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Dispense del corso LabSED, parte I, AA. 2007/08, M. G. Ianniello, riproduzione non consentita. 1 DISPENSE DEL CORSO DI LABORATORIO DI STORIA, EPISTEMOLOGIA E DIDATTICA DELLA FISICA (LABSED) AA. 2007/08 di M. G. Ianniello Indice Premessa Modalità del corso Parte I. Fisica classica CAP. 1. Dalla fisica dei sensi alla termometria §1.1. I “gradi di calore” §1.2. I primi termometri e il problema della scala di temperatura §1.3. Punti fissi e scale §1.4. Alla ricerca di una temperatura assoluta CAP. 2. Alle radici del concetto di pressione §2.1. Il dibattito sull’esistenza del vuoto §2.2. La nuova filosofia sperimentale §2.3.Torricelli e l’esperienza dell’argento vivo §2.4. Il contributo di Pascal all’affermazione della teoria della colonna d’aria CAP. 3. La nascita della meccanica. Galileo e la caduta dei gravi § 3.1. La fisica pregalileana §3.2. Cronologia minima su Galileo §3.3. Ancora sui “gravi descendenti” §3.4. La commedia degli equivoci §3.5. Misurazione del tempo §3.6. Qualche riflessione CAP. 4. Dal calorico all’entropia §4.1. La natura del calore §4.2. La nascita della calorimetria §4.3. Dal calore come sostanza al calore come moto §4.4. Carnot e il rendimento delle “macchine a fuoco” §4.5. Gli esperimenti di Mayer e di Joule sulla determinazione dell’equivalente del calore §4.6. La nascita della termodinamica CAP. 5. I fenomeni luminosi, tra esperimento e matematizzazione § 5.1. Il dibattito sulla natura della luce nel Seicento: moto o materia? Presenze scomode: diffrazione, doppia rifrazione, interferenza. § 5.2. Il modello newtoniano della luce. § 5.3. Lo stato della ricerca in ottica nel Settecento §5.4. Un punto di vista assai poco ortodosso sull’origine dei colori: Goethe vs Newton § 5.5. Il modello ondulatorio. Il principio di interferenza e gli esperimenti di ottica fisica di Young § 5.6. Il contesto francese § 5.7. La teoria della diffrazione di Fresnel CAP. 6. Elettromagnetismo classico, dagli albori alle equazioni di Maxwell §6.1. Cronologia sintetica sugli albori dell’elettricità §6.2. Elettricità e magnetismo: nuove scoperte, nuove teorie § 6.3. La connessione tra luce e forze elettromagnetiche

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  • Dispense del corso LabSED, parte I, AA. 2007/08, M. G. Ianniello, riproduzione non consentita.

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    DISPENSE DEL CORSO DI LABORATORIO DI STORIA, EPISTEMOLOGIA E DIDATTICA DELLA

    FISICA (LABSED) AA. 2007/08

    di M. G. Ianniello Indice Premessa Modalità del corso

    Parte I. Fisica classica CAP. 1. Dalla fisica dei sensi alla termometria §1.1. I “gradi di calore” §1.2. I primi termometri e il problema della scala di temperatura §1.3. Punti fissi e scale §1.4. Alla ricerca di una temperatura assoluta CAP. 2. Alle radici del concetto di pressione §2.1. Il dibattito sull’esistenza del vuoto §2.2. La nuova filosofia sperimentale §2.3.Torricelli e l’esperienza dell’argento vivo §2.4. Il contributo di Pascal all’affermazione della teoria della colonna d’aria CAP. 3. La nascita della meccanica. Galileo e la caduta dei gravi § 3.1. La fisica pregalileana §3.2. Cronologia minima su Galileo §3.3. Ancora sui “gravi descendenti” §3.4. La commedia degli equivoci §3.5. Misurazione del tempo §3.6. Qualche riflessione CAP. 4. Dal calorico all’entropia §4.1. La natura del calore §4.2. La nascita della calorimetria §4.3. Dal calore come sostanza al calore come moto §4.4. Carnot e il rendimento delle “macchine a fuoco” §4.5. Gli esperimenti di Mayer e di Joule sulla determinazione dell’equivalente del calore §4.6. La nascita della termodinamica CAP. 5. I fenomeni luminosi, tra esperimento e matematizzazione § 5.1. Il dibattito sulla natura della luce nel Seicento: moto o materia? Presenze scomode: diffrazione, doppia rifrazione, interferenza. § 5.2. Il modello newtoniano della luce. § 5.3. Lo stato della ricerca in ottica nel Settecento §5.4. Un punto di vista assai poco ortodosso sull’origine dei colori: Goethe vs Newton § 5.5. Il modello ondulatorio. Il principio di interferenza e gli esperimenti di ottica fisica di Young § 5.6. Il contesto francese § 5.7. La teoria della diffrazione di Fresnel CAP. 6. Elettromagnetismo classico, dagli albori alle equazioni di Maxwell §6.1. Cronologia sintetica sugli albori dell’elettricità §6.2. Elettricità e magnetismo: nuove scoperte, nuove teorie § 6.3. La connessione tra luce e forze elettromagnetiche

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    §6.4. La sintesi di Maxwell dell’elettromagnetismo ottocentesco §6.5. La teoria elettromagnetica della luce di Maxwell e il contributo di Hertz CAP. 7. La scoperta dell’ elettrone §7.1. Il contesto teorico e sperimentale §7.2. J. J. Thomson e la misura di m/e §7.3. Il contributo di Millikan alla determinazione della carica assoluta dell’elettrone Parte II. Fisica atomica CAP. 8. La questione dell’atomismo e l’affermazione della teoria cinetica §8.1. La nascita della teoria cinetica §8.2. La stima delle dimensioni delle molecole §8.3. Altre strade per la stima delle dimensioni molecolari. L’esperimento di Rayleigh-Röntgen § 8.4. L’atomismo e le molte vie sperimentali per la determinazione della costante di Avogadro. CAP. 9 Il moto browniano §9.1. Perché trattare la storia del moto browniano §9.2. Cronologia del processo di scoperta del moto browniano § 9.3. Contesto teorico-sperimentale. Evidenza empirica a favore dell’atomismo § 9.4. Le prime ricerche sul moto browniano § 9.5. Analisi della trattazione di Einstein sul moto browniano §9.6. Fluttuazioni e opalescenza vicino al punto critico. CAP. 10. La nascita della spettroscopia §10.1. Cronologia sintetica §10.2. Verifica sperimentale della formula di Balmer e determinazione della costante di Rydberg R CAP. 11. Alle radici della legge del corpo nero di Planck §11.1. Le leggi della radiazione termica §11.2. Tra dati sperimentali e assunzioni teoriche. Verifica della legge di Stefan-Boltzmann e delle leggi di Kirchhoff §11.3. Agli esperimenti: verifica della legge di Stefan-Boltzmann §11.4. Corpi grigi e cubo di Leslie CAP. 12. Effetto fotoelettrico §12.1. Cronologia essenziale §12.2. Effetto Fotoelettrico: fenomenologia e interpretazioni teoriche §12.3. Agli esperimenti CAP. 13 L’atomo quantizzato di Bohr e l’esperimento di Franck ed Hertz §13.1. L’atomo di Bohr §13.2. Il percorso di Franck ed Hertz §13.3. Che faceva intanto Bohr? §13.4. All’esperimento CAP. 14 Lo spin dell’elettrone CAP. 15. Verso le basse temperature: la scoperta della superconduttività §15.1. In che consiste la superconduttività §15.2. Studio della resistenza elettrica in funzione di T §15.3. Un’altra scoperta importante: l’effetto Meissner §15.4. Le spiegazioni della SC

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    Il corso di Laboratorio di Storia, Epistemologia e Didattica della Fisica (LabSED)

    Premessa Queste dispense presentano i principali contenuti del corso di LabSED. Si tratta, come verrà specificato nella sezione “Modalità del corso”, in cui si espongono le finalità, gli esiti dell’apprendimento, la metodologia didattica e le forme di valutazione del corso, di un laboratorio di approfondimento di tematiche già affrontate in altri corsi o di tematiche del tutto nuove che combinano attività sperimentali con riflessioni di taglio storico ed epistemologico. L’esigenza di raccogliere i temi trattati in una dispensa è motivata dalla mancanza di un unico testo di riferimento. Molti esperimenti sono infatti inconsueti e non sono facilmente reperibili in letteratura se non per brevi cenni. Le informazioni sono disseminate in vari testi e se si trovano indicazioni specifiche su una certa procedura sperimentale, in particolare nelle guide che accompagnano le apparecchiature didattiche, mancano indicazioni che aiutino a ricostruire il quadro generale entro cui quella procedura è stata messa a punto. Ma può anche accadere che un esperimento dato per scontato, presenti all’atto pratico difficoltà sperimentali non banali ed esiti imprevisti ai quali dovremo far fronte servendoci della fisica che conosciamo, in modo collaborativo e attraverso discussioni fino ad arrivare a una soluzione ragionevole e condivisa. Va premesso che lo stile espositivo è discontinuo, dal momento che queste dispense raccolgono materiali sedimentati negli anni, scritti in momenti diversi e per esigenze diverse. Si tratta spesso di materiali di inquadramento su vari settori della fisica che vanno ulteriormente sviluppati dagli studenti che frequentano il corso e che in generale richiedono di connettere diversi argomenti tra loro. Agli studenti viene inoltre assegnato il compito di presentare, a un target di propria scelta, l’esposizione dei temi trattati mettendosi nei panni di un buon divulgatore o più semplicemente di un insegnante. Nelle dispense i riferimenti bibliografici, spesso alle memorie o alle Nobel lectures degli scienziati protagonisti, orientano gli studenti verso una lettura di prima mano delle vicende affrontate. Tutto il laboratorio ruota intorno ai cosiddetti esperimenti storici. La scelta è rivolta verso un esperimento particolarmente significativo nella storia della scienza. L’esperimento viene ‘ricostruito’ rispettando senza esagerare la disposizione sperimentale originaria e affrontato ammettendo come regola del gioco di conoscere in una prima fase solo il contesto di idee che motivarono la sua progettazione, senza necessariamente sapere “come è andata a finire”. Un’altra regola da rispettare è quella di avere consapevolezza della tecnologia disponibile all’epoca in cui l’esperimento venne realizzato, suggerendo modifiche attuabili con la tecnologia attuale. Si passa quindi all’esecuzione dell’esperimento secondo prassi usuali e se ne valuta l’esito alla luce delle conoscenze del tempo con un confronto serrato con gli sviluppi attuali. Gli esempi, come vedremo, possono essere molteplici, affrontabili a diversi livelli e con una diversa sofisticazione degli apparati sperimentali:

