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1 PEARL JAM – BACKSPACER (2009) ANTOLOGIA DI RECENSIONI Riccardo Bertoncelli http://delrock.it 17/09/2009 Questo disco è una carezza per chi crede (e come potrebbe essere altrimenti?) che i Pearl Jam siano la più bella band della loro generazione, i soli reduci grunge ad aver raggiunto vivi e forti la matura età. Un album di bella energia, intenso inquieto, che smentisce con i fatti certe dichiarazioni soft rilasciate da Vedder nelle settimane scorse, quando aveva detto basta alla musica politica e tessuto l'elogio di una tranquilla vita in famiglia. "A volte le canzoni sono come bambini, sono puri ma poi crescono e diventano difficili da controllare, ostinati e insolenti." Può essere andata così. I PJ sono entrati in studio con l'idea di un morbido disco da quarantenni e poi si son lasciati trascinare da quello che han trovato, dai germogli di idea lanciati da Vedder e dal produttore, il primo mentore Brendan O'Brien. Eddie V sembra confermare. "Backspacer non è nato come un progetto scientifico, piuttosto come un fiore che sboccia." Di solito diffido di O'Brien, produttore con un marchio forte che tende a prevalere e a omologare. Qui però è tutta un'altra storia, perchè la banda Vedder ha un segno altrettanto forte e quel che viene non è mai banale o prevedibile; i Pearl Jam sono puro mercurio, sfuggono alle facili sottolineature, alle delimitazioni, ai luoghi comuni, con una energia nervosa che scuote, avvince e sa proiettarsi nel passato rock anche prima, molto prima, del grunge, fino ai giorni di certa acidula new wave. Bel chiaroscuro chitarre/voce, il perno dell'album, più antipatiche certe convenzionali tastiere. I brani si chiamano Supersonic, Velocità del suono, Forza della natura, per rendere l'idea di elettrico dinamismo; ma se volete catturare dieci minuti di pura magia e brividi, lasciate quelle vie trafficate e prendete due "strade blu" come Just Breathe e The End. Lì, nell'intimità di un voce/chitarra appena screziato da altri suoni, l'Eddie Vedder più emozionante e nudo, e la migliore conferma di quel che dicevamo all'inizio sulla vita e longevità dei Pearl Jam. [4/5] Ernesto Assante http://www.repubblica.it 22/09/2009 Tornano i Pearl Jam, e non ci sono grandi novità da sottolineare. Il che, se posso permettermi, non è una cattiva notizia. Nel senso che i Pearl Jam sono ormai a tutti gli effetti una band di “classic rock” (sempre che la definizione sia comprensibile e abbia senso alle vostre orecchie) e nel genere le variazioni non solo sono inutili ma sono addirittura prive di significato, anzi, controproducenti. Attenzione, però, perchè il Pearl Jam non sono certamente una band di maniera, che sfugge al contatto con la realtà, che non si immerge nelle cose del mondo, anzi questo continuo contatto che la formazione americana ha con la realtà e il mondo è il fuoco che tiene vivo il motore della band e che consente al gruppo di produrre dischi come questo nuovissimo “Backspacer”. 11 brani, 37 minuti in tutto, senza fronzoli o “riempitivi”, un lavoro compatto, essenziale, che mette insieme il lato più fragile e personale di Eddie Vedder e l’elettricità tesa della band, in un insieme che risulta estremamente vario e affascinante, brani acustici che sembrano uscire da “In to the wild” e canzoni in perfetto stile Seattle. Produce Brendan Benson, levigando dove serve il suono rude del gruppo. Il disco è bello e conferma che i Pearl Jam sono tra i pochi gruppi che in America sa ancora cosa sia il rock. John Vignola http://www.ilmucchio.it Sempre riconoscibili, i Pearl Jam: fin dalle prime note di Amongst The Waves, che Eddie Vedder affronta di petto, per poi lanciarsi nel consueto coagulo elettrico ad alto voltaggio che caratterizza

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PEARL JAM – BACKSPACER (2009) ANTOLOGIA DI RECENSIONI Riccardo Bertoncelli http://delrock.it 17/09/2009 Questo disco è una carezza per chi crede (e come potrebbe essere altrimenti?) che i Pearl Jam siano la più bella band della loro generazione, i soli reduci grunge ad aver raggiunto vivi e forti la matura età. Un album di bella energia, intenso inquieto, che smentisce con i fatti certe dichiarazioni soft rilasciate da Vedder nelle settimane scorse, quando aveva detto basta alla musica politica e tessuto l'elogio di una tranquilla vita in famiglia. "A volte le canzoni sono come bambini, sono puri ma poi crescono e diventano difficili da controllare, ostinati e insolenti." Può essere andata così. I PJ sono entrati in studio con l'idea di un morbido disco da quarantenni e poi si son lasciati trascinare da quello che han trovato, dai germogli di idea lanciati da Vedder e dal produttore, il primo mentore Brendan O'Brien. Eddie V sembra confermare. "Backspacer non è nato come un progetto scientifico, piuttosto come un fiore che sboccia." Di solito diffido di O'Brien, produttore con un marchio forte che tende a prevalere e a omologare. Qui però è tutta un'altra storia, perchè la banda Vedder ha un segno altrettanto forte e quel che viene non è mai banale o prevedibile; i Pearl Jam sono puro mercurio, sfuggono alle facili sottolineature, alle delimitazioni, ai luoghi comuni, con una energia nervosa che scuote, avvince e sa proiettarsi nel passato rock anche prima, molto prima, del grunge, fino ai giorni di certa acidula new wave. Bel chiaroscuro chitarre/voce, il perno dell'album, più antipatiche certe convenzionali tastiere. I brani si chiamano Supersonic, Velocità del suono, Forza della natura, per rendere l'idea di elettrico dinamismo; ma se volete catturare dieci minuti di pura magia e brividi, lasciate quelle vie trafficate e prendete due "strade blu" come Just Breathe e The End. Lì, nell'intimità di un voce/chitarra appena screziato da altri suoni, l'Eddie Vedder più emozionante e nudo, e la migliore conferma di quel che dicevamo all'inizio sulla vita e longevità dei Pearl Jam. [4/5] Ernesto Assante http://www.repubblica.it 22/09/2009 Tornano i Pearl Jam, e non ci sono grandi novità da sottolineare. Il che, se posso permettermi, non è una cattiva notizia. Nel senso che i Pearl Jam sono ormai a tutti gli effetti una band di “classic rock” (sempre che la definizione sia comprensibile e abbia senso alle vostre orecchie) e nel genere le variazioni non solo sono inutili ma sono addirittura prive di significato, anzi, controproducenti. Attenzione, però, perchè il Pearl Jam non sono certamente una band di maniera, che sfugge al contatto con la realtà, che non si immerge nelle cose del mondo, anzi questo continuo contatto che la formazione americana ha con la realtà e il mondo è il fuoco che tiene vivo il motore della band e che consente al gruppo di produrre dischi come questo nuovissimo “Backspacer”. 11 brani, 37 minuti in tutto, senza fronzoli o “riempitivi”, un lavoro compatto, essenziale, che mette insieme il lato più fragile e personale di Eddie Vedder e l’elettricità tesa della band, in un insieme che risulta estremamente vario e affascinante, brani acustici che sembrano uscire da “In to the wild” e canzoni in perfetto stile Seattle. Produce Brendan Benson, levigando dove serve il suono rude del gruppo. Il disco è bello e conferma che i Pearl Jam sono tra i pochi gruppi che in America sa ancora cosa sia il rock. John Vignola http://www.ilmucchio.it Sempre riconoscibili, i Pearl Jam: fin dalle prime note di Amongst The Waves, che Eddie Vedder affronta di petto, per poi lanciarsi nel consueto coagulo elettrico ad alto voltaggio che caratterizza

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una buona metà di Bakcspacer. Addio alla Sony, bentornato a Brendan O’Brien, coinvolto anche nella ristampa ad alta definizione di Ten, esordio mai dimenticato. Le energie vengono spese quasi subito, per esempio nella trascinante Gonna See My Friends, che replica all’infinito il modulo del rock-and-roll contemporaneo. I Pearl Jam, del resto, questo sono: un incrocio pesante e pensante fra le origini, il punk e quanto ha capovolto l’idea di hard nei Novanta. Un suono da strada principale e non secondaria, comunque, dove nella maggior parte dei casi è la velocità a dettare legge: lo dimostrano il sussiego di Got Some, tanto per fare un esempio, oppure il martello percussivo di Force Of Nature che avanza all’unisono con le chitarre. Che poi in tutto questo siano le melodie (da quelle di Johnny Guitar alle armonie country-pop di Speed Of Sound, fino alla canzone più rotonda, una The End toccante senza retorica) a dettare legge non deve né può stupire: anche alle origini i Pearl Jam le hanno curate, pur nello stravolgimento strategico dei canoni. Ora che sono pure loro un canone, come affrontare questo ennesimo disco? Da fan, con sicura devozione; da critico - e scusate l’espressione, ma questo si cerca di essere, ogni tanto - con l’apprezzamento per la tenuta del lavoro nel suo complesso, di molte delle singole tracce, e con una discreta perplessità da comunicare. Nella loro intransigenza Vedder e soci raccontano storie direttamente al cuore di chi li segue: i riferimenti sono sempre più inestricabilmente interni e le rotte sonore rimangono, necessariamente, limitate. Questo non riduce, ovviamente, molte delle emozioni del disco, che riesce ad avvicinarsi a quanto di meglio la band di Seattle abbia fatto negli ultimi quindici anni: semplicemente, non lascia margini allo stupore, sentimento importante per riuscire a volare davvero. [3/5] Marco Denti Il Buscadero 09/2009 La ristampa di Ten e l’enorme successo che ha riscosso sembrano aver influito non poco sulla natura di Backspacer. I Pearl Jam devono essersi accorti, come del resto mezzo mondo, che, piaccia o meno, ormai sono dei classici e in quanto tali più vicini agli Who che ai Black Flag. Ciò vuol dire, più di tutto, che sono durati nel tempo, un traguardo raggiunto con una formazione integra nella sua identità (con Matt Cameron ormai protagonista alla batteria) e soprattutto nei propri ideali (anche Backspacer è frutto di una lunga battaglia che ha portato i Pearl Jam all’indipendenza discografica) perseguiti con una coerenza più unica che rara. Una resistenza umana e artistica che comporta anche l’assestarsi sulle proprie posizioni, se non proprio il ripetersi, ma ripetersi a questi livelli ha tutt’altro che un’accezione negativa, anzi. Vuol dire reggere le pressioni, le tentazioni, le incognite e rimanere fedeli prima di tutto a se stessi, visto che per essere dei classici serve una storia e quella dei Pearl Jam è lì da vedere. Per cui Backspacer fugge il disordine sperimentale dei dischi più spigolosi (No Code su tutti) e anche le giuste asperità di Riot Act e si rivolge ad un sound più lineare, diretto e molto attento allo sviluppo delle canzoni (e alla bellissima voce di Eddie Vedder, sempre in risalto). Con questo, i Pearl Jam non hanno tirato il freno a mano perché a parte due canzoni essenzialmente acustiche (la splendida Just Breathe e The End), Backspacer è il disco di una rock’n’roll band e delle sue chitarre (elettriche) che vengono modulate nei crescendo di Unthought Known e di Amongst The Waves, nei riff di Got Some, di The Fixer e di Gonna See My Friend. Il lavoro di Brendan O’Brien, a parte qualche minimo ritocco strumentale, sembra sia stato quello di mettere i Pearl Jam nelle condizioni migliori e infatti il suono di Backspacer è molto “live”, energico e compatto e lo rende un disco solido e immediato che già al primo ascolto dispiega con convinzione una linea, che è poi sempre quella dei Pearl Jam. Forse per comprensibilissime ragioni chimiche, Brendan O’Brien ha riportato nella classicità dei Pearl Jam anche qualcosa di quella springsteeniana, che nella sua migliore versione si traduce in un rock’n’roll sfrenato (Supersonic) e in quella meno ispirata nell’unica canzone di Backspacer (Force Of Nature) che confonde il classico con lo standard e sfiora le logiche e i suoni del maistream. Comunque sia, sempre a distanza da sicurezza dei dischi inventati da sei produttori, quaranta tecnici del suono e

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creati sul nulla per il nulla: Backspacer è il presente di una rock’n’roll band che, a vent’anni dagli esordi, è ancora una solida realtà. Potrà sembrare anche un disco “normale”, ma se si guarda agli annali del rock’n’roll si capisce che è parte di una storia speciale. Dei gruppi che esordirono negli anni Sessanta, sono rimasti soltanto i più grandi, i Rolling Stones (e metà degli Who). Dei debuttanti negli anni Settanta sono rimasti mille veterani, altrettanti necrologi e Bruce. Di tutti gli anni Ottanta sono rimasti i R.E.M. (con grande dignità) e gli U2 (non senza qualche fatica). Degli anni Novanta, i Pearl Jam. Magari manca qualche nome, ma non sono molti quelli che, fermo restando le dimensioni e le condizioni, possono ancora fare un disco come Backspacer. [4/5] Giulio Brusati http://xl.repubblica.it 15/09/2009 Se la coerenza è una virtù, nessun’altra band suona così fedele ai suoi ideali (e alle sue contraddizioni). Non è difficile capire perché The Real Me degli Who sia una delle canzoni che i Pearl Jam amano reintepretare. Quel ritornello - «Riuscite a vedere il vero me stesso, chi sono io veramente?» - sembra cucito addosso a una band che da sempre lotta per "keep it real", restare con i piedi per terra e mantenere una dimensione umana, reale, lontana da quella finta delle rockstar. In quasi vent'anni di carriera, hanno sempre difeso coi denti i loro ideali. Nel 1994 hanno fatto causa (perdendola) a Ticketmaster, la potente corporation che regola la vendita dei biglietti dei concerti. Dal Binaural Tour del 2000 in poi hanno deciso di offrire ai fan dei "bootleg ufficiali" per combattere chi speculava sulle registrazioni dei concerti. Da sempre lottano per imporre le proprie idee, anche se possono sembrare «suicidi commerciali». Ora, liberi dal contratto con le etichette Epic e J della Sony, hanno deciso di scegliersi i partner coi quali distribuire negli Usa il nuovo album Backspacer (come la Target, una catena di supermercati), lasciando il compito, in Europa, alla Universal. È il paradosso di un gruppo che vende milioni di dischi ma considera l'usuale macchina promozionale (clip, ospitate in radio e in tv) come l'espressione della maligna "Corporate America". Ed è la stessa contraddizione incarnata da Eddie Vedder, un miliardario che veste camicie di flanella, t-shirt di sconosciuti gruppi punk, jeans slavati e scarpe da montanaro. Più vero lui o Madonna firmata Dior e Jean-Paul Gaultier? Più coerente Vedder o "Santo" Bono che, per sfuggire al fisco irlandese, nasconde i soldi degli U2 in Olanda? A questa continua ricerca di integrità contribuisce ora Backspacer, un album immediato, a quanto pare registrato di fretta, alla "buona la prima", con un'urgenza e una concisione (neanche 37 minuti di durata) che ribadiscono uno dei cardini del Vedder-pensiero: i dischi sono solo una scusa per andare in tour e suonare dal vivo. Nell'epoca dell'iPhone e del multi-touch, il titolo di questo nono album registrato in studio fa riferimento al "backspace", il tasto di ritorno che nelle vecchie macchine per scrivere riportava indietro il carrello, senza cancellare alcun carattere, come avviene oggi con il computer. Anche il lettering rimanda a quei tasti obsoleti su cui Vedder batte ancora, per comporre i testi delle canzoni ma pure per scrivere lettere private. La grafica è opera di un fumettista molto apprezzato negli ambienti radicali americani, un amico di Vedder, Tom Tomorrow (nome d'arte di Dan Perkins), che ha diviso la copertina in nove quadri surreali e onirici (ovvio: l'effetto è maggiore nell'edizione in vinile). Come concetto, Backspacer è anche una buona metafora per la ricerca dei tempi andati, magari quelli di Ten, il disco d'esordio, composto e inciso nel '91, quando la fama mondiale non aveva ancora travolto la band di Seattle. E non è un caso che la produzione sia stata affidata a Brendan O'Brien che aveva lavorato con loro dal primo album fino a Yield nel '98. La sua mano - le parti di pianoforte e tastiere, le orchestrazioni - si avverte nitida nei brani più rock (Gonna See My Friend, Got Some), meno intrusiva e - diranno i detrattori - più confusa in quelli simil-pop (The Fixer, Speed Of Sound), comunque brillante nelle ballate dominate da chitarre acustiche e archi (Just Breathe, The End).

