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371 RdT 44 (2003) 371-396 A. RUBERTI ANDREA RUBERTI PERCORSI PER UNA NUOVA TEOLOGIA DELLA PACE La teologia può anche essere nociva. J. Sobrino, ad esempio, nellin- troduzione al suo Gesø Cristo liberatore, accusa come ci siano state «cristologie oggettivamente nocive» 1 , le quali hanno offuscato il volto di Gesø proponendo una fede in lui che non metteva in crisi e non si sentiva a disagio in mezzo alle schiavitø, alle oppressioni, alle ingiusti- zie. Forse non cL altro campo oggi come la teologia della pace nel quale poter fare esperienza della nocività o almeno dellirrilevanza del pensare cristiano nella storia. La pace sta al centro della rivelazione biblica giudaico-cristiana. Lo shalom primotestamentario racchiude sin- teticamente in sØ tutti i beni messianici, non L semplicemente lo stato di non guerra, ma pienezza di vita e salvezza, non L utopia ma una possi- bilità storica che Dio dà alluomo; non L qualcosa di accessorio, ma un carattere essenziale dellalleanza che L berit shalom (Nm 25,12). Que- sta alleanza e futuro di pace L legato a doppio filo con il Messia, L lui che instaurerà e porterà unepoca di pace (cf Is 11,1-11; Mi 5,4; Zc 9,10). Per il secondo testamento poi Dio viene a visitare il suo popolo «per guidare i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,79); Gesø dichiara «beati gli operatori di pace» (Mt 5,9) e lannuncio della novità di vita dopo la risurrezione sarà proprio il saluto «Pace a voi!» (Lc 24,36; Gv 20,19.21.26). Anche i settantadue che Gesø invia davanti a sØ avranno come primo compito quello di annunziare la pace (Lc 10,5-6). Levan- gelizzazione, allora come oggi, non può che cominciare da qui. In modo poetico, sintetico e bellissimo, il salmo 85 ci dice che Dio non può che parlare di pace: «voglio ascoltare che cosa dice Iddio; JHWH, di certo, parla di pace» (Sal 85,9). Nonostante le uniche parole che possiamo udire dalla bocca di Dio siano parole di pace, non possiamo certo affermare che la teologia cri- stiana abbia messo questo desiderio del cuore del Padre al centro dei suoi interessi e del suo annuncio. Qui per me viene alla luce la nocività di una riflessione teologica che non ha saputo, o non ha avuto la forza, di partire dalla chiara centralità della pace nella rivelazione biblica per contribuire alla costruzione di civiltà non-violente. Carlo Molari, in un 1 J. SOBRINO, Gesø Cristo liberatore. Lettura storico-teologica di Gesø di Nazareth, Cittadella, Assisi 1995, 10.

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371RdT 44 (2003) 371-396 A. RUBERTI

ANDREA RUBERTI

PERCORSI PER UNA NUOVATEOLOGIA DELLA PACE

La teologia può anche essere nociva. J. Sobrino, ad esempio, nell�in-troduzione al suo Gesù Cristo liberatore, accusa come ci siano state«cristologie oggettivamente nocive»1, le quali hanno offuscato il voltodi Gesù proponendo una fede in lui che non metteva in crisi e non sisentiva a disagio in mezzo alle schiavitù, alle oppressioni, alle ingiusti-zie. Forse non c�è altro campo oggi come la teologia della pace nelquale poter fare esperienza della nocività � o almeno dell�irrilevanza �del pensare cristiano nella storia. La pace sta al centro della rivelazionebiblica giudaico-cristiana. Lo shalom primotestamentario racchiude sin-teticamente in sé tutti i beni messianici, non è semplicemente lo stato dinon guerra, ma pienezza di vita e salvezza, non è utopia ma una possi-bilità storica che Dio dà all�uomo; non è qualcosa di accessorio, ma uncarattere essenziale dell�alleanza che è berit shalom (Nm 25,12). Que-sta alleanza e futuro di pace è legato a doppio filo con il Messia, è luiche instaurerà e porterà un�epoca di pace (cf Is 11,1-11; Mi 5,4; Zc9,10). Per il secondo testamento poi Dio viene a visitare il suo popolo«per guidare i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,79); Gesù dichiara«beati gli operatori di pace» (Mt 5,9) e l�annuncio della novità di vitadopo la risurrezione sarà proprio il saluto «Pace a voi!» (Lc 24,36; Gv20,19.21.26). Anche i settantadue che Gesù invia davanti a sé avrannocome primo compito quello di annunziare la pace (Lc 10,5-6). L�evan-gelizzazione, allora come oggi, non può che cominciare da qui. In modopoetico, sintetico e bellissimo, il salmo 85 ci dice che Dio non può cheparlare di pace: «voglio ascoltare che cosa dice Iddio; JHWH, di certo,parla di pace» (Sal 85,9).

Nonostante le uniche parole che possiamo udire dalla bocca di Diosiano parole di pace, non possiamo certo affermare che la teologia cri-stiana abbia messo questo desiderio del cuore del Padre al centro deisuoi interessi e del suo annuncio. Qui per me viene alla luce la nocivitàdi una riflessione teologica che non ha saputo, o non ha avuto la forza,di partire dalla chiara centralità della pace nella rivelazione biblica percontribuire alla costruzione di civiltà non-violente. Carlo Molari, in un

1 J. SOBRINO, Gesù Cristo liberatore. Lettura storico-teologica di Gesù di Nazareth,Cittadella, Assisi 1995, 10.

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suo intervento di alcuni anni fa, ribadisce con forza «l�incidenza negati-va che spesso hanno le formule teologiche in ordine all�educazione diuomini pacifici» e come ci sia una «teologia che rende difficile o impe-disce l�educazione alla pace»2. Accuse forti che rivelano un malessere,poiché se da una parte le comunità cristiane si fanno sempre più attentead una ricerca e ad un impegno per la pace e la giustizia � stimolateanche dagli ormai numerosi interventi degli episcopati mondiali e daipontefici a partire dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII3 � dall�altrala teologia non sembra ancora aver raccolto questa sfida. A parte alcunitentativi4, è ancora molto difficile trovare delle teologie che diano cen-tralità alla pace considerata non come un tema della morale o uno fra itanti argomenti �nuovi� del pensare teologico, ma come la dimensioneattraverso la quale scandagliare tutto il mistero di Dio, di Cristo e dellachiesa. Non ho certamente la pretesa in queste poche pagine di porrefine a questa impasse, vorrei solamente cercare di individuare � dopouna breve escursione storica sulle alterne vicende della teologia dellapace � alcune attenzioni e �conversioni� propedeutiche, ermeneutiche,ad un riflettere credente capace di confrontarsi con la storia sognandodi farla diventare una storia di pace. Mi soffermerò anche ad indagareun luogo scritturistico, che avverto ricco di suggestioni per un pensieroche vuol porsi umilmente al servizio del novum di Dio che si riversa suogni attimo della nostra storia per far nuove tutte le cose.

1 VERSO UNA NUOVA TEOLOGIA DELLA PACE

Il concilio Vaticano II, il 7 dicembre 1965 � promulgando la Costi-tuzione Pastorale Gaudium et spes � riconosceva che era giunto il tem-po di guardare ai temi della guerra e della pace in modo rinnovato5.

2 C. MOLARI, «Educare alla pace è anche parlare di Dio in modo diverso», in G.NOVELLI (a cura di), Per una teologia della pace, Borla, Roma 1987, 15. Un poco piùavanti questo teologo continua affermando che «tutta la teologia cattolica può ancoraessere percorsa da dinamiche violente e discriminatorie. Spesso perciò con una teologiainadeguata noi contribuiamo all�educazione di uomini violenti, pur difendendo idealidi pace e proclamando il vangelo della fratellanza universale» (ivi).

3 Pubblicata quaranta anni fa, l�11 aprile 1963, è la prima enciclica dedicata intera-mente alla pace e un punto di svolta importante per la riflessione cattolica.

4 Ricordiamo soprattutto i due volumi di J. COMBLIN, Teologia della pace, Paoline,Roma 1962-1966; L. LORENZETTI (ed.), Dizionario di teologia della pace, EDB, Bologna1997; R. COSTE, Théologie de la paix, Du Cerf, Paris 1997.

5 Cf GS 77: «[...] l�umanità non potrà tuttavia portare a compimento l�opera che

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Dopo le due grandi guerre che avevano sconvolto il mondo nella primametà del secolo XX, e i paesi cristiani dell�Europa in modo particolare,e il clima gelido della �guerra fredda� che ad esse era seguito e nelquale ci si trovava immersi, una presa di coscienza e un cambio di rottanelle comunità cristiane non era ulteriormente rinviabile. Devono ne-cessariamente far riflettere i giusti rilievi critici che, portati da parte distorici come George Minois6, accusano la chiesa e il cristianesimo dinon aver cambiato niente nella storia del problema di fondo della guer-ra: in Europa, anche dopo il trionfo della civiltà cristiana, ci sono stateguerre come in tutte le altri parti del mondo. La chiesa non ha sentitocome una sua priorità quella di assumersi la responsabilità storica diuna missione di pace7.

Se vogliamo schematizzare il modo in cui nella riflessione cristianasi sono affrontati i temi delicati della guerra e della pace possiamodisegnare tre periodi ponendo le affermazioni nuove di GS come con-fine tra il secondo e il terzo e la svolta costantiniana tra il primo e ilsecondo8.

La prima tappa di questo percorso � fino a Costantino, o ancor piùprecisamente fino al decreto di Teodosio del 416 nel quale si arriva adichiarare che solo i cristiani possono far parte dell�esercito � è segnatada un�incompatibilità pratica e vissuta tra professione cristiana e vitamilitare, ma al contempo da un�assenza di una vera e propria riflessio-ne sulla pace. Se, almeno sino alla fine del secondo secolo, sembra esse-

l�attende, di costruire cioè un mondo veramente più umano per tutti gli uomini e sututta la terra, se gli uomini non si volgeranno tutti con animo rinnovato alla vera pace»;GS 80: «Tutte queste cose ci obbligano a considerare l�argomento della guerra conmentalità completamente nuova». Cf G. MATTAI, «Un cambio di mentalità», in Rivistadi Teologia Morale 33 (2002) 29-33.

6 Cf G. MINOIS, L�Église et la Guerre, Fayard, Paris 1994.7 Anzi, come nota E. BENVENUTO, «Pace e teologia», in Il Regno Attualità 35 (1990)

321: «l�analisi storica dimostra con un�evidenza quasi sconsolante che il tema dellapace è penetrato nella cristianità generalmente sotto il segno del suo contrario: ossia, acausa dell�esigenza di dare legittimità alla guerra �giusta�, se non addirittura �santa�».