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    dal piano inclinato di Galileo agli esperimenti sulla pressione atmosferica, dalla scoperta dei raggi catodici alla classica e bella esperienza di Millikan della goccia d’olio; dall’esperimento di Röntgen-Rayleigh con il film d’olio per una prima stima grossolana delle dimensioni delle molecole, all’esperimento di Perrin sul moto browniano e la determinazione del numero di Avogadro, e ancora alla riproduzione in laboratorio dell’esperienza di Smoluchowski sul blu del cielo; dai primi esperimenti di Kirchhoff e Bunsen sullo spettro alla fiamma di alcuni composti, alla determinazione della costante di Rydberg con la lampada di Balmer, all’effetto fotoelettrico, all’esperimento sui potenziali critici di Franck ed Hertz, e così via. Questa particolare strategia consente: 1. di mettere insieme l’attività sperimentale e la componente storica ed epistemologica, con la possibilità di creare sinergie tra i due approcci del tutto naturali e consequenziali; per altro, molti degli obiettivi e delle abilità collegati all’attività sperimentale restano inalterati indipendentemente dalla contestualizzazione storica di un dato esperimento: la storia fornisce tuttavia, come attività di problem posing, un valore aggiunto all’esperimento, spesso visto nella pratica didattica nella sua veste riduttiva di sola attività di problem solving; 2. di costringere gli studenti ad approfondire in modo concreto le condizioni al contorno che hanno motivato la realizzazione di un dato esperimento; 3. di sollecitare gli studenti a proporre un layout sperimentale quanto più possibile fedele all’originale, a suggerire modifiche servendosi della tecnologia attuale (per esempio, anche con misure on line) senza snaturare la procedura dell’esperimento, a criticare l’apparecchiatura proposta dal docente ed eventualmente già fornita dalle ditte costruttrici, a rilevare e a elaborare i dati sperimentali in modo sensato con il grado di precisione richiesto dalla particolare misurazione in oggetto; 4. di analizzare il ruolo dell’esperimento rispetto alla rete di assunzioni teoriche ammissibili all’epoca della sua esecuzione; 5. di dare al futuro docente l’opportunità di “fare ricerca”, alla luce delle memorie originali. A condizione che “I materiali storici possono essere utili, se non indispensabili, supposto che -e questa è la loro maggior qualificazione- siano usati per insegnare la scienza e non la storia.” (J. Heilbron) Modalità del corso Finalità. Il corso è finalizzato all’approfondimento di conoscenze specifiche connesse alla pratica sperimentale, al contesto tecnologico, alle tecniche di misurazione dell’evento in studio, al rapporto teoria-esperimento ma anche all’accettazione dei risultati di un esperimento e al ruolo che esso ha rivestito, storicamente e nella didattica. Il corso affronta inoltre, in merito ai temi trattati, i problemi della comunicazione multimediale della cultura fisica. Esiti dell’apprendimento: saper inserire un “esperimento storico” nel giusto contesto, saper valutare i processi di crescita della fisica, sia rispetto alle problematiche teoriche e sperimentali che motivarono la realizzazione dell’esperimento in esame, sia rispetto agli sviluppi moderni. Conoscenza dei principali strumenti multimediali impiegati nella divulgazione della fisica; padronanza delle principali tecniche multimediali; capacità di valutare in senso

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    critico un prodotto multimediale (rigore scientifico, correttezza storiografica, usabilità, ecc.). Programma del corso. Il corso è rivolto all’analisi di quegli esperimenti che nella storia della fisica hanno avuto rilievo nel proporre nuove idee o nuove procedure sperimentali e che hanno rappresentato un punto di confronto tra concezioni antagoniste. In particolare vengono analizzati gli esperimenti legati alle grandi svolte concettuali della fisica sia classica sia quantistica (per es., attraverso i contributi di Galileo, Torricelli, Oersted, Faraday o nel passaggio dall’ “atomistica” alla nuova fisica quantistica, dal modello di Bohr-Sommerfeld all’ introduzione dell’idea di spin). I contenuti del corso riguardano inoltre le nuove forme di comunicazione multimediale applicate alla divulgazione della fisica a diversi livelli, dalla scuola di base all’università all’educazione permanente, e in diversi contesti (musei, science center, ecc.). Da un’analisi critica di ciò che attualmente viene offerto, nell’ambito della fisica come scienza sperimentale, in internet, nell’editoria, nei media (per es., CD-rom, Web e ipertesti, applet, laboratori virtuali, animazioni ma anche documentari scientifici, filmati, enciclopedie) si discutono le principali tecniche multimediali. Metodologia didattica e valutazione. Il corso si articola in lezioni di approfondimento (cosiddette frontali) e in attività di laboratorio (conduzione di esperimenti particolarmente significativi e ricchi di problematiche, anche con misure on line, o simulati al computer). Il corso prevede attività seminariali e alterna a discussioni mirate, applicazioni sul campo (per es., ricerche in internet, valutazioni critiche di documentari, filmati, articoli di taglio giornalistico, visite virtuali a musei e science center ma anche prove in itinere dove lo studente mette alla prova le sue abilità di divulgatore). Procedure di valutazione: viene richiesta l’elaborazione di un “case history” relativo a un esperimento e/o un progetto o una semplice realizzazione multimediale sul tema affrontato (per es. un breve modulo ipertestuale, una animazione, un articolo di divulgazione). Materiale Didattico: dispense, memorie originali, articoli di taglio storiografico e/o didattico. Apparecchiature di laboratorio relative a “esperimenti storici”. Siti internet dedicati. Prodotti multimediali reperibili in commercio, letteratura specialistica. Programma di massima (il programma include anche argomenti che verranno trattati nel corso di Preparazione di Esperienze Didattiche, rispetto ai quali si prevedono lezioni e attività a classi riunite con i matematici)

    1. L’esperimento di Galileo del piano inclinato. La genesi del concetto di pressione atmosferica; gli esperimenti di Torricelli, di Pascal-Auzout, di Guericke, di Boyle. Evoluzione della tecnica del vuoto. La nuova teoria dei colori di Newton. La scoperta della diffrazione. La scoperta della birifrangenza. Gli esperimenti di Young e Fresnel e il superamento della teoria corpuscolare newtoniana. Esperimento di Oersted. Gli esperimenti di Faraday sull’induzione elettromagnetica. La mutua convertibilità delle “power naturali”, determinazione

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    dell’equivalente meccanico della caloria e apertura verso il primo principio della termodinamica. Scarica elettrica in un gas a bassa pressione: la scoperta dei raggi catodici. Tubo di Perrin e polarità negativa di un fascetto di elettroni. Esperienza di J.J. Thomson sulla determinazione di e/m. Esperienza della goccia d’olio di Millikan e determinazione della carica specifica dell’elettrone. Determinazione della velocità della luce, da Galileo all’elettronica moderna. 2. Stima delle dimensioni degli atomi: bolle di sapone e tensione superficiale; esperimento di Röntgen-Rayleigh; determinazione del numero di Loschmidt. Moto browniano: verifica della legge di Einstein e determinazione del numero di Avogadro. Principio di fluttuazione e simulazione in laboratorio del blu del cielo. Alle radici della legge del corpo nero: verifica delle leggi di Stefan-Boltzmann e di Kirchhoff. Bunsen e Kirchhoff e la nascita della spettroscopia: prova alla fiamma e osservazione di spettri; spettri di emissione e di assorbimento. Determinazione della costante di Rydberg con la lampada a idrogeno di Balmer e confronto con il modello di atomo quantizzato di Bohr. Effetto Hallwachs. Effetto fotoelettrico e determinazione sperimentale di h. Effetto Compton. Esperimento di Franck ed Hertz sui potenziali critici dell’elio. Effetto Zeeman, esperimento di Stern e Gerlach, esperimenti ESR. Esperimento sull’effetto Meissner-Ochsenfeld.

    Parte I. Fisica classica

    CAP. 1 DALLA FISICA DEI SENSI ALLA TERMOMETRIA

    §1.1. I “gradi di calore” Ci occupiamo nel seguito dei fenomeni legati alle sensazioni di ‘caldo’ e di ‘freddo’ e dell’evoluzione storica che porta dall’unico concetto indistinto di calore o fuoco, alla sua diversificazione, da un lato, nel concetto di temperatura come grandezza intensiva che caratterizza le proprietà locali di un corpo; dall’altro, nel concetto di calore come grandezza estensiva e come quantità di energia scambiata tra due sistemi in interazione termica. Questo processo di diversificazione prenderà avvio nel Seicento, quando si inizierà a parlare di “intensità di calore” distinta dalla “quantità di calore” e si completerà solo a metà Settecento quando si stabiliranno le prime definizioni operative dei due concetti, rispettivamente in termometria e in calorimetria. Si tratta dunque di una evoluzione in cui la nascita dei concetti fondamentali in fisica macroscopica sarà strettamente legata alla base empirica e alla possibilità di costruire strumenti, sia pure in una prima fase qualitativi, in grado di rivelare i cambiamenti delle grandezze in studio, di operare confronti, di definire eventuali stati di riferimento. Dal punto di vista storico, il concetto-madre di calore è legato in primo luogo alle percezioni sensoriali, ed in secondo a interi sistemi conoscitivi, o stili di pensiero, prevalenti in un dato periodo. L’inizio della nostra storia riguarderà perciò la trattazione qualitativa dei fenomeni nell’ambito di una ‘fisica dei sensi’, fortemente condizionata dalle dottrine dominanti. E come sempre partiremo dall’antichità classica, perché è qui che affondano le radici della scienza occidentale.

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    Con Empedocle (490-430 circa), si ammette l’esistenza di quattro elementi immutabili della materia: il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra. Ai quattro elementi fondamentali, con Aristotele (384-322) si aggiungono le quattro qualità primarie- caldo, freddo, umido e secco- che mescolate per dicotomie, in base alla dottrina aristotelica degli opposti, danno luogo ai quattro elementi. Dalle combinazioni delle qualità primarie discendono le varie spiegazioni non solo in fisica (vari stati di aggregazione della materia e passaggi di stato, esistenza delle diverse sostanze, dilatazione e compressione, combustione, interpretazione delle “meteore”, ovvero dei mutamenti del tempo, e così via), ma anche in campo medico. Le prime scale sensoriali qualitative, per le sensazioni di caldo e di freddo, si avranno proprio in ambito medico dove la temperatura corporea normale di un uomo in buona salute verrà implicitamente assunta come ‘grado di calore di riferimento’. Oggi sappiamo che per misurare la temperatura, e quindi poter descrivere lo stato termico di un corpo, occorre una scala metrica basata: sul principio zero della termodinamica (due corpi con stati termici diversi se posti a contatto raggiungono uno stato termico di equilibrio); sulla dilatazione termica di opportune sostanze che consenta una misura indiretta di T (o, come è noto, su altre proprietà quali il comportamento di gas mantenuti a volume costante, sulla resistività di materiali conduttori, sulla differenza di potenziale tra le giunzioni di una termocoppia, ecc.); su una scala, per esempio decimale; sui punti fissi, per esempio, a pressione ordinaria, 0°C per una miscela acqua-ghiaccio e 100°C per acqua-vapore poiché nei passaggi di fase la temperatura si mantiene costante. Queste prescrizioni sperimentali, che oggi sembrano scontate, avranno tuttavia bisogno di un lunghissimo arco di tempo per essere riconosciute e applicate in modo corretto. Galeno di Pergamo (129-200), sembra essere il primo ad assegnare quattro gradi di freddo e quattro gradi di caldo, così come ad introdurre la prima nozione di punto fisso nella pratica medica. I punti fissi corrispondono alle due sostanze ritenute la più fredda (ghiaccio) e la più calda (acqua bollente). Galeno introduce anche un “punto neutro”, corrispondente a una miscela in parti uguali di ghiaccio e acqua bollente. E’ interessante notare come in medicina si introducano scale sensoriali di caldo-freddo (cioè le prime scale di temperatura), prima ancora di avere strumenti di misura. Vengono inoltre proposte delle regole empiriche, assai bizzarre per noi oggi, per definire il “grado naturale” di temperatura di una persona sana. Per esempio, in De logistica medica, una specie di prontuario medico compilato da Johannes Hasler di Berna, del 1578, una di queste regole fa corrispondere al “grado normale di calore” la somma dell’ età del soggetto, di un numero associato alla stagione e alla latitudine, e di altre numerologie che tengano conto di possibili influenze contingenti. I parametri presi in considerazione sembrano sensati, inclusa la latitudine dal momento che era noto che la temperatura corporea ai tropici è maggiore della temperatura corporea a latitudini più alte. Con criteri analoghi si definiva una “scala medica universale”, valida per qualsiasi abitante della Terra con otto gradi di calore e otto di freddo. Questa consuetudine influenzerà le prime scale termometriche che avranno otto gradi. Un altro settore che condizionerà la suddivisione in gradi delle scale sarà quello meteorologico, legato alle condizioni del tempo e alle varie attività stagionali,