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I brani più emozionati di Backspacer sono influenzati, e non poteva essere altrimenti, dalla colonna sonora di Into The Wild che ha fatto vincere a Vedder un Golden Globe, oltre ad essere stata nominata ai Grammy Awards. La ballata Just Breathe è nata sviluppando un brano strumentale di quella soundtrack. Unthought Known, Speed Of Sound e The End sono state eseguite con voce/chitarra acustica in diversi concerti di Eddie da solo, nell'ultimo anno o giù di lì. Nelle versioni registrate dalla band al completo acquistano quel senso di movimento e quelle dinamiche che mancano ai brani di Into The Wild. Sembra che Vedder & compagni abbiano voluto soffiare la vita in brani immobili come il paesaggio innevato dell'ultima parte del film di Sean Penn. D'altra parte, avendo provato le nuove canzoni per diverso tempo prima di entrare in studio di registrazione (ad Atlanta ma soprattutto a Los Angeles, lontano dal "nido" di Seattle), si avverte la rapidità delle esecuzioni e la confidenza con il materiale. L'uno-due iniziale di Gonna See My Friend e Got Some mette al tappeto e dà il tono all'intero album. Tono che si addolcisce con The Fixer, il singolo pop che non ti aspetti. L'uso smodato di «yeah yeah yeah yeah» (uno in più dei Beatles di She Loves You) viene controbilanciato dalle chitarre elettriche di Stone Gossard e Mike McCready, abili a districarsi con arpeggi e accordi. In mano a un produttore pop vero e proprio, però, una gemma del genere sarebbe diventata la Losing My Religion dei Pearl Jam. Meglio il rock epico di Johnny Guitar (curioso il riferimento a un film western anni Cinquanta) e il romanticismo di Just Breathe (ma è davvero una canzone d'amore questa che si chiude con «ci vediamo dall'altra parte»?). Amongst The Waves celebra il mare («Andiamo a nuotare, stanotte, amor mio/ tu ed io/ e nient'altro/ tra le onde»); Supersonic (non c'entrano gli Oasis) guarda al punk di New York anni Settanta, con un uso più drammatico dello «yeah»; mentre Force Of Nature riprende il rock viscerale semi-grunge di Neil Young metà anni Novanta. Il vertice di Backspacer è The End, il brano di chiusura. Siamo lontani dalla fine del primo disco dei Doors (nessun incesto né parricidio, qui) quanto dall'ultimo brano che i Beatles hanno inciso insieme e che sigilla la suite di Abbey Road. Se avete qualche dubbio sull'autenticità dei sentimenti di Eddie, non avete che da ascoltare questa grande canzone americana che si inserisce di diritto nella tradizione che va da Hank Williams a Bruce Springsteen, passando per Johnny Cash e Neil Young. Non importa se Vedder canti del suo divorzio o di chissà quale altra separazione; parla un linguaggio universale, e questo basta. «Che ne è dei sogni che abbiamo condiviso anni fa?/ Che ne è dei piani che avevamo ideato?/ Sono solo un essere umano/ Aiutami a vedere me stesso/ perché non distinguo più le cose/ guardando in su, dal fondo di un pozzo/ È l'inferno, io grido ma nessuno mi sente/ Prima che sparisca, sussurrami all'orecchio/ dammi qualcosa che echeggi nel mio futuro incerto/ La fine si avvicina/ io sono qui/ ma non per molto ancora». Massimo Cotto Max Settembre 2009 La prova del nove. I Pearl Jam si presentano al difficile esercizio del nono album con una nuova etichetta e un vecchio produttore che con loro ha scritto pagine d’eccellenza: Brendan O’Brien, da cui avevano separato le strade dopo Yield, 11 anni fa. «Ha portato un approccio diverso alla musica, ma anche noi siamo diversi, stavolta pronti ad ascoltarlo se suggerisce un cambio di direzione». Merito di Springsteen ammette Eddie Vedder. «Se Brendan può permettersi di dire al Boss che una canzone gli piace, ma che forse sarebbe meglio tentare una chiave diversa e Bruce è disposto a seguirlo, allora possiamo farlo anche noi». Beh, a giudicare dalle ultime canzoni di Springsteen, non ne sarei tanto sicuro. Backspacer ha un titolo al tritolo (e anche un po’ alla Michael Stipe, ma tutto è molto più semplice di quel che sembra: Backspacer è il nome di una tartaruga marina che la band ha adottato e la cui specie si cerca di preservare) e una serie di correnti che cambiano il vento sulla strada maestra: un po’ di pop in più, per cominciare. Meno dannazioni, meno grunge, meno politica e più rock a tutto tondo. Registrato in due settimane

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a Los Angeles («ci ha fatto bene allontanarci da casa e da quella che chiamiamo la comfort zone»), missato ad Atlanta, in Georgia, il nuovo Pearl Jam è un vaso a due manici: per valutarlo dipende quale impugni. Ma poco importa: Eddie Vedder è tornato dal suo viaggio into the wild e questo fa bene al cuore. Vecchio amico che ha storie da raccontare, per chi vuole ascoltare. Federico Zamboni Secolo d'Italia 27 settembre 2009 La giovinezza se n’è andata anche per i Pearl Jam. Ma non è solo una questione anagrafica: è un fatto esistenziale. Se esci vivo dall’adolescenza (vivo: non semplicemente sopravvissuto) è più che probabile che qualche tipo di equilibrio sia arrivato a prendere il posto della rabbia e dell’inquietudine. La rabbia che ti accendeva. L’inquietudine che ti consumava. Le emozioni così forti, così incontrollabili, da essere sempre lì lì per ritorcersi su se stesse e diventare autodistruttive. I Pearl Jam, e in particolare il loro “cantautore” Eddie Vedder, ne avevano accumulata una riserva smisurata. Un’immensa distesa d’acqua profonda e oscura, di cui non si vedevano i limiti e di cui non si poteva sapere con esattezza fino a quali abissi si spingesse. Si osservavano le onde e si facevano ipotesi. E non era certo il caso di sottovalutare quelle che apparivano più lievi. Seattle è città di nuvole e di pioggia: il cielo sgombro è solo una pausa – o un prologo. Il grunge è terra (e mappa) di domande e di insofferenza: una canzone accattivante è solo una piccola radura che si apre tra le rocce e ti sorprende – ma che non ti deve illudere. Seattle ha l’oceano davanti e le montagne alle spalle. Forze che aleggiano anche quando non ci si pensa. Non siamo noi a comandarle. Non comandiamo quasi nulla, in effetti. Ma c’è un’alternativa al comando: la comprensione. La capacità di dedicarsi alle cose, e alle persone, e a noi stessi, senza pretendere di controllare tutto e di asservire tutto ai nostri desideri. «In questi anni – ha dichiarato recentemente Vedder, in una bella intervista realizzata da Giuseppe Videtti e pubblicata su Repubblica – ho capito che la vita è preziosa. Non voglio più perdere d'occhio il privilegio che mi deriva dalla mia esperienza di rocker e la magnificenza di quel che ci circonda, la bellezza di una conchiglia che trovi nella sabbia, di una nuvola che si forma nel cielo, delle gocce di pioggia che si rincorrono in una pozzanghera. Siamo così tormentati dalle cattive notizie, strangolati da mille paure che non riusciamo più a vedere le meraviglie che il pianeta ci regala.» Backspacer, il nuovo album che arriva a tre anni dal precedente Pearl Jam (altrimenti noto come Avocado, per l’immagine del frutto che campeggiava in copertina), è questo sguardo ripulito e fiducioso che si alza sul mondo e si apre alla speranza. Quello che non hai capito oggi potresti capirlo domani, o tra un attimo. O chissà quando; mentre nel frattempo, però, innumerevoli altre domande e risposte ti avranno attraversato, e riempito, la vita. “Resta con me e respira soltanto”, dice/consiglia/supplica la splendida Just Breathe che trasforma in una grande canzone un brano solo strumentale contenuto della colonna sonora, composta dallo stesso Vedder, dell’altrettanto grande Into the Wild. Backspacer corre via veloce, anche troppo. Appena 37 minuti di durata complessiva, che si snodano all’insegna dell’immediatezza e del desiderio di lasciare da parte tutto ciò che tardava a prendere forma. Si sa come va a finire: più ci pensi su e più ti chiedi se è giusto. Più te lo chiedi e meno lo capisci. Come ha scritto Stephen King (che la sa lunga e, bontà sua, ce l’ha svelata nell’imperdibile On Writing) “Ricordate che la regola fondamentale del vocabolario è: usate la prima parola che vi viene in mente, se è appropriata e colorita. Se esitate e vi mettete a riflettere, vi verrà in mente un’altra parola, è ovvio, perché c'è sempre un’altra parola, ma probabilmente non sarà buona come la prima o altrettanto significativa.” I Pearl Jam di Backspacer sottoscriverebbero di slancio. «Nessuna di queste canzoni – spiega ancora Vedder – è diventata un compito a casa. Quelle che lo erano non sono finite nel disco». «Se una canzone o una traccia non si sviluppava nel modo giusto – aggiunge Stone Gossard, chitarrista e fondatore – allora ci dicevamo “sbarazziamocene”. Abbiamo lavorato nel modo giusto su questi pezzi, sono freschi e up-tempo e senza troppi ripensamenti.»

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Loro erano determinati. Brendan O’Brien, il produttore che torna al loro fianco a undici anni da Yield, li ha aiutati a non deviare dalle buone intenzioni. O’Brien, che da allora ad oggi ha curato molti altri artisti e in particolare Bruce Springsteen (con risultati ottimi in The Rising e via via meno convincenti in Magic e in Working On A Dream), si è dimostrato all’altezza del compito: se quello che si desiderava era una maggiore freschezza, che potesse avvicinare ai Pearl Jam anche una parte di quelli che non li hanno seguiti finora, l’obiettivo è stato senz’altro raggiunto. Backspacer non si arruffiana nessuno, ma allo stesso tempo non tiene nessuno a distanza. Nei brani più veloci è sempre godibile e spesso trascinante: la vecchia e ben nota passione per il rock elettrico e scandito, che abbraccia il grande repertorio degli anni Settanta e dei primi Ottanta e che ha due stelle fisse negli Who e nei Ramones, emerge più viva e riconoscibile che mai. A non sapere che l’album è appena uscito la sua collocazione temporale resterebbe un enigma. Per limitarsi a una sola citazione, l’apertura di Gonna See My Friend, definita da Billboard “una furiosa esplosione garage alla Stooges”, è molto più dalle parti dell’hard rock che non del metal. Quanto ai brani lenti, va da sé, la seduzione è ancora più facile, essendo meno legata ai codici di partenza, e di appartenenza: non c’è bisogno di amare i Metallica per lasciarsi catturare da Nothing Else Matters; non c’è bisogno di amare i Pearl Jam per cedere al fascino della succitata Just Breathe e della conclusiva The End: basta il loro incedere limpido e commovente, con quella semplicità di arrangiamento che evoca la confessione tra amanti, o tra amici veri, e che fa bene al cuore. Backspacer non è un capolavoro assoluto – come ha sottolineato John Vignola sul Mucchio, “non lascia margini allo stupore, sentimento importante per volare davvero” – ma è un album come dovrebbero uscirne assai di più di quanto accada. Una manciata di perle (non una “marmellata”, come recita il nome del gruppo) che rotolano con leggerezza dalle mani dei musicisti e si spandono tutt’intorno. Bello vederle saltellare, o scivolare fino a fermarsi. Bello raccoglierle tutte insieme e rovesciarle daccapo. Luigi Ferraro http://www.freakout-online.com 30/09/2009 In realtà non dovrei recensire i Pearl Jam. Troppi ricordi, troppo di parte,. Perchè lo faccio? Il fan è il miglior critico, se mosso da coerenza. Coerenza che i Pearl Jam non hanno abbandonato, e lo confermano con Backspacer: ciao ciao major (in Europa è solo distribuito dalla Universal, negli USA hanno raggiunto degli accordi commerciali con etichette indipendenti) e ritorno alle sonorità classic-rock con l'ausilio dello storico produttore Brendan 'O Brien (da Yield, annus 1998). Trentasette minuti di musica intensa, rabbiosa e punkeggiante, come in Supersonic (scheggia impazzita) e Gonna See My Friends (opening-track con riff alla Sex Pistols e sviluppo aggressivo), struggente (Just Breathe, ballatona post Into The Wild), pop nella forma (il singolo The Fixer), grunge nell'anima (Amongst The Waves, classico mid-tempo), consolatoria, sognante (Unthought Known, uno dei più belli), definitiva (The End, che non è un addio, speriamo). L'artwork dell'album, notevole, è affidato ai disegni surreali e coloratissimi dell'artista americano Tom Tomorrow, le tematiche di Backspacer (tasto della macchina da scrivere, che Vedder usa ancora per i suoi testi) si allontanano dalla querelle politica contro Bush e il sistema americano, e zoomano sui sogni, le paure, le fragilità. Certo è un Vedder ritemprato dal un nuovo amore e un figlio, e si sente. Le prime recensioni si spaccano a metà: chi li critica, accusa Vedder & co., di non evolversi, di insistere sugli stessi “trucchi del mestiere”. Beh!, Pearl Jam hanno alle spalle una carriera ventennale (come dimostra l'edizione speciale di Ten), fatta di album capolavoro (Ten, Versus, Vitalogy), spiazzanti (No Code), rock'and roll (Yield), cupi (Riot Act, Pearl Jam), ma in fin dei conti, chi ha chiesto loro di cambiare?

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Tiziano Toniutti Kataweb musica 09/2009 Non è un mistero che i fan di quella che è indubitabilmente la migliore live band del mondo fossero rimasti un po' delusi dalle ultime prove in studio. Ma i Pearl Jam sono come un'onda dell'oceano, che arriva al picco e poi si abbassa fino a riva, per poi risalire a sorpresa e portare chi la cavalca verso altezze inattese. Succede proprio così con Backspacer, nono album della band, successore del 'self-titled' con l'avogado in copertina, che a onore del vero conteneva almeno cinque ottime canzoni. Ma quello che cercano i fan in un disco della band di Seattle è altro: è l'innocenza di Ten, il realismo di Versus e i demoni di Vitalogy, e Backspacer da questi tre album mutua un po' del suo Dna, senza dimenticare la scintilla di Yield. Ma la realtà è che Backspacer è un album che riesce a restituire alla band la capacità di creare il suono del tempo presente. E se il tempo presente ha bisogno di rock, quello che non si sentiva da un po', tanto classico quanto necessario, arrivano i Pearl Jam con il singolo riparatore The Fixer, una meravigliosa mazzata nel ventre molle delle scalette radiofoniche di oggi. Impossibile non urlare gli Yeah-yeah di Vedder chiusi in macchina, nel traffico, immobili. Backspacer è pieno di impulsi adrenalinici, come Got Some, un rocker d'altri tempi in cui il basso e la scrittura di Jeff Ament si fanno sentire, e Vedder che ulula "Se ti serve, ne ho un po', prendilo prima che finisca". L'apertura di Going to see my friends è spiazzante, rauca e livida, con un testo che invece è d'apertura. Con un drumming alla Keith Moon e chitarre alla Townshend, ma Vedder che urla livore come mai gli Who hanno fatto, Gonna See my friends è una perfetta apertura per i nuovi concerti. La bile comunque si stempera più avanti in Supersonic, puro, ironico e divertito rolling rock che piacerebbe a Bob Mould. Anche nei brani in apparenza minori come Johnny Guitar c'è un eccellente lavoro ritmico che apparentemente intrappola la furia della band ma in realtà la veicola, trasformandola in un'opportunità per raccontare una storia. Anche una storia personale come in Amongst the Waves, che qualcuno potrebbe definire l'ideale seguito di Alive, e che però sembra rimandare ai momenti più limpidi di Yield come Given to Fly, di cui il brano mantiene il respiro non risparmiandosi un po' di malinconia. Le ballate di Backspacer riportano invece alla colonna sonora di Into the Wild, curata da Vedder in solitaria contemplazione. Ma una linea più profonda le unisce alle tracce più interiori di Riot Act. E così per una Just Breathe che prende il meglio dalle ispirazioni delle terre selvagge, c'è una incantevole Speed of sound che dei Coldplay non ha niente e che invece fiorisce sulle spine di Thumbing My way e All or None. Sull'album il brano compare in una versione più strutturata rispetto al demo voce+chitarra in giro sul web da un po'. Alla fine del disco c'è The End, uno dei momenti più alti della scrittura della band, un tesoro in fondo al lago che mette insieme i Beatles e Victoria Williams a cui Vedder e soci hanno storicamente reso omaggi sinceri. E poi ci sono le perle. Quali siano in un album i brani da pelle d'oca è sempre a discrezione di ogni ascoltatore, ma è facile individuare in Backspacer quei pezzi indiscutibili che riporteranno la band nel cuore di chi l'aveva persa. E si chiamano Unthought Known e Force of nature. La prima è una canzone d'amore infinito e universale che richiama Love Boat Captain, ma la trasforma in una scheggia di bellezza pop che dal vivo farà venire i brividi e alzare i cori. La seconda una battaglia epica in cui ancora una volta l'amore è protagonista e luce salvifica, con gli interrogativi che diventano certezze e unico percorso possibile da seguire. Backspacer è il disco che nessuno si aspettava dai Pearl Jam, visti ormai come rock band di mezza età che fa album con l'unico scopo di suonarli dal vivo. E invece si rivela un lavoro eccellente, incardinato sui tormenti dell'anima e della carne e sui sistemi per conviverci e magari renderli parte viva e necessaria di sé stessi.

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Simone Coacci http://www.ondarock.it 21/09/2009 I Pearl Jam sono un gruppo vecchio. Anzi, per vecchi. Come direbbe Cormac McCarthy. Vecchi ragazzi (degli anni 90), s'intende. Ma pur sempre invecchiati. E mica tanto bene. Neppure male. Così così, diciamo. Anche per questo, oltre che per un fisiologico calo dell'ispirazione dopo quasi vent'anni di militanza, i loro ultimi lavori palesano uno standard abbastanza immobilistico, manierato, conservatore. Perché hanno principalmente due motivi d'essere: ospitare i vecchi fan alloggiandoli in sonorità datate e rassicuranti e immettere nuovo carburante da incendiare nel motore inesausto delle loro tournée mondiali, dimensione nella quale il gruppo riesce ancora a dare il meglio di se, giustificando nel tempo la propria costanza e linearità. "Backspacer", infatti, denota una certa continuità rispetto all'approccio teso, ruvido e diretto del predecessore (l'omonimo con l'avocado in copertina) ma, smaltita per loro stessa ammissione la sbornia d'indignazione civile contro l'amministrazione Bush, i toni si fanno meno accesi e vibranti, le gradazioni più soft, l'umore generale più disteso ed edonista. Rock classico con qualche escrudescenza punk, qualche anabolizzazione hard, la solita innata predisposizione al pathos e alla melodia, qualche episodio cantautorale, questo suonano i Pearl Jam ormai da tanto, troppo tempo. E così suona anche "Backspacer" che ha di apprezzabile i pochi fronzoli del formato (dall'altro lato del vetro insonorizzato torna Brendan O'Brien), la velocità d'esecuzione, l'entusiasmo forse un po' ingenuo ma genuino di Vedder & soci, ma che, al di là del grande mestiere e di qualche scampolo d'innegabile pregio, fa decisamente rimpiangere sia il sopracitato "Pearl Jam" (2006), un album che non ha messo d'accordo pubblico e critica sebbene, a insindacabile giudizio di chi scrive, resti l'unico, in questo decennio, a laurearsi con un'abbondante sufficienza, sia il riuscitissimo intermezzo solista del front-man col pluripremiato "Into The Wild" (2007). L'opener "Gonna See My Friends" con quel riff stentoreo e familiare, che fa molto Chuck Berry via Sex Pistols, è una botta street-rock, magari un po' triviale ma piacevolmente adrenalinica. La voglia c'è anche se il passo non è più quello d'una volta e persino l'inattaccabile voce di Vedder qua e là annaspa. Poi anche "Got Some", "Johnny Guitar" e "Supersonic" insistono e sviluppano, con risultati non proprio esaltanti, quest'ebbrezza rock'n'roll un po' da "American graffiti". Sempre meglio di "The Fixer", comunque, spuntatissimo singolo di punta con non meglio identificate (e ancor peggio assimilate) fregole sintetiche vagamente new wave (!?). La scrittura si risolleva quando la palla torna di nuovo tra le mani di Vedder che pennella due acquerelli acustici (voce, chitarra e archi appena palpabili che germogliano in sottofondo) niente male - la bucolica "Just Breathe" e la sofferta "The End", che risentono non poco dell'ispirazione di "Into The Wild" (e inducono maliziosamente a pensare: no, davvero, se le cose stanno così, chi ha bisogno degli altri quattro?) - e in quelle di McCready con la fluente vena soft-rock di "Force Of Nature". Per il resto, niente di nuovo sul fronte occidentale: "Amongst The Waves" e "Unthought" sono strade che gli abbiamo già visto percorrere e che difficilmente li porteranno da qualche altra parte, mentre "Speed Of Sound", un accorato mid-tempo col piano e l'organo in evidenza e le chitarre in sordina, punta (quasi) tutto sullo charme dolente e carezzevole del cantato. E ora che si sono tolti questo peso, tutti in sella agli strumenti per il tour che li vedrà protagonisti a partire da ottobre. Sperando che, nel 2010, si ricordino anche di noi vecchi ragazzi del paese per vecchi per eccellenza e facciano un salto a trovarci [5,5/10]. Junio C. Murgia http://www.storiadellamusica.it Un vecchio treno che sbuffa e macina chilometri: i Pearl Jam sono ancora in giro. Come i moschettieri di Dumas, vent’anni dopo l’epopea di Gossard e Ament nei Mother Love Bone e i pieni di benzina di Eddie Vedder sulla via del surf a San Diego. Per chi li ama è la conferma della solidità di un progetto capace di resistere anche alla fine della Golden age di Seattle ( unici coi