8 Sono pienamente consapevole che cercare una schematizzazione così netta �forza�inevitabilmente la storia, la quale non è mai un�autostrada che avanza diritta e sicura inun�unica direzione, ma un insieme di sentieri pieni di tornanti; cercare però di indivi-duare una direzione e dei punti importanti di svolta credo sia necessario e funzionalead un più semplice inquadramento della problematica. Tra l�abbondante bibliografiaesistente per ripercorrere l�evoluzione storica del pensiero cristiano sulla guerra e sullapace mi limito a segnalare questi quattro punti di riferimento: J. COMBLIN, Teologiadella pace, II, Paoline, Roma 1966, 8-106; M. TOSCHI, Pace e vangelo. La tradizionecristiana di fronte alla guerra, Queriniana, Brescia 1980; G. PATTARO, «Pace», in NuovoDizionario di Teologia, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, 1031-1050; R. COSTE, Théo-logie de la paix, cit., 129-170.

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re prevalente nelle comunità cristiane la tensione verso un pacifismoradicale connotato da un obbligo alla non-violenza9 e dal divieto asso-luto di esercitare la professione militare, quando poi aumenterà il nu-mero dei soldati convertiti, si concederà loro di non abbandonare l�eser-cito a patto però che non uccidano per nessun motivo10. Il punto pro-spettico dal quale i cristiani dei primi secoli guardano alla pace ha untimbro chiaramente escatologico e poco interessato ad un impegno rea-le nella storia per la risoluzione dei conflitti: la missione della chiesa èrealizzare il Regno messianico di Dio annunciato dai profeti, un regnodove domina la pace11, è invece compito dell�impero gestire �politica-mente� la realtà terrena.

Il �compromesso� e la conseguente spartizione dei campi e dellecompetenze, è ben delineato nella Lettera a Diogneto: i cristiani sononell�impero come l�anima nel corpo, essi si assumono i compiti �spiri-tuali� e implorano la benedizione di Dio sulla società, lasciando il go-verno della città terrena, con tutti gli obblighi legati alla pace, alla guer-ra e alla giustizia, allo stato. In fondo potremmo dire che la chiesa, inquanto popolo sacerdotale, si chiama fuori dal dovere di difendere l�im-pero attraverso le armi, ma non condanna esplicitamente la guerra,lascia solamente che siano i pagani a farla12 e non si pone neppureprofeticamente a tentare giudizi sulla conduzione politica della res pu-blica. Siamo di fronte ad un completo disimpegno politico fondato an-che su una lettura di parte di Rm 13. Dunque in questo primo periodoi cristiani non fanno la guerra, ma non elaborano neppure una teologiadella pace, cercano unicamente, chiusi nelle �loro� dimensioni spiri-tuali, escatologiche ed individuali, di restare fedeli al precetto evangeli-co del non uccidere.

9 Cf E. PETERSON, I testimoni della verità, Vita e pensiero, Milano 1955, 92.10 J.M. HORNUS, Evangile et Labarum, Labor et Fides, Genève 1960, 123s: «La legge

disciplinare fondamentale della Chiesa primitiva, in vigore fin dai primi anni del IIIsecolo, e fino al V secolo avanzato, tanto a Roma quanto in Siria e in Egitto, è quindiduplice: è assolutamente proibito ai membri della Chiesa o ai catecumeni di entrarenell�esercito. Chi si è convertito quando già era soldato, potrà continuare ad esserlo,osservando due condizioni: primo, non commettere atti di guerra; secondo, restaresoldato semplice e non accettare posti di responsabilità». La prima testimonianza diquesta prassi la troviamo nella Tradizione apostolica di IPPOLITO, XVI, dove, trattandodei mestieri di coloro che si preparano a ricevere il battesimo, afferma: «il soldatosubalterno non uccida nessuno. Se riceve un ordine del genere, non lo esegua e nonpresti giuramento. Se non accetta tali condizioni, sia rimandato».

11 GIUSTINO, Dialogo con Trifone, cap. 20: «noi che mettevamo il nostro piacere nellaguerra, nei massacri reciproci e in tutti gli altri tipi di iniquità, noi abbiamo, ovunquenel mondo, trasformato le nostre armi in strumenti di pace».

12 Questa posizione è ben riscontrabile in ORIGENE, Contra Celsum, VIII, 73.

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Chiaramente le cose dovranno cambiare quando con Costantino tuttol�impero diventerà cristiano13: adesso non ci si può più esimere dal do-vere di pensare alla sicurezza dello Stato, non ci sono più �altri� cuilasciarla e così la chiesa sposa la pace imperiale fatta e difesa con learmi14. I Padri sembrano attraversare questo confine tra le due epochesenza troppe difficolt; unicamente s. Giovanni Crisostomo avanzeràalcune perplessità. Il legame stretto che nasce tra chiesa ed impero im-pone un nuovo modo di guardare alla guerra, ma come giustificare unesercito cristiano? La carica profetica delle beatitudini evangeliche èsacrificata al realismo politico attraverso l�elaborazione della teoria della�guerra giusta�, una teoria che è sempre servita a giustificare le guerree mai a condannarle. Il giudizio che ne dà ad esempio J. Comblin ènetto: suo chiaro scopo è di «dare il permesso di fare la guerra [...] e dineutralizzare l�effetto dei testi evangelici per quanto riguarda il perdo-no delle offese, la non resistenza al male e l�amore verso i nemici»15.

La riflessione che marcherà maggiormente il pensiero cristiano saràquella di s. Agostino16 che troverà una sua sistemazione giuridica nelDecretum Gratiani (pars II, causa XXIII) e una teologica in s. Tomma-so17. Il ruolo di segno escatologico del regno messianico di pace che nei

13 La svolta nei rapporti con l�impero non tarderà affatto a far sentire le sue conse-guenze: se l�editto di Milano è del 313, troviamo immediatamente, nell�estate del 314,un sinodo, ad Arles, che dichiara essere un dovere per i cristiani il servizio militare,punendo con l�esclusione dai sacramenti la diserzione in tempo di pace (cf W. HUBER -H.R. REUTER, Etica della pace, Queriniana, Brescia 1993, 60).

14 Certamente il passaggio da una concezione all�altra richiederebbe di essere deline-ato con maggiori sfumature, senza cedere ad eccessive generalizzazioni. È comunquesignificativo che la progressiva identificazione tra pace cristiana e pace imperiale entripresto nei canoni liturgici, come ci testimonia J. COMBLIN, Teologia della pace, II, cit.,19, n. 18, riportando il testo della preghiera per l�imperatore contenuta nei sacramen-tari leonino e gelasiano: «Dona la vittoria, o Signore, sui nemici del nome romano edella confessione cattolica. Proteggi le armate di Dio, perché con la loro vittoria il tuopopolo abbia la pace. Distruggi i nemici del tuo popolo. Difendi l�esistenza del nomeromano e proteggi il suo impero, e regni sul tuo popolo la pace e una lunga quiete».

15 J. COMBLIN, Teologia della pace, II, cit., 21-22, n. 22.16 I passi più importanti dove il vescovo d�Ippona affronta il problema della guerra

sono Contra Faustum, XXII, 74-78; Quaestiones in Heptateuchum, IV; VI e soprattut-to De Civitate Dei, XV, 4; XIX, 7. 12-13. 15.

17 Summa Theologiae II-II, q. 40. Le condizioni principali cui sottostare perché sipossa parlare di guerra giusta sono: dichiarata da chi detiene l�autorità; giusta causa, ecioè grave colpa dell�aggressore; retta intenzione, e cioè tendere al ristabilimento dellapace e della giustizia. Per il Decretum Gratiani si danno tre cause di legittimità dellaguerra: ricacciare gli invasori al di là delle frontiere, recuperare dei beni e vendicaredelle ingiustizie. Si distingue anche tra guerre difensive e guerre offensive (tese a inflig-gere una punizione). È chiaro che tra queste maglie così larghe riusciranno a passare ea trovare legittimità tutte le guerre.

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primi secoli i cristiani avevano avocato a sé, adesso non è più di tutta lacomunità dei credenti, ma solo di una parte di essa: sono i religiosi,preti e monaci, a dover dare la testimonianza della non violenza evan-gelica non entrando in prima persona a far parte degli eserciti18.

Escluse alcune eccezioni � sopra tutti Bartolomeo De Las Casas edErasmo da Rotterdam � la riflessione cristiana sulla pace sarà dominatae monopolizzata fino al secolo scorso da una ripetizione pedissequa,arida e manualistica dei principi della guerra giusta, relegando il temadella pace nell�ambito della morale, in qualche pagina del grande trat-tato sulla giustizia, incapace di rendere il biblico �non uccidere� unachiara scelta esistenziale. Il secolo dei lumi poi accrescerà l�insignifican-za pratica di un pensiero cristiano che non riesce a reggere la conquista-ta �adultità� della ragione, né la rivendicazione della laicità degli Stati iquali non accettano più di farsi legare le mani dai pronunciamenti eticidi una chiesa che si vede costretta a rifugiarsi in una �riserva indiana�disinteressandosi dei problemi della vita sociale e politica19.

Ci vorranno gli sconvolgimenti e i drammi delle due guerre mondia-li per rimettere in movimento un pensare cristiano sulla pace. Era ineffetti ben difficile rimanere fermi su queste posizioni di fronte all�esca-lation della potenza distruttiva delle armi nel secolo XX, alle guerreche non sono più degli eserciti ma che colpiscono direttamente la po-polazione civile, di fronte ai bombardamenti indiscriminati sulle città.

Iniziative contro la teoria ormai indifendibile della guerra giusta fu-rono prese da un gruppo di sei teologi nel 1928 � tra i quali anche donLuigi Sturzo20 � e dalla dichiarazione del comitato teologico di Fribur-go nel 1931 nella quale però si ammette una guerra di legittima difesa.

18 G. PATTARO, «Pace», cit., 1041: «Il compito del non uccidere passa dal popolosacerdotale alla casta sacerdotale [...] Ai laici spetta l�onore della guerra giusta, ai con-sacrati quello della pace profetica». L�equivoco portato da questa divisione di compiti,oltre a dare frutti discutibili per quanto riguarda il tema della pace, creerà un amplia-mento del fossato all�interno della chiesa tra religiosi e laici, una distanza ancora oggidifficilmente superabile che segna in profondità il volto della Sposa di Cristo.

19 Significative sono le parole di Alberigo Gentilis nel suo De jure belli libri tresriportate da R. COSTE, Théologie de la paix, cit., 161: «Silete teologi in munere alieno».

