. Accanto ai poveri, le donne avevano costituito una zona vuota nella mappa tradizionale di Ro­ma. Poiché se si considerava la distribuzione di doni come un atto pertinente alla sfera politica, e non un gesto di pietà, allora, dato che la politica era evidentemente riservata ai so­li uomini, le donne si trovavano escluse dal dialogo rituale con la p/ebs romana. AI contrario, la chiesa romana aveva sempre incoraggiato le donne a sostenere di pieno diritto un ruolo pubblico nei confronti dellap/ebs Dei. Esse distribui­vano elemosine di persona sotto gli occhi di tutti. Dovevano partecipare visibilmente alle celebrazioni nei templi. Faceva­no edificare chiese a loro nome, sostenendone le spese con le loro personali ricchezze - perlopiù, costituite da vesti e gioielli. Già nel terzo secolo, il filosofo pagano Porfirio ave­va parlato delle donne della chiesa romana come di membri di un «Senato». Nel momento in cui Gerolamo aveva ricor­dato ai suoi lettori quella osservazione, le donne di ceto ele­vato erano divenute le sostenitrici principali della chiesa.

Infatti, il vescovo cristiano era il solo uomo politico nel tardo mondo romano di cui si sapesse pubblicamente che in­cludeva le donne come un settore influente della sua cliente­la. Non c'è da stupirsi se il piccolo Ambrogio, durante l'in­fanzia nel palazzo avito in Trastevere, osservando l'andiri-

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vieni del clero romano, giocava a fare il vescovo offrendo l'anello da baciare alla madre ed alle domestiche. Furono le mogli dei Senatori a sostenere papa Liberio alla corte di Co­stanzio II. Il papa Damaso si guadagnò il soprannome di «titillatore delle signore romane». Gerolamo, riproponendo l'antica immagine romana della donna strapotente, parlò di nobili vedove e vergini che si sottraevano al «dominio di un marito» per potersene stare a letto, dopo lunghi, caldi pran­zi, «sognando gli Apostoli». Come al solito, la malignità di Gerolamo coglie con grande acume l'esatta atmosfera della Roma del quarto secolo. Le nobildonne erano riconosciute come clienti a pieno titolo di San Pietro. La loro fedeltà ai vescovi trovava espressione nell'iconografia delle loro tom­be, e in concreti gesti pubblici di omaggio, come la ve/atio, la concessione del velo alle vergini quale premio per il lungo servizio prestato al fianco dei loro patroni ecclesiastici.

Tutto ciò avrebbe comunque avuto un minor rilievo se la posizione delle donne di ceto elevato nella società romana della fine del quarto secolo non fosse stata sottoposta a par­ticolari tensioni. Il nucleo del ceto senatorio residente in Ro­ma tendeva a gravitare attorno alle ricchezze accumulate all'interno di un gruppo sempre più esiguo di ereditiere. Un matrimonio vantaggioso poteva «rinnovare» la gloria di un nobile casato. La ricchezza anche delle figlie e delle vedove sarebbe stata impegnata all'effettuazione dei giochi che i lo­ro defunti padri o mariti avevano promesso per i loro figli. Le donne, pertanto, erano chiamate frequentemente a sal­dare il distacco tra le famiglie senatorie e lap/ebs Romana. Tuttavia, benché mantenessero un residuo di condizione ci­vile gelosamente preservato, e benché nell'aspettativa gene­rale le loro eredità dovessero andare ad «esaurirsi in una di­scendenza di consoli», alle donne di famiglia senatoria non era riconosciuta alcuna funzione pubblica. Una legge del 370 sosteneva che le figlie erano tenute a contribuire alle spese dei giochi promessi dal loro padre scomparso, ma la stessa

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legge sottolineava che sarebbe stato «del tutto fuori luogo e disdicevole» se, in tali occasioni, esse avessero indossato la veste cerimoniale di un pretore. Apparire sulle gradinate del Colosseo o in un palco del Circo Massimo, attorniati da tut­ta la discendenza maschile di una famiglia, per ricevere la acclamazioni della p/ebs Romana, era un momento solenne riservato ai soli uomini. Eppure era ancora necessario ricor­dare esplicitamente alle donne delle famiglie senatorie qual era il loro posto. Nulla di ciò accadeva nelle celebrazioni della plebs Dei: sul colle Vaticano, una nobildonna poteva sfilare pubblicamente con tutto il suo seguito, distribuendo personalmente il denaro.

