paziente odisseo gibellini

22
PIETRO GIBELLINI L’IMPAZIENTE ODISSEO ULISSE NELLA POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO Odisseo era per Omero soprattutto l’eroe paziente; l’Ulisse ricreato dai poeti italiani del Novecento assomiglia in prevalenza al- l’eroe impaziente cantato da Dante e da Tennyson. Questo saggio esamina la diversa fisionomia assunta dall’eroe navigatore nei poeti degli ultimi cento anni: per Arturo Graf Ulisse è affamato di avventura, per Gabriele d’Annunzio un Superuomo con- quistatore (di cui Guido Gozzano farà una gustosa parodia); per Giovanni Pascoli è un esploratore dell’animo umano. Ulisse as- sume sfumature volta a volta differenti nei versi di Clemente Rebora, Umberto Saba, Vincenzo Cardarelli, Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo, Cesare Pavese, Gior- gio Caproni, Paolo Wenzel, Alda Merini, Fernando Bandini. Il saggio si chiude su un prosatore, Primo Levi, che nei versi dell’U- lisse dantesco ricordati ad Auschwitz trova espressi l’inferno del lager e l’ansia della libertà. For Homer, Odysseus was above all the pa- tient hero; the Ulysses recreated by twen- tieth-century Italian poets bears a predomi- nant resemblance to the impatient hero sung by Dante and Tennyson. This essay exami- nes the different physiognony assumed by the sailor hero in poets over the last hundred years: for Arturo Graf, Ulysses thirsts for ad- venture; for Gabriele d’Annunzio he is a con- quering Superman (of whom Guido Gozzano would later make an amusing parody); for Giovanni Pascoli he is an explorer of the hu- man soul. Analogously, Ulysses takes on a variety of different nuances in the verse of different poets: Clemente Rebora, Umberto Saba, Vincenzo Cardarelli, Giuseppe Unga- retti, Salvatore Quasimodo, Cesare Pavese, Giorgio Caproni, Paolo Wenzel, Alda Merini, Fernando Bandini. The essay comes to a close with a prose writer, Primo Levi, who discerned, in the lines depicting Dante’s Ulysses that he remembered while he was at Auschwitz, an expression of the hell of the lager and the yearning for freedom. Il paziente Odisseo: così s’intitolava una fortunata riduzione dell’Odis- sea per ragazzi che Gherardo Ugolini pubblicò per La Scuola editrice di Brescia a partire dal 1961, e ristampata almeno fino al 1996 (da quanto si ricava dal catalogo elettronico del sistema bibliotecario nazionale, ma sicuramente apparsa qualche anno prima, se chi scrive può annoverarla fra le sue letture di prima media). In contrapposizione con coloro che, fin dall’antichità, facevano di lui l’exemplar dell’ansia conoscitiva, al polie- drico eroe veniva attribuita tradizionalmente la dote della pazienza, esal- tata in ambiente stoico nell’equazione fra sapientia e capacità di soppor- tare i rovesci della fortuna (come si ricava dal De constantia sapientis di Seneca, II, 2). Hans Blumenberg, che considera Odisseo «una figura della sofferenza che sbocca nel successo» e, in quanto tale, «esposta alla critica e alla re- visione, prima da parte dei platonici, poi anche di Dante», osserva che «già l’allegoresi stoica ha in sostanza ignorato il ritorno in patria di Ulisse, guardando solo a colui che non si è lasciato vincere dai fati este- riori e dalle debolezze interiori», come ben si conviene al saggio, per il quale «il movimento fondamentale dell’esistenza è diventato la fuga dalla terrena donazione di senso, cosicché ora il ritornare là donde si è partiti appare piuttosto come un controsenso».

Upload: gregoriodellatana

Post on 06-Aug-2015

276 views

Category:

Documents


2 download

TRANSCRIPT

Page 1: paziente Odisseo Gibellini

PIETRO GIBELLINI

L’IMPAZIENTE ODISSEOULISSE NELLA POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO

Odisseo era per Omero soprattutto l’eroepaziente; l’Ulisse ricreato dai poeti italianidel Novecento assomiglia in prevalenza al-l’eroe impaziente cantato da Dante e daTennyson. Questo saggio esamina la diversafisionomia assunta dall’eroe navigatore neipoeti degli ultimi cento anni: per ArturoGraf Ulisse è affamato di avventura, perGabriele d’Annunzio un Superuomo con-quistatore (di cui Guido Gozzano farà unagustosa parodia); per Giovanni Pascoli è unesploratore dell’animo umano. Ulisse as-sume sfumature volta a volta differenti neiversi di Clemente Rebora, Umberto Saba,Vincenzo Cardarelli, Giuseppe Ungaretti,Salvatore Quasimodo, Cesare Pavese, Gior-gio Caproni, Paolo Wenzel, Alda Merini,Fernando Bandini. Il saggio si chiude su unprosatore, Primo Levi, che nei versi dell’U-lisse dantesco ricordati ad Auschwitz trovaespressi l’inferno del lager e l’ansia dellalibertà.

For Homer, Odysseus was above all the pa-tient hero; the Ulysses recreated by twen-tieth-century Italian poets bears a predomi-nant resemblance to the impatient hero sungby Dante and Tennyson. This essay exami-nes the different physiognony assumed bythe sailor hero in poets over the last hundredyears: for Arturo Graf, Ulysses thirsts for ad-venture; for Gabriele d’Annunzio he is a con-quering Superman (of whom Guido Gozzanowould later make an amusing parody); forGiovanni Pascoli he is an explorer of the hu-man soul. Analogously, Ulysses takes on avariety of different nuances in the verse ofdifferent poets: Clemente Rebora, UmbertoSaba, Vincenzo Cardarelli, Giuseppe Unga-retti, Salvatore Quasimodo, Cesare Pavese,Giorgio Caproni, Paolo Wenzel, Alda Merini,Fernando Bandini. The essay comes to aclose with a prose writer, Primo Levi, whodiscerned, in the lines depicting Dante’sUlysses that he remembered while he was atAuschwitz, an expression of the hell of thelager and the yearning for freedom.

Il paziente Odisseo: così s’intitolava una fortunata riduzione dell’Odis-sea per ragazzi che Gherardo Ugolini pubblicò per La Scuola editrice diBrescia a partire dal 1961, e ristampata almeno fino al 1996 (da quantosi ricava dal catalogo elettronico del sistema bibliotecario nazionale, masicuramente apparsa qualche anno prima, se chi scrive può annoverarlafra le sue letture di prima media). In contrapposizione con coloro che, findall’antichità, facevano di lui l’exemplar dell’ansia conoscitiva, al polie-drico eroe veniva attribuita tradizionalmente la dote della pazienza, esal-tata in ambiente stoico nell’equazione fra sapientia e capacità di soppor-tare i rovesci della fortuna (come si ricava dal De constantia sapientis diSeneca, II, 2).

Hans Blumenberg, che considera Odisseo «una figura della sofferenzache sbocca nel successo» e, in quanto tale, «esposta alla critica e alla re-visione, prima da parte dei platonici, poi anche di Dante», osserva che«già l’allegoresi stoica ha in sostanza ignorato il ritorno in patria diUlisse, guardando solo a colui che non si è lasciato vincere dai fati este-riori e dalle debolezze interiori», come ben si conviene al saggio, per ilquale «il movimento fondamentale dell’esistenza è diventato la fugadalla terrena donazione di senso, cosicché ora il ritornare là donde si èpartiti appare piuttosto come un controsenso».

