ora 1: introduzione alle antichità nubiane

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ANDREA MANZO INTRODUZIONE ALLE ANTICHITÀ NUBIANE UNIVERSITÀ DEGLI STUDI TRIESTE 2007 ISBN 978-88-8303-334-6

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ANDREA MANZO

INTRODUZIONE ALLE ANTICHITÀ NUBIANE

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI

TRIESTE 2007 ISBN 978-88-8303-334-6

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ANDREA MANZO

INTRODUZIONE ALLE ANTICHITÀ NUBIANE

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI

TRIESTE 2007

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A Lia e Matteo.

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Indice Prefazione p. 1 1. Introduzione p. 3 2. Le origini delle culture nubiane p. 11 3. L’origine della produzione del cibo p. 17 4. L’emergere della gerarchizzazione sociale p. 27 5. Il Neolitico Tardo in Alta Nubia: Kadruka e il Pre-Kerma p. 33 6. Khartoum Variant e Gruppo A in Bassa Nubia p. 39 7. Dal IV al III millennio tra continuità e discontinuità p. 45 8. La Nubia e l’Egitto dell’Antico Regno p. 57 9. Il Gruppo C e il ripopolamento della Bassa Nubia p. 67 10. La Nubia e l’Egitto del Medio Regno p. 73 11. Kerma: la più antica città nubiana p. 85 12. La necropoli reale di Kush p. 95 13. Il retroterra della capitale: il territorio di Kush p. 105 14. I deserti e la valle tra 2500 e 1500 a.C. p. 111 15. Il vicereame egiziano in Nubia p. 119 16. Le regioni a sud del vicereame nelle fonti egiziane p. 131 17. Le origini del regno di Kush p. 145 18. I sovrani di Kush in Egitto e il periodo napateo p. 153

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19. Il territorio di Kush: ideologia, economia e amministrazione p. 159 20. Alla periferia del regno: i vicini di Kush p. 165 21. Il periodo meroitico tra continuità e innovazione p. 171 22. La fioritura del Sud meroitico p. 179 23. Kush punto d’incontro tra Africa e Mediterraneo p. 187 24. La crisi del regno di Kush p. 195 25. La formazione dei potentati post-meroitici p. 203 26. Epilogo p. 211 Bibliografia ragionata p. 213

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Prefazione

Questo testo si rivolge innanzitutto agli studenti universitari dei corsi di “Antichità nubiane”. Nel momento in cui ho avuto il privilegio di ricoprire l’insegnamento di “Antichità nubiane” presso l’Università di Napoli “l’Orientale” ho potuto infatti verificare come mancasse uno strumento introduttivo alla disciplina. I testi disponibili erano infatti ormai superati dal progredire delle ricerche o, nel caso dei più recenti, presupponevano che il lettore possedesse già una serie di conoscenze sull’argomento. Molti di questi testi, poi, trascurano ancora le regioni non immediatamente prospicienti il Nilo, privando il lettore di una componente, quella legata ai deserti occidentale e orientale e alle steppe del Sudan centrale e orientale, che credo fondamentale per la comprensione dei processi storici della Nubia o focalizzano la loro attenzione sui rapporti con l’Egitto, trascurando quelli, certo per molti versi ancora da indagare ma non meno importanti, con l’entroterra africano.

Al contempo, anche grazie all’intensa collaborazione didattica con l’insegnamento di “Egittologia”, con quello di “Archeologia e antichità etiopiche” e, in generale, con tutti quelli inerenti la storia e le culture dell’Africa nordorientale impartiti a “l’Orientale”, sede privilegiata proprio per la ricchezza e l’organicità dell’offerta didattica relativa a queste regioni, è anche emersa la necessità di fornire agli studenti i cui interessi si rivolgono all’Egitto, alla Libia o all’Etiopia un quadro sintetico del passato nubiano. Il testo si rivolge quindi anche a studenti o studiosi interessati alla storia e all’archeologia dell’Africa nordorientale, cercando di offrire un aggiornato ma necessariamente sintetico quadro delle conoscenze relative all’archeologia e alla storia della Nubia antica, evidenziando al contempo anche le loro lacune, le problematiche e le prospettive di ricerca, con particolare riferimento ai contatti e alle interazioni con le regioni vicine. L’ambizione nel licenziare queste pagine è proprio che possano contribuire a rendere noto il ruolo della Nubia nei processi storici non solo dell’Africa nordorientale ma anche di aree più lontane, evidenziando l’interesse che la regione dovrebbe rivestire per gli studiosi del Vicino Oriente e del Mediterraneo antichi.

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Prefazione 2

Naturalmente, in alcune caratteristiche il testo manifesta il suo intento didattico. La traslitterazione dei toponimi e dei termini dall’egiziano e dal meroitico per questo non è quella scientifica ma vuole facilitarne la pronuncia, mentre per i nomi dei sovrani e per i nomi geografici moderni si è preferita la scrittura più diffusa nelle opere di consultazione, per facilitare chi, volendo approfondire, li cerchi magari negli indici di altri testi o di un atlante. Ma didattica non deve essere certo banalizzazione e perciò non ho rinunciato a presentare lo stato delle nostre conoscenze in maniera volutamente e necessariamente non asseverativa, mi si scuseranno quindi i molti condizionali, e a aggiungere talora anche riflessioni e spunti legati a interessi personali di ricerca, con la speranza di incuriosire e, quindi, coinvolgere maggiormente il lettore nel vivo del dibattito scientifico.

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1. Introduzione

Le antichità nubiane sono disciplina che ha avuto solo recentemente riconoscimento in ambito accademico. Ciò è avvenuto in Italia con l’istituzione di un insegnamento a Roma e poi, dal 2002-2003, a “l’Orientale” di Napoli. La disciplina si è andata definendo dopo la campagna di salvataggio dei monumenti nubiani organizzata negli anni ‘60 dall’UNESCO in seguito alla decisione di ampliare il lago artificiale a sud di Assuan con la costruzione dell’odierna diga.

Il lago Nasser o Nubia, che ha sommerso completamente la Bassa Nubia (Fig. 1), è l’ultimo e più eclatante esito delle poderose opere idrauliche costruite a partire dal 1898 per garantire le risorse idriche dell’Egitto regolamentando il flusso del Nilo.

Figura 1: carta della Bassa Nubia, la regione sommersa dopo la costruzione della grande diga di Assuan, con indicazione dei principali siti archeologici.

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Le ricerche archeologiche sistematiche in Nubia sono cominciate

proprio in seguito alla decisione di costruire e, poi, di innalzare progressivamente questi sbarramenti. Già tra 1907 e 1911 e tra 1929 e 1934 si svolsero infatti delle campagne archeologiche di ricognizione e scavo estensivo delle antichità delle aree destinate a essere sommerse. Attraverso queste iniziative la stagione dell’esplorazione scientifica prese il posto all’epoca dei viaggiatori e delle pionieristiche spedizioni ottocentesche, pure guidate da studiosi di valore come Lepsius.

Lepsius era un egittologo e lo studio delle antichità nubiane è intimamente connesso con l’Egittologia (oggi le due discipline sono accademicamente imparentate in Italia, facendo parte dello stesso raggruppamento scientifico-disciplinare), anzi, alle sue origini si confonde con l’Egittologia. Reisner e Firth, che condussero la prima campagna di salvataggio dei monumenti nubiani del 1907-1911, erano egittologi, come pure Emery che diresse nel 1929-1934 la seconda. Ma con la costruzione della più recente diga di Assuan, a causa della necessità di organizzare e mobilitare in tempi brevi numerose spedizioni per esplorare aree assai vaste, la situazione cambiò: arrivarono in Nubia e si affiancarono agli egittologi archeologi preistorici, archeologi storici e antropologi culturali e fisici di formazione e impostazione assai disparata. Nacque ben presto una Società Internazionale di Studi Nubiani la cui stessa esistenza evidenzia l’autonomia della disciplina rispetto all’Egittologia. All’Egittologia la disciplina resta comunque strettamente collegata ma se ne distingue per una maggiore attenzione al resto materiale piuttosto che al dato testuale. Ciò appare quasi necessario e fisiologico, visto che la Nubia è stata popolata da gruppi umani che nelle fasi più antiche poco o nulla hanno utilizzato la scrittura o, quanto meno, i cui testi scritti non ci sono pervenuti o non sono ancora per noi comprensibili.

Proprio in quegli anni Sessanta che vedono il sorgere della grande diga di Assuan, inoltre, sulla scia dell’indipendenza post-coloniale recentemente ottenuta da molti paesi africani, era una tendenza generale quella di accentuare gli aspetti autoctoni e originali delle culture antiche africane in contrapposizione a quelli alloctoni, che fino

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ad allora erano stati privilegiati, anche per consci o inconsci condizionamenti politico-ideologici di epoca coloniale. Anche di questa congiuntura è figlia l’archeologia nubiana. E questo cambiamento di approccio è fedelmente e emblematicamente registrato dai titoli di libri sulla Nubia: nel 1965 Emery scriveva Egypt in Nubia, sottolineando la presenza non della cultura egiziana ma addirittura dell’Egitto in Nubia, nel 1977 Trigger scriveva Nubia under the Pharaos, sottolineando che la Nubia, benché sottomessa per alcuni periodi agli egiziani era cosa diversa dall’Egitto, e, infine, nel 1978 Adams scriveva Nubia Corridor to Africa, evidenziando non solo la diversità e autonomia della Nubia come entità culturale –si noti come ogni riferimento all’Egitto sia sparito dal titolo…- ma anche i suoi legami con l’entroterra africano piuttosto che con un vicino settentrionale considerato ormai quasi ingombrante. Nel 2004 infine è comparsa l’ultima sintesi, The Nubian Past. Archaeology of the Sudan, nel cui sottotitolo l’autore, D.N. Edwards, dà al termine Nubia un’accezione estensiva, facendolo coincidere con il Sudan antico e ancorando quindi le culture antiche della valle del Nilo a sud di Assuan al loro retroterra non solo meridionale ma anche occidentale e orientale.

Ciò non vuol dire però che l’Egitto e, più in generale, il Mediterraneo possano essere ignorati nello studio delle antichità nubiane, anche in relazione alla mole di testi utili alla ricostruzione e alla comprensione della storia nubiana prodotti in tali regioni. Come si avrà modo di notare a più riprese, questi documenti testuali possono a volte aiutare l’interpretazione dei fenomeni evidenziati nei resti archeologici. Nel loro uso, come pure nell’uso di testi scritti prodotti dalle stesse popolazioni nubiane, andranno però sempre considerati dei limiti congeniti. Oltre a essere spesso lacunosi, i testi antichi sono, in questo come in altri casi, distribuiti in modo disomogeneo nelle varie fasi storiche: alcune prolungate fasi della storia nubiana sono infatti documentate da pochissimi testi (come la prima metà del III millennio a.C.), mentre in altre (come tra 2450 e 2200 a.C. o, ancora tra il 300 a.C. e il 50 d.C.) la documentazione è abbondantissima. Questa disomogeneità è legata, oltre che alla casualità nella conservazione dei monumenti, a circostanze culturali e sociali interne e esterne all’Egitto e alla Nubia e al Sudan antichi. In alcune fasi di

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debolezza politico-istituzionale dell’Egitto, ad esempio, l’iniziativa commerciale e talora anche militare passava nelle mani dei meridionali, dei nubiani, e ciò può spiegare la diminuzione della documentazione testuale egiziana in queste fasi. L’aumentare delle iscrizioni in altre fasi, come nel corso della VI dinastia egiziana, tra 2450 e 2200 a.C., è spiegato dalla crescente importanza dei nomarchi, ovvero dei governatori provinciali egiziani, che guidavano le spedizioni verso il Sud e dalle loro esigenze ideologiche. In epoca ellenistica e alto-imperiale l’incremento quantitativo delle fonti disponibili è legato all’interesse politico-commerciale dei Lagidi prima e dei romani poi per le regioni dell’alto Nilo.

Altro aspetto da tenere in considerazione nell’uso dell’evidenza testuale è la diversità qualitativa che la caratterizza. I documenti che contengono informazioni utili alla ricostruzione della storia nubiana sono infatti di tipologia molto diversa: si tratta di testi come le opere geografiche o storiche greche e romane, di iscrizioni che sono state incise da egiziani o da nubiani sulle mura di templi e di tombe, di iscrizioni rupestri incise sulle rocce nubiane, di lettere e documenti di archivio o di testi destinati all’effettuazione di riti magici. Alla varietà della tipologia e del contesto corrisponde una varietà di committenti (i re, i nomarchi, i funzionari...), di finalità per cui il testo era stato concepito e, infine, di lettori cui, almeno idealmente, il testo si indirizzava. Tutte queste distinzioni vanno poi considerate dinamicamente, nel quadro cioè del cambiamento del ruolo di ciascun committente, lettore e tipo di documento. Come già detto, questa dinamica può anche spiegare delle diversità quantitative nella distribuzione diacronica del materiale testuale. In ogni caso, va tenuto presente che, comunque, nessun documento antico di alcun tipo è stato concepito per rispondere alle domande e alle esigenze dello studioso moderno.

Come si vedrà, pur nel rispetto della diversa natura dei dati storici e archeologici, la comprensione dei singoli documenti o dei singoli frammenti di evidenza materiale andrà cercata nel confronto e nell’integrazione con gli altri documenti e dati contemporanei. I cambiamenti andranno colti e spiegati attraverso il confronto con le situazioni desumibili dai documenti e dati successivi.

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Riguardo il significato del toponimo “Nubia”, che indica la regione delle cui vicende storiche e culturali ci si occuperà nelle pagine seguenti, resta di origine incerta. Il termine è collegato agli etnonimi Nuba e ai nubadae, menzionati dagli scrittori mediterranei di epoca romana e poi bizantina e anche in iscrizioni aksumite e dei loro stessi sovrani e posizionati di volta in volta in base a fonti di epoca differente in varie parti del Sudan. Queste popolazioni parlavano probabilmente la lingua che noi oggi chiamiamo Nubiano. Una recente etimologia di questi etnonimi li vorrebbe riconducibili a una parola meroitica che significherebbe schiavo. Un’ipotesi alternativa è che il termine Nubia e tutti quelli ad esso collegati abbiano origine addirittura nell’egiziano antico nebu, che significa “oro”, e è probabilmente da mettere in relazione alla ricchezza in metalli preziosi delle regioni a sud dell’Egitto.

Anche la definizione geografica della regione studiata dall’archeologia nubiana resta vaga, come rileva P.L. Shinnie, eminente studioso della storia e dell’archeologia nubiana: «The Land of Nubia stretching along the river Nile from the first cataract southwards has never been closely or accurately definied». Linguisticamente, si potrebbe limitare la Nubia alla regione ove oggi è parlato il Nubiano, ovvero tra Kom Ombo, a nord della prima cataratta, in Egitto, e Debba, tra la terza e la quarta cataratta, in Sudan. Nubia è però anche un termine che, forse poco accuratamente, è stato utilizzato dagli storici per designare il Sudan antico: lo stesso Shinnie lo utilizza per indicare la valle del Nilo tra Sennar, a sud di Khartoum, e la prima cataratta. D’altro canto, questa definizione allargata pare appropriata da un punto di vista storico-culturale: le culture di questa vasta area sono infatti, come vedremo, strettamente connesse tra loro. Ma forse anche questo ampliamento non è sufficiente: Adams, altro importante studioso della storia della regione, ha definito la Nubia come un corridoio verso l’Africa. Il corridoio, che nelle regioni settentrionali è anche da un punto di vista ecologico e ambientale ben definibile e pare coincidere sostanzialmente con la valle del Nilo, nettamente distinguibile dai deserti circostanti, si amplia, come un imbuto rovesciato, più a sud, avvicinandosi alle zone delle precipitazioni monsoniche, dove la mobilità delle popolazioni è meno condizionata da fattori climatici e ai deserti si sostituiscono le steppe,

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dove il passaggio dalla valle al suo entroterra è più graduale e meno netto. Va poi notato che mano a mano che le nostre conoscenze sui deserti occidentale e orientale, che fiancheggiano la valle nubiana del Nilo, si approfondiscono, sempre meno giustificato sembra separarne lo studio da quello della valle stessa, considerarli diversi e estranei alla valle e ai suoi abitanti (Fig. 2).

Figura 2: le regioni studiate dai nubiologi e i principali siti archeologici. Si noti che non sono più limitate alla valle del Nilo e comprendano anche i deserti, estendendosi a sud fino ai contrafforti dell’altopiano etiopico.

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Una distinzione tra valle e entroterra è ancora più artificiosa più a sud, dove la situazione climatica e ecologica rende il contrasto tra le due realtà meno stridente. Come si vedrà, le interazioni tra le popolazioni dei deserti e delle steppe e quelle della valle sono uno dei motivi ricorrenti della storia culturale nubiana dall’antichità più remota fino ai giorni nostri. Le interazioni deserto-valle sono legate alla complementarietà dei due ambienti e alla conseguente simbiosi che tendeva a stabilirsi tra i gruppi che li abitavano o, quando a utilizzare le risorse dei diversi ambienti in stagioni diverse era lo stesso gruppo, al tipo di sfruttamento che vi era praticato.

Già queste considerazioni suggeriscono l’immagine di una regione in cui l’interazione tra gruppi umani ha giocato un ruolo importante. L’efficace immagine del corridoio, luogo di passaggio per eccellenza, evocata da Adams, trova poi giustificazione nel ruolo di collettore delle risorse dell’entroterra africano (oro, avorio, pelli di animali e animali vivi, aromi e legni pregiati…) svolto dalla Nubia grazie al Nilo, la cui presenza ha determinato un vero e proprio corridoio ecologico che permette il superamento della fascia desertica saheliana. Tali condizioni favorevoli alle comunicazioni non erano però sufficienti a consentire fenomeni di unificazione culturale e politica con esiti durevoli, come invece accadde nel caso dell’Egitto. La diversità ambientale delle varie regioni della Nubia, non è riducibile al semplice contrasto valle-deserti, ma è evidente anche se si confrontano tra loro i vari tratti della valle. Queste diversità hanno favorito l’emergere di diverse tradizioni regionali, che hanno espresso culture e forme di organizzazione sociale più o meno integrate o distinte tra loro a seconda delle circostanze, in cui i fattori unificanti si sono di volta in volta attenuati o rafforzati. Alla definizione delle diversità regionali assai spiccate contribuirono gli ostacoli alla navigabilità del fiume costituiti dalle cataratte, punti del corso del fiume in cui vengono attraversate delle formazioni rocciose particolarmente difficili da erodere che creano quindi specie di rapide e talora causano anche dei restringimenti della stessa valle. Per questi motivi, le cataratte marcano spesso i limiti delle varie regioni e anche delle culture dei gruppi umani che le hanno popolate. Inoltre, nel tratto del Nilo a cavallo della la quarta cataratta, dove il fiume scorre da nord a sud, una eventuale navigazione verso l’entroterra africano non

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solo doveva avvenire contro corrente ma anche contro i venti dominanti settentrionali. Queste difficoltà puntuali a sfruttare il fiume come direttrice di comunicazione, unitamente alla necessità di reperire prodotti non disponibili nella valle del Nilo favorirono l’uso di piste che attraversavano le regioni desertiche o di steppa o savana dell’entroterra e, quindi, ancora una volta, l’interazione tra popolazioni della valle e popolazioni delle regioni circostanti.

Proprio la diversità e la frammentazione regionale dentro la valle e tra questa e le regioni circostanti e, al contempo, le tendenze allo scambio e all’integrazione legate a fattori ecologici e economici rappresentarono delle forze che vedremo agire nel corso di tutta la storia nubiana.

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2. Le origini delle culture nubiane

Le industrie litiche databili al Paleolitico superiore in Nubia sono di tipo acheuleano, nome che deriva da quello della città di Acheul, in Francia, dove questo tipo di manufatto è stato scoperto per la prima volta. Questi utensili sono amigdale e ciottoli scheggiati detti “choppers” e dovevano essere associati a una quantità imprecisata di strumenti in materiali deperibili per noi irrimediabilmente perduti. Tra i più antichi esempi di queste industrie vanno menzionati quelli rinvenuti a Khor Abu Anga, presso Khartoum e in altri siti basso-nubiani della zona di Wadi Halfa. Si tratta di esempi di uno strumentario non specializzato attestato in Africa da 1,5 milioni di anni fa ma che appare relativamente tardi nella valle del Nilo. La materia prima utilizzata è arenaria ferruginosa. Queste antiche popolazioni erano probabilmente dedite alla caccia e alla raccolta, ma non conosciamo purtroppo quali specie animali e vegetali fossero da loro sfruttate, in quanto le ossa provenienti dai siti dove i più antichi utensili sono stati raccolti non sono state studiate e non ci sono giunti resti vegetali così antichi.

L’apparizione in Nubia dell’Homo sapiens risale probabilmente a 70000 anni fa. In questo periodo il Nilo cominciò a fluire da sud a nord e, nonostante alcuni pur notevoli cambiamenti di corso avvenuti nel corso del tempo, ad assumere il suo aspetto generale attuale. Si veniva così a definire uno dei più importanti fattori nell’ambiente di questa regione dell’Africa.

A partire dai 40000 anni fa, la varietà dello strumentario litico aumentò, benché strumenti come quelli acheuleani continuassero ad essere utilizzati. L’apparire di nuovi strumenti è abbastanza improvviso è ciò ha fatto ipotizzare che la nuova tecnologia, se non coloro che la padroneggiavano, fosse giunta nella regione dall’esterno. L’origine possibile di questa tecnologia resta peraltro oscura e, d’altro canto, l’apparente repentinità della sua comparsa potrebbe anche essere frutto delle lacune nelle nostre conoscenze. Tale epoca è caratterizzata da quattro diversi tecnocomplessi inseribili in un orizzonte generale non limitato alla Nubia ma che si estendeva a nord almeno fino all’altezza di Luxor, in Alto Egitto.

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Il primo di questi tecnocomplessi è detto Musteriano Nubiano e è datato attraverso confronti con materiali vicino-orientali e europei tra i 45000 e i 33000 anni fa (Fig. 3).

Fig. 3: esempi di industria musteriana nubiana. Si noti come le schegge non siano ritoccate: è con il ritocco del nucleo che si predetermina la loro forma (da Wendorf (ed.), The Prehistory of Nubia, Fort Burgwin 1968).

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Da questi confronti con i materiali europei il tecnocomplesso ha mutuato anche il nome, che deriva dal sito di Le Mouster, in Francia. Accanto agli strumenti ancora di tipo acheuleano, compaiono strumenti più piccoli come grattattoi e bulini. Alcuni di questi strumenti erano prodotti partendo da una accurata preparazione del nucleo che permetteva di predeterminare la forma della scheggia che si andava a staccare, secondo una tecnica che è detta levallois, dal nome di una città francese nei dintorni di Parigi. I più antichi siti di abitato e aree di lavorazione e reperimento della pietra usata per produrre gli strumenti a noi noti in Nubia sono dei piccoli siti ascrivibili a questo tecnocomplesso. La materia prima usata nella produzione degli strumenti litici è sempre l’arenaria ferruginosa.

Il secondo tecnocomplesso è detto Musteriano Denticolato, proprio in ragione della presenza di indentature originate dal ritocco lungo il margine di alcuni strumenti. Essendo questa la sola differenza sostanziale rispetto il Musteriano Nubiano e essendo noti solo due piccoli siti con industrie del Musteriano Denticolato, pare verosimile che quest’ultimo tecnocomplesso rappresenti uno strumentario specializzato destinato a specifiche attività dagli stessi, e prodotto dagli stessi gruppi che producevano il Musteriano Nubiano.

Il terzo tecnocomplesso è detto Paleolitico Medio Nubiano e è caratterizzato da un’industria diversa dalle due precedenti. Questo tecnocomplesso presenta infatti assonanze con altre industrie dell’Africa centrale e orientale, come il Sangoano, che prende il suo nome dalla baia di Sanga, sulla costa occidentale del Lago Vittoria, e il Lupembano. In particolare, le larghe punte foliate del Paleolitico Medio Nubiano sono paragonabili a quelle del Lupembano (Fig. 4). Il Paleolitico Medio Nubiano si caratterizza anche per la grande abbondanza di asce e di piccoli strumenti su scheggia tra cui i grattatoi, benché manchi degli altri strumenti allungati e appuntiti che caratterizzano il Lupembano e il Sangoano.

Il quarto tecnocomplesso, forse leggermente più tardo e che giunge fino a circa 17000 anni fa, è il Khormusano, dal toponimo Khor Musa, nella regione di Wadi Halfa, in Bassa Nubia. Questo tecnocomplesso è caratterizzato da industrie prodotte con tecnica levallois e composte principalmente da bulini, che erano molto abbondanti, e denticolati. Da notare che questo tecnocomplesso sarebbe abbastanza assimilabile

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al Musteriano nubiano e al Musteriano denticolato per tecnologia di produzione e tipologia degli strumenti se non fosse per l’utilizzazione del diaspro, un tipo di pietra meglio lavorabile rispetto all’arenaria ferruginosa.

Fig. 4: strumenti del tecnocomplesso detto Paleolitico Medio Nubiano. Da notare le punte foliate simili a tipi diffusi nelle industrie dell’Africa centrale e orientale (da Wendorf (ed.), The Prehistory of Nubia, Fort Burgwin 1968).

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Anche in questo caso, quindi, si può ipotizzare che il

tecnocomplesso in questione non rappresenti diversi gruppi quanto piuttosto lo strumentario utilizzato per alcune attività specializzate dagli stessi gruppi che producevano il Musteriano Nubiano.

A partire da 20000 anni fa, quando ormai il Bassa Nubia il Nilo si era stabilizzato in un corso simile all’attuale, la differenziazione delle industrie si accentua. In questa fase il clima secco e freddo dovette rendere difficile la presenza di gruppi umani nelle regioni non immediatamente prospicienti il fiume e favorire al contrario l’occupazione delle aree rivierasche e uno sfruttamento specializzato delle risorse fluviali. La validità di queste considerazioni è però necessariamente limitata alla sola Bassa Nubia, che è l’unica regione della Nubia e del Sudan che sia stata oggetto per queste fasi di indagini sistematiche da parte della Combined Prehistoric Expedition nel corso dell’ultima campagna per il salvataggio dei monumenti nubiani.

In Bassa Nubia il Khormusano è allora sostituito dal Gemaiano, industria rinvenuta in numerosi piccoli siti, forse campi di gruppi di cacciatori, lungo i paleocanali del Nilo. Il tecnocomplesso gemaiano è caratterizzato da bulini, rari rispetto al Khormusano, schegge appuntite, grattatoi e denticolati, sempre prodotti in diaspro. Probabilmente i gruppi umani con industrie gemaiane predavano anche grandi animali della savana ai margini della valle del Nilo.

Anche il Sebiliano, noto sia in Alto Egitto sia in Bassa Nubia è ben caratterizzato: gli strumenti sono nuovamente prodotti in arenaria ferruginosa e sono di grandi dimensioni e più rozzi, dall’aspetto arcaico. Questo strumentario potrebbe essere riconducibile a gruppi che adottavano sistemi di adattamento ancora legati alla caccia e alla predazione dei grandi animali della savana, le cui ossa sono state trovate associate a industrie litiche sebiliane, nondimeno è anche possibile che quest’ultimo tecnocomplesso sia stato semplicemente datato male e sia in realtà più antico di quanto finora ritenuto.

Un altro tecnocomplesso dell’area di Wadi Halfa, presumibilmente coevo al Gemaiano ma destinato a sopravvivergli, è detto Halfano e è caratterizzato da lamette microlitiche. Le industrie microlitiche si affermarono in maniera generalizzata alla fine del Paleolitico, quando

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la specializzazione delle attività di sussistenza favorì l’affermarsi di strumenti compositi di cui i microliti, immanicati in materiali deperibili per noi irrimediabilmente perduti, erano parti. I microliti assai accurati formavano punte di freccia, lame, grattatoi utilizzati per la caccia, la pesca e forse anche nella raccolta di vegetali selvatici. I gruppi che producevano l’industria halfana vivevano in piccoli campi.

A partire da 18000 anni fa un gruppo di siti nello Wadi Kubbaniya, ai margini del Deserto Occidentale, presso Assuan si caratterizza per la presenza di molte macine forse connesse a uno sfruttamento intensivo di piante e cereali.

La presenza di queste industrie ben caratterizzate che convivevano in regioni spesso sovrapponibili o contigue ha fatto pensare che, in una fase in cui l’entroterra del Sahara era ancora poco adatto all’insediamento umano, la valle del Nilo avesse offerto un ambiente più accogliente a diversi gruppi umani che vi convivevano pur in spazi tutto sommato ristretti. La concentrazione demografica e la competizione per le risorse può aver favorito la messa a punto di forme di sfruttamento dell’ambiente sempre più specializzate e efficienti.