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    soprattutto agricole. Una scala in uso nel Seicento, con scansione di quattro gradi, porterà per esempio, accanto alla numerazione, le diciture1: 0°, frigus vehementissimus; 4°, frigus ingens; 8°, aer frigidus;12°, temperatus; 16°, calidus; 20°, calor ingens ; 24°, Aestus intolerabilis.

    §1.2. I primi termometri e il problema della scala di temperatura I primi strumenti qualitativi usati per indicare i “gradi di calore”, venivano comunemente detti termoscopi. Più correttamente bisognerebbe chiamare questi strumenti ‘termobaroscopi’ dal momento che essi rispondono non solo a variazioni di temperatura ma anche di pressione. Sono da considerarsi comunque gli strumenti prototipo da cui deriveranno sia i termometri che i barometri. Il termoscopio ad aria, insieme alle bilance, è tra gli strumenti più antichi che la storia ricordi: è costituito da una piccola ampolla di vetro dal collo lungo e sottile; il dispositivo viene riscaldato e poi capovolto con il collo che pesca in un recipiente pieno d’acqua.

    R. Fludd, Meteorologica cosmica, Frankfurt, 1626. A destra, taratura di un termoscopio ad aria,

    da Middleton, cit. p. 53. In queste condizioni, man mano che il termoscopio si raffredda l’acqua sale nel collo dell’ampolla (il volume dell’aria nell’ampolla si riduce; se il termoscopio viene di nuovo riscaldato, per es. al Sole, l’aria si dilata e l’acqua scende di livello). Lo strumento è sensibile anche alle variazioni di pressione atmosferica ma gli antichi sperimentatori, benché usassero lo strumento per avere indicazioni sulle variazioni del tempo (e perciò come un baroscopio) non potevano esserne consapevoli perché, semplicemente, non possedevano il concetto di pressione atmosferica. Già Filone di Bisanzio (II sec. A.C.) utilizzava il principio del termoscopio nei suoi “esperimenti pneumatici” così come Erone d’Alessandria (I sec. d. C.), il più illustre rappresentante della scienza meccanica ellenistica. Nel periodo alessandrino era diffuso l’uso di ideare dispositivi meccanici, costituiti da sifoni, valvole, ruote dentate, che sfruttavano l’energia dell’aria compressa o riscaldata, o quella del vapore d’acqua bollente o, più in generale, i fenomeni nei quali si producono variazioni di pressione.

    1 Cfr. W. E. K. Middleton, A history of the thermometer, The John Hopkins press, Baltimore, 1966, p. 74.

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    Quest’uso venne ripreso nel Rinascimento e in età barocca nella progettazione di fontane, orologi, automi o più in generale di macchine motrici da impiegarsi nelle attività più varie, in coincidenza della pubblicazione della Pneumatica di Erone in latino, nel 1575, e, nel 1589, in italiano con il titolo Gli artificiosi et curiosi moti spiritali. G. Della Porta, lo stesso Galileo, Salomon De Caus2 e molti altri ‘ingegneri’ rinascimentali e barocchi conoscevano gli esperimenti di Erone.

    Così il termoscopio venne di nuovo studiato con varianti sperimentali più o meno importanti: l’acqua fu sostituita con liquidi colorati per evidenziarne il livello3 e soprattutto venne introdotta, già intorno al 1610, la scala. Il termoscopio divenne così un termometro ad aria. Non è chiaro chi per primo abbia inventato il termometro (questioni di priorità sono eventi frequenti nella storia della scienza). I candidati più probabili sono quattro: gli italiani Galileo (1564-1642) e Sanctorius (1561-1636), l’olandese Cornelius Drebbel (1572-??) e il gallese Robert Fludd (1574-1637).

    2 S. De Caus, Les raisons des forces mouvantes, 1615. 3 G. Biancani, Sphaera mundi, 1617.

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    A favore di Galileo è schierato il suo biografo, Vincenzo Viviani4 (1622-1703). Secondo Viviani, Galileo avrebbe inventato il termometro durante il periodo padovano, tra il 1592 e il 1597, e lo avrebbe usato per valutare “le mutazioni di freddo e di caldo” in un luogo. Un’altra testimonianza a favore di Galileo si ritrova in una lettera di B. Castelli a F. Cesarini, dove così viene descritto “un istrumento da esaminare i gradi del caldo e del freddo”, basato sul principio del termoscopio: Mi sovvenne un’esperienza fattami vedere già più di trentacinque anni sono dal nostro Sig. Galileo, la quale fu, che presa una caraffella di vetro di grandezza di un piccol uovo di gallina, col collo lungo due palmi in circa, e sottile quanto un gambo di pianta di grano, e riscaldata bene colle palme delle mani la detta carafella, e poi rivoltando la bocca di essa in vaso sottoposto, nel quale era un poco di acqua, lasciando libera dal calor delle mani la caraffella, subito l’acqua cominciò a salire nel collo, e sormontò sopra il livello dell’acqua del vaso già più di un palmo; del quale effetto poi il medesimo Sig. Galileo si era servito per fabbricare un istrumento da esaminare i gradi del caldo e del freddo5. Santorio come medico si occupava di termometri per misurare la temperatura corporea.

    Termometro ad aria per uso medico di Santorio, Sanctorii...Commentaria, Venezia, 1625.

    Fludd, anch’egli medico oltre che filosofo, descrisse in una sua opera (Meteorologica Cosmica) vari tipi di termometro ad aria per scopi meteorologici (vitrum calendarium). Drebbel adottò un termometro ad aria modificato, detto “instrumento drebiliano”, a forma di J e che pertanto, non avendo bisogno di vaschetta, poteva essere portatile.

    4 La biografia di Viviani è del 1654. 5 Lettera di B. Castelli a F. Cesarini del 20 settembre 1638, Ed. Naz. Opere Galileo, A. Favaro (a cura di), Barbera 1890-1909, XVII, p. 377.

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    Termometro italiano e olandese, J. Leurechon, Récreation mathematique, 1626.

    In ogni modo, intorno al 1610, termometri ad aria comparvero un po’ ovunque in Europa e sembra difficile stabilire chi per primo abbia deciso di adottare, insieme all’antico termoscopio, una prima scala semiqualitativa applicata al cannello con punti fissi empirici (fiamma di candela, ecc.). Si trattò cioè di una ‘scoperta simultanea’ o, meglio, di una riscoperta visto che tutti gli autori citati dichiararono in modo esplicito di aver ripreso da Erone la forma e l’uso dei termoscopi. Ma nel 1644 si avrà un colpo di scena: con la scoperta della pressione atmosferica si stabilirà che il termometro ad aria risponde, oltre che alle variazioni di “calore”, anche a variazioni di pressione. Il termoscopio ad aria venne perciò modificato: chiuso verrà usato come termometro, aperto, come barometro. Si iniziò poi a sperimentare con sostanze diverse dall’aria: già Athanasius Kircher, il fondatore del Museo Kircheriano a Roma, aveva provato ad usare nel 1620 il mercurio. Intorno al 1630 il medico francese Jean Rey impiegò un termometro con un bulbo contenente aria e il cannello contenente acqua. Il calore faceva dilatare l’aria (che veniva perciò usata come amplificatore a causa del suo coefficiente di espansione più elevato di quello dei liquidi ordinari), costringendo l’acqua a salire (che funzionava perciò come una sorta di indice). Prevalse poi, per un certo periodo, l’alcool etilico (o spirito di vino o “acqua arzente”) come liquido termometrico. Esperimenti con termometri a liquido vennero condotti in particolare presso l’Accademia del Cimento, fondata nel 1657 a Firenze dal Granduca di Toscana Ferdinando II, e operante fino al 1667. Parte di questi esperimenti sono stati descritti e magistralmente illustrati nei Saggi di naturali esperienze fatti dall’Accademia del Cimento, del 1666, curati da Lorenzo Magalotti (1637-1712). Tra gli strumenti usati nell’ Accademia di un certo interesse sono i termometri infingardi (cioè, pigri a rispondere), i quali, riempiti in parte di spirito, presentano una scala a indici mobili costituiti da una serie di palline di diversa densità (termometro V in fig.).