20 Questo il testo della dichiarazione riportato in J. COMBLIN, Teologia della pace, II,cit., 62-63, n. 1: «Oggi che la guerra è diventata un sistema di distruzione anonima e dimassacro generalizzato, senza nessuna finalità di giustizia distributiva, con mezzi atrociche si oppongono del tutto ai fini che si pretendono di perseguire, non c�è più distinzio-ne morale fondamentale tra aggressione e difesa; del resto, quando quest�ultima entrain azione, si identifica in modo criminale con l�attacco... In altre parole, una �guerragiusta� è oggi impossibile. E anche se fosse possibile, non la si potrebbe ammettere, acausa del suo carattere apocalittico, indegno dell�uomo. Di conseguenza, il rifiuto delservizio militare diventa un dovere oggettivo per ogni cattolico che vuole rimanerefedele all�insegnamento di Gesù e che è cosciente della criminale assurdità della guerra».

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Purtroppo questi primi, timidi, tentativi di un nuovo approccio alproblema della guerra e della pace non riusciranno a lasciare delle trac-ce nei manuali di teologia ancora troppo saldamente legati ai vecchischemi e nemmeno (ma come poteva essere altrimenti) impedirannoalle nazioni cristiane di impegnarsi in quella spaventosa guerra fratrici-da che fu il secondo conflitto mondiale21.

Come è stato possibile che dopo quasi duemila anni di cristianesimol�Europa sia piombata nella notte oscura di una guerra così devastante?Come è stato possibile che in questi quasi duemila anni di cristianesimola storia dei popoli europei sia stata tanto ricca di guerre e tanto poveradi pace? Dobbiamo forse risponderci che la diplomazia e il realismopolitico (quando non una colpevole complicità) sono stati più forti del-la spinta profetica e che il vangelo della pace non è stato annunciato.Dobbiamo forse risponderci che una teologia della pace non può limi-tarsi a regolare moralmente i criteri di una presunta legittimità di unintervento armato, ma proporsi come un�interpretazione globale di tut-to il mistero della redenzione che si misura con la crudezza della realtàe con la sua capacità o incapacità di entrare nella storia22. È questa lastrada che mi sembra necessario anche oggi provare a percorrere.

Al centro della storia del novecento, al centro del cuore distruttivodella II guerra mondiale, si trova un luogo obbligato da cui ripartire perquesto percorso, un luogo che una teologia incarnata, una teologia chesi fa carico delle domande che lacerano l�animo umano non può elude-re: Auschwitz. Le grandi svolte della riflessione teologica del �900 sonopiù o meno esplicitamente legate a questo luogo simbolico che si ponecome la misura della capacità di un pensiero religioso di penetrare lastoria, di fecondarla, di non arrendersi all�irrilevanza. Se negli anni del-l�immediato dopo guerra la tremenda memoria di Auschwitz mettevain questione la stessa possibilità di un discorso teologico � è ancorapossibile parlare di Dio dopo Auschwitz? � oggi, con J. Moltmann, ciponiamo la nuova domanda teistica «di chi si debba altrimenti parlare

21 Al termine della II guerra mondiale il papa Pio XII fa suo il grido dei pacifisti�guerra alla guerra� affermando nel messaggio natalizio del 1944 che bisogna fare«tutto quanto è possibile per proscrivere e bandire una volta per sempre la guerra diaggressione come soluzione legittima per controversie internazionali e come strumentodi aspirazioni nazionali» (Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, VI, Città delVaticano 1945, 244), salvo tornare a difendere la dottrina tradizionale della guerra perlegittima difesa appena quattro anni più tardi (cf J. COMBLIN, Teologia della pace, II, cit.,66, n. 12).

22 Mi sembra di poter affermare che la Gaudium et spes invita i credenti ad assumersiun impegno diretto nella storia, senza chiudersi nella ricerca di una pace solo spiritualeed interiore, descrivendo la pace terrena come «figura et effectus» della pace di Cristo(GS 78).

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�dopo Auschwitz� se non di Dio»23 e possiamo ripartire da qui per unripensamento della teologia di fronte e nella storia. Forse è propriopartendo da qui � e questo accresce la necessità di rileggere alla lucedella pace il mistero cristiano e la storia della teologia � che si compren-de perché si torni a sentire con forza l�urgenza di riporre l�uomo alcentro del teologare, quell�uomo uscito così tanto ferito, umiliato esfigurato dal secolo breve delle grandi guerre. Auschwitz è lo specchionel quale una teologia fatta di certezze ontologiche e metafisiche fuorie distanti dal reale vede riflessa la sua sconfitta e lacerato lo spesso veloche la teneva ben distante dai drammi della storia e inattaccabile24. Lateologia non può essere una cieca e asettica metafisica della salvezza,ma dovrà invece farsi carico della storia dell�umana sofferenza per par-lare di un Dio che è sì l�assoluto, ma un assoluto che si mette in gioconel relativo, nella prassi e nella storia concreta degli uomini e delledonne25. Se la �svolta antropologica� provoca un radicale mutamentodi paradigma nella teologia, la successiva �svolta politica�26 si poneesplicitamente il problema di una significanza del pensare cristiano nel-la concretezza della storia, partendo dichiaratamente dallo scandalo(proprio nel senso evangelico di pietra d�inciampo) di Auschwitz. Que-sta nuova svolta che si delinea nella seconda metà degli anni �60 prendeforma nel contesto della guerra fredda con l�Europa divisa in due bloc-chi contrapposti ed ha nel suo DNA, nella sua radice lo «shock di Au-schwitz»27. Essa, consapevole della dimensione niente affatto privata di

23 J. MOLTMANN, Che cos�è oggi la teologia?, Queriniana, Brescia 1991, 112. Il teolo-go tedesco prosegue ivi affermando: «�Dio� diventa la parola della protesta trascen-dentale, incondizionata e determinante, contro Auschwitz, Hiroshima e contro la mi-naccia di autoannientamento dell�umanità».

24 Scrive in un articolo J.B. METZ, «Toward a christology after Auschwitz», in Theo-logy Digest 48 (2001) 103: «Ho sempre domandato: abbiamo forse usato per le nostreidee teologiche della storia categorie che sono troppo forti, troppo speculative e che ciimmunizzano così che non ci lasciano parlare di Dio e del suo Cristo indirizzandoglitutti gli oltraggi e distruzioni?».

25 Sono illuminanti a questo riguardo le parole di E. SCHILLEBEECKX, «Alla ricerca delvalore salvifico di una prassi politica di pace», in Il Regno Documenti 36 (1981) 664.

26 Le riletture teologiche della teologia della speranza, della teologia politica e dellateologia della liberazione sono incomprensibili senza quel punto di partenza comuneche è la svolta antropologica, esse «sono accomunate dall�interesse per la concretezzastorica dell�uomo salvato dalla grazia, così come sono accomunate dalla scoperta delvalore da dare all�opera dell�uomo come risposta di fede e di obbedienza della fede» (G.MAZZILLO, «Quale teologia di pace oggi?», in A. CAVAGNA [ed.], I cristiani e la pace.Rivivendo la «Pacem in terris», EDB, Bologna 1996, 100).

27 J. MOLTMANN, «Teologia politica e teologia della liberazione», in ID., Dio nel pro-getto del mondo moderno, Queriniana, Brescia 1999, 51. Il teologo tedesco, giovaneausiliare dell�aeronautica alla fine della guerra, vive e sente sulla sua pelle l�ombra

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Gesù e della sua salvezza, e forte della �riserva escatologica� � le pro-messe salvifiche che impediscono l�assolutizzazione di qualsivoglia sog-getto intramondano � si pone nella storia come coscienza critica edermeneutica teologica del presente, come una parola che vuole essereefficace in ordine alla trasformazione dei rapporti sociali e verso unanuova prassi di vita nella luce del vangelo28.

A differenza della teologia neoscolastica, che si sottrae al confrontocon la modernità attraverso una tattica difensivista da �cittadella asse-diata�, ma anche diversamente da una teologia trascendentale ed esi-stenzialista, eccessivamente ripiegata sul soggetto, la teologia politica èun sapere pratico che non teme di scendere nel campo della storia, checerca di coniugare identità e rilevanza, che si concepisce come erme-neutica politica del vangelo, e lo fa attraverso tre categorie fondamen-tali: memoria, narrazione e solidarietà.

Mentre in Europa la svolta antropologica acquista i tratti della di-mensione politica del fatto cristiano, in America Latina la condizione diestrema povertà, di ingiustizia sociale istituzionalizzata e la mancanzadi futuro per masse di popolazione, sono state l�humus di una riflessio-ne fatta �dal basso della storia�, a fianco del popolo oppresso impegna-to in un processo di liberazione umana. La teologia della liberazione,che inizia a muovere i suoi primi passi nel periodo del Vaticano II e agettare basi più solide nel 1968 a Medellín, è una teologia radicalmentevicina alla storia, incarnata, che si concepisce decisamente come attosecondo di un�esperienza di fede contestualizzata in una prassi liberan-te tesa a trasformare la realtà29, come «riflessione critica nella e sullaprassi storica messa a confronto con la Parola del Signore vissuta eaccettata nella fede»30.

dell�Olocausto � e non manca di raccontarlo in alcuni passi autobiografici dei suoiscritti (cf «Una lotta con Dio», in J. MOLTMANN, La fonte della vita, Queriniana, Brescia1998; ID., Esperienze di pensiero teologico, Queriniana, Brescia 2001, 14-15) � e nonnasconde come le esperienze di morte fatte in quei tragici momenti siano state il locustheologicus personale e primario del suo riflettere credente.

28 Afferma sinteticamente J. MOLTMANN, Dio nel progetto del mondo moderno, cit.,51: «La politica è il contesto della teologia cristiana: critica rispetto alle ideologie poli-tiche e alle religioni civili del potere, e affermativa rispetto all�impegno concreto che icristiani assumono in vista della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato».

29 Cf G. GUTIERREZ, Teologia della liberazione, Queriniana, Brescia 1972, 25: la teo-logia della liberazione si presenta come «un nuovo modo di fare teologia [...] comeriflessione critica della prassi storica [...] Una teologia che non si limita a pensare ilmondo, ma che cerca di porsi come un momento del processo attraverso il quale ilmondo è trasformato».

30 ID., «Vangelo e prassi di liberazione», in AA.VV., Fede e cambiamento sociale inAmerica Latina, Cittadella, Assisi 1975, 265.

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In opposizione ad un pensare deduttivo centrato su principi dottri-nali atemporali, che solo in un secondo momento ed in un modo estrin-seco si incontrano con la realtà, i teologi latino-americani si pongonoall�interno di una triangolarità ermeneutica i cui vertici sono la memo-ria cristiana, il contesto vitale e la comunità ecclesiale che in quel de-terminato contesto vive31. La parola chiave che sta al centro di questotriangolo ermeneutico è prassi. Il pensare e il riflettere ha come puntodi partenza e di arrivo l�agire. Come la teologia politica, così anche lateologia della liberazione è tesa a superare l�irrilevanza dell�annunciocristiano nella storia: la teologia riflette su una fede che è prassi diliberazione e rinvia alla prassi in vista di una trasformazione della real-tà. E perciò chiede a colui che fa teologia � certamente il teologo, main primis la comunità cristiana � un coinvolgimento personale nel pro-cesso di liberazione. Questa teologia ha un �a partire da dove� bendefinito: la prospettiva dalla quale guarda il contesto e la memoriacristiana è quella delle vittime, quella di un pensiero a partire dal rove-scio della storia. Esse, le vittime, sono il meta-paradigmatico della teo-logia, ciò che permane in mezzo ai mutamenti delle vicende umane, ilcriterio ineliminabile32, il punto di osservazione privilegiato, perchésono i privilegiati di Dio.