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3. L’origine della produzione del cibo

Tra i 15000 e gli 11000 anni fa si determinò una fase di maggiore umidità, caratterizzata dagli alti livelli del Nilo, dei laghi sahariani e dell’Africa orientale. In questa fase climaticamente diversa nella zona della seconda cataratta emerse il Qadiano nubiano che mostra considerevoli variazioni percentuali da sito a sito nella presenza degli strumenti, dallo spiccato carattere microlitico. Ciò è forse spiegabile col fatto che diversi segmenti della popolazione svolgevano attività specializzate nei diversi siti o che i siti fossero utilizzati per attività diverse nelle diverse stagioni. Tra queste attività vanno certamente annoverate la pesca, la caccia di buoi selvatici e altri ungulati, confermate anche dai resti ossei associati alle industrie litiche, e lo sfruttamento dei cereali selvatici, testimoniato dalla presenza di una grande quantità di macine e di microliti dai margini recanti la caratteristica patina originata dall’utilizzazione degli strumenti per recidere steli contenenti silicio. Con il Qadiano per la prima volta ci sono note delle sepolture. Il corpo era posto in posizione contratta in stretti pozzi ovali che, almeno in alcuni casi, erano all’interno degli accampamenti. Un cimitero, quello del Sito 117 a Gebel Sahaba, conteneva scheletri con tracce di ferite causate da armi con punte in pietra.

Le industrie nubiane tra 12000 e 8000 anni fa sono scarsamente note, tra esse spiccano due tecnocomplessi microlitici noti come Arkiniano e Shamarkiano, ambedue scoperti nella zona della seconda cataratta e caratterizzati da somiglianze con il Capsiano Superiore, un’industria litica dell’Africa del nord. Arkiniano e Shamarkiano sono caratterizzati dalla presenza di strumenti microlitici, tra cui lame a dorso, geometrici, crescenti e schegge con ritocco denticolato. In associazione al Shamarkiano si sono trovate anche delle punte di tipo ounaniano, ovvero lamette appuntite con ritocco alla base, presenti anche nelle industrie sahariane coeve. La fauna acquatica è rara nei siti shamarkiani mentre è presente in associazione all’Arkiniano, in associazione con ambedue i tecnocomplessi, invece, sono stati rinvenuti resti di grandi mammiferi.

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In una grotta presso Abu Simbel detta Grotta del Pesce Gatto un deposito di 7000 anni fa ha restituito un’industria shamarkiana associata però con teste di arpione in osso, dimostrando l’inserimento della Bassa Nubia in un vasto orizzonte che comprendeva l’alta valle del Nilo, il Sahara e regioni dell’Africa orientale che è stato detto Acqualitico. Tale orizzonte scaturisce più che dall’introduzione di un sistema di adattamento basato sulle risorse del fiume, che era praticato da epoche molto più antiche, dall’adozione piuttosto generalizzata della pesca con arpione barbato in osso.

Un sito simile datato al 6300 a.C. è stato scoperto a Tagra, sul Nilo Bianco, 200 km a sud di Khartoum, e ha anch’esso restituito arpioni in osso. L’area che ci ha restituito finora resti più abbondanti di questo sistema di adattamento è proprio quella di Khartoum, dove fiorì una cultura archeologica nota come Early Khartoum o Mesolitico di Khartoum. Dal 6000 a.C. circa questa regione era occupata da cacciatori, raccoglitori e pescatori che abitavano degli accampamenti anche abbastanza estesi, probabilmente occupati stabilmente per la gran parte dell’anno, come suggerito dallo spessore dei depositi archeologici. Il sito di Khartoum ha, ad esempio, un’estensione di 5600 metri quadrati. A Khartoum si sono rinvenute anche delle tombe in cui i corpi dei defunti erano posti in posizione contratta e che erano localizzate all’interno dell’abitato. L’ambiente sfruttato da queste popolazioni doveva essere quello delle paludi circostanti il corso del Nilo, come suggerito dalle specie animali i cui resti sono stati raccolti in associazione ai materiali archeologici. Questa cultura archeologica è caratterizzata da industrie litiche con grattatoi, lame a dorso microlitiche e delle più grandi “asce a crescente”, forse usate per la lavorazione dei manici in legno degli arpioni o di lance. Altri strumenti tipici sono le punte di arpione in osso barbate solo su un lato e i pesi per reti da pesca in pietra. Lo sfruttamento di piante selvatiche sarebbe suggerito dalla presenza di macine e macinelli, ma non va dimenticato che questi strumenti potrebbero essere stati usati anche per triturare dei pigmenti minerali.

In questa fase iniziò anche la produzione della ceramica, decorata con linee ondulate incise parallele tra loro (“wavy line”), forse prodotte usando come strumenti ossa di pesce gatto, e con linee ondulate ottenute attraverso l’impressione nell’argilla di un arnese a

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più punte (“dotted wavy line”). Quindi, la produzione della ceramica, associata nel Vicino Oriente e in Europa a un’economia di produzione, sarebbe nelle regioni esaminate collegata a esigenze forse simili a quelle di cottura e conservazione degli alimenti tipiche dei primi agricoltori o allevatori ma nel contesto di una società ancora di cacciatori e raccoglitori.

Più a nord, in Bassa Nubia, la ceramica sembra comparire solo più tardi, intorno al 4500 a.C., in contesti tardo-shamarkiani. A sud, benché con notevoli lacune nella distribuzione spaziale, questo tipo di ceramica è nota, oltre che nel Sudan centrale, in Alta Nubia e fino al Lago Turkana nel Kenya settentrionale. A ovest, grazie anche all’umidità che caratterizza in queste fasi l’ambiente sahariano, il sistema d’adattamento basato sullo sfruttamento delle risorse della pesca associate ad altre risorse locali testimoniato archeologicamente dagli arpioni in osso e dalla ceramica “wavy line” è attestato fino nel Mali. I siti con materiale di questo tipo in Alta e Bassa Nubia sono generalmente classificati come Khartoum Variant o Khartoum Related e sono caratterizzati da industrie litiche che continuano le tradizioni locali delle fasi precedenti. È stato per questo suggerito che l’apparizione della ceramica vada interpretata come un’innovazione esogena adottata dai gruppi nubiani piuttosto che come traccia di movimenti di gruppi meridionali verso il nord. Recentemente un abitato ascrivibile a questa facies è stato indagato a El-Bargha, nella regione di Kerma, in Alta Nubia, e delle tombe coeve sono state individuate all’interno e in prossimità del sito di abitato. La fauna raccoltavi conferma che la sussistenza era basata sulla caccia ad animali selvatici e sulla pesca. Una struttura circolare parzialmente scavata nel terreno rinvenuta in questo sito e in cui sono stati trovati molti oggetti rappresenta l’unico resto strutturale finora rinvenuto in un’area di abitato di questa fase (Fig. 5). Le tombe sono caratterizzate da un originale rituale che comportava la rottura e disarticolazione delle ossa.

L’economia produttiva si afferma in Sudan e Nubia solo a partire dal 6000-5500 a.C. e si manifesta con l’adozione del pastoralismo. Secondo tutte le evidenze disponibili, la domesticazione di caprovini e bovini non avvenne nella valle del Nilo. I bovini furono domesticati nel Sahara indipendentemente dal Vicino Oriente, come proposto da

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Mori e Barich, i caprovini furono invece domesticati nel Vicino Oriente e poi adottati dalle popolazioni del Sahara. Solo in seguito e dal Sahara l’economia produttiva passò nella valle del Nilo.

Figura 5: la capanna mesolitica indagata a El Bargha, presso Kerma, è la più antica abitazione nota in Nubia. Si noti la presenza al suo interno di alcune sepolture e il fatto che la struttura sia parzialmente scavata nel terreno (da Honnegher in Genava 2003).

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Il passaggio al pastoralismo può essere spiegato, come proposto da Sutton e Phillipson, con la concentrazione di popolazione in determinate aree della valle che sul medio-lungo periodo avrebbe comunque innestato una ricerca di nuove e più abbondanti fonti di cibo. Forse, come propone I. Caneva, si trattò di un’adozione dettata dalle caratteristiche sociali delle comunità del Sudan centrale. In questa regione, infatti, i gruppi umani avevano già sviluppato, forse proprio grazie a secoli di sedentarizzazione e di uso di strategie di adattamento molto specializzate e diversificate, una struttura sociale articolata e assai complessa. Proprio questa differenziazione e specializzazione nella produzione del cibo avrebbe preparato e favorito l’adozione dell’allevamento con il conseguente passaggio di alcuni segmenti della popolazione alla nuova forma di economia con grande facilità e, probabilmente, successo. Sempre secondo I. Caneva, l’adozione sarebbe cominciata con il passaggio di alcuni animali addomesticati da gruppi Sahariani ai gruppi del Sudan centrale in occasione di scambi matrimoniali. Gli scambi matrimoniali spiegherebbero secondo questo modello anche l’adozione nella regione della “dotted wavy line”, che potrebbe essere apparsa prima nel Sahara che nel Sudan centrale. Secondo questo modello, la diffusione di idee e, forse, anche di genti dal Sahara sarebbe connessa con la diffusione della “dotted wavy line” verso la valle del Nilo e sarebbe stata favorita da una pulsazione secca che avrebbe spinto i gruppi sahariani in aree più prossime alla valle del Nilo. Per il momento però le evidenze ben datate di “dotted wavy line” nella valle del Nilo sudanese e nel Sahara non provano in modo definitivo questa ipotesi. Speculativa resta anche l’ipotesi di R. Haaland secondo cui le popolazioni parlanti lingue Nilo-Sahariane e caratterizzate da un sistema di adattamento basato sullo sfruttamento specializzato di risorse dell’ambiente rivierasco sarebbero state allora rimpiazzate da pastori parlanti lingue Cushitiche.

Oggi grazie alle recenti ricerche condotte in Alta Nubia, nella regione di Kerma, l’introduzione dei bovini domesticati nella valle del Nilo può essere datata al 6000 a.C. circa. L’adozione degli animali domestici nella valle sudanese del Nilo fu un fenomeno quasi esplosivo e può essere seguita grazie all’evidenza recuperata in vari siti del Sudan centrale. Nel giro di 500 anni si passò dalla una

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limitatissima percentuale di ossa di animali addomesticati scoperta a Geili a una percentuale assai alta registrata a Kadero. La presenza di poche ossa di animali domestici non va però automaticamente interpretata come una prova del loro ruolo secondario nel sostentamento. Infatti, lo sfruttamento degli animali per procurarsi un adeguato apporto proteico non ne implica automaticamente l’abbattimento: a tal fine, come attestato etnograficamente presso molte popolazioni di allevatori, potevano essere sfruttati anche solo il latte e il sangue.

L’economia di produzione basata sull’allevamento si associa all’adozione di modelli di maggiore mobilità, forse favoriti anche dal progressivo degrado ambientale causato in alcune aree proprio dalla presenza crescente di animali allevati. La maggiore mobilità mise fine a lunghi secoli di sostanziale stabilità di insediamento collegata a un’economia di caccia e raccolta. Parallelamente, le tradizioni culturali regionali conobbero un processo di progressiva e sempre maggiore differenziazione, benché elementi comuni e traccianti trasversali permangano.

Il sito eponimo del neolitico sudanese è Esh Shaheinab, nel Sudan centrale, datato alla metà del V millennio a.C. A Esh Shaheinab è documentata la prima fase di allevamento degli animali, in cui questi ultimi rappresentano ancora una percentuale nettamente minoritaria delle ossa raccolte, mentre continuano le attività di caccia, raccolta e pesca. L’industria litica è largamente microlitica e caratterizzata da numerosi raschiatoi alcuni dei quali sono di grandi dimensioni, a forma di crescente e in criolite. Utensile caratteristico è un’ascia, detta in inglese “gouge” (Fig. 6), da cui deriva il nome di Gouge Culture talvolta usato per designare questa cultura in alternativa al nome di neolitico di Esh Shahinab o di Neolitico di Khartoum. Importante è anche la continuità nella presenza dell’arpione in osso che, insieme all’amo in conchiglia, attesta la pratica della pesca (Fig. 6). Nella produzione ceramica, continua l’uso della decorazione “dotted wavy line” cui si affiancano motivi vari come quelli prodotti con impressioni praticate con movimento ondulatorio, detto in inglese rocker (Fig. 6), e a spina di pesce e l’uso della ceramica a bocca nera, la cui parte interna e la banda lungo l’orlo erano annerite probabilmente cuocendo il vaso con l’orlo verso il suolo.

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Figura 6: reperti antico-neolitici dal Sudan centrale. Si noti la ceramica impressa, l’arpione in osso utilizzato per la pesca e il lunato microlitico, analoghi a quelli che avevano caratterizzatola fase mesolitica (da Caneva in Egypt and Africa 1991).

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Altro sito assai rilevante per questa fase è Kadero, dove gli animali domestici rappresentano l’88% delle faune e al loro interno i bovini sono nettamente prevalenti sui caprovini. La ceramica si distingue da quella di Esh Shaheinab per la rarità della decorazione “dotted wavy line”. Le impressioni lasciate dagli inclusi vegetali sulla ceramica hanno permesso di identificare la presenza su questo sito di specie ancora selvatiche di sorgo, un cereale endemico del Sudan, che è attestato però in queste regioni in forme domestiche solo da epoca pienamente storica. Non si può però escludere che a Kadero si trattasse di forme morfologicamente ancora selvatiche ma di fatto già coltivate e lo stesso discorso può essere esteso anche al miglio. Anche la presenza di macine e macinelli è stata interpretata come prova possibile dell’importanza delle piante nell’alimentazione degli antichi abitanti di Kadero, ma anche in questo caso non se ne può escludere l’uso nella triturazione di pigmenti destinati alla cosmesi. Se è indubbio che un’ampia gamma di piante venisse sfruttata, divergenze restano quindi sulle modalità del loro sfruttamento e, in generale, sulla loro importanza nella dieta.

L’industria litica di Kadero è caratterizzata da grattatoi con pochi microliti. Lo strumentario del neolitico si caratterizza in generale per i geometrici in pietre locali con ritocco a bordo abbattuto, che sono i soli strumenti presenti accanto a grandi quantità di schegge. Forse le schegge però, seppur non ascrivibili ad alcuna classe tipologica di strumenti, non vanno considerate solamente scarti di lavorazione ma erano in qualche modo utilizzate. Interessante notare che è stato possibile compiere delle operazioni di re-fitting, ovvero ricomporre il nucleo a partire dalle schegge che ne erano state staccate, anche con materiali provenienti da contesto funerario e ciò suggerisce che la scheggiatura della pietra avesse un ruolo anche nelle cerimonie funebri. In queste fasi l’industria in pietra polita è prodotta in rocce metamorfiche importate e è costituita, oltre che da asce, macine e macinelli, da palette, asce e teste di mazza discoidali o piriformi, che, come si vedrà, furono ben presto utilizzate per manifestare il rango.

La regione di Dongola in questa fase era occupata da popolazioni le cui culture archeologiche mostrano relazioni con l’Abkano della Bassa Nubia, con il Mesolitico di Khartoum e con il Neolitico di Khartoum. La cultura del Gruppo di Karat è caratterizzata dall’avere

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in comune con i siti più meridionali solo un tipo di ceramica brunita con decorazione rocker. Anche l’industria litica con numerosi grattatoi su scheggia con cortice e con pochi microliti e macine è piuttosto particolare. Analogie possono piuttosto essere notate con la ceramica della successiva cultura della regione, il Pre-Kerma, e del Gruppo A basso-nubiano, di cui potrebbe essere l’antecedente.

Come detto, dunque, le culture neolitiche si caratterizzano per marcate differenziazioni e regionalismi nella stessa valle del Nilo. A maggior ragione differenze e regionalismi spiccati si notano in siti geograficamente più remoti dalla regione di Khartoum e dal Sudan centrale, come quelli dello Wadi Howar, del Gruppo di Amm Adam e di Malawiya tra Gash e Atbara e Shaqadud nel Butana.

In particolare, a Shaqadud, nel Butana, all’interno di una grotta si può seguire in stratigrafie ben conservate il passaggio da mesolitico a neolitico, in un contesto che doveva vedere i gruppi umani impegnati prima nello sfruttamento specializzato dell’ambiente attraverso caccia e raccolta di risorse della savana alberata e, poi, nello sfruttamento pastorale dell’area. Questi gruppi, come dimostra la loro cultura materiale, mantenevano strette relazioni con gli abitanti della valle del Nilo, benché restassero da essi culturalmente distinti e avessero forse mantenuto più a lungo degli stessi abitanti dei siti rivieraschi dei contatti con il Sahara, evidenziati attraverso l’analisi delle decorazioni ceramiche.

Nel delta del Gash, più a est, i siti del Gruppo di Amm Adam, datati tra il 6000 e il 5000 a.C., e il più tardo Gruppo di Malawiya, tra il 5000 e il 4000 a.C., sono caratterizzati da ceramiche nettamente distinte rispetto a quelle coeve della valle del Nilo, come la “knobbed ware”, le cui pareti sono decorate con caratteristiche protuberanze a bottone, e la “scraped ware”, dalle pareti graffiate. Rari sono gli esempi di “wavy line”. Il sistema di sostentamento doveva però essere simile a quello mesolitico della valle, con sfruttamento specializzato di risorse dell’ambiente rivierasco del Gash e di altri corsi d’acqua stagionali della regione, come confermato sia dai resti osteologici sia dal rinvenimento di arpioni ossei nei siti del Gruppo di Amm Adam. I siti del Gruppo di Malawiya erano invece più orientati verso lo sfruttamento della fauna selvatica della savana. Un sistema di sussistenza almeno in parte basato sull’economia di produzione

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compare nell’area solo intorno al 4000 a.C., con il Gruppo del Butana che praticava presumibilmente un’economia mista agropastorale e era caratterizzato da ceramiche con motivi impressi “rocker” a formare dei denti di lupo, ceramica a bocca nera, ceramica decorata con settori geometrici impressi e “rippled ware”, con la superficie sfaccettata e polita, tipica delle coeve culture della valle. I siti sembrano attestare una popolazione almeno in parte sedentaria e raggiungevano anche dimensioni considerevoli.

Nello Wadi Howar, un grande affluente fossile del Nilo nel Deserto Occidentale nubiano, i siti più antichi sono caratterizzati dalla presenza di ceramica “dotted wavy line” e datano alla metà del VI millennio a.C. L’ambiente doveva essere caratterizzato in questa fase ancora umida dal formarsi periodico di polle di acqua e da una probabile attività stagionale dello wadi. L’occupazione più consistente riguardava il basso corso dello Wadi Howar, dove la grande diffusione di macine e macinelli potrebbe suggerire un’economia basata sullo sfruttamento intensivo delle piante selvatiche, mentre i siti più interni sono pochi e di scarsa consistenza e i resti materiali sembrano indicare forme di adattamento basate sullo sfruttamento della fauna acquatica. Dal quarto millennio si afferma una cultura materiale caratterizzata dalla ceramica “Leiterband”, decorata con impressioni in bande orizzontali parallele che coprono tutto il corpo dei contenitori. Tale tecnica decorativa, benché riveli nelle sue fasi iniziali assonanze con il neolitico di Shaheinab, ha come esito una produzione ceramica assai distintiva. L’economia doveva allora essere essenzialmente pastorale, come confermato dai ritrovamenti osteologici, anche se lo sfruttamento di piante selvatiche e anche delle risorse acquatiche sembra essere continuato.

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4. L’emergere della gerarchizzazione sociale

Il neolitico vide anche lo sviluppo di strutture sociali articolate e l’emergere di gerarchie. Il passaggio all’economia produttiva comporta in effetti non solo la possibilità di controllare i mezzi di sussistenza da parte di individui o famiglie ma anche quella di appropriarsene. In Sudan, tale processo di gerarchizzazione è stato ricostruito, in mancanza di evidenze provenienti dai siti di abitato, principalmente attraverso l’analisi funeraria.

A Kadero una Missione Polacca del Museo di Poznan guidata da L. Krzyzaniak ha indagato due cimiteri assai interessanti per l’analisi della struttura sociale. Il primo è caratterizzato da due gruppi di inumazioni topograficamente ben distinguibili comprendenti maschi e femmine, adulti e bambini. Le tombe, di cui non sono sopravvissute eventuali soprastrutture, presentano delle differenziazioni che sono state evidenziate sulla base dello studio dei corredi deposti accanto ai corpi. Le tombe più ricche nel più numeroso gruppo di sepolture di questo cimitero sono quelle dei maschi adulti che si caratterizzano per la presenza di teste di mazza discoidali in porfirite, ceramica fine dipinta con ocra o “a bocca nera”, monili. Le tombe di donne e bambini contenevano ceramica più dozzinale e ornamenti personali, tra cui è però interessante registrare la presenza di alcune conchiglie marine provenienti presumibilmente dal Mar Rosso. Le teste di mazza e i beni importati sarebbero poi divenuti tra gli oggetti più utilizzati per rappresentare il rango. Nel secondo gruppo di tombe, meno numeroso, i corredi sono in genere più poveri, ma anche in questo caso le tombe dei maschi adulti sono le più ricche.

Il secondo cimitero pare più tardo e si caratterizza anch’esso per la presenza di due gruppi topograficamente distinti di tombe. Anche nel secondo cimitero le soprastrutture sono assenti o, forse, non si sono semplicemente conservate. In questo cimitero alcune tombe sono nettamente più ricche delle altre e significativamente sono topograficamente concentrate in un unico gruppo. Queste tombe contengono numerosi vasi in ceramica fine dipinta con ocra rossa o “a bocca nera” che, secondo lo scopritore, non pare siano mai stati usati e

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che, quindi, sarebbero stati prodotti appositamente per entrare a far parte del corredo funerario (Fig. 7).

Figura 7: recipienti ceramici dal cimitero di Kadero. Il calice a orlo svasato in basso a destra è caratteristico del contesto funerario e presente anche a Kadada, a Kadruka e, più a nord, fino in Egitto (da Chlodnicki in Cahier de Recherches de l’Institut de Papyrologie et d’Egyptologie de Lille, 17/2, 1997).

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Tra gli oggetti rinvenuti nelle sepolture maschili vi erano anche ornamenti personali, come dei diademi costituiti da numerose conchiglie marine del Mar Rosso, monili in corniola e braccialetti in avorio, strumenti e armi, come le teste di mazza in porfirite del tipo conico o piriforme e un’ascia in criolite, una pietra proveniente dalla regione della sesta cataratta. Alcune di queste tombe maschili hanno restituito anche lunati microlitici ancora recanti tracce di mastice, che era usato come colla per fissarli a un’immanicatura in legno o osso, e gruppi di oggetti necessari per la manifattura di strumenti litici. Le tombe più ricche in genere erano caratterizzate anche da una fossa più profonda e meglio scavata. Spesso le sepolture erano coperte da concentrazioni di ocra.

Due tra le tombe più ricche di questo cimitero contenevano ceramica tardo-neolitica e sono quindi cronologicamente leggermente successive alle altre. La continuità dell’uso di un certo luogo per la sepoltura dei membri dell’élite è indicativa di una chiara volontà di affermare e legittimare il proprio ruolo nel gruppo in ragione di reali o presunte ascendenze. Anche la presenza tra gli individui inumati in queste tombe più ricche di bambini suggerisce una possibile trasmissione del rango per via ereditaria all’interno delle famiglie dell’élite. Benché tra le tombe più ricche ve ne siano anche di donne, quelle di maggiore ricchezza sono indubbiamente ascrivibili a individui di sesso maschile.

Gli oggetti dei corredi dimostrano che questa élite neolitica poteva procurarsi e forse scambiava attivamente materiali esotici, utilizzati poi per dimostrare il rango, ma la base della sua ricchezza doveva risiedere nel controllo dei mezzi di sussistenza e, dunque, verosimilmente del bestiame. I movimenti stagionali legati alle transumanze potevano peraltro a loro volta favorire i contatti e gli scambi con altri gruppi.

Il sito di El Kadada, nella regione del Sudan centrale, datato al 3700-3300 a.C., rappresenta una facies leggermente successiva cronologicamente e geograficamente più settentrionale rispetto ai siti della regione di Khartoum.

A Kadada sono stati indagati due cimiteri sui quattro individuati. I cimiteri erano disposti sulle pendici di due lievi rilievi, al di sopra del piano di campagna circostante e, quindi, al riparo dall’umidità. La

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sommità dei due rilievi era probabilmente riservata alle aree di abitato. Prima distinzione che si può fare tra le sepolture indagate a Kadada è quella tra sepolture in cimitero e sepolture al di fuori dei cimiteri. I bambini fino a sei anni erano infatti inumati separatamente nell’area di abitato dentro grosse giare. J. Reinold ha per questo proposto che intorno ai sei anni si volgesse un rito di iniziazione che permetteva ai bambini di divenire a tutti gli effetti membri del gruppo.

Il cimitero sud, secondo la seriazione delle ceramiche il più antico di El Kadada, è caratterizzato dalla presenza di tombe più ricche in termini di corredi circondate da altre più comuni. Le fosse sono spesso tagliate l’una nell’altra e per questo spesso contengono più corpi deposti in momenti successivi, però in almeno sei casi si sono distinte delle fosse in cui erano avvenute almeno due o tre inumazioni contestuali, con uno o due individui posti dentro sacchi di cuoio o con il corpo lungo la parete (Fig. 8).

Figura 8: due tombe di Kadada. Si noti nella sepoltura a sinistra la presenza di un individuo sacrificato, chiaro indizio di gerarchizzazione sociale (da Reinold, Archéologie au Soudan, Parigi 2004).

Si tratta probabilmente dei primi episodi documentati di sacrificio

umano in ambito funerario, usanza destinata a raggiungere la sua massima espressione in Nubia a Kerma nei primi secoli del II millennio a.C., e che attesta la presenza in questi gruppi neolitici del Sudan centrale di individui che potevano disporre della vita di altri. Il secondo cimitero, più recente, era anch’esso caratterizzato da un’elevata concentrazione di fosse che si tagliano tra loro, fatto che

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suggerisce un prolungato uso funerario dell’area. Anche in questo caso si sono potuti distinguere gruppi di sepolture distinti tra loro, fatto che suggerisce un’organizzazione sociale basata su lignaggi familiari al cui interno, stando alla consistenza e al pregio dei corredi, convivevano condizioni di accesso ai beni anche piuttosto differenziate. Lo stato di conservazione dei corpi non ha permesso di verificare se il maggiore accesso ai beni fosse connesso a fasce di età, al sesso o a segmenti particolari del lignaggio.

Nei corredi funerari delle tombe di Kadada sono presenti statuette in terracotta associate sia a tombe di bambini sia a tombe di adulti e probabilmente connesse a funzioni rituali. Un elemento importante nei corredi è costituito poi dalla ceramica nel cui ambito spiccano i recipienti “rippled”, ovvero a faccette, dalla caratteristica superficie lucidata, e quelli caliciformi, attestati anche nelle regioni più settentrionali della Nubia e nelle culture predinastiche egiziane. Interessante notare anche come molti dei motivi decorativi (ad es. le incisioni a campi geometrici riempite da pasta bianca) e dei trattamenti superficiali (ad es. il trattamento a bocca nera) attestati nella ceramica di Kadada e degli altri siti neolitici del Sudan centrale ricorreranno poi nelle culture delle fasi successive, come quella Kerma e il Gruppo C. La ceramica dimostra inoltre la presenza di tradizioni regionali, distinte tra loro più che da tipi peculiari dalla diversa presenza percentuale dei medesimi tipi nei diversi siti.

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5. Il Neolitico Tardo in Alta Nubia: Kadruka e il Pre-Kerma

La regione che ha fornito maggiori informazioni circa il periodo

neolitico in Alta Nubia è quella di Kadruka, a monte della terza cataratta. A Kadruka, in un’area di circa 30 chilometri di estensione, si sono infatti rinvenuti diciassette cimiteri con datazioni assolute che vanno dal 5500 al 4000 a.C. ma con la gran parte dei siti che si colloca nel V millennio a.C. Questi siti sono caratterizzati da un’ottima conservazione dei materiali organici e per questo hanno restituito, ad esempio, microliti ancora inseriti nei manici, informazioni circa l’abbigliamento di queste antiche popolazioni e pigmenti ancora conservati in contenitori ricavati da zanne di ippopotamo lavorate. Nei corredi funerari spiccano anche i vasi caliciformi e gli utensili litici e in osso, generalmente deposti presso le mani del defunto. La ceramica è caratterizzata dalla presenza di decorazioni a “rocker” e da una grande varietà di forme specie nelle fasi finali, quando la decorazione, inizialmente coprente la superficie dei vasi, sembra limitarsi al labbro e quando appaiono anche le decorazioni dipinte in ocra rossa e gialla. Manca sorprendentemente la ceramica detta “rippled ware”. Purtroppo, nell’area di Kadruka, gli abitati non sono altrettanto ben conservati a causa di intensi fenomeni di erosione eolica.

Esaminando più nel dettaglio alcuni cimiteri indagati dalla missione dell’unità archeologica francese di Khartoum guidata da Jaques Reinold si possono ricavare delle interessanti informazioni circa l’organizzazione sociale delle popolazioni alto-nubiane nel V millennio a.C.