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    Se la temperatura esterna si abbassa, e in conseguenza aumenta la densità dell’alcool, le palline galleggiano (la spinta di Archimede prevale sulla forza peso) mentre all’aumentare di T, le palline affondano una dopo l’altra e la temperatura dell’alcool può essere stimata dal numero di palline affondate. Una variante di questi indici mobili è costituita da sferette piene per metà di acqua e per metà d’aria (una specie di diavoletti di Cartesio): se, in funzione della temperatura, l’aria si comprime, nella pallina entra acqua e quindi si abbassa; viceversa se l’aria si espande, esce acqua e la pallina sale. Accanto a questi strumenti figurano i termometri fiorentini a 100°, ad alcool e a gradazione con dentini di vetro saldati sul cannello. Risalgono al 1641 e venivano usati per “trovare i cambiamenti di caldo e freddo dell’aria”. Un altro luogo deputato a sperimentare con termometri a liquido fu la Royal Society di Londra, fondata nel 1660. Qui operarono, tra gli altri, Boyle e Hooke. In particolare R. Hooke (1635-1702), nella sua Micrographia (Londra 1665), avanzò l’esigenza di trovare un termometro standard e fornì istruzioni per costruire un termometro ad alcool. La scelta dell’alcool etilico fu fatta perché questo liquido è facilmente colorabile, risponde rapidamente al ‘calore’, non è soggetto a gelare per alcun ‘freddo’ noto. Verso il 1701 anche Newton condurrà i suoi esperimenti con termometri ad olio di lino e nello stesso periodo Fahrenheit studierà il mercurio come liquido termometrico. §1.3. Punti fissi e scale Misure eseguite con termometri contenenti liquidi diversi, se confrontate, portarono presto a riconoscere che: a) l’assunzione tacita, in base alla quale la relazione tra volume e temperatura sia lineare non sempre è rispettata, e che quindi liquidi diversi mostrano dilatazioni diverse; b) a parità di liquido usato la dilatazione non sempre è uniforme. Questo si verifica in particolare con l’alcool che, se non è puro, presenta un diverso contenuto d’acqua e quindi coefficienti di dilatazione differenti. Per l’acqua già gli accademici del Cimento osservarono che al di sotto di un certo “grado di calore” (sotto i 4°C) diminuisce anziché aumentare di volume;

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    c) occorre usare una sostanza termometrica molto dilatabile. Questa circostanza farà preferire per un certo tempo l’alcool al mercurio che, in confronto, si espande meno e farà tornare qualche sperimentatore all’aria (il coefficiente di dilatazione termica è più grande per i gas che per i liquidi e i solidi); d) necessità di operare in un intervallo di temperature sufficientemente esteso in rapporto all’uso dello strumento: qui, per esempio, l’alcool presenta inconvenienti perché intorno a 80°C inizia a bollire; e) necessità di stabilire punti fissi stabili: le proposte sono svariate. C. Huygens (1629-1695) propose nel 1665 come punti fissi la temperatura di fusione del ferro e di ebollizione dell’acqua; altri proposero la temperatura di fusione del burro, di una miscela di sale e ghiaccio e così via. Il primo suggerimento di usare due termini fixi per la scala si deve a Sebastiano Bartolo (1679) che impiegò per il vecchio termoscopio ad aria la neve e l’acqua bollente, corrispondenti, rispettivamente, al grado di “freddo massimo” e di “calore massimo” e ritenuti “punti fixa et ubique immutabilia”, mentre il grado relativo alla temperatura ambiente (“communis ambiens”) e alla temperatura corporea venivano considerati variabili. La tradizione attribuisce a Carlo Renaldini (1694) l’idea dei punti fissi ma anche in questo caso la necessità di avere punti di riferimento stabili e riproducibili ovunque è “nell’aria” e in maniera più o meno concorde, per gli usi più comuni del termometro, venivano scelte le temperature dell’acqua bollente e la temperatura di fusione del ghiaccio (cioè di una miscela di acqua e ghiaccio, ritenuta migliore della temperatura di congelamento dell’acqua); si riconobbe poi già nel Settecento che tali temperature sono legate alla pressione amosferica. Rispetto alle scale, delle molte proposte se ne imposero tre: la scala Reaumur con 80°, la Celsius con 100° e la Fahrenheit con 180°. La scala di G. Fahrenheit (1686-1736) fa corrispondere alla temperatura di fusione del ghiaccio 32° e a quella di ebollizione dell’acqua 212°. La scala di R. A. F. Réaumur (1683-1757) ha un solo punto fisso; quella dell’astronomo svedese A. Celsius (1701-1744), infine, è una scala centigrada e inizialmente associava lo 0 alla temperatura dell’acqua bollente e 100° al punto di congelamento dell’acqua. C. von Linné (1707-1778) invertirà successivamente (1742) i punti della scala che risulterà così come la conosciamo oggi. §1.4. Alla ricerca di una temperatura assoluta Ma anche l’introduzione di scale a due punti fissi portava a misure, condotte con termometri diversi, discordanti tra loro. La causa di queste divergenze verrà attribuita a vari fattori tra i quali la qualità del vetro e la forma del bulbo. In realtà sia l’alcool che il mercurio non danno scale lineari perché il volume non varia linearmente con la temperatura. A partire dal 1800, con gli esperimenti di L. J. Gay- Lussac (1778-1850)6 si osservò che i termometri a gas mostrano una identica espansione, cioè i coefficienti di dilatazione dei gas a pressione costante sono approssimativamente uguali ( per i gas ideali è costante anche rispetto alla temperatura e non dipende dalla specie chimica). Lo stesso Gay-Lussac constatò che per i gas valeva una analoga legge per le variazioni di pressione a volume

    6 L. J. Gay-Lussac, Ann. d. Chim., 43 (1802) 137.

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    costante (e in effetti V. Regnault (1810-1878), nel 1847, stabilirà che termometri a volume costante o a pressione costante sono equivalenti). Inoltre, anche se la natura del gas variava, sotto condizioni opportune il valore di continuava a rimanere costante. Si riconoscerà così gradualmente che rappresenta una importante costante universale e che i gas sono fluidi termometrici privilegiati, in grado di indicare una ‘scala naturale’ o assoluta delle temperature. A questa idea si associava l’altra sull’esistenza di uno zero assoluto della temperatura come limite ultimo raggiungibile in natura. L’esistenza di una scala vera o naturale delle temperature con uno “zero assoluto del calore” era stata in realtà già da tempo postulata sulla base di assunzioni metafisiche, associate soprattutto alle ipotesi sulla natura del calore, considerato una sostanza contenuta nei corpi. In particolare G. Amontons (1663-1705) riteneva che l’elasticità dell’aria (cioè la sua pressione) fosse direttamente proporzionale alla quantità di calore in essa contenuta sicché, a pressione zero doveva corrispondere uno zero assoluto per il calore. La constatazione che tutti i gas si dilatano allo stesso modo e che presentano un coefficiente di dilatazione alto rispetto ai liquidi e ai solidi comporterà un ritorno dai termometri a liquido ai termometri a gas non solo perché i gas mostrano un comportamento ‘universale’ ma anche perché la dilatazione del vetro del termometro, essendo trascurabile rispetto a quella dei gas, implica errori di misura minori. I termometri a mercurio continueranno tuttavia a essere preferiti perché più maneggevoli e di semplice uso. Inoltre, si tenterà di utilizzare il valore di per costruire scale universali di temperatura e per definire lo zero assoluto. Vediamo come venne determinato il suo valore nelle prime indagini sperimentali condotte da Gay-Lussac. Il metodo di Gay-Lussac per la determinazione di consisteva nel misurare la variazione di volume V subita da aria secca racchiusa in un pallone di vetro B immerso in una sorta di grosso calorimetro ad acqua, quando l’aria stessa veniva portata da 100 a 0°C (fig. tratta da Ramsauer, cit. p. 33).

    Inizialmente l’acqua veniva portata a ebollizione; aprendo il rubinetto R si portava il gas alla pressione esterna (il processo avveniva facendo pescare il tubicino rr nell’acqua, di massa nota, contenuta in G): in questa situazione, dunque, il gas occupa un volume V100, si trova a una temperatura di 100°C e alla pressione

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    esterna. Successivamente (a rubinetto R chiuso) si fa raffreddare il sistema e si avvolge il pallone in un bagno costituito da una miscela di acqua e ghiaccio. Riaprendo il rubinetto R il gas si trova ora a T=0°C, alla pressione esterna e occupa un volume V0 che può essere valutato dalla quantità d’acqua V che fluisce dalla bacinella nel tubo rr e che rappresenta proprio la variazione di volume del gas tra 100 e 0°C: V= V100- V0. Pesando le due masse d’acqua nelle due fasi del processo e riportandole in cm3, dalla misura di V si ottiene V0= V100-

    V. Di qui si calcola infine l’aumento di volume (V0+ V)/V0 =1+( V/V0) che corrisponde a un valore oggi noto di 1,3667. In base alle conoscenze attuali, per un gas ideale la legge di dilatazione dei volumi è, in prima approssimazione, V= V0(1+ t). Assumendo per le due temperature 0 e 100°C si ha = (1/100) (V100-V0)/V0. Sostituendo a V/V0, 0,3667 si ottiene per

    il valore limite di 1/273. In effetti, eseguendo misure della pressione di un gas ideale a volume costante in funzione della temperatura ed estrapolando linearmente, per p che va a 0, T tende a -273°C (cioè, lim gas= 1/273,16(°C-1)).

    p (atm)

    t (°C)

    -273

    Per mezzo di 1/ si fissa poi lo zero della scala assoluta con l’altro punto fisso corrispondente alla temperatura dell’acqua al punto triplo, corrispondente a 273,16 K. W. Thomson (Lord Kelvin) proporrà successivamente una scala di temperature che non dipende dalla proprietà di alcuna sostanza basandosi sul funzionamento di una macchina termica reversibile sulla base della teoria di Sadi Carnot e dimostrerà che tale scala termodinamica coincide con la scala assoluta dei termometri a gas ideale. Le prime misure di pressione in funzione della temperatura si rifanno alla legge pt= p0(1+ t) che per un intervallo di temperature tra 0 e 100°C porta alla relazione p100/p0= cost. p. I primi sperimentatori, tra i quali Regnault e W. J. Rankine (1820-1872), misuravano le pressioni richieste per mantenere a volume costante il gas in funzione delle due temperature. I risultati sperimentali ottenuti da Gay-Lussac e successivamente da Dalton, H. G. Magnus (1802-1870) e Regnault saranno in realtà affetti per lungo tempo da errori sperimentali piuttosto elevati, dovuti, in particolare, al contenuto d’acqua presente nei gas (la quale vaporizzando comporta un aumento di volume) e alla depressione capillare nei tubi di piccolo diametro. Nel 1807 Gay-Lussac iniziò anche a studiare l’espansione libera di un gas: la disposizione sperimentale è quella consueta, presente oggi in tutti i manuali e nota come “esperienza di Joule” (alla quale torneremo tra breve) ed è costituita da due recipienti di uguale volume, collegati da un rubinetto e immersi in un calorimetro. In un recipiente veniva posto il gas mentre nell’altro veniva fatto il vuoto. Facendo diffondere il gas si notava un raffreddamento in un recipiente, compensato esattamente da un riscaldamento nell’altro, senza che nel complesso

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    la temperatura del sistema cambiasse. Dal momento che Gay-Lussac associava a una espansione un raffreddamento del gas, l’esito dell’esperimento fu visto come una anomalia inesplicabile che verrà risolta solo a metà Ottocento. Intorno al 1820, tra gli altri Poisson, osservò sperimentalmente che un gas compresso si riscaldava, ma se il processo avveniva rapidamente questo si raffreddava (processo adiabatico) e trovò sperimentalmente la relazione pV = cost., con = Cp/CV. Inoltre con Dulong (1829) si constatò che volumi uguali di gas diversi, compressi o dilatati della stessa quantità, a temperatura costante (oppure a pressione costante), liberano o assorbono la stessa quantità di calore.