Page 2: paziente Odisseo Gibellini

106 PIETRO GIBELLINI

Già Leopardi, del resto, aveva posto l’accento su un Ulisse paziente,ricco di virtù ammirevoli, foscolianamente bello di sventura. Così scriveinfatti nello Zibaldone:

Veggiamo nell’Odissea che Ulisse, molto stimabile, in molte parti ammirabile estraordinario, in nessuna amabile, benché sventurato per quasi tutto il poema,niente interessa. Ei non è giovane, anzi n’è ben lontano, benché Omero si sforzadi farlo apparire ancor giovane e bello per grazia speciale degli Dèi, di Minervaec. o per una meraviglia (che niente ci persuade perché inverisimile), piuttostoche per natura, anzi contro natura. Ma il lettore segue la natura, malgrado delpoeta e Ulisse non gli pare né giovane né bello. Le qualità nelle quali Ulisse ec-cede, sono in gran parte altrettanto forse odiose quanto stimabili. La pazienzanon è odiosa, ma tanto è lungi da essere amabile, che anzi l’impazienza si è ama-bile. Insomma ne nasce che Ulisse, malgrado delle sue tante e sì grandi e sì variee sì nuove e sì continue sventure, e malgrado ch’ei comparisca misero fino quasiall’ultimo punto, non riesce per niun modo amabile. E per tanto ei non inte-ressa. Ulisse è personaggio maraviglioso e straordinario. I pedanti vi diranno checiò basta ad essere interessante. Ma io dico che no, e che bisogna che a questequalità si aggiunga l’essere amabile, e che quelle conducano e cospirino a pro-dur questa, o, se non altro con lei, sieno condite; e che il protagonista sia mara-vigliosamente e straordinariamente amabile, cioè straordinario e maravigliosonell’amabilità, o per lo meno tanto amabile quanto maraviglioso e straordina-rio.

Paziente dunque ma non amabile, al pari del Goffredo tassesco, per Leo-pardi (per quel Leopardi) il callido guerriero, definito con l’ossimoro diantico e moderno, ha la colpa di differenziarsi dagli eroi antichi, vereforze dell’idoleggiata natura, per somigliare agli eroi moderni, campionidella ragione, fonte di sofferenza e di impoeticità. Non stupisce che il Re-canatese preferisse la «primitiva» Iliade, dove Ulisse è uno dei compri-mari, all’Odissea, in cui campeggia come protagonista.

Rovesciando quello del volumetto di Ugolini, il titolo della nostraconversazione, L’impaziente Odisseo, intende sottolineare che alla poesiaitaliana del Novecento quello che interessa è l’Ulisse inquieto, so-stanzialmente privo dei requisiti di imperturbabilità, della tratteggiatalinea Seneca-Leopardi-Blumenberg. Una teorema che cercheremo didimostrare, tenendo conto di due corollari. Primo: la riduzione aunità del poliedrico volto del figlio di Laerte, ardua per la letteraturadi ogni epoca, lo è particolarmente per quella novecentesca, nellaquale la doppia identità suggerita onomasticamente da Omero (Ulisse-Nessuno) è sottoposta a un ulteriore, pirandelliano, processo di dif-frazione; secondo: nel ridipingere con i colori più vari il volto diUlisse, gli scrittori novecenteschi oltre al modello archetipico dei poemiomerici, hanno guardato ai remakes che si sono accumulati nei secoli.Infatti, se nel passo di Leopardi risuona l’eco del foscoliano A Zacinto,nei lirici del Novecento, a partire dai poeti-professori Arturo Grafe Giovanni Pascoli, la tastiera delle reminiscenze si estende. Due,tuttavia, sono i tasti martellati con più frequenza: Dante e Tennyson,un romantico del Medioevo e un romantico dell’Ottocento, che pur

Page 3: paziente Odisseo Gibellini

L’IMPAZIENTE ODISSEO 107

nell’abissale distanza cronologica e ideologica, erano accomunati dal-l’ammirazione empatica per il protagonista del «folle volo».

S’intende che se ogni letteratura è una lunga valle in cui gli echi rim-balzano a distanza, quella italiana, caratterizzata da un elevato tasso dierudizione, mette in luce gli aspetti del cangiante volto ulissiaco preoccu-pandosi raramente della sua congruità con l’originale omerico. Prima diconcentrarci sui lineamenti con cui l’eroe è dipinto nei decenni che ciprecedono, ci pare dunque opportuno gettare un rapido sguardo allalunga galleria di ritratti prodotti nei secoli dai nostri poeti.

Dopo il luminoso Ulisse dell’Inferno, sulla cui immagine abbaglianteritorneremo a più riprese, ecco Petrarca che, nel Trionfo della Fama,rinnova sottovoce la condanna dantesca dell’eroe perché «desiò delmondo veder troppo», anche se nella prima delle Familiares non esita aparagonarlo a se stesso per la comune passione del viaggio; più informa-tore che giudice appare invece Boccaccio nell’Amorosa visione, dicendoche Ulisse «per voler veder trapassò il segno». Nel Morgante, la benevo-lenza di Pulci verso l’eroe che fa arrossire Ercole per aver posto l’inutiledivieto, segna un punto di svolta verso il definitivo riscatto di Ulisse che,con la scoperta dell’America, diventa termine di paragone per CristoforoColombo, al pari di Giasone, sottratto alle rampogne per il nefas di cuiera oggetto nella Medea di Seneca. Ecco dunque che, nell’Orlando Fu-rioso, Ariosto loda il navigatore itacese ardito al pari di Alfonso del Va-sto, ed esalta con maliziosa ironia anche Penelope, la quale «sol perchécasta visse / non fu minor d’Ulisse». L’accostamento Ulisse-Colombo ri-torna nella Gerusalemme liberata, in cui è ripresa l’immagine dantescadel navigatore che «passò le Colonne, e per l’aperto / mare spiegò de’remi il volo audace: / ma non giovògli esser nell’onde esperto, / perchéinghiottillo l’oceàn vorace», nella miscela di lode e di condanna che ca-ratterizza la problematica collocazione di Tasso fra Rinascimento eControriforma.

Con il dialogo filosofico Circe, Gian Battista Gelli si mette invece su al-tre lunghezze d’onda e, riproponendo la situazione del Grillos di Plu-tarco, presenta un Ulisse che ricorre a tutta la sua eloquenza per persua-dere i compagni trasformati in bestie a riprendere la dolorosa ma nobileforma umana. Seguendo i mutamenti epocali, ecco che l’Odisseo di Ales-sandro Tassoni, nell’Oceano, si caratterizza, oltre che per l’amore d’av-ventura di matrice dantesca, per la brama d’oro e di gemme scatenatadalla scoperta dei nuovi eldoradi. E Metastasio, attento lettore del teatroellenico e consapevole dunque della frequente condanna dell’astuzia diUlisse, lo assolve e gli riconosce il merito di aver persuaso l’Achille inSciro a partire per la guerra, smorzando la condanna da cui ancora eracolpito nell’Aiace e nei Sepolcri di Foscolo, che tuttavia lo consegna«bello di fama e di sventura» alla mitologia romantica.