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Mudhoney, sedute spiritiche degli Alice in Chains a parte) e di confermare il proprio status di infallibile macchina da tour. Per chi li detesta, è solo un residuato bellico tenuto in piedi da una ineffabile aurea mediocritatis in un rock mainstream privo di nuove icone credibili. L’ennesima fatica dei nipoti di nonna Pearl non cambierà di un millimetro le posizioni dei due schieramenti. La carriera di un gruppo che da quasi una decade ormai ha smesso di rischiare si sposta di un’altra tacca, grazie anche all’astuto ripescaggio del mestiere di Brendan O’Brien in cabina di regia. “Backspacer” e’ difatti il solito, altanenante disco dei Pearl Jam maturi, fatto di chiaroscuri che spaziano dai consueti rock and roll all’arma bianca, da qualche impennata folk lisergica dalle velleità sempre meno sperimentali e dal rinnovato, virile intimismo acustico di Eddie Vedder, apprezzato anche da parecchi storici detrattori recentemente via Sean Penn. Proprio il carismatico vocalist apre le ostilità, firmando di suo pugno l’arrembante “Gonna see my friend”, che reporta ai tempi delle scorribande con Neil Young, subito doppiata dalla vibrante “Got some”. Peccato che i suddetti siano gli unici pezzi riusciti in tal senso: “The Fixer”, “Johnny Guitar” e “Supersonic” presentano inquietanti tinte da radio FM più che la freschezza power-pop cui vorrebbero anelare. E pure i fragori vagamente AOR degli intrecci chitarristici targati Gossard-McCready di “Force of nature” risultano onestamente prescindibili. Nel cuore dell’album alberga “Amongst the waves”: la classica, solenne composizione di Stone Gossard, che in coppia con “Unthought Known” evoca brandelli mitici del passato tipo “Garden ” o “Present tense” generando al massimo un gradevole effetto amarcord per i nostalgici della flanella. Assai meglio il mid tempo di “Speed of Sound”, che approda nelle magioni di Tom Petty trainata da pennellate d’organo particolarmente insidiose. Sorte alterna, infine, per i momenti in zona Into the Wild: “Just breathe” appare alquanto piaciona e involuta, avvitandosi subito in un cliche’. Splendido invece il mantrico crepuscolo di “The End”, che risplovera un Vedder deluxe, col respiro delle storie epiche d’annata dal sapore vagamente springsteeniano. E un’interpretazione sublime, librata come il fogliame reso terso dalla brina irrorata da un soffice arrangiamento d’archi. [3/5] Riccardo Renda http://www.italianotizie.it 10 settembre 2009 Alla vigilia della lavorazione del nuovo album dei Pearl Jam, Eddie Vedder – frontman del gruppo – dichiarò “basta politica, abbiamo bisogno di un break. Sono stato per decenni schiavo del R&R (…) poi sono diventato padre e ho dovuto fare un passo indietro”. Parole che hanno generato una certa apprensione tra i fan, timorosi di un ammorbidimento, di un mutamento di stile sulla scorta del recente lavoro solista del cantante del gruppo (la colonna sonora del film “Into the wild”). Del resto, sono trascorsi tre anni dalla pubblicazione dell’ultimo album dei Pearl Jam. Non è un arco di tempo elevato, ma in tempi come quelli che viviamo, in cui tutto si consuma in fretta, soprattutto la musica, è un periodo sufficiente ad originare cambiamenti. Sono però bastate un paio di esibizioni, tra cui quella al talk show americano The Tonight Show con Conan O’Brien, in cui i Pearl Jam hanno eseguito la nuova “Got Some” (subito schizzata ai vertici della classifica dei video più cliccati su You Tube), e il singolo “Fixer” , per capire come il manifesto programmatico della band sia, ancora una volta, all’insegna del grande rock. Nulla di nuovo sotto il sole? Tutt’altro: i cambiamenti, come preannunciato, non mancano. In cabina di regia torna Brendan O’Brien, produttore di ben quattro lavori dei Pearl Jam, compresa la versione rimasterizzata di “Ten”, lavoro d’esordio e pietra miliare del rock degli anni novanta. Inoltre, per la prima volta nella storia della band di Seattle, l’album verrà auto-pubblicato, data la conclusione del contratto con Sony. Ma le novità non finiscono qui. I Pearl Jam sono sempre stati ritrosi ad ogni forma di promozione che non fosse legata alla musica (ad esempio, hanno spesso snobbato i videoclip). E’ quindi curioso

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il ricorso ad una caccia al tesoro che vede protagoniste 9 immagini, create dal cartoonist Tom Tomorrow, sparse per il web. Tali frammenti, una volta riuniti, daranno vita alla copertina del nuovo album e garantiranno l’accesso ad una traccia inedita (“Speed of Sound” in versione demo). Anche questo è un segno dei tempi che mutano. “Backspacer” è il nono album in studio della band di Seattle. 36 minuti sparsi lungo l’arco di 11 brani. Possono sembrare pochi al giorno d’oggi, ma sono sufficienti a tratteggiare gli elementi salienti di un vero album rock: energia, vigore, epicità (“Fixer” , “Supersonic” e “Amongst the waves” sono adrenalina pura). Non mancano anche momenti di maggiore intimità (la bellissima “Just Breathe” dominata dalla calda voce di Vedder e la finale “The end”) o più inclini ad un certo rock radiofonico. La durata di ogni brano non supera i 4 minuti, denotando quindi grande attenzione verso la forma canzone piuttosto che verso l’ampliamento delle sezioni strumentali. Difficile dire se sia un pregio o un difetto. Sicuramente se qualche pezzo avesse potuto beneficiare di uno sviluppo ulteriore, la cosa non sarebbe dispiaciuta affatto. Ma l’insieme funziona e, complice proprio la durata ridotta, non lascia spazio alla noia. Anche i testi risentono di un cambio di rotta. Se negli ultimi due lavori nel centro del mirino vi era l’impegno sociale, la critica alla politica di Bush e al sistema America, qui si parla di amore, di vita. Con un’attenzione tutta nuova alla qualità compositiva, a tratti lirica. In poche parole, nessuna pretesa di cambiare il mondo e niente fronzoli: solo rock. Un ritorno alle origini, ad un modo di concepire la musica più giovanile, istintivo e fresco, ma non certo ingenuo o immaturo. Che sia anche questo un sintomo dell’arrivo di Obama alla Casa Bianca? In sintesi un album tipicamente rock, che non aggiunge nulla di nuovo, ma evidenzia come la band sia in piena forma, al riparo da crisi esistenziali e cali creativi. E’ il mezzo con cui i Pearl Jam lanciano un messaggio alle innumerevoli band che li emulano (Creed, Nickelback), dimostrando come l’originale sia sempre la scelta migliore. L’album in una battuta: vigoroso [5.9/10] Mauro Adil http://www.agenziaradicale.com 21/09/2009 In questi giorni Alice In Chains e Pearl Jam, due tra i gruppi più importanti della scena grunge di Seattle, si apprestano a calcare le scene quasi contemporaneamente con i rispettivi nuovi album. Se nel caso degli Alice si tratta di un ritorno a lungo atteso e assai travagliato, lo stesso non può dirsi dei Pearl Jam, giunti al nono lavoro con un disco - Backspacer - registrato in poche settimane e senza aver subito particolari pressioni. Nel 2006 il gruppo di Eddie Vedder, "eroe riluttante" della cosiddetta Generazione X insieme al compianto Kurt Cobain, si è liberato da un opprimente contratto discografico, celebrando la ritrovata indipendenza con un disco (Pearl Jam) e un tour mondiale di grande successo che ha toccato l'Italia per ben cinque volte. Purtroppo l'energia che i nostri hanno sprigionata dal vivo soltanto tre anni fa, almeno su disco, appare oggi soltanto uno sbiadito ricordo: le canzoni di Backspacer arrancano e la ricomparsa del produttore Brendan O'Brien undici anni dopo Yield è probabilmente una delle cause che hanno determinato questa débâcle. O'Brien, dopo Bruce Springsteen e AC/DC, ha fatto con i Pearl Jam quello che da alcuni anni a questa parte gli riesce meglio: appiattire e smussare il suono degli artisti con i quali lavora, fino a rendere brani come Amongst the waves e Unthought known tanto orecchiabili quanto insipidi. Il primo singolo - The fixer - con i suoi quattro "yeah" ripetuti ad ogni ritornello è quasi imbarazzante nella sua ingenuità che, spiace dirlo, sconfina abbondantemente nella banalità. I momenti più vivaci - Got some e Supersonic (quest'ultima un tributo ai Ramones, tanto amati da Vedder) - fanno rimpiangere anche il passato recente dei Pearl Jam: perfino Life wasted, uno dei

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brani di punta del precedente album, al confronto sembra Whole lotta love! Il disco dura meno di quaranta minuti, ma questo non dovrebbe costituire un alibi. Qualcuno certamente si emozionerà con le ballate acustiche à la Into the wild che il magnanimo Vedder ha voluto inserire in Backspacer (The end e Just breathe), ma in realtà, per quanto abili ed esperti, neanche i Pearl Jam possono nascondersi impunemente dietro esercizi di stile così leziosi e sperare di farla franca. Rimandati. Andrea D'Addato http://www.indie-rock.it Il nono capitolo della discografia dei Pearl Jam vede anzitutto la squadra fregiarsi del ritorno all’ovile del mai dimenticato Brendan O’Brien, produttore del poker d’assi 'Vs.' (1993), 'Vitalogy' (1994), 'No Code' (1996) e 'Yield' (1998), che in poco più di cinque anni ha trasformato il gruppo da grande promessa del 'Seattle sound' a nuovi paladini del rock n’ roll contemporaneo. Al di là della pubblicazione di un disco tetro, ma straordinariamente intenso come 'Binaural' (2000), l’ultimo decennio ha visto la band leggermente adagiata su lavori dalla qualità altalenante (Riot Act, 2002, le cui gemme sono splendide almeno quanto sono trascurabili i riempitivi) e su rivisitazioni di una formula sicuramente vincente, ma qua e là prevedibile (il comunque più che buono 'Pearl Jam', 2006). Purtroppo (almeno per chi si aspettava il disco della maturità), nonostante alcuni picchi di intensità assoluta e una cura per gli arrangiamenti propria dei grandi musicisti quali sono, queste sono più o meno le stesse coordinate su cui si muove 'Backspacer'. INGREDIENTI: che lo si voglia o no, i Pearl Jam del 2009 sono una live band. Nel bene e nel male. Questo perché danno il meglio di sé in concerti incendiari ed emozionanti le cui scalette da un po’ di tempo a questa parte sembrano essere il fine primario delle loro pubblicazioni discografiche. Lo stesso 'Backspacer' appare perciò lontano dalle scarne abrasioni di 'Vitalogy' o dalla sublime anarchia compositiva di 'No Code' e, seppur spezzato da due affreschi acustici sontuosi come 'Just Breathe' e 'The End', suona come una raccolta di inni chitarristici concepiti per far tremare le arene. Come al solito il valore aggiunto è la straordinaria coesione di cinque fuoriclasse 'domati' da un accorto Brendan O’Brien che ha saputo valorizzare al meglio gli intrecci delle chitarre, qui assolute protagoniste più nell’efficacia dei suoni che nella ricerca disperata dell’assolo ad effetto, e gli spunti del vigoroso drumming di Cameron (si vedano il modo in cui risultano quadrati i controtempi della saltellante 'Johnny Guitar' o la classe con cui trasporta su un tempo shuffle una ballata mainstream molto elegante come 'Speed Of Sound'). Su tutto e tutti, come sempre, vola la voce di Eddie Vedder, capace di calcare le orme di Roger Daltrey in un graffiante brano à la Who ('Gonna See My Friend'), di far vibrare i muri della vostra camera con le consuete arrampicate in cui si toccano vette di epicità ('Amongst The Waves') e di tagliare in due lo stomaco con interpretazioni struggenti e mature ('The End'). DENSITÀ DI QUALITÀ: se c’è una cosa che non si può rimproverare a 'Backspacer' è certamente la compattezza, almeno nella prima metà del disco. Le fucilate che aprono 'Gonna See My Friend' non rappresentano certo niente di nuovo o memorabile, ma nel suo non voler essere troppo pretenzioso il brano colpisce come un pugno in faccia e segue alla lettera la lezione degli Stones: “è solo rock & roll, ma piace”, soprattutto se suonato così. Come era stato per il precedente 'Pearl Jam' anche qui l’inizio del disco è affidato a brani elettrici e granitici tra cui fa capolino il criticato singolo 'The Fixer', a dir la verità ottimo nella sua leggerezza a spezzare il ritmo tra una 'Got Some' costruita su singulti chitarristici quasi new wave e una 'Johnny Guitar' talmente frizzante e ben suonata da risultare uno dei pezzi migliori del lotto. 'The Fixer' appare però emblematica nel mostrare due problemi che pervadono quasi tutto il disco: una scrittura interessante e spesso di ottimo livello che però non riesce a reggere il confronto con il passato e una propensione, talvolta esasperata, a ricalcare certi espedienti fin troppo abusati nella discografia del gruppo. Il cambio di 'The Fixer' sa un po’ di già sentito, così come 'Supersonic' (il 'classico pezzo punk-rock à la Pearl Jam' la cui presenza sembra ormai necessaria in ogni album della band) oppure una 'Unthought Known' il cui inizio ricorda troppo 'Wishlist' e che vive sulle spalle dei grandi inni del quintetto senza però riuscire a ripeterne l’efficacia. Per fortuna quando il gruppo punta sulla propria maturità

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artistica le cose cambiano, e non poco: 'Just Breathe' è una sognante ballata acustica da periferia americana che dà corpo allo scheletro di 'Tuolumne', scritta dal solo Vedder per lo splendido 'Into The Wild', e qui addirittura ornata da dolcissime aperture melodiche su un tappeto di archi, mentre 'The End' è talmente bella da far dimenticare in fretta 'Force Of Nature' (un brano in cui i nostri sembrano addirittura giocare a fare gli U2 e si perdono su territori smaccatamente mainstream). La traccia conclusiva di 'Backspacer' merita davvero una menzione d’onore grazie ad un arrangiamento minimale (chitarra, voce e archi) che sottolinea una linea vocale assolutamente riuscita e un’interpretazione da antologia di Vedder, in grado cavalcare le note con una disinvoltura e una capacità interpretativa disarmanti. Termina così un album che, fra luci e ombre, ha comunque il pregio di scorrere senza eccessivi intoppi per tutti i suoi 37 minuti, fotografando questi Pearl Jam come una rock 'n' roll band assolutamente solida che preferisce però giocare facile piuttosto che mischiare le carte. VELOCITÀ: il disco suona come un viaggio in macchina a tutta velocità in cui di tanto in tanto si rallenta per lasciare spazio ai pensieri ('Speed Of Sound'), o addirittura ci si ferma per contemplare il paesaggio ('Just Breathe', 'The End'). IL TESTO: “Buona sera, won’t be long before we all walk off the fire”, da 'Gonna See My Friend', assalto sonoro cosmopolita in cui sotto il ponte che unisce la Londra degli Who alla Seattle dei Pearl Jam si scorge persino l’amore dei nostri per l’Italia… LA DICHIARAZIONE: Eddie Vedder: “La prova più dura cui la paternità mi ha sottoposto è il cambiamento radicale del mio stile di vita, Sono stato per decenni schiavo del r&r e di tutto quello che altri schiavi del r&r hanno fatto, scritto, suonato e cantato. Poi sono diventato padre e ho dovuto fare un passo indietro. Sarebbe irresponsabile uscire ogni sera, bere, fumare e andare ai concerti fino all’alba. I bambini pretendono attenzione. Non hai più un mese, ma una settimana o un giorno per scrivere una canzone.” [7/10] Francesco Farabegoli http://www.vitaminic.it 21 settembre 2009 Il diciottesimo compleanno dei Pearl Jam è anche, brutto a dirsi, il diciottesimo compleanno della mia passione per il rock. Dai quattordici anni in poi le chitarre iniziarono ad interessarmi seriamente. Ora ho trentadue anni, una fidanzata, un impiego fisso di quelli che non sogni da bambino, un po’ di dischi. Non sono diventato una rockstar né un medico né un calciatore famoso, ma credo siano state scelte mie. O avrei dovuto studiare medicina, imparare a suonare uno strumento, non smettere di giocare a pallone. Qualunque cosa sia stata la mia vita, comunque, le chitarre hanno continuato ad esserne la colonna sonora. I Pearl Jam sono più o meno lo stesso: nove dischi senza contare raccolte/singoli/live/bootleg, e le chitarre sono ancora lì e SUONANO. La cosa non è propriamente agli onori delle cronache, ma il 2009 è l’anno in cui i PJ hanno chiuso tutti i conti con il loro passato. La prima cosa è la reissue di una versione remixata (e bellissima) di Ten, su cui avevano menato il torrone per circa dodici anni, la seconda è che Backspacer è il primo disco dei Pearl Jam ad uscire senza il marchio Epic in calce. Come suona? Esattamente uguale alla mia vita. Saliscendi, cose noiose, un paio di buoni numeri, due o tre cose che sono felice di aver scritto e un sacco di chitarre. Probabilmente potreste buttarlo via per metà del programma, la prima parte non è all’altezza e il singolo fa vomitare. Ma quando arriva una delle loro pennate ti spacca in due, e sulla tripletta Just Breathe/Amongst The Waves/Unthought Known ci si commuove pesantissimamente. Citando Ed Vedder, it’s the craziest life we’ve ever lived. Io e loro. Ora puoi tornartene in giro con i tuoi amichetti hipster a raccontare quanto i Pearl Jam siano bolliti, anacronistici, noiosi, patetici e fuori fase a confronto di solo dio sa che nefandezza postqualcosa -ma nella tua leggerezza stai cazzeggiando con la mia esistenza, mettendola su una bilancia e considerando l’idea che qualsiasi Fuck Buttons sia meglio. Beh, vaffanculo. Potrò pure non essere