Dalla storia teologica del �900 riceviamo dunque in eredità dei crite-ri per accostarci in modo pensante al mistero di Dio, criteri che tentanodi riflettere sulla memoria pericolosa di Gesù a partire dai drammi chela storia dell�uomo attraversa. Potremmo dire che la teologia che ciconsegna la fine del secolo XX è una teologia che guarda a Dio e al suomistero rivelato nella storia di Gesù attraverso le ferite dell�uomo, ed èuna teologia cui non basta esporre delle verità, ma pretende di esserespinta per il cambiamento in vista della costruzione del Regno33.

31 Cf J. DUPUIS, «Teologia della liberazione», in Dizionario di Teologia Fondamentale,Cittadella, Assisi 1990, 1282-1283.

32 È interessante notare come questo meta-paradigmatico sia fortemente imparenta-to con ciò che è Auschwitz per la teologia politica. Ecco cosa scrive significativamenteJ. SOBRINO, La fede in Gesù Cristo, Cittadella, Assisi 2001, 18: «Auschwitz è, dunque,un meta-paradigmatico, è un modo potente di ricordare il rapporto essenziale tra Dioe le vittime [...] Auschwitz fu la vergogna dell�umanità mezzo secolo fa. Centroamerica,Bosnia, Timor Est, i Grandi Laghi, la morte per fame (e ora a causa dell�esclusione didecine di milioni di esseri umani) continuano a essere la vergogna dell�umanità ai nostrigiorni». Sul legame tra teologia politica e teologia della liberazione a partire dalle vitti-me vedi «Dire Dio dopo Auschwitz, durante Ayacucho. Dialogo tra Jürgen Moltmanne Gustavo Gutierrez», in Mosaico di pace 4/2 (1993) 11-26.

33 Possiamo con E. SCHILLEBEECKX, «Alla ricerca del valore salvifico», cit., 665, rico-noscere in questa tensione al Regno l�angolo visuale sul reale proprio del teologo: «ilproblema che si pone il teologo è questo: in questa prassi personale o politica concretapossiamo vedere, se non il regno di Dio, almeno un venire e avvicinarsi di esso?».

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Su questa eredità e su questa scia per me deve situarsi una teologiadella pace oggi. Anch�essa va pensata non come un capitoletto all�inter-no della morale, o come una delle teologie al genitivo, ma come unadimensione qualificante il mistero cristiano, una prospettiva possibile eprivilegiata dalla quale guardarlo, una sua possibile cifra sintetica. Di-versi autori ormai riconoscono che se la Teologia della pace non vuoleridursi ad un�appendice insignificante del lavoro teologico e delle con-crete vie della storia deve concepirsi come una teologia pratica34, poli-tica35, che assume l�evangelium pacis come il criterio dal quale ripensa-re tutta la teologia36, una teologia che sia anamnesi e profezia, reinter-pretazione creatrice del messaggio cristiano. Al di là delle dichiarazionid�intenti però una approfondita riflessione che possa chiamarsi, nel sensoappena esposto, teologia della pace, mi sembra che sia ancora un cam-po aperto della riflessione cristiana, un campo che i tempi e i sentimen-ti di oggi ci costringono a metterci ad arare.

2 UNA NUOVA ERMENEUTICA

Cercare nuove vie alla teologia della pace, è cercare sentieri nei qua-li lo stesso modo di camminare sia diverso. Sarebbe un�illusione e un�im-perdonabile semplificazione pensare di risolvere il problema cedendoalla sensibilità del tempo e aggiungendo un nuovo argomento nella ri-flessione teologica. Non credo nemmeno sarebbe sufficiente togliere iltema della pace dall�ambito esclusivo della teologia morale � e quindidalla discussione sulla guerra giusta � per farne il punto di partenza diuna prospettiva teologica globale che investighi il dato cristiano a parti-re dallo shalom primotestamentario e dall�eirene dono del Risorto. For-se anche questo sarebbe ancora troppo poco e soprattutto poco inci-dente per far crescere uomini, donne, cristiani, costruttori di pace.

34 Cf R. COSTE, Théologie de la paix, cit., 27-28, la teologia della pace sarà «unateologia della libertà e della responsabilità davanti a Dio, una teologia del peccato edella grazia [...] sarà una teologia pratica. Si tratta di costruire la pace nel cuore stessodella storia. Si tratta anche, attraverso di essa, di partecipare alla �lotta per la pace�».

35 Cf G. PATTARO, «Pace», cit., 1044: «La teologia della pace è sempre una teologiapolitica [...] Ciò esige dalla teologia della pace una disponibilità ermeneutica che, men-tre legge la realtà a partire dalla fede, legge questa fede sempre dentro la realtà e mai aldi sopra o al lato di essa».

36 Non è un caso che un primo tentativo di sistemazione del tema della pace inteologia sia opera di un autore europeo impegnato nella teologia della liberazione: J.Comblin. Sulla pace come angolo prospettico dal quale ripensare tutto il dato dellafede vedi: L. SARTORI, «Teologia dogmatica», in L. LORENZETTI (ed.), Dizionario di Teolo-gia della Pace, cit., 79-89; G. MAZZILLO, «Quale teologia di pace oggi?», cit., 97-120.

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La questione prima che credo ci si ponga di fronte, una questioneche sarebbe sciocco eludere, nasce dalla domanda � angosciosa per uncuore credente � sul perché duemila anni di fede cristiana non hannosaputo costruire delle civiltà di pace. Mi sembra necessario, accettandooggi la sfida del pensare teologicamente la pace, interrogarci primaria-mente non tanto sull�oggetto o sull�angolatura prospettica dalla qualefare teologia, quanto sul percorso, sul modo stesso di interrogarsi, sulladimensione epistemologica. Dobbiamo cioè riconoscere con L. Biagiche «entrare nel pensiero della pace [...] esige [...] la capacità di unametánoia che prende le mosse dalla problematizzazione dei principiprimi del pensiero occidentale»37, un�effettiva conversione ermeneuti-ca che ci impedisca, attraverso una teologia inadeguata, di contribuireall�educazione di pensieri e di uomini violenti. Sono le strutture stessedel pensare che sono chiamate a divenire capaci di pace. Lo sforzo pri-mario ed essenziale sotteso alla possibilità di una teologia della pacerinnovata passa per me inevitabilmente dal porsi la domanda su un�er-meneutica di pace. Quali orizzonti deve percorrere? Quali forme assu-mere? Su quali basi costruirne le fondamenta? Non ho assolutamente lapretesa di risolvere la partita nel breve spazio di questo articolo, pensoche sia già sufficientemente importante cercare di delineare con chia-rezza la sfida che sta davanti ad una riflessione teologica che oggi vogliapartire dalla pace, perché come teologi e credenti non ci illudiamo dipoterla sistemare con il minimo sforzo. Vorrei però provare ad accen-nare brevemente ad alcune piste sulle quali credo che un pensiero cri-stiano di pace potrebbe provare a camminare. Se, come afferma La-font: «Uno, Essere, male e tempo: sono queste le idee-forza che hannoguidato [...] gli sviluppi della filosofia occidentale e che si trovano al-l�opera anche nei percorsi teologici del cattolicesimo»38, forse è pro-prio dal problematizzare questi principi primi che siamo chiamati apartire, in quanto non hanno saputo essere generatori di pace.

2.1. Un�ermeneutica di pace dovrebbe essere non un pensiero dell�Unoe dell�Essere, ma un pensiero plurale, dell�altro, dell�esser-ci

La simbolica platonica dell�Uno nasce da un sentimento di disagio edi incompiutezza di fronte al molteplice, per cui tutto ciò che è plurale,diverso, altro, non omogeneo, non soddisfa né l�intelligenza, né il cuo-

37 L. BIAGI, «Pensare la pace», in L. LORENZETTI (ed.), Dizionario di Teologia dellaPace, cit., 285.

38 G. LAFONT, Storia teologica della Chiesa. Itinerario e forme della teologia, SanPaolo, Cinisello Balsamo 1997, 318. Sulla tradizione del pensiero dell�uno vedi J.-F.MARQUET, Singularité et événement, Millon, Paris 1995.

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re e chiede di iniziare un cammino di reductio ad unum. Questa ricercaappassionata dell�Uno è stata elevata fin da Aristotele a principio gno-seologico capace di tracciare profondamente la rotta del pensare occi-dentale: «l�uguale è conosciuto solo dal suo uguale»39.

Prendendo in senso radicale questo principio dell�analogia e dell�omo-geneità, ci troviamo inevitabilmente di fronte ad un mondo chiuso, nelquale ogni conoscenza � e ancor di più ogni convivialità e comunione �dell��altro� è preclusa ed ogni pluralità negata. Del �diverso� io sarò ingrado di percepire e di accogliere unicamente ciò che in lui trovo di similein me, solo il rispecchiamento in lui di me stesso, ma la sua diversità e lasua differenza resteranno completamente estranee e in-differenti.

Anche Dio, posto sotto questa lente, sarà avvicinabile analogicamentescoprendo unicamente la sua faccia rivolta verso di me, mentre quelloche Karl Barth chiamava il �totalmente Altro� del Divino rimarrà «tal-mente ignoto da non poter essere nemmeno pensato»40.

Nella filosofia greca troviamo però anche un�altra tradizione gno-seologica, che si rifà ad Anassagora, secondo la quale la conoscenzanasce dai contrari: «noi percepiamo con il caldo il freddo, con l�amaro ildolce, con l�oscuro il chiaro, secondo la mancanza di ciascuno dei con-trari»41. Il principio della conoscenza qui non sta più nell�identità e nel-l�omogeneità, ma nella diversità, è il dissimile che conosce il dissimile,l�altro che è capace di conoscere l�altro. Stimolo alla crescita del cono-scere è il contrasto, la diversità, la differenza: come la percezione delcalore del fuoco si fa più intensa più il nostro corpo sente freddo, cosìmaggiormente conoscerò l�altro quanto più saprò interessarmi a ciò chein lui trovo di dissimile rispetto a ciò che mi è affine. Questo principiodella differenza, della dialettica, della pluralità non vive della nostalgiadi ricondurre tutto ad uno, ma crea mondi aperti dove il riconoscimen-to dell�altro in quanto altro porta ad un�unità nella diversità, alla �con-vivialità delle differenze� come amava chiamarla Tonino Bello42.