Nell’età romantica, nonostante le esemplari traduzioni dei poemi omericidi Pindemonte e di Monti, quelle frammentarie di Foscolo e di Leopardi,e poi di Carducci e di Pascoli, il revival di Dante e la fortuna di Ten-

Page 4: paziente Odisseo Gibellini

108 PIETRO GIBELLINI

nyson, come già accennato, finiscono per far prevalere una visione tuttabenevola dell’eroe della conoscenza, al punto da sollecitare, come ogniconsacrazione, la dissacrazione comico-parodistica di un Giusti, nel cuiBrindisi il fascino dell’Iliade è tutto imputato alle abbondanti imbandi-gioni e alle gagliarde bevute. La polarità Dante-Tennyson percorre L’ul-timo viaggio di Ulisse, il poemetto di Arturo Graf incluso nelle Danaidi(1897) nel quale si narra che, quattro anni dopo il ritorno a Itaca, l’eroecontinua a raccontare compiaciuto le passate avventure finché, dopo altriquattro anni, sente rinascere «sottil come tossico un disdegno / di sestesso e d’altrui» e un insopportabile «tedio» che lo inducono a salpare dinuovo verso l’ignoto. Le suggestioni dell’Inferno e dell’Ulysses (a suavolta dipinto con l’occhio fisso al canto dantesco) si avvertono in nume-rosi sintagmi del poemetto, ma soprattutto nell’elezione dell’eroe naviga-tore a emblema della sete di conoscere, vero titolo di nobiltàumana:

Compagni, amici! O voi cui sola normafu sempre e fu solo desio la gloria;avventurosi eroi, la cui memorianon perirà, se fra l’umana genteogni nobile orgoglio, ogni ferventespirto, ogni pregio di valor non pera;le mie parole udite. Ad uom di veravirtù precinto e per gran fatti egregioè pena l’ozio, onta la pace, sfregiola securtà. Qual è di voi che questavita all’antica, e le passate gestacol presente torpor paragonando,dite, qual è di voi sì miserando,che da vergogna e da rimorso il coreaddentar non si senta? Oh, tristo errore![...]Che più? se in tutto non si fer serviligli animi vostri; se obliato in tuttoil nome vostro non avete, e il fruttodi vostr’opere antiche, or m’ascoltate.Già stringe il tempo, già ne son contatel’ore. Deh, non lasciam che in tanto obliopur di noi stessi, in così basso e riostato ne colga l’aborrita morte.Anzi l’ultimo sole, di noi, del fortenostro lignaggio rifacciamci degni.Rompiam gl’indugi; i frivoli ritegnirimoviamo oramai. Tentar ne giovianche una volta il dubbio caso, e novimari solcar, premere ignote arene,cercar genti remote; al male e al beneparati a un modo; alla comun salutedevoti sempre; e di non più vedutemeraviglie i beati occhi pascendo.

Page 5: paziente Odisseo Gibellini

L’IMPAZIENTE ODISSEO 109

L’orazione non più «picciola» che Odisseo fa ai compagni, cuore delcomponimento di Graf, presenta molte analogie con il testo dell’Inglese,che riportiamo nella traduzione di Pascoli:

Stupida cosa il fermarsi, il conoscersi un fine, il restaresotto la ruggine opachi né splendere più nell’attrito.Come se il vivere sia quest’alito! Vita su vitapoco sarebbe, ed a me d’una, ora, un attimo resta.Pure, è un attimo tolto all’eterno silenzio, ed ancoraporta con sé nuove opere, e indegno sarebbe, per qualchedue o tre anni, riporre me stesso con l’anima espertach’arde e desìa di seguir conoscenza: la stella che cadeoltre il confine del cielo, di là dell’umano pensiero.[...]Eccolo il porto, laggiù: nel vascello si gonfia la vela:ampio nell’oscurità si rammarica il mare. Compagni,cuori ch’avete con me tollerato, penato, pensato,voi che accoglieste, ogni ora, con gaio ed uguale salutotanto la folgore, quanto il sereno, che liberi cuori,libere fronti opponeste: oh! noi siam vecchi, compagni;pur la vecchiezza anch’ella ha il pregio, ha il compito: tuttochiude la Morte; ma può qualche opera compiersi primad’uomini degna che già combatterono a prova coi Numi!

Tuttavia, il poeta italiano alfiere del leopardismo conferisce un sensonuovo al naufragio dell’eroe: mentre in Tennyson rappresentava un’e-ventualità contemplata che non basta a dissuadere gli arditi navigatori,in Graf esso si fa allegoria della fragilità umana di fronte alla tempestadell’esistere. E d’altra parte, al dantesco castigo divino inflitto a chi hatroppo osato («com’altrui piacque»), si sostituisce nel poeta moderno l’i-dea che il fallimento dell’impresa sia solo il segno dell’intrinseco limitedell’uomo, comunque destinato all’«eterna notte».Il poeta professore, figlio del suo tempo sul piano del pensiero, non lo èmeno su quello della forma. Egli si ispira ai quattro essenziali, celeber-rimi, endecasillabi danteschi:

Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque;a la quarta levar la poppa in susoe la prora ire in giù, com’altrui piacque,infin che ’l mar fu sovra noi richiuso,

ma li dilata con un acceso colorismo drammatico:

Il tumulto, il fragore e la rovina.Invan le navi alla mortal rapinatentan fuggir. Manca ogn’ingegno, è frantaogni virtù. Strappa le vele, schiantagli alberi il turbo, e con orrendo spirotrae le carene in vorticoso giro.Ed ecco, sotto a lor, nell’onde crude

Page 6: paziente Odisseo Gibellini

110 PIETRO GIBELLINI

una immensa voragine si schiude,e roteando e spumeggiando inghiottecarene e vite nella eterna notte.

Tuttavia è con Gabriele d’Annunzio che Ulisse entra rumorosamente nelnuovo secolo. Ho detto Ulisse, ma sarebbe meglio dire Odisseo se si ri-corda che Giorgio Pasquali rilevò nel poeta abbruzzese una dominanteellenica che lo distingueva dal classicismo dei suoi contemporanei, diispirazione prevalentemente latina. E se il Vate non disdegnava le mo-derne versioni dei testi greci, specie se prodotte da mani sapienti comequelle di un Leconte de Lisle, il suo occhio poteva correre senza diffi-coltà, se necessario, all’originale. Restio a riconoscere la suggestione diauctores diversi dai classici, egli faceva eccezione per Dante, e a Ten-nyson non mancò di dedicare un sonetto. Poggiando dunque anche lui suquesti due pilastri, finì per fare di Ulisse, come suggerì un altro filologoclassico con passione di italianista, Carlo Diano, l’eroe paradigmaticodella propria Weltanschauung, da accostare alla divinità prediletta, Er-mete, e al suo modello di uomo, Alcibiade. Una terna convincente, anchese il fanciullo ermetico dannunziano inclina verso l’orfico, e se alla figuradell’eroe-navigatore il poeta-aviatore amò sovrapporre o sostituire quelladi Icaro (nella quale finiva per convogliare anche la propria componentealcibiadèa), incarnazione del superamento del «medio limite» e dell’a-more per il «rischio dagli occhi irretorti», tratti peraltro squisitamenteulissiaci. Il dantesco «folle volo» che nel quarto Ditirambo di Alcyoneconduce il figlio di Dedalo alla morte e alla gloria, anticipa l’ansia di eb-brezza e di bella morte che caratterizzerà i personaggi fittizi del Forseche sì e gli aviatori reali del Notturno e delle Faville, fra i quali spicca lostesso D’Annunzio.

L’immagine di Ulisse, in verità, fa capolino già in un sonetto della Chi-mera, che emula le morbide cadenze estetico-edoniste del Canto di unanovella Nausicaa, capace di ridestare nel poeta «malato di letteratura» lanostalgia del verso omerico:

Un giorno ella cantò, su la galea,ad alleggiar la mia grave fatica.E il mare a noi, spirante ancor l’anticadivinità, propizio sorridea.Al riso innumerevole l’apricariva non lungi in breve arco splendeapolita e bianca qual ne 1’Odisseala riva de la dolce NausicaOr così mentre io ripensava Ulisseguardando pe ’l seren grembo de l’acqueio palpitar l’ombra de l’amata chioma,parvemi, Omero, il dàttilo fiorissein sommo de ’l gentil labbro, che nacquea favellar ne ’l tuo puro idïoma.