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obiettivo a fare la recensione della mia vita, ma io le camicie a quadri le portavo anche quando non le trovavi da H&M. Enrico Maniero http://www.rockaction.it 04 Ottobre 2009 Senza fronzoli. L’ultimo lavoro di quella grande band che risponde al nome di Pearl Jam, il tanto atteso “Backspacer”, ci sembra poter concorrere senza problemi per essere nominato come uno dei migliori album di questo scialbo 2009. La formazione statunitense si conferma sui grandi livelli espressi nella sua lunga carriera, armando un disco assolutamente arrembante e devastante (le sonorità viaggiano a metà strada tra un garage rock sporco e graffiante e uno stile Punk di vecchio stampo). Si parte a grande velocità (le prime tracce del lotto sono tra le più godibili, sia dal punto di vista ritmico che compositivo). Inconfondibilmente Pearl Jam, il suono risulta essere il frutto di un lavoro decisamente minimalista e profondamente incentrato su una spinta più istintiva che ragionata. Se le sovraincisioni risultano rarissime, ancor meno utilizzate sono gli elementi di natura tecnologicamente sperimentale (il disco suona esattamente così come è stato suonato in studio, frutto di un lavoro corale ben oliato e coordinato). Oltre alle solite doti compositive (evidenziate nelle chitarre del primo singolo The Fixer, in rotazione nelle radio da luglio) e alle solite emozioni dovute alla voce maschia e incredibilmente calda di Vedder, il disco si fa apprezzare anche e soprattutto per i suoi testi romantici e poeticamente eleganti. Un plauso particolare và dunque fatto anche nei confronti del lato romantico ed acustico della band, evidenziato nella soave e ipnotica ballata Just Breath. Siamo nelle mani della vecchia generazione; all’orizzonte, purtroppo, non c’è band che sembra poter assestarsi su questi livelli. [8/10] Giampiero Di Carlo / Gianni Sibilla http://www.rockol.it 17/09/2009 Avevano bisogno di un po’ di leggerezza, i Pearl Jam, e l’hanno trovata. Dopo anni passati ad affrontare la rabbia di trovarsi in un paese che non riconoscevano più, e a trasferire questi sentimenti in musica, hanno provato un’altra via. Anche perché nel frattempo gli Stati Uniti sono cambiati, non c’è più Bush e c’è Obama. E anche se quest’ultimo ha ormai terminato la sua luna di miele con il paese, la musica che gira intorno da quelle parti sta lentamente cambiando. “Backspacer” è il segno dei tempi, è la maturità che non perde l’incanto della giovinezza. Maturità discografica, innanzitutto, perché è il primo disco di studio totalmente indipendente: autoprodotto, in Europa è curato da Universal, ma in patria è distribuito con un mix di accordi commerciali che è molto distante dalla scelta totalmente autonoma dei Radiohead. Se funzionerà, questo mix creerà un precedente importante per altre band dello stesso calibro. Ma anche maturità musicale: perché la band ha fatto una scelta molto netta, per “Backspacer”: brevità e sintesi, innanzitutto: 37 minuti scarsi, canzoni che vanno dritte al punto. E poi una varietà di suoni, una leggerezza musicale che gli ultimi album non hanno avuto. Così compaiono addirittura gli archi, in “Just breathe” (un gioiello, figlia diretta della colonna sonora di “Into the wild”) e in “The end”, le uniche due ballate. Non è un caso che i Pearl Jam abbiano richiamato in servizio Brendan O’Brien, negli ultimi anni è stato impegnato soprattutto a dare una rispolverata al suono di Springsteen. O' Brien non lavorava con la band dai tempi di “Yield - probabilmente il disco più bello della loro discografia “recente”, anche se è ormai del 1998. La sua presenza e la sua mano sono, come spesso accade, sinonimo di un tocco di ‘classic rock’; per alcuni, quindi, comportano un effetto normalizzatore, per i più critici rappresentano perfino una sordina; nella fattispecie hanno, probabilmente, la funzione di cucire l’eredità e lo spirito punk del gruppo con i ‘fondamentali’ del

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rock and roll, regalando all’album quella necessaria coerenza che i vent’anni di carriera della band reclamano. Molte canzoni, così, sembrano il “solito” rock alla Pearl Jam (ce ne fossero…). Invece prendono direzioni strane: aperture pop (“The fixer”), accelerazioni irregolari (“Got some”), un tono epico alla U2 (“Force of nature”). Pur senza tradire le proprie origini, i Pearl Jam, a questo giro hanno pescato dal power pop, dalla new wave, insomma i suoni delle band che i membri della band hanno probabilmente ascoltato da ragazzini… La leggerezza è in parte anche lirica, come dimostra quel “Yeah, yeah, yeah” di “The fixer”, e come sottolinea l’assenza di accenni alla politica, almeno non diretti. Questa è una svolta all’insegna della semplificazione per i Pearl Jam: i testi sono rivolti all’amicizia, alle relazioni e al ‘grunge’ di tutti i giorni (“Got some” ne è un esempio, con i suoi cenni alla dipendenza dalla droga) anziché ai grandi temi politico-sociali, e Vedder e soci scelgono di consegnarli con ritmo, rabbia e insolenza invece che con la solennità dei più recenti capitoli. Il risultato è che “Backspacer” – pur nella ovvia continuità – suona notevolmente diverso dagli ultimi dischi. Che, diciamolo, hanno fatto fatica a superare la prova del tempo. Certo, negli ultimi 10 anni, da “Binaural” in poi, i Pearl Jam hanno scritto grandi canzoni, alcune che sono rimaste e rimarranno. Ma se proprio vogliamo trovare un difetto a “Backspacer” è il dubbio su quanto le canzoni supereranno la prova del tempo. Alcune (oltre a “The fixer” e “Just breathe”, aggiungiamo “Amongst the waves”, tipico mid-tempo alla PJ) lasciano sicuramente il segno. Il disco, nel complesso, è compatto, con un buon andamento, con una bella accelerazione iniziale seguita da variazioni di ritmo, come nella selvaggia “Supersonic”. E’ un disco coraggioso: potrebbe attirare ascoltatori prima spaventati dall’aggressività un po’ cupa di certe canzoni, ma anche alienare parte del seguito ‘core’ del gruppo. “Backspacer” non è spensierato, ma lo sono certamente i Pearl Jam orfani di Bush che, più o meno consciamente, associano la rinnovata speranza per il loro paese all’epoca in cui la speranza era per loro un sentimento più naturale, ovvero a un tempo pù barricadiero per la loro musica, all’inizio di un’avventura in cui per Eddie Vedder un concerto assomigliava più a una surfata che a una ballata. Essenziale, veloce, pare perfetto per un viaggio in macchina. Un viaggio breve, si intende. In attesa di capire meglio il posto che occuperà nella discografia della band. Paolo Bellipanni http://www.rockline.it Gli anni passano, ma evidentemente non per tutti. Anzi, a volte c'è chi più passano gli anni e più si incazza, più diventa giovane, più mostra un'irrefrenabile voglia di creare, di divertirsi, di vivere. I Pearl Jam fanno parte di questa categoria e se l'omonimo del 2006 non era bastato a farlo capire, ecco che arriva come un fulmine a ciel sereno Backspacer, nono studio album per gli ex-grunger di Seattle ed ennesima riprova delle qualità e della sempreverde forza di una band assolutamente unica nelle gerarchie del rock moderno. Per Vedder e compagni, infatti, il glorioso passato da alfieri del grunge sembra ancora rivivere in reminiscenze cariche non soltanto di nostalgia ma di una perpetua giovinezza espressiva, indelebile tanto dal tempo quanto dalle - seppur lievi - maturazioni e variazioni stilistiche. Solitamente chi si fa "vecchio" con gli anni comincia ad ammorbidire la propria musica, a renderla sempre più intima, pacata e riflessiva come se si volesse fare un sunto (con tutta la sua carovana di malinconici ricordi) di una carriera gloriosa ormai alle spalle: i Pearl Jam di questo se ne fottono completamente e tirano un fuori un disco energico, semplice e stranamente ottimista. Ed è in questo discorso che le parole di Vedder divengono più emblematiche che mai: "Con gli anni ho sempre cercato di essere ottimista nelle lyrics e penso che adesso tutto questo sia diventato più semplice". Il riferimento (come noto) è a Barack Obama, neoeletto presidente degli Stati Uniti e simbolo della tanto auspicata trasformazione politica americana, di quel salto in avanti che pare aver estremamente giovato alle idee dei Pearl Jam tanto da spingere Vedder e compagni ad abbandonare definitivamente l'inquietudine e la rabbia che al contrario facevano - spesso e volentieri - da fili conduttori nei capolavori d'un tempo.

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Sulla scia del precedente full-lenght, Backspacer parte subito in quarta, mostrandoci i Pearl Jam in una veste estremamente energica per sound e impatto: duro e dinamico ma al contempo spensierato, il songwriting dell'opener Gonna See My Friend trascina con disarmante semplicità senza cadere nel banale e nel riciclo melodico, presentandoci piuttosto un riffing massiccio che quasi sfiora l'hard rock per l'incredibile energia vitale che è in grado di sprigionare. La splendida Got Some, Johnny Guitar e The Fixer (primo singolo estratto dell'album) alleggeriscono i toni strumentali ma il risultato rimane invariato: tutt'e tre le canzoni - Got Some per il suo refrain più ombroso, Johnny Guitar per il mood accattivante, The Fixer per quello più solare - riescono a dare un'immagine sempre divertente e trascinante del nuovo corso artistico intrapreso dai Pearl Jam. Tutto in Backspacer sembra perdere le macchie esistenziali, sembra smarrire dolori e angosce trasformandosi in una piacevole danza rock, che più rock non si può: anche Just Breathe, canzone più malinconica e toccante del disco (assieme alla conclusiva lovesong The End), risente di questo stato di cose, imponendo al di sopra della soave cornice strumentale acustica (direttamente uscita dal Vedder riflessivo di Into The Wild) delle lyrics piene di speranza e amore, oltre che risolvendo i propri momenti emotivamente più tesi in toccanti aperture atmosferiche. Da qui in poi, Backspacer comincia a perdere qualche colpo, smarrendo tutt'un tratto (eccezion fatta per l'esplosiva Supersonic) l'energia che caratterizzava le canzoni in apertura: tanto Speed Of Sound quanto le più banali Amongst The Waves e Force Of Nature non hanno infatti nulla a che vedere col groove e l'atmosfera più accattivante delle tracce iniziali, perdendo molto sia nella costruzione armonica sia in un'ispirazione melodica che lentamente regredisce fino a far dimenticare del tutto i suoi momenti più piacevoli. Disco sicuramente meno maturo e impegnato dei precedenti, spensierato e giovanile ma di conseguenza privo di quella dimensione più sofferta che, non a caso, ha reso grandi i Pearl Jam, Backspacer è un lavoro che probabilmente farà storcere la bocca ai fan più critici e attenti, ma che esalterà senz'ombra di dubbio gli ascoltatori più accaniti e "datati". E' d'altra parte ovvio che se messo a confronto con i grandi capolavori Ten, Vs, Binaural, e Vitalogy, Backspacer risulti un disco scarno e tralasciabile, più semplice ma privo di qualsiasi fascino, ed è qui che sta l'errore. Gli anni '90 tutti grunge, inquietudine, jeans rotti e camicie sporche sono ormai uno sbiadito ricordo: i Pearl Jam, nonostante l'inesorabile avanzare del tempo e il simbolico "cambio di abbigliamento", di capelli bianchi e stanchezza non ne vogliono sentire parlare, perchè in fondo anche loro sono ancora incazzati. Col sorriso sulle labbra, ma pur sempre incazzati. [6,5/10] Mario Ruggeri http://www.wuz.it 21 ottobre 2009 Backspacer è un album divino, sotto ogni aspetto. Indaga, affonda le mani nella terra viva degli Stati Uniti, affronta con una fisicità impressionante il rock, lo media con quella voce lirica, da soulman bianco di Eddie Vedder. Le strade si sono divise, curiosamente, proprio all’epoca dell’esplosione del grunge. Coloro i quali, senza indugi e senza discussioni, avevano inventato il suono grunge, il vero suono grunge, negli anni ’90, lo abbandonarono quasi immediatamente (precisamente, nell’arco di tre dischi) per intraprendere una strada che forse, paradossalmente, era la vera essenza del grunge stesso: ovvero un lungo percorso che riconduceva, quasi irrimediabilmente, alle radici rock americane. Il termine tecnico è roots rock, ma preferiamo definirlo rock americano, perché in una definizione più ampia ci sono tantissime sfaccettature, e i Pearl Jam si meritano quantomeno l’amore e l’attenzione per il dettaglio. Insomma, è successo che i Pearl Jam che, più dei Nirvana e dei Soundgarden, hanno codificato con l’album Ten l’assetto grunge rock, se ne sono poi andati per la loro strada distanziandosi enormemente dallo stesso grunge. Quindi, chi sono i Pearl Jam di Backspacer? Semplicemente la forma più compiuta di rock

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americano oggi. E allora, la domanda è: cosa intendiamo per rock americano? In ambito “rock” quella forma estetico-fisica che deriva dalle radici cantautorali, mainstream, tipicamente yankee (ovvero, dal Boss a Mellencamp, passando per Bob Seger) ma temperate con un chitarrismo decisamente anni ’90 (altro paradosso: il rock americano si completava nelle band alternative che negli anni ’90 facevano da contraltare al grunge: dai Cracker ai Soul Asylum, dai Better Than Ezra ai Counting Crows più spinti). E in questo, i Pearl Jam firmano uno dei dischi migliori della loro carriera. Dopo circa una ventina di album. Nientemeno. Insomma, Backspacer è un album divino, sotto ogni aspetto. Indaga, affonda le mani nella terra viva degli Stati Uniti, affronta con una fisicità impressionante il rock, lo media con quella voce lirica, gutturale, da soulman bianco, di Eddie Vedder (per intenderci, uno idolatrato anche dagli U2, e personale culto di Bono Vox), quella voce che è stata la guida della colonna sonora di Into The Wild. E non è un caso. A questo proposito, Backspacer non è così distante da Into The Wild. Quantomeno per concezione. Ed il paragone ci può ben spiegare la vera natura dei Pearl Jam oggi. Navigatori solitari della Wilderness di Thoureau, in un mondo ipercinetico e assolutamente asettico. Gonna See My Friend, Just Breath e Amongst The Waves sono, sempre nella matrice rock, episodici lirici e romantici, nel senso di seguaci del romanticismo: epici in sottofondo, elettrici in superficie. Backspacer è un disco tradizionale, ovvero inserito nella tradizione, abbracciato nella tradizione, assolutamente dedicato alla tradizione. Una tradizione che oggi sembra lontana, passata, quasi obsoleta, se non vetusta, ma che in realtà è la chiara espressione di un movimento anzi, di una corrente culturale, che è di fatto la vera ed unica corrente storica che il rock, in America, abbia ancora. Un disco bellissimo, non c’è che dire. Filippo Nembrini http://www.w2m.it C'erano una volta le macchine da scrivere e - su quelle in lingua anglosassone - un tasto chiamato backspacer: schiacciato quello il carrello scattava indietro, all'inizio dell'ultima riga compitata, permettendo la ribattitura di eventuali errori commessi, previa la classica pennellata di bianchetto. C'era una volta il grunge, quella musica dura che raccontava il malessere di una generazione, la solitudine degli adolescenti cresciuti negli anni ottanta, la disperazione di aver spesso, come unica compagnia e soluzione, quella artificiale della droga... una musica che era sinonimo di Soundgarden, di Nirvana, di Pearl Jam. Le macchine da scrivere sono ormai pezzi da museo, Nirvana e Soundgarden un (bel) ricordo... Backspacer è invece il titolo del nono album in studio registrato dai Pearl Jam in diciannove anni di carriera sulla cresta dell'onda: non un punto a capo, dunque, ma una sorta di bilancio, di quadratura del cerchio di quanto fatto fino ad oggi. Scomparso definitivamente - si spera - il loro nemico pubblico numero uno (Bush Jr.), i PJ sembrano volersi dedicare una parentesi di svago, apparentemente lontana dalle tipiche atmosfere introspettive e dalle denunce socio-politiche gridate al mondo intero: quasi un omaggio al clima d'ottimismo ed entusiasmo che l'elezione di Obama sembra aver - almeno inizialmente - regalato alla nazione ed al mondo intero. E' come se i 5 di Seattle gettassero la maschera pubblica ed impegnata, per invitarci a vivere una mezz'ora abbondante in casa loro, tra amici. Ed il "buona sera" tutto italiano, che fa da prologo al ritornello dell'opening track Gonna see my friends, sembra proprio sottolineare questo clima di convivialità e svago che pervade tutta l'atmosfera del disco. Ma spesso dove c'è festa - si sa - c'è droga, quindi un piccolo capitolo dedicato alla fuga dalla realtà, tipica della frenesia euforica dei giorni nostri, appare anche qui: è Got some, il pezzo più fedele alle atmosfere classiche del gruppo. Subito dopo ecco apparire la canzone simbolo di Backspacer, nonchè primo singolo estratto dall'album: The fixer, un pezzo pop-rock incalzante ed ammiccante, con tanto di clapping e yeah yeah yeah a cadenzare i ritornelli, un brano ottimista, spensierato, tanto fatalista da chiudersi con la frase "I'll dig your grave/we'll dance & sing/what say, could be our last lifetime!". I grandi amori di

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Vedder - la natura, la muscia dei Ramones ed il surf - dominano i testi e le atmosfere di questo disco: lo testimoniano brani come Just breathe, figlia della parentesi Into the wild del frontman del gruppo, o la metafora oceanica della vita di Amongst the waves. Lo fanno anche le sonorità punk-rock vecchia maniera di Supersonic o la celebrazione della donna come forza della natura di Force of nature. Un album breve - 37 minuti per 11 brani - che rappresenta un piccolo strappo nella produzione dei PJ, che avvicinerà al gruppo gli ascoltatori più refrattari alle loro tipiche atmosfere dure e cupe, allontanando forse parte dei fan più estremi e puristi. Qualcuno potrebbe dire che Backspacer è per i Pearl Jam quel Load fu per Metallica, una sorta di furbesco strizzare l'occhio al grande pubblico... era una sciocchezza nel 1996, lo sarebbe anche oggi: i gruppi musicali sono fatti di persone, che crescono ed evolvono. Solo chi non cambia di una virgola il proprio sound per trent'anni (mi vengono in mente gli Scorpions) strizza l'occhio al mercato. I PJ sono vivi e vegeti e nascoste in questo disco ci sono canzoni che continueremo a cantare per anni, prime fra tutte Unthought known, Force of nature e Just breathe. Do the evolution!!! Valentina Zardini http://www.soundmagazine.it 21 Ottobre 2009 I Pearl Jam non hanno i piedi ben piantati a terra, li hanno sepolti sotto chili di cemento armato. Dopo otto album di indubbio successo, dei tour indimenticabili, che hanno riunito migliaia di persone in tutto il mondo sotto il sole e la pioggia, e una visibilità mediatica non da poco, sono rimasti i ragazzi di sempre. Ora sono uomini, certo, però lo spirito non avvizzisce e il magico fluido che da sempre scorre nelle loro vene c’è ancora e corre a velocità sostenuta. Umilmente Eddie Vedder ha spiegato che ha potuto dedicare alla stesura dei brani di quest’album giorni e non mesi, poichè la paternità gli richiede giustamente molto del suo tempo e lui deve saper gestire entrambe le cose, come un normale padre di famiglia. Credo che l’umiltà li abbia contraddisti dai loro inizi ad adesso. Avrebbero potuto strafare, storpiare il loro essere e svendersi, come anche adagiarsi stancamente sui vecchi allori. Non hanno fatto nè una, nè l’altra cosa. Se è vero che gli ultimi loro lavori sono passati in sordina, facendoli passare come astuti “conservatori”, con “Backspacer” tornano con energia da vendere. Il loro sound è un infallibile marchio di fabbrica, ma non si cade mai nella ripetitività. E’ invece un piccolo fulmine a ciel sereno quest’album, sia per la luce che riesce a produrre, che per la sua brevità. Effettivamente le canzoni sono abbastanza brevi ma scivolano molto bene, arrivando dritte al punto senza il bisogno di infarcirle di dettagli superflui. Si respira un senso di leggerezza, da non confondere con atona spensieratezza. L’umore è visibilmente più disteso, cosa che si nota a prima vista dai testi. Le parole di Vedder, probabilmente aiutate dalla gioia ed il sollievo post Obama, fanno intravedere spiragli di luce insperati, come suggerisce tra tutte “The fixer”. La rabbia e la critica sociale sono state momentaneamente messe nel cassetto, per far emergere una dimensione più personale, più schietta. Pearl Jam più buoni? Non credo. L’energia e l’insita incazzatura ci sono ed elettrizzano attraverso i riff rock accattivanti, alla voce che non perde un colpo, a quella qualità e verve espressiva che solo loro possono dare. Certo, su undici pezzi qualche brano meno vincente c’è, vedi “Amongst the waves” e “Unthought Known”, che rimangono più nell’ombra, ma senza certamente svilire l’album. Sono di parte? Può benissimo essere, ma non riesco a stufarmi di loro e lascio che quell’alchimia che sanno creare da anni mi abbracci ancora una volta. Francesco Ruggeri http://www2.troublezine.it 1 ottobre 2009 E’ con estrema riluttanza e rispetto che ho deciso di recensire il nuovo album dei Pearl Jam. Il rispetto è ovviamente meritato, essendo i Pearl Jam una delle band più importanti e musicalmente significative degli ultimi venti anni; la riluttanza invece proviene dal fatto che non sono il loro più