La differenziazione tra i benefattori pubblici non fu un elemento di scarso peso nel suggellare l'alleanza tra la chiesa romana ed il Senato un tempo pagano. Nel quinto secolo, l'era delle grandiose elargizioni pubbliche era finita. Il costo dei giochi organizzati da Simmaco in occasione della pretu­ra del figlio veniva ricordato, solo una generazione più tar­di, come tipico del periodo «antecedente al sacco gotico». Tuttavia, nel corso di questo difficile periodo di adegua­mento a condizioni più ristrette, donne che si sapevano ap­partenere a famiglie senatorie in Roma, e che frequentemen­te ne lasciavano testimonianza sulle iscrizioni associando i loro nomi, se sposate, a quelli dei mariti, continuarono, co­me costruttrici di chiese e contributrici al restauro di chiese, a lasciare un segno indelebile sulla città. Per esempio: in un periodo in cui gli uomini della nobile famiglia degli Anicii erano così presi dal tentativo di salvare il dissestato patrimo­nio e il prestigio della famiglia da non lasciare che un'im­pronta di routine - come magistrati - sulla vita pubblica del­la città, la loro sorella, Demetriade, come vergine consacra­ta alla chiesa, aveva saputo brillare di fronte ad una schiera di ammiratori cristiani provenienti da tutti i paesi mediterra­nei. Nella sua qualità di patrona del culto di Santo Stefano a Roma, attivamente incoraggiato da papa Leone, costruì una

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chiesa maestosa sulla cui iscrizione dedicatoria campeggiava orgogliosamente il nome della famiglia: Demetrias Amnia Virgo - Demetriade, vergine della stirpe Anicia.

In questo linguaggio differente e più imparzialmente di­stribuito, io scambio di segni visibili con cui si era intessuto il dialogo tra i nobili e la plebs Romana si trasferì nei sagra ti delle basiliche della chiesa cristiana.

In conclusione, pertanto, la cristianizzazione di Roma andrebbe vista attraverso occhi romani. Ci occupiamo qui di un processo che non ha nulla a che vedere con il moderno concetto di evangelizzazione. La scansione del cambiamen­to fu determinata dall'incerto e in gran parte imprevisto tra­sferimento alla Chiesa cristiana, in tempi particolarmente difficili, di quei meccanismi di elargizione aristocratica che un tempo avevano tenuto insieme una esplosiva megalopoli della tarda età classica. Il controllo dell'aristocrazia residen­te continua a costituire lo scopo fondamentale. I cambia­menti che tendiamo ad associare con la definitiva «cristia­nizzazione» di Roma si verificano solo nel momento in cui il problema del controllo diviene meno assillante, e può così ammettere soluzioni più flessibili. Dopo il 410, il terrore rappresentato dalla mera massa della popolazione si è dis­solto, ed una città dove sono più improbabili esplosioni di rivolta può, alla fine, permettersi il lusso di pensare a se stessa come ad un indistinto 'popolo di Dio'.

Ma non è tutto. Dietro allo spostamento dall'immagine tradizionale, 'politica', di Roma a quella della Roma della plebs Dei, si può cogliere un adeguamento alle mutate circo­stanze del mondo esterno alla città. Viene infatti a cadere in oblio il terzo interlocutore di quel dialogo che ha determina­to la tradizionale identità di Roma: la Roma della plebs Dei è, in effetti, una Roma senza Imperatore. Nell'immagine tradizionale della città, l'Imperatore era collocato al vertice della gerarchia piramidale dei donatori e dei beneficiari. Per tutto il quarto secolo, la sua immane presenza aveva sovra-

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stato la città, che raramente egli aveva visitato di persona. Formalmente, la stragrande maggioranza dei /udi offerti al­la plebs Romana dall'aristocrazia locale era offerta in nome dell'Imperatore, cioè nella sua qualità di rappresentante uf­ficiale dell'Imperatore. In pratica, l'enorme sforzo di mobi­litazione dell'annona civica, ì fondi per i ludi, specialmente la fornitura di animali esotici (e di esseri umani esotici, nella forma dì barbari prigionieri di guerra) dal cui massacro nel Colosseo dipendeva in larga misura la popolarità della no­biltà, erano resi possibili dall'energia dell'amministrazione imperiale. Come si vede nell'abbondante corrispondenza di Simmaco, relativa ai giochi del figlio nel402, non c'era ari­stocratico locale che potesse risultar gradito alla p/ebs Roma­na, e controllarla, senza il frequente ricorso all'Imperatore, ai suoi cortigiani, ai suoi amministratori sparsi in tutto l'Im­pero. Dai tempi di Costantino fino alle ultime, puntigliose lettere riguardo al circo e le sue fazioni scritte da Cassiodoro a nome dell'Ostrogoto Teodorico, l'immagine «civica» del­la città presupponeva l'esistenza di un Impero o, almeno, nel caso di Teodorico, di un regime predisposto a funziona­re come se si trattasse dell'Impero. La Roma della plebs