    CAP. 2. ALLE RADICI DEL CONCETTO DI PRESSIONE

    §2.1. Il dibattito sull’esistenza del vuoto Facciamo un passo indietro per ricostruire le vicende che portarono alla ‘scoperta’ del concetto di pressione atmosferica. Questo argomento è trattato per esteso da varie parti7 e qui ci limitiamo a riassumere per sommi capi la vicenda: - Il dibattito sull’esistenza del vuoto: dura secoli, fino ad esaurirsi, nel giro di pochi anni, a metà Seicento. Aristotele e i suoi seguaci ritengono che il vuoto non possa esistere. La concezione cosmologica aristotelica si basa su un tutto pieno (l’universo aristotelico è chiuso, limitato e costituito da una serie di gusci sferici concentrici con al centro la Terra attorno alla quale sono distribuite le tre sfere immobili che competono agli altri tre elementi, acqua, aria, fuoco; seguono le otto sfere concentriche che compongono il mondo translunare, o sfere della Luna, di Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno e delle stelle fisse alle quali Aristotele attribuisce il solo movimento di rotazione diurna intorno a un asse fisso comune); lo stesso vale per l’interpretazione del moto (i corpi si muovono con velocità finita v; la velocità di un grave aumenta durante la caduta e inoltre v è proporzionale a p/ con p, peso del corpo, e resistenza del mezzo. Di parere contrario sono gli atomisti (la struttura della materia è granulare, esiste il vuoto locale disseminato in parti sottili nella materia) e gli studiosi di taluni fenomeni di conoscenza comune (‘fenomeni pneumatici’), dovuti a compressione e rarefazione in particolare dell’aria, al comportamento anomalo dell’acqua nei sifoni, al funzionamento dei termoscopi. Erone è il sostenitore più illustre e influente di questa concezione, a metà tra la posizione aristotelica (non può esistere vuoto esteso) e la posizione atomista. Il vuoto locale non solo può essere modificato (per compressione si riducono gli spazi interatomici) ma anche prodotto artificialmente (è possibile permettere l’ingresso di vuoti diffusi, ad esempio facendo dilatare un corpo). - Per secoli, si continuerà a sostenere che il vuoto non può esistere né fisicamente, dal momento che l’universo si pensa costituito da un plenum di materia senza discontinuità (natura non facit saltus), né logicamente. La natura infatti non fa niente invano e il vuoto è, per definizione, ciò che non è, e non può quindi essere né causa efficiente né formale. Accanto a queste posizioni di natura filosofica si affiancarono argomentazioni derivanti dai dogmi di fede e da un atteggiamento di immanentismo religioso. Dio ha creato l’universo dandogli impronta di sé. Non può allora esistere il vuoto perché ciò indicherebbe l’assenza di impronta divina. E

    7 V. per es., M. G. Ianniello, La genesi storica del concetto di pressione atmosferica, in M. Vicentini e M. Mayer, a cura di, Didattica della Fisica, La Nuova Italia, Firenze, 1996, pp. 301-334.

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    qualora esso esistesse, al di là del cielo delle stelle fisse potrebbe esistere una realtà esterna in cui potrebbe darsi una molteplicità di mondi e ciò sarebbe contrario alle indicazioni della Sacra Scrittura. In natura quindi deve esistere la fuga vacui, una sorta di terrore connaturato alla materia, che costringe i fenomeni naturali a procedere senza dar luogo a formazione di vuoto. Tutta la fenomenologia connessa ai fenomeni pneumatici viene così spiegata invocando la teoria dell’horror vacui. §2.2. La nuova filosofia sperimentale Il Seicento si apre alla nuova filosofia sperimentale: Galileo, Torricelli, Pascal, von Guericke e Boyle contribuiranno a risolvere il dibattito sul vuoto. L’avvio a questo processo viene dato da un problema pratico: bisogna collegare con un sifone i rami di un acquedotto tra due località separate da un dislivello di circa 84 palmi (circa 20 m). Perché il sifone non funziona? - Carteggio Baliani-Galileo. Il quesito viene posto in una lettera di G. B. Baliani (1582-1666), fisico-matematico, a Galileo (27 luglio 1630). Risposta di Galileo a Baliani (6 agosto 1630): Galileo spiega in base alla sua teoria (sbagliata), il mancato funzionamento del sifone con una analogia tra la colonna d’acqua sollevata e una corda a cui si sospende un peso; se il peso aumenta troppo la corda, superato il limite di rottura, si spezza così come la colonna d’acqua, il cui peso supera la “forza interna di vacuo” (G. pensa che l’acqua sia tenuta insieme dalla “resistenza di vacuo” che le particelle di liquido dovrebbero superare per separarsi perché la natura evita la formazione di vuoti). Baliani a Galileo (24 ottobre 1630): Baliani dubita della risposta di Galileo e in particolare non crede che il vuoto non possa esistere (proprio Galileo aveva dimostrato intorno al 1614 che “l’aria ha peso sensibile” e aveva stimato che la densità dell’aria dovesse essere circa 1/400 di quella dell’acqua. In realtà è di circa 1/700). Questo fatto suggerisce a Baliani una possibile interpretazione del comportamento dell’aria che egli assimila a un fluido pesante, esattamente come l’acqua. Analogia del “pelago d’aria” che verrà poi usata da Torricelli e dagli altri filosofi sperimentali, a testimonianza del rovesciamento del quadro concettuale che vede nella pressione dell’aria una causa esterna, e non interna, ai dispositivi sperimentali (“Io mi figuro di esser nel fondo del mare, ove sia l’acqua profonda dieci mila piedi, e se non fusse il bisogno di rifiatare, io credo che vi starei, ancorché io mi sentirei più compresso e premuto da ogni parte di quel che io mi sia di presente. [..] Lo stesso mi è d’avviso che ci avvenga a noi nell’aria, che siamo nel fondo della sua immensità, né sentiamo né il suo peso che la compressione che ci fa da ogni parte; perché il nostro corpo è stato fatto da Dio di tal qualità, che possa resistere benissimo a questa compressione senza sentirne offesa, anzi che ci è per avventura necessaria, né senza di lei si potrebbe stare”). - Galileo persiste nell’errore. Nonostante i suggerimenti di Baliani, Galileo continuerà a rimanere legato alla sua interpretazione della “forza di vacuo” nel tentativo di conciliare la vecchia teoria dell’horror vacui con la sua spiegazione della forza di coesione esistente tra le particelle di un corpo e della loro resistenza ad essere separate. Nella prima giornata dei Discorsi e dimostrazioni intorno a due nuove scienze, del 1638, propone un esperimento concettuale per misurare la forza di vacuo. I personaggi dei Discorsi: Sagredo (“pur per violenza o contro a natura, il vacuo talor si conceda”); Simplicio, aristotelico di stretta osservanza (“la natura non intraprende a voler fare quello che repugna ad esser fatto” e “a far quello in conseguenza di che necessariamente succederebbe il vacuo); Salviati-

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    Galileo. Salviati è in grado di dimostrare sperimentalmente la presenza e gli effetti del vuoto e di misurarne l’entità mediante un dispositivo costituito dal cilindro ABCD entro cui scorre il pistone EFGH (Fig.).

    Con il cilindro rivolto con la parte CD verso l’alto si riempie l’intercapedine ABEF d’acqua, quindi, fatta uscire l’aria residua mediante il tirante IK, si capovolge il sistema e si appendono all’uncino pesi via via crescenti fino a che non si riesce a strappare il pistone dalla superficie inferiore dell’acqua alla quale, secondo Galileo, lo teneva congiunto la ripugnanza del vuoto (in realtà dovrebbe essere la superficie superiore dell’acqua a staccarsi dal cilindro). La massa del pistone e dei contrappesi fornisce così la “forza di vacuo”. L’aspirazione dell’acqua nelle pompe o in un ramo di un sifone è dovuta in definitiva per Galileo, alla forza interna di vacuo e non ad una forza esterna. E se lo scienziato pisano è disposto ad ammettere che la natura non ha orrore del vuoto, continua a dire che il vuoto si manifesta con la forza di vacuo che per Galileo diventa un parametro fisico che può essere misurato in condizioni limite. §2.3.Torricelli e l’esperienza dell’argento vivo Giunto ad Arcetri nel 1641, ospite di Galileo, durante la revisione del Dialogo sopra i due massimi sistemi Torricelli (1608-1647) avrà modo di discutere con Galileo la questione del vuoto e risolverà in maniera elegante e sintetica il problema che esporrà a M. Ricci (1619-1682) nel 1644, in una lettera in cui descriverà l’esperienza dell’argento vivo (Fig.), arrivando a concludere che il cosiddetto spazio torricelliano è vuoto, che non esiste in natura né l’orrore né la forza di vacuo e che la causa del sostentamento della colonna di mercurio è esterna ed è dovuta alla “gravità dell’aria”.

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    - Carteggio Torricelli-Ricci. La teoria “della colonna d’aria” di Torricelli solleva alcune perplessità che Ricci comunica a Torricelli sottoponendole al suo giudizio (Ricci a Torricelli, lettera del 18 giugno 1644). Prima obiezione: se si pone un coperchio a tenuta sulla superficie libera del mercurio contenuto nel recipiente in modo da escludere l’ “azione dell’aria”, che succede? La risposta di Torricelli (lettera a Ricci, 28 giugno 1644): la questione posta da Ricci è mal formulata. Occorre distinguere due casi: il coperchio sia posto a contatto dell’argento vivo oppure lasci tra sé e la superficie libera del mercurio una intercapedine d’aria. In tal caso occorre sapere se l’“aria serrata” sia “del medesimo grado di condensazione che l’esterna”, e allora il livello del mercurio resterà invariato, oppure “più rarefatta dell’esterna”, nel qual caso il livello si abbasserà. Torricelli aggiunge poi per estrapolazione che se quell’aria “fusse infinitamente rarefatta, cioè vacuo”, la colonna di mercurio scenderebbe del tutto. Seconda obiezione di Ricci: riguarda il modo di operare della “gravità dell’aria”, che dovrebbe esercitarsi dall’alto verso il basso, come per i corpi pesanti. Se si prende una pompa aspirante e si impedisce all’aria di entrarvi, tirando il pistone si sente una forte resistenza non solo quando la pompa è messa verticale ma anche in tutte le altre direzioni. Orbene, in questi casi non si comprende “come il peso dell’aria c’abbia a che fare”. Torricelli risponde enunciando il principio oggi noto come principio di Pascal. §2.4. Il contributo di Pascal all’affermazione della teoria della colonna d’aria Ricci nel 1644 aveva comunicato a M. Mersenne (1588-1648), filosofo e fisico francese, il contenuto del suo carteggio con Torricelli e lo stesso Mersenne era partito dalla Francia con destinazione l’Italia, alla fine dello stesso anno, per assistere personalmente all’esecuzione dell’esperimento. Di ritorno in Francia tenterà di ripetere egli stesso l’esperimento ma senza successo. Si rivolgerà quindi a Pierre Petit, Etienne Pascal e a suo figlio Blaise (1623-1662) il quale eseguirà in diverse versioni l’esperienza torricelliana (Pascal vive a Rouen, una cittadina in cui prospera l’industria vetraria, condizione che gli consentirà a eseguire con successo numerosi esperimenti). L’esperienza susciterà in Francia aspri dibattiti. A seconda della particolare ipotesi scelta per interpretare il fenomeno possiamo individuare due orientamenti legati, il primo, alla questione se lo spazio torricelliano sia vuoto, l’altro alla questione se la teoria della colonna d’aria sia valida (e quindi se l’aria abbia un peso nel suo luogo naturale). Poiché i due orientamenti, che implicano, il primo, una spiegazione in termini di ‘forza’ interna