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grande fan, e che ho apprezzato a sprazzi i loro lavori precedenti. Quindi parto dalle premesse: l’ultimo album, omonimo, aveva risollevato la band da un periodo apatico, che comprende sicuramente uno dei loro dischi meno riusciti, "Riot Act". Era quindi legittimo aspettarsi che Eddie Vedder e soci continuassero sulla stessa (buona) strada, ed in parte è stato così. "Backspacer" inizia in una maniera davvero sorprendente, con Gonna See My Friend, un esplosione di energia che vede Eddie Vedder vocalmente in grande spolvero. Il disco procede con Got Some, pezzo che parla della dipendenza dalla droga, ed il singolo The Fixer. Entrambi seguono il filo conduttore della prima traccia, ovvero la velocità. Il disco dura infatti solo 37 minuti, il che lo rende il più corto della loro lunga carriera. Ma questa scelta sembra essere azzeccata, in quanto l’intero album ha un ritmo davvero incalzante e davvero coinvolgente. Il primo sussulto però lo si ha alla traccia numero cinque: Just Breathe sembra uscita dalla (meravigliosa) colonna sonora di "Into The Wild", che per chi non lo sapesse è stata composta interamente da Eddie Vedder. Non è assolutamente un pezzo riempitivo e non abbassa il ritmo serrato del disco, anzi, gli da respiro e una compattezza che da parecchio non si sentiva nei lavori in studio della band di Seattle. Continuando l’ascolto dell’album si ha una bellissima sensazione di rilassatezza e di serenità; infatti Amongst The Waves ha tutti i canoni di una spensierata surf-song e la successiva Unthought Known sconfina negli ampissimi meandri del pop-rock. Supersonic riporta il ritmo e l’adrenalina a livelli altissimi, per poi rallentare di nuovo con la ballata Speed Of Sound che, a parte gli episodi acustici, è la canzone più lenta dell’album. Nell’ultima traccia, The End, Eddie Vedder imbraccia di nuovo la sua chitarra acustica e accompagna l’ascoltatore verso la fine di questo disco che, a suo modo, è uno dei migliori che i Pearl Jam abbiano mai fatto, senza forzare paragoni con dischi profondamente diversi, sia musicalmente che come contesto nel quale sono stati scritti, come "Ten" e "Yield". Dopo anni spesi ad impegnarsi politicamente, lottare per la propria identità, e combattere critiche che comunque non hanno mai intaccato l’integrità della band, i Pearl Jam hanno finalmente confezionato un disco diretto, veloce ed immediato, dando l’impressione che si siano divertiti a scriverlo e a suonarlo almeno quanto io ad ascoltarlo. Riccardo Osti http://www.kronic.it 20/09/2009 Spogliarsi dell'etichetta di grunge band e mostrarsi come gruppo puramente rock è stato un imperativo dei Pearl Jam fin dai primi lavori. Questo percorso ha portato alla costituzione di album dove il sound della band di Seattle si è allontanato progressivamente da elementi (pochi, in verità) che potessero farla rientrare nella cerchia appartenente a Soundgarden e Nirvana, avvicinandosi, così, a modelli che il rock "tout-court" l'hanno creato (The Doors e i primi Who su tutti). Anche Backspacer non sfugge all'evoluzione intrapresa da Eddie Vedder e soci i quali hanno richiamato alla console Brendan O'Brien e purificato ulteriormente il proprio stile, mantenendone, peraltro, la personalità maturata in anni di onesta e brillante carriera. E allora ben vengano brani di impatto come Gonna See My Friend, Get Some, The Fixer (il singolo apripista) e Supersonic, dove il significato primitivo di "rock" acquisisce una connotazione quasi scolastica, in forza di una solida costruzione del songwriting e di una produzione che ne esalta la componente più geniunamente selvatica. Ma Backspacer è pur sempre un album dei Pearl Jam e, pertanto, fatto anche di parentesi più intime e, oserei dire, drammatiche (nel senso più letterale del termine), le quali si manifestano sia nelle pieghe country di Just Breathe che nella poetica e crepuscolare The End. In mezzo s'inseriscono momenti di ordinaria amministrazione rappresentati da Speed Of Sound e Force Of Nature, che riportano ai tempi di Yield, mentre Amongst The Waves ha il compito di ricordarci che Ten non è stato relegato al ruolo di "esordio-col-botto" e basta (ci mancherebbe altro...!) Nessuna rivoluzione, nessun cambio di rotta. I Pearl Jam proseguono dritti per la loro strada, forti dello status rilevante che si sino guadagnati in quasi vent'anni di carriera e della consapevolezza di essere considerati per quello che realmente sono: un gruppo rock. [3,5/5]

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http://www.soundsblog.it 19/09/2009 Dopo il debutto (e capolavoro) “Ten”, i Pearl Jam hanno iniziato una lunga e lenta evoluzione verso quello che sono oggi: una un rock senza fronzoli che strizza l’occhio alla tradizione americana. “Backspacer” non è sicuramente uno di quei dischi destinati a rimanere nella storia, ma sinceramente, chi è che si aspettava un masterpiece dopo quasi vent’anni di grande carriera? “Backspacer” è esattamente quello che doveva essere: un album di onesto rock, un album che scivola via senza problemi (anche se qualche passaggio “skippabile” c’è, vedi “Johnny Guitar”) e che regala poco più di mezzora di buona musica. Chi si è (giustamente) allarmato dopo aver ascoltato “The Fixer”, non rimarrà deluso dal resto dell’album che si divide fra brani più tirati (l’opener “Gonna See My Friend”), classici pezzi alla Pearl Jam e due ballads acustiche che mettono in evidenza la grande voce di Eddie Vedder: “Just Breathe” (molto bella) che sembra uscita da Into The Wild e “The End”, che se mai dovesse essere “la fine” (si spera di no, ovviamente) della band di Seattle, chiuderebbe la carriera nel migliore dei modi. [6,64/10] http://www.osservatoriesterni.it La prima cosa che si pensa dopo aver ascoltato “Backspacer“, il nono disco in studio dei Pearl Jam, è riascoltarlo. Sì perché è un disco semplice, veloce (solo 37 minuti), immediato. E sembra quasi di non averlo capito. Ed è una sensazione che ritorna. Non sono mai stato un grande fan dei dischi in studio di Vedder e soci, perché dopo i primi due (”Ten” e “Vs“), capolavori assoluti, li ho trovati sempre un po’ piatti. “Alla fine è solo una scusa per tornare a suonare in giro”. Ed è lì che vengono fuori come una delle più grandi live band del mondo. Dopo quasi vent’anni di carriera i PJ hanno deciso di tornare giovani, ma soprattutto spensierati. Per la prima volta dai tempi di “Vitalogy” (1994) Eddie Vedder è tornato ad essere l’unico compositore dei testi delle canzoni e ha volutamente abbandonato i toni impegnati e, talvolta, cupi dei dischi precedenti (soprattutto “Riot Act“, il loro disco più brutto e meno riuscito). Ispirato forse dalla stagione di svolta e freschezza che gli Stati Uniti vivono da dopo l’elezione di Barack Obama, Vedder abbandona la politica, l’impegno e la continua voglia di essere contro e ribelli per buttarsi in romantiche cavalcate in mare (Amongst the waves: “Andiamo a nuotare, stanotte, amor mio/ tu ed io/ e nient’altro/ tra le onde”) dove sfoga tutta la sua passione per il surf, o racconti di uomini che sognano di donne viste su copertine di vecchi vinili (”Johnny Guitar“). Dal punto di vista musicale “Backspacer” è potente e dolce allo stesso tempo. Che poi è sempre stata una della caratteristiche principali del gruppo di Seattle, che anche in disco di puro grunge come “Ten” trovava posto per “Black“, una delle più belle e strazianti canzoni d’amore che siano mai state scritte. Qui il disco di apre con le chitarre in primo piano per un trittico terribile (”Gonna See My Friend“, “Got Some” e “The Fixer“, il primo singolo) per poi passare alla dolcezza di “Just Breath“, una ballata sviluppata dal gruppo a partire da una base strumentale composta da Vedder per la splendida colonna sonora di “Into The Wild” lo scorso anno. Si sente molto in questo disco il lascito di quell’esperienza, di quel clima, di quella luce che risplendeva nel film di Sean Penn. Gli artisti che hanno influenzato in passato sono noti, ma in “Backspacer” sono ancora più marcate: Neil Young e Springsteen su tutti. L’album si chiude con “The End“, commovente e sussurrato grido di aiuto per un amore finito. In ogni caso un buon disco. La cosa che lascia perplessi sui PJ è come possano essere così profondamente diversi tra disco e live, ma questa è una domanda che ci porteremo dentro ancora per un po’, almeno fino al prossimo concerto in Italia. [6,5/10]

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http://mantaray-music.blogspot.com 21/09/2009 19 anni di attività, 8 album in studio, un the best, una raccolta di B-sides e una vagonata di live e bootleg: Backspacer, nono album dei Pearl Jam, si aggiunge a questa notevole produzione e con essa si deve confrontare. Parlare di quest'album è difficile forse soprattutto per chi, come me, è un fan dei Pearl Jam. Siccome non so bene da che parte iniziare cerco di cavarmela facendo qualche domanda a Manta Ray. Backspacer è un bell'album? Beh, non è certo brutto. Il che è diverso da dire che è bello. Chiarissimo! Quindi è un album mediocre? No, mediocre mi pare eccessivo, stiamo parlando di un grande gruppo, ancora capace di comporre degli ottimi pezzi. Vabeh, proviamo a cambiare domanda: che differenze noti rispetto agli album precedenti? Beh...ad esempio, è cambiato il titolo. Musicalmente che tipo di evoluzione stanno avendo i Pearl Jam? Anche la grafica della copertina è cambiata. Che influenze senti in Backspacer? Un paio di ballate sembrano uscite da "Into the Wild", il (soporifero) disco solista di Eddie Vedder nonchè colonna sonora dell'omonimo film. Diciamo che si è auto-influenzato. E come canta il buon Eddie? Vedder è sempre un grande, la voce c'è anche se un po' più roca. Nell'interpretare le ballate mostra la consueta grande classe e nei brani tirati strepita (quasi) come ai vecchi tempi. Ma quindi il sacro fuoco del rock arde ancora? La brace non è spenta ma certo non può essere la fiamma di quasi vent'anni fa, la legna si consuma. Ma non hai detto niente sulle canzoni: come sono? Le canzoni di Backspacer hanno il difetto di essere prevedibili, come se i Pearl Jam si stessero auto-citando. Il livello delle composizioni però è buono, le idee ci sono ancora e il gusto non li tradisce certo. Basta non aspettarsi il colpo di genio o la melodia fulminante. Stiamo andando un po' per le lunghe: consigliaci due brani da ascoltare così poi ti salutiamo Non ho dubbi, Gonna See My Friend è il brano migliore, ha un gran tiro e anche una punta di originalità rispetto al consueto repertorio. Got Some è molto più legata al sound classico dei Pearl Jam ma è un ottimo pezzo. Curiosamente sono anche i primi 2 brani dell'album... Simone Dotto http://www.kalporz.com 5/10/2009 Ora, tutto sta in quel che è lecito attendersi da una band che la sua maggiore età l’ha bella che compiuta e che le cartucce migliori le ha sparate agli esordi o giù di lì. Se la risposta è ‘dischi onesti e nulla più’, l’album omonimo del 2007 – altrimenti noto come “il disco dell’avocado” - batteva la strada giusta: i Pearl Jam si lasciavano alle spalle la psichedelìa appassita dei capitoli precedenti e tornavano a fare ciò che da sempre sanno fare meglio, vale a dire rock dalle moderate tinture hard e dalla forte vocazione melodico-autoriale. Nessuna pretesa, tante buone scritture e benissimo così. La prima avvisaglia che le cose avrebbero presto assunto un’altra piega stava forse già nell’annuncio del nome di Brendan O’ Brien quale produttore “associato”, già al lavoro su “Yield” e da poco tornato al fianco del gruppo per rimettere le mani ai nastri di “Ten”, in occasione del suo primo decennale. Nel genere “musica da grandi platee” O’ Brien parrebbe addirittura il responsabile della deriva dell’ultimo Springsteen verso il pop-rock mellifluo e ruffianone di “Working on a Dream”, da cui le comprensibili preoccupazioni sul nuovo nato. In realtà “Backspacer” non risente più di tanto delle sue cure, se non in un’eccessiva levigatezza dei suoni. Il danno piuttosto lo fanno le canzoni e i loro legittimi proprietari, cedendo a ciò che avevano elegantemente evitato solo un

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paio d’anni fa: la nostalgia canaglia e la logica del “back to the roots” che si annida in tutto l’Lp, fin dal titolo scelto. Ma nel riguardare da vicino alla propria adolescenza, la band di Seattle la rifà idealizzata, patinata, affatto diversa, perlomeno da come la ricordavamo noi: “Backspacer” strafà, mostra i muscoli e mette il testosterone al di sopra delle canzoni, quelle che ai Pj della prima ora non sono mancate mai. La dicono lunga i titoli in scaletta, roba da ricettacolo delle rock-banalità (“Speed of Sound”? “Supersonic”?? “Johnny Guitar”???). E se quella della tematica adolescenziale non è certo una novità nel canzoniere di Vedder, lo è invece parlarne in termini effettivamente adolescenziali: considerato il complesso di musica e parole, tra l’ascolto di un “Jeremy” e quello di un “Johnny Guitar” corre la stessa differenza che può passare fra le pagine del “Giovane Holden” e un bestseller pruriginoso per sedicenni. Nella mancanza generale di un songwriting incisivo, si fanno perdonare giusto il crescendo di “Unthought Unknown” e la conclusiva “The End”, guardacaso due grandi performances messe sul conto del vocalist. Non è mai carino da parte di un rockfan auspicare la messa in proprio del leader di una band, ma in questo caso - vista anche la qualità della prima prova solista di Eddie Vedder per la colonna sonora di “Into the Wild” - vien naturale domandarsi se non sia il caso di mandarlo in licenza un pochettino, il nostro cantante: tanto per riavere indietro il piacere di canzoni della vecchia caratura. Quel di cui il rock d’autore americano sente il bisogno, ora come ora, sono nuovi Grandi Vecchi e non altri vecchi che si fingano nuovi… http://indiependenza.wordpress.com 14 Ottobre 2009 Trentasei minuti esplosivi, graffianti e potenti eppure sempre . Trentasei minuti che testimoniano quanto il rock n’ roll sia una vocazione più che un passatempo. Con schitarrate ruvide come il granito e quella elegante attenzione alla melodia di chi considera la musica come la propria lingua madre, i Pearl Jam sono tornati sulle scene dando in pasto al proprio pubblico Backspacer, nono album della band che segue la pubblicazione dell’ottimo self-titled avvenuta poco più di 3 anni fa. Nel corso di questo periodo il mondo, in generale, e gli Stati Uniti, in particolare, sono parecchio cambiati e, come è ovvio per un gruppo che ha sempre posto particolare attenzione alla società e alle sue problematiche, il nuovo disco ne ha risentito. I Pearl Jam del 2009, ormai over 40, cantano l’America di Barack Obama e credono fermamente nel progresso promesso dal vincitore del premio Nobel per la pace. Backspacer, lo dicevamo, suona duro e diretto come e più di Vs. o Vitalogy ma gli 11 pezzi che lo compongono sono intrisi di una speranza nei confronti del futuro che Eddie Vedder e soci raramente hanno avuto. Gonna See My Friend, Got Some e The Fixer, il primo singolo, aggrediscono immediatamente l’ascoltatore con tempi stretti e veloci e distorsioni fulminanti ma nelle note che le compongono – come nella calda voce di Vedder che firma un’altra ottima prova – c’è gioia e positività. E quando si arriva alla raffinata ma comunque diretta ballata Just Breathe, sorella di quelle presenti nella colonna sonora di Into The Wild incisa da Eddie per l’amico Sean Penn nel 2007, diventa chiaro come il sole che ci sono poche band ad avere la classe dei Pearl Jam. Il resto dell’album, chiuso da un altro splendido lento intitolato The End, non delude le aspettative grazie alle ottime Amongst The Waves, Speed Of Sound e Supersonic e mantiene costantemente alto il livello della proposta curata interamente da Brendan O’ Brien che è tornato sulla sedia del produttore dopo averla occupata per Vs., Vitalogy, No Code e Yield. [4/5] Manuel Lieta http://www.beatbopalula.it 24/09/2009 Mi sono accostato al nuovo lavoro dei Pearl Jam con una buona dose di scetticismo, lo ammetto: l’ultimo disco, Pearl Jam (2006), mi era parso decisamente il punto più basso della loro intera produzione. Se poi l’excursus solista di Eddie Vedder per la colonna sonora di Into The Wild (2007)