~. Dei, al contrario, aveva abbandonato il vertice della pirami­J de verso cui il modello politico della comunità romana con­

vergeva: diventando una città cristiana, Roma divenne una città molto simile a quelle delle altre province dell'Occidente subromano- restò 'romana' in quanto riconoscibilmente se­natoria, ma non fu più imperiale. Come dice un proverbio inglese: HLa carità comincia da casa propria». Nell'Occi­dente latino del quinto e sesto secolo, lo spettacolare svilup­po della pratica cristiana delle elemosine è intimamente con­nesso alla necessità delle aristocrazie locali di provvedere ai propri dipendenti in un mondo che non ha più un Impero.

Siamo venuti, così facendo, alla fine della traiettoria del­la città antica. Nell'anno 533, Cassiodoro gettò uno sguardo

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indietro su una Roma «civica», una Roma di spettacoli e di distribuzioni annonarie, allora scomparsa:

Apparet quantus in Romana civitate fuerit popu/us, ut eum etiam de longinquis regionibus copia provisa sa tiare t ... Testantur enim turbas civium amplissima spatia murorum, spectacu/orum distensus amplexus ... (Cassiodoro, Variae Xl, 39).

Le leggende che circolavano, sul finire del quinto secolo, attorno alle tombe dei martiri all'esterno della città, e gli an­tichi ti tu/i al suo interno, ci permettono di guardare ad una città molto diversa, da un punto di osservazione molto di­verso, rispetto a quello con cui abbiamo cominciato nel Ca­lendario di Valentino del 354 e finito con il passo nostalgico di Cassiodoro. Mentre le tradizioni riassunte nel Calendario erano ancora mantenute in vita, in una forma sostanzial­mente ridotta, da un cristiano come Asterio, nei suoi giochi consolari al Colosseo, ai lettori cristiani delle immaginarie Passiones dei martiri romani veniva presentata un'alternati­va della città che, alla fine, era riuscita a prevalere. Gli enor­mi/aci cerimoniali del Colosseo e del Circo Massimo non vi si trovano più. Invece, abbiamo una città fiancheggiata da grandi templi e ricoperta, all'interno delle mura, da un reti­colo di chiese, ciascuna delle quali ha una sua storia di edifi­cazione, cerimonie ed elemosine. Molte di queste chiese van­tano una leggenda sulla loro fondazione che esprime ciò che i Cristiani della fine del quinto secolo erano giunti a considerare come attività paradigmatiche dei nobili e della plebs in una città cristiana. l centri delle storie sono costitui­ti da singole domus aristocratiche, sparse sopra i sette colli. Ciascuna domina il proprio sestiere, un mondo privato di opulenti appartamenti segreti dove, come vorrebbero farci credere i nostri pittoreschi autori, eroiche vergini che eccle­siastici e saggi e deferenti eunuchi avevano irrevocabilmente

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confermato nella loro risoluzione di respingere l'audacia de­gli uomini -l'audacia virilis pi pagani promessi sposi - pro­fondono la loro grande ricchezza in elemosine all'anonima povertà. È in questo mondo tranquillo, più 'privatizzato', di una città che si è come ripiegata su se stessa, finalmente rìcondotta all'ordine dalla sua nobiltà locale, che possiamo giustamente valutare il lento ma sicuro lavorio, sotto forme cristiane, di quelle forze che portarono, secondo l'espressio­ne del mio maestro Arnaldo Momigliano, a quello strano fe­nomeno -un Impero caduto senza rumore.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Sono onorato di esser stato invitato a partecipare al ciclo di lezioni su povertà, assistenza, e carità organizzato dall'Istituto di Studi storici dell'Università degli studi di Venezia diretto dal prof. G.Ortalli. Vorrei rin­graziare anche il prof. R.Mueller per il suo incoraggiamento e l'aiuto forni­tomi nell'approntare la presentazione orale in italiano di questo saggio. So­no stato confortato in ciò dall'elegante e fedele traduzione dell'originale eseguita dal dott. Renzo Derosas. È questo il testo che ora si pubblica, con alcuni ampliamenti che tengono conto dei numerosi e stimolanti suggeri­menti di amici e colleghi a Venezia e altrove.