Il sito Kadruka 1 è stato scavato completamente è può per questo fornire delle indicazioni piuttosto importanti circa l’organizzazione di un cimitero neolitico nella regione che, stando a quanto evidenziato dalla ceramica, tipologicamente piuttosto omogenea e, quindi, probabilmente appartenente ad un’unica fase, fu utilizzato per un periodo piuttosto corto. Le sepolture si presentano come semplici fosse di forma circolare o ovale scavate nel terreno e contengono in genere deposizioni singole anche se in alcuni casi possono contenere fino a tre corpi. I corpi sono in posizione flessa o contratti, con le

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braccia piegate e le mani dinnanzi al viso, e non presentano alcun orientamento particolare. Probabilmente erano mantenuti in questa posizione innaturale da legature o sacchi in cuoio e erano deposti su pagliericci che, almeno in un caso, erano costituiti da paglia di orzo, pianta non endemica in Nubia e giunta nella sua forma coltivata dal Vicino Oriente.

Topograficamente, il cimitero Kadruka 1 è localizzato su una bassa elevazione sul piano di campagna e ha una pianta quasi circolare, con diametro di circa 30 metri. La parte sommitale della collina ospita sepolture di soggetti di sesso maschile, mentre lungo i declivi sono disposte delle inumazioni di individui di sesso femminile. I bucrani, gli astucci per i pigmenti coloranti usati in cosmesi, le asce, gli utensili in pietra scheggiata immanicata e i vasi dipinti sono distribuiti indifferentemente in tutte le sepolture, mentre le palette per cosmetici, le teste di mazza, i vasi caliciformi, le figurine antropomorfe e i monili confezionati con conchiglie marine sono presenti solo nelle sepolture maschili della parte alta del cimitero.

In particolare, nella parte più elevata del cimitero di Kadruka 1, una tomba è caratterizzata non solo da una centralità topografica rispetto le altre e dall’eccezionale profondità del suo pozzo ma anche dalla ricchezza del corredo. Il soggetto inumato era un maschio adulto di circa 40 anni dall’eccezionale statura e era coperto da più pelli bovine tinte di giallo. La posizione era, come sempre, contratta con la testa rivola a est e il viso a nord. Il corpo recava dei braccialetti in avorio ad ambedue gli avambracci. Numerosi oggetti circondavano l’inumato: una figurina antropomorfa in pietra, un blocco di pigmento minerale colorante, una piccola ascia, due palette, tre teste di mazza piriformi, delle valve di conchiglie fluviali, una piccola ascia modellata in avorio, una macina, un ago, un manico di utensile in osso, due pettini sempre in osso, un astuccio per colorante in avorio di elefante o ippopotamo, due bucrani colorati di bianco, uno strumento probabilmente usato per lisciare. Un vaso caliciforme, due giare e tre bicchieri, di cui uno con decorazione dipinta, completano questo corredo ricchissimo (Fig. 9).

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Figura 9: la tomba più ricca del cimitero di Kadruka 1. Si notino il bucranio, la tavolozza per cosmetici e le numerose teste di mazza (da Reinold, Archéologie au Soudan, Parigi 2004).

Da notare che gli elementi caratteristici di particolari gruppi sociali,

come le palette per cosmetici, le teste di mazza, i vasi caliciformi, le figurine antropomorfe o i monili confezionati con conchiglie marine, tipici a Kadruka 1 delle sepolture di individui di sesso maschile, non vanno considerati però fossili guida cui attribuire automaticamente il medesimo significato nemmeno a una scala regionale. In un altro cimitero dell’area di Kadruka, infatti, le palette per cosmetici accompagnano esclusivamente le sepolture femminili. Anche la prominenza in termini topografici e di ricchezza del corredo delle sepolture maschili notata a Kadruka 1 è contraddetta dall’evidenza di Kadruka 18, dove la tomba centrale, intorno a cui si raggruppano le

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altre, è femminile. La ricchezza della variabilità regionale evidente in questi cimiteri, che pure mantengono alcuni elementi comuni in termini di tipologie di oggetti, è stata recentemente confermata dall’indagine di altri siti analoghi nella parte settentrionale della regione di Dongola.

Il fatto che in molti casi, come ad esempio nel cimitero di Kadruka 2, che però è stato scavato solo parzialmente, l’uso del sito sia stato assai prolungato e che alcune sepolture di rilievo fossero comunque mantenute per un lungo periodo come nucleo centrale nella disposizione topografica potrebbe indicare che queste sepolture restavano in qualche modo individuabili e che, quindi, la loro presenza fosse marcata in superficie da una qualche soprastruttura. D’altro canto, la presenza di soprastrutture era già stata ipotizzata nel cimitero antico-neolitico di El-Ghaba, non distante da Kadada, nel Sudan centrale, dove le fosse delle tombe risparmiano un’area grosso modo quadrangolare, forse occupata da un edificio o da una struttura che si è ipotizzato fosse connessa all’espletamento del culto funerario e/o delle cerimonie di sepoltura. Purtroppo nella maggior parte dei casi le possibili tracce di soprastrutture che segnalassero la presenza delle tombe sono state completamente distrutte dall’erosione. Solo il cimitero di Kadruka 21 si caratterizza per la presenza intorno alle tombe di piccole stele monolitiche, che potevano essere diffuse anche in altri cimiteri coevi, dove però non si sono conservate.

Sulla base delle evidenze recuperate in ambito funerario, il sistema di sussistenza di queste popolazioni alto-nubiane era basato sull’allevamento bovino e di caprovini e, forse, sulla coltivazione di cereali. Si noti però che i contesti funerari, per la loro valenza simbolica sono tra i meno indicati a fornire elementi circa l’economia di sussistenza e solo future indagini di siti di abitato potranno dare informazioni più dettagliate su questi aspetti permettendo di valutare l’importanza dell’agricoltura, dell’allevamento e di possibili attività di caccia, pesca e raccolta.

Il solo sito di abitato neolitico indagato in Alta Nubia è stato salvato dall’erosione eolica dai depositi fluviali delle alluvioni del Nilo e dal fatto che l’area in cui sorse fu successivamente utilizzata come necropoli dell’importante sito protostorico di Kerma intorno al 2000 a.C. Proprio i tumuli della necropoli protostorica hanno infatti

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ulteriormente protetto dall’erosione i livelli dell’abitato neolitico, mentre le fosse ne hanno danneggiato alcune parti. Questo, come altri insediamenti individuati nella regione di Kerma, potrebbe essere stato un campo stagionale di una popolazione che si muoveva periodicamente con i propri animali tra la valle del Nilo e i margini delle regioni desertiche circostanti. Il fatto che in questo sito si possano distinguere vari livelli di abitato attribuibili a fasi neolitiche e tardo-neolitiche e le sovrapposizioni tra i perimetri di diverse capanne suggerisce peraltro che il sito fosse se non stabilmente occupato, almeno soggetto a una rioccupazione periodica. I resti ossei rinvenuti in questo sito di abitato sono principalmente di caprovini e bovini domestici.

Le strutture di abitato, ricostruite grazie agli allineamenti dei buchi per palo, consistevano di capanne ovali o circolari, con diametro compreso tra uno e sette metri, affiancate nelle fasi tardo-neolitiche da strutture rettangolari, frangivento a protezione di focolari e palizzate (Fig. 10).

Figura 10: un settore del villaggio Pre-Kerma a Kerma. Si notino i buchi per palo che descrivono perimetri di strutture circolari e rettangolari e i numerosi pozzetti probabilmente usati come silos, mentre le fosse più grandi sono delle tombe successive che hanno tagliato gli strati più antichi (da Bonnet in Genava n.s., 36, 1988).

In generale le palizzate sono state interpretate come recinti per gli animali, ma la palizzata più esterna potrebbe aver avuto anche un carattere difensivo o, almeno, di delimitazione del villaggio, testimoniando così come la comunità che vi risiedeva fosse comunque

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capace di organizzare un lavoro comunitario. Sono state anche documentate delle strutture scavate, come focolari e fosse, probabilmente usate come granai. L’utilizzazione di questo tipo di strutture per la conservazione delle derrate non doveva essere limitata al solo sito indagato in prossimità di Kerma. Delle fosse simili, talvolta ancora chiuse con lastre di pietra sono state infatti segnalate anche in un sito coevo sull’isola di Sai, in prossimità della terza cataratta.

Questa cultura tardo neolitica alto-nubiana è detta, per la vicinanza del sito dove è stata per la prima volta individuata, Kerma, Pre-Kerma. La cultura materiale del Pre-Kerma si caratterizza in particolare per le peculiarità della produzione ceramica, nota soprattutto grazie ai rinvenimenti effettuati dentro i granai sotterranei. Tra i tipi ceramici Pre-Kerma sono presenti i contenitori a bocca nera, i contenitori con superficie “rippled” o dipinta con motivi in rosso, ciotole e grosse coppe, le cui forme sono globulari aperte o chiuse, con decorazione incisa o impressa.

Se in alcune aree dell’Alta Nubia, come quella immediatamente a sud della terza cataratta, il neolitico si caratterizza per la presenza di villaggi con strutture complesse, di ricche necropoli e di una cultura materiale differenziata e articolata, in altre aree della medesima regione, come quella immediatamente a valle della quarta cataratta, le tracce di frequentazione si limitano invece a pochi piccoli siti con strumentario litico e dove la ceramica non era presente o, forse, non si è conservata per ragioni postdeposizionali. Le modalità di occupazione dell’Alta Nubia dovevano quindi essere differenziate anche in relazione alle caratteristiche ambientali delle varie aree e alle diverse traiettorie sociali dei gruppi che le abitavano.

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6. Khartoum Variant e Gruppo A in Bassa Nubia

Anche la Bassa Nubia era rientrata, come abbiamo visto, alla fine dello Shamarkinao nell’ampio ambito caratterizzato dalla ceramica “wavy line”. Per i legami con le culture del Sudan centrale, questa cultura basso-nubiana è detta Khartoum Variant e si caratterizza per le usuali industrie microlitiche in agata e diaspro anche se gli strumenti più caratteristici sono grattatoi prodotti in selce importata dall’Egitto. Non mancano infine gli strumenti in pietra levigata, tra cui macine e macinelli. La ceramica è decorata con impressioni applicate con movimento “rocker” di uno strumento a più punte e la decorazione così ottenuta copre la gran parte del vaso. Le strutture abitative individuate sono assai mal conservate e si limitano a possibili fondi di capanna e focolari. Le dimensioni di questi siti basso-nubiani non sono comparabili con quelle dei siti del Sudan centrale e della zona di Khartoum: si tratta infatti di siti i cui assi maggiori raramente eccedono qualche decina di metri. I siti sono situati sia su pendici di alture in prossimità della valle, sia in aree più marginali e oggi desertiche. Unitamente all’assenza di ogni chiara evidenza di allevamento, ciò suggerisce un sistema di adattamento ancora basato su caccia, raccolta e pesca.

Non sono chiare le relazioni tra Khartoum Variant e l’Abkano, una cultura che sembra soppiantare la Khartoum Variant e che è caratterizzata da ceramiche con tratti tipologici e stilistici simili a quella del neolitico di Esh Shaheinab, con motivi “rocker”, ceramica “a bocca nera” e con superfici “rippled”, e da strumenti litici a ritocco denticolato, lunati, grattatoi in pietra silicea, quarzo, calcedonio, mentre diminuisce la presenza di lame. Anche in questa fase si riscontra la presenza in Bassa Nubia di strumenti in selce egiziana. Tra gli strumenti in pietra levigata spiccano le asce che potevano essere usate nella lavorazione del legno o anche per dissodare il suolo. La presenza di grandi quantità di ossa di pesce suggerisce che almeno alcuni dei siti basso-nubiani fossero dei campi stagionali di pesca. In assenza di ami, arpioni e pesi per reti, si è ipotizzato che gli abitanti dei numerosi siti abkani nella regione della seconda cataratta pescassero con trappole nei restringimenti del fiume, dove questo,

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proprio per la morfologia dell’area, si divideva in più canali. La caccia agli animali selvatici era ancora praticata. Forse si adottarono fin da questo periodo, seppur su scala apparentemente ancora limitata, caprovini e bovini domestici. In ogni caso, questo sistema di adattamento rese possibile lo sviluppo di siti dimensionalmente molto più vasti di quelli della “Khartoum Variant”. Lo studio della ceramica sembra attestare un passaggio graduale dall’Abkano al successivo Gruppo A, chiamato così in relazione al sistema di denominazione delle culture nubiane introdotto da G.A. Reisner durante la prima campagna di salvataggio dei monumenti nubiani. Tale sistema implicava che ogni cultura fosse indicata con una lettera dell’alfabeto, dalla più antica allora scoperta, il Gruppo A, appunto, alla più tarda, detta Gruppo X. Le culture successive al Gruppo A che Reisner individuò furono chiamate Gruppo B e Gruppo C, mentre tutte le lettere tra quest’ultimo e il Gruppo X furono lasciate libere per eventuali altre culture intermedie allora non ancora individuate.

Il Gruppo A ci è noto dai numerosi siti a carattere cimiteriale indagati e dei pochi siti di abitato che sono stati scavati. La cronologia del Gruppo A è stata definita sulla base degli oggetti importati dall’Egitto rinvenuti principalmente in contesto funerario. Sulla base dello studio della ceramica proveniente da contesto funerario si sono distinte tre fasi di questa cultura: Gruppo A Antico (contemporaneo a Naqada Ic e II, 3700-3200 a.C. circa), Gruppo A Classico (contemporaneo a Naqada III, 3200-3000 a.C. circa) e Gruppo A Terminale (contemporaneo alla I dinastia egiziana, 3000-2900 a.C. circa).

La sussistenza di questa popolazione era probabilmente basata sulla coltivazione di grano, orzo e legumi, i cui semi sono stati rinvenuti in alcuni siti di abitato, e sull’allevamento, anche se i resti osteologici dimostrano che caccia, raccolta e pesca continuavano a contribuire alla dieta. A giudicare dalla diffusione delle giare di manifattura egiziana, alimenti importati dall’Egitto, come vino, birra, formaggio, olio e, forse, anche cereali dovevano avere una certa importanza nella dieta di queste popolazioni.

La maggioranza dei siti di abitato erano caratterizzati dalla presenza di focolari e, forse, frangivento o piccoli ripari di sterpi. Solo

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in alcuni casi, come in quello di Afie, sono state segnalate strutture quadrangolari in pietre e fango associate con granai sotterranei intonacati di argilla. I siti erano in genere localizzati a poca distanza dal fiume o in prossimità di antichi canali, in punti leggermente elevati sul piano di campagna e ciò li ha spesso esposti all’erosione. In alcuni casi erano occupati anche ripari sotto roccia. Isolato resta il caso del sito di Khor Daud con i suoi 578 pozzi, probabilmente silos, contenenti vasi egiziani. Forse si trattava di un punto di scambio commerciale, vista anche la localizzazione nell’area ove si apre sulla valle del Nilo la foce dello Wadi Allaqi, che conduce a una delle più importanti regioni aurifere del Deserto Orientale nubiano.

L’industria litica del Gruppo A pare conoscere un impoverimento rispetto alle fasi precedenti e i veri strumenti si limitano quasi completamente a quelli in pietra levigata, come macine, macinelli e teste di mazza. Questo declino può essere connesso alla presenza di strumenti in rame come asce, aghi, arpioni e lame, probabilmente tutti importati dall’Egitto. Alcuni strumenti litici su lama e scheggia sono in selce egiziana e potrebbero essere stati anch’essi importati.

La ceramica si caratterizza in alcuni casi per l’uso come tempera di sterco animale e questo è un indizio indiretto della pratica dell’allevamento. Le forme ceramiche sono assai varie, con coppe e ciotole chiuse e aperte e vasi da storaggio con orlo estroflesso e, quindi, più agevolmente sigillabili. Le decorazioni della ceramica vedono l’uso di impressioni “rocker” e motivi a spina di pesce, continuano ad essere presente vasi “a bocca nera” e con superfici “rippled”. Molto fine è la ceramica “egg-shell”, che prende il nome proprio dalle sue sottilissime pareti, talora con decorazione dipinta rossa. Assai diffusa è la ceramica egiziana, come già detto rappresentata in particolar modo da giare (Fig. 11).

La ricostruzione della struttura sociale del Gruppo A è affidata principalmente all’analisi funeraria, anche se le più complesse abitazioni di Afie potevano denotare uno status elevato dei loro abitanti. Le tombe sono per lo più senza soprastruttura, a pozzo semplice o con camera laterale. La soprastruttura in origine doveva però essere presente, come suggerito dalle sepolture multiple successive nella stessa tomba che sono state registrate in alcuni casi e che suggeriscono che la tomba dovesse restare individuabile in

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superficie. In alcuni siti sono anche state rilevate tracce di piccoli cerchi di pietre con tumuli. I corpi erano deposti in posizione contratta. Tra gli oggetti di corredo delle tombe, oltre alla ceramica, spiccano monili anche in oro, proveniente probabilmente dal Deserto Orientale, ornamenti personali in pietre dure, conchiglie, non solo di acqua dolce ma anche marine del Mar Rosso e del Mediterraneo, avorio, ventagli in piume di struzzo, tavolozze per il belletto e figurine antropomorfe in argilla.

Figura 11: ceramica rinvenuta in tombe del Gruppo A. I vasi con decorazione incisa, impressa, dipinta e a bocca nera delle due file in basso sono di produzione locale, le giare delle due file in alto sono invece di origine egiziana (da Nordström, Neolithic and A-Group Sites, Copenhagen, Oslo e Stockholm 1972).

Sulla base dell’analisi funeraria si è potuta ricostruire almeno in

alcuni casi una particolare rilevanza sociale delle donne, la presenza di

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modalità di accesso differenziato alle risorse da parte dei singoli e anche la presenza di siti con necropoli particolarmente ricche in termini di pregio e varietà degli oggetti di corredo. L’esame della distribuzione e dei tipi di tombe e corredi ha portato studiosi come D. O’Connor, B.B. Williams e H.A. Nordström a ipotizzare almeno per le fasi finali del Gruppo A una società molto gerarchizzata, forse addirittura un vero e proprio stato. Tra le tombe di personaggi eminenti se ne segnala una in un cimitero presso Sayala, contenente due mazze con i manici ricoperti di foglia d’oro e decorati con figurazioni di teorie di animali su più registri, simili a oggetti dell’arte predinastica e protodinastica egiziana e, forse, addirittura di produzione egiziana. Molto importante per lo studio della gerarchizzazione sociale del Gruppo A è il cimitero L a Qustul, dove si sono rinvenute tombe paragonabili per dimensioni solo a quelle coeve del cimitero reale di Abido (Cimitero B) in Egitto. Le tombe di Qustul sono caratterizzate da trincee lunghe con camera laterale e da una grande ricchezza in termini di ceramica fine locale e di ceramica egiziana importata. Nei corredi spiccano anche gli oggetti decorati, come un brucia-incenso in pietra della cui decorazione fanno parte la figura seduta di un sovrano con corona bianca, poi tipica dell’Alto Egitto, e il motivo della facciata del palazzo, detto in egiziano serekh, sormontato da un falco. Su un altro brucia-incenso in pietra si affianca al motivo della barca ancora una volta quello del re con corona bianca, della facciata del palazzo, del prigioniero e di un felino. Un vaso dipinto di produzione locale mostra una serie di insegne insieme a un albero e a scene di volatili che aggrediscono dei serpenti. Alcuni di questi motivi iconografici sono presenti anche su numerosi sigilli cilindrici rinvenuti su siti del Gruppo A (Fig. 12). La stessa presenza di sigilli conferma peraltro la gerarchizzazione sociale e la pratica del controllo dell’accesso ai beni, se non l’esistenza di un’amministrazione. Secondo Williams gli oggetti decorati rinvenuti a Qustul commemorano una vittoria dei sovrani nubiani sull’Alto Egitto in una fase precedente alla dinastia 0 egiziana e, dunque, alla più antica dinastia egiziana. L’uso di insegne poi divenute parte delle insegne faraoniche da parte di questi sovrani nubiani attesterebbe che di fatto esse erano di origine nubiana.

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Figura 12: impronta di sigillo del Gruppo A, in alto, e altri sigilli cilindrici del Gruppo A, in basso. Da notare gli elementi come la facciata di palazzo sormontata dal falco e la barca, comuni anche all’Egitto, mentre i cani e l’arco visibili nell’impronta in alto sono più tipicamente nubiani (da Williams, The A-Group Royal Cemetery at Qustul: Cemetery L, Chicago 1986).

Pur se l’ipotesi di Williams è oggi rigettata alla luce di nuove

evidenze messe in luce ad Abido in Egitto, l’utilizzazione di una serie di insegne analoghe in Alto Egitto e in Bassa Nubia suggerisce degli stretti rapporti e interazioni tra le élites delle due regioni nelle fasi formative dello stato, forse favorita anche dal ruolo che il Gruppo A probabilmente svolse lungo le direttrici attraverso cui le materie prime africane giungevano in Egitto. L’incremento dell’interesse egiziano per beni come avorio, pelli animali, ebano, oro, resine, spesso utilizzati nelle manifestazioni di rango di una società sempre più complessa, può anche avere avuto delle conseguenze sulla società del Gruppo A, aumentando l’importanza delle élites e la gerarchizzazione interna. Una conferma indiretta del ruolo commerciale del Gruppo A è venuta dal rinvenimento nella regione aurifera dello Wadi Allaqi, nel Deserto Orientale nubiano, di tombe con cultura materiale collegabile a quella coeva della Bassa Nubia contenenti anche alcuni monili in oro. Si tratta della prima evidenza dello sfruttamento dei ricchi giacimenti auriferi della regione.

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7. Il passaggio dal IV al III millennio tra continuità e discontinuità

Nel corso della I dinastia egiziana, secondo la maggior parte degli

studiosi che si sono interessati della storia basso-nubiana, la regione avrebbe conosciuto uno spopolamento quasi totale. Se non esistono sepolture del Gruppo A contenenti oggetti databili a fasi più tarde della I dinastia, questo non vuol dire però automaticamente che delle tombe senza oggetti importati non siano databili a fasi più recenti. Su questa base lo stesso Reisner aveva attribuito al Gruppo B, da lui considerato più o meno contemporaneo con l’Antico Regno egiziano, numerose tombe povere che ulteriori studi da parte di H.S. Smith hanno però dimostrato essere in realtà ascrivibili a segmenti più umili della popolazione del Gruppo A. L’osservazione cronologica basata sulla presenza di oggetti importati e sulla riclassificazione delle sepolture ascritte da Reisner al Gruppo B indicherebbe quindi una netta diminuzione della popolazione presente in Bassa Nubia tra 2900 e 2400 a.C. Tale ricostruzione è anche confermata dalle datazioni radiometriche del Gruppo A che non sembrano scendere oltre la I dinastia.

L’apparente sparizione della consistente popolazione del Gruppo A potrebbe essere spiegata con l’adozione di un sistema di vita più mobile. D’altra parte, i contatti del Gruppo A con gruppi pastorali o la presenza all’interno delle popolazioni basso-nubiane di una componente più spiccatamente pastorale e mobile sono stati suggeriti da numerosi studiosi e i confronti con le ceramiche provenienti da regioni desertiche circostanti evidenziati sistematicamente da una studiosa italiana, M.C. Gatto, potrebbero confermare tale ipotesi. Si potrebbe ipotizzare quindi una maggiore enfasi o addirittura una conversione della popolazione basso-nubiana a un’economia spiccatamente pastorale, con lo sfruttamento di aree marginali e una frequentazione solo stagionale e, forse, sporadica della valle del Nilo. Non si può escludere inoltre che una parte della popolazione si sia ritirata in aree del Deserto Occidentale e a sud della seconda cataratta, come suggerito tra l’altro da Williams, che ha individuato elementi di continuità tra le modalità di manifestazione del rango dei principi del

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Gruppo A sepolti a Qustul e quelle dei successivi sovrani di Kerma, in Alta Nubia.

Benché con modalità assai meno evidenti del passato, una certa parte della popolazione continuò però a essere presente e/o, forse, solo a frequentare stagionalmente la Bassa Nubia. Ciò è suggerito dalla presenza di due tombe scoperte presso Adindan che sono state recentemente attribuite ai secoli immediatamente seguenti la fine dell’occupazione del Gruppo A. Queste due tombe sono certamente nubiane per la tipologia della sepoltura e della struttura ma hanno restituito ceramica egiziana dell’Antico Regno e anche uno specchio e un’ascia in rame, forse del periodo arcaico. Leggermente più tarda è probabilmente una tomba doppia scoperta a Shellal, poco più a sud di Elefantina, che conteneva due asce in rame, ornamenti anche in oro e un braccialetto in avorio a forma di “V” (Fig. 13).

Figura 13: la tomba di Shellal. Da notare il braccialetto simile a quello riprodotto al braccio di un capo nubiano nel complesso funerario del re egiziano Sahure (da O’Connor, Ancient Nubia. Egypt’s Rival in Africa, Philadelphia 1993).

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Questo particolare tipo di ornamento personale ricorda i bracciali indossati dai prigionieri nubiani raffigurati nel complesso della piramide di Sahure, sovrano egiziano della V dinastia, e la rappresentazione di un nubiano su una stele funeraria di Helwan, presso Menfi, datata al periodo arcaico egiziano.Visto il pregio degli oggetti dei corredi, queste tombe potrebbero indicare che all’interno dei gruppi di nubiani che frequentavano la Bassa Nubia in questa fase continuava a esserci un’élite.

Sempre in questa fase, un fatto nuovo nel panorama archeologico della Bassa Nubia è rappresentato dalla presenza di insediamenti egiziani. Toshka Ovest ha restituito una stele della VI dinastia e il sito era frequentato fin da epoche anteriori, forse fin dalla IV dinastia, per reperire materiale da costruzione in cave nell’entroterra. Analogamente il sito di Tomas è stato frequentato nel corso della V e VI dinastia in relazione allo sfruttamento delle stesse cave. Anche le cave a 65 km a ovest di Abu Simbel erano sfruttate nel corso della IV e V dinastia. L’occupazione egiziana di questi siti minerari doveva essere periodica e non stabile. Difficile è invece definire l’esatta natura della presenza egiziana a Kubban, dove è stata scoperta ceramica dell’Antico Regno. Kubban era comunque in una posizione favorevole rispetto alle potenziali direttrici di penetrazione nel Deserto Orientale, come lo Wadi Allaqi. Frequentazioni egiziane fin da queste fasi sono state ipotizzate anche per Aniba e Ikkur ma senza consistenti elementi per confermare tali supposizioni.

Ben diverso doveva essere il carattere dell’occupazione di Buhen. I documenti e le strutture che questo sito ha restituito in seguito agli scavi condottivi da Emery, infatti, suggeriscono la presenza di un insediamento e di una struttura amministrativa con egiziani residenti in permanente contatto con la madrepatria. D’altra parte tali contatti potevano essere mantenuti sia attraverso le vie carovaniere del Deserto Occidentale, attraverso le oasi di Dakhla e Khargah o Kurkur e Dunkul e la strada di Toshka, sia attraverso la via della valle e del fiume, con possibili stazioni intermedie a Tomas e Kubban. La datazione del periodo di insediamento egiziano dell’Antico Regno a Buhen è stata effettuata attraverso le impronte di sigillo rinvenute. Si tratta infatti di impronte di sigilli cilindrici della IV e V dinastia. L’occupazione di Buhen potrebbe però essere iniziata anche prima

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della IV dinastia, vista la presenza di frammenti di ceramica della II dinastia.

Le cretule, applicate originariamente su rotoli di papiro, sacchi di cuoio e giare, oltre alla loro evidente valenza cronologica, offrono anche delle indicazioni circa l’inserimento organico del sito nell’amministrazione egiziana, che doveva mantenervi funzionari residenti in contatto con gli uffici nella madrepatria attraverso missive su papiro, e circa i contenitori e, in parte, la natura e origine dei prodotti che circolavano sul sito.

L’abitato rivela una frequentazione in più fasi di cui una almeno con un impianto regolare e una pianificazione rigorosa, con aree artigianali e forse orti al di fuori delle mura, una zona con magazzini e abitazioni all’interno delle mura. Nell’area artigianale si è anche rinvenuto un forno, originariamente interpretato come forno metallurgico, ma che era invece probabilmente utilizzato per la produzione della ceramica. Buhen era evidentemente un emporio statale, dove i beni controllati dall’amministrazione venivano immagazzinati e probabilmente anche in parte trasformati, prodotti e imballati, come indica l’area artigianale solo parzialmente scavata. Tra l’altro, il sito sorgeva in prossimità delle rapide della seconda cataratta, punto in cui convogli fluviali e carovane in transito potevano necessitare di un appoggio logistico per trasbordare le merci che viaggiavano lungo il Nilo.

A Buhen, peraltro, il 5% della ceramica associata ai livelli di frequentazione dell’Antico Regno non è egiziana ma nubiana. B. Gratien ha evidenziato come queste ceramiche mostrino caratteristiche intermedie tra il Gruppo A, la cultura Kerma dell’Alta Nubia e il successivo Gruppo C basso-nubiano. Ceramica del genere è stata peraltro rinvenuta seppur in quantità minime anche a Faras, Aniba e Sayala, nella zona dove nel Gruppo A finale era presente la ceramica fine detta “egg-shell”. La distribuzione di questa ceramica e le sue caratteristiche tipologiche paiono quindi compatibili con l’ipotesi precedentemente avanzata secondo cui, dopo il 2900 a.C., una parte della popolazione basso-nubiana si sarebbe ritirata ai margini meridionali della Bassa Nubia e una parte addirittura in Alta Nubia. Questa ceramica, come pure le poche tombe precedentemente

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descritte, confermano che comunque anche allora gruppi nubiani continuavano a frequentare la Bassa Nubia.