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non aveva fatto altro che confermarmi che il frontman del gruppo potrebbe benissimo ormai correre da solo, ci aveva pensato il primo singolo estratto da Backspacer, la alquanto insipida The Fixer, ad accrescere i timori di trovarsi di fronte a una band in carenza di idee, certo sempre onesta nel proprio fare musica e conscia forse del fatto di non essere formata da veri geni, ma lontana da quei Vitalogy (1994) e No Code (1996), tuttora veri zenit creativi per il quintetto americano. Un po’ come se i dischi fossero solo, non dico pretesti, ma quasi, per andare per il mondo a fare concerti, momento in cui, ancora oggi, la band di Seattle dà non poca paga anche a colleghi assai più giovani. C’è poi da dire che la scaletta dà adito alle mie perplessità, perché il poker iniziale di Backspacer (il rock à la Chuck Berry di Gonna See Some Friends, il sussulto innodico di Got Some, la già citata The Fixer e, in lieve crescendo, Johnny Guitar) è invero assai poco urticante, anzi scorre via anonimo nonostante un certo piglio da tardi Ramones nell’immediatezza sonora. Le cose migliorano sensibilmente, come oramai da molto tempo accade nei dischi dei Pearl Jam, quando i ritmi rallentano e c’è spazio, da un lato per le ballate di Vedder, come Just Breathe, che pare arrivare dritta dritta dal quaderno di appunti di Into The Wild, e la conclusiva, orchestrale e struggente The End, e dall’altro per un McCready ispirato in Force Of Nature. Nella seconda metà del disco ci sono anche due episodi tipicamente Pearl Jam, ovvero Amongst The Waves e Unthought Known, sempre gradevoli da sentire, ma lontani anni luce anche solo da una In My Tree. Supersonic, poi, sembra ritornare all’anonimia dei primi quattro brani, mentre il tutto si risolleva con la accorata Speed Of Sound, ben condotta da intarsi di tastiera. Insomma, veloce quanto l’ultimo disco dei R.E.M. (poco più di mezz’ora) ma meno diretto e senza fronzoli (nonché meno irato con l’America di oggi) dell’illustre collega, per il quale furono spese parole come “rinascita” e “ringiovanimento”, Backspacer è un passetto in avanti nel catalogo dei Pearl Jam, ma non fuga il sapore di qualcosa cui manca l’urgenza e la necessità dei lavori migliori della band che l’ha scritto. Emanuele "Brizz" Brizzante http://www.indieforbunnies.com 18 settembre 2009 Questo “Backspacer” sembra l’album di quei Pearl Jam che non vogliono invecchiare, come anche nel precedente lavoro avevano fatto notare. Si pesta ancora tanto, fermandosi ogni tanto per quegli inserti melodici che in certe band significano ‘vendersi’ ma che sono invece molto spesso sintomo della maturità che quasi tutti, prima o poi, raggiungono (e infatti il pezzo più lento “Just Breathe”, non solo è un ottimo brano da viaggio in autostrada, ma presenta anche degli inserti d’archi che sono più o meno una novità per Vedder e soci). L’album si apre con un pezzo veloce, simile a molti altri successi del passato tra cui il singolo “Do The Evolution”. Si tratta di “Gonna See My Friend”, strofa e ritornello alternati in una composizione semplice quanto ben funzionante. Azzeccata. Si capisce subito che i riff di questo disco funzionano, anche se sono comunque la rielaborazione più o meno originale di quanto già è stato prodotto nella loro più che decennale carriera. Lo scopriamo in “The Fixer”, brano che scivola via veloce per la struttura prevalentemente ‘da chart’. E’ questo il tiro del disco. E uno dei singoli estratti “Supersonic” ne è la conferma, forse l’episodio meglio riuscito di questo Backspacer, con riff taglienti al punto giusto per scatenare anche un po’ di pogo ai concerti. In “Amongst The Waves” si passa a quel post-grunge di band come Nickelback, Creed e primi Alter Bridge, per quanto riguarda la musica, ma il brano è comunque riportato allo stile PJ dalla voce di Vedder e dall’assolone centrale, che quasi strizza l’occhio a Slash. Vale lo stesso per la successiva “Unthought Known”. Sonorità più ‘british’ rispetto al grungettone a cui hanno abituati aprono “Got Some”, che diventa poi comunque il classico pezzo alla Pearl Jam, e anche in “Johnny Guitar”, in verità uno dei pezzi migliori del disco, per l’impatto che la sua scontatezza ha anche al primo ascolto. Nell’ottica di un disco che “deve vendere” funziona senz’altro. Un po’ di melodia anche per un titolo rubato ai

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Coldplay, “Speed of Sound”, in realtà una canzone completamente diversa, anche se i toni un po’ “malinconici” ricordano un po’ alcuni pezzi del gruppo inglese. La band è ancora in forma, sforna riff che si memorizzano facilmente e lancia ancora qualche occhiata al passato da band grunge uscita dal fortunato panorama di Seattle, seppur l’attenzione a delle soluzioni più ‘universali’ nel sound e nella composizione dei brani siano evidenti. La voce di Vedder è sempre all’altezza e, insieme al chitarrista solista Michael David McCready, rimane il migliore in formazione (anche come originalità). La produzione, nei suoni, è in linea con tutti i loro lavori, soprattutto gli ultimi due o tre album, e non presente particolari novità. Per concludere, “Backspacer” è un album che soffre forse della mancanza di quella freschezza che contraddistingueva in particolare alcuni CD precedentemente sfornati dalla band (non solo lo storico “Ten”), ma che dimostra come ci sia chi, superata la quarantina, continua ad avere comunque qualcosa da dare al panorama rock. Mainstream si intende. Perché il grunge, si sa, ormai è morto. E non per colpa di Kurt Cobain. http://www.ilpotereelagloria.com 14 ottobre 2009 Noi i Pearl Jam li avevamo già recensiti qualche anno fa, e visto che non è nostra abitudine parlare più volte degli stessi gruppi (anche perché recensiamo talmente poca roba che ci pare il caso di differenziare e spostare l'attenzione sul maggior numero possibile di realtà) credevamo d'essere a posto. L'uscita di 'Backspacer', il nuovo album di inediti della band di Seattle, ci ha però portati a riconsiderare le nostre idee e a valutare un momentaneo, anche se non isolato, strappo alla regola. Il nuovo cd di Eddie Vedder e soci, infatti, non può essere sicuramente giudicato il capolavoro della band, ma dopo alcune uscite un po' incolore riporta decisamente il gruppo sui livelli degli anni '90. Dopo una partenza a tutta birra orchestrata dalle prime quattro tracce, tutte di buona fattura, si arriva al primo picco, a una 'Just breathe' che strappa più di qualche emozione, una ballata classica e forse non originalissima in cui però la voce di Vedder si esprime al meglio. Un breve intermezzo ed eccoci all'altro punto forte, 'Unthought known', che fa da contraltare a 'Just breathe': se la prima è la ballata ispirata e sofferta, la seconda è il rock che emerge dalle viscere, cresce pian piano e poi esplode in tutta la sua potenza. È qui il punto focale dell'album, in questo veloce passaggio dall'intenso al potente, contornato, prima e dopo, da pezzi buoni e da solo un paio di riempitivi, tra i quali emerge il conclusivo 'The end', che riprende le tonalità di 'Just breathe'. Un disco che non entrerà nella storia del rock, quindi, destino comune alle canzoni che lo compongono, ma un album comunque di buona fattura, che tiene alto il nome di una band i cui membri hanno ormai passato ampiamente i 40 anni d'età, cosa sempre più rara. [8/10] http://percarpiano.splinder.com 22 settembre 2009 Il grunge è morto (da un bel pezzo, peraltro...) ma il rock è vivo - e lotta insieme a noi. Noi che siamo ormai non più giovanissimi, almeno a sentire l'anagrafe e a guardare nello specchio qualche lieve arrotondamento (!) promanare del nostro ventre che ancora ricordiamo, se non tartarugato, almeno piatto. Per questo continuiamo ad ascoltare con piacere dischi di personaggi che, come noi, continuano a vestire come si faceva vent'anni fa. Magari non mettiamo proprio le stesse cose, ma il giubbotto di jeans ha ancora il suo perchè, il chiodo fa sempre la sua porca figura e gli anfibi... come affrontare un inverno senza? E allora che rock (e R'n'R') sia! Backspacer è lontano 18 anni - e mille miglia musicali - da Ten, un disco d'esordio che fece sentire a giovani e meno giovani d'allora l'altra faccia del grunge (diversa da quella dei Nirvana, più rock e meno punk, eppure insieme Giano bifronte della rivoluzione di Seattle), lasciandoli a bocca aperta. Ma veniamo a Backspacer. Le ballate i momenti più riusciti ("Just Breathe" e "The end"), splendide e sofferte, con la voce di Vedder in gran risalto e con venature da brivido (qualsiasi donna, ne sono convinto, vorrebbe sentirsi dire "stay with me / let's just breathe..." con quella voce!), soprattutto nella consapevolezza

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che (appunto) il tempo è passato, e con esso alcuni sogni, alcune speranze ("What were all those dreams we shared those many years ago / What were all those plans we made, now left beside the road./ Behind us in the road"). Ma l'incipit è vigoroso ("Gonna see my friend", "Got some"); nella prima c'è ancora aria di addio ("I'm gonna shake this day / I wanna shake this day before I retire"), ma Vedder sembra voler dire che di energia da spendere ce n'è ancora tanta, anche se la voce nei brani più tirati sembra incrinarsi. Peccato che la stessa cosa non valga per le idee, che risultano lievemente confuse in episodi - non me ne voglia il mio amico Amish - quasi imbarazzanti ("The fixer" e soprattutto "Supersonic", che sembra presa dal peggior disco dei REM). Insomma un disco a luci alterne, dove le cose migliori sono quelle "da solista" di Vedder, modello "Into the wild" (ascoltato, gran bel disco...), più intimiste e riflessive. Preludio ad un addio? Riccardo Marra http://www.step1.it 17 settembre 2009 A Seattle la pioggia è continua. Non smette mai. Pizzica come migliaia di scorpioni volanti e mette di cattivo umore se non ci si fa il callo. Proprio come George W. e il capannello dei suoi “Bushleaguer”: un prurito per molti americani e un incubo per i Pearl Jam fino all’elezione di Obama. Eddie Vedder e soci hanno dedicato a questa fetta di storia americana quasi dieci anni di carriera, muovendosi di umori neri, lividi, portando in mano la protesta come una saetta. Tradendo forse anche un certo loro antico spirito, sì combattivo, ma sempre al di sopra delle parti, da romanzieri del misfatto, malati di poesia. Ora il “thief” (citando Thom Yorke) non c’è più. Ora Springsteen canta di sogni e speranze. Ora l’America pare rialzarsi anche dalla crisi finanziaria che l’ha messa in ginocchio. E allora anche i Pearl Jam si scrollano di dosso pioggia e un peso fastidiosissimo: dover “usare” la musica per protestare, quando questa invece dovrebbe essere forno di sentimenti, dolore, passione con la politica relegata in panchina. Backspacer, settembre 2009, è questo. E' la rivincita dei Pearl Jam sul tempo speso a urlare, è la riscoperta della musica come cantuccio di emozioni. E' suonare veloci, poi melodiosi, riaccelerare, divertirsi, gracchiare una risata e concedersi anche dei languori. Lo stesso titolo è un omaggio di Eddie al piacere della scrittura creativa, con il “backspacer” che era uno dei tasti delle vecchie macchine da scrivere. I Pearl Jam con il nuovo disco, dunque, suonano distesi e recuperano il gusto di fare musica di nuovo “grunge”, passionale. Sono veloci, velocissimi (37 minuti in tutto), sono coinvolti e spaccano la tracklist in due parti: da un lato il rock rapido, giocherellone e pop della punkeggiante Gonna See My Friend, del singolo di lancio The Fixer e di Got Some e Johnny Guitar. Dall’altro brani più lavorati e compatti oltre a pezzi che, si sente, sembrano venir fuori dalle session vedderiane di “Into The Wild”. Just Breathe ad esempio, che si srotola della chitarra di Eddie, della sua voce, e di archi struggenti. “Non voglio soffrire - canta Vedder - c’è così tanto in questo mondo da farmi credere”. Ma anche Unthought Known con un incedere appassionante: “Senti il dolore di ogni giorno, che strada hai preso? Respirando forte, facendo il fieno, si, questo è il vivere” . Della seconda parte superano “la prova del nuovo” anche Amongst The Waves e Speed Of Sound che mostrano Gossard, Ament e gli altri alle prese anche con pianoforti e con una gestione sonora sempre molto consapevole. Sì certo, album come “Ten” o “Vitalogy” profumano di capolavoro nella loro interezza, e non è il caso di “Backspacer”. Ma ci sono anche album, come questo, che sfoggiano canzoni tanto efficaci da sfuggire alla prigionia di una tracklist. The End che chiude “Backspacer” è una di queste. Violini, arpeggio di acustica, apertura vocale di Ed e una frase: “Dammi qualcosa che echeggi nel mio futuro incerto, lo sai, mia cara, la fine, è vicina. Sono qui, ma ancora non per molto”. La musica si interrompe bruscamente, la fine del disco è arrivata e con lei anche un brutto presentimento...

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Simone Tricomi http://www.musicalnews.com 18/10/2009 Ci sono band che fanno della continua sperimentazione e delle mutazioni camaleontiche il loro punto di forza, il loro tratto distintivo. C’è una seconda categoria di artisti che preferisce battere la strada più sicura e commercialmente redditizia, e ripropongono lo stesso disco e la stessa canzone anno dopo anno. Infine ci sono gruppi come i Pearl Jam. Non si può dire al quintetto di Seattle di aver fatto rivoluzioni epocali in ambito musicale, né per questo si può imputare alla band di Eddie Vedder scarsa ispirazione o ripetitività. L’obbiettivo dei Pearl Jam è sempre stato quello di esplorare le possibilità di quello che può essere definito un rock’n roll onesto, coerente e senza fronzoli. Figli di band come Who, Rolling Stones e Ramones, più che del grunge vero e proprio, la loro credibilità è cresciuta grazie alla qualità dei loro brani e a dischi fra i più importanti nell’ambito rock degli ultimi vent’anni (“Ten” e “Vs.” su tutti). I Jam si sono alternati dopo la prima, più importante, fase della loro carriera, fra opere più a fuoco e centrate (“Yield” e “Rioct Act”) ed altre più complicate e meno ispirate, come “No code” e “Binaural”, sempre e comunque al di fuori di un circuito commerciale imperante, anzi spesso brillando per onestà ed impegno. Ed eccoci arrivati a “Backspacer”. E’ un piacere sentire quanto suoni fresco questo disco. In alcuni tratti, come nel potente trittico rock iniziale, sembrerebbe di sentire una qualsiasi garage band di ventenni che si diverte nella sua scalcinata sala prove nei sobborghi di Seattle! Ed è proprio questo che fa di Backspacer un buon disco… la rabbia, la voglia di divertirsi, di suonare nudi e puri oltre ad una capacità di comporre ancora dell’ottimo rock’n roll e delle canzoni che suonino credibili. Inutile dire quanto la voce ed il talento di Eddie Vedder emerga una spanna sopra rispetto a quello dei compagni d’avventura. Sono da brividi i toni caldi che sfodera nei pezzi acustici come la conclusiva “The End” e la meravigliosa e romantica “Just breathe”. Ed anche quando deve spingere e sfoderare tutta la gamma emotiva di quella che è la più bella voce rock in circolazione, Eddie non delude, facendo risplendere composizioni come “Unthought known”. Tutta la band è sugli scudi, invece, nella beatlesiana “Speed of sound”, con un’inaspettata e piacevole virata pop, ed in quello che è forse il pezzo più convincente e solido dell’intero disco, “Force of nature”. Quello dei Pearl Jam è in generale un ritorno convincente, anche nei testi, dove vengono accantonate le tematiche barricadere un po’ abusate negli ultimi dischi e viene riscoperto il piacere dell’intimità. Nessuno si accosti a questo disco pensando di trovarci un altro capolavoro generazionale come “Ten” però. Mettete da parte le vostre camicie a scacchi ed i capelli al vento, i Pearl Jam oggi sono solo una grande rock’n roll band. Forse gli unici, veri, eredi degli Who. A loro va bene così, ed anche a me. Simone Vairo http://www.music-on-tnt.com 05/10/2009 Partiamo dal presupposto che tutte le band possono commettere degli errori. L’unico ostacolo a questa teoria è che, ultimamente, si vedono troppe “patacche” e pochi capolavori. L’occasione si è presentata in contemporanea con l’uscita dal buio di molte band che hanno voluto mantenere alto il nome delle loro formazioni per dimostrare al grande pubblico che erano ancora vivi: è il caso dei Metallica o dei Depeche Mode o, ancora peggio, dei Guns N’ Roses (con il tremendo e, non della ex-band, “Chinese Democracy”). In entrambi i casi l’alternativa sarebbe stata quella di rinchiuderli nello studio ancora per un pò finchè non avessero partorito qualcosa di migliore. Gli unici, invece, che hanno avuto il coraggio di riemergere, tenendo alto il loro nome, altri non sono stati che i Megadeth che, con il loro “Endgame”, hanno saputo regalare ai loro fan minuti e minuti di buona musica metal che riporta la mente agli anni 80.

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Si spera, quando si vedono più i disastri che le vittorie, che le altre band imparino dagli errori altrui e, nel caso ci fossero delle “pecche” nel loro lavoro, di correggersi per non suscitare la noia nei loro ascoltatori. Ma tutto questo ragionamento dipende anche da cantante a cantante. Eddie Vedder, il quale sa cosa vuol dire saper creare una canzone e un disco, ha incantato milioni di fans con la sua voce baritonale non solo grazie all’ultimo lavoro solista (la colonna sonora per il film “Into The Wild” con la quale, per la canzone “Guaranteed”, vinse un Golden Globe), ma anche grazie a quella meravigliosa combinazione tra Seattle e testi densi di verità, lotta sociale, depressione, storie di cronaca nera: ovvero i Pearl Jam. La band nacque dalle ceneri dei Mother Love Bone e ebbe solida formazione soltanto con l’entrata di Eddie Vedder come cantante e autore di alcune delle pietre miliari della band (“Alive” e “Black”). Col passare del tempo i Pearl Jam, tra proteste per la vendita dei biglietti dei loro concerti contro la Ticketmaster che prendeva delle percentuali (in nero) sulle vendite e incidenti ai loro concerti (l’incidente di Roskilde, in cui 9 fans della band furono schiacciati e soffocati da tutta la folla urlante che era andata a vedere il concerto), registrarono innumerevoli cd che li fecero allontanare dalla prima definizione grunge che si era dato loro per farli avvicinare al rock a volte melodico (Riot Act), a volte garage (No Code), che, in non poche occasioni, ha lasciato amareggiati i fans. Oggi si ripresentano, dopo ben tre anni dall’ultimo album d’inediti, con “Back Spacer” che, nonostante l’averlo risentito più volte, non si capisce da quale mente sia stato partorito o se davvero i Pearl Jam c’abbiano lavorato per tirare fuori non si sa bene cosa. Esaminiamo il caso con molta calma: l’intero album non sembra assolutamente un lavoro targato Pearl Jam (tranne per il fatto che Vedder è difficile non riconoscerlo), per il semplice fatto, come primo elemento, che sono presenti troppi colori sulla copertina. Questo, però, può essere una minaccia come anche una speranza per i fans: l’ultima copertina così colorata portava il nome della band come titolo dell’album e quel lavoro era stato considerato come un ritorno alle origini delle vecchie sonorità del gruppo di Seattle, quindi, nonostante, l’eccessiva colorazione i testi mantenevano lo stile “vedderiano”. In questo caso si tratta proprio di una minaccia che, fortunatamente, sembra confermare un vero e proprio alone di serenità che ruota intorno alla band. Purtroppo, però, altrettanta lucidità non è mantenuta in ambito musical e di testi. “Back Spacer” sembra dare l’impressione di un raduno dei Pearl Jam in un pub con il loro pubblico, per raccontarsi qualche storia non tanto importante e poi andare via per concedersi delle piccole soddisfazioni personali e pensare alla propria condizione esistenziale. Ma, solo all’ultimo, ci si ricorda di non aver dato l’ultimo messaggio e allora si ritorna nel locale per dare la restante perla di saggezza alla folla. L’ambiente, anche solo l’idea, è dato dal video del primo singolo scelto: “The Fixer”, canzone che pretende di parlare su come rendere migliore ogni cosa. Partiamo, comunque, dall’inizio: “Gonna See My Friend”, l’incontro, la spensieratezza che ne deriva, la voglia di parlare; una canzone senza troppe pretese, ma che sembra non distaccarsi di tanto dai Pearl Jam, anche se un po’ di differenza si sente. Il tutto continua su “Got Some”, espressione del fatto che i Pearl Jam sono i detentori della buona musica, ma prima di fare tali affermazioni bisognerebbe aspettare, poiché con “The Fixer” e con la successiva “Johnny Guitar” si cade in qualcosa che, l’ascoltatore medio dei Pearl Jam, farà difficoltà a sentire per quel senso altalenante tra la sorpresa e il disgusto, facilmente tramutabile in delusione e amarezza. Da qui in poi, la band di Seattle, si muoverà tra il pop spicciolo (Unthought Know) e il rock (Supersonic), ovvero tutto tranne il voler sembrare il gruppo che tutti conosciamo. Oltre a questo, però, sembra che ci siano degli echi di un qualcosa proveniente dal passato: ebbene il richiamo, purtroppo, non viene dalle origini (ad eccezione per “Among The Waves”, ovviamente un richiamo a “Oceans” presente nell’album d’esordio “Ten” che racconta la passione di Vedder per il surf), ma dal recente passato ovvero l’avventura di Vedder con il film “Into The Wild”. Infatti, possiamo ritrovare quello stile intimistico in una canzone completamente scritta da lui: “Just Breathe”, brano, per molti, versi indirizzato alla vita matrimoniale e alla fortuna di avere qualcuno accanto. Le uniche canzoni dell’album che sembrano portare il marchio di Vedder, nel vero senso del termine (rivolta, critica alla società, ecc.) sembrano essere “Speed Of Sound”, la quale indica la velocità con cui le cose intorno a noi sembrano