39 ARISTOTELE, Metafisica, III (B), 4, 1000 b. Su questa parte vedi l�illuminante artico-lo di J. MOLTMANN, «Il riconoscimento dell�altro e la comunione dei diversi», in ID., Dionel progetto del mondo moderno, Queriniana, Brescia 1999, 131-148. Stando a T.SUNDERMEIER, Comprendere lo straniero, Queriniana, Brescia 1999, 9 «per il pensierooccidentale vale, in genere, l�affermazione: �Dove sono io non può esserci altro. Iosono nel punto zero�».

40 J. MOLTMANN, Dio nel progetto del mondo moderno, cit., 138-139.41 Citato in ib., 140.42 Questo principio ha notevoli conseguenze anche per la conoscenza di Dio: «in

quanto Dio viene svelato nel suo contrario, egli può essere conosciuto dai senza Dio edagli abbandonati da Dio. Ed è proprio questo conoscere che conduce gli individui allaconformazione con Dio e, come attesta la prima lettera di Giovanni (3,2), li introducenella speranza della somiglianza con Dio» (J. MOLTMANN, Il Dio crocifisso, Queriniana,Brescia 1973, 40).

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La ricerca di un pensiero capace di pace dovrà attraversare necessaria-mente i territori della pluralità e della differenza dove le diversità hannodiritto di cittadinanza, per tendere non ad un�unità omogenea e monoli-tica, ma ad un�unità differenziata che dia valore all�altro in quanto altro,che sappia gioire dello stupore del non conosciuto e arricchirsi della co-munione degli estranei43. Non è facile, perché permane nella nostra cul-tura � cresciuta pensandosi come �la� cultura � una difficoltà istintiva «apensare la co-soggettività [...] la co-appartenenza essenziale tra l�io e lostraniero»44. C�è però un filosofo francese � Jean-Luc Nancy � che, nonsenza coraggio, prova ad avventurarsi sull�incerta strada del ripensamen-to dei principi primi del pensiero occidentale, scalandone la vetta piùalta, l�ontologia, assumendosi il compito di «rifondare interamente la�filosofia prima� basandola sul �singolare plurale� dell�essere»45. L�esse-re per questo audace pensatore è singolare plurale, è sempre una co-essenza dove il con non è un�aggiunta di un secondo momento all�esse-re, ma il suo stesso cuore, ciò senza il quale l�essere stesso non si dà. Lasingolare pluralità dell�essere apre orizzonti nuovi, spazi inesplorati dovela con-vivenza dei diversi non è qualcosa di sopportato o di tollerato,ma sta invece al cuore stesso delle possibilità del vivere, ci fa pensare chel�essere non può dirsi mai senza il �noi�, senza un �io� e un �tu�, che «lasingolarità di ciascuno è indissociabile dal suo essere-con-tanti»46.

2.2. Un�ermeneutica di pace non può limitarsi a porsi il problema delmale, ma dovrà essere un pensiero a partire dalle vittime

Potremmo forse inscrivere questo passaggio all�interno di una svoltaantropologica, di una focalizzazione sul soggetto, anzi, come vedremo,

43 Riconosce T. SUNDERMEIER, Comprendere lo straniero, cit., 12 che «ci occorre unaermeneutica della differenza [Differenzhermeneutik], che insegni a comprendere ciòche è diverso, senza incasellarlo nei nostri schemi, che offra aiuti pratici per esercitarela vicinanza del vivere insieme e nello stesso tempo assicuri la giusta distanza, cherispetta l�identità dello straniero e assicura a noi tutti la comune dignità umana».

44 T. SUNDERMEIER, Comprendere lo straniero, cit., 224. Nell�introduzione questo autoreaveva già affermato che «la filosofia trova difficoltà a passare dalla teoria della sogget-tività a quella dell�intersoggettività» (ib., 7).

45 J.-L. NANCY, Essere singolare plurale, Einaudi, Torino 2001, 3. L�autore riconosceche questa pretesa non è tanto sua (sarebbe un imperdonabile orgoglio) ma della cosastessa e della nostra storia, sono esse a costringerci � con una tenera fortezza � a passareda una considerazione dell�essere come monolite isolato all�essere-con: «dobbiamo ri-scrivere l�ontologia fondamentale [...] e questa volta risolutamente a partire dal singo-lare plurale delle origini, ossia a partire dall�essere-con» (ib., 38).

46 Ib., 47.

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sui non-soggetti. La storia del pensiero occidentale, nella sua intimatensione verso l�Uno e l�Essere, è costantemente chiamata a fare i conticon il lato oscuro di questo percorso, con un desiderio sempre inappa-gato che prende il nome di mistero del male47. Se il bene è il punto diarrivo � l�Uno e l�Essere � tutto il cammino di avvicinamento ad esso �il non-ancora-Uno e il non-ancora-Essere � sarà necessariamente con-notato da una certa colpevolezza e tutto ciò che diversifica il reale, cheè privazione o è fuori dall�ordine dell�essere, assumerà i contorni delmale. Il male sembra qui qualcosa di ineludibile, una dimensione cheincombe ineluttabilmente sulla storia, che è impastato con essa. Ma ilmale non è semplicemente qualcosa di etereo come una cappa di smogsu una città, non è unicamente l�aspetto di irrisolto verso il fine, il maleè qualcosa di molto concreto che grava su dei soggetti storici, su coloroche nella storia portano inciso sulla loro pelle il suo marchio. Questaconversione al soggetto, anzi al non-soggetto, alle vittime della storiapenso sia essenziale per una teologia della pace.

Se identificavo il primo passo verso un�ermeneutica per una teologiadi pace come un cambiamento d�orizzonte, adesso mi soffermo invecesul punto di partenza, sull�angolo visuale, sulla prospettiva che permettedi scrutare questo nuovo orizzonte. Una teologia di pace credo sia chia-mata a compiere lo sforzo di guardare il mistero di Dio e la storia nonpartendo dai vincitori, ma dall�altra faccia della realtà, quella che di so-lito non si vede e non si ascolta, che non fa notizia, quella degli sconfitti.Un pensiero di pace ci richiede fortemente di tentare un riflettere � chepoi guida un agire � un teologare � dal quale poi nasce una comunità � eun celebrare, che si sviluppano facendo nostra la realtà delle vittime.

La preoccupazione per le vittime, e quindi anche un pensiero a par-tire dalle vittime, è, per R. Girard, «un fenomeno specificamente mo-derno»48 discendente in modo diretto dalla tradizione religiosa ebraicae cristiana anzi, per questo autore, è proprio nella cura verso le vittimeche possiamo trovare «l�interpretazione specificamente moderna delcristianesimo, la vera maturità di questa religione»49. La prospettivadelle vittime ci permette di comprendere la redenzione e la salvezzanon come un processo selettivo dove solamente i più forti, i più bravi ei perfetti vanno avanti lasciando dietro di sé i falliti, gli sconfitti, quelli

47 Cf J. LAFONT, Storia teologica della Chiesa, cit., 324: «il male è dovunque, dalmomento che nessuna situazione nella quale ci si può trovare risponde al desideriofondamentale che muove l�uomo, poiché è sempre attraversata dalla diversità. La di-stanza tra il desiderio illimitato e la realtà possibile costituisce in qualche modo il maleprimordiale, che non dovrebbe sussistere».

48 R. GIRARD, «La preoccupazione moderna per le vittime», in FilTeo 13 (1999) 225.49 R. GIRARD, «La preoccupazione moderna per le vittime», cit., 233.

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che non hanno saputo o potuto tenere il passo50, ma come la ricapitola-zione di tutto in Cristo, proprio a partire dagli �scarti� della storia. Cheil punto di partenza sia non �io�, ma le vittime, salva la speranza cristia-na da un mai sopito egocentrismo, da un chiudermi in una ricerca ego-istica della mia salvezza che tenga unicamente conto delle mie necessitàe del mio punto di vista51. Il principio ermeneutico dell��a partire dallevittime� è un principio adeguato ed irrinunciabile per una teologia dipace, poiché pone alla sua base non le ragioni forti del più forte, dicolui che ha il potere di imporsi, ma quelle di coloro che non hannovoce e portano su di sé le conseguenze della violenza � anche solo cul-turale � dei forti e mi costringe a fare mio il mondo dell�altro. Le vitti-me hanno il grande potere di pormi di fronte all�uomo spogliato dellasua cultura, all�uomo soltanto uomo (o forse all�uomo soltanto non-uomo) e per questo la loro è l�unica prospettiva capace di abbattere lebarriere e di costruire una società planetaria e globale52.

La contro-storia delle vittime, la storia mai raccontata, è quella checi permette un approccio privilegiato alla promessa del Dio della Bib-bia. La storia dell�esodo è una contro-storia, una teologia della reden-zione fatta a partire dalle vittime, dove Dio è colui che ascolta il gridodel popolo (cf Es 2,23; 3,7) e si mette incondizionatamente dalla suaparte. Questo è il Dio di Israele e il Padre di Gesù le cui promesse sonoprima di tutto per i disperati, per i poveri, i deboli, gli smarriti, le vitti-me della storia della violenza umana ed essi sono coloro che le capisco-no nel modo migliore53. In Gesù poi Dio prende così sul serio la suaopzione preferenziale per i reietti della storia da farsi egli stesso vitti-ma, assumendo i lineamenti del Servo di JHWH isaiano, povero, piccolo,ma anche vittima e vittima nonviolenta54. Assumere come punto pro-

50 Vedi la critica che J. Moltmann fa alla cristologia evolutiva di T. de Chardin e,anche se in maniera attenuata, alla cristologia trascendentale di K. Rahner in La via diGesù Cristo, Queriniana, Brescia 1991, 328-338.

51 Cf J. SOBRINO, La fede in Gesù Cristo, cit., 81: «la speranza nella propria risurre-zione vive della speranza nella risurrezione delle vittime. Colui per il quale la propriamorte è lo scandalo fondamentale e la speranza di sopravvivenza il suo problema prin-cipale, per quanto ragionevole sia, non avrà speranza specificamente cristiana né natadalla risurrezione di Gesù, ma una speranza egocentrica».

52 Cf R. GIRARD, «La preoccupazione moderna per le vittime», cit., 234: «È la preoc-cupazione verso le vittime che abbatte le barriere, che abolisce tutte le frontiere intornoa noi».

53 Cf J. MOLTMANN, Esperienze di pensiero teologico, cit., 126: «Leggere la storiadella promessa della Scrittura con gli occhi dei poveri [...] non significa piegarsi miseri-cordiosamente su di essi, bensì riconoscere il �messianismo dei poveri� o �l�apostolatodei poveri� e ascoltarli come soggetti di un�interpretazione autentica della Scrittura».