Se la sequenza cronologico-culturale rivela una certa discontinuità nell’occupazione della Bassa Nubia al passaggio tra IV e III millennio a.C., ben diversa appare la situazione nelle regioni immediatamente adiacenti ad essa.

In Alta Nubia non pare si sia verificata alcuna discontinuità culturale sostanziale tra la fase tardo-neolitica, detta Pre-Kerma, e la prima fase della successiva cultura Kerma, il Kerma antico, che pare risalire al 2500-2400 a.C. Se è infatti vero che non sono stati per il momento indagati contesti in cui sia evidente il passaggio dalla cultura Pre-Kerma a quella Kerma e che l’abitato Pre-Kerma indagato sotto la necropoli del sito eponimo venne apparentemente abbandonato, è altrettanto vero che la cultura materiale e, in particolare, la ceramica sembrerebbe dimostrare un certo grado di continuità tra le due fasi. Le differenze possono essere considerate più di scala che di qualità anche nella tipologia delle strutture di abitato, caratterizzate in ambedue le culture da edifici sia quadrangolari sia circolari e dalla distinzione di aree funzionali.

Nel Deserto Orientale nessuna evidenza raccolta è ascrivibile a questa fase ma ciò può essere più legato ai limiti delle nostre attuali conoscenze che a una reale discontinuità nell’occupazione della regione.

Nel Deserto Occidentale l’occupazione continuò, benché nelle condizioni di crescente aridità determinatesi a cavallo dell’inizio del III millennio a.C. Nella regione di Laqiya, nello Wadi Shaw, nel Sudan settentrionale, i siti di questa fase sono caratterizzati dalla presenza di ceramiche di tipo nubiano, a bocca nera e con superfici “rippled” associate a coppette egiziane di tipo Maidum della fine dell’Antico Regno. Come detto, non è escluso che il cambiamento delle modalità di occupazione della Bassa Nubia abbia favorito la frequentazione di queste regioni da parte di popolazioni che si muovevano stagionalmente fino ai margini della valle del Nilo per poi ritirarsi in regioni più interne del Deserto Occidentale. Le popolazioni che frequentavano l’area erano infatti probabilmente costituite da allevatori di caprovini e bovini la cui dieta era integrata anche con cacciagione reperibile in un ambiente ancora di steppa. Siti con

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industrie litiche caratterizzate da grandi quantità di perforatori suggeriscono anche la produzione di pendenti probabilmente in uovo di struzzo e quarzo.

Nel medio Wadi Howar, più a sud, continua senza iato l’orizzonte culturale detto, a causa delle caratteristiche decorazioni delle ceramiche, “Leiterband” e “Halbmondleiterband”. Anche le popolazioni che producevano queste ceramiche praticavano probabilmente un’economia pastorale, integrata con risorse della caccia e anche della pesca, visto che nell’area si dovevano ancora formare stagionalmente delle polle d’acqua. I siti di quest’epoca si caratterizzano per la presenza di pozzetti al cui interno sono state spesso rinvenute ceramiche associate con scheletri interi di bovini, forse depostivi nel quadro di attività rituali. Le ceramiche presentano degli inclusi minerali a base di sabbia che venivano impastati con l’argilla prima della cottura, forme a fondo arrotondato e spesso allungate fino ad assumere la caratteristica forma a sacco (“bag-shaped”), e una decorazione costituita da bande orizzontali di impressioni che coprono integralmente la superficie del vaso. Tali tecniche decorative pongono questa tradizione regionale in una linea di sviluppo graduale rispetto alle produzioni neolitiche sahariane e del Sudan centrale. Le industrie litiche sono peculiari e si discostano più nettamente da quelle neolitiche del Sudan centrale.

Singolarmente, dopo il 2800 a.C., una discontinuità simile a quella riscontrata in Bassa Nubia pare riguardare le aree rivierasche del Sudan centrale, che si erano caratterizzate proprio per la fioritura di vasti siti nel corso del Neolitico. Già nella fase tardo-neolitica, nella seconda parte del IV millennio a.C., però il numero dei siti era diminuito drasticamente, e agli inizi del III millennio a.C., la regione non offre più evidenze di occupazione sostanziale. Per queste fasi, le vestigia della frequentazione umana delle zone rivierasche del Sudan centrale sono pochi frammenti ceramici raccolti su alcuni siti già occupati precedentemente, come Geili e Kadada, dove sono state scoperte anche alcune tombe di questa fase, e alcuni frammenti ceramici da Gebel Makbor, su una superficie forse di abitato preservata fortunosamente dall’erosione perché coperta da più tardi tumuli post-meroitici (Fig. 14). Questi frammenti ceramici, tra cui ne spicca uno di possibile produzione egiziana, sono stati accostati alle

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produzioni del Kerma antico, cultura alto-nubiana databile tra la metà e la fine del III millennio a.C.

Figura 14: ceramica databile tra il 2500 e il 2000 a.C. dal sito di Gebel Makbor, uno dei pochi siti prossimi alla valle del Nilo nel Sudan centrale ad aver restituito resti di questa fase (da Lenoble, Archéologie du Nil Moyen, 2, 1987).

Se, come sembra plausibile, la diminuzione del numero di siti in questa regione va fatta risalire al tardo neolitico, pare dunque che il cambiamento sia stato più graduale e meno traumatico che in Bassa Nubia e, come proposto da I. Caneva, va forse messo in relazione all’adozione di un sistema di adattamento pastorale più mobile, con piccoli gruppi che utilizzavano solo campi temporanei e strutture leggere, per la loro stessa natura meno facilmente individuabili e indagabili archeologicamente. A tutto ciò vanno poi aggiunti l’azione dei fenomeni erosivi e i possibili danneggiamenti e le distruzioni legate alle più intense e successive fasi di uso dell’area. Va sottolineato che una pratica più intensiva della pastorizia potrebbe non essere necessariamente collegata a una diminuzione della gerarchizzazione sociale che si era sviluppata nel corso del Neolitico, anzi avrebbe potuto essere addirittura causa e/o effetto di un accentuarsi della stessa gerarchizzazione sociale. La maggiore enfasi

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sulla pastorizia transumante potrebbe essere infatti collegata all’incremento del numero dei bovini e, quindi, della ricchezza dei gruppi umani o, almeno, di alcuni individui al loro interno. Tutto ciò non giustifica in ogni caso il fatto che non siano sopravvissuti almeno alcuni dei centri tardo-neolitici, la cui esistenza avrebbe potuto ancora giustificarsi in relazione al loro ruolo di punti di scambio, magari stagionale, tra i vari gruppi che si che muovevano sul territorio. Verosimilmente, i grandi villaggi vennero abbandonati perché ne era venuto meno il ruolo, forse commerciale. In tale prospettiva, questo fenomeno potrebbe essere collegato al mutare degli equilibri nei circuiti regionali dopo la scomparsa del Gruppo A in Bassa Nubia.

Se il Sudan centrale pare conoscere solo tracce di frequentazioni sporadiche, il suo retroterra, il Butana, ha restituito prove più sostanziali di una continuità nella frequentazione umana. In particolare, rilevante da questo punto di vista è la sequenza di Shaqadud, dove una missione guidata da A.E. Marks ha indagato una serie di siti raggruppati intorno una piccola valle chiusa su tre lati da un massiccio granitico in cui si apre anche una grotta che fu anch’essa occupata nell’antichità. Evidentemente, la particolare conformazione dell’area ha contribuito a proteggere i siti dall’erosione, che, come già evidenziato, potrebbe essere un fattore non secondario nell’apparente scarsità di siti attribuibili a quest’epoca nell’area del Sudan centrale. Da questo punto di vista, quindi, l’area di Shaqadud potrebbe rappresentare un caso fortunato di conservazione di fasi di frequentazione altrove andate distrutte. Nella grotta di Shaqadud e immediatamente a valle di essa si è messa in luce una sequenza che va dal Mesolitico al Neolitico di Khartoum e a strati post-neolitici. Shaqadud offre quindi una straordinaria possibilità di seguire gli sviluppi e le transizioni tra queste fasi e ha anche restituito una consistente sequenza di campioni di materiali organici che è stato possibile datare col metodo del radiocarbonio collegando in questo modo gli sviluppi culturali con la cronologia assoluta. Il termine della sequenza può essere fissato proprio sulla base di queste datazioni al radiocarbonio intorno al 1500 a.C. circa.

La ceramica delle fasi post-neolitiche di Shaqadud si caratterizza per decorazioni “rocker” e geometriche impresse, per bande lungo l’orlo incise e impresse, per le impressioni di dita dette “fingernail”,

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per le decorazioni incise a spina di pesce e quelle a linee incise parallele. Nel corso del Mesolitico si è ipotizzato che il sito fosse occupato da gruppi locali, seppure in contatto con la valle del Nilo, che sfruttavano risorse derivanti dalla caccia e, soprattutto, dalla raccolta di piante selvatiche. Nel corso della fase con materiali archeologici di tipo neolitico l’economia era sorprendentemente ancora basata sulla caccia e la raccolta, senza alcuna evidenza della presenza di animali domestici. Proprio sull’allevamento di animali domestici doveva essere invece basato il sistema di adattamento della fase post-neolitica, caratterizzato nell’area di Shaqadud da altri piccoli siti, interpretabili proprio come campi di gruppi mobili che forse frequentavano stagionalmente anche la valle del Nilo ma che si muovevano soprattutto attraverso le steppe e, forse, verso regioni ancora più lontane, come la Gezira a ovest e il Sudan sudorientale a est.

Nella Gezira i siti di Rabak, Gebel Tomat e Gebel Moya hanno fornito tracce di consistenti fasi di occupazione post-neolitiche databili almeno al pieno III millennio a.C. Su tutti tali siti l’occupazione post-neolitica, detta anche “Jebel Moya Tradition” sembra impostarsi su più antichi depositi neolitici. Sul sito di Rabak, quello meglio noto, l’industria litica è caratterizzata da lunati e grattattoi in quarzo, ma gli strumenti chiaramente classificabili sono pochi in confronto alla grande quantità di schegge. La ceramica mostra un uso dello “scraping”, ovvero di un passaggio con uno strumento a pettine o un batuffolo di paglia sulle superfici non decorate prima della cottura del vaso, fin dalle fasi neolitiche. Tale tecnica è usata anche in fase post-neolitica associata spesso a orli pizzicati e/o impressi e insieme a vasi con motivi decorativi a spina di pesce su orli arrotondati e ispessiti, a pareti con impressioni di dita dette “fingernail” e a bande impresse e incise lungo gli orli. Tutti tali elementi sono presenti anche nel Sudan sudorientale in epoca grosso modo coeva e forse anche leggermente successiva, fino alla metà del II millennio a.C. Si noti comunque che all’interno della Jebel Moya Tradition potrebbero essere esistite facies locali anche molto diverse tra loro, come suggerito dall’assenza sul sito eponimo proprio di elementi come la ceramica “scraped” e “fingernail” rinvenuta invece a Rabak.

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Il Sudan sudorientale vede, nel corso della prima metà del III millennio a.C. il passaggio dalla cultura del Gruppo del Butana a quella del Gruppo del Gash. Benché ancora scarsamente indagato archeologicamente, tale passaggio pare essere stato graduale e all’insegna della continuità. Continuò infatti ad essere praticata un’economia mista agropastorale e una simile continuità si riscontra nella cultura materiale: anche il Gruppo del Gash, infatti, rientra nella Tradizione Ceramica dell’Atbai, iniziata con il Gruppo di Amm Adam nel VI millennio a.C.

Il Sudan e la Nubia al passaggio tra IV e III millennio a.C. paiono caratterizzarsi quindi per un articolato panorama in cui alla continuità di insediamento e di sviluppo culturale della maggior parte delle regioni si contrappone la discontinuità nell’insediamento della Bassa Nubia e del Sudan centrale. Le ragioni di queste discontinuità non possono essere climatiche e ambientali, vista l’assenza di ogni evidenza positiva per mutamenti di questa natura. Nel caso della Bassa Nubia la spiegazione dello iato non può prescindere dalla sorprendente coincidenza tra il sorgere degli insediamenti egiziani e la sparizione del Gruppo A e, poi, dalla coincidenza inversa tra l’abbandono degli insediamenti egiziani e il riapparire di una consistente popolazione nubiana intorno al 2400 a.C. Se la fondazione di insediamenti egiziani si configura come un fattore di spopolamento, ciò vuol dire che può essere stata accompagnata da una fase di ostilità tra egiziani e popolazione locale. Conferma delle intense attività militari egiziane in Nubia alla fine del IV millennio a.C. potrebbe sopravvivere nell’etichetta di giara in avorio da Abido del re Aha, dell’inizio della I dinastia, che mostra un prigioniero con un segno ad arco per identificarlo. Ta-Setj, la terra dell’arco è uno dei toponimi usati dagli egiziani per identificare la Nubia, però, secondo Trigger, Gauthier, Säve-Söderbergh e Leclant, l’arco in questo caso potrebbe anche identificare la parte più meridionale dell’Alto Egitto piuttosto che la Bassa Nubia. Più certa pare la testimonianza di una campagna contro la Nubia desumibile da una stele di Khasekhem, sovrano egiziano della II dinastia e dal rilievo rupestre di Gebel Sheik Suleiman, presso Buhen, dove uno serekh, ovvero la rappresentazione della facciata del palazzo reale, sormontato da un falco è associato all’immagine di un prigioniero, identificato anche qui con un arco, a

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dei simboli a ruota, forse associabili al più tardo determinativo geroglifico per indicare le città o i distretti della valle, a una barca con un secondo prigioniero inginocchiato e a corpi di uomini caduti in battaglia. Nonostante Helck abbia messo in dubbio il fatto che lo serekh potesse essere attribuito al re egiziano Djer, come originariamente proposto, l’attribuzione a qualche sovrano dell’inizio della I dinastia egiziana è generalmente accettata dagli studiosi mentre è rigettata l’ipotesi di Williams che si tratti di un monumento di qualche principe nubiano sepolto a Qustul e che commemori un intervento nubiano in Egitto.

La politica di incursioni da parte degli egiziani continuò anche nella IV dinastia, come attestato dalla Pietra di Palermo, che menziona per un anno di regno di Snefru una campagna nel paese dei Nubiani (Ta Nehes) con la cattura di ben 7000 prigionieri e 200000 capi di bestiame. Al di là della possibile esagerazione del numero di capi di bestiame, la consistenza del bottino potrebbe indicare che la campagna fosse rivolta contro le popolazioni pastorali della Bassa Nubia e delle regioni vicine o addirittura contro l’Alta Nubia, regione certo più adatta per le sue caratteristiche ecologiche all’allevamento intensivo di bestiame. I nemici dei Snefru non sono indicati con l’usuale segno dell’arco ma con l’etnonimo Nehesy, che potrebbe indicare, proprio come poi il greco aithiops e il latino africanus, le popolazioni dalla pelle scura.

Queste iniziative militari egiziane certamente sottoposero le popolazioni della Bassa Nubia a uno stress notevole e possono aver contribuito all’adozione di strategie di adattamento come quella pastorale che comportassero una maggiore mobilità e, quindi, una minore esposizione al pericolo di attacchi militari. Inoltre, questi documenti attestano per la prima volta la chiara volontà politica egiziana di assicurare la sicurezza delle frontiere meridionali e delle regioni contigue attraverso l’uso sistematico della forza. Una politica aggressiva di questo tipo può difficilmente essere giustificata in questa fase con minacce esterne alla sicurezza dello stato faraonico e va probabilmente collegata al tentativo di controllare le aree attraverso cui passavano le vie commerciali che portavano in Egitto le materie prime africane. L’ipotesi di W.Y. Adams secondo cui queste campagne militari sarebbero state finalizzate anche a procurarsi

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schiavi, non può essere invece confermata, mancando di ogni riscontro. Per quel che ne sappiamo, il commercio di schiavi non pare inoltre aver rivestito grande importanza in epoca faraonica. Lo sviluppo dello stato faraonico aveva evidentemente aumentato la domanda di materie prime per soddisfare le esigenze della corte e, conseguentemente, aveva aumentato l’interesse per la sicurezza delle vie attraverso cui molte di queste materie prime arrivavano dall’entroterra africano spingendo, forse, l’Egitto a eliminare il più settentrionale degli intermediari lungo tali piste, costituito proprio dal Gruppo A. Adams ha considerato la seconda metà del IV millennio a.C. come l’inizio della gestione centralizzata del commercio, e questa ipotesi è verosimile. I primi dati testuali e quelli archeologici relativi alla distribuzione dei materiali importati all’interno dell’Egitto stesso lasciano infatti intravedere un commercio strettamente controllato da una corte centralista e redistributiva.

Tale politica da parte egiziana causò o almeno contribuì al crollo di un sistema di relazioni regionali imperniato sul Gruppo A basso-nubiano che lasciò più spazio all’iniziativa delle popolazioni dell’Alta Nubia e, forse, dei bassopiani eritreo-sudanesi e della Gezira. Come vedremo, proprio nei bassopiani eritreo-sudanesi e in Alta Nubia almeno dalla metà del III millennio a.C. si assiste a un accentuato sviluppo della gerarchizzazione sociale, forse in relazione a un loro crescente coinvolgimento nelle reti di contatto.

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8. La Nubia e l’Egitto dell’Antico Regno

Dopo la campagna di Snefru, sovrano della IV dinastia egiziana, ricordata nella Pietra di Palermo, di cui si è detto in precedenza, nessun documento menziona campagne militari e spedizioni di qualunque tipo verso la Nubia fino alla VI dinastia. Ciò non vuol dire però che non ci siano stati contatti tra l’Egitto e le regioni meridionali: la stessa Pietra di Palermo menziona infatti, l’importazione dalla regione di Punt di 8000 misure d’incenso, 6000 misure di metallo prezioso, forse elettro, e bastoni, probabilmente bastoni da lancio utilizzati nella caccia, durante il regno di Sahure, della V dinastia. La regione di Punt, che incontreremo spesso come fonte di materie prime preziose quali sostanze aromatiche, elettro, ebano, animali vivi e pelli di animali, va probabilmente localizzata nel Sudan sudorientale e/o nell’Eritrea settentrionale. Le relazioni commerciali con Punt, attestate per la prima volta in modo esplicito nella Pietra di Palermo, potrebbero però essere iniziate anche in epoca anteriore. Purtroppo la Pietra di Palermo non dà indicazioni circa le modalità con cui questo contatto con Punt ebbe luogo. Contemporaneamente, come visto, l’evidenza archeologica di Buhen e di altri siti basso-nubiani ci informa circa le attività degli egiziani in Bassa Nubia.

Alla fine della V dinastia, però, i centri egiziani in Bassa Nubia furono abbandonati. Poco dopo, nel corso della VI dinastia, i documenti epigrafici riguardanti spedizioni egiziane in Nubia aumentano notevolmente. Contestualmente all’abbandono degli insediamenti egiziani, la documentazione archeologica sembra suggerire un nuovo intensificarsi dell’occupazione umana della Bassa Nubia, con la comparsa di gruppi umani la cui cultura materiale è stata detta da G.A. Reisner Gruppo C. Alla luce di quanto sappiamo del Gruppo C nelle sue fasi più antiche, l’abbandono degli insediamenti egiziani non può essere spiegato con minacce militari esercitate da popolazioni della Bassa Nubia. Più probabile appare che gli insediamenti egiziani in Bassa Nubia siano stati abbandonati perché lo scopo per cui erano stati creati non era più attuale. Se ammettiamo che il loro scopo fosse di fungere da luoghi di raccolta e scambio per prodotti che probabilmente affluivano dal Sud attraverso una catena di

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intermediari, il loro abbandono potrebbe essere spiegato dal sorgere in regioni più meridionali di analoghi terminali che gestivano i contatti con gli egiziani. Questa spiegazione sembra compatibile con quanto sappiamo per quelle fasi della storia sociale dell’Alta Nubia, dove, come già visto, si accelerava uno sviluppo verso forme sempre più articolate di organizzazione sociale. Ciò comportò evidentemente un cambiamento di strategia egiziana e l’organizzazione di spedizioni verso i nuovi potentati che fungevano da terminali commerciali e che erano localizzati a sud della seconda cataratta. Queste spedizioni rappresentavano peraltro un tipo di impresa ideale per poter evidenziare le capacità organizzative dei funzionari egiziani al servizio del sovrano e ciò spiega perché siano divenute ben presto un tema molto diffuso nelle iscrizioni delle tombe dei funzionari stessi. La produzione di testi di tale tipo fu inoltre certamente favorita dall’importanza crescente dei nomarchi, ovvero dei governatori locali, alla fine della VI dinastia. Molti dei testi di cui parleremo provengono infatti dalle tombe dei nomarchi di Elefantina che, con il titolo di “guardiano della porta del Sud” o “sovrintendente delle truppe del Sud”, conducevano le spedizioni nelle regioni meridionali. Come vedremo, questi testi sono ricchi di indicazioni utili a ricostruire la situazione politica della Nubia immediatamente dopo la metà del III millennio a.C.

Le prime informazioni utili a ricostruire la situazione nelle regioni immediatamente a sud dell’Egitto sono contenute nella biografia di Uni. Uni fu incaricato nel corso del regno di Pepi I di organizzare una spedizione militare in un luogo detto “Naso di Gazzella”, probabilmente nella regione palestinese. Nell’armata organizzata a tal fine da Uni figurano truppe originarie dei paesi meridionali di Irchet, Medja, Iam, Uauat, Kau e dell’occidentale Temeh. Si tratta di un’attestazione del reclutamento di mercenari meridionali, attività cui si riferiscono probabilmente anche i numerosi graffiti di quest’epoca di “preposti alle truppe straniere” nell’area di Tomas e di Toshka, in Bassa Nubia (Fig. 15). Questo titolo era portato anche da altri personaggi che incontreremo in seguito, come Harkhuf e Sabni, e era probabilmente connesso non solo al reclutamento ma anche al comando di queste truppe. In questo passo della biografia di Uni è quindi attestata una serie di nomi geografici che si riferiscono a

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regioni dell’entroterra africano ma è difficile specificare se si tratti di puri toponimi, di etnonimi, di nomi di potentati o di diverse di queste cose insieme. Come vedremo, è questo un problema con cui ci si confronterà più volte studiando i testi egiziani relativi alle regioni meridionali e che è in genere difficile da risolvere.

Figura 15: rappresentazione di un nubiano a caccia nel deserto su una coppa databile alla VI dinastia, da Qubber el-Hawa, presso Assuan. L’abilità dei nubiani come cacciatori e guerrieri ne favorì l’impiego come mercenari in Egitto almeno fin da queste fasi (da Kuper in Egypt and Nubia. Gifts of the Desert, Londra 2002).

Nel caso concreto dell’iscrizione di Uni, il senso dei nomi geografici ci è chiarito da un passo dello stesso testo. Nel corso del regno di Merenra, successore di Pepi I, infatti, Uni fu incaricato dello

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scavo di cinque canali nell’area della prima cataratta, probabilmente per rendere meglio navigabili alcuni tratti del fiume e facilitare il trasporto di materiali edilizi estratti nelle cave di Toshka e destinati alla costruzione della piramide del sovrano. In quell’occasione i capi di Irchet, Uauat, Iam e Medja fornirono il legno di acacia per la costruzione di battelli. Inoltre, sempre nel corso del regno di Merenra, l’iscrizione di Uni ricorda che i capi di Medja, Irchet e Uauat resero omaggio al faraone in occasione di una sua visita nella regione della prima cataratta. Grazie a questi due episodi, abbiamo la prima esplicita notizia testuale relativa alla presenza di diversi potentati meridionali.

Nella biografia di un nomarca di Elefantina di nome Harkhuf si narra di tre spedizioni a carattere commerciale avvenute nel corso del regno di Merenra e di una svoltasi durante quello di Pepi II (Fig. 16).

Figura 16: le tombe dei nomarchi di Elefantina, presso Assuan. Molti dei testi della fine dell’Antico Regno che ci danno importanti informazioni sulla Nubia provengono da questi contesti (da M. Damiano, Oltre l’Egitto: Nubia, Milano 1985).

Il fine principale di questi viaggi era commerciale, ma non si può escludere che contestualmente fossero anche condotte attività politico-

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diplomatiche finalizzate a mantenere aperte le piste per il Sud e a garantire gli interessi egiziani. Il gran numero di iscrizioni rupestri di funzionari egiziani documentate nella zona di Toshka e di Tomas potrebbe essere considerato prova della frequenza dell’invio di tali spedizioni che avrebbero quindi potuto essere più frequenti di quanto si possa desumere dai testi biografici a noi noti. Significativamente, ci si preoccupava anche di formare giovani funzionari che avrebbero poi dovuto condurre simili spedizioni, come si può supporre sulla base della presenza del padre di Harkhuf, Iri in occasione della prima spedizione menzionata nella biografia, che, quindi, avrebbe potuto rappresentare per il giovane Harkhuf una specie di apprendistato.

Tale spedizione, come le tre successive, era diretta in una regione nota come Iam e durò sette mesi. La seconda durò otto mesi e Harkhuf, essendosi incamminato sulla “pista di Elefantina” o, forse, “dell’avorio”, passò per altre regioni, Irchech, Macher, Tereres, Irchet e Sachu e raggiunse infine Iam. In questo viaggio si citano due capi per Sachu e Irchet. Nel corso del terzo viaggio si utilizzò invece la “pista delle oasi” e Harkhuf intervenne nel conflitto tra il capo di Iam e quello di Cemeh. Avendo compiuto la sua missione commerciale a Iam e avendovi ricevuto una scorta di reclute, Harkhuf rientrò in Egitto passando per Irchet, Sachu e Uauat. In questa occasione si cita un solo capo non solo per Sachu e Irchet ma anche per Uauat. Il quarto viaggio avvenne nel corso del regno di Pepi II e terminò con l’arrivo in Egitto di un pigmeo di Iam. Questo evento era considerato straordinario e poteva essere confrontato solo con un analogo arrivo di un pigmeo di Punt per opera del “tesoriere del dio” Baurded avvenuto molto tempo prima, al tempo del re Gedkare-Isesi, della V dinastia. Un altro elemento interessante che emerge dall’iscrizione di Harkhuf è il legame tra Iam e Hator che si coglie nell’espressione “Hator signora di Imaau”, dove quest’ultima è probabilmente una variante del toponimo Iam.

Da quanto detto finora, si evince l’estremo interesse delle biografie di questi funzionari per la definizione della situazione geopolitica della Nubia intorno al 2300 a.C. Nondimeno, le potenzialità di questi documenti sono in parte vanificate dall’incertezza nella localizzazione delle regioni e dei potentati menzionativi.

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Sulla base dell’iscrizione di Harkhuf, ad esempio, sono state proposte diverse ipotesi sulla localizzazione di Iam e, conseguentemente, delle altre regioni attraversate per raggiungerla. Secondo Edel, calcolando che le carovane potevano compiere 15 km al giorno e un soggiorno di 10 giorni a Iam, Harkhuf avrebbe potuto percorrere tra i 1500 e i 1700 km e, quindi, Iam avrebbe dovuto essere localizzata in Alta Nubia, forse nella regione di Kerma, raggiungibile sia attraverso le piste del Deserto Occidentale sia seguendo il Nilo. Le altre regioni menzionate nell’iscrizione sarebbero quindi da localizzarsi più a nord, probabilmente in Bassa Nubia. Yoyotte ha proposto una simile localizzazione per Irchet, Sachu e Uauat ma ha suggerito per Iam una posizione eccentrica, fuori della valle del Nilo, benché in connessione con le altre regioni. Visto che Iam era connessa a Cemeh e potendo essere raggiunta attraverso la “pista delle oasi”, Yoyotte ha infatti proposto di identificarla con l’oasi di Dunkul. Sempre per giustificare l’utilizzazione da parte di Harkhuf della “pista delle oasi”, Goedike ha localizzato Tereres e Irchech, altre due toponimi menzionati nella biografia di Harkhuf che, secondo lui, erano regioni di Iam, nel Deserto Occidentale, forse a Dunkul e Kurkur, Irchet nella zona di Tomas e Iam a Kharga. O’Connor ha invece localizzato Uauat in Bassa Nubia, Irchet e Sachu in Alta Nubia e Iam, in accordo anche con un’ipotesi già avanzata da Erman, alla confluenza tra Nilo e Atbara. Questa zona poteva infatti essere raggiunta sia attraverso le piste nilotiche sia quelle del deserto.