L’adesione al pensiero di Nietzsche e il viaggio in Grecia del 1895, che

Page 7: paziente Odisseo Gibellini

L’IMPAZIENTE ODISSEO 111

segnano una svolta nell’arte e nel pensiero dannunziano, propongono unOdisseo ben diverso da quello elegante e «sperelliano» della Chimera. Ilprimo libro delle Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi, intito-lato a Maia (1903), si chiude con i memorabili versi della preghiera allaMadre immortale in cui compare l’Ulisside:

Tu proteggi il sonno dei prodi.Ecco, al favor tuo m’abbandono.Odo il brulichìo del tuo lentoguaime, il tuo fulvo pinetocon gli aghi e le pine far vaghiaccordi, e sonar come sistriil grande oro tuo frumentario.Ma odo anche un rombo lontanoche dice: «Son qua, Ulissìde».Madre, Madre, fa che più fortee lieto io sia, quando la vocedel dèspota ch’io ben conoscoche udii tante volte, la maschiavoce nel mio cor solitariogriderà: «Su, svégliati! È l’ora.Sorgi. Assai dormisti. L’amicodivenuto sei della terra?Odi il vento. Su! Sciogli! Allarga!Riprendi il timone e la scotta;ché necessario è navigare,vivere non è necessario».

All’Ulisside è rivolto l’invito conclusivo, una ripresa del motto di PompeoMagno, navigare necesse est, fermato dal bulino del Cellini nel colophonsilografico che chiude l’elegantissima princeps trevesiana. Gli stessi duenovenari, con doppia variatio sintattica per ripristinare il chiasmo, com-paiono nei primi versi di Alle Pleiadi e ai Fati, il componimento di aper-tura del ciclo poematico che recava primitivamente il titolo Il rogo diOdisseo:

Gloria al Latin che disse:«Navigare è necessario;non è necessario vivere».

Vi domina infatti l’Ulisse fiammeggiante dell’Inferno dantesco, che com-pare per accendere, con i resti della nave inabissata, il rogo votivo delpoeta:

E taluno vedrà di lungi il segnoinsolito e dirà: «Qual mano accesoha il rogo audace? Quale iddio su l’erterupi nel cuore della fiamma è atteso?»Non un iddio ma il figlio di Laertequal dallo scoglio il peregrin d’Inferno

Page 8: paziente Odisseo Gibellini

112 PIETRO GIBELLINI

con le pupille di martìri espertevide tristo crollarsi per l’internodella fiamma cornuta che si feovoce d’eroe santissima in eterno.

Ulisse si presenta insomma come variante del superuomo che si ergesulla massa dei deboli seguaci del «Galileo» di rosse chiome, al punto cheun pioniere del commento dannunziano, Enzo Palmieri, richiamò perquei versi il gioco etimologico fra Odisseo e odio (accennato in Od. XIX,vv. 405 ss.). La voce del figlio di Laerte è detta «santissima», perché pro-viene da un uomo che «eccita i forti», che si mette «nel turbo delle sorti»,che «naviga alle terre sconosciute» con il suo «spirito insonne». Non è,questo Ulisse, il «doppio» regale di Gabriele?

Re del Mediterraneo, parlantenel maggior corno della fiamma antica,parlami in questo rogo fiammeggiante!

E il casuale incrocio con un velista solitario durante la sua crociera versola Grecia, la terra che gli permetterà di approdare alla nuova Weltan-schauung, viene fantasticamente rivissuto, nel lungo poema di Maia,Laus vitae, come incontro con il mitico navigatore:

Incontrammo coluiche i Latini chiamano Ulisse,nelle acque di Leucade, sottole rogge e bianche rupiche incombono al gorgo vorace,presso l’isola macracome corpo di rudiossa incrollabili estruttoe sol d’argentea cinturaprecinto. Lui vedemmosu la nave incantata.

Questo Ulisse, che regge «nel pugno la scotta / spiando i volubili venti»,sembra prefigurare il Kirk Douglas che il regista americano scelse per ilprotagonista grintoso e sorridente di un celebre technicolor: «ferreo» ilginocchio sotto «tunica breve», «aguzzo» l’occhio, e la «possa del magna-nimo cuore» tesa «in ogni muscolo».

Accesi d’entusiasmo, i moderni naviganti chiamano l’antico eroe:

«O Laertiade» gridammo,e il cor ci balzava nel pettobbcome ai Coribanti dell’Idaper una virtù furibondae il fegato acerrimo ardeva«o Re degli Uomini, eversoredi mura, piloto di tuttele sirti, ove navighi? A quali

Page 9: paziente Odisseo Gibellini

L’IMPAZIENTE ODISSEO 113

meravigliosi perigliconduci il legno tuo nero?»

Nessuna traccia è rimasta in lui della struggente nostalgia che pervade ilpersonaggio omerico o del richiamo degli affetti che si avverte in quellodantesco. «Re degli uomini» ed «eversore di mura», Odisseo finisce permostrare più la volontà di potenza del Superuomo «distruttore» di Niet-zsche, che non l’ansia di conoscenza dell’Ulisse dall’Inferno. A lui, ilVate e i suoi compagni vogliono assomigliare:

«Liberi uomini siamoe come tu la tua scottanoi la vita nostra nel pugnotegnamo, pronti a lasciarlain bando o a tenderla ancpra.Ma, se un re volessimo avere,te solo vorremmoper re, te che sai mille vie.Prendici nella tua navetuoi fedeli insino alla morte!»

Ma l’eroe, dal volto segnato dai solchi del tempo e del dolore, veleggiaimpassibile verso la sua mèta. A lui si rivolge il poeta che un giorno sifarà chiamare Comandante:

«Odimi» io gridaisul clamor dei cari compagni«odimi, o Re di tempeste!Tra costoro io sono il più forte.Mettimi a prova. E, se tendol’arco tuo grande,qual tuo pari prendimi teco.Ma, s’io nol tendo, ignudotu configgimi alla tua prua».

A chi, se non al suo degno emulo, si volge Odisseo, prima di dileguareall’orizzonte?

Si volse egli men disdegnosoa quel giovine orgogliochiarosonante nel vento;e il fplgore degli occhi suoimi ferì per mezzo alla fronte.Poi tese la scotta allo sforzodel vento; e la vela regalelontanar pel Ionio raggianteguardammo in silenzio adunati.

Toccato dal carisma dell’eroe, anche il poeta può vivere allora di una suagrandezza solitaria, da Uebermensch:

Page 10: paziente Odisseo Gibellini

114 PIETRO GIBELLINI

Ma il cuor mio dai cari compagnipartito era per sempre;ed eglino ergevano il capoquasi dubitando che un giogofosse per scender su lorointollerabile. E io tacquiin disparte, e fui solo;per sempre fui solo sul Mare.E in me solo credetti.Uomo, io non credetti ad altravirtù se non a quellainesorabile d’un cuorepossente. E a me solo fedeleio fui, al mio solo disegno.

Non solo impaziente, dunque, ma anche bellicoso è questo Ulisse, chenon depone le armi e naviga verso nuovi lidi da conquistare, nuove murada diroccare.