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cambiare e “The End”, l’ultima cosa da dire prima di chiudere l’album che, più o meno, riassume i concetti del brano precedente. L’album non è brutto, ma, molto semplicemente, non è dei Pearl Jam. Poteva essere fatto da qualsiasi altro cantante, anche un Bruce Springsteen andava benissimo. L’unica cosa vera è che questo cd è la conferma che le vere band, quelle che ancora hanno voglia di mettersi in gioco, non esistono più, ma emergono solo quelle che sembrano non voler dedicare molto tempo al loro lavoro. Se Kurt Cobain fosse ancora vivo, avrebbe ragione di prendersela con i Pearl Jam come ha fatto in passato. Marcello Moi http://www.mpnews.it 20.12.2009 Facciamo un passo indietro. Gli anni ‘00 sono stati segnati dall'ingombrante presidenza di George W. Bush, al quale i Pearl Jam si sono opposti con veemenza sia con gli ultimi due album, “Pearl Jam” del 2006 e “Riot Act” (letteralmente “atto di rivolta”) del 2002, sia con altri mezzucci tra i quali le innumerevoli esecuzioni di “Bu$hleaguer” durante le quali Eddie Vedder indossava una maschera dell'ex presidente americano. Ora che l'avvento di Obama ha cambiato le carte in tavola, i Pearl Jam si devono essere sentiti come Willy il Coyote che finalmente riesce a catturare Bip-Bip: e adesso che si fa? La risposta è nel titolo dell'album, “Backspacer”, dal nome del tasto della macchina da scrivere che sposta il rullo della carta: una sana botta di classic rock da utilizzare come scusa per poter andare di nuovo in tour. Mentre nel computer il tasto Backspace cancella, nella macchina da scrivere quello che abbiamo scritto rimane impresso sul foglio; il passato, quindi rimane, e dopo ben undici anni ecco tornare in veste di produttore Brendan O'Brien, assente dal quinto album “Yield” e recentemente impegnato a dare un po' di brio al suono di Bruce Springsteen. La sua presenza si sente parecchio a livello di stile, ma fortunatamente non al punto da imprimere al disco l'effetto omologante degli ultimi due album del Boss (d'altronde stavolta O'Brien non si trova davanti a un rocker sessantenne un po' sbiadito, ma a un Eddie Vedder nel pieno della sua carriera e osannato dalla critica per l'eccezionale colonna sonora del film “Into the Wild”). L'album è composto da dieci tracce, per un totale di trentasette minuti. “Supersonic”, o se preferite “Speed of sound” come recitano i titoli di due canzoni, che nasce dall'esigenza di suonare per la gente che da sempre ha contraddistinto i Pearl Jam. Anche i temi dei testi sono immediati: abbandonato l'impegno sociale e la politica si passa dall'amore per la musica alla passione per il surf (“Amongst the waves”), attraversando l'amicizia (“Gonna see my friend”) e arrivando perfino all'amore. Già, perchè Pearl Jam non avevano mai scritto una canzone d'amore prima d'ora; non proprio inaspettatamente è Eddie Vedder che con la sua chitarra e la sua voce calda come l'ultimo spiraglio di sole al tramonto dipinge due delicate ballate acustiche che lasciano il segno. “Just breathe”, figlia legittima di “Into the Wild”, è stata definita dallo stesso Vedder “[...] la cosa più vicina ad una canzone d'amore che io abbia mai scritto”, mentre “The end” è l'altra faccia dell'amore, quello tragico e che ormai è finito. Certamente un buon disco, ideale per un (breve) viaggio in macchina, che però non rimarrà nella storia della musica. Il vero punto di forza sono le due canzoni acustiche, tanto che alla fine dell'ascolto ci si può chiedere legittimamente che cosa ci stiano a fare gli altri cinque in sala di registrazione. La risposta è che ci sono degli artisti con un tale carisma e una tale magia dentro di loro che riuscirebbero ad emozionare una folla anche cantando sotto la doccia, e Eddie Vedder è sicuramente uno di quei pochi eletti. [6,5]

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Marco Zarfati http://www.loccidentale.it 26 Settembre 2009 Dopo la sostituzione del batterista che segnò il definitivo cambiamento di sound nel ’98, adesso, dopo più di dieci anni, si spiega la strada che i cinque hanno intrapreso, ed è una strada fantastica. Era dai tempi di Yield, quinto album del gruppo, che la band non aggiungeva veramente qualcosa alla musica contemporanea. L’unico tentativo era stato fatto con Rioct Act nel 2002 ma il risultato era stato un album difficile e infatti incompreso. E tutti gli altri dischi in questi dieci anni sono stati pubblicati musicalmente “in difesa”. Non è questo il caso di Back Spacer, disco che, nonostante i mix di tre stili diversi che non possono coesistere in un lavoro solo, è principalmente pop rock. Un pop rock d’autore. Gli altri due stili sono il rock puro dei primi quattro pezzi e dell’ottavo, Supersonic, fatta eccezione per il singolo, The Fixer, che, a parte alcune schitarrate e il testo molto rock (Fight to get it back again dice il ritornello), è anch’esso soprattutto pop, con gli Yeh Yeh Yeh Yeh (solo uno in più della famigerata She Loves You dei Beatles!) del ritornello e le tastiere di Brendan O’Brien (produttore e musicista, che ha ripreso il gruppo dopo averlo lasciato, guarda caso, dopo il quinto album), e le due parentesi acustiche di Just Breathe e The End, figlie dell’esperienza solista di Eddie Vedder nel film di Sean Penn, Into The Wild, per il quale ha curato appunto la colonna sonora. I quattro pezzi mancanti, Amongst The Waves, Unthought Known, Speed Of Sound e soprattutto Force Of Nature, sono quattro perle di bellezza rara: basi pop con tastiere o giri di chitarra non troppo veloci, strumenti che aumentano strofa dopo strofa, voce di Eddie che si fa sempre più intensa, fino alle grida, e il grande momento dell’assolo, che parte sempre come una liberazione e, finalmente, torna a far volare chi lo ascolta, continuando a suonare anche durante l’ultima strofa. Come ai vecchi tempi. Il titolo Back Spacer fa riferimento al "backspace", il tasto di ritorno delle vecchie macchine da scrivere che riporta indietro il carrello, ma è anche interpretabile come “colui che torna dallo spazio”, e questa ambivalenza tra passato e futuro spiega benissimo l’intero album. Anche il concept è finalmente innovativo: disegnato dal fumettista Tom Tomorrow completamente a colori, sia in copertina che nel booklet (i disegni, fino a No Code escluso, album dal quale hanno preso piede le foto, erano stati una costante negli album dei Pearl Jam, ma sempre in bianco e nero), è composto da nove quadri surreali sulla facciata e uno centrale quando si apre la custodia. Più alcuni particolari degli stessi ripresi nel booklet. Insomma, i Pearl Jam sono tornati, e lo hanno fatto alla grande, ma non alla grandissima. Ma per questo c’è tempo, l’importante è aver ritrovato la strada da percorrere. E, ascoltare per credere, loro l’hanno ritrovata e come. http://www.grigiotorino.it Ormai ci siamo. Manca pochissimo alla pubblicazione ufficiale di “Backspacer”, nono album in studio per il mitico quintetto di Seattle capitanato dal grandissimo Eddie Vedder, cantante, chitarrista, frontman, compositore e chi più ne ha più ne metta… un personaggio che col tempo, un passo alla volta, ha saputo conquistare il cuore delle sterminate platee di fans della band, nonchè prendere il timone di una formazione all’interno della quale non mancano certo forti personalità e musicisti di prim’ordine. Lo stesso Stone Gossard (chitarrista e fondatore) ha dichiarato con una bella metafora che i Pearl Jam sono come un gruppo di persone che viaggia d’amore e d’accordo sulla stessa automobile, con Eddie che però tiene entrambe le mani sul volante! Nonostante tutto ciò, alla fine è sorprendente come, nonostante la netta preponderanza del cantante a livello compositivo, i Pearl Jam riescano sempre a venire fuori con dei lavori che hanno quell’incofondibile sapore di opere “corali”, di album a cui tutti hanno contribuito con i loro personalissimi imput, non ultimo l’ottimo produttore e amico della band Brendan O’Brien, che

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ritorna ufficialmente in cabina di regia dopo una pausa che durava fin dal 1989, con l’album “Yield”. E proprio il produttore mi sembra un ottimo punto di partenza per analizzare questo album che, dal mio punto di vista di “die-hard fan” dei 5 di Seattle, è assolutamente e pienamente soddisfacente, a dispetto dei suoi 11 brani per poco meno di 37 minuti, in assoluta controtendenza rispetto agli standard attuali dell’industria discografica, cosa che sicuramente avrà fatto spuntare un ghigno di soddisfazione sulle facce dei nostri, da sempre parecchio restii a piegarsi a voleri di chicchessia. Ma dicevamo di Mr. O’Brien… ancora una volta il suo è un apporto fondamentale, con dei suoni che finalmente escono PROPRIO COME DOVREBBERO, chiari, puliti e cristallini, dove tutto e perfettamente udibile e comprensibile fino all’ultima nota, e dove viene reso perfettamente quel feeling “live” che tanto si addice ad un vero e proprio ROCK album come “Backspacer”, con chitarre potenti e definite, basso e batteria che escono gagliardi con un suono spontaneo e non artefatto. Per chi ha familiarità con le grandi rock band del passato il nome degli WHO (per Vedder tra gli idoli di sempre!) è il primo che salta alla mente, specialmente nell’opener “Gonna See My Friends”, il cui impatto potente e dinamico mette subito le cose in chiaro. Non che immediatamente dopo la band si calmi e si rilassi, anzi…”Got Some” (musica del bassista Jeff Ament) segue a ruota e, nonostante sia già stato presentato in anteprima al Tonight Show di Conan O’Brien a giugno, il brano continua a sorprendermi con il suo geniale ed aggressivo arrangiamento, con la tensione che cresce esponenzialmente e poi si libera nel cantato nevrotico ed aspro di Eddie… magnifica! Più particolari e meno immediate le seguenti “The Fixer” (scelta come singolo/promo video) e “Johnny Guitar”, con la seconda (firmata nelle musiche da Stone Gossard e dal grandissimo batterista Matt Cameron) che si pone subito tra i capolavori dell’intero album, con il suo finto incedere “classic rock”, che quando credi di aver capito dove andrà a parare ti sorprende con guizzi e deviazioni improvvise, e il cui eroico finale viene subito sfumato lasciandotela immaginare in devastanti versioni live. A seguire c’è il tempo di prendere fiato con “Just Breathe”, figlia legittima e dichiarata di quanto scritto da Vedder per l’ottima colonna sonora di “Into The Wild”: atmosfere rilassate e quasi “bucoliche”, un quadretto delizioso valorizzato al massimo in sede di produzione dall’aggiunta degli arrangiamenti orchestrali di Brendan O’Brien che, lungi dal renderla stucchevole, ne fanno una piccola e brillante perla preziosa. Ancora Gossard autore delle musiche per la seguente “Amongst The Waves”, incedere solenne e potente, di nuovo il benigno fantasma degli Who che fa capolino. Anche il chitarrista dimostra la sua versatilità firmando pure “Supersonic”, una delle vigorose e furibonde scorribande rock’n'roll ai confini col punk a cui la band di Seattle ci ha abituato nel corso degli anni, mentre Vedder risponde con “Unthought Known” e “Speed Of Sound”, con la prima che si piazza anch’essa fra i capolavori di “Backspacer” con il suo impatto emotivo in crescendo davvero struggente, mentre la seconda si aggiudica la palma di brano più complesso del lavoro con il suo soffuso andamento pseudo-blueseggiante punteggiato di soluzioni tutt’altro che scontate. Ancora rock nel senso classico del termine per la penultima “Force Of Nature” a firma dell’ottimo Mike McCready, il chitarrista solista della band che mette il suo sigillo a quello che forse è il brano più “tipico” per i Pearl Jam, una song che comunque è già pronta ad essere valorizzata in sede live da un arrangiamento magari leggermente più robusto, pratica questa assai usuale per questi cinque magnifici “animali da palcoscenico”. Finito così? Nossignore, c’è ancora il tempo per gustare “The End”, acustica ballata tipica del Vedder più riflessivo, anche questa splendidamente resa dal discreto (nel senso di “non invadente”!) arrangiamento per archi ad opera del produttore, che rende ancora più chiaro il concetto: i Pearl Jam e Brendan O’Brien “si appartengono” e, pur non condannando la legittima voglia di sperimentare nuove soluzioni che spesso ha guidato Vedder, Gossard e compagnia, bisogna riconoscere che

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QUESTO è l’assetto perfetto per far si che ogni album dei Pearl Jam sia ciò che dovrebbe essere: quanto di più vicino ad un capolavoro sia umanamente possibile. Non resta che augurarsi che non sia “solo” la sterminata miriade di fans della band a rendere il doveroso tributo a questo grande lavoro, ma che “Backspacer” venga apprezzato su più larga scala, nella speranza che possa ripetersi un qualcosa di meraviglioso come durante il tour del 2006, con CINQUE esauritissime date nel nostro paese e addirittura un dvd live “dedicato” (”Immagine In Cornice”) a celebrare l’evento, un qualcosa che possa sancire una volta di più l’amore incondizionato che lega i Pearl Jam all’Italia. Luca Praino Doublethinkmagazine.blobspot.com 3 dicembre 2009 "Se la coerenza è una virtù nessun'altra band suona così fedele ai suoi ideali." Ho voluto iniziare questa recensione con una citazione presa in prestito da un giornale, perchè non c'è nulla di meglio che queste parole a riassumere la carriera, il presente, il futuro e il credo dell'intera vita musicale dei Pearl Jam. Dopo quasi 20 anni passati sulla cresta dell'onda, gli unici sopravvissuti del movimento "Grunge" danno alle stampe un nuovo album che, se vogliamo, sorprende per la sua estrema compattezza e qualità, merito anche dell'eccellente ritorno di Brendan O'Brien alla produzione. Un disco immediato e senza fronzoli (il più breve come durata dell'intera carriera del gruppo di Seattle) che colpisce per una buona varietà di stili, grazie anche alla comparsa di strumenti che raramente facevano la loro comparsa nelle passate produzioni del quintetto americano. Si passa dall'inizio energico di "Gonna See My Friend" e "Got Some" (quest'ultima con un incedere del basso di Jeff Ament molto new-wave) che marcano un pò la direzione dell'intero album, per arrivare a quello che è stato scelto come il singolo per il lancio mondiale dello stesso: "The Fixer" è un pezzo piuttosto anomalo nel catalogo dei Pearl Jam che ad un ascolto iniziale può sembrare anche piuttosto banale ma che in un secondo momento colpisce per la sua semplicità e gioiosità, merito soprattutto delle sue atipiche venature pop. Si prosegue con "Johnny Guitar", titolo che può trarre in inganno. Ci si aspetta una canzone con citazioni ai Ramones e invece si ascolta un buon brano di rock classico con accordi iniziali che possono ricordare i Rolling Stones. Da sottolineare l'ottima prova vocale di Vedder (standard che mantiene in tutto il disco: una sicurezza) e il sempre chirurgico Matt Cameron, batterista d'altri tempi. Si arriva al primo capolavoro del disco. "Just Breathe" è di una bellezza disarmante, ricca di dolcezza, pathos e tenerezza sottolineata dalla presenza di una sezione d'archi che, con la chitarra e la voce di Vedder, "dipingono" un quadro a dir poco emozionante. Da notare come si percepisca in maniera forte l'influenza della passata esperienza del cantante nella colonna sonora di "Into the Wild". Non poteva mancare il tributo di Eddie Vedder al mare in "Amongst the Waves", canzone che sembra un tributo ai R.E.M. (d'altronde tutto il nuovo lavoro della band sembra un intero tributo alla musica da loro amata in gioventù). Brano buono ma forse il più debole della compagnia. Le successiva "Unthought Known" è un ottimo brano, strumentalmente semplice ma piuttosto trascinante, grazie anche al crescendo che porta ad un intermezzo potente, dove si può apprezzare la presenza di Brendan O'Brien, che contribuisce al pezzo con un superlativo apporto al pianoforte. "Supersonic" è la canzone selvaggia che in un disco dei Pearl Jam non può mai mancare. Questa sì è un tributo ai Ramones (era quasi nell'aria), ma che sorprendentemente è ad opera di Stone Gossard e non di Vedder come ci si poteva aspettare. Il chitarrista fa sempre il suo con diligenza e precisione. Il momento adrenalinico è spezzato da "Speed of Sound", buona ballata rock come solo i Pearl Jam sanno fare oramai, ma che si apprezza di più nella versione "demo", spogliata di tutti gli strumenti e interpretata da Eddie Vedder con la sola chitarra acustica e qualche sovraincisione di slide-guitar e controcanto. Il rock classico torna a far capolino nella successiva "Force of Nature" ad opera di

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Mike McCready, chitarrista solista che dà sempre i suoi ottimi contributi ai lavori del gruppo e che sembra quasi l'alter-ego scatenato del più compassato Stone Gossard. In questo brano si possono apprezzare reminiscenze del miglior Neil Young, con cui i Jam in passato hanno anche collaborato. E si arriva così alla degna conclusione del disco, altro capolavoro del Vedder solista. "The End" è un pezzo che è quasi un pugno allo stomaco. Ma non come ci si potrebbe aspettare. Questo brano colpisce per la sua atmosfera pacata e "drammatica", con il cantante che è protagonista di un'interpretazione meravigliosa e struggente, riuscendo a spingere la voce quasi ai limiti del possibile. Anche qui sono presenti solo gli archi a far da cornice alla sola chitarra acustica. Da spendere una parola per il testo che è davvero pura poesia. Molto toccante. Per concludere, i problemi se vogliamo sono sempre gli stessi. Molta gente rimarrà perplessa all'ascolto. Riecheggiano ancora nella mente dei più nostalgici le urla sfrenate di Vedder dei primi tempi, difficili da scordare. Ma chi è dotato di un pò di coscienza capirà che i tempi passano e il corpo ne risente. Ma l'anima dei Pearl Jam è sempre lì ed è una delle poche certezze rimaste nel panorama rock attuale. Chi si vuole abbandonare ai ricordi Ten è sempre lì sullo scaffale, chi vuole maturare ed appassionarsi assieme a loro stringa un pò i cd già in possesso e lasci un pò di spazio al futuro. "Everything has changed, absolutely nothing change!" Dario Ballabio http://luckyshoppingdemo.myblog.it 26/10/2009 A differenza dei loro conterranei Soundgarden e Nirvana, i Pearl Jam non hanno mai sviluppato un sound veramente personale. Pur tenendo alcuni cardini fissi nella composizione (suoni ruvidi, una ritmica in bilico tra la ballata ed il punk primordiale, una certa ricerca melodica nelle linee vocali), i PJ hanno sempre evitato di focalizzarsi su uno stile preciso e troppo riconoscibile. Indipendentemente dal fatto che questo sia frutto di una scelta precisa o di un limite della band, la cosa ha dato modo al gruppo di sfornare una serie di album di buona (Vitalogy, No Code, Yeld) e ottima fattura (Ten e Vs) che non si assomigliano troppo tra di loro, permettendo così di tenere alta l'attenzione di fan[s] e critica. Tuttavia, quando con Binaural la vena compositiva ha cominciato a mostrare il fiato corto, la mancanza di uno stile ben definito ha impedito al gruppo di operare un taglio netto col passato, di virare nettamente verso nuovi lidi musicali. I PJ, ad un certo punto della loro carriera, non hanno saputo fare quello di cui sono stati capaci ad esempio gli U2 con Achtung Baby, o i Radiohead con Kid A. Da Binaural in poi l'aria è quella del già sentito, con qualche sprazzo di vitalità, ma sempre un po' appiattito sul noioso. Quest'ultimo lavoro, pur mostrando qualche passo in avanti rispetto a Riot Act e all'omonimo Pearl Jam, non si discosta da questo andazzo. L'ascolto rimane pur sempre gradevole, alcuni pezzi fanno prevedere un certo successo in un contesto Live, ma nel complesso è un lavoro che non lascia con la voglia di essere ascoltato e riascoltato. I momenti migliori sono sicuramente quelli in cui Eddie Vedder prende il pallino della situazione (The End, Just Breathe, Speed Of Sound), mostrando un timido distacco dalle soluzioni classiche della band; decisamente meno riusciti quelli in cui sono le chitarre a farla da padrona: qui è sempre il solito suonare a base di riff-simil-anni-70. I PJ sono uno dei pochi (grandi) gruppi che dal vivo riesce ancora ad emozionare pienamente, e questo grazie anche al loro approccio basato sulla musica interamente suonata live (senza basi e sequencer), al largo impiego dell'improvvisazione, ad un repertorio da cui attingono a piene mani senza indugiare troppo sui cavalli di battaglia. Da studio la band ha ormai da tempo perso l'antico smalto. Che per i PJ sia arrivata "The End"?