Ho aggiunto qui di seguito una guida bibliografica delle principali fonti primarie e secondarie relative agli argomenti discussi in questo saggio.

l: Cristianesimo e «paesaggio urbano» a Roma:

C. Pietri, Roma Christiana (Bibliothèque de l'École française d' Athènes et Rome), 2 voli., Parigi 1976.

R. Krautheimer, Rome: Profile oj a City, 312- 1308 A.D., Princeton 1980 - piccolo libro di un maestro.

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2: Roma vista da fuori:

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1940, vol. l, p. 331-332- per la citazione, dalla Storia Ecclesiastica di Zac­caria di Mitilene (VI sec. d. Chr.); cfr. Ammiano Marcellino, Res Gestae, XVI, 10, 13-17.

3: Società aristocratica a Roma:

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Quinto Aurelio Simmaco, Lettere e Relationes (corrispondenza ufficiale

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4: Acclamazioni della plebs: Simmaco, Re/atio 24, 3; Epp. I, 46 e VI, 66.

5: Fenomeno <<evergetico>> nel mondo classico:

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12: Prefetto e plebs: Gride al circo: Zosimo, Storia VI, 11. Misure di sollievo annunciate durante i giochi: Simmaco, Ep, IV, 12. Incendi: Ammiano Marcellino, XXVII, 3, 4 e 8; Simmaco, Epp, l, 44 e Il, 38; Ambrogio, Lettera 40, 15 - tali incendi rimasero sempre impuniti. Linciaggio: Vita Melaniae iunioris, 19, e·ct;.D,,Gorce (Sources chrétiennes 90), Parigi 1962. Lutto pubblico per il prefetto: Girolamo, Lettera 23, 3; Simmaco, Relatio IO. 13: Cristianizzazione e matrimoni misti tra cristiani e pagani: Peter Brown, Aspetti della cristianizzazione dell'aristocrazia romana in Religione e società nell'età di Sant'Agostino, Torino 1972, pp. 151-171. 14: Paganesimo e vita pubblica a Roma: A.Aifoldi, Die Kontorniaten, Lipsia 1943. G. Ville, Les jeux de gladiateurs dans l'Empire chrétien, «Mélanges d'ar­chéologie et d'histoire», 72 (196!), pp. 273-335. A.Chastagnol, Le Sénat romain sous le règne d'Odoacre (Antiquitas 3: 3), Bonn 1966. 15: Culto dei santi e periferia urbana: R.Krautheimir, Mensa, coemeterium, martyrium, «Cahiers archéologiques, 11 (1960), pp. 15-40, and in Studies in Early Christian, Medieval and Re­naissance Art, New York 1969, pp. 35-37- studio importantissimo sul san­tuario di San Lorenzo nell'Agro Verano. Peter Brown, The Cui t of the Saints: its Rise and Function in La t in Chri­stianity, Chicago- Londra 1980 (di prossima pubblicazione in traduzione italiana presso Einaudi).

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Victor Turner, Pi/grimages asSocio/ Processes in Dramas, Fie/ds and Me­taphors, lthaca 1978, pp. 166-230. 17: Elemosine e munificenza cristiana a Roma: Pietri, Roma Christiana ... l, pp. 579-589; Concordia apostolorum et re­novatio urbis, <<Mélanges d'archéologie et d'histoire», 73 (1961), pp. 275-322.

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Vedi Ammiano Marcellino, XIV, 6, 19 ed Ambrogio, de officiis III, 45-53. 20: Clero romano e poveri nel V e VI secolo: Marrou, L 'origine orientale des diaconies romaines, «Mélanges d'archéo­logie et d'histoire», 78 (1966), pp. 123-139. 21: Le donne nella società romana: Santo Mazzarino, La fine del mondo antico, Milano 1959, pp. 135-143. J.M. Demarol!e, Les femmes chrétiennes vues par Porphyre, «Jahrbuch fiir Antike und Christentum», 13 (1970), pp. 42-47. Per il problema delle vedove devote- e, dunque, troppo libere! vedi Gero­lamo, Lettera 22, 16 e Novella Maioriani 6, 5 del 458. 22: Vergini delia chiesa e clientela papale:

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