L’eroe guerriero di D’Annunzio ha il suo contrario nell’inquieto sogna-tore di Pascoli, permeato di nostalgia. Odisseo diventa così, per i due«fratelli nemici», un tema esemplare, fra i tanti in cui si cimentarono,che permette di misurare le convergenze e gli irriducibili divari della loropoesia. Nelle due varianti, non è difficile riconoscere la proiezione delpoeta-soldato, del cantore energico della solarità, e quella dell’umbratileindagatore dell’intimo, del delicato esploratore del mistero. Traduttoredi Tennyson e lettore di Graf, nel Sonno di Odisseo (pubblicato nel 1899e incluso nel 1904 nei Poemi conviviali), Pascoli prende le mosse da unparticolare del testo omerico, l’assopimento di Ulisse che permette aicompagni di aprire l’otre di Eolo (Od., X, vv. 17-54). Ma quella falsarigaviene seguita solo in apparenza, poiché l’episodio è dilatato e l’accentospostato dalla maldestra azione al cedimento dell’eroe che, dopo aver ve-gliato con la mano sul timone e l’occhio fisso verso la mèta intravista(«gli apparse non sapea che nero: / nuvola o terra?»), cade in preda a unmisterioso torpore. Perduto nel sonno, egli non vede l’isola che ha lunga-mente sognato e desiderato; solo quando la nave si sarà nuovamente al-lontanata si desterà, e tornerà a immaginarla con gli occhi del ricordo ac-corato e fervido:

Ed i venti portarono la navenera più lungi. E subito aprì gli occhil’eroe, rapidi aprì gli occhi a vederesbalzar dalla sognata Itaca il fumo;e scoprir forse il fido Eumeo nel chiusoben cinto, e forse il padre suo nel campoben culto: il padre che sopra la marraappoggiato guardasse la sua nave;e forse il figlio che poggiato all’astala sua nave guardasse: e lo seguiva,certo, e intorno correa scodinzolando

Page 11: paziente Odisseo Gibellini

L’IMPAZIENTE ODISSEO 115

Argo, il suo cane; e forse la sua casa,la dolce casa ove la fida mogliegià percorreva il garrulo telaio:guardò: ma vide non sapea che nerofuggire per il violaceo mare,nuvola o terra? e dileguar lontano,emerso il cuore d’Odisseo dal sonno.

Il sonno, che in Omero era solo un espediente narrativo, viene qui pro-mosso a titolo del componimento, e si fa emblema della condizione delpoeta che, come il Cieco di Chio, non vede se non l’invisibile.

Ideale prosecuzione del Sonno di Ulisse è Il Ritorno, il poemetto in-cluso in Odi e Inni (1906) in cui l’approdo a Itaca, prima mancato, final-mente ha luogo. Ma al nostos non corrisponde l’agnizione, e all’esiliosuccede lo spaesamento: Ulisse non riconosce la sua terra, la sua casa, isuoi cari: «Povero me! nella terra di quali mortali mi trovo?», esclamasgomento. Anche qui la reminiscenza omerica (Od., XIII, vv. 187-221),la cui filigrana traspare nei particolari, viene piegata a un senso nuovo eopposto: lo smarrimento dell’eroe antico che non riconosce gli alberi delsuo paese perché Atena lo ha avvolto in una nube, Pascoli lo fa risalire aldivario fra realtà ricordata e realtà veduta:

E i peri e i meli gli fiorian diversoda quel che, assenti, nella sua memoria,gli avean per dieci e dieci anni fiorito.

Analogamente, se nell’Odissea Itaca viene alfine svelata da Atena, nel Ri-torno Ulisse non riesce a riconoscere i luoghi che gli indica «un’altocintavergine ricciuta», fino al momento in cui, specchiandosi nella fonte Are-tusa, ravvisa nel proprio volto di vecchio i tratti giovanili.

Se i due componimenti cui abbiamo accennato si saldano in un ditticocoerente che rivela la poetica e, a un tempo, il sentimento dolente diestraneità alla vita di Pascoli, il suo più lungo testo ulissiaco, L’ultimoviaggio, composto nel 1903 e incluso anch’esso nei Poemi conviviali del1904, è percorso dalla coscienza dello scacco esistenziale e dalla tensioneverso il mistero. Siamo, quanto al tempo di composizione, a ridosso diMaia, ed è tale la differenza fra il navigatore dannunziano e il suo omo-logo pascoliano da far apparire l’invenzione di questo una risposta pole-mica alla creazione di quello. Il motivo della nuova peregrinazione delvecchio eroe, presente in Dante e Tennyson, sembra qui attinto ancorauna volta all’Odissea, che il poemetto evoca anche nella sua scansione inventiquattro, brevi, canti. Anche qui, dopo la lunga permanenza a Itacadove ha arato tanti campi, Ulisse sente che è tempo di solcare di nuovo leonde; atteso da tempo dai compagni, egli ripercorre a ritroso l’antico iti-nerario alla ricerca di luoghi e figure del passato, per interrogarsi sulsenso della propria esperienza, per accertarsi della sua stessa consi-stenza. Di nuovo, lo spunto della fonte è accolto solo a metà, sicché ilnuovo viaggio vaticinato da Tiresia si realizza, ma il profetizzato ritorno

Page 12: paziente Odisseo Gibellini

116 PIETRO GIBELLINI

definitivo a Itaca e la tranquilla morte in patria sono ignorati. «Mi sonoingegnato di mettere d’accordo l’Odissea (XI, vv. 121-137) col mito nar-rato da Dante e dal Tennyson», avverte Pascoli; ma il suo eroe supera labrama «di divenir del mondo esperto» e l’insofferenza del tedio e dellamediocrità dei due modelli. Perciò non drizza la prua per superare le co-lonne d’Ercole, ma per ripercorre le tappe della passata avventura chesembra ora dileguare nell’irrealtà. Nell’orazione ai compagni, Ulissemuove dal rifiuto del tedio, come Dante, come Tennyson, comeGraf:

Ma no! Né può la nera nave al fischiodel vento dar la tonda ombra di pino.E pur non vuole il rosichìo del tarlo,ma l’ondata, ma il vento e l’uragano.Anch’io la nube voglio, e non il fumo;il vento, e non il sibilo del fuso,non l’odioso fuoco che sornacchia,ma il cielo e il mare che risplende e canta.

Ma con un colpo d’ala, l’oratore trasforma il «mare ombrato» nello spec-chio della propria anima:

Compagni, come il nostro mare io sono,ch’è bianco all’orlo, ma cilestro in fondo.

Quel mare ha accolto un viaggio immaginario o un’esperienza vissuta? Diapprodo in approdo, Odisseo scopre con angoscia che nessun ricordotrova conferma nella realtà:

E vi ritorno. Io vedoche ciò che feci è già minor del vero.

Scopre che deserta è l’isola di Circe, che nell’antro di Polifemo vive unsemplice pastore. Dunque, vida es sueño?

Il mio sogno non era altro che sogno;e vento e fumo. Ma sol buono è il vero.

Alle Sirene, che in verità sono due scogli contro cui la sua nave si infran-gerà, Ulisse rivolge la domanda suprema:

E la corrente rapida e soavepiù sempre avanti sospingea la nave.E s’ergean su la nave alte le fronti,con gli occhi fissi, delle due Sirene.«Solo mi resta un attimo. Vi prego!Ditemi almeno chi sono io! chi ero!»

Ma «tra i due scogli si spezzò la nave», e le acque trasporteranno il cada-

Page 13: paziente Odisseo Gibellini

L’IMPAZIENTE ODISSEO 117

vere del naufrago, morto senza sapere, presso l’isola della «nascondi-trice» Calipso.

L’Ulisse dannunziano, mosso dal «necessario travaglio contra l’implaca-bile Mare», e quello pascoliano, che sente colorarsi il cuore «dell’azzurrocolor di lontananza», hanno due volti che per il crepuscolare Guido Goz-zano, di poco più giovane, sono entrambi, e per diverse ragioni, impropo-nibili. Dall’accoramento di Pascoli, il poeta torinese si protegge con loschermo dell’ironia (che diventa agrodolce quando la esercita su se stessoe sulla sua Felicita), e dall’agonismo superomistico del Vate rifugge concura, grato alla sorte che non ha fatto di lui un tronfio «gabrieldannun-ziano» ma un semplice e minuscolo «gozzano», pronto a far rimare ami-calmente «Nietzsche» con «camicie». Tuttavia la sua musa, volutamentemodesta, non è certo equidistante dai due auctores. Un verso dell’Ulissepascoliano, affiora fra quelli dedicati all’Isola Non-Trovata (in una poe-sia dispersa, La più bella!, 1913), certo un omaggio al precursore:

S’annuncia col profumo, come una cortigiana,l’Isola Non-Trovata... Ma, se il pilota avanza,rapida si dilegua come parvenza vana,si tinge dell’azzurro color di lontananza...