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http://www.dedioste.net 28 ottobre 2009 Diciamolo subito: “Backspacer” è un gran bel disco, i Pearl Jam invecchiano bene a anche a 18 anni da Ten hanno ancora parecchio da dire. Backspacer è un altro passo nel vagabondare musicale dei PJ: disco disomogeneo, con canzoni a pattern, ma una coerenza di fondo data da un suono pulito, niente orrori di equalizzazione e testi chiari, armonici. Il primo terzo del disco è pieno di canzoni con ritmo incazzato e molto tiro, con la voce di Eddie tenuta a freno e molto spazio alle chitarre e ai riff duri. “Gotta see my friends”, “Got some”, “The Fixer” e “Johnny Guitar” sono quattro pezzi rock che messi tutti in fila non si vedevano da un bel po’ in un disco dei PJ. La cosa bella è che suonano completamente naturali: volevano fare pezzacci rock e quelli hanno fatto. Diretti, duri, con ritmo. “Just Breathe”, peraltro primo singolo, è una canzone di “Into the wild” che è finita in questo disco. Chitarre acustiche, Eddie che inizia a usare la voce, ritmo tranquillo. “Amongst the waves” e “Unthought known” sono due dei miei tre pezzi preferiti dell’album e sono puro stile: ritmo deciso ma non troppo veloce, ritmiche millimetriche, la voce di Vedder che spicca sulle chitarre completandole e completandosi. Il duo “Supersonic”/”Speed of sound” gioca sugli opposti concordi: Dove una è veloce e riffatissima, l’altra è languida e soffice. “Force of nature” è il terzo pezzo capolavoro dell’album: quando, dopo un bel crescendo, Vedder attacca il bridge con: “One man stands the edge of the ocean - A beacon on dry land” porta a casa tutti gli ascoltatori senza problemi. Questa dal vivo dovrebbe riservare emozioni incredibili. Per intenderci, siamo dalle parti di “Wishlist”. Il disco finisce con “The End”, voce chitarre e poco altro a chiudere il disco con calma e riflessione: ”My dear - The End - Comes near - I’m here - But not much longer” Sono 36 minuti di album, ma che 36 minuti, cari lettori. Nota a margine: questo album è stato il mio primo acquisto su iTunes. Avrei preferito (e dai PJ un po’ me lo sarei aspettato) trovarlo disponibile nella sezione ecommerce del sito ma alla fine l’ho comprato da lì. Devo dire che l’esperienza è davvero positiva: AAC a 280kbps, qualità audio ottima, costo totale 9.99€, veloce, file ascoltabili ovunque (tranquillamente drag’n'drop su Rhythmbox e sul mio HTC Magic, niente ricodifiche o artifici). Se questo è il futuro della musica, ben venga. Guerrilla Radio Corriere.it Due le premesse. Ho ascoltato il disco 2-3 volte e la mia passione per Eddie e soci è cosa di lunghissima data (sono uno dei pochissimi fortunati ad averli visti anche nella loro prima uscita italiana al "Sorpasso" di Milano - mi pare fosse il febbraio del '92 - una vita fa...). Ne aggiungo una terza: sono stato accusato dal Solito di non aver citato i titoli delle canzoni nel mio post sul disco nuovo dei Muse. Qui li troverete, così magari a 'sto giro avrà meno da ridire. Magari. Il disco, dunque. Diciamo subito che non è un capolavoro, ma alla fine alzi la mano chi se lo aspettava. E' un buon disco di sano rock (una quarantina di minuti in tutto) con una prima parte piuttosto tirata, una centrale più riflessiva (la migliore a mio parere) e una finale invece poco riuscita. I pezzi più veloci sono decisamente senza fronzoli e qua e là si fa sentire forte l'eco dei Ramones (soprattutto in "Supersonic"). Il brano di apertura - "Gonna see my friend" - è senza infamia e senza lode, ma è seguito dalla canzone veloce migliore del lavoro: "Got some". Poi l'uno-due peggiore del disco: "The fixer" e "Johnny guitar" si somigliano parecchio. Purtroppo. Qui la breve durata della canzoni viene sicuramente in aiuto. Per fortuna arrivano una dopo l'altra le tre migliori canzoni di tutto il cd: "Just breathe", "Amongst

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the waves" e il bellissimo crescendo di "Unthought known". Di "Supersonic" si è già detto. "Speed of sound" è la canzone meno Pearl Jam del disco. Non ho ancora capito se mi piace. Di sicuro è quella con l'incedere più strano. Gli ultimi due brani sono da dimenticare: "Force of nature" ha un riff che sembra rubato a un brutto gruppo pop-rock anni 80. "The end" invece è molto pretenziosa, vede la presenza di archi che però "intralciano" la voce di Vedder senza dare sostegno alla melodia. L'impressione è che se non ci fossero sarebbe meglio. Se dovessi dare un voto direi 6,5 o - con un po' di manica larga - dal 6 al 7. Un po' meglio dell'ultimo disco, un lavoro più che dignitoso e che nella media del panorama odierno fa la sua porchissima figura. Ma sono i PJ, mi aspetto sempre qualcosa in più da loro. Dal vivo però sono tra il meglio che c'è in circolazione. E l'impressione è che almeno un paio tra le canzoni che su cd non convincono più di tanto possano guadagnare parecchi punti nella loro versione live. http://asroma1927.forumcommunity.net 11/10/2009 Nel 1994, il Grunge, genere musicale nato dalla geniale fusione di Hard Rock e Punk, muore definitivamente. Nello stesso anno in cui il suo più grande promotore, Kurt Cobain, lascia questo mondo: non si tratta affatto di una strana coincidenza. Kurt trascina con se tutte le band che in qualche modo avevano tentato di mantenere in vita il rock agli inizi degli anni ’90, dove ormai il rap la faceva da padrone. Gli Alice in Chains spariscono, così come i Suondgarden e nel frattempo, nasce forse il genere che dà la mazzata finale al mondo del rock: il new metal. In questo desolante panorama, i Pear Jam decidono di andare avanti, ma stranamente, dopo l’uscita di Vitalogy (proprio nel 1994), decidono di cambiare progressivamente strada. Da tutti i lavori successivi si evince che questa non è più la stessa band che un tempo spalleggiava i Red Hot Chili Peppers esaltando le masse con la loro energia; insomma: non intendevano più cambiare la musica come una volta. Man mano, l’originalità si assopisce lasciando il posto alla voglia di creare pezzi di poco spessore, movimentati, adatti alle classifiche, alla World Wide Suicide, diciamo. Ma non impressioneranno mai come i cari bei vecchi tempi di Jeremy, di Alive e compagnia bella. Ed è proprio la strada su cui continuano con il loro ultimo lavoro, Backspacer. Reduce da un lavoro acustico solista (Into The Wild, colonna sonora dell’omonimo film), Vedder è ancora molto ispirato. Ispirazione che gli darà disinvoltura e coraggio, coraggio di sperimentare nuovamente qualche lavoro da solista voce e chitarra anche in questo nuovo album dei Pearl Jam, come a dire <<a cosa mi servono gli altri cinque ora che ho trovato una nuova forma di musica?>>. L’album parte con Gonna See My Friends, un pezzo veloce e divertente ma senza spessore. Nulla di nuovo: da dieci anni a questa parte è ormai usanza da parte dei Pearl Jam, aprire un album in questa maniera.Ed è infatti da da dieci anni che la band si diploma a stento con la sufficienza. Il prologo dice tutto: ci troviamo dinanzi all’ennesimo album primo di nuovi spunti –se si tolgono gli esperimenti da solista del frontman-. Il brano si fa ascoltare ma non rimane in testa, una hit mancata che se non altro si fa apprezzare per la velocità di esecuzione. Si continua sempre sulla stessa strada con Got Some, un pezzo più accattivante rispetto al precedente, dove i Pearl Jam riprendono a parlare di temi sociali e di dipendenza da sostanze stupefacenti, come ai vecchi tempi, ma Vedder e compagni, ormai in pace con loro stessi, lo fanno con meno voglia, e si sente. Qualcosa del genere te lo aspetti dai Foo Fighters, un pezzo scorrevole senza pretese, non dai Pearl Jam. Quindi, fin qui, nulla di nuovo: mentre ascolto questo pezzo sono ormai convinto che questa band ripropone sempre lo stesso album da anni, con qualche variazione di tema. Si continua ancora con The Fixer, un pezzo sempre sulla falsa riga dei precedenti ma almeno più elaborato, vagamente new wave ma non propio riuscito. L’atmosfera inizia a calmarsi ed assumere toni più impegnativi con Johnny Guitar, ma è un pezzo senza né testa né coda, inutile insomma. Giunti quasi a metà disco, arriva l’esperimento acustico di Vedder accennato prima, a conferma di come la struttura dell’album è sempre la stessa da circa dieci anni. Just Breathe, un pezzo voce e chitarra accompagnato da un

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sottile flauto che fa da ricamo, è forse l’esperimento più riuscito dell’album. Un crescendo tutto acustico dove Eddie pare particolarmente a suo agio. Non a caso, è un pezzo scritto dal leader dei Pearl Jam per rievocare le atmosfere sottili create con il suo lavoro solista di qualche anno fa. Non può essere una coincidenza il fatto che il pezzo da solista, sia il lavoro meglio riuscito. Forse il destino dei vecchi spiriti rocker è mostrare maturità. Il pezzo seguente, Amongst The Waves, è una ballata rock allegra e spensierata che seppur non ci regala nulla di nuovo, è molto orecchiabile e rimane subito in testa, mentre Unthought Know è un mid tempo accompagnato dal piano che fa da tappeto, un brano pop rock che evoca atmosfere di fraternità e libertà, un brano da pub, da ascoltare fra amici al termine una serata trascorsa in piacevole compagnia; un ottima linea vocale del frontman – a dire il vero, una delle poche note positive dell’album è il ritrovato Vedder che sembra particolarmente coinvolto- guida un pezzo orecchiabile che però, tutto sommato non propone nulla di nuovo: il mondo del pop rock è praticamente pieno di pezzi del genere, siamo sempre lì, insomma: poca originalità. Si ritorna poi alle atmosfere di apertura disco con Supersonic: velocità ma più aggressività e se non altro, questa volta il brano rimane davvero in testa. Qui si rivelano le capacità esecutive della band nel suo complesso, che in brani del genere può spaziare molto facilmente, un brano diretto e piacevole condito da un assolo di chitarra pregevole. L’atmosfera si calma nuovamente con Speed Of Sound, un mid tempo questa volta swingato, dove riappare il piano, anche se meno in evidenza. Un ottimo Vedder guida questo brano malinconico e riflessivo, quasi folk rock, dove le schitarrate spensierate vengono messe momentaneamente da parte, rimanendo in secondo piano, lasciando spazio a strumenti prettamente acustici che creano atmosfere caratteristiche: un brano particolare ed evocativo, un qualcosa che non ti aspetti dai Pearl Jam ma che in fondo, è un esperimento ben riuscito, a conferma che forse la strada da seguire è un’altra e forse, prima o poi, il frontman della band di Seattle se ne renderà conto. Force Of Nature è invece l’ennesimo pezzo pop rock radio-friendly, questa volta molto ispirato –forse troppo- dagli u2, purtroppo dagli ultimi u2, brano che si lascia ascoltare ma con il quale si cade troppo facilmente nella banalità, in linea con gran parte dell’intera opera insomma. L’unica differenza strutturare che distingue quest’album dai suoi simili predecessori, è il brano di chiusura, The End. Non si tratta della solita ballata o di uno smielato mid tempo ma, a sorpresa, di un nuovo pezzo acustico voce e chitarra di Vedder, ancora molto influenzato dal suo lavoro solista; la conferma che deve essere questa la via da seguire per il vecchio ragazzo che un tempo era uno dei manifesti del grunge. L’Atmosfera si fa triste e nuovamente malinconica, un crescendo di archi e di strumenti orchestrali che fanno da accompagnamento ad una chitarra acustica usata sapientemente. Ancora una volta, Eddie si trova molto a suo agio e sembra cavarsela benissimo in questo genere. In conclusione, si può affermare che quei scatenati ragazzi americani che volevano scuotere il mondo sono maturati. È maturato il loro saper scrivere musica, è maturato il loro modo di eseguirla. Ma i tempi sono cambiati e lo star system non concede eccezioni: per sfondare, devi vendere. I Pearl Jam si sono adattati a questo stile di vita, proponendo da dieci anni lavori che non propongono nulla di eccezionale ed originale. E Backspacer è un album concepito per essere ascoltato in momenti di svago, in cui non si ha bisogno di prestare particolare attenzione a ciò che si ascolta, un album da sottofondo. Potrebbe anche semplicemente essere però, che la creatività dei Pearl Jam come gruppo, si sia esaurita circa dieci anni fa e che forse è arrivato il momento di dividersi per un po', per esplorare nuovi territori e magari tornare un giorno, ma come ai vecchi tempi. Una nota molto positiva è offerta da Eddie Vedder, che si trova in stato di grazia e che ha da poco scoperto una nuova strada: quella acustica. Strada che tra l’altro, riesce a percorrere benissimo anche da solo, come un veterano del genere, e chissà se presto non ci regalerà nuovi lavori solisti. Insomma, se avete apprezzato gli ultimi lavori dei Pearl Jam, di sicuro gradirete anche Backspacer. Se invece siete rimasti ancorati ai capolavori che furono, come Ten, restatene alla larga. [5,7/10]

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Renato Ferreri http://www.outune.net 19/09/2009 Sono passati tre anni dall'ultima release dei Pearl Jam, quell'album azzurro omonimo che trasudava rabbia e rassegnazione, tre anni in cui molte cose sono cambiate, il volto dell'America si è tinto di nero, si fatica ma si cerca di uscire dalla crisi finanziaria e mentre un certo Bruce “The Boss” Springsteen ci ha fatto sapere di 'star lavorando al sogno' Vedder e soci, già compagni nel Vote for Change, non sono stati da meno. “Backspacer” è un disco breve, 37 minuti di musica più o meno, ma è altrettanto vero che la botte piccola riserva sempre il vino migliore. La copertina ricorda quel mitico disco che fu “No code” e forse qualcosa di quei suoni riecheggia anche in questo lavoro, intanto il produttore è lo stesso di allora: Brendan O'Brien, che aveva lasciato i Nostri dopo “Yield”. I cambiamenti politici, di etichetta, forse un ritrovato ottimismo per il futuro, si rispecchiano tutti in “Backspacer” che suona tasti musicalmente più vicini al rock e al pop. E' chiaro subito dall'apertura con “Gonna see my friend”, brano sorretto da un bel riff rock/grunge sparato dove nel ritornello Eddie ci saluta con un 'buona sera' urlato. A seguire l'incalzante “Got Some”, una classica Pearl Jam song dedicata al problema della droga. Il singolo apripista “The Fixer” è un power pop con tanto di cori che nel contesto del disco non sfigura per niente, anzi ne descrive bene l'atmosfera di fondo. Il messaggio è chiaro: se c'è qualcosa che non va voglio tornare indietro e correggerlo, perché ci potrebbe essere una luce là in fondo da raggiungere. Altro rock divertente e che vuole divertire con “Johnny guitar” mentre “Just Breathe” regala il primo momento di pausa per un brano che avremmo potuto tranquillamente ascoltare in “Into the wild”. Questa è poesia in musica, Vedder parla della morte e dell'amore con una delicatezza e una profondità da brividi. “Amongst the waves” ricorda musicalmente un po' “Given to fly” così come la successiva “Unthought known” non può non far pensare a “Wishlist” almeno all'inizio, anche se poi il pezzo si sviluppa per conto suo e inserisce nell'impianto strumentale anche il pianoforte. “Supersonic” come dice il titolo è una corsa rock a 200 all'ora, mentre torna la riflessione in “Speed of sound”; i Pearl Jam invecchiano e non vogliono dimenticare nulla del passato ma stavolta forse c'è una speranza, un sussurro che dalle tenebre risponde a domande profonde su eventi che sono troppo veloci da ricordare. In chiusura troviamo “Force of nature” un brano cadenzato, dal ritornello melodico e “The end”, dove la voce leggera di Vedder porta all'orecchio ancora una riflessione su temi pesanti, ma affrontati con la cruda consapevolezza di far parte del bagaglio di tutti gli esseri umani. “Backspacer” è sicuramente un disco più solare rispetto ad altri lavori dei PJ ed è anche una cartina da tornasole della maturità a cui questa band è arrivata. Questa ricerca continua di un equilibrio d'intenti, con tutto il suo bagaglio di sofferenza, regala oggi alla musica un piccolo grande gioiello.