La scoperta di un insediamento egiziano della VI dinastia a Balat, nell’oasi di Dakhla dimostra che alla fine dell’Antico Regno Dakhla e forse Kharga erano occupate direttamente dagli egiziani, forse proprio in relazione alla necessità di controllare la parte settentrionale di quella “via delle oasi” citata da Harkhuf. Recentemente, resti egiziani dell’Antico Regno sono stati rinvenuti anche più a sud, nel Deserto Occidentale sudanese, confermando una frequentazione faraonica di tali regioni. Se l’identificazione delle oasi maggiori con Iam è dunque decisamente improbabile, difficile pare anche l’identificazione con le oasi minori, come Dunkul, che, anche in fasi di umidità maggiore dell’attuale, non avrebbero mai potuto offrire sufficienti risorse per sostenere una popolazione numericamente così ampia da fornire mercenari all’Egitto. L’iscrizione di Uni ricorda poi il contributo in

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legno di Iam alla costruzione di battelli sul Nilo, cosa che pare decisamente improbabile se si accetta una sua localizzazione in una regione remota del Deserto Occidentale. Dal punto di vista demografico, le sole regioni del Deserto Occidentale caratterizzate da condizioni ecologiche tali da permettere la fioritura di un regno di una certa rilevanza sono il Kordofan o il Darfur, ma anche in questo caso la difficoltà che regioni così remote potessero fornire legname agli egiziani rende l’ipotesi di localizzarvi Iam decisamente poco credibile. Queste considerazioni sembrano dunque favorire una localizzazione della terra di Iam in Alta Nubia o alla confluenza tra Nilo e Atbara.

Nel primo caso Harkhuf, nel suo secondo viaggio, sarebbe partito da Elefantina attraverso la “pista di Elefantina” o, forse, “dell’avorio”. Nel terzo viaggio sarebbe partito, a seconda delle ipotesi dei vari studiosi, da This, Diospolis Parva, Abido o, forse da Menfi, e, utilizzando la “pista delle oasi”, cioè Dakhla e Kharga, sarebbe arrivato a Selima, e di lì, volgendosi a est, sarebbe giunto nella regione di Kerma. Nel caso di una localizzazione di Iam alla confluenza tra Nilo e Atbara, invece, mantenendo tutti i possibili punti di partenza e l’itinerario fino a Selima, Harkhuf avrebbe seguito il letto dello Wadi el Qaab, a ovest dell’Alta Nubia e poi lo Wadi Abu Dom, fino alla confluenza tra Nilo e Atbara.

L’intervento di Harkhuf nel contrasto tra i capi di Iam e di Cemeh non contraddice la localizzazione lungo il Nilo di Iam e può essere spiegato con uno dei ricorrenti contrasti tra i gruppi di allevatori semi-nomadi del deserto e quelli di allevatori e agricoltori sedentari della valle del Nilo. Si può anche pensare che il capo di Iam, interessato come gli egiziani alla sicurezza delle piste, volesse eliminare, per proteggere il commercio, il pericolo rappresentato dalle popolazioni Cemeh lungo le piste del Deserto Occidentale. Nel caso di una localizzazione lungo il Nilo di Iam, qualunque essa fosse, va comunque giustificata l’utilizzazione della “pista delle oasi” nel corso del terzo viaggio di Harkhuf. Bisogna quindi ammettere che Harkhuf dovesse sbrigare degli affari lungo la pista delle oasi o che ci fossero dei problemi lungo la “pista di Elefantina” o “dell’avorio”, non addebitabili, evidentemente, alle cataratte: i problemi da esse causati alla navigazione non potevano certo rendere impraticabili le piste rivierasche. C’erano forse delle difficoltà politiche, che possiamo

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immaginare essere legate alla formazione di un potentato politico sempre più centralizzato in seno ai gruppi nubiani che è testimoniata dalla menzione di due heka, ovvero principi, per Irchet e Sachu nel racconto del secondo viaggio e di un solo capo per Irchet, Sachu e Uauat nel corso del terzo. Non bisogna necessariamente pensare che il nuovo potentato politico fosse ostile all’Egitto, ma certamente il consolidamento di un potentato di tali dimensioni poteva creare condizioni d’insicurezza e disordini nelle regioni interessate. Così si spiegherebbe nel corso del terzo viaggio un ritorno attraverso Irchet, Sachu e Uauat solo dopo essersi dotati di una scorta di reclute di Iam. Il nuovo potentato nubiano poteva avere comunque almeno potenzialmente delle pretese di controllo sulle direttrici commerciali nord-sud che erano senz’altro sgradite sia all’Egitto sia a Iam.

L’instabilità della Nubia è per questa fase confermata dall’iscrizione di Sabni: il padre di questo funzionario fu ucciso nel corso di un viaggio in Nubia e Sabni ne riscattò il corpo scambiandolo con derrate alimentari e unguenti. Notizie di disordini militari in Nubia in questo periodo sono tramandate anche dall’iscrizione di Pepinakht, che ricorda una campagna militare a Uauat e Irchet avvenuta nel corso del regno di Pepi II. Le due regioni erano forse allora di nuovo divise, visto che il funzionario portò alla corte del faraone i principi delle due regioni insieme ai loro figli.

L’instabilità delle direttrici nilotiche potrebbe spiegare i tentativi di stabilire delle relazioni marittime attraverso il Mar Rosso con le regioni di produzione delle materie prime cui gli egiziani erano interessati che sembrano intensificarsi in questa fase. D’altro canto, le spedizioni verso Punt erano continuate anche nel corso della V dinastia, come indicato dall’iscrizione di Harkhuf, che ci offre una conoscenza indiretta di una spedizione a bia-Punt, la miniera di Punt, condotta dal “tesoriere del dio” Baurded nel corso del regno di Gedkare-Isesi. Sfortunatamente non abbiamo altre informazioni sulle modalità con cui fu effettuata questa spedizione come pure su quella avvenuta nel corso del regno di Sahure, sempre della V dinastia. Ma anche sul fronte delle spedizioni marittime non mancarono i problemi: sotto il regno di Pepi II, Pepinakht condusse anche una campagna contro una popolazione detta “Aamu heryu-sa”, ovvero “gli asiatici che abitano le sabbie”, giustificata dal fatto che queste popolazioni

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avevano attaccato il “capitano dei marinai e capo delle carovane” Anankhet, mentre preparava una spedizione verso Punt. La menzione degli asiatici potrebbe suggerire che l’episodio si svolse sulla costa nordoccidentale del Mar Rosso o, forse, nel Sinai. L’inscrizione di Khenemhotep sulla tomba di Khui datata al regno di Pepi II e molte altre iscrizioni della fine dell’Antico Regno scoperte nel Deserto Orientale egiziano e, in particolare, lungo lo Wadi Hammamat ci offrono informazioni su più fortunate spedizioni verso il Mar Rosso. In particolare, Khenemhotep afferma di essere stato molte volte (11 ?) a Keben, cioè Biblo, e a Punt insieme al “tesoriere del dio” Tjetj e al suo collega Khui. Gli stessi Tjetj e Khui sono menzionati anche in iscrizioni rupestri dello Wadi Hammamat, che forse fu utilizzato intensamente anche perché era meno esposto delle piste più settentrionali agli attacchi degli Aamu ostili.

Gli ultimi documenti egiziani che ci informino sulla Nubia alla fine dell’Antico Regno sono alcuni testi di esacrazione, ovvero testi destinati all’espletamento di rituali magici contro potenziali nemici dell’Egitto. Tra questi ultimi vi sono dei nomi di genti e dei toponimi preceduti dalla qualifica generale di nehesyu, che forse indicava in generale le genti di colore: Irchet, Uauat, Sachu, Iam, Kaau, Iankh, Masit. Il cambiamento di direzione della scrittura apre in seguito un’altra sezione composta da Medja e Meterti. Per alcuni di questi nomi, alla luce di quanto ci è noto da altri testi, possiamo affermare che si tratta di nomi di potentati e si potrebbe estendere la stessa qualifica anche agli altri. Ancora una volta Irchet, Sachu e Uauat precedono Iam forse per una localizzazione più prossima all’Egitto suggerita anche dalle iscrizioni di Uni e Harkhuf. Mentre Irchet precedeva forse Sachu e Uauat in ragione di una sua preminenza politica.

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9. Il Gruppo C e il ripopolamento della Bassa Nubia

I documenti epigrafici della fine dell’Antico Regno, qualunque localizzazione si scelga per le regioni più meridionali menzionatevi, suggeriscono che la Bassa Nubia fosse allora popolata piuttosto densamente, visto che vi si erano riorganizzati gruppi gerarchizzati. In effetti, contemporaneamente all’abbandono degli insediamenti egiziani compare in Bassa Nubia la cultura del Gruppo C, secondo la denominazione che le diede Reisner all’epoca della prima campagna di salvataggio dei monumenti nubiani.

Le origini di questa cultura sono state recentemente riconsiderate alla luce della presenza di elementi ceramici e di architettura funeraria tipici del Gruppo C, come le stele, nelle prime fasi di sviluppo della cultura Kerma, databili intorno al 2500 a.C. Altri elementi utili alla comprensione delle origini di questa cultura sono le somiglianze con la cultura materiale del Gruppo A, la somiglianza tra la più antica ceramica del Gruppo C e i materiali nubiani rinvenuti negli strati dell’Antico Regno a Buhen e la presenza di materiali che sono simili a quelli del Gruppo C anche in alcune aree del Deserto Occidentale. Alla luce di queste somiglianze e della distribuzione spaziale dei materiali pare verosimile che la cultura del Gruppo C sia derivata dalla precedente cultura del Gruppo A e si sia sviluppata nelle aree dove le popolazioni basso-nubiane si erano ritirate intorno al 2900 a.C. in relazione alla probabile adozione di un sistema di adattamento più mobile e alle pressioni militari egiziane. Naturalmente, nel Deserto Occidentale e in Alta Nubia lo sviluppo da cui scaturì la cultura del Gruppo C avvenne nell’ambito di intensi rapporti con le popolazioni locali di quelle regioni.

Il Gruppo C è stato suddiviso da Manfred Bietak sulla base dello sviluppo di elementi della cultura materiale quali le strutture funerarie e la ceramica in varie vasi, la cui datazione assoluta è stata effettuata grazia alla presenza di materiali importati egiziani: Gruppo C I/a dal 2300 al 2040 a.C., I/b dal 2040 al 1900 a.C., II/a dal 1900 al 1750 a.C., II/b dal 1750 al 1550 a.C., III dal 1550-1400 a.C.

Le sepolture mostrano infatti uno sviluppo delle soprastrutture da semplici tumuli sostenuti da un muretto in pietra circolare a

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costruzioni cilindriche, con cappella o area di offerta addossate al tumulo (Fig. 17).

Figura 17: sepoltura e recipienti ceramici del Gruppo C I a. Si noti la tipica ceramica decorata con incisioni e la stele la cui presenza caratterizzava nelle fasi più antiche alcuni settori delle necropoli (da Bietak, Studien zur Chronologie der Nubischen C-Gruppe Kultur, Akademie der Wissenschaften in Wien, Phil.-Hist. Klasse, Denkschrift, 97, Vienna 1968).

Le strutture sotterranee passano da semplici fosse circolari o ovali a camere protette da lastre in pietra che, nella fase II/b, sono rivestite di

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mattoni crudi e talora coperte da una volta a botte sempre in mattoni crudi. Nelle tombe più antiche della fase I/a è anche attestato l’uso di stele che erano erette tra le soprastrutture a tumulo. Il defunto era deposto in posizione contratta e talora, a partire dalla fase II/a, probabilmente per influenza della cultura alto-nubiana di Kerma, su un letto funerario. Il corredo funerario era costituito da ornamenti personali locali e importati dall’Egitto, tessuti, specchi in bronzo, vestiti in cuoio, armi, tra cui spade e archi, e figurine in ceramica sia antropomorfe sia zoomorfe rappresentanti bovini e caprovini. La ceramica era deposta nelle fosse e/o nella cappella o nell’area di offerta accanto la soprastruttura.

La gerarchizzazione sociale non è molto evidente nei cimiteri del Gruppo C. Per questo, secondo la maggior parte degli studiosi, la popolazione del Gruppo C era articolata in piccoli gruppi guidati da capi. D. O’Connor però ha evidenziato nel cimitero N ad Aniba la presenza nelle prime fasi del Gruppo C di aree della necropoli caratterizzate da soprastrutture delle tombe più larghe e di altre aree dove erano esclusivamente utilizzate le stele, mentre larghi settori della necropoli contengono tombe con soprastrutture di dimensioni medio-piccole e senza stele. Queste differenziazioni rifletterebbero secondo O’Connor un’articolazione sociale del Gruppo C maggiore di quanto comunemente ritenuto. Interessante è notare come a partire dal 1900 a.C. le tombe di Aniba tornino ad avere tutte caratteristiche dimensionali omogenee, quasi che la gerarchizzazione fosse venuta improvvisamente meno. Anche in questo caso, come per la fine del Gruppo A, la spiegazione del fenomeno probabilmente risiede nell’intervento militare egiziano all’inizio del Medio Regno che si concluse con l’annessione della Bassa Nubia allo stato faraonico.

La ceramica del Gruppo C rinvenuta nei cimiteri è caratterizzata dal passaggio da forme non profonde e spesso appuntite a forme più profonde e emisferiche. La decorazione dei vasi politi e incisi cambia anch’essa da motivi con settori rettangolari allungati riempiti di incisioni, spesso evidenziate da paste coloranti, a settori triangolari, appuntiti o a losanga sempre riempiti di incisioni. Nelle aree di abitato il corpus ceramico è caratterizzato da decorazioni a spina di pesce o incise incrociate sulla parte superiore del vaso, simili a quelle della cultura Pangrave.

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Gli insediamenti del Gruppo C noti sono rari rispetto al numero di necropoli indagate (Fig. 18).

Figura 18: due abitati del Gruppo C. Da notare come quello da sinistra, Wadi es Seboua, più tardo, riveli delle preoccupazioni difensive non ancora visibili negli insediamenti delle fasi più antiche, come quello di Sayala a destra (rispettivamente da Sauneron in Bulletin de l’Institut Français d’Archéologie Orientale, 63, 1965, e Bietak, Studien zur Chronologie der Nubischen C-Gruppe Kultur, Akademie der Wissenschaften in Wien, Phil.-Hist. Klasse, Denkschrift, 97, Vienna 1968).

Tale scarsità può essere spiegata con il fatto che molti villaggi

sarebbero stati obliterati da abitati più tardi. Non è però escluso che questo fenomeno rifletta un sistema di adattamento per cui una certa parte della popolazione viveva dispersa in piccoli accampamenti o abitazioni isolate che hanno lasciato poche tracce archeologiche. Anche i siti del Gruppo C a noi noti non eccedono infatti mai i 4 ettari di estensione. Da un punto di vista della tipologia delle strutture abitative, si può seguire un passaggio dalle semplici tende o capanne circolari sorrette da pali della fase I, scoperte a Aniba e a Sayala, a complessi che combinavano stanze e cortili curvilinei o rettangolari dalla fase II, messi in luce a Aniba e a Areika. Queste ultime strutture erano costruite con lastre di pietra verticali su cui erano eretti muri in pietre intonacate e tenute insieme da fango. A partire dalla fase II/b è segnalato l’uso del mattone crudo. La struttura di Areika, costruita nella fase II/a, appare molto organizzata, con una parte orientale, dove si sono trovati forni, granai, giare da stoccaggio e recinti, destinata alla

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confezione del pane e della birra e forse alla custodia degli animali e una parte occidentale con ambienti caratterizzati da banconi in muratura addossati alle pareti che fanno immaginare un suo uso eminentemente abitativo. Inizialmente il sito era interpretato come la residenza di un capo nubiano. Alcuni sigilli rinvenutivi fanno invece pensare che si trattasse dell’acquartieramento parzialmente fortificato di un’unità militare nubiana al servizio degli egiziani. Una forte componente egiziana è evidente anche nella ceramica di Areika, il 30% della quale proviene proprio dall’Egitto. Un altro abitato interessante è quello di Wadi el Arab, dove si coglie bene il passaggio da forme irregolari al centro dell’edificio alla maggiore regolarità delle ali aggiunte in un secondo momento. A partire dalla fase II/b i villaggi del Gruppo C rivelano qualche preoccupazione di carattere difensivo, ben evidenziata nel caso del villaggio fortificato di Wadi es-Sebua, protetto su un lato da una ripida scarpata sul Nilo e sull’altro da mura irregolari in pietra con feritoie per permettere il tiro degli arcieri. Anche la struttura di Areika fu fortificata nella fase II/b con un muro di difesa.

La presenza nell’ambito delle decorazioni incise sulla ceramica del Gruppo C e sulle stele del Gruppo C I/a di figurazioni di bovini, di scene di allattamento del vitello da parte della giovenca e di caprovini e pastori unitamente anche alla diffusione nei contesti del Gruppo C di statuette di bovini e caprovini in argilla ha suggerito agli studiosi che i mezzi sostentamento di questa popolazione derivassero in gran parte da un’economia pastorale. Adams ha tuttavia rilevato come questa enfasi su motivi collegati alla vita pastorale nella decorazione ceramica e di altri oggetti della cultura materiale potrebbe rivelare solo un’importanza ideologica del bestiame piuttosto che una sua reale prominenza in ambito economico. Trigger ha notato per parte sua come le grandi necropoli e i villaggi basso-nubiani noti per queste fasi facciano pensare piuttosto a una popolazione stabile e non transumante e come in molti insediamenti del Gruppo C siano presenti delle strutture a pianta rotonda interpretabili come granai. Le poche indagini archeozoologiche dimostrano in effetti un’importanza dei caprovini più che dei bovini, la pratica della caccia alla gazzella nelle steppe circostanti la valle del Nilo e della pesca e raccolta di molluschi d’acqua dolce nella valle stessa. A favore della tradizionale ipotesi

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dell’importanza dei bovini nell’economia del Gruppo C milita invece la presenza in cimiteri dell’area di Adindan di ossa, crani e pelli di bovini e anche l’uso dello sterco animale, probabilmente bovino, come tempera della ceramica. Probabilmente la strategia di adattamento di questi gruppi era più articolata di quanto si possa immaginare, con grandi variazioni dell’equilibrio tra le varie attività di sussistenza praticate sia nello spazio sia nel corso tempo.

Vista la presenza di oggetti importati dall’Egitto nelle sepolture del Gruppo C, gli scambi con l’Egitto dovettero rivestire una certa importanza economica per questi gruppi. Oltre che con un ruolo commerciale che alcuni gruppi basso-nubiani probabilmente rivestirono lungo le piste che portavano in Egitto merci e materie prime africane, la presenza degli oggetti egiziani, specie di quelli di particolare pregio, si spiega anche con il pagamento delle prestazioni d’opera dei nubiani espatriati, che, come già evidenziato a proposito dei riferimenti in alcuni testi egiziani della VI dinastia, servivano spesso in qualità di mercenari nelle armate egiziane. Va comunque notato che la presenza degli oggetti importati dall’Egitto è tutt’altro che costante. La distribuzione quantitativa della ceramica egiziana in contesti del Gruppo C pare cambiare nettamente intorno al 1900 a.C., quando diviene singolarmente rara, peraltro insieme agli altri oggetti importati dall’Egitto. Questo andamento potrebbe essere spiegato con l’emarginazione dei gruppi basso-nubiani dai circuiti di scambio tra l’Egitto e le regioni dell’entroterra africano avvenuta nel momento in cui i primi sovrani del Medio Regno conquistarono la Bassa Nubia.

La fase finale della cultura del Gruppo C termina introno al 1400 a.C., dopo circa un secolo dalla riaffermazione del dominio egiziano sulla Bassa Nubia da parte dei primi sovrani del Nuovo Regno, e è caratterizzata da una progressiva adozione di costumi e cultura materiale egiziani, ben evidente, ad esempio, nell’ambito dei costumi funerari, in cui la tradizionale postura contratta dei defunti è sostituita dalla deposizione in posizione distesa sulla schiena.

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10. La Nubia e l’Egitto del Medio Regno

È difficile definire sulla base dei tesi egiziani cosa accadde in Nubia nel corso del Primo Periodo Intermedio. Come visto, alla fine dell’Antico Regno, i testi egiziani ci mostrano fenomeni di aggregazione politica che furono probabilmente favoriti anche dal disimpegno egiziano legato all’indebolimento dello stato faraonico. Il fatto che non abbiamo più notizia di spedizioni commerciali o militari egiziane verso il Sud non indica però automaticamente che in tale fase i rapporti tra Egitto e Nubia siano venuti meno. Probabilmente gli scambi si svolsero in condizioni meno rigide rispetto al precedente commercio di corte e con un ruolo più attivo delle popolazioni meridionali.

In questa fase è anche attestata una consistente presenza di nubiani in Egitto. Infatti, i contrasti intestini all’Egitto favorirono l’utilizzazione di mercenari nubiani, che sono menzionati presso Hatnub tra i partigiani di un nomarca di Hermopoli. Presso Assiut sono stati scoperti modellini di arcieri nubiani di quest’epoca e le stele di un gruppo di mercenari da Gebelen e Naqada non solo confermano la presenza dei nubiani ma suggeriscono anche il loro inserimento nella società egiziana.

Anche le poche tracce di presenza egiziana in Bassa Nubia databili a questa fase potrebbero essere riconducibili alle attività di reclutamento. Tra queste vanno ricordate delle iscrizioni rupestri dei re Uadjkare, Kakare-Intef e Ibkentre. Sfortunatamente l’identificazione di questi personaggi con sovrani egiziani noti resta incerta, visto che nomi e titoli corrispondono solo in parte a quelli di re di questo periodo conosciuti da documenti rinvenuti sul suolo egiziano.

Una vera e propria iniziativa politica egiziana in Nubia ricominciò solo nella XI dinastia, nel corso del regno di Nebhetepre Mentuhotep II. Dei blocchi del tempio di tale sovrano a Gebelen sono decorati con scene di trionfo sui nemici meridionali, ma potrebbe trattarsi di scene di circostanza non collegabili a uno specifico e reale episodio storico. Un’incisione rupestre scoperta vicino ad Assuan riporta il nome di Tjehmau, un mercenario nubiano, che si sarebbe spinto con il sovrano

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fino a un luogo chiamato Ben, probabilmente Buhen. Nel testo frammentario si fa anche menzione di Uauat. In Bassa Nubia numerosi altri graffiti recano i nomi reali di Mentuhotep o di Intef. Sotto Nebhetepre Mentuhotep II, il “guardiano dei sigilli reali” Akhtoy, detto Khety, condusse in Nubia delle spedizioni alla ricerca di metalli e pietre preziose, talora incontrando delle resistenze. In un caso si ricorda l’utilizzazione di battelli di Uauat.

Sembra quindi che in questa prima fase del Medio Regno l’egemonia egiziana sia stata reinstaurata in Bassa Nubia fino alla zona di Buhen, compresa forse nella regione di Uauat. Contestualmente potrebbe essere ripresa anche l’esplorazione delle carovaniere a fini commerciali e di sfruttamento minerario. Il controllo delle piste era fondamentale per l’Egitto anche nel Deserto Occidentale. Come si è visto nel capitolo relativo all’attività egiziana in Nubia nel corso dell’Antico Regno, queste piste erano intimamente connesse con le direttrici di comunicazione con il Sud: significativamente in un’iscrizione di questa fase da El Ballas la conquista di Uauat è associata al controllo di Uehat, ovvero l’oasi, toponimo probabilmente identificabile con Dakhla e Kharga.

Nonostante queste iniziative, però, lungo le carovaniere nilotiche non tutti i problemi dovevano essere stati risolti. Anche le spedizioni verso il Deserto Orientale e il Mar Rosso infatti ricominciarono, suggerendo che si cercasse una via alternativa a quella della valle del Nilo per raggiungere le regioni più meridionali. Nello Wadi Hammamat, l’inscrizione di Henenu, datata al regno di Sankhara Mentuhotep III della XI Dinastia ci informa di una spedizione che, al fine di sfruttare le cave di diorite e di costruire un battello per raggiungere Punt, scavò almeno 15 pozzi nella regione. Tra i fini dell’impresa c’era il reperimento dell’incenso dai “capi della Terra Rossa”, “Hekau Desheret”, ovvero del deserto. In questo caso, quindi, si può dubitare che Punt fosse stata effettivamente raggiunta e forse i suoi prodotti potevano essere trovati in un qualche altra regione sulla costa del Mar Rosso, anche più a nord della stessa Punt. In ogni caso, la menzione dei “capi della Terra Rossa” potrebbe suggerire che una qualche forma di organizzazione politica si fosse sviluppata tra le genti che abitavano alcune aree della costa del Mar Rosso o del Deserto Orientale.

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Anche per quel che riguarda la politica verso il Sud come per numerosi altri aspetti la XII dinastia si pose in un rapporto di continuità rispetto alla dinastia precedente. Nel ventinovesimo anno di regno di Amenemhat I, un’inscrizione di Korosko ci informa di una campagna contro Uauat. Il nomarca Khnumhotep I commemora nella sua iscrizione funeraria una campagna che condusse nel corso del regno di Amenemhat I contro i meridionali della regione della cataratta. Sotto Sesostri I le operazioni in Nubia e nelle oasi si svolsero parallelamente: Gediku fu mandato da Tebe nell’Oasi per delle operazioni militari o, forse per una semplice azione di guarnigione, mentre in Nubia si intraprendeva una politica di espansione militare. In questo quadro, importante fu la campagna condotta in Nubia dal “generale” Mentuhotep, narrata in una stele scoperta a Buhen (Fig. 19).

Figura 19: la stele del generale Mentuhotep, rinvenuta nella fortezza di Buhen, contiene una delle più antiche attestazioni del nome geografico Kush. Nella lunetta, il dio Horo, patrono di Buhen, conduce a Sesostri I dei prigionieri con le mani legate dietro la schiena e sul cui petto sono scritti i nomi delle regioni sottomesse, secondo un’iconografia destinata a divenatre tipica di questo genere di monumenti (da Smith, The fortress of Buhen: the inscriptions, Londra 1976).

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L’obbiettivo dell’azione militare in questo caso non è più Uauat ma una regione nota come Kush, toponimo destinato a avere grande diffusione nei testi egiziani e a essere poi utilizzato anche nel Vicino Oriente per indicare la Nubia. Tale nome venne forse inizialmente utilizzato per indicare una precisa area geografica e/o un potentato politico ma divenne poi anche una designazione più generale per le regioni a sud dell’Egitto. Queste accezioni non sono in contrasto: in una certa fase, come si vedrà, vista l’importanza assunta da tale potentato meridionale, le relazioni tra Egitto e il Sud coincisero con le relazioni tra Egitto e Kush.

Nella stele di Mentuhotep rinvenuta a Buhen Kush precede tutti gli altri nomi geografici poiché si trattava probabilmente del potentato più importante tra quelli menzionati che rappresentano altre regioni o potentati che gli erano subordinati. Tra questi c’è Imau, composto di Ima a sua volta variante di Iam. Iam non è dunque un toponimo che ricorre esclusivamente in testi dell’Antico Regno, come preteso da alcuni, e sostituito da Kush nelle fasi successive. La presenza contemporanea di Iam e Kush sulla stele di Mentuhotep dimostra che i due nomi geografici non erano sentiti dagli egiziani come sovrapponibili né geograficamente né politicamente. L’iscrizione potrebbe lasciare intendere sia che Iam fosse una regione controllata dal potentato di Kush sia che Iam fosse una regione non controllata ma piuttosto alleata di Kush. Peraltro anche i testi di esacrazione dell’inizio del Medio Regno fanno un elenco di potentati nominati con i loro principi e menzionano di nuovo Kush, Saat, altro toponimo presente anche sulla stele di Mentuhotep e identificabile con l’isola di Sai, e il nome composto Iam-nas, forse formato dall’unione di Iam e Nas. Nei testi di esacrazione, nel caso di Iam-nas viene fatto il nome come sovrano di una principessa. I testi di esacrazione della metà e della fine del Medio Regno continuano a menzionare Kush tra i potentati potenzialmente ostili mentre Ima-nas, altro toponimo derivato Iam, non è elencato tra i potentati ma tra le regioni abitate dagli africani, indicati dall’etnonimo nehesyu.

È stato proposto che alcuni dei nomi geografici presenti nei testi di esacrazione fossero tramandati nel corso dei secoli e che avessero poca attinenza con la realtà politica. L’esistenza di un potentato identificato dal nome Iam o da sue varianti non può però essere messa

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in discussione almeno per gli inizi del Medio Regno in relazione alla sua menzione sulla stele di Mentuhotep che ricorda un circostanziato avvenimento bellico. Inoltre, se ammettiamo che Iam fosse stata inserita nei testi di esacrazione solo per rispetto alla tradizione, resterebbe inspiegato l’uso di varianti del nome e la mancanza invece di altri nomi geografici attestati come Iam dalla fine dell’Antico Regno. Se si accetta quindi che anche i testi di esacrazione potrebbero riflettere il mutare di condizioni politiche reali, all’inizio del Medio Regno Iam avrebbe potuto essere una realtà ancora autonoma ma alleata a Kush. In seguito Iam perse la sua indipendenza o sparì, almeno per gli egiziani, come entità politica, forse proprio a causa della presenza di Kush.