54 Afferma J. SOBRINO, La fede in Gesù Cristo, cit., 83: «questa speranza specifica [la

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spettico il luogo delle vittime è inserirci nel cuore della rivelazione giu-daico-cristiana, è guardare la storia e il mondo con gli occhi dell�autoredell�Apocalisse, l�esempio forse più grandioso ed imponente di una teo-logia che parte dalla contro-storia dei non-soggetti55.

2.3. Un�ermeneutica di pace non sarà semplicemente legata al tempo,ma sarà un pensiero escatologico, della risurrezione

Posto sul crinale dell�esser-ci e delle vittime, un pensiero di pacepotrebbe rischiare di rimanere inevitabilmente compresso nell�hic etnunc, schiacciato sotto il peso insopportabile dei drammi e delle tensio-ni della storia. In realtà esso, pur concretamente radicato e impegnatonell�oggi, ha bisogno di spazi più ampi, degli orizzonti aperti dell�uto-pia e della speranza, delle promesse che aprono al futuro di Dio56. Perquesto credo che un terzo abbozzo di sentiero per un�ermeneutica dipace sia individuabile in quella svolta che porta al recupero della di-mensione escatologica nella teologia contemporanea, proprio all�inter-no e a fianco di quelle teologie prospettiche e della prassi quali la teolo-gia politica e la teologia della liberazione57.

L�accostamento di escatologia e assunzione di responsabilità nelmondo � per una fede che non sia condannata all�irrilevanza nella sto-ria � è fecondo, poiché riesce a coniugare mistica e politica, amore e

speranza delle vittime] è l�esigenza ermeneutica più necessaria per comprendere quan-to è accaduto a Gesù». Nell�inno della lettera ai Filippesi Paolo annuncia che Gesù nonsi è accontentato di spogliarsi di se stesso, di farsi uomo, di assumere la forma delloschiavo, ma arrivò fino al punto più basso, fino a farsi vittima, fino «alla morte dicroce» (Fil 2,8).

55 Come l�Apocalisse, una teologia che fa suo il principio ermeneutico delle vittime,si pone come critica agli Imperi di ogni tempo che creano oppressione e si mantengonosulla violenza e ci chiama ad una rivoluzione copernicana del pensiero: «nella globaliz-zazione si dà per scontato che chi convoca � riunisce, �globalizza� � salvificamente è ilpotere, soprattutto quello economico. A questo centro convocatore la Scrittura ne op-pone un altro, molto diverso e contrario: convocano le vittime. Nella teologia di Gio-vanni è il crocifisso che attrae tutto (cf Gv 12,32; 19,37)» (J. SOBRINO, «Redenzionedella globalizzazione. Le vittime», in Concilium 37 [2001] 930).

56 Per J. MOLTMANN, «Introduzione alla �teologia della speranza�», in ID., L�esperi-mento speranza, Queriniana, Brescia 1976, 69; il futuro è il «modo d�essere di Dio».

57 La ripresa della dimensione escatologica è indubbiamente uno dei tratti caratteri-stici della teologia del secolo scorso. Iniziata da J. Weiss e A. Schweitzer alla fine del-l�ottocento è cresciuta grazie ai contributi di K. Barth, R. Bultmann, O. Cullmann, J.Moltmann (cf R. GIBELLINI, La teologia del XX secolo, Queriniana, Brescia 1992, 297ss).Per K. RAHNER, Corso fondamentale sulla fede, San Paolo, Cinisello Balsamo 19905,l�escatologia definisce ciò che è l�uomo per il cristianesimo: «colui che e-siste proiettatodal suo presente attuale verso il suo futuro».

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tensione per Dio con amore e tensione per l�uomo e il creato, storia diDio con la nostra storia, eliminando il pericolo di un�eccessiva spiri-tualizzazione, come quello di una salvezza unicamente infraumana. Bi-blicamente poi la pace-shalom è un dono escatologico, anzi addirittura,come la chiama Orazio Franco Piazza, essa è la «categoria ermeneuticadell�éschaton»58 attraverso la quale è possibile guardare criticamenteall�interiore legame tra la storia e il suo compimento. La pace nella suapienezza è e rimane un dono finale il quale, ogni volta che è de-escato-logizzato, finisce per diventare la pace di una parte contro un�altra, lapace del più forte, delle armi e dell�impero, sul modello della pax ro-mana. Per questo è prezioso rimanere fedeli alla riserva escatologicadella pace.

Sottolineare lo stretto legame tra pace ed escatologia, non significaperò di certo ritirarsi in un mondo a parte e ancora una volta chiamarsifuori dalle responsabilità storiche e dalla sfida-opportunità di essere nelnostro oggi costruttori del Regno, nella compagnia di Colui che, incu-rante del suo essere, venne a porre la sua tenda in mezzo a noi (cf Gv1,14). Anzi, la pace quale categoria interpretativa dell�éschaton, divie-ne per noi la forza che nella storia ha di mira il cambiamento e il crite-rio che la guida verso il suo approdo. Certo, per non rimanere passivi,ci è chiesta una volta di più una conversione ermeneutica, una vera epropria conversione, cioè un cambiamento del senso di marcia: nonpiù dal presente al futuro, dall�oggi all�éscathon, ma dall�éscathon anoi59, in modo da rendere il presente, il nostro presente, responsabiledi fronte al futuro. Questa inversione di marcia veicola un modo nuovo� più dinamico � di guardare alla storia secondo il quale essa non èsemplicemente la somma degli avvenimenti passati, ma «l�unità di pas-sato e presente in ordine al futuro, unità che include il �politico�»60.

58 O.F. PIAZZA, «Escatologia», in L. LORENZETTI (ed.), Dizionario di Teologia dellaPace, cit., 431. Sulla pace come concetto necessariamente escatologico, ib., 430: «glo-balmente si può affermare che il concetto stesso di pace, necessariamente, rimanda aduna sua comprensione in senso escatologico: benessere totale; armonia personale ecomunitaria tra gli uomini, con Dio e con il cosmo; tranquillità e pienezza, onore ebenedizione; in una parola, �pienezza della vita�».

59 Per J. MOLTMANN, «Introduzione alla �teologia della speranza�», cit., 70-71, pos-siamo parlare di futuro in un duplice modo, come ciò che diviene � qui il futuro è inqualche modo pianificabile e il senso di marcia è dall�oggi al futuro � o come ciò cheviene e allora «non guardiamo dal presente nel futuro, bensì dal futuro nel presente»(ib., 71). Secondo questo teologo evangelico, mentre il primo, il futurum, è il futurodei potenti che cercano di difendere per l�avvenire il potere che detengono nell�oggi (eper questo lo immaginano e lo pianificano senza sorprese, in un perfetto continuumcon il passato e il presente), il secondo, l�adventus, è proprio di coloro che si attendono�cieli nuovi e terra nuova�.

60 J. MOLTMANN, Esperienze di pensiero teologico, Brescia 2001, 114.

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L�aggettivo �storico� diventa predicabile unicamente per ciò che fastoria, che fonda storia, che fa nascere qualcosa, che apre e fa cammi-nare verso il futuro assumendosi, politicamente, la responsabilità delpresente. Siamo all�interno di quella che J. Moltmann chiama l�erme-neutica della speranza o della risurrezione, poiché pone l�evento pa-squale stesso � quanto di più a-storico, perché non indagabile attraver-so �dati� oggettivi, ci sia � come criterio di verità della storia61. L�even-to storico è sempre carico di promessa e spinge a cambiare il presentecon lo sguardo rivolto ad un avvenire che mi si fa incontro ed esserenella storia sarà sempre un assumersi la responsabilità del futuro dellastoria. Se però il nome dell�éschaton veniente è �pace�, sarà questa larealtà che cammina dal futuro verso di noi e che riempie di storicità unavvenimento o un�esperienza. Se solamente la capacità di futuro donastoricità a ciò che accade nella vita degli uomini e del cosmo, alloraunicamente i gesti, le azioni, le intenzioni, i pensieri intessuti di pacesaranno degni della parola �storia�, in quanto pienezza e compendiodel futuro promessoci dal Padre.

3 IL PUNTO DI PARTENZA

È possibile immaginare di porre sotto la categoria della pace tutto ilpensare teologico? Ho cercato di tracciare alcune linee che credo es-senziali alla costruzione di un�ermeneutica di pace � e altre certamentepotrebbero essere aggiunte �, ma è possibile partire da qui per elabora-re un intero impianto teologico che assuma la pace come la dimensionefondamentale che gli dà forma? Da dove partire? Credo che uno deiprimi teologi cristiani, Paolo di Tarso, abbia già tentato, embrional-mente, una simile impresa nella sua lettera agli Efesini.

61 ID., Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 19724, 185: «La teologia ha lapossibilità di costruire un suo proprio concetto di storia ed una sua propria visionedella storiografia sulla base di una comprensione escatologica della realtà della risurre-zione. In tal modo la teologia della risurrezione non combacia più con un già esistenteconcetto di storia, e diventa quindi necessario tentar di arrivare, non senza paragonarsie differenziarsi dalle attuali concezioni della storia, ad una concezione nuova dellastoria e delle supreme possibilità e speranze che essa reca con sé quando si parte dalpresupposto della risurrezione di Cristo dai morti. Bisogna dunque sviluppare, in con-trasto con altri concetti della storia, un intellectus fidei resurrectionis che permetta diparlare �cristianamente� di Dio, della storia e della natura». E ancora: «la risurrezionedi Cristo va dunque detta �storica�, non perché abbia avuto luogo nella storia [...], mava detta storica perché, indicando la via di futuri eventi, fa storia, storia nella qualepossiamo e dobbiamo vivere. È storica perché schiude un futuro escatologico» (ib.,185-186).

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Sappiamo benissimo come l�autenticità paolina di questa lettera siauna questione aperta degli studi neotestamentari62, tuttavia anche unapaternità legata non direttamente a Paolo, ma ad un suo segretario ocollaboratore non creerebbe un pregiudizio riguardo alla struttura ealla visione teologica della lettera stessa. Se, con la maggioranza degliesegeti la attribuiamo a Paolo, è possibile pensare che egli l�abbia scrittadurante la prigionia a Roma tra il 61 e il 63, verso la fine della sua vita.Pur in catene, Paolo non se la sente di abbandonare i fratelli nella fededi quelle giovani comunità chiamate a fare i conti con gli influssi dellagnosi giudeo-cristiana. Il forzato distacco e la vita da «prigioniero diCristo» (Ef 3,1), se da una parte lo sottraggono ad un impegno direttonei loro confronti, dall�altra gli donano una prospettiva nuova dallaquale guardare gli eventi. È più libero dall�incalzare delle situazioniconcrete, contingenti, dalla vicinanza dei singoli avvenimenti, e questogli permette uno sguardo dall�alto, di sintesi, di concentrazione sull�es-senziale. Può guardare non al singolo fatto, ma a tutto lo svolgersi dellavicenda salvifica63, riuscendo così a tratteggiarne le linee portanti.