L’eroe dannunziano compare invece, in chiave parodica, beffarda, nell’I-potesi (1907), nella quale l’autore, vagheggiando una tranquilla vita diprovincia, immagina di sposare non una Emma Bovary ma la signorinaFelicita, che non legge romanzi ma «vive tranquilla, serena col padreborghese / in un’antichissima villa remota del Canavese»; a lei, che spa-recchia la tavola, dopocena, racconta a modo suo la storia di Ulisse, anzidel Re di Tempeste, come lo chiama facendo il verso al poeta di Maia(«odimi, o Re di tempeste!»):

Il Re di Tempeste era un taleche diede col vivere scempioun ben deplorevole esempiod’infedeltà maritale,che visse a bordo d’un yachttoccando tra liete brigatele spiagge più frequentatedalle famose cocottes...Già vecchio, rivolte le veleal tetto un giorno lasciato,fu accolto e fu perdonatodalla consorte fedele...Poteva trascorrere i suoiultimi giorni sereni,contento degli ultimi benicome si vive tra noi...Ma né dolcezza di figlio,né lagrime, né la pietà

Page 14: paziente Odisseo Gibellini

118 PIETRO GIBELLINI

del padre, né il debito amoreper la sua dolce metàgli spensero dentro l’ardoredella speranza chimericae volse coi tardi compagnicercando fortuna in America...

La storia, dichiaratamente narrata «con pace d’Omero e di Dante», de-mitizza entrambi gli auctores attraverso l’anacronismo e l’abbassamentotonale, e con il ricorso a vistose aritmie, prosaiche quanto il linguaggio:l’eroe antico diventa un marito infedele che gira il mondo su uno yacht, equello medievale, modellato sulla fonte ma degradato dal registro collo-quiale («né il debito amore / per la sua dolce metà [...] Considerate, mieicari / compagni, la vostra semenza!»), fa del «folle volo» l’ultima cartagiocata da un avventuriero convinto che «non si può vivere senza / da-nari, molti danari». Yacht, cocottes e indebitamenti si attagliano perfet-tamente al D’Annunzio-Re di Tempeste, bersaglio privilegiato della sa-tira di Gozzano. Facendo dell’eroe navigatore l’archetipo del millanta-tore fedifrago, il poeta torinese, novello Luciano, smaschera – con unasorta di restauro demolitore – la mistificazione del Vate. Gabriele avevamitizzato il suo viaggio in Grecia? Guido toglie a Ulisse i panni eroici dicui l’avevano rivestito Dante e Omero, e il Vate resta nudo, a mostrare dinon essere altro che il crocierista oggetto di fondati pettegolezzi. Con loyacht, anzi, con il vascello dantesco cola allora a picco, oltre all’aloneepico del mito e agli auctores della tradizione, la letteratura mon-dana:

Viaggia viaggia viaggiaviaggia nel folle volo:vedevano già scintillarele stelle dell’altro polo...viaggia viaggia viaggiaviaggia per l’alto mare:si videro innanzi levareun’alta montagna selvaggia...Non era quel porto illusoriola California o il Perù,ma il monte del Purgatorioche trasse la nave all’in giù.E il mare sovra la prorasi fu rinchiuso in eterno.E Ulisse piombò nell’Infernodove ci resta tuttora...

L’attualizzazione, che rende Odisseo «impaziente», e la scoppiettanteironia di Gozzano corrodono la sua aureola di eroe. In ben diversa atmo-sfera svapora il nimbo che circonda Ulisse nei versi di un altro poeta, an-che lui di vocazione prosastica, Cesare Pavese. Provvisto di una culturamitografica robusta e aggiornata anche sul piano antropologico e psica-nalitico, egli è convinto che i miti cruciali tanto per la psiche che per

Page 15: paziente Odisseo Gibellini

L’IMPAZIENTE ODISSEO 119

l’arte («L’arte moderna è, in quanto vale, un ritorno all’infanzia», scrivenel Mestiere di vivere, 1942) sono quelli personali, che si fissano nell’in-fanzia di ogni uomo. Per lui, dunque, anche l’Ulisse della poesia inclusain Lavorare stanca (1936) è un mito individuale prima che collet-tivo:

Questo è un vecchio deluso, perché ha fatto suo figliotroppo tardi. Si guardano in faccia ogni tanto,ma una volta bastava uno schiaffo. (Esce il vecchioe ritorna col figlio che si stringe una guanciae non leva più gli occhi). Ora il vecchio è sedutofino a notte, davanti a una grande finestra,ma non viene nessuno e la strada è deserta.Stamattina, è scappato il ragazzo, e ritornaquesta notte.[...]Ma il vecchionon si muove dal buio, non ha sonno la notte,e vorrebbe aver sonno e scordare ogni cosacome un tempo al ritorno dopo un lungo cammino.[...]Il ragazzo, che torna fra poco, non prende più schiaffi.Il ragazzo comincia a esser giovane e scopreogni giorno qualcosa e non parla a nessuno.Non c’è nulla per strada che non possa sapersistando a questa finestra.[...]Ogni volta ritorna.Il ragazzo ha un suo modo di uscire di casache, chi resta, s’accorge di non farci più nulla.

Come il nome dell’eroe, confinato nel titolo, fuori dalla «soglia del testo»,anche l’intero mito tradizionale, con le sue varianti comunque penetratenella coscienza collettiva, resta escluso dal componimento, realistico finoa far nascere il dubbio che il nome possa essere quello di un abitantedelle Langhe piuttosto che del re di Itaca (quello che nei Dialoghi conLeucò Pavese fa discorrere con Calipso). Che cosa ha in comune, con l’U-lisse omerico, questo vecchio che aspetta il figlio alla finestra e vorrebbedormire per «scordare ogni cosa»? Che assiste impotente al girovagare diun Telemaco adolescente non in cerca del padre, ma in fuga da lui? E sedi mito personale si tratta, in quale personaggio si riconosce il malinco-nico e dolente Pavese? Nel fanciullo ribelle o nel padre arreso?

Trasparente è invece il richiamo all’eroe omerico e l’autobiografismodi tutto il Canzoniere di Umberto Saba e dunque anche del suoUlisse:

Nella mia giovinezza ho navigatolungo le coste dalmate. Isolottia fior d’onda emergevano, ove raroun uccello sostava intento a prede,

Page 16: paziente Odisseo Gibellini

120 PIETRO GIBELLINI

coperti d’alghe, scivolosi, al solebelli come smeraldi. Quando l’altamarea e la notte li annullava, velesottovento sbandavano più al largo,per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regnoè quella terra di nessuno. Il portoaccende ad altri i suoi lumi; me al largosospinge ancora il non domato spirito,e della vita il doloroso amore.

Nella tarda stagione di Mediterranee (1947), il poeta contempla un gio-vane Saba-Odisseo distante nel tempo, che navigava sospinto dalla joiede vivre, attratto dalla bellezza e dal pericolo: l’uccello predace, gli scoglismeraldini che minacciano le fragili chiglie. Ora, da vecchio, egli nonrimpiange l’avventura né, tantomeno, si arrende come l’Ulisse pave-siano, poiché il «non domato spirito» e il persistente «doloroso amore»della vita risospingono al largo la sua mente e il suo cuore, e fanno di luiil re di quella terra che è ancora di Nessuno, di Outis.

Meno diretta, ma solo in apparenza, l’immedesimazione in Ulisse nel-l’altro componimento sabiano così intitolato, incluso in Parole (1934).Qui, al suo «doppio», ormai in declino e sommerso da infausti presagi, ilpoeta rivolge con delicato tremore la domanda cruciale:

O tu che sei sì triste ed hai presagid’orrore – Ulisse al declino – nessunadentro l’anima tua dolcezza adunala Bramaper unapallida sognatrice di naufragiche t’ama?