Come è evidente, queste considerazioni sono rilevanti per il problema della localizzazione di Iam, lasciato precedentemente insoluto: il fatto che per gli egiziani Kush e Iam non coincidono rende infatti difficile localizzare Iam nella regione di Kerma che, come vedremo, sia sulla base delle evidenze archeologiche sia sulla base dei dati testuali, andrà identificata proprio con la capitale di Kush. Ciò sembra suggerire quindi una localizzazione di Iam altrove in Alta Nubia, verosimilmente a sud di Kerma, o in regioni ancora più meridionali. Anche il fatto che Iam, caso unico a mia conoscenza, sia una regione in cui la regalità potesse essere esercitata da una principessa, “hekat” nel testo egiziano, la rende accostabile alla sola altra regione meridionale all’Egitto dove la donna pare avere avuto un qualche ruolo politico preminente, ovvero Punt. La Punt rappresentata agli inizi del Nuovo Regno nei rilievi di Deir el-Bahari, infatti, è caratterizzata, come si vedrà con maggior dettaglio, proprio dalla preminenza della moglie e della figlia del capo di Punt. Si noti che Iam è accostabile a Punt anche per alcuni dei suoi prodotti già ricordati da Harkuf, come l’incenso, i bastoni da lancio e per la possibilità di reperirvi dei pigmei. Inoltre la stessa iscrizione di Harkuf ricorda che Iam, come Punt, il Sinai e Biblo, altre regioni di produzione di prodotti apprezzati dagli egiziani, era posta sotto la tutela di Hator. Iam è quindi accostata più a aree di produzione di beni, come appunto Punt, Biblo e il Sinai che a regioni di transito, come quelle nubiane, facendo propendere per una sua localizzazione a sud dell’Alta Nubia. Inoltre, il fatto che la progressiva unificazione di

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Irchet, Sachu e Uauat che si verificò alla fine dell’Antico Regno non abbia apparentemente minacciato Iam, sembra attestare una sua localizzazione nel remoto Sud piuttosto che in Alta Nubia. Nondimeno, anche se l’ipotesi di una localizzazione di Iam a sud dell’Alta Nubia, forse, secondo la teoria di O’Connor, alla confluenza tra Atbara e Nilo, sembra per questi motivi possibile, la questione resta aperta in attesa di ulteriori dati archeologici o testuali. Naturalmente, se si accetta la localizzazione più meridionale per Iam, Irchet e Sachu potevano essere in Alta Nubia e Uauat in Bassa Nubia, localizzazione quest’ultima confermata anche dai testi dell’inizio del Medio Regno. La presenza a Tomas e Toshka di graffiti di funzionari egiziani dell’Antico Regno inviati a combattere Irchet, Sachu e la stessa Uauat non può essere decisiva ai fini della loro localizzazione, in quanto prova solamente il passaggio in quell’area di personaggi in viaggio per quelle regioni.

Il mutare degli equilibri in Nubia tra la fine dell’Antico e l’inizio del Medio Regno è testimoniato anche dall’apparente diminuzione di importanza di nomi geografici come Irchet e Sachu. Questo fenomeno non può certo essere addebitato a una diminuzione dell’interesse egiziano per delle regioni che dovevano essere localizzate lungo il Nilo e, quindi, lungo la principale direttrice di comunicazione verso il Sud. Forse i nomi di determinate aree e potentati erano cambiati in relazione a cambiamenti della loro situazione politica. Forse l’emergere di Kush nel corso del Primo Periodo Intermedio, fenomeno su cui non abbiamo dati testuali, fu causa della sparizione di altri potentati. Alla fine della VI dinastia la situazione politica nubiana era infatti assai movimentata, confusa e, dunque, propizia alla formazione di nuovi potentati.

Subito dopo l’affermazione del suo potere su Uauat, Amenemhat I iniziò a costruire le fortezze che dovevano proteggere la seconda cataratta e, più a nord, lo sbocco sul fiume delle piste che conducevano alle zone di interesse minerario del Deserto Orientale. La catena di imponenti forti in mattoni crudi che scaturì da questa iniziativa di Amenemhat I continuata dai suoi successori rappresenta uno dei sistemi di fortificazioni più articolati e meglio noti del mondo antico. Adams ha spiegato l’imponenza delle fortezze della seconda cataratta con la “tendenza egiziana” alla “ipertrofia delle strutture”, lo

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stesso Adams così come Trigger hanno sottolineato l’importanza commerciale che queste strutture, costruite in una delle zone a più difficile navigabilità del Nilo, dovevano rivestire. Le fortezze avrebbero infatti potuto proteggere la fase del trasbordo delle mercanzie per facilitare il superamento delle cataratte. Uno scivolo per battelli rivestito di argilla, scoperto non lontano dal forte di Mirgissa e destinato a far scivolare le barche oltre gli ostacoli della cataratta, conferma, benché indirettamente e con qualche incertezza riguardo alla datazione della struttura in questione, il ruolo di punti di appoggio anche commerciali che le fortezze potevano avere. Emery ha sottolineato in ogni caso che le fortezze non si giustificano certo con la necessità di controllare militarmente Uauat e le popolazioni del Gruppo C che dal 2400 a.C. popolavano la regione. Trigger ha notato appropriatamente come mano a mano che si ampliano le nostre conoscenze sulla situazione a sud della seconda cataratta, anche le fortezze trovano una loro giustificazione in relazione a possibili minacce che potevano giungere da quell’area.

I testi dell’inizio del Medio Regno evidenziano anche chiaramente l’importanza mineraria della Nubia: Amenemhat, nomarca di Beni Hasan condusse insieme al principe ereditario Ameny una spedizione alla ricerca di oro forse proprio verso la Nubia. La scoperta di una bilancia di precisione del Medio Regno a Semna e la posizione stessa del forte egiziano di Kubban, alla foce dello Wadi Allaqi, principale direttrice di comunicazione con la più importante zona aurifera del Deserto Orientale, sembrano confermare l’importanza dello sfruttamento minerario. Significativamente, a Kubban, nel corso del regno di Sesostri I, c’era un funzionario addetto allo sfruttamento delle risorse aurifere e una stele di Edfu menziona l’oro di Kush.

Le campagne militari che volevano intimidire i meridionali e assicurare la posizione egiziana anche da un punto di vista commerciale continuarono anche nel corso del regno di Sesostri I, come ricordato da Amenemhat nomarca di Beni Hassan, che nella sua iscrizione funeraria ricorda un conflitto militare antecedente l’anno di regno 43 di quel sovrano. Una tavola di offerta con il nome di Sesostri I è stata rinvenuta a Argo, in Alta Nubia, e potrebbe esservi giunta nel corso di questa spedizione ma anche in un’epoca successiva a questa.

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Sesostri I diede anche un impulso alle attività commerciali nel Mar Rosso, forse per garantire l’afflusso di prodotti dal Sud nonostante le perduranti situazioni di insicurezza lungo le direttrici nilotiche. Nel corso del regno di questo sovrano i documenti rinvenuti nell’area di Wadi Gawasis ricordano una serie di spedizioni a Punt. Lo sbocco sul mare dello Wadi Gawasis, detto Mersa (la parola mersa in arabo indica un approdo) Gawasis, sulla costa egiziana del Mar Rosso, doveva rappresentare il punto di partenza e di arrivo di queste spedizioni. In particolare, l’iscrizione del visir Antefoker commemorava la costruzione di navi per una spedizione a bia-Punt nei cantieri di Coptos (Fig. 20).

Figura 20: il testo di Antefoker, visir di Sesostri I, da Mersa Gawasis. Vi si narra la costruzione e il trasporto da Coptos fino al Mar Rosso di navi destinate a una spedizione a bia-Punt. In basso a sinistra è elencato con le varie qualifiche il personale della spedizione: in totale 3756 uomini (da Abdel Monem Sayed in Revue d’Egyptologie, 29, 1977).

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Da lì la navi erano inviate smontate fino al porto di Mersa Gawasis dove erano rimontate: ne restano ancora le ancore utilizzate, al loro ritorno, per costruire una specie di naos commemorativo del viaggio. Un’altra iscrizione commemora una spedizione avvenuta nel corso del regno di Sesostri I e guidata da un funzionario di nome Ankhu, ma potrebbe riferirsi allo stresso episodio ricordato nel testo di Antefoker. Il cartiglio di Sesostri I è presente anche su un ulteriore frammento di iscrizione. La sola quantità di documenti epigrafici suggerisce un uso intenso del porto in questa fase, come confermato anche dalla quantità di frammenti di ceramica talora recanti iscrizioni dipinte in ieratico rinvenuta su quel sito. Alcune di queste iscrizioni esplicitano la destinazione dei vasi o, meglio, del loro contenuto: Punt. Non si può escludere però che alcune spedizioni fossero anche dirette al Sinai. Su alcune stele di Mersa Gawasis ricorre anche il toponimo composto bia-Punt, ovvero la miniera di Punt, già attestato come meta della spedizione del “tesoriere del dio” Baurded nel corso del regno di Gedkare-Isesi, di cui vi è menzione nell’iscrizione di Harkhuf. Fin dai documenti relativi a Punt della V dinastia era apparso chiaro come quella regione fosse assai ricca non solo di aromi ma anche di risorse minerali e, in particolare, di metalli preziosi. L’utilizzazione del porto di Mersa Gawasis continuò anche nel corso del regno di Amenemhat II, come documentato da una stele di Khentketuer, proveniente dallo Wadi Gasus, non distante da Mersa Gawasis, che commemora una spedizione a Punt nell’anno 28 del sovrano e ci permette di identificare Mersa Gawasis con il posto di Sauu. La stele di Khenemhotpe, sempre dallo Wadi Gasus, ricorda l’erezione di monumenti del re Sesostri II nella regione di Ta-Necher, ovvero, alla lettera, la “Terra del Dio”. Questo toponimo sembra più legato a concetti religiosi che a una regione geografica precisa: in genere indica regioni a sud/sud-est o anche a nord-est dell’Egitto e ricorre talora anche al plurale “Terre del Dio”. Nel nostro caso “Terra del Dio” potrebbe indicare Punt, ma anche il Deserto Orientale stesso o il Sinai. Due frammenti ceramici con iscrizioni ieratiche dipinte provano l’utilizzazione di Mersa Gawasis anche nel corso del regno di Sesostri III. L’uso di un porto lungo la costa del Mar Rosso nel corso del regno di questo sovrano potrebbe smentire l’ipotesi avanzata da alcuni studiosi sulla base di alcuni passi di autori greci circa l’esistenza di un

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canale tra Nilo e Mar Rosso voluto dallo stesso Sesostri III. Una delle iscrizioni ieratiche menziona 400 reclute ma ciò non implica automaticamente l’effettuazione di operazioni belliche nella regione, visto che le reclute potevano essere state usate anche per operazioni pacifiche come il trasporto e il rimontaggio di imbarcazioni. La più tarda attestazione dell’uso del porto risale al regno di Amenemhat III quando due distinte spedizioni furono condotte a Punt e bia-Punt. Un’altra stele stilisticamente attribuibile alla fine della XII-inizi della XIII dinastia indica una frequentazione del sito anche in tali fasi ma purtroppo il testo assai mal conservato non permette di stabilirne i motivi.

In Nubia l’attenzione rivolta alla linea di difesa della seconda cataratta continuò nel corso dei regni di Amenemhat II e Sesostri II, come dimostrato dall’ispezione condotta da un funzionario di nome Hapu nelle “fortezze di Uauat”. Anche lo sfruttamento minerario delle regioni contigue alla Nubia proseguì nel corso del regno di Amenemhat II a cui è datata la stele de Sihator scoperta ad Abido che menziona una miniera forse nell’area vicina al forte di Semna. Un notevole impulso alle attività militari in Nubia venne da Sesostri III. Due iscrizioni dell’ottavo anno di regno ricordano lo scavo di due canali presso l’isola di Sehel in occasione di una campagna contro “la vile Kush”. Altre campagne si svolsero negli anni decimo, dodicesimo, sedicesimo, e diciannovesimo. La stele di frontiera di Semna è anch’essa datata all’anno ottavo di regno: la campagna militare di quell’anno si concluse dunque con lo stabilimento formale di una frontiera. La stele esplicita tra l’altro le finalità delle fortezze della seconda cataratta che erano non solo militari e di difesa ma anche commerciali. Nella stele di Semna era infatti prevista per i nubiani la possibilità di oltrepassare pacificamente la frontiera nel caso in cui si volessero recare alla fortezza di Iken, forse Mirgissa, per scambiare i loro prodotti. A sud di Semna evidentemente il commercio non era sotto controllo egiziano e probabilmente era gestito da Kush. Una stele di Semna ricorda anche il bottino della campagna dell’anno sedicesimo, che consisteva in bestiame e messi e ciò, insieme alla menzione della conquista di pozzi, suggerisce che l’azione militare riguardò sia regioni prossime al Nilo sia regioni più interne, dove il controllo dei pozzi poteva avere una grande

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importanza. Alla fine della campagna dell’anno sedicesimo la sicurezza della frontiera meridionale fu ulteriormente garantita dalla fondazione del forte di Uronarti, dove fu eretta un’iscrizione gemella di quella di Semna. La campagna dell’anno diciannovesimo del regno di Sesostri III è documentata dall’iscrizione dedicatoria di Sisatet a Abido, in cui il dedicante offre alla divinità diversi tipi di legno, dell’oro di Kush, dell’elettro, della malachite e vari tipi di pietre preziose provenienti dal bottino della spedizione.

Ancora alla fine della XII dinastia il controllo della frontiera meridionale era molto stretto: i dispacci di Semna, lettere su papiro di responsabili militari del regno di Amenemhat III mostrano l’attenzione con cui l’amministrazione egiziana seguiva tutti i movimenti dei nehesyu e dei medjau. Anche Amenemhat IV è menzionato in iscrizioni di Kumna. A Semna la stele di un comandante di nome Renseneb e i livelli del Nilo registrati nell’ anno quarto di regno di Sekhemere-Khutauy della XIII dinastia attestano il riconoscimento del potere di questo sovrano negli avamposti meridionali del regno. Anche il controllo delle oasi è attestato fino alle fasi finali del Medio Regno: alla fine della XII dinastia o all’inizio della XIII dinastia data l’iscrizione di Inu, che portava il titolo di “generale dell’armata delle oasi” e della fine della XIII dinastia è un sigillo dell’“amministratore delle oasi” Igaihotep.

La conferma che Kush non sia stata in queste fasi la sola regione a destare l’interesse degli egiziani viene dalla stele di Sebekkhu, detto Zaa, scoperta ad Abido e databile al regno di Sesostri III in cui sono ricordati dei prigionieri medjau, forse catturati nel corso di campagne verso il Deserto Orientale. D’altro canto, nello Wadi Hammamat, nel Deserto Orientale, le attività egiziane dovevano essere intense, come dimostrano le stele di Khui e di Amenemhat figlio di Ibet (?), forse da mettere in relazione con lo sfruttamento minerario dell’area ma che potrebbero anche essere collegate all’uso delle carovaniere verso il Mar Rosso nel corso dei regni di Sesostri III e Amenemhat III.

Alla fine del Medio Regno a Buhen le stele del “conduttore delle carovane” Gedi-(sobek) e quella del “capo della flottiglia” Neferu provano forse lo svolgersi in tali fasi di attività commerciali, non sappiamo però se questi personaggi rispondessero delle loro azioni all’amministrazione egiziana o già a quella di Kush, che ben presto,

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come vedremo assunse il controllo della Bassa Nubia. L’indebolimento della presenza egiziana in Bassa Nubia non implicava comunque un’automatica ostilità tra nubiani e egiziani, come evidenziato dalla visita di notabili medjau a Tebe documentata dal papiro Bulaq 18.

Alla fine della XII o agli inizi della XIII dinastia potrebbe essere attribuito il papiro 1115 dell’Ermitage che contiene un’opera narrativa frammentaria nota come “Racconto del Naufrago”. L’argomento è una spedizione verso le “miniere del re”, probabilmente il Sinai, che si concluse con un naufragio: il solo superstite dell’equipaggio di una nave di 120 per 40 cubiti approdò allora su un’isola magica governata da un serpente gigantesco, con il corpo incrostato di oro e gemme, “il re di Punt”. Il finale del racconto, benché mutilo, sembra comunque essere stato lieto. Il naufrago infatti rientrò in Egitto con una nave carica di tutte le meraviglie dell’isola, come profumi, spezie, code di giraffa, zanne di avorio, cani da caccia e scimmie. Conti Rossini ha rilevato la somiglianza di questo “re di Punt” con il mitico re serpente della tradizione etiopica che avrebbe governato il paese in epoca precristiana. Conti Rossini pensava che questo mito etiopico racchiudesse elementi anteriori all’arrivo dei sudarabi nel I millennio a.C. La spiegazione per la presenza di un re serpente nel racconto egiziano e nella tradizione etiopica è, per Conti Rossini, legata all’affiorare in ambedue i casi di un medesimo sostrato cushitico. Va notato però che se il “Racconto del Naufrago” fosse espressione di un sostrato cushitico in Egitto ci aspetteremmo una vicenda ambientata nello stesso Egitto e non in una regione straniera e mitica. Nelle numerose varianti etiopiche, infatti, il serpente non è mai sovrano di una terra straniera. Per questo, non è escluso che nel racconto egiziano sopravvivano elementi di una mitologia non egiziana, magari appresi proprio nel corso di viaggi nelle regioni del Mar Rosso meridionale.

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11. Kerma: la più antica città nubiana

Come detto, la discontinuità nel popolamento che si verificò in Bassa Nubia intorno al 3000 a.C. non trova riscontro in Alta Nubia, dove la cultura Pre-Kerma pare evolvere gradualmente nel Kerma antico, il cui inizio è posto intorno al 2500-2400 a.C. La cultura Kerma prende il suo nome dal moderno abitato di Kerma, presso cui è localizzato il sito archeologico eponimo, uno dei più importanti dell’attuale Sudan e di tutta l’Africa. In particolare, questo sito ha restituito le evidenze di un insediamento che può essere a pieno titolo definito urbano e che fu la capitale del più antico regno africano a noi noto, quello chiamato Kush nelle fonti egiziane dal Medio Regno in poi.

Il sito di Kerma è stato segnalato da Lepsius e poi indagato sistematicamente da G.A. Reisner agli inizi del secolo passato. Reisner condusse scavi estensivi nella parte centrale dell’abitato, intorno alla grande struttura in mattoni crudi nota come Deffufa occidentale e nella necropoli, dove, in un tumulo monumentale della parte meridionale del cimitero, scoprì dei resti di statue di Hapydjefay, nomarca di Assiut e della moglie Sennuy, databili al regno di Sesostri I, e, a fianco dell’entrata della Deffufa orientale, un’altra grande struttura in mattoni crudi, una stele di un funzionario egiziano di nome Antef che reca una data al trentatreesimo anno di regno di Amenemhat III, sempre della XII dinastia. Nella stele di Antef si commemora il restauro delle “mura di Amenemhat”, toponimo che Reisner interpretò come il nome antico del sito di Kerma. Sulla base della presenza di questi e altri oggetti egiziani, Reisner ritenne che Kerma fosse un insediamento egiziano fondato in Nubia all’epoca di Sesostri I e ancora fiorente all’epoca di Amenemhat III. In seguito, nel corso del Secondo Periodo Intermedio, secondo Reisner, l’influenza egiziana si sarebbe indebolita e gli elementi culturali locali si sarebbero affermati. Nella parte centrale e settentrionale del cimitero Reisner scavò delle tombe che si dimostrarono di dimensioni in media minori rispetto a quelle del settore meridionale e che contenevano meno attestazioni di contatti con l’Egitto. Reisner attribuì queste sepolture proprio alla fase tarda e decadente della vita dell’insediamento. Nell’area dell’abitato,

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la Deffufa occidentale, un monumentale edifico in mattoni crudi con un alzato imponente ancora preservato, venne interpretato da Reisner come una fortezza della guarnigione egiziana del Medio Regno. La struttura si distingueva però per la posizione lontana dal fiume, per la tecnica costruttiva, a muri lisci e con piccoli ambienti all’interno, e per le limitate dimensioni dalle imponenti fortezze costruite sulla seconda cataratta dai primi sovrani della XII dinastia.

La menzione nei documenti egiziani a partire dal Medio Regno di un potente regno nubiano di Kush suggerì a studiosi come T. Säve Söderbergh, W.Y Adams e B.G. Trigger che proprio a questo regno nubiano potessero essere in realtà attribuiti i resti di Kerma. Un riesame completo della documentazione archeologica disponibile, condotta dopo lo scavo della necropoli dell’isola di Sai, che aveva restituito materiali simili a quelli di Kerma, condotto da B. Gratien, ha permesso di definire compiutamente la cultura archeologica nota oggi come cultura Kerma, di stabilirne la periodizzazione, di rivedere la cronologia del cimitero di Kerma, che ebbe uno sviluppo da nord a sud, ovvero inverso a quello ipotizzato da Reisner, e di confermare l’attribuzione degli imponenti resti archeologici di Kerma proprio al potente regno nubiano di Kush. Sulla base dello studio della ceramica e dei costumi funerari la Gratien ha potuto distinguere tre fasi di sviluppo della cultura Kerma: Kerma antico tra 2500 e 2050 a.C., Kerma medio tra 2050 e1750 a.C. e Kerma classico tra 1750 e 1550 a.C., cui le indagini della Missione Svizzera, che da molti anni opera a Kerma sotto la guida di Charles Bonnet, ha potuto aggiungere anche un Kerma finale datato tra 1550 e 1400 a.C. Proprio grazie al lavoro di questa missione è oggi possibile avere un’idea abbastanza dettagliata dello sviluppo della necropoli e dell’abitato di Kerma (Fig. 21).

La città era protetta da bastioni e terrapieni fin dal Kerma antico: tracce di una parte della cinta del Kerma antico sono state forse rinvenute sotto le più antiche fasi di costruzione della Deffufa occidentale. Almeno fin dal Kerma medio tali difese avevano assunto andamenti tondeggianti, forse per favorire il tiro degli arcieri. Le fortificazioni, spesso erette sopra terrapieni, erano rafforzate anche dalla presenza di fossati. I terrapieni del Kerma classico hanno fondazioni in pietra profonde più di due metri e dello spessore di 1,5-2 metri e erano affiancati da fossati profondi fino a 7 metri.

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Figura 21: pianta della città di Kerma nel momento della massima espansione, tra 1700 e 1500 a.C. Si noti, al centro della città la grande piazza su cui affaccia la Deffufa occidentale, in grigio, e la grande struttura circolare interpretata come sala delle udienze del sovrano. La città è circondata da fossati e terrapieni difensivi evidenziati dalle ombreggiature (da Bonnet in Genava 2003).

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Le base delle mura era caratterizzata da palizzate contro i lavori di sottoscavo, mentre la sommità era probabilmente coronata da fortificazioni in mattoni crudi. Gli ingressi alla città si presentano a ovest, est e a nord come zone spianate e sgombre di edifici che penetrano attraverso le fortificazioni fino al centro cittadino. A ovest, nel Kerma classico, l’ingresso verso il porto e il fiume era difeso da fortificazioni a terrapieno sormontate da bastioni in mattoni crudi con casematte. Un declivio conduceva a una specie di porta monumentale delimitata da due bastioni arrotondati che davano accesso a una stretta strada verso la piazza centrale dell’abitato, su cui affacciavano la Deffufa occidentale e una grande struttura circolare cui erano associati dei magazzini e un palazzo, collegato a sua volta alla Deffufa occidentale da una direttrice che possiamo considerare cerimoniale. Successivamente, i fossati in questa zona sono stati riempiti e la linea di difesa spostata più a ovest, lasciando posto a un secondo palazzo sempre databile al Kerma classico. In effetti lo sviluppo della città, che giunse a un’estensione di circa 20 ettari, comportò degli ampliamenti della cita muraria, con un avanzamento in alcuni punti di circa 20 m delle fortificazioni del Kerma classico rispetto a quelle del Kerma medio.

Il palazzo del Kerma classico si caratterizzava per la presenza al centro di una sala del trono, a ovest di grandi granai con recinti forse per animali e a est di ambienti abitativi. Il vestibolo della sala del trono conteneva una specie di vasca in cui si sono ancora rinvenuti 5000 piccoli cilindretti in terra sigillaria non ancora usati e destinati a sigillare contenitori e missive. La sala del trono, con grandi pilastri al centro, ricorda l’architettura delle tipiche cappelle Kerma, con pianta rettangolare e sovente una fila di pilastri lungo l’asse maggiore, e doveva avere un tetto alto circa 5 m. Vista la sua posizione in prossimità della porta occidentale, dal palazzo era possibile controllare il traffico dal porto. Le funzioni amministrative e commerciali del complesso palatino sono confermate dalla presenza di ampi magazzini.

Continuando verso il centro della città, come già detto, si incontra una struttura di pianta circolare, una specie di monumentale capanna ricostruita e restaurata numerose volte, che pare aver rappresentato, insieme alla Deffufa orientale, uno dei cardini del tessuto urbano.

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Inizialmente l’edifico era protetto su tre lati da un muro e aperto verso sud, dove sorgeva una palizzata, in seguito delle case si impostarono sul perimetro di questo recinto. Il muro esterno dell’edificio è in mattoni e la sua base presenta tracce di un rivestimento in ocra rossa, tipico di edifici sacri o di pregio. Le sue fondazioni più antiche sono caratterizzate da grandi mattoni posti in un letto di sabbia fine depurata. Sul suo lato esterno, un allineamento di buchi per palo fa pensare a una specie di tettoia circolare. Lo spazio interno di questa struttura è diviso da tre allineamenti di pali in legno. Esistevano inoltre delle piccole stanze ricavate ai margini di quella principale e in una di queste era acceso un focolare. Questo edificio mostra tracce di almeno sei fasi di costruzione, con ricostruzioni successive che si caratterizzano per un progressivo allargamento della pianta della struttura. Delle distruzioni dovute a incendi possono spiegare tutte queste ricostruzioni. Stando ai materiali associati, l’edifico fu utilizzato tra il 2000 e il 1500 a.C. circa. La struttura è evidentemente un edificio pubblico e è stato interpretato come aula regia per le udienze sulla base del confronto etnografico con le sale d’udienza dei sultani del Darfur. Un secondo edificio circolare con analoghe caratteristiche di accuratezza costruttiva sorgeva forse immediatamente a nord della Deffufa occidentale.

L’edificio principale dell’abitato è la cosiddetta Deffufa occidentale, il cui nome in nubiano indica proprio una grande costruzione in mattoni. La pianta di questo massiccio edifico in mattoni crudi è rettangolare e misura 50x27 metri circa, con un alzato conservato di circa 17 metri. L’edificio di Kerma che maggiormente caratterizza la città antica è stato interpretato da Reisner come fortezza e poi da Adams come torre di avvistamento. La sua natura templare non può oggi essere messa in discussione dopo le indagini della Missione Svizzera. Queste indagini hanno permesso di rinvenire tracce di fasi di costruzione del Kerma medio precedenti a quella i cui i resti sono ancora visibili e che le ha completamente obliterate: un muro circolare chiudeva l’edificio originario a nord, mentre la facciata meridionale era rettilinea. A ovest sono stati poi costruiti degli edifici rettangolari con magazzini, forse delle cappelle visto l’uso dell’ocra rossa per rivestirne il pavimento. Altri edifici sono stati aggiunti anche sul lato est e, dopo delle distruzioni dovute a degli incendi, vi sono

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sorte anche capanne circolari. Su queste ultime strutture si impostano edifici in mattoni crudi dai pavimenti rivestiti di ocra rossa, affiancati da magazzini, forse altre cappelle, e da un’area di lavorazione del bronzo. Parte di queste istallazioni del Kerma medio furono poi coperte dai successivi ampliamenti della Deffufa Lo stesso edificio centrale si è infatti ingrandito con l’aggiunta di ambienti quadrati agli angoli e di altri paramenti murari, e è allora che venne aperto l’ingresso occidentale destinato a sopravvivere poi fino alle fasi più tarde della struttura, con una scala e una porta monumentale. Da questa si poteva accedere a un corridoio in salita, a una camera su cui si aprivano uno stretto corridoio, forse un sancta sanctorum e una scala verso la terrazza superiore che coronava l’edificio reso più imponente da un rialzo del lato corto meridionale che assunse così l’aspetto di un pilone di tipo egiziano. Gli ultimi aggiustamenti, con gli ambienti orientali e uno spesso muro di cinta, predatano immediatamente gli strati di distruzione che segnano l’abbandono dell’edifico, intorno al 1450 a.C. La Deffufa è quindi stata il punto centrale nella topografia di Kerma fino alla fine violenta della città propriamente detta.

Come detto, la Deffufa è circondata da un quartiere religioso, utilizzato per finalità sacrali almeno dal Kerma medio, quando sono documentati edifici con pavimenti rivestiti da ocra rossa e la cui fondazione era propiziata da riti con deposizione in fosse riempite poi di sabbia depurata di ossa animali (tra cui di giraffa), uovo di struzzo e ceramica. Altri depositi di fondazione di edifici del quartiere religioso nel corso del Kerma medio erano caratterizzati dalla presenza di ceramica, lame in bronzo e di ocra rossa. Uno di questi depositi di fondazione conteneva in giacitura secondaria una stele a pilastrino recante un’iscrizione in geroglifico egiziano databile all’Antico Regno con i nomi di due comandanti di battello Iy-meri e Mereri.