In questa lettera Paolo rivolge uno sguardo contemplativo sul miste-ro dell�opera salvifica di Dio. Guarda al dipanarsi nella storia degli uo-mini del misterioso disegno che Dio ha pensato fin dall�eternità e loscopre come un grande disegno di riconciliazione e di pace che canta inEf 1,3-14. La contemplazione del mistero nascosto nei secoli, non è perPaolo, anche se isolato nella detenzione romana, un pensare ad essoastrattamente, fuori dalle domande e dalle tensioni della storia, è inve-ce uno sguardo che si posa, e penetra, l�esistenza concreta dei destina-tari della lettera.

Paolo invita i suoi lettori a guardare con attenzione la loro vita (cf Ef2), a prendere in mano la loro esperienza per vedere come, in concreto,il disegno di salvezza del Padre è entrato nelle loro vite, cosa ha opera-to, cosa ha cambiato. Sono la concreta situazione esistenziale di ogni

62 Nel suo commento H. SCHLIER, La lettera agli Efesini, Paideia, Brescia 19732, fauna rapida panoramica delle varie ipotesi e posizioni al riguardo per concludere che èmeglio, ovvio e conveniente, «accettare quei dati che la lettera stessa mette a nostradisposizione: essa è stata scritta dall�apostolo Paolo, e precisamente a cristiani o vo-gliam dire a comunità cristiane esistenti nell�ambito del viaggio di Tichico (Col 2,1;4,13)» (30).

63 CF H. SCHLIER, La lettera agli Efesini, cit., 31: «L�Apostolo si è avvicinato alla loroessenza e contempla questi avvenimenti e tutto lo svolgersi, fino al momento presente,della vicenda salvifica che ha fatto irruzione nel mondo [...] nella luce della vasta divinaeconomia di salvezza e come una parte di essa». Il �mistero�, come cardine intorno alquale ruota la lettera, è sottolineato da tutti gli studiosi, vedi ad es. G. ROSSÉ, Lettera aiColossesi. Lettera agli Efesini, Città Nuova, Roma 2001, 73: «La lettera agli Efesini hail merito di offrire ai lettori una sintesi teologica incentrata sul Mistero, il disegnod�amore di Dio che avvolge l�intera creazione».

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uomo e le domande irrisolte gridate verso il cielo dalla storia il puntoprivilegiato di osservazione del piano salvifico di Dio.

L�apostolo conserva nei suoi occhi la gioia per lo stupore di avertoccato con mano, nella Chiesa, la partecipazione di pagani ed ebreialla stessa realtà salvifica, alla stessa speranza; questa comunità di mon-di per la quale ha dato la vita, questo fatto inequivocabile, tangibile,che due popolazioni con storie e mentalità così diverse siano salvateinsieme e facciano tutte parte di un�unica chiesa è per lui il segno piùgrande nel mondo della bontà e della grazia divine64 e il germe dellarealizzazione del regno. Partendo da questo accadimento inaspettatodella storia umana, Paolo non ha timore ad affermare che l�effetto ulti-mo, riassuntivo, della risurrezione di Cristo, è riconciliazione, abbatti-mento dei muri, pacificazione, vicinanza, familiarità con Dio. Non cipossono essere dubbi: Paolo guarda al mistero di redenzione, al dise-gno pensato eternamente da Dio per il mondo e per l�uomo e ne vede lacifra sintetica nella pace.

Testo chiave di questa visione teologica sono i versetti 14-18 delsecondo capitolo della lettera, versetti nei quali M. Bouttier non esita aidentificare il nocciolo di tutta la lettera agli Efesini65 e che tenta dimostrare anche graficamente attraverso la seguente strutturazione con-centrica di Ef 2,11-2266:

(11) nella carne nello Spirito (22)per mano d�uomo tempio non più fatto da mano d�uomo (21)(12) senza Messia il Messia pietra angolare (20)privati del diritto di cittadinanza concittadinistranieri familiari di Diosenza Dio hanno accesso al Padre

Il Cristo nostra pace (14-18)

64 È la vocazione della comunità cristiana nel tempo: «la Chiesa è, in Cristo, inqualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell�intima unione con Dio edell�unità di tutto il genere umano» (LG 1).

65 Cf M. BOUTTIER, L�épître de saint Paul aux Éphésiens, Labor et Fides, Genève 1991,115. Anche per M. BARTH, Ephesians 1-3, Doubleday, New York 1974, 175, i versetti11-22 del capitolo 2, con al centro 14-18, sono «la chiave e il vertice di tutta la lettera».H. SCHLIER, La lettera agli Efesini, 188, designa questi versetti come «un inserto dinatura innica su Cristo, pace e portatore di pace». Su Ef 2,14-18 vedi anche L. RAMARO-SON, «�Le Christ, notre paix� (Ep 2,14-18)», in Science et Esprit 31 (1979) 373-382; A.GONZÁLEZ LAMADRID, «Ipse est pax nostra. Estudio exegético-teológico de Ef 2,14-18»,in EstB 28 (1969) 209-261; 29 (1970) 101-136; 227-266; E. TESTA, «Gesù pacificatoreuniversale. Inno liturgico della Chiesa Madre (Col 1,15-20 + Ef 14-16)», in LA 19(1969) 5-64. Sull�esegesi dei padri di Ef 2: L. CIGNELLI, «Il tema del �Cristo-pace�nell�esegesi patristica», in LA 33 (1983) 227-272.

66 Vedi M. BOUTTIER, L�épître de saint Paul aux Éphésiens, cit., 110.

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Da questo schema risalta benissimo come il centro intorno al qualeruota tutto il piano salvifico del Padre per noi sia l�opera di Cristo Pace.Cristo è egli stesso, nella sua persona e nella sua vicenda storica la no-stra pace, e non più semplicemente una pace puramente individuale edintima riguardante unicamente il nostro rapporto con il Padre67, mauna pace che alla riconciliazione verticale affianca il livello orizzontaleacquistando una forte valenza sociale e comunitaria. Con Gesù, nel suosangue, avviene qualcosa di nuovo nella storia dei popoli e il mistero diDio si rivela come un mistero di riconciliazione universale e di pace.

Potremmo dire che per Paolo la realizzazione storica dell�incontrotra pagani e giudei nella chiesa ha la forza di una rivelazione: fa cadereil velo che nascondeva agli uomini le intenzioni più profonde del pen-siero di Dio e lo manifesta come tensione verso una comunione dellediversità. La novità di questo approccio al tema della pace è sottolinea-ta anche da R. Penna in un articolo del 1978 nel quale, citando M.Barth, l�esegeta italiano mette in evidenza il forte afflato politico e so-ciale presente in questo scritto neotestamentario:

«in Ef il Vangelo non è esplicitamente chiamato la rivelazione della giusti-zia di Dio: esso è denominato il �Vangelo della pace� (6,15; cf 2,14.17). Sitratta perciò di un nuovo ordine sociale, chiamato �pace� in 2,13-17, cheviene stabilito da Gesù Cristo a vantaggio del cielo e della terra [...] L�ac-cento perciò è posto sul carattere sociale dell�opera di Dio, che sta in con-trasto con l�individualismo di un asserito Paolo esistenzialista. SecondoEfesini, invece di salvare le anime, Dio stabilisce la sua regalità sul cielo esulla terra, tra Israele e le Nazioni, nella Chiesa e contro i poteri del mon-do. La decantata pace dell�anima appare come un ridicolo mini-successo inconfronto alla pace e all�ordine portato nel mondo [...] Insomma, in Efappare una concezione politica, sociale, pubblica dell�intervento della gra-zia di Dio, per sostituire l�intento individuale, psicologico ed esistenzialistadelle altre lettere paoline»68.

Il disegno di ricapitolazione cosmica nel Cristo-capo (Ef 1,10), siriversa e si manifesta nella storia attraverso un operare la pace; in Luitutto ciò che è disperso, lontano e disgregato nell�esperienza umanatrova unità. Il piano dell�agire storico � che è in quanto tale un agirepolitico, sociale, terreno � è la rivelazione più intima e concreta delmisterioso disegno del Padre. Cosa ha operato Cristo nel mondo con ilsuo stile d�esistenza, con le sue parole, con i suoi gesti, con il suomodo di vivere le relazioni, con la sua morte e risurrezione? Egli hafatto la pace69. E questo è il mistero del regno di Dio. Vediamolo piùda vicino.

67 Cf Rm 5,1: «giustificati dalla fede, noi siamo in pace con Dio».68 M. BARTH, Ephesians, 44-45, citato in R. PENNA, «La proiezione dell�esperienza

comunitaria sul piano storico (Ef 2,11-22) e cosmico (Ef 1,20-23)», in RivBib 16 (1978)167.

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I versetti 14-18 del capitolo 2 di Ef sono come la concentrazionecristologica unificante di un movimento concentrico che ha in 2,11-13 ilricordo della condizione precedente di divisione, dove la condizionepassata degli etnico-cristiani è delineata da cinque proposizioni negati-ve, e in 19-22 il risultato ecclesiale di unità dell�intero processo. La pro-posizione participiale con la quale si apre il v. 14 contiene già il datocentrale dell�esposizione: «Egli infatti è la nostra pace». Abbiamo qui iltema e il senso della pericope � pace � e il soggetto che la opera noncome qualcosa di estrinseco, ma come rivelazione piena della sua identi-tà: aÙtÒj, Cristo Gesù. Questa identificazione di Cristo con la pace hacertamente una radice nelle tradizioni rabbiniche che, in dipendenza daIs 9,5, vedono nel Messia il Principe della pace70, ma è per me partico-larmente significativa in ordine allo svelamento del mistero del Padre,poiché Paolo qui dà il nome di �pace� a tutto l�operare salvifico di Cristo,operare che si manifesta nella storia e nell�esperienza dell�apostolo nel�fare di due uno� (cf 2,14b), nell�unificare due zone distinte, separate71.