Anche qui, per Saba, il nerbo della vita sta nella persistenza della Brama,con la maiuscola, di un acceso desiderio per una «pallida sognatrice dinaufragi» che incarna, ad un tempo, la passione amorosa e la sete di rac-conto, di mythos. Il poeta riconsacra così Ulisse calandolo nell’attualitàdel proprio vissuto personale. Joyce, che a Trieste aveva avea lasciatouna non esile traccia, non aveva forse scritto, in una lettera a Carlo Li-nati del 1920, che occorreva «rendere il mito sub specie temporisnostri»?

Ma piuttosto che un’attualizzazione, il mito ha subito, nella letteraturanovecentesca, una frantumazione. Se nei poemetti di Graf, D’Annunzio,Pascoli e persino in quello di Gozzano, la vicenda di Odisseo sopravvivecome mythos, anche nel senso di «racconto», uno sguardo complessivosulla poesia, vede prevalere isolati e parziali ritratti dell’eroe, bustimarmorei o più spesso esigui frammenti che recano solo un particolaredell’enorme bassorilievo omerico. Così, tra i Frammenti lirici di Cle-mente Rebora (1913), nei versi di Cielo, per albe vediamo nellacittà «un mondo / fra Penelope e i proci», mentre in quelli di Allegrezza,a poetare appare la maga lusingatrice:

Page 17: paziente Odisseo Gibellini

L’IMPAZIENTE ODISSEO 121

Questo universo è più saldodel trasmutabile giorno,questa lusinga più veradella tua isola, Circe.

Il paesaggio come «incanto circeo» (così il poeta di Alcyone, incisivo peril tanto diverso Rebora) torna nella prima strofe della poesia dedicataalla Sardegna, che Vincenzo Cardarelli pubblica nel 1933 su «Quadri-vio»:

Sul languido cielo s’incidono,Sardegna, i tuoi monti di ferro.Cielo velatocome da un pollinemalsano, che a guardarlo ci si strugge.Malinconica Circe,è con questo richiamoche trattieni il partente,presso il Limbara nostalgico.Ed è così che il sardomai tradirà la sua terra fedele.

Di un’altra isola, trasfigurata nell’Isola di Ulisse (nella raccolta Erato eApòllion, 1932-1936) scrive Salvatore Quasimodo, convinto che la mito-poiesi possa realizzarsi attraverso lo sguardo che si posa sul mondo e loscopre più favoloso di quello delle favole antiche:

Ferma è l’antica voce.Odo risonanze effimere,oblìo di piena nottenell’acqua stellata.Dal fuoco celestenasce l’isola di Ulisse.Fiumi lenti portano alberi e cielinel rombo di rive lunari.Le api, amata, ci recano oro:tempo delle mutazioni, segreto.

In una nuova età dell’oro, davanti agli occhi del poeta e dell’«amata», ri-nasce un’isola mediterranea, una nuova Ogigia, grazie a una prodigiosametamorfosi, propiziata da una voce antica che si avverte sotto le riso-nanze effimere. Non Ulisse, qui, ma il ritorno misterioso del «tempo dellemutazioni», preme al poeta.

Più tardi, la guerra imprimerà una svolta al pensiero e alla poeticaquasimodiana: così, nei versi Ai fratelli Cervi inclusi nel Falso e veroverde (1949-1955), il poeta sembra respingere la tentazione ermetico-paesistica («Scrivo ai fratelli Cervi / non alle sette stelle dell’Orsa»). Ep-pure, anche nel nuovo clima prosastico, il paesaggio continua a farsimito, suscitando la memoria di Polifemo e di Ulisse:

Page 18: paziente Odisseo Gibellini

122 PIETRO GIBELLINI

Nella notte dolcissima Polifemo piangequi ancora il suo occhio spento dal navigantedell’isola lontana. E il ramo d’ulivo è sempre ardente.

Nella raccolta e nella stagione successiva, quella della Terra impareggia-bile (1955-58), la lirica Una risposta aprirà nel nome dell’eroe la con-templazione del mare di Aci e delle laviche pendici dell’Etna («Se ardealla mente l’àncora d’Ulisse...»). E il ricorso della parola-tematica«nulla» («dal nulla dell’aria / qui dal nulla che stride di colpo e uncina[...] dal nulla delle mani [...] viva formare dal nulla una formica»), sem-bra configurare, pur nell’ambito di una poesia incline alla descrizionepaesistica e allo scavo emotivo, un pensiero nichilista che contagia ancheOdisseo.

Anche Giuseppe Ungaretti penetra a modo suo quel mito, specie nelSentimento del tempo, a partire da Sirene (1923), per il quale la chiaveulissiaca è fornita in un autocommento del poeta: «È l’ispirazione [...] èla musa sotto forma di sirena, e nella poesia è presente, appunto, l’isolafatale, l’isola delle sirene incontrata da Ulisse nel suo viaggio»:

E già, prima ch’io giunga a qualche meta,non ancora delusom’avvinci ad altro sogno.Uguale a un mare che irrequieto e blandoda lungi porga e celiun’isola fatale,con varietà d’inganniaccompagni chi non dispera, a morte.

Sul versante mitico del Sentimento, gli astri appaiono come «Penelopi in-numeri» abbracciate dal Signore (Fine di Crono, 1925):

L’ora impauritain grembo al firmamentoerra strana.Una fuliginelilla corona i monti,fu l’ultimo grido a smarrirsi.Penelopi innumeri, astrivi riabbraccia il Signore!(Ah, cecità!Frana delle notti...)e riporge l’Olimpo,fiore eterno di sonno.

E nell’ermetica Canzone che apre La terra promessa (1968-1953) tornaun’Itaca il cui varco è nostos e quête a un tempo:

E se, tuttora fuoco d’avventura,tornati gli attimi da angoscia a brama,d’Itaca varco le fuggenti mura,

Page 19: paziente Odisseo Gibellini

L’IMPAZIENTE ODISSEO 123

so, ultima metamorfosi all’aurora,oramai so che il filo della tramaumana, pare rompersi in quell’ora.

L’isola di Ulisse riaffiora negli Ultimi cori per la terra promessa (1952-1960), inclusi nel Taccuino del vecchio:

Verso meta si fugge:chi la conoscerà?Non d’Itaca si sognasmarriti in vario mare,ma va la mira al Sinai sopra sabbieche novera monotone giornate.

Non è dunque un ritorno al noto quello cui mira il vecchio poeta, checerca invece un varco verso l’altrove promesso a Mosè, «doppio», al paridi Enea, del poeta nella sua fiduciosa ricerca.

L’eroe virgiliano appare come un concorrente di Ulisse, oltre che nel-l’ungarettiana Terra promessa, nel Passaggio di Enea di Giorgio Ca-proni. Il quale peraltro, in Esperienza (1972), ridisegna con tratti essen-ziali il viaggiatore pascoliano alla ricerca della conoscenza che approdaperò alla coscienza del nulla:

Tutti i luoghi che ho visto,che ho visitato,ora so – ne son certo:non ci sono mai stato.

Al modello del poeta di Castelvecchio, prediletto da Caproni, deve qual-cosa anche l’Ulisse cristiano di Paolo Wenzel (proposto da Valerio Vol-pini nell’Antologia della poesia religiosa italiana contemporanea del1952), un navigatore che al termine delle sue peripezie scopre che la ve-rità abita in interiore homine:

finiranno le terreprima che l’esito arrivi...Tutto portavo con meciò che andavo a cercare,anche la bussola, il vento,le tranquille baie,c’erano in me le montagne,la morte e la porpora

Sono, tutte queste, mere schegge di un mito cristallizzato, frammenti dicui ciascun poeta coglie un fugace riverbero. Nel Montale minore di unapoesia dispersa (notizie & consigli), una filastrocca giocata fra ironia enonsense, compare un cenno ancor più esile all’Odissea:

Manda Mirò,non dir di no,

Page 20: paziente Odisseo Gibellini

124 PIETRO GIBELLINI

i libri reilascia di ebrei.Ricerchi invanoposti a Milano,solo tra i procimangi peoci.