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    al tubo torricelliano e, il secondo, in termini di causa esterna, possono essere tra loro compatibili, si formuleranno numerose sottoteorie derivanti dalla combinazione dei diversi punti di vista. I seguaci della scuola peripatetica partiranno dalla assunzione che lo spazio torricelliano non può essere vuoto (teoria dell’horror vacui in senso assoluto) e che l’aria nel suo luogo naturale non ha peso; e sosterranno, di conseguenza, che nello spazio lasciato libero dal mercurio deve essere rimasto almeno un “atomo d’aria”, il quale si espande per evitare la formazione di vuoti, fino a raggiungere il massimo grado di rarefazione e che, in questo stato, si comporta nei confronti del mercurio come una molla che sostiene un grave. Oppure, pur di non ammettere la creazione del vuoto nello spazio torricelliano (come Cartesio e i suoi sostenitori), si ipotizza che quando il mercurio si abbassa, l’aria residua fuoriesca e venga sostituita da una materia sottile che penetra nell’interno del tubo attraverso il vetro. In breve, lo spazio torricelliano si riempirà di una moltitudine di “esprits” provenienti dal mercurio (ma anche dal vetro) ai quali si attribuiranno, di volta in volta, proprietà ad hoc in grado di salvare il fenomeno. Del secondo schieramento faranno invece parte i sostenitori della nuova scuola sperimentale, i quali, pur con diverse sfumature, tenteranno di conciliare una realtà sperimentale che sembrava ammettere la possibilità del vuoto, con le spiegazioni tradizionali legate alla teoria dell’horror vacui (teoria dell’horror vacui in senso ristretto). Questa era stata, come abbiamo visto, la posizione di Galileo. Per smantellare la teoria dell’atomo d’aria, Pascal esegue, come già aveva proposto Torricelli, l’esperienza dell’argento vivo con vasi di diverso volume. Se l’ipotesi della scuola peripatetica fosse vera, il volume dello spazio torricelliano dovrebbe rimanere costante mentre, come si sa, a rimanere costante è solo l’altezza del mercurio. Rispetto ai sostenitori dei vapori esalati dal fluido barometrico e ritenuti responsabili dell’abbassamento del mercurio, Pascal progetterà una esperienza in cui userà due tubi di vetro (lunghi oltre 40 piedi) contenenti acqua e una sostanza altamente volatile, vino. In quest’ultimo caso, sviluppandosi una quantità maggiore di vapori, l’altezza raggiunta dalla colonna di vino avrebbe dovuto essere inferiore a quella dell’acqua ma il risultato sperimentale dimostrerà esattamente il contrario. Tra gli esperimenti proposti figura l’esperienza “del vuoto nel vuoto”, progettata dallo scienziato francese A. Auzout (1622-1691) e rielaborata da Pascal, in una versione semplificata, nel 1648. Il dispositivo (v. Fig. a sinistra; in Fig. è mostrata una variante dell’esperimento progettata presso l’Accademia del Cimento; questo e altri esperimenti trattati sono stati ricostruiti nella trasmissione televisiva “Un oceano d’aria”, per la quale si veda di seguito in bibliografia) consiste in due canne barometriche inserite una nell’altra; in una prima fase si fa agire la pressione atmosferica solo sul tubo inferiore, dove si osserverà il mercurio sollevarsi ad una quota di circa 26 pollici.

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    a) b) c) a) L’esperimento di Pascal-Azout del vuoto nel vuoto, B. Pascal, Trattato dell’equilibrio dei liquidi, cit. p. 105. b) Versione modificata dell’esperimento, da Magalotti, Saggi di Naturali Esperienze. c) Ricostruzione di E. Ball, Deutches Museum, Monaco. Il mercurio contenuto nel ramo superiore, trovandosi tutto immerso nel vuoto, rimarrà invece in quiete non potendosi bilanciare con la pressione atmosferica. In una seconda fase si lascerà entrare l’aria anche nel secondo tubo, col che si osserverà il mercurio sollevarsi e oscillare fino a formare una colonna alta circa 26 pollici, mentre il mercurio nel ramo inferiore scenderà nella bacinella. Un esperimento spettacolare è l’esperimento di Pascal del Puy de Dome, fatto eseguire nel settembre 1648 al cognato Perier. - Pascal sistematizza la statica dei fluidi. Nel novembre del 1648, Pascal fa stampare in tutta fretta un opuscolo dal titolo Récit de la Grande Experience de l’Equilibre des Liqueurs projecteé par le sieur Blaise Pascal, in cui l’autore esprimeva la sua totale adesione alla teoria della colonna d’aria, spiegando come fosse stato costretto ad abbandonare il vecchio principio dell’horror vacui sulla base di prove inconfutabili. L’esperienza della montagna segnava dunque, a suo giudizio, l’ultimo e definitivo attacco alla teoria dell’horror vacui. In tutta la ricostruzione egli tuttavia non farà il minimo accenno a Torricelli, di cui egli ben conosceva le idee, idee che una volta accettate avrebbero reso l’esperimento del Puy de Dome un semplice esperimento di verifica e non un esperimento cruciale. Ma se di esperimento cruciale si deve parlare esso va individuato nell’esperimento del vuoto nel vuoto. L’esperimento si presentava, per la nascente scienza induttiva, come l’esperimento modello poiché, a parità di condizioni sperimentali, esso consentiva di osservare al variare della causa, la variazione degli effetti concomitanti. La soluzione dei tubi uno dentro l’altro era inoltre, rispetto alla tecnica del tempo, una trovata geniale poiché permetteva di eseguire l’esperimento in presenza e in assenza d’aria pur non disponendo di una pompa da vuoto (la pompa pneumatica sarà inventata qualche anno dopo). Pur tuttavia l’esperienza del vuoto nel vuoto non avrebbe, probabilmente, convertito con

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    facilità alla teoria della colonna d’aria chi non avesse avuto già dimestichezza con essa. Al contrario, l’esperimento della montagna, facendo leva su una conoscenza divenuta ai tempi di Pascal di senso comune – l’aria, i “vapori grossi” pesano di più ai piedi che alla cima di un monte (e questo non lo negavano neppure gli aristotelici più convinti!) - si presentava agli occhi del grande pubblico assai più convincente. Torricelli individua per primo nella gravità dell’aria l’unica causa responsabile dei cosiddetti fenomeni pneumatici, definisce in modo operativo il concetto di pressione atmosferica con l’esperimento della canna barometrica. A Pascal va il merito di sistematizzare l’intera scienza dei fluidi unificando idrostatica e aerostatica e di costituire, rispetto alle nuove idee, la cassa di risonanza ideale. Gli studi sulla pneumatica portarono a importanti conseguenze: a. all’invenzione della pompa da vuoto da parte di Otto von Guericke (1602-1686) e alla conseguente nascita della tecnica del vuoto, con fondamentali ripercussioni in diversi settori della fisica; b. allo studio delle proprietà dei gas, in particolare con Boyle.

    Pompa pneumatica di Guericke, Experimenta Nova, 1672.

    Rispetto al primo punto, gli esperimenti con la pompa condussero Guericke in primo luogo a mostrare, in una esecuzione pubblica a Regensburg del 1654, che l’aria pesa. Prese due sfere identiche da 5 l, una piena d’aria e l’altra evacuata con una pompa, si procedeva a pesarle con una bilancia e si valutava immediatamente la massa dell’aria (in condizioni normali 1 l d’aria ha una massa di circa 1,3 g). Tra i molti esperimenti eseguiti da Guericke ricordiamo ancora: - la costruzione di un ‘barometro ad acqua’ lungo 19 braccia (1 braccio= 60 cm circa), che veniva evacuato da sopra con la pompa pneumatica, impiegato per osservazioni meteorologiche. - L’esperimento della doppia sfera: l’apparato è costituito da due sfere di vetro A e B collegate da un tubo provvisto di un rubinetto C. Nella sfera A, riempita d’acqua per circa 1/3, accedono due tubi a gomito D ed E, ciascuno con un rubinetto, il primo dei quali può essere collegato alla pompa da vuoto, mentre l’altro mette in contatto con l’aria esterna. Quando i due recipienti sono in comunicazione (C aperto ed E chiuso) si produce il vuoto al loro interno; poi si

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    chiude C e si lascia entrare l’aria da E. Riaperto C si vede salire l’acqua nel recipiente superiore, prova certa che è la pressione dell’aria e non l’horror vacui a spingere il liquido verso l’alto.

    Esperimento della doppia sfera, da F. Fuchs, Guericke Ausstellung, Deutsches Museum

    - I celebri e spettacolari esperimenti degli emisferi di Magdeburgo: la prima versione di questo esperimento dimostrativo fu eseguita nel 1656 con emisferi di 27,5 cm di diametro. Una volta fatto il vuoto nel sistema costituito dai due emisferi accoppiati (con una pompa o facendo condensare vapore d’acqua a 100°C), neppure 6 uomini riuscirono per trazione a separarli. La seconda versione venne eseguita un anno dopo, con emisferi di 51 cm di diametro e un tiro di 16 cavalli. - Gli esperimenti eseguiti intorno al 1661 per mostrare che la pressione atmosferica compie lavoro: fatto il vuoto in un recipiente provvisto di cilindro a tenuta, la pressione atmosferica sospinge il pistone verso il basso. Questo sarà il principio base per le prime macchine atmosferiche dalla cui evoluzione deriveranno poi le macchine a vapore.

    Il terzo modello di pompa costruito da Guericke intorno al 1662 è oggi conservato al Deutsches Museum di Monaco e consentiva di produrre un vuoto di circa 30 mm di mercurio. Rispetto al secondo punto, nel 1660 comparve il libro di Robert Boyle (1627-1691) New Experiments Physico-Mechanicall touching the Spring of the Air.

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    Prima pompa ad aria di Boyle, modello del 1660 ca. e, a destra, pompa pneumatica di Boyle con ‘campana’ da vuoto.