Perché il Cristo-pace possa operare l�unità tra mondi distanti e chiu-si l�uno all�altro, sono prima di tutto necessarie alcune azioni negativeche distruggano ciò che si oppone alla riconciliazione: ha abbattuto iltramezzo, ha distrutto l�inimicizia, ha annullato la legge. Egli è la no-stra pace perché toglie ciò che separa, che divide e lo fa non dall�ester-no, ma pagando di persona, «per mezzo della sua carne» (2,15). Maqual è il muro che separa e che Gesù abbatte attraverso l�abolizionedella molteplicità dei precetti della Legge? Nel tempio erodiano, unmuro di pietra separava lo spazio dei pagani da quello dei giudei, maper cogliere tutta la profondità dell�affermazione di Paolo dobbiamonon accontentarci di questa risoluzione simbolica e guardare in modopluridimensionale l�immagine. Nella tradizione giudaica la Legge è lasiepe, il recinto che separa e protegge Israele72, ma si conosce anche unmuro che separa il mondo dal cielo. Schlier riassume così le tre dimen-sioni che per lui insistono sull�immagine del muro: la Torà come siepe(posta tra Giudei e gentili), la siepe del mondo o del cielo oppure ilmuro del mondo o del cielo posto tra la sfera di Dio e quella degli

69 Cf G. ROSSÉ, Lettera ai Colossesi. Lettera agli Efesini, cit., 105: «la parte centraledel trittico (vv. 14-18) proclama, con parole particolarmente dense e ricche, l�operaredi Cristo: Egli è la nostra pace».

70 Vedi le testimonianze raccolte e riportate da H. SCHLIER, La lettera agli Efesini,cit., 189, n. 15.

71 Cf ib., 190. Schlier fa notare come t¦ ¢mfÒtera sia un neutro e perciò induca apensare non ai giudei e ai gentili, ma a due sfere o due zone.

72 Ad esempio per la Lettera d�Aristea è Mosè che, per mezzo della Legge, circondaIsraele di mura perché così eviti il contatto con i popoli (cf A. PELLETIER, Lettre d�Aristéeà Philocrate, SC 89, Du Cerf, Paris 1962, 58).

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uomini, la Torà come siepe mondiale di tal fatta: ecco, per così dire, itre gradini della nostra immagine, di cui possiamo rilevare le tracce73.

Il muro di separazione, appare dunque racchiudere in sè i livellicosmico, mitico e storico, come rappresentazione di uno stato di sepa-razione, di incomunicabilità, di non comunione, che attraversa tuttal�esperienza. Il mondo si percepisce costretto in una frattura insanabile,quasi un cancro che non salva alcuna dimensione, né quella naturale,né quella spirituale, né quella umana; solamente nell�abbattimento del-la Legge da parte di Gesù giunge la notizia stupenda che questa fratturaè sanata, che ha inizio una nuova vita per l�umanità74. E questo avvienenon miticamente, ma �nella carne�, nella concretezza di una vita vissu-ta: tutta l�esistenza di Gesù può essere letta come un abbattimento dimuri, come un togliere dall�emarginazione, come la proposta di un agi-re alternativo � l�agire del Regno � teso a ridare speranza e diritto dicittadinanza a coloro che a livello sociale ed umano erano posti fuoridal gioco. Il suo agire abbatte i muri e costruisce la pace perché è diparte, non è neutrale, si mette incondizionatamente dalla parte dei vin-ti e degli esclusi della storia e fa sua la loro non-storia.

Cristo però non è la nostra pace unicamente per le sue azioni �di-struttive� e di abbattimento, esse sono solamente il presupposto dellasua azione propria, la quale non può che essere un�azione fortementepositiva e che Paolo presenta sotto due aspetti: creare l�uomo nuovo ericonciliare con Dio.

Per superare il mondo della frattura e della separazione c�è bisognoche Gesù, in se stesso, faccia dei due, giudei e pagani come segno del-l�intera umanità, un uomo kainÒj, assolutamente nuovo e che pongaquesto essere nuovo in una relazione rinnovata con Dio stesso pagandoquesta nuova creazione di persona sulla croce.

Ogni agire di pace trova qui il suo percorso più vero: una capacità diricreare umanità (un�umanità non ripiegata su di sè, ma aperta alla tra-scendenza) che parte sempre da se stessa, dall�assumere su di sé i con-flitti, le divisioni, le separazioni, da un sentirsi responsabili della storiarischiando in proprio. Punto di incontro, di costruzione di relazioninuove è nella storia il corpo crocifisso, poiché è impossibile pensare dicostruire pace se al centro non siamo capaci di mettere le sofferenze, lesconfitte, le ingiustizie, i drammi dell�altro che mi sta di fronte e che michiama alla pace.

73 Cf H. SCHLIER, La lettera agli Efesini, cit., 198.74 Cf ib., 200: «L�abbattimento della Legge per opera di Cristo non è soltanto un

fatto morale e, per così dire, �storico�, ma un avvenimento, se così si può dire, ontolo-gico e universale». Schlier conferma anche qui come il fatto storico dell�abolizionedella Legge e della comunione nella Chiesa di pagani e giudei sia qualcosa che sorpassala dimensione storica per diventare rivelazione di un mistero più grande.

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L�apice di tutto il brano si trova in 2,17 dove l�essere e l�agire diCristo sono riassunti nell�espressione eÙhggel�sato e�r»nhn75. In chemomento avviene questo annunzio di pace di Gesù? Le risposte degliesegeti non sono concordi e non escludono alcun momento della vita diGesù, dall�incarnazione, alla predicazione, alla risurrezione, all�ascen-sione, alla sua venuta nello Spirito. La soluzione che a me appare piùadeguata e completa è quella di pensare l�annuncio di pace di Gesùlungo tutto il percorso della sua vita terrena76. Anche negli Atti degliapostoli, all�inizio del discorso di Pietro nella casa di Cornelio, tutta lavicenda di Gesù è introdotta affermando che Dio, il quale non fa prefe-renza di persone, ha inviato ai suoi figli una parola per mezzo di GesùCristo, «recando la buona novella della pace» (At 10,36)77. Tutto il suostile d�esistenza trasuda pace, dalla scelta della debolezza e non dellapotenza alle parabole, ai rapporti con i pubblicani, i lebbrosi, le prosti-tute, i peccatori, dal suo farsi vicino alle persone, alle sue parole libe-ranti, piene di speranza e di consolazione, alla decisione di non tornareindietro neppure davanti alla minaccia di una morte cruenta semprepiù vicina. Nessuno di fronte a lui si sentiva escluso, tutti riacquistava-no dignità ed umanità, la sua vita è stata una vita �per�, per il Padre eper i fratelli, per questo è stata una vita di evangelizzazione della pace.

«Di ciò che era diviso, egli ha fatto unità»: questo è per Paolo, inEfesini, lo scopo e il senso più profondo dell�agire e della missione diGesù, un agire che apre al mistero di Dio e che può essere espressodicendo semplicemente che Egli ha vissuto �evangelizzando la pace�.L�essere pace, il fare pace, l�annunziare pace, possono dunque legitti-mamente venire assunti come la cifra sintetica di tutta l�opera salvificadel Cristo; il mistero del Padre che in Lui si svela è un mistero diriconciliazione e pacificazione universale che abbraccia tanto la di-mensione verticale quanto quella orizzontale. La sua Chiesa, che na-sce da questo mistero di pace, dovrebbe sempre esserne nella storia lasua visibilità (così come per Paolo lo era l�unione di giudei e pagani)rimanendo costantemente sottomessa all�«evangelo della pace» (Ef

75 Così commenta E. BEST, Efesini, Paideia, Brescia 2001, 322-323, la scelta di que-sto vocabolo: «Per dire che Cristo ha proclamato la pace, non si ferma a un vocabolosemplice, come khrÚssw, che indicherebbe senz�altro che Cristo ha annunciato la pace,e preferisce invece eÙhggel�zomai, che contiene in sé una valutazione dell�annuncioproclamato quale buona novella. Probabilmente l�autore ha mutato il verbo da Is 52,7,dove è connesso all�idea di pace».

76 Questa soluzione è sostenuta tra gli altri da Crisostomo, Mussner, Masson, Haupt,Rendtorff, Macpherson, Käsemann.

77 Il testo greco è ancora più vicino a Ef 2,17: eÙaggelizÒmenoj e�r»nhn. La nuovatraduzione CEI recita: «annunziando la pace», mentre, a me sembra più fedelmente,nella Nuovissima versione dai testi originali si trova «evangelizzando la pace».

Page 26: PERCORSI PER UNA NUOVA TEOLOGIA DELLA PACE · PDF fileRdT 44 (2003) 371-396 A. RUBERTI371 ANDREA RUBERTI PERCORSI PER UNA NUOVA TEOLOGIA DELLA PACE La teologia può anche essere nociva

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6,15)78 e mettendosi al suo servizio, nella continua ricerca dell�unità,della fraternità, della giustizia, dell�abbattimento di ogni muro, di ognibarriera, di ogni divisione.

Dopo aver prestato attenzione alle parole che l�apostolo delle gentiindirizzava ai cristiani di una comunità dell�Asia minore, la domandasul perché duemila anni di cristianesimo non sembrano riusciti a gene-rare civiltà non violente si fa ancora più drammatica e pressante e indu-ce a pensare ad un tradimento di fondo dell�idea di uomo, di comunitàe di storia per la quale è vissuto e ha dato la vita Gesù di Nazareth. Unarisposta seria ed approfondita richiederebbe di tener conto di moltifattori e sfumature seguendo il percorso del rapporto tra la speranzaescatologica e la contingente responsabilità storica. In queste pochepagine io ho cercato unicamente di lanciare un sasso, andando a tento-ni, per accenn; ho cercato di interrogarmi su ciò che per me sta allaradice di questo �fallimento� storico delle Chiese cristiane: l�incapacitàdi darsi dei principi ermeneutici �non-violenti�. Un pensiero di pace,anche un pensiero cristiano di pace, deve partire necessariamente dal-l�utilizzo di mezzi e di prospettive � in questo caso intellettuali, di ap-proccio al reale � che di per se stessi sono capaci di far crescere uominie donne di pace, nella convinzione gandhiana dell�omogeneità tra mez-zi e fine e della pace come unica via alla pace. I tre squarci sull�orizzon-te che, pur solamente con l�accenno di alcune pennellate, ho cercato didelineare, ci portano verso un pensiero aperto, amante delle differenzee dell�alterità, capace di uscire da sé per far propria la prospettiva dellevittime e di rendersi responsabile della storia. Solo tre piccoli, iniziali,passi su un cammino certamente non semplice che ci chiede non menodi un�autentica conversione culturale, spirituale ed etica79.

La pagina di Paolo agli efesini disegna anche per noi, cristiani delterzo millennio, la figura e la possibilità di un�autentica teologia a par-tire dalla pace.

78 R. COSTE, Théologie de la paix, cit., 118, riconosce che per l�autore di questaespressione, «la pace è al cuore del messaggio evangelico e ne costituisce una dellecaratteristiche essenziali. Hans Conzelmann l�ha visto molto bene, sottolineando che �ilcontenuto della salvezza può essere definito in tutto il Nuovo Testamento dalla pace�».

79 Sull�ineliminabile necessità di questa conversione in ordine ad un cammino dipace è utilissimo e stimolante leggere R. PANIKKAR, Pace e interculturalità, Jaca Book,Milano 2002 e ID., Pace e disarmo culturale, Rizzoli, Milano 2003.