Nella città si sono potute distinguere diverse aree funzionali e di abitazione. Nel Kerma classico, ad esempio, lungo il tratto orientale delle fortificazioni, all’interno della cinta, esistevano dei locali, forse delle casematte in cui si sono installate in un certo momento delle panetterie, con dieci forni rettangolari affiancati. Gli scarti di lavorazione delle panetterie, ceneri e forme per pane rotte erano accumulate nei contigui fossati della città. Tali panetterie potrebbero

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essere connesse alle attività economiche gravitanti intorno al poco distante quartiere templare che si estendeva intorno alla Deffufa occidentale. Anche lungo il versante sud delle fortificazioni sono attestate nelle casematte delle attività di preparazione del cibo, forse in questo caso da mettere in relazione all’occupazione delle istallazioni da parte dei soldati addetti alla difesa. Nel fossato, lungo il tratto settentrionale delle fortificazioni, invece si sono rinvenute concentrazioni di cretule e frammenti di terra sigillaria provenienti da sigillature di recipienti o cofanetti e ciò potrebbe suggerire la vicinanza di un’area amministrativa. Nel quartiere occidentale dovevano esistere delle aree di lavorazione della ceramica, la cui presenza è testimoniata dagli accumuli di ceneri e dagli scarti di lavorazione. Un altro più grande laboratorio specializzato per la produzione della ceramica è stato rinvenuto in prossimità delle fortificazioni del Kerma medio e consiste in alcune depressioni, forse dei forni a fossa, e in un forno verticale costruito in mattoni crudi. Non tutta la ceramica veniva però prodotta in botteghe specializzate: in alcune case private del centro cittadino, non distanti dalla grande capanna circolare, dei semplici focolari a fossa sono probabilmente da mettere in relazione con la produzione domestica della ceramica.

A Kerma sono inoltre state indagate numerose abitazioni, con caratteristiche diverse a seconda dell’epoca in cui furono costruite e dello status degli occupanti (Fig. 22). Le abitazioni delle fasi più antiche consistono spesso in una sola stanza o in due stanze affiancate. Questa tipologia abitativa è detta “a lumaca” perché riproduce la forma della pianta della casetta rappresentata nel geroglifico egiziano monolittero “h”, che ricorda, appunto la conchiglia di una lumaca squadrata. Fin da quest’epoca appaiono anche capanne rotonde in legno e, dentro i cortili, granai tondi in mattoni. In seguito, nel Kerma medio, compaiono case “a lumaca” con cortili. Alcune case del Kerma classico con pianta caratterizzata da più stanze allungate prefigurano le piante delle abitazioni di epoca napatea e meroitica. Altre sono caratterizzate da due ambienti allungati che affacciano su una corte centrale. Le case del Kerma classico si caratterizzano per l’uso di mattoni più grandi, talora anche cotti, e per uno spessore delle murature maggiore rispetto alle fasi precedenti. Ciò consentiva di abolire i pilastri addossati alle pareti, che in epoca precedente

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servivano a sostenere le coperture. Le coperture erano anche sostenute da pilastri in legno posti su basi in pietra al centro delle stanze.

Figura 22: piante di alcune strutture abitative di Kerma. Le due più in basso datano al Kerma medio e quella a destra presenta una struttura a “h” con un cortile irregolare mentre quella a sinistra è più articolata. Quella più in alto data al Kerma classico, presenta un doppio cortile e un ingesso monumentale (da Bonnet in Cahier de Recherches de l’Institut de Papirologie et d’Egyptologie de Lille 7, 1985).

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Nella fase del Kerma classico, la zona nordorientale della città era caratterizzata da piccole abitazioni più modeste e da giardini o recinti per il bestiame. Ai margini della città si segnalano però anche abitazioni di pregio, come una a est della porta settentrionale che si caratterizza per l’accuratezza della costruzione, con fondazioni riempite di sabbia depurata, come accade usualmente per gli edifici religiosi, per le dimensioni e per una specie di ingresso monumentale. Un’altra casa di notevoli dimensioni si segnala per le dimensioni e per una curiosa corte irregolare con un abside inquadrato da pilastri il cui pavimento era ricoperto da ocra rossa. Forse la corte era usata come luogo di riunione e culto da una famiglia allargata.

A sud-ovest della città c’è una agglomerazione secondaria formata da numerose cappelle difese da un fossato parzialmente rivestito di mattoni. Le origini di questa che divenne una cittadella templare vera e propria potrebbero risalire anche al Kerma antico, visto che uno dei santuari pare essere una ricostruzione di strutture più antiche risalenti addirittura a tale fase. In questo settore si può seguire il passaggio da capanne circolari a una struttura in legno rettangolare e, infine, a una struttura rettangolare in mattoni. Nel Kerma classico e medio questa cittadella si sviluppò in estensione e complessità e fu difesa con un fossato e delle palizzate. In seguito il fossato fu coronato a ovest anche da una torre quadrata e da mura in pietra non locale e probabilmente portata da cave dell’area della terza cataratta. All’interno della cittadella si può seguire il passaggio da cappelle a pianta rettangolare a sala unica orientate al nord e con ingresso a sud a santuari tripartiti. Le pavimentazioni sono spesso caratterizzate da tracce di combustione forse legate a pratiche sacrificali. Questo complesso religioso si caratterizza anche per la presenza di edifici a sala doppia anch’essi probabilmente sacrali e di aree destinate a abitazione e a attività specializzate, tra cui la produzione del pane, forse di piccoli oggetti in metallo e di oreficeria. Nel settore sudorientale, un curioso deposito di giare, forse votivo, completa il complesso. Il sito fu abbandonato nel corso del Kerma classico e vi si sovrappose una necropoli del Kerma finale gravemente danneggiata da depredazioni e erosione.

A sud della città antica, nell’abitato attuale della cittadina di Kerma, esiste un altro agglomerato del Kerma classico con una tomba

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monumentale dell’inizio della XVIII dinastia egiziana e tracce di aree occupate da capanne. Si tratta, secondo le ipotesi più verosimili, di un’area legata alle attività portuali, forse già in uso nel Kerma antico. Esistono anche tracce di una cappella ricostruita due volte in mattoni crudi e un’ultima volta in legno, con l’usuale pavimento ricoperto da ocra rossa e, nei suoi pressi, di un tempio dalla planimetria che evoca i templi egiziani del Nuovo Regno con ingresso a pilone. Anche questo tempio con pilone si sovrappone a una struttura più antica in materiali deperibili. L’adozione di modelli di strutture tipici dell’architettura egiziana non deve sorprendere, visto che probabilmente in tale fase funzionari egiziani erano assoldati dal sovrano di Kerma-Kush. In particolare, alla fine del Secondo periodo Intermedio, Sepedhor, comandante di Buhen, aveva fatto costruire per il re di Kush un tempio dedicato all’Horo di Buhen e possiamo immaginare che fosse una struttura di tipo egiziano. Sempre nella stessa area del sito di Kerma sorgeva anche un edificio rettangolare caratterizzato da spesse mura in mattoni crudi con fondazioni in pietra e edificato su una preesistente capanna circolare associata anche a fosse-granaio. L’edifico, di almeno due piani, era caratterizzato al piano terra da una stanza centrale con pozzo. Preso l’angolo sud-occidentale tre magazzini, anch’essi ricostruzioni di edifici di fasi più antiche, completavano il complesso. All’interno dei magazzini si sono rinvenute impronte di sigillo del Secondo Periodo Intermedio. Si trattava quindi di un complesso amministrativo destinato al controllo del traffico di merci forse sbarcate e/o imbarcate nel vicino porto fluviale che, viste le caratteristiche quasi militari del luogo dove venivano conservate, dovevano essere preziose.

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12. La necropoli reale di Kush

La necropoli orientale di Kerma, a 3,5 km dalla città antica, è estesa su circa 60 ettari, con un numero di tombe stimato tra le 20 e le 30 mila. La necropoli è localizzata su una grande terrazza formata dai rami orientali del Nilo prima che il fiume si assestasse sul suo corso attuale.

Attraverso lo scavo di una trentina di aree campione selezionate e disperse da nord a sud nell’area cimiteriale, la Missione Svizzera ha potuto evidenziare non solo lo sviluppo topo-cronologico del cimitero ma anche il progressivo accentuarsi della gerarchizzazione sociale del regno di cui Kerma era capitale, la Kush delle fonti egiziane.

Inoltre, i materiali ceramici raccolti nel cimitero e studiati da Béatrice Privati permettono di aggiungere dettagli importanti alla sequenza elaborata a Sai da Brigitte Gratien. In sintesi, va evidenziata la presenza in tutte le fasi della cultura Kerma di contenitori “a bocca nera” la cui forma si sviluppa però partendo da forme emisferiche a forme con orlo svasato e con un profilo sempre più a “S”, fino ai caratteristici “beakers” o “tulipes” del Kerma classico. Nella fase del Kerma antico e medio sono presenti anche vasi emisferici decorati da bande incise e/o impresse lungo l’orlo e altri decorati con specie di applicazioni plastiche a bottone simili a ceramiche del Sudan sudorientale e dello Wadi Howar. Nel Kerma antico sono attestati vasi neri politi decorati con zone geometriche riempite da incisioni evidenziate da paste coloranti bianche simili a produzioni del Gruppo C della Bassa Nubia. Bottiglie e giarette sono presenti in tutte le fasi ma nel Kerma medio e classico sono più frequenti e caratterizzate da decorazioni impresse sulla spalla. Nel Kerma classico compaiono delle bottiglie rosse o nere dalle superfici accuratamente polite e lucidate. In tutte le fasi sono attestate infine le giarette e le bottiglie importate dall’Egitto, che si sono dimostrate molto utili anche ai fini cronologici e che vennero imitate dai vasai locali. Da notare comunque come la ceramica per usi funerari sembri distinguersi abbastanza nettamente da quella dei contesti domestici e di abitato, dove sono presenti vasi da cottura con incisioni parallele all’orlo o in vari arrangiamenti geometrici e grosse giare globulari con decorazione

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sull’orlo ispessito. Aree specializzate nella produzione della ceramica destinata a usi cimiteriali sono state rinvenute ai margini della necropoli stessa e pare che, almeno in alcuni casi, i vasi, deposti nelle sepolture ancora sporchi di fuliggine residuo della cottura, non fossero mai stati utilizzati.

Secondo una cronologia basata sui materiali importati egiziani e confortata anche dalle datazioni radiometriche, il cimitero di Kerma si è sviluppato da nord a sud. Va comunque notato come, ferma restando la direzione del progressivo ampliamento del cimitero, all’interno delle sue varie aree vi siano dei gruppi di sepolture che si dispongono intorno a sepoltura una più antica, riflettendo così legami gerarchici e/o familiari.

La parte settentrionale del cimitero ospita le tombe più antiche. In questa area convivono due tipi di soprastrutture a tumulo apparentemente coeve. Il primo tipo si caratterizza per il pietrame bianco e nero inserito in uno strato di fango indurito che riveste dei tumuli, il secondo è costituito da tumuli delimitati da lastre verticali. In ambedue i casi tali sovrastrutture coprivano fosse circolari o ovali piuttosto strette che in questa fase ospitavano il corpo e pochi oggetti personali, mentre la ceramica, salvo casi eccezionali, era deposta spesso capovolta all’esterno della fossa a est e a sud dei tumuli, forse in relazione a cerimonie in onore del defunto (Fig. 23). Anche la ceramica distingue le due tipologie di tombe: i recipienti di tipologia simile ai vasi del Gruppo C sono infatti associati ai tumuli delimitati da lastre verticali mentre le altre classi ceramiche sono in genere associate ai tumuli rivestiti di pietrame. All’interno delle tombe, accanto ai defunti, si sono trovati sandali, sacchi e vesti in cuoio, coperte di pelle, tra cui erano deposti i defunti, sigilli. Venivano fin da tale fase praticati dei sacrifici umani, secondo un costume già incontrato nel più antico cimitero neolitico di Kadada. In alcuni casi i sacrificati trovavano posto nella fossa principale, in altri, più rari, in fosse appositamente approntate attraverso l’anello di pietre che delimitava il tumulo o nel tumulo stesso. A partire dal 2200 a.C. circa, in una fase avanzata del Kerma antico, in corrispondenza di una già accentuata differenziazione sociale evidenziata dai corredi, dalle dimensioni delle tombe, dalla distribuzione della ceramica importata dall’Egitto e delle conchiglie del Mar Rosso, compaiono presso i

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tumuli delle strutture leggere in legno, di circa 2,5 m di lato. Verosimilmente, data l’accuratezza della loro costruzione, si tratta di cappelle. Altre istallazioni leggere a tracciato curvilineo vanno invece interpretate come dei frangivento destinati a proteggere dall’accumulo di sabbia eolica le fosse nel corso del loro scavo.

Figura 23: in alto un settore della necropoli di Kerma del Kerma antico, in basso una tomba del Kerma medio. Una delle tombe del Kerma antico si caratterizza per la presenza di un sacrificato. La tomba del Kerma medio è più ampia, presenta un corredo più articolato e si caratterizza per il letto funerario (da Bonnet in Genava 1988 e 1999).

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Nel settore del Kerma medio la presenza della ceramica nelle

tombe oltre a quella intorno alla soprastruttura, da mettere forse in relazione alla pratica del banchetto funerario, aumenta considerevolmente. Proporzioni apprezzabili assume anche la pratica di sacrificare dei montoni, poi deposti dentro la fossa, insieme a quella di disporre dei bucrani di bovini intorno al tumulo. Una tomba del Kerma medio iniziale presenta intorno al tumulo addirittura 129 bucrani, che in questa fase sono caratterizzati dall’asportazione delle ossa nasali, e, nella fossa, i resti di 16 montoni, di cui uno caratterizzato da un disco di piume tra le corna, come attestato anche in altre tombe coeve. Questo tipo di ornamento rivela assonanze con rappresentazioni dell’arte rupestre sahariana generalmente collegate a simbologie solari e con la più tarda iconografia egiziana della sfinge criocefala coronata da disco solare collegata al dio Amon.

Sono attestate in questa fase delle tombe di arcieri nella stessa attitudine del ben noto geroglifico egiziano che rappresenta un arciere inginocchiato con il capo coronato da una piuma nell’atto di scoccare la freccia, utilizzato dalla fine della V dinastia. Il fatto che la popolazione maschile sepolta nel cimitero di Kerma fosse coinvolta in combattimenti potrebbe essere confermata anche dall’esame paleopatologico dei corpi rinvenuti nelle sepolture che si caratterizzano per la frequenza di traumatismi degli arti superiori. Compaiono in questo settore del cimitero anche le prime costruzioni rettangolari in mattoni crudi interpretate come cappelle. Sono in genere costruite a ovest dei tumuli maggiori e si datano a partire dal 2000 a.C. Alla fine del Kerma medio le cappelle si caratterizzavano per una fila di colonne all’interno a sostegno della copertura. Nei casi in cui questi edifici sono meglio conservati, sembra presentassero un rivestimento del pavimento con ocra rossa e fondazioni riempite di sabbia fine. Continuano a essere usati anche i frangivento, forse per facilitare il compito di chi scavava le fosse, che altrimenti potevano essere continuamente riempite dalla sabbia, ma in questa fase si preferisce costruirli secondo tracciati rettilinei. Alcuni tumuli del Kerma medio raggiungono un diametro ragguardevole di circa 30 metri, altre tombe, invece, sono prive di ogni corredo rivelando in maniera drammatica l’emergere della gerarchizzazione sociale. In

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alcuni casi le tombe più modeste sono strettamente associate alle maggiori, rivelando così la loro natura di sepolture secondarie, forse addirittura di sacrificati, specie quando sono rinvenute all’interno dell’anello di pietre che delimita le tombe più grandi. Altri individui sacrificati erano deposti all’interno della fossa, insieme a abbondanti dotazione di tagli di carne, montoni e cani. Nel corredo, insieme alla ceramica, allo strumentario, come ami e arpioni da pesca, agli ornamenti personali, come i braccialetti di perline in faience e i pendenti, alle armi, come spade e archi, si afferma nel Kerma medio la presenza di cofanetti di legno dipinto di rosso, che spesso contengono gli ornamenti personali o gli strumenti da pesca. Nelle tombe ricorre anche il letto funerario, assai simile allo hangarib sudanese tradizionale, su cui era deposto il defunto (Fig. 23). La pelle bovina che avvolgeva il corpo dal Kerma antico può essere ora sostituita da un lenzuolo in stoffa.

La transizione tra Kerma medio e Kerma classico è marcata in ambito funerario dalla presenza di un numero crescente di individui sacrificati, spesso di sesso femminile o adolescenti, deposti ai margini della fossa e in genere associati a soggetti di sesso maschile deposti su un letto. I sacrificati aumentano ancora col passaggio al Kerma classico pieno, dove si arriva fino a dodici individui per tomba. I tumuli reali arriveranno ad avere fino a 150 sacrificati, disposti in stanze apposite presso la camera sepolcrale reale o in pozzi secondari. La disposizione stessa dei sacrificati, stando agli oggetti rinvenuti associati alle sepolture secondarie, potrebbe riflettere la loro maggiore o minore importanza, con i più elevati in rango che trovavano posto più vicini al sovrano. Anche nel Kerma classico i tumuli si caratterizzavano per una cornice di pietre nere con al centro un’area quasi piatta coperta da quarzo bianco. Enigmatiche placche in terracotta con spirali erano disposte con la spirale rivolta verso il terreno a est dei tumuli, mentre sul lato sud erano disposti i bucrani e i vasi per libagioni posti con l’orlo verso il terreno. Le cappelle, sempre sul lato occidentale dei tumuli, hanno restituito oggetti come vasi a bocca nera o piccoli utensili in metallo, che vi dovevano essere conservati e/o utilizzati. In un caso ben due cappelle sono associate a una tomba e sono caratterizzate, oltre che dal solito rivestimento pavimentale in ocra rossa, dalla presenza al loro interno di ceramica e

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tracce di combustione, forse legate all’accensione di fuochi usati in alcune fasi del rituale. Lungo il muro nord all’interno delle cappelle potevano esistere dei banchetti per le offerte, delle stele o delle statue, visto che talora ne resta la traccia in negativo sui pavimenti. Anche dentro quattro vasi per granaglie scoperti semisepolti in prossimità delle due cappelle sono state notate tracce di combustione. Si noti che in genere le cappelle dovevano essere abbandonate dopo la fine dei rituali in memoria del defunto che, comunque, potevano prolungarsi per periodi medio-lunghi, come suggerirebbe il numero di animali il cui sacrifico è testimoniato dai bucrani disposti intorno al tumulo. La carne di questi bovini peraltro doveva essere consumata in pasti funebri che si svolgevano altrove, visto che intorno al tumulo sono presenti solo le ossa frontali e le corna e non le altre parti dello scheletro. L’analisi chimica delle ossa ha permesso di stabilire che alcuni di questi bovini erano stati allevati anche in aree molto distanti da Kerma, come il delta del Nilo, a ulteriore riprova delle relazioni e dei rapporti a lungo raggio degli aristocratici del regno di Kerma-Kush. Tutti i bucrani erano raccolti e, poi, presumibilmente alla fine delle cerimonie funebri, deposti contemporaneamente ai margini del tumulo dell’eminente personaggio defunto. Accanto a queste sepolture di un ristretto gruppo di privilegiati, altre sepolture erano più modeste, con corredo ridotto e spesso mancavano anche del letto funebre.

Al Kerma classico sono ascritti i due complessi funerari già indagati da Reisner e formati dalla cappella K II, o Deffufa orientale, e dal tumulo K III e dalla cappella K XI e dal tumulo K X. Cronologicamente pare che il complesso K X-XI sia più antico di quello K II-III. La cappella K XI è stata oggetto di indagini assai approfondite da parte delle Missione Svizzera e si caratterizza per una costruzione in quattro fasi. La struttura originaria era absidata e in mattoni crudi, con una sola sala interna rettangolare e copertura a volta. La cappella fu poi ampliata con l’aggiunta di una seconda sala pavimentata in pietra, con tacce sul pavimento per il posizionamento di un letto funerario probabilmente fisso nella sala più esterna. Le due sale erano decorate da pitture. Dopo problemi statici alle volte, la copertura delle sale fu ricostruita con un tetto presumibilmente piatto sostenuto da colonne di cui si sono trovate le basi. Fu allora aggiunto anche un ulteriore paramento esterno di mattoni crudi con intelaiature

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in legno e fu rifatta con motivi apparentemente simili ai precedenti la decorazione pittorica interna. In tale fase l’alloggiamento per il letto funerario fu spostato presumibilmente in relazione alla presenza delle colonne che sostenevano la copertura. Un paramento in calcare fu infine aggiunto per rivestire la facciata esterna dell’edificio. Le due principali fasi di edificazione di questo edificio hanno suggerito che sia rimasto in uso a lungo e che sia stato usato come tempio funerario di almeno due sovrani. Anche questo edificio, come la Deffufa occidentale, doveva essere coronato da una terrazza raggiungibile fin dalla prima fase attraverso una scala dalla sala più interna. Su questa terrazza si ergeva una cappella: sono state infatti rinvenute le basi in pietra delle colonne che reggevano la copertura di questa cappella. Sempre come nella Deffufa occidentale, sopra l’ingresso si ergevano delle cortine murarie a formare una specie di pilone. Sulla terrazza erano anche erette delle stele monolitiche in pietra, continuando una tradizione di uso di questa tipologia monumentale già iniziata nel Kerma antico. La decorazione della cappella era piuttosto ricca e consisteva in motivi a stelle o fiore intarsiati in faience che ornavano l’ingresso e, all’interno, pitture su vari registri con soggetti animalistici (ippopotami, giraffe, tori) scene di vita quotidiana (pesca sul Nilo, guado di bovini) navigazione (rituale, a scopo bellico o commerciale?). Forse alcune di queste raffigurazioni avevano un significato mitologico e rappresentavano storie di divinità, forse tutti questi animali e le altre scene volevano rappresentare le attività e la ricchezza controllate dal sovrano il cui culto funebre si doveva svolgere nella cappella o forse si trattava di scene simili a quelle dei cicli stagionali governati dal Sole, come attestato in contesti funerari reali e privati egiziani a partire dall’Antico Regno. In particolare, C. Bonnet ha accostato queste decorazioni a quelle dalla “Sala del Mondo” del tempio solare di Niuserra, della V dinastia.

Il tumulo associato a questa cappella è K X e si caratterizza per un diametro di circa 90 m e la presenza di circa 400 sacrificati e 110 sepolture secondarie. Il tumulo, la cui mole imponeva la costruzione di mura di contenimento in mattoni crudi, sorgeva su una struttura mai completata di cui resta un possente angolo in muratura spessa diversi metri. Una parte di questo muro incompleto fu demolita per far posto alla camera sepolcrale, coperta da una volta e cui si accedeva

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attraverso un corridoio che attraversava tutta la struttura e in cui erano concentrati i sacrificati e delle statue di sovrani e privati egiziani, forse provenienti dai templi di Kerma ove potevano essere state deposte come ex-voto o da saccheggi di centri egiziani in Bassa Nubia e/o Egitto. Nella camera sepolcrale si sono rinvenuti anche frammenti di barche in legno e faience.

K II è la Deffufa orientale e ha conosciuto una storia costruttiva meno complessa di K XI (Fig. 24). È stata costruita in un’unica fase, prevedendo dall’inizio due camere rettangolari e una scala di accesso alla terrazza superiore cui si accedeva dalla sala più esterna, dove doveva essere anche in questo caso un letto funerario per l’esposizione del corpo del re defunto. Dei paramenti murari sono stati aggiunti alle mura della sala più interna forse in relazione al passaggio da una copertura a volta a una copertura orizzontale sostenuta da colonne. La decorazione pittorica interna era probabilmente simile a quella di K XI. Numerosi elementi in faience erano applicati alle murature e agli arredi. Tra essi si segnalano delle figure di leoni. Anche questa struttura doveva presentare un rialzo della copertura nella sua parte anteriore, così da dare luogo a una specie di pilone e essere coronata da una stele. Un’altra stele reimpiegata come architrave recava l’immagine di un disco alato fiancheggiato da urei. La stessa pavimentazione della sala più esterna e di una via processionale che giungeva all’accesso del tumulo associato alla Deffufa orientale, detto K III, era stata eseguita con stele del Kerma antico riutilizzate. Lungo questa via processionale si sono rinvenute figure in faience di animali come coccodrilli, scorpioni e leoni. A fianco dell’entrata di K II era anche eretta la stele di un funzionario egiziano di nome Antef dell’anno 33 di Amenemhat III che commemorava il restauro delle “mura di Amenemhat”, toponimo ritenuto da Reisner il nome antico di Kerma. In seguito a un incendio e all’inagibilità della scala interna di K II, fu addossata alla facciata esterna una scala per dare accesso alla terrazza e la scala interna fu murata. L’ultima fase di utilizzazione è probabilmente avvenuta intorno al 1500 a.C., come attestano anche ceramiche tornite ispirate a tecniche egiziane a essa associate. Il tumulo K III si caratterizza per una pianta più sistematica rispetto K X, con una stanza sepolcrale preceduta da un vestibolo ambedue coperti da volte. Anche in questo caso il corridoio era riempito da

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sacrificati e da statue egiziane tra cui quelle di Hapydjefay, nomarca di Assiut, e della moglie Sennuy, ambedue databili al regno di Sesostri I.

Figura 24: il tumulo K III e la cappella funeraria K II o Deffufa orientale nel settore del Kerma classico della necropoli di Kerma. Si notino le stanze allungate e strette della cappella con il vano per la scala che conduceva alla terrazza. Il tumulo presenta muri di contenimento e un lungo corridoio su cui si apre la camera funeraria (da Ch. Bonnet, Edifices et rites funéraires à Kerma, Parigi 2000).

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In seguito la necropoli di Kerma fu spostata in un’area a 1 km a sud-ovest dell’abitato, dove molte tombe databili al Kerma finale e anche una tomba ritenuta reale attestano il persistere di un’aristocrazia locale anche in piena XVIII dinastia egiziana e, anzi, un trapasso graduale verso forme più egizianizzate di sepolture, con strutture a volta simili a quelle delle tombe egiziane in Bassa Nubia ma con corpi sempre in posizione contratta.

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13. Il retroterra della capitale: il territorio di Kush

Altri centri abitati di grandi dimensioni della cultura Kerma erano forse localizzati a Sai, sito indagato da una missione francese, e più a sud a Bugdumbush. A Sai l’attenzione degli studiosi si è concentrata finora prevalentemente sulla necropoli della cultura Kerma che era caratterizzata da alcuni tumuli del Kerma medio di dimensioni notevoli, mentre l’abitato, che fu forse capitale del principato nubiano noto come Saat nei testi geroglifici, resta purtroppo poco noto. Il sito di Bugdumbush non è stata finora oggetto di indagini sistematiche. Ricerche recenti lasciano supporre che un centro provinciale della cultura Kerma potesse esistere anche a Kawa, dove fu poi fondata un’importante città egiziana nel corso della XVIII dinastia che restò un centro fiorente fino alla fine dell’epoca napatea. Uno studio preliminare e basato sulle evidenze note alla fine degli anni Settanta dello sviluppo del sistema d’insediamento dei siti Kerma tra 2400 e 1500 a.C. condotto da Brigitte Gratien evidenzia come a una presenza di diversi siti medio-piccoli nel Kerma antico con una certa apparente preminenza di Sai succeda nel Kerma medio e nel Kerma classico una evidente preminenza del sito di Kerma che stacca in termini di rilevanza tutti gli altri. Questo processo riflette evidentemente l’emergere e l’affermarsi della potenza politica dei sovrani di Kerma che divenne intorno al 2000 a.C. la capitale di tutta l’Alta Nubia e, poi, nel 1800 anche della Bassa Nubia.

Il retroterra agricolo del regno di Kerma era indubbiamente nella regione di Dongola. Studi geologici hanno dimostrato che la regione è attraversata da numerosi paleoalvei del Nilo, creati dal fiume nel suo spostamento progressivo da est a ovest fino ad assestarsi nel letto attuale in epoca meroitica. D’altro canto la presenza dei paleoalvei favoriva la fertilità della regione incrementando le possibilità di sfruttamento agricolo. Immediatamente a sud del bacino di Kerma si è notato come i siti archeologici dell’epoca Kerma sembrino raggrupparsi proprio lungo i paleoalvei che all’epoca dovevano non essere più attivi se non forse stagionalmente. Lungo i paleoalvei, evidentemente, si determinavano condizioni particolarmente favorevoli all’agricoltura specie nel periodo della piena del Nilo. Altri

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siti Kerma sono più a ovest, lungo il braccio del Nilo allora attivo, non lontano dal corso attuale del fiume. La sopravvivenza dei siti in aree oggi sfruttate dall’agricoltura è stata compromessa oltre che da recenti lavori agricoli e d’irrigazione, dalla continuità d’insediamento nell’area anche nelle fasi successive alla fine della cultura Kerma. Tale continuità non si è evidenziata per contro nei siti lungo i paleoalvei che sono stati invece abbandonati poco dopo la metà del II millennio a.C. Evidentemente erano le necessità di provvedere alle esigenze alimentari di una popolosa capitale che dovevano aver favorito tra 2000 e 1500 a.C. lo sfruttamento delle aree più marginali, lungo i paleoalvei del fiume, accanto a quelle rivierasche.