    Un problema di natura metafisica lo spingerà agli esperimenti che portano a individuare la proporzionalità inversa tra pressione e volume di un gas a temperatura costante. Gli esperimenti in questione sono sostanzialmente due: 1. Tubo a J e mercurio (gas soggetto a pressioni maggiori della pressione atmosferica). L’ esperimento non fu realizzato dal fisico inglese per indagare la relazione tra pressione e volume di un gas, quanto piuttosto per costruire una prova sperimentale che confutasse una particolare ipotesi formulata da un suo avversario, l’aristotelico Francesco Lino (1595-1675). La relazione pressione-volume (valida, come è noto, a temperatura costante e per i gas ideali) fu un effetto collaterale di una indagine intrapresa con intenti ben diversi (confutazione della teoria del funiculus di Lino: al di sopra del mercurio c’è una sorta di cordicella capace di esplicare una ‘tensione massima’ fino a sostenere una colonna di mercurio di una atmosfera, circa 29”). Visto che l’ipotesi di Lino si basa su proprietà massime del funiculus a sostenere il mercurio, Boyle progetta un esperimento (fig., tratta da Ramsauer, cit., p. 30) in cui, producendo pressioni maggiori della pressione atmosferica, il mercurio continua ad essere sostenuto per altezze ben maggiori di 29”.

    2. Canna barometrica e vaschetta grande di mercurio (gas soggetto a pressioni inferiori alla pressione atmosferica). Lo schema dell’apparato sperimentale è mostrato in figura (tratta da Ramsauer, cit., p. 28).

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    Cap. 3. LA NASCITA DELLA MECCANICA. GALILEO E LA CADUTA DEI GRAVI

    § 3.1. La fisica pregalileana La fisica pregalileiana è caratterizzata grosso modo da tre tappe relative ad altrettanti stili di pensiero: la fisica aristotelica, la fisica dell’impetus, la ‘nuova’ fisica del metodo sperimentale. Il contesto culturale prima di Galileo Occorre tenere presente l’influenza esercitata sulla meccanica medievale, fino a Galileo, dal pensiero e dalle opere (di derivazione greca e araba) di figure imponenti come Aristotele (la Fisica), Pseudoaristotele (Mechanica), Euclide, Pseudoeuclide (Libro sulla bilancia), Archimede (Sull’equilibrio dei piani, Sulla gravità e la leggerezza), Erone Alessandrino (La Meccanica). Queste opere penetrano in Occidente a partire dal XII secolo (traduzioni dal greco e dall’arabo in latino; opere a stampa dal Cinquecento). La struttura delle dimostrazioni (soprattutto in Euclide) è basata su assiomi, postulati, teoremi; le dimostrazioni sono condotte more geometrico. Prevale l’uso delle proporzioni (tra grandezze omogenee). I pitagorici furono i primi ad applicare la matematica, in particolare all’ astronomia (problema delle velocità dei corpi celesti, geometria dei moti sferici, ecc.). Platone, pitagorico illustre, sostiene che lo studio della natura consiste nella ricerca di leggi matematiche. Ma attenzione che ancora non ci sono né formule, né relazioni algebriche (cfr. M. Clagett, La scienza della meccanica nel Medioevo, Feltrinelli, Milano, 1981). La tradizione platonica riemerge nel Quattrocento, con connotazioni antiaristoteliche. E’ fondamentale nel Rinascimento in tutti i settori teorici e applicati (astronomia, navigazione, ingegneria sia nel ramo civile sia militare, cosmografia, cartografia, perfino nell’arte; problema della determinazione della longitudine, misurazione del tempo, strumentazione di precisione). Forte interesse per la costruzione di ‘macchine’ come “arte matematica” (J. Besson, 1569, Ramelli, Veranzio, Zonca, Branca, 1629). Ruolo preminente del matematico.

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    Fine Cinquecento e Seicento, ruolo preminente del filosofo naturale. Precursori di Galileo (1564-1642): Tartaglia (1506-1557), Giovan Battista Benedetti (1530-1590), Guidubaldo dal Monte (1545-1607). La dottrina aristotelica del moto Per Aristotele la legge del moto nel mondo sublunare è:

    vcausa motrice

    causa resistente=

    p,

    la velocità di un corpo (“mobile” o “projectum”) aumenta con il peso del corpo e diminuisce con la densità del mezzo resistente. Per mantenere il corpo in moto è necessaria una causa efficiente continua (motore intrinseco al mobile e in contatto continuo con esso; non sono ammesse forze a distanza, né il vuoto; per Aristotele esistono solo moti resistenti. Il problema della persistenza del moto verrà risolto con l’introduzione del concetto di inerzia solo nel Seicento). Questa assunzione si salda nel tempo con la “teoria dell’impetus”. La fisica dell’impetus La teoria dell’impetus ha il suo massimo sviluppo nel XIV sec., al Merton College di Oxford, in Inghilterra (tra il 1328 e il 1350; figure di rilievo, Tommaso Bradwardine, Guglielmo Heytesbury, Riccardo Swinshead). L’impetus (o motor conjunctus o vis impressa) è una sorta di forza motrice impressa intrinseca al corpo, in grado di mantenerlo in movimento (per altri viene invece ipotizzato nel mezzo). Quando si imprime a un corpo un moto “violento” (verso l’alto, verso il basso, obliquamente, circolarmente e, in tal caso, si parla di “impeto circolare”), la persistenza del moto si spiega con l’impeto. L’impeto è una grandezza vaga e sfuggente; per taluni verrà definita come un ente che cresce con il peso e la velocità del corpo (quindi, se per peso si intende la massa, come un “momento”, per Galileo; o una “quantità di moto”per Cartesio e per Newton). Per un grave lanciato verso l’alto, l’impetus si combina con la gravità (ramo in salita: prevale l’impetus; sommità e poi ramo in discesa: prevale la gravità; si sommano gravità e impetus e il grave aumenta la sua velocità). Al Merton College, si distingue tra dinamica (quo ad causam, cause del moto) e cinematica (quo ad effecta, effetti del moto); abbozzo del concetto di velocità istantanea, del concetto di funzione, della legge sul m. u. a. (incrementi uguali di velocità sono acquisiti in intervalli di tempo uguali). Inizia il “calcolo delle qualità” (de intensione et remissione formarum = aumento e diminuzione di qualità o altre forme). Le idee elaborate al Merton College si diffondono, dal 1350, nell’Europa continentale, in particolare nelle università parigine. Nella cosiddetta scuola dei Terministi parigini (tra le figure di rilievo, Occam, Giovanni Buridano, Nicola Oresme), Oresme chiarisce la rappresentazione geometrica bidimensionale della cinematica. Rappresentazioni grafiche del moto (“Calcolo delle qualità”) Oresme introduce una rappresentazione grafica per descrivere le variazioni dell’intensità di una qualità (cioè i gradi di calore, di velocità, di bianchezza, ecc.). Si tratta di ‘curve’ che anticipano la moderna geometria analitica. In questa rappresentazione, semplificando molto la trattazione, la “estensio” (o base) è

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    rappresentata da un segmento orizzontale e indica la qualità in esame; la “intensio” (o altezza) è rappresentata da un segmento verticale, che ‘geometrizza’ l’intensità della qualità in esame. Una qualità uniforme, per es., viene rappresentata da un rettangolo la cui altezza MN indica l’intensità di una qualità costante mentre la base rappresenta la qualità; la sua mensura, cioè la quantità della qualità, è data dall’area del rettangolo ABED. Nel caso di una qualità che varia in modo “uniformemente difforme” si ha un triangolo; l’altezza MN indica l’intensità di una qualità che cresce uniformemente al variare di N da A a B mentre la base AB indica la qualità in esame; la misura corrisponde all’area del triangolo ABC. Nel caso del moto, se la qualità in esame è la velocità, la fig. a sinistra indica un moto uniforme (l’intensità ha lo stesso valore), la fig. a destra un moto uniformememte difforme.

    .

    A B

    ED

    A B

    C

    M

    N

    M

    N

    Regola mertoniana (o di Oresme) L’area del triangolo ABC è uguale all’area del rettangolo ABED con E punto medio di BC. La mensura, o quantità, di una qualità uniformemente varia è la stessa di una qualità costante uguale al valor medio della qualità uniformemente varia. Nel caso del moto, la regola mertoniana dice che la quantità di una velocità uniformemente varia (variabile da v0 a V), è uguale a quella che si avrebbe in un moto ‘equabile’ (cioè uniforme) di velocità pari alla velocità media (v0+V)/2:

    A B

    D

    C

    E

    La regola offre un metodo per trattare un moto uniformemente accelerato ma non viene applicata alla caduta dei gravi prima del Cinquecento (nessuno pensa che i gravi in caduta libera si muovano di m. u. a.) né viene ricollegata all’impetus (non si sa formalizzare l’impetus che resta legato alla ‘causa’ del moto). Se avessero fatto un grafico come in figura, per un moto u. a., applicando la regola mertoniana, avrebbero dovuto dedurre per lo spazio percorso dal mobile:

    s =v0 + V

    2t = v0t +

    1

    2at2 .

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    Ma l’ estrapolazione è indebita: la variabile tempo non viene ‘vista’ fino a Galileo, la media, inoltre, va fatta nel tempo (a t=t/2) e non nello spazio (come continua a fare Galileo nei Discorsi).

    t/2 t

    t

    v

    vm

    v=at

    In sintesi, leggi sul moto dei gravi prima di Galileo: ne girano varie, anche incompatibili tra loro: s t, v s, s t2 (sostenuta in partic. da Orsme), v t. La più popolare è s t (concezione di senso comune). Ostacoli epistemologici:

    legge di caduta dei gravi di Aristotele vp

    ;

    e varie altre leggi sul moto; nel lancio di un grave in aria, la traiettoria ha il ramo ascendente diverso da quello discendente; quando si ha un moto violento (per es., lancio di una pietra o di un proiettile con una colubrina) la velocità iniziale è molto grande e poi diminuisce (influenza della teoria dell’impetus); ma anche, secondo Aristotele, la velocità è più grande verso terra perché il grave si avvicina al suo luogo naturale (dove, per altro, Aristotele suppone che la resistenza dell’aria sia minore); sottovalutazione del concetto di accelerazione (accidente momentaneo); per mantenere un grave in moto ci deve essere sempre una forza (influenza della teoria dell’impetus; assenza del concetto di inerzia); moti naturali e violenti non si combinano tra loro (vedi le traiettorie di lancio rappresentate nelle stampe antiche, costituite da due segmenti rettilinei: ramo ascendente, moto violento, ramo discendente in verticale, moto naturale; fino a che si aderisce al postulato di Aristotele non si possono trovare parabole; Tartaglia è il primo ad affermare che la traiettoria di un proiettile è curva in ogni sua parte, Nova Scientia, 1537).

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    A ciò si aggiunga che: nel formalismo si usano solo proporzioni e proporzioni tra grandezze omogenee (s/t è di là da venire); influenza delle rappresentazioni grafiche del moto (non c’è la variabile tempo); non esiste calcolo infinitesimale (in partic., il concetto di derivata, che esprime una velocità istantanea); non esiste una nozione chiara delle grandezze cinematiche, medie e istantanee. §3.2. Cronologia minima su Galileo 1564 Nasce a Pisa 1581 Si iscrive allo Studio di Pisa per studiare medicina ma preferisce occuparsi di

    geometria e di filosofia naturale.

    1589 Lettore di matematica allo Studio Pisano. Si occupa del problema della caduta dei gravi.

    1592 Insegna matematica a Padova. Scrive il De Motu. 1604 Prima formulazione della legge di caduta dei gravi nella lettera a Paolo Sarpi, 16

    ott.