Ad Alda Merini, nei versi dedicati a Giovanni Raboni (in Vuoto d’amore,1991), Ulisse serve per disegnare il profilo di un uomo che ha pregi di-versi dall’eroe antico:

Anche tu sei un uomo, ma non solo un uomo, un giardino:ti fanno compagnia le lunghe amachei caldi tropicali, le Azzorre.Ma tutto in te è magnifica Grecia, non hai la perspicacia di Ulissenon hai la malizia degli uomini,ma sei silenzioso e caldocome la matrice di un giunco.

Se nei versi della poetessa l’astuto guerriero sopravvive come termine diparagone negativo, Fernando Bandini, negli Studi classici della raccoltaLa mantide e la città (1979), rovescia la vicenda omerica e fa di lui lavittima esemplare delle atrocità della storia che rinnova l’uccisione deldio:

Questi monti fabbricati dal cielo(sue torri e battifredi) gemonoper la morte del dio.E abbiamo visto navidolcemente sfasciarsi e«Pan o megas tethneke»piangere una gran follanel porto di Paxo.E l’industria sfruttare ossa e capellidegli uccisi. E il Ciclopecon una pinzetta stroppiareil pollice di Ulisse.Et eludendo la guardia bambiniarmati di bastone per la lippacircondare l’ampolla dov’è chiusala Sibilla. E gridavano: «Cosavorresti fare da grande?». Leirispondeva: «Morire».

Un Polifemo aguzzino? Qui Ulisse diventa paziente suo malgrado, dopotanti moti d’impazienza e d’insofferenza.

La conclusione della nostra rassegna, che non pretende certo di essereesaustiva, vorremmo affidarla ad alcune pagine di Primo Levi. Sì, la no-stra piccola odissea non termina a Itaca, ma nella Auschwitz di Se questo

Page 21: paziente Odisseo Gibellini

L’IMPAZIENTE ODISSEO 125

è un uomo. Potremmo sembrare fuori rotta, toccando un’opera in prosa,ma le pagine leviane che ci preme ricordare parlano di un Ulisse poetico,quello dei versi danteschi. Ricordate? Come nell’inferno del poema, nellager tutti i valori sono stravolti, la vita è privata di ogni scopo, e le pa-role dei diavoli ai dannati acquistano una sinistra attualità:

La spiegazione è ripugnante ma semplice: in questo luogo è proibito tutto, nongià per riposte ragioni, ma perché a tale scopo il campo è stato creato. Se vor-remo viverci, bisognerà capirlo presto e bene [...]:

Qui non ha luogo il Santo Volto,qui si nuota altrimenti che nel Serchio!

L’Ulisse dantesco, allora, emerge faticosamente dalla memoria delloscrittore come emblema di libertà dello spirito:

Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamotempo di scegliere, quest’ora già non è più un’ora. Se Jean è intelligente capirà.[...] Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato:

Lo maggior corno della fiamma anticaCominciò a crollarsi mormorando,Pur come quella cui vento affatica.Indi, la cima in qua e in là menandoCome fosse la lingua che parlasseMise fuori la voce, e disse: Quando...

Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese![...] E dopo «Quando»? Il nulla. Un buco nella memoria.

Ancora un verso affiora, però, «Ma misi me per l’alto mare aperto», dopodi che, sgomenta dinanzi a quello che pare un paradiso irraggiungibile,la mente si appanna ancora, la memoria vien meno: «E anche il viaggio,il temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono co-stretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio».

Ma lo sforzo di ricordare è premiato, e altri versi vengono in superficie,prendendo per lo scrittore e i suoi compagni di sventura un significatonuovo:

Considerate la vostra semenza:Fatti non foste a viver come brutiMa per seguir virtute e conoscenza.

Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, comela voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono. Pikolo miprega di ripetere [...] ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che ri-guarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie. [...]

Quando mi apparve una montagna, brunaper la distanza e parvemi alta tanto

Page 22: paziente Odisseo Gibellini

126 PIETRO GIBELLINI

che mai [sic] veduta non ne avevo alcuna.

«Darei la zuppa di oggi per saper saldare ‘‘non ne avevo alcuna’’ col fi-nale» prosegue Levi, mentre aspetta in coda la zuppa di cavoli e rape. Ilmare aperto si richiude su Ulisse e, in sua compagnia, due prigionierichiudono in una giornata in cui, oltre a sopravvivere, hanno vissuto.L’impaziente Odisseo li ha aiutati nella loro eroica pazienza, nella sovru-mana fatica di restare uomini1.

1. NOTA BIBLIOGRAFICA. Nell’ampia bibliografia su mito e letteratura, ci limitiamo asegnalare qui, alfabeticamente ordinati, i contributi che, in modo più o meno di-retto, sono stati utili alla nostra specifica ricerca: BERNARD ANDREAE, L’immagine diUlisse, Torino, Einaudi, 1983; SALVATORE BATTAGLIA, Mitografia del personaggio, Mi-lano, Rizzoli, 1968; RAFFAELLA BERTAZZOLI, Ulisse in Pascoli e D’Annunzio: «Maia» e i«Poemi conviviali», «Humanitas», Brescia, 4, 1996; ALFONSO BERTOLDI, Ulisse inDante e nella poesia moderna, in ID., Nostra maggior musa, Firenze, Sansoni, 1921;HANS BLUMENBERG, Elaborazione del mito, Bologna, Il Mulino, 1991; ID., Naufragiocon spettatore, Bologna, Il Mulino, 1985; MARINO BOAGLIO, Pascoli: l’«Ultimo sogno» ela coscienza del nulla, «Lettere Italiane», Firenze, 1, 1982; PIERO BOITANI, L’ombradi Ulisse, Bologna. Il Mulino, 1992; ID., Sulle tracce di Ulisse, Bologna, Il Mulino,1998; MARINELLA CANTELMO, Nomi in codice. Ungaretti e la mitopoiesi novecentesca,«Humanitas», Brescia, 4, 1999; ALESSANDRA GIAPPI, Tracce del mito nella poesia ita-liana del secondo Novecento, «Humanitas», Brescia, 4, 1999; PIETRO GIBELLINI, Logose Mythos. Studî su Gabriele d’Annunzio, Firenze, Olschki, 1985; Il mito nella lette-ratura italiana del ’900, a cura di PIETRO GIBELLINI, num. monogr. di «Humanitas»,Brescia, 4, 1999; ALFREDO LUZI, L’archetipo del viaggio nella poesia italiana del No-vecento: da Corazzini a Caproni, in Visioni e archetipi, a cura di FRANCESCO BARTOLI

et alii, Trento, Università di Trento, 1996, pp. 69-84; LUIGI MARTELLINI, Ungaretti el’immagine di Ulisse, in Ungaretti e i classici, a cura di MARTA BRUSCIA et alii, Roma,Studium, 1993, pp. 103-118; DANIELA MESSINEO, Il viaggio di Ulisse da Dante a Levi,Firenze, Athenaeum, 1995; MARGHERITA ROSSI CITTADINI, Ulisse nei poeti italiani, inPresenze classiche nelle letterature occidentali, a cura di MARGHERITA ROSSI CITTADINI,Perugia, Irrsae dell’Umbria, 1995, pp. 409-462; PAOLO SCARPI, La fuga e il ritorno.Storia e mitologia del viaggio, Venezia, Marsilio, 1992; Tracce profonde. Il viaggiotra il reale e l’immaginario, a cura di ANTONIO SPADARO, Roma, Città Nuova,1993.