    1608 Scopre la forma parabolica del moto dei proiettili. A quest’anno viene datato il manoscritto ‘ritrovato’ da S. Drake nel 1973.

    1609 Costruisce e impiega il telescopio. Si occupa ancora del problema del moto (Frammenti) ma d’ora in poi il tema principale dei suoi studi sarà l’astronomia.

    1610 Pubblica il Sidereus Nuncius. Viene nominato Matematico e Filosofo del Granduca di Toscana Cosimo II.

    1612 Pubblica il Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua. 1613 Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari. 1616 Condanna del sistema copernicano. 1623 Il Saggiatore. 1632 Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. 1633 Abiura. 1638 Ad Arcetri, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze

    attenenti alla meccanica et i movimenti locali.

    1642 Muore ad Arcetri. 1973 Ritrovamento dei manoscritti da parte di S. Drake. Evoluzione dei concetti di moto tra il 1592 e il 1638 (per trovare le leggi ‘giuste’ di caduta dei gravi Galileo impiega 34 anni: dal 1604 al 1638). Galileo: platonico, archimedeo, antiaristotelico. Galileo si dichiara discepolo del “sovrumano Archimede che non nomino mai senza ammirazione”.

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    Figura di transizione fondamentale ed emblematica tra la fisica medievale e la nuova filosofia naturale. v. Autoritratto postumo di Galileo, A. Frova, M. Marenzana, Parola di Galileo, Rizzoli, Milano, 1998. §3.3. Ancora sui “gravi descendenti” Aristotele: i corpi cadono con v p/ ; se ho due corpi di stessa sostanza e forma ma di peso diverso, cade prima il corpo di peso maggiore. Galileo: tutti i corpi (rimuovendo la resistenza dell’aria) cadono con la stessa velocità! In aria, l’eventuale diversità nei tempi di caduta dipende dal fattore di forma. Esperimento (pensato) della torre di Pisa (mai eseguito da Galileo: rientra nel “mito Galileo” al quale ha concorso il suo primo biografo, Vincenzo Viviani in Racconto istorico della vita di Galileo Galilei): due corpi di peso diverso cadono a terra insieme. Galileo costruisce, con un esperimento pensato, un ragionamento per assurdo ritenendo, come fa Aristotele, che v p (Discorsi, Giornata prima, Ed. Naz., VIII, p. 106 e segg.; v. Frova, Marenzana, cit., p. 58 e seg.): supponiamo per assurdo che anche nel vuoto arrivi prima il corpo più pesante; se è così si avrebbe la situazione di fig. 1 (per il corpo grande A, il corpo piccolo B e l’unione dei due A+B). Ma vale anche il ragionamento seguente: se B è più leggero di A, nella combinazione di A+B, B dovrebbe frenare A (l’ordine di arrivo è perciò quello di fig. 2).

    A

    A

    A

    A

    B

    B

    B

    B

    (fig. 1) (fig. 2) Se dal ragionamento 1 e dal ragionamento 2 segue un assurdo, anche l’assunto di partenza (v p) è sbagliato. Salviati: “Se si levasse totalmente la resistenza del mezzo, tutte le materie descenderebbero con eguali velocità” (Discorsi, Giornata prima, ibid., p. 116). Nota (‘moderna’) sulla legge di caduta dei gravi di Aristotele v p/ : la legge non è così assurda (parlando alla Galileo, “sembra di sì,…tuttavia, sembra anche di no”): non lo è perché nei moti resistenti, FA=-bv (con b che dipende dalla viscosità del mezzo e dalla forma del corpo), dalla equazione del moto si ha P+FA=ma, con P costante e FA e a funzioni del tempo, da cui

    a = gebt

    m ;

    v =mg

    b1 e

    bt

    m

    ; a decresce esponenzialmente (a t=0, a=g, per

    t ,a 0 tanto più rapidamente quanto più b è grande e m piccola); mentre v

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    cresce esponenzialmente (per t=0, v=0, per t , v vlimite =mg

    b ;v. “effetto

    paracadute”). La legge è assurda perché quando osserviamo un grave cadere in aria questo accelera.

    g

    v

    a

    v limite

    t

    nel vuoto

    in un mezz

    resistente

    §3.4. La commedia degli equivoci “E’ più facile, e più naturale, vedere, ovverosia immaginare, nello spazio, che pensare nel tempo”. A. Koyré, Studi Galileiani, Einaudi, Torino, 1976 (ed. originale, 1966), p. 94. 1604: lettera a Paolo Sarpi, Opere, Ed. Naz., X, p. 115. Galileo si basa sulla proposizione s t2 (che prende da Oresme; giusta); e per conseguenza sulla legge in base alla quale le velocità vanno “come i numeri impari ab unitate” (giusta); ma poi conclude che v s (sbagliata); questa legge non è compatibile con la legge del m. u. a. ma con una legge esponenziale. Galileo sbaglia ma è in buona compagnia; sbagliano anche Benedetti, Leonardo, Cartesio, Beeckman, ecc. Perché tutti sbagliano? L’errore proviene dalle rappresentazioni geometriche basate su relazioni spaziali. Ma anche da osservazioni di senso comune: esperienza del palo conficcato nel terreno con una mazza; più la mazza cala dall’alto più il palo si conficca (ma qui Galileo confonde una energia cinetica con una velocità). Esperienza della sferetta fatta cadere sulla cera: più la pallina cade dall’alto più è profonda l’impronta nella cera (idem come sopra). Comunque, Galileo sa che s t2 : ci deve arrivare; di qui, percorsi tortuosi attraverso errori. “Concepire nuove idee in una cornice concettuale non designata per esprimerla richiede intuizioni fisiche senza precedenti”. N. R. Hanson, I modelli della scoperta scientifica, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 61. 1609 ca.: Frammenti attenenti ai Discorsi, Opere, Ed. Naz., VIII, p. 373. Qui Galileo si accorge dell’errore (v s ) ma arriva a dire che v 1/ t (sbagliata; se la velocità in un moto u. a. aumenta, il tempo necessario a coprire s diminuisce:

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    “la velocità alla velocità ha contraria proportione che ha il tempo al tempo”), da cui perviene a s t2 (giusta); Galileo arriva così a una legge giusta dedotta in modo erroneo (v. Koyré, p. 103 e segg.) perché ancora confonde spazi e tempi. Introduce la rappresentazione “triangolare” delle velocità ‘totali’ come aree di triangoli (v. fig.). Lungo un piano inclinato le velocità vanno come i numeri dispari (conclusione giusta da assunti sbagliati):

    a

    b

    c

    d

    e

    f

    g

    h

    i

    k

    l

    a

    b

    c

    d

    e

    f

    s

    v Segmento verticale: s percorso nella caduta libera; segmento obliquo (di inclinazione qualunque, non ha significato fisico); segmenti orizzontali: valori delle v quando il grave transita per i vari punti della verticale. 1638: Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, Ed. Naz., VIII, pp. 203 e segg. Giornata terza. Galileo vuole trovare la forma corretta della legge del moto. La legge che cerca non è causale (Galileo non ricerca cause ma vuole solo descrivere la cinematica dei gravi in caduta). Prima di tutto dimostra che v s è sbagliata. Le ipotesi da cui partire sono: se il moto è u. a., a=cost., quindi v t s t2 ; il caso della caduta libera è simile al caso della caduta di un grave che rotola su un piano inclinato. Simplicio chiede: E’ certamente così? Sarebbe “opportuno…arrecar qualche esperienza di quelle che s’è detto esservene molte, che in diversi casi s’accordano con le conclusioni dimostrate”. Salviati: la richiesta è ragionevole. “E così si costuma e si conviene nelle scienze le quali alle conclusioni naturali applicano le dimostrazioni matematiche e…con sensate esperienze confermano li principi loro che sono i fondamenti di tutta la struttura”. (Da previsioni da “mondo di carta” a corroborazione mediante esperimento, cioè “sensata esperienza”). Descrizione dell’esperimento con il piano inclinato (v. memoria). Galileo dimostra che s t2 , per qualunque inclinazione del piano inclinato, anche in base al “principio di semplicità” (metafisica di fondo dello scienziato). “Osservo che una pietra che discende dall’alto…tali aumenti avvengono secondo la più semplice e ovvia proporzione”. Galileo dà una interpretazione geometrica del moto (stavolta corretta): il segmento verticale indica il tempo; i segmenti orizzontali gli incrementi di velocità; il segmento obliquo, gli spazi (v. fig. 3). La velocità della sfera è la stessa a parità di altezza per qualunque inclinazione del piano inclinato; di qui afferma che la caduta verticale e obliqua seguono la stessa legge. Galileo applica la regola mertoniana:

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    s = vmt =v0 + v

    2t (aree nel grafico); in una unità di tempo viene percorsa una unità

    di spazio, in due unità di tempo vengono percorse 4 unità di spazio, in 3 unità di tempo vengono percorse 9 unità di spazio, ecc.

    1

    4

    9

    1

    2

    3

    s

    t

    v (fig. 3) Alla fine del percorso di Galileo: legge del moto OK; il parametro tempo è esplicitato; non c’è bisogno di una forza per mantenere un corpo in movimento (abbozzo del principio di inerzia); la traiettoria dei proiettili è parabolica (Discorsi, si può affermare che “Il moto dei proiettili farsi per linee paraboliche”. Galileo ci arriva intercettando la parabola di tiro di un grave a varie altezze e ricostruendo per punti la curva; ma anche con esperimento: palla tinta di inchiostro lanciata su una superficie metallica quasi verticale; si vede tracciata la parabola, i cui rami sono simmetrici. L’esperimento era stato già proposto da Guidubaldo Dal Monte).

    1973: ritrovamento dei manoscritti di Galileo, databili intorno al 1608 (S. Drake, Galileo’s Experimental Confirmation of Horizontal Inertia. Unpublished Manuscripts, Isis, 64 (1973), 291-305). Disputa Drake-Koyré (Koyré: con la

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    strumentazione disponibile all’epoca di Galileo, l’esperimento non poteva essere reale). “L’esperienza, è necessario ricordare che si tratta, come quasi sempre in Galileo, di un’esperienza del suo pensiero?” A. Koyré, cit., p. 139. I manoscritti ritrovati servono a sfatare un luogo comune su Galileo: che egli non avrebbe (quasi) mai fatto esperimenti, preferendo a questi gli esperimenti pensati (o Gedankenexperiment). Il dispositivo sperimentale di Galileo (foglio 116v.):

    H = altezza del trampolino; h = 828 punti= 77,8 cm; altezza tavolo-pavimento; D = gittata con v iniziale orizzontale (1 punto=0,94 mm). Osservare la trascrizione del manoscritto da parte di Drake, i dati sperimentali confrontati con i dati teorici. Non ci sono commenti di Galileo su questo esperimento. Una possibile interpretazione è che Galileo deduca dall’esperimento che D2 H e calcoli poi gli altri dati (“valori teorici”), e che verifichi inolt