Nella medesima regione sono stati inoltre individuati lungo i paleoalvei dei terrazzamenti disposti ortogonalmente al corso degli stessi paleoalvei. Si tratta di un tipo di struttura noto anche in altri contesti antichi e destinato alla pratica dell’agricoltura intensiva nelle aree definite dai terrazzamenti, in virtù della loro capacità di trattenere l’umidità e l’eventuale humus connessi alla piena del fiume. Lo stesso sistema è attestato anche più a nord, sull’isola di Sai, in prossimità dell’abitato Kerma. Anche questo tipo di infrastrutture conferma la necessità di aumentare quanto più possibile la resa delle aree agricole in prossimità dei principali centri abitati della cultura Kerma.

Anche nell’altro settore della regione di Kerma indagato, più a nord, intorno alla stessa Kerma e a Kadruka, sono stati reperiti diversi siti databili dal neolitico in poi e, tra essi, numerosi sono i siti Kerma. In particolare, due siti a Gism el-Arba sono stati indagati da una Missione Francese e sono identificabili con insediamenti agricoli provinciali. Gli insediamenti agricoli del Kerma antico erano caratterizzati da capanne tonde in materiali deperibili, di cui restano solo i buchi per palo. Sono state scoperte anche le tracce di una struttura a perimetro rettangolare, forse di culto o amministrativa. Strutture in fango compaiono nel Kerma medio. In questa fase e nel seguente Kerma classico si sviluppano più larghe strutture abitative con cortili e ambienti quadrangolari, in prossimità o all’interno delle quali si aprono spesso forni per ceramica o per il pane e focolari. Le abitazioni hanno restituito ceramica, ornamenti personali macine e macinelli, palette per cosmetici, statuette di bovini. Un villaggio del Kerma finale è caratterizzato da strutture quadrangolari in blocchi di

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pietra con due ambienti e dalle usuali dotazioni in termini di corredo domestico e focolari. I siti provinciali di abitato sono spesso affiancati da necropoli. Le tombe del Kerma antico e forse medio scoperte su un sito non lontano da Kadruka, mostrano strutture, fosse e corredi assai meno impressionanti di quelli della capitale. I corredi, ad esempio, si limitano a ornamenti personali, con rari vasi in ceramica, benché si segnali una conchiglia marina e un montone con acconciatura di piume di struzzo.

Come visto, a partire almeno dal Kerma medio, l’evidenza archeologica del sito di Kerma e degli altri siti Kerma noti suggerisce, concordemente con quanto indicato dai testi egiziani, che uno stato potente si sia sviluppato in Alta Nubia e che almeno dal 2000 a.C. la capitale ne sia stata Kerma stessa. Come già detto, nei testi egiziani questo regno è indicato come Kush. Mentre il confine settentrionale di tale regno resta piuttosto ben definito in rapporto al confine egiziano marcato dalle fortezze del Medio Regno, poi occupate da gruppi a cultura Kerma a partire dal 1750 a.C., quello meridionale è meno ben definito. Forse però tale confine non era lontano da Kurgus e Hagar el Merwa, confine poi del vicereame egiziano del Nuovo Regno, marcato da iscrizioni rupestri su un massiccio granitico che, visti i graffiti rupestri non egiziani che vi sono stati recentemente segnalati, poteva aver avuto già un significato di marcatore territoriale fin dall’epoca antecedente all’occupazione egiziana. Verso oriente il regno di Kerma non doveva estendersi molto oltre la valle: a 17 km a est dalla capitale è stata segnalata una fortezza ovale, con mura di cui si sono conservate le fondazioni in pietra spesse circa 2,5 m e che reca tracce di almeno due fasi di costruzione, con un progressivo allargamento del recinto del forte. I materiali associati erano tutti del Kerma classico. È stato ipotizzato che questa fortezza, oltre a proteggere la valle, svolgesse anche un ruolo su una delle direttrici di penetrazione nel Deserto Orientale, importante per le comunicazioni con le regioni aurifere.

Come detto, dei siti con resti materiali di tipo Kerma sono stati rinvenuti anche in Bassa Nubia (Fig. 25). Si tratta sempre di resti del Kerma classico, databili cioè tra il 1750 e 1500 a.C. Una necropoli Kerma è stata ad esempio segnalata presso la fortezza del Medio Regno di Mirgissa, allora abbandonata dalla guarnigione egiziana,

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mentre altre tombe Kerma sparse sono state rinvenute in vari siti basso-nubiani.

Figura 25: due sepolture del Kerma classico in Bassa Nubia. Si noti la presenza di due sacrificati in quella di destra, dei tipici beakers o tulipes a orlo svasato e del letto funerario. La presenza nelle tombe delle armi sembra voler sottolineare le connotazioni guerriere delle aristocrazie del regno di Kerma-Kush (da Bietak, Studien zur Chronologie der Nubischen C-Gruppe Kultur, Akademie der Wissenschaften in Wien, Phil.-Hist. Klasse, Denkschrift, 97, Vienna 1968).

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Dunque, secondo quanto noto dalla documentazione archeologica, a partire dalla fine della XIII dinastia egiziana l’iniziativa in Nubia passò nelle mani dello stato di Kerma-Kush. Pare infatti che in tale fase la Bassa Nubia, cioè Uauat, sia entrata nella sfera di influenza politica di Kerma-Kush e che le istallazioni egiziane, dove le guarnigioni militari temporanee degli inizi del Medio Regno già da tempo erano state sostituite da residenti con famiglie, siano state occupate dalla potenza meridionale. Non possiamo dire come l’occupazione di quelle istallazioni da parte d Kush sia avvenuta: tracce d’incendio sono state rinvenute nelle fortezze egiziane ma potrebbero essere dovute sia ad attacchi da parte di popolazioni nubiane sia a fuochi appiccati dagli stessi egiziani in ritirata o dagli egiziani all’ inizio del Nuovo Regno, all’epoca della riconquista.

Alcuni egiziani restati nella regione si misero al servizio del sovrano di Kush: la stele di Sepedhor, scoperta a Buhen, testimonia che questo funzionario dal nome egiziano costruì a Buhen un tempio di Horo in nome del sovrano di Kush. Un’altra stele, sempre da Buhen, ricorda il viaggio di Ka, altro funzionario dal nome egiziano, a Kush, dove afferma di essersi lavato i piedi con le acque di Kush e di aver fatto parte del seguito del re di Kush Nedjeh. Diverse altre stele anepigrafi da Buhen recano la rappresentazione del re di Kush che conduce un prigioniero e raffigurato con l’arma nubiana più caratteristica, l’arco (Fig. 26).

Figura 26: una stele anepigrafe dal tempio di Horo a Buhen. Raffigura il sovrano di Kerma-Kush con la corona bianca, una mazza, l’arco e le frecce. Si noti l’adozione o, forse, la condivisione delle medesime insegne usate dai sovrani egiziani (da Smith, The fortress of Buhen: the inscriptions, Londra 1976).

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Che la potenza dei sovrani di Kush in queste fasi si estendesse ben al di là dell’Alta e della Bassa Nubia è confermato anche da un’iscrizione recentemente rinvenuta a El Kab in cui non solo si ricorda una scorreria di Kush in quella regione dell’Egitto nel corso del Secondo Periodo Intermedio, ma si menzionano anche tra suoi alleati gli abitanti di numerose regioni della Nubia e di aree molto più a sud della Nubia, come Punt.

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14. I deserti e la valle tra 2500 e 1500 a.C.

Tra il III e la prima metà del II millennio a.C. il Deserto Occidentale è caratterizzato da una progressiva diminuzione del numero di siti rispetto al IV millennio a.C. I siti sembrano inoltre concentrarsi presso depressioni e letti di fiumi fossili, dove la falda acquifera era raggiungibile a una minore profondità. Questa dinamica si giustifica con l’affermarsi progressivo di condizioni di aridità nella regione che, rendendo difficili i rapporti regolari tra le sue varie aree, ne compromise anche l’unità culturale. Erano incrementati al contempo i rapporti con la valle del Nilo, presso i cui margini probabilmente le popolazioni nomadi e pastorali del Deserto Occidentale si recavano stagionalmente. Nel III e II millennio a.C., sembra in effetti che le varie aree del Deserto Occidentale siano state più collegate alle regioni nilotiche che tra loro, a causa della maggior facilità a mantenere dei contatti che si svolgevano lungo i fiumi fossili che confluivano proprio verso il bacino del Nilo.

La zona più settentrionale del deserto Occidentale, quella delle oasi occidentali egiziane di Dakhla, Kharga e Dunqur, si caratterizza in questa fase per la presenza di piccoli siti, probabilmente interpretabili come accampamenti, dove si sono scoperete delle ceramiche con inclusi sabbiosi minerali, dalle forme aperte decorate presso il labbro con triangoli o altri motivi incisi che talora coprono anche le pareti. In tale area si è rilevato un progressivo aumento delle ceramiche egiziane che marca l’ingresso graduale delle oasi occidentali nella sfera culturale e verosimilmente anche politica egiziana. Verso il 2400 a.C., infatti, nell’oasi di Dakhla, a Ayn Asil, aveva sede un governatore egiziano e fioriva un centro urbano di tipo egiziano, con una necropoli con mastabe, si producevano ceramiche e una cultura materiale di tipo egiziano. Come precedentemente rilevato a più riprese, il controllo delle oasi e delle carovaniere che da queste si dipanavano era fondamentale anche in funzione del controllo della Nubia e delle risorse che attraverso di essa transitavano.

Più a sud, le regioni dello Wadi Shaw e dell’alto Wadi Howar erano caratterizzate da piccoli campi di capanne delimitate da lastre di pietra e da pozzi scavati nel letto dei fiumi fossili. Sono state anche

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segnalate delle sepolture con tumuli di pietra in cui i corpi erano depositi in posizione contratta tra pelli animali, analogamente a quanto avveniva in Alta Nubia. La ceramica si caratterizza per le incisioni di triangoli e per le impressioni lungo gli orli. In particolare, nello Wadi Howar prevalgono in questa fase delle decorazioni geometriche impresse o incise.

Il Deserto Orientale resta per questa fase in gran parte ancora poco noto dal punto di vista archeologico. Solo recentemente una missione archeologica guidata dai fratelli Castiglioni ha condotto delle esplorazioni nella regione dello Wadi Allaqi. In tale area si sono individuati dei siti formati da strutture in pietra a pianta rettangolare o curvilinea, databili alla fine del III-prima metà del II millennio a.C. La prossimità di una miniera a uno di questi siti, suggerisce che anche in questa fase le popolazioni della regione sfruttassero i giacimenti auriferi. La ceramica è “a bocca nera” o decorata da motivi geometrici incisi o impressi lungo l’orlo e da solchi orizzontali paralleli all’orlo che non mancano di evocare assonanze con le culture nubiane coeve. Alcune tombe sono databili alla seconda metà del II millennio a.C. sulla base di datazioni radiometriche (Fig. 27).

Figura 27: tumulo e inumazione datati al II millennio a.C. nella regione dello Wadi Allaqi. Da notare le due piccole stele presso il tumulo e l’unico elemento di corredo: un pendente in quarzo con occhiello di sospensione in filo d’oro (da Sadr, Castiglioni e Castiglioni in Archéologie du Nil Moyen 1991).

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I deserti e la valle tra 2500 e 1500 a.C. 113

Si tratta di tombe caratterizzate da una struttura in pietre circolare con associate delle piccole stele monolitiche. Il defunto era deposto in una stretta fossa circolare in posizione fortemente contratta e il corredo si limita a pochi ornamenti personali.

Queste esplorazioni nel Deserto Orientale hanno permesso di escludere che almeno la regione dello Wadi Allaqi fosse l’area di origine della cultura Pangrave attestata in Bassa Nubia e Egitto. Il termine Pangrave è stato introdotto da Sir F. Petrie per descrivere alcune sepolture da lui messe in luce a Hu in Alto Egitto. Si trattava di tombe con fossa arrotondata e non molto profonda, simili, appunto a una pentola, “pan” in inglese. Per traslato il termine indica anche una serie di tratti culturali caratteristici e, in particolare, di tipi ceramici rinvenuti associati a queste sepolture. La cronologia di questa cultura è fissata sulla base dei materiali egiziani o del Gruppo C rinvenuti in associazione a materiali Pangrave. Pare che la presenza Pangrave in Nubia inizi intorno al 1800 a.C., con una più consistente presenza tra il 1550 e il 1400 a.C. In Egitto la Pangrave compare intorno al 1750 a.C. e scompare archeologicamente in seguito a una progressiva adozione della cultura materiale egiziana intorno al 1600 a.C. La Pangrave è attestata in Egitto in tutto il paese a sud di Rifeh, ma la concentrazione maggiore sembra essere riscontrabile nel Medio e Alto Egitto. La mancanza di veri contesti di abitato Pangrave non permette per il momento di descrivere compiutamente il sistema di sussistenza e l’economia di questi gruppi, anche se, sulla base di quanto rinvenuto in contesti funerari, è possibile che l’allevamento di caprovini e bovini rivestisse una certa importanza. Le presenze Pangrave nei contesti di abitato sia in Egitto sia in Bassa Nubia paiono sempre residuali, ovvero quantitativamente minoritarie rispetto la gran parte del corpus ceramico raccolto nei vari siti. Ciò fa propendere per l’ipotersi di una presenza di nuclei di popolazione con cultura Pangrave più o meno vasti aggregati in genere a centri egiziani o del Gruppo C nubiano.

Le fosse Pangrave sono sempre circolari o ovali, anche se in alcuni casi più tardi si è notata una tendenza alla transizione verso forme più rettangolari. Talora la sepoltura vera e propria alla base del pozzo è rivestita da lastre di pietra, come può accadere anche in contesti del Gruppo C II. Il corpo è in posizione contratta, anche qui con una transizione progressiva verso la posizione distesa sulla schiena. La

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soprastruttura della sepoltura è costituita da un tumulo di pietre sciolte. Tipici sono dei solchi intorno alla soprastruttura spesso riempiti con bucrani, talora recanti delle decorazioni dipinte.

Il corredo è deposto con il defunto o in luoghi di offerta presso la soprastruttura. Il corpus ceramico presenta delle peculiarità, come dei vasi con delle caratteristiche protuberanze e decorati con motivi incisi a spina di pesce o a ramoscello, o i vasi con decorazione coprente formata da solchi paralleli orizzontali, ma anche molti tratti analoghi a quello del Gruppo C, come nel caso dei vasi a bocca nera, dalle forme molto simili. I monili associati alle sepolture sono spesso in conchiglie marine del Mar Rosso. Altri tratti caratteristici sono le tavolozze per cosmetici e i vasi egiziani per kohl. Spade e asce di tipo e origine egiziani sono spesso presenti nei corredi e ciò ha suggerito che almeno una parte di questi gruppi fosse costituita da guerrieri, di cui uno è forse raffigurato su un cranio di bovino dipinto rinvenuto a Mostagedda, in Egitto.

In Bassa Nubia ceramica Pangrave è stata rinvenuta nelle fortezze di Kubban e Serra Est, e ciò, insieme al rinvenimento di elementi Pangrave nella fortezza di El Kab in Egitto, sembra confermare l’ipotesi che almeno alcuni dei portatori di questa cultura fossero guerrieri e la loro possibile identificazione con gruppi di mercenari al servizio degli egiziani, forse con i medjau spesso menzionati nei testi geroglifici. Le tombe Pangrave segnalate in Bassa Nubia sono raggruppate in piccoli cimiteri in genere localizzati fuori della valle del Nilo o sono tombe isolate in cimiteri di altre culture, proprio come notato in Egitto.

La presenza a partire dal 1400 a.C. di gruppi con cultura materiale simile alla Pangrave in aree anche più meridionali, come il Sudan sudorientale, suggerita da K. Sadr, è stata rimessa recentemente in discussione, in quanto si è evidenziato come i tratti ceramici ritenuti inizialmente Pangrave siano in realtà presenti anche nel Gruppo C e nella ceramica Kerma, specie in contesti domestici.

Nel Sudan sudorientale continua tra III e II millennio a.C. lo sviluppo della Tradizione Ceramica dell’Atbai, iniziata con il Gruppo di Amm Adam. In particolare, tra il 2500 e il 1400 a.C., si sviluppò il Gruppo del Gash. La cronologia di tale cultura è stata stabilita grazie a delle datazioni al radiocarbonio ottenute da sequenze stratigrafiche

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del sito di Mahal Teglinos, presso Kassala, che hanno confortato le datazioni già proposte sulla base del rinvenimento di materiali di datazione nota provenienti dall’Egitto e dalla Nubia. Sulla base dei cambiamenti della tipologia ceramica si sono distinte varie fasi di sviluppo di questa cultura: Gruppo del Gash antico tra 2500 e 2300 a.C., Gruppo del Gash medio tra 2300 e 1900 a.C., Gruppo del Gash classico tra 1900 e 1700 e Gruppo del Gash tardo tra 1700 e 1400 a.C. La ceramica era caratterizzata dalla rifinitura delle superfici con un pettine o un arnese a più punte che produceva il tipico aspetto “graffiato”, da cui deriva il nome inglese di questa ceramica, detta appunto “scraped ware”. La “scraped ware” si fa via via più numerosa e meno fine nel corso dello sviluppo del Gruppo del Gash, nelle cui fasi finali è spesso associata a orli con l’estremità impressa o pizzicata. Le bande incise o impresse lungo l’orlo dei vasi, che sono un’altra decorazione tipica della ceramica del Gruppo del Gash, divengono meno accurate e aumentano le dimensioni medie dei recipienti. Presenti in tutte le fasi del Gruppo del Gash sono anche i recipienti “a bocca nera”.

La sussistenza del Gruppo del Gash era basata sull’allevamento di ovini e bovini e sull’agricoltura, con coltivazione forse dell’orzo. Non erano peraltro state abbandonate le attività di pesca, caccia e raccolta di piante selvatiche, testimoniate dai rinvenimenti paleobotanici e archeozoologici.

La maggior parte dei siti del Gruppo del Gash pare essere concentrata presso dei paleoalvei del fiume Gash tra il corso attuale di quest’ultimo e l’Atbara. Le dimensioni dei siti e la concentrazione dei resti sulla loro superficie hanno permesso di distinguere almeno cinque differenti livelli di gerarchia tra i siti stessi. Ciò potrebbe suggerire il conseguimento di un certo livello di gerarchizzazione sociale, confermato anche dal rinvenimento a Mahal Teglinos di tracce di amministrazione, quali sigilli e “tokens” o gettoni, usati per pratiche di contabilità, già in livelli del III millennio a.C. Nel sistema di insediamento del Gruppo del Gash pare abbia avuto una certa preminenza proprio il sito di Mahal Teglinos, caratterizzato da una notevole estensione (circa 10 ettari). Mahal Teglinos e l’altro sito di maggior estensione del Gruppo del Gash, Gebel Abu Gamal, erano localizzati presso due prominenze granitiche. Almeno nel caso di

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Mahal Teglinos, questo potrebbe essere dovuto a ragioni di difesa, visto che il sito è localizzato proprio in una piccola valle circondata dai picchi rocciosi, oppure a un qualche significato sacro attribuito a queste montagne, che comunque potevano rappresentare anche dei comodi punti di riferimento per orientarsi in una regione per il resto pianeggiante.

A Mahal Teglinos si sono rinvenute delle aree cimiteriali segnalate almeno dalla fine del Gruppo del Gash medio, intorno al 2000 a.C., da delle stele presso cui si svolgevano probabilmente delle offerte funerarie testimoniate dalla grande quantità di resti di ossa animali scoperte in loro prossimità. Le sepolture associate alle stele erano caratterizzate da corpi deposti sul dorso o, talora, soprattutto nel corso del Gruppo del Gash antico, in posizione contratta. Mentre nelle fasi iniziali di questa cultura i corredi erano limitati ai soli ornamenti personali, nelle fasi più tarde in alcune tombe compaiono anche corredi costituiti da vasi e da diademi di conchiglie marine del Mar Rosso, da perline in pietre dure e faience (Fig. 28).

Figura 28: dettaglio di una sepoltura del cimitero occidentale del Gruppo del Gash tardo. Si noti la presenza come corredo di un vaso e di un ornamento in conchiglie marine in origine fissate con una fascia in pelle sulla fronte dell’inumato (per concessione della Missione Archeologia de “l’Orientale” in Sudan, Napoli).

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Nell’area di abitato di Mahal Teglinos, accanto a tracce di strutture in materiali deperibili simili ai “tuqul”, capanne tonde ancora oggi in uso, si sono rinvenute, a partire almeno dal 2400 a.C., anche strutture in fango indurito e in mattoni crudi che, almeno dal 1700-1400 a.C., presentavano delle piante rettangolari.

Altri siti del Gruppo del Gash sono stati segnalati anche in aree distanti dal fiume Gash, tra i monti del Mar Rosso, presso Erkowit, e presso Agordat, nella valle del Barca, un altro corso d’acqua che, come il Gash, scende dall’altopiano etiopico-eritreo verso il Sudan. Ciò suggerisce che il Gruppo del Gash, specie nelle sue fasi più tarde, fosse una cultura diffusa su un’area piuttosto estesa.

Il Gruppo del Gash pare aver avuto contatti con l’Alta e la Bassa Nubia, l’Egitto e l’Arabia meridionale, testimoniati dai materiali ceramici importati rinvenuti a Mahal Teglinos. In particolare pare che i contatti con la cultura Kerma siano stati particolarmente intensi tra il 2000 e il 1500 a.C. Il Gruppo del Gash deve aver quindi svolto una funzione commerciale di grande rilievo lungo le carovaniere che rifornivano l’Egitto di incenso, avorio e altri prodotti di lusso provenienti dal Corno d’Africa e dall’Arabia meridionale.

Al Gruppo del Gash successe intorno al 1400 a.C. il Gruppo di Jebel Mokram, che, stando alle datazioni radiometriche, si prolungò fino all’800 a.C. I siti di questa cultura sono più dispersi nella steppa tra Gash e Atbara rispetto alla fase precedente e sono in media più piccoli e con deposito archeologico meno consistente. Ciò suggerisce che questa cultura abbia praticato un’economia mista agropastorale e di caccia e raccolta, con maggiore enfasi proprio sulla componente pastorale, che poteva stagionalmente sfruttare anche aree altrimenti marginali da un punto di vista agricolo. Una certa articolazione del sistema di insediamento fu conservata in questa fase, anche se si nota una minore gerarchizzazione dei siti rispetto al Gruppo del Gash. In particolare, nella fase più tarda del Gruppo di Jebel Mokram prevalgono soprattutto piccoli siti a carattere temporaneo e, forse, stagionale.

Solo aree molto limitate dei siti di questa cultura sono state scavate, e se ne deduce che gli abitati dovevano essere costituiti da capanne in materiali deperibili a pianta circolare. Dei tumuli in pietra in genere

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gravemente disturbati potrebbero essere le strutture funerarie utilizzate da questa cultura.

La ceramica del Gruppo di Jebel Mokram è caratterizzata da una certa continuità con la produzione del Gruppo del Gash, cui si affianca però una componente con tipi di coppe “a bocca nera” con orlo sottolineato da un’incisone, coppe decorate con solchi paralleli all’orlo, o incisioni incrociate sulla parte superiore del vaso accostabile alle produzioni vascolari delle culture nubiane.

Nel Butana fino alla prima metà del II millennio a.C. disponiamo della documentazione dell’area archeologica di Shaqadud. Per il III e II millennio la cultura materiale messa in luce in quest’area è caratterizzata da ceramica con superfici “scraped”, decorazioni in banda lungo l’orlo e ceramica con impressioni di unghie, detta “finger nail”. La ceramica sembra quindi mostrare strette relazioni con la produzione del coevo Gruppo del Gash. Le dimensioni limitate dei siti di questa fase nell’area archeologica di Shaqadud sembrano essere spiegabili con frequentazioni stagionali, forse connesse a spostamenti di allevatori transumanti.

Nella Gezira continua in questa fase lo sviluppo della Jebel Moya Tradition, documentata sui siti di Gebel Moya, Rabak e Gebel Tomat. La ceramica continua a essere caratterizzata dall’uso dello “scraping”, associato spesso a orli pizzicati e/o impressi, da vasi con motivi decorativi a spina di pesce su orli arrotondati e ispessiti, da impressioni “finger nail” e da bande impresse e/o incise lungo gli orli. Come già detto, tutti tali elementi sono presenti anche nel Butana e nel Sudan sudorientale in epoca grosso modo coeva. Queste somiglianze nella produzione ceramica sembrano suggerire che allora esistessero dei rapporti abbastanza intensi tra tutte queste regioni certamente non ostacolati da fattori climatici, visto che stagionalmente beneficiano tutte di piogge monsoniche.

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15. Il vicereame egiziano in Nubia Nella fase di grande potenza politica corrispondente al Secondo

Periodo Intermedio egiziano i sovrani di Kush entrarono anche in contatto con i principi Hyksos che governavano il Basso Egitto. La via attraverso cui tali rapporti si svolgevano è l’antica pista delle oasi, grazie alla quale si poteva evitare di passare per le aree controllate dai principi tebani. La stele di Kamose, uno dei principi tebani che s’impegnarono per la riunificazione dell’Egitto, illustra la situazione nel corso del Secondo Periodo Intermedio, nel momento stesso in cui essa cambiava per la volontà tebana di riguadagnare il controllo della pista delle oasi e spezzare così il rapporto di alleanza tra Kush e gli Hyksos. Anche la Tavoletta Carnarvon, un documento della stessa fase, associa la riconquista del nord con il bisogno di risolvere la situazione di pericolo nel sud. I principi tebani temevano evidentemente un attacco concordato e contemporaneo da nord e da sud capace di schiacciarli. La caduta degli Hyksos per mano dei principi tebani non solo condusse alla riunificazione dell’Egitto e all’inizio del periodo noto come Nuovo Regno, ma aprì anche la via delle conquiste asiatiche. Una situazione analoga pare essersi verificata anche in Nubia dopo le prime campagne condottevi dagli stessi principi tebani.

I graffiti di Arminna Est provano il successo delle prime operazioni militari contro Kush. Vi sono menzionati anche i primi governatori della Bassa Nubia nominati dai principi tebani tra cui Tjuroy, nominato da Ahmose con il titolo di “chesu”, ovvero governatore, di Buhen, e confermato da Amenhotep I con il nuovo titolo di “Sa Nesut en Kush”, “figlio del re di Kush”, che divenne poi il titolo tradizionale dei governatori egiziani della Nubia per tutto il Nuovo Regno. Un’idea più completa delle attività in Nubia dei primi re della XVIII dinastia possiamo averla dalle biografie di alcuni personaggi che presero parte alle spedizioni militari di quei sovrani, come Ahmose figlio di Ibana e Ahmose Pen-nekhbet. Ahmose figlio d’Ibana partecipò alla campagna del re Ahmose in una regione nota come “Chenet-hen-nefer” e alla riconquista del Basso Egitto. La campagna verso sud si svolse verosimilmente in Bassa Nubia. La campagna

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successiva cui prese parte Ahmose figlio di Ibana si svolse sotto il regno di Amenhotep I e fu probabilmente di più ampia portata. A quest’ultima campagna partecipò anche l’altro guerriero di El Kab, Ahmose Pen-nekhbet. È allora che viene dichiarato esplicitamente l’obbiettivo delle operazioni: Kush. Il bestiame dei Nubiani sembra essere considerato come un elemento rilevante nel testo e ciò pare confermare che l’operazione ebbe come teatro l’Alta Nubia, regione tradizionalmente ricca di pascoli. L’ultimo episodio di espansione verso sud menzionato nelle biografie dei due guerrieri di El Kab è la campagna contro Chenet-hen-nefer e Kush di Thutmosis I. La campagna cui parteciparono i due Ahmose di El Kab è forse quella commemorata a Tombos e datata al suo secondo anno di regno. Il ritorno del re vittorioso è collegato nell’iscrizione di Sehel al ripristino di un canale navigabile attraverso la prima cataratta. In seguito a queste operazioni militari un’iscrizione di frontiera a Kurgus esplicitò formalmente l’annessione del territorio che era stato il cuore del regno di Kush (Fig. 29).

Figura 29: il leone di Thutmosis I dipinto con vernice rossa su un affioramento di granito a Hagar el Merwa marca il punto più meridionale raggiunto dall’espansione militare egiziana agli inizi del Nuovo Regno. In seguito anche Thutmosis III appose le sue iscrizioni di confine nello stesso sito (da Davies in Sudan & Nubia, 5, 2001).

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Le stele di Wadi Halfa e Korosko, dell’epoca dell’ascesa al trono di

Thutmosis I, ci confermano il ruolo di grande rilievo che a quell’epoca esercitava il governatore Thure. Traspare da questi testi l’esistenza di un’amministrazione ben organizzata che, forse già nel corso del regno di Amenhotep I, comprendeva delle regioni a sud di Uauat.

I vicerè della Nubia furono infatti ben presto posti a capo di un’articolata amministrazione che comprendeva due distretti, Uauat e Kush, con confine alla seconda cataratta, governati da due “idenu”, residenti a Faras o Aniba nel caso di Uauat e a Soleb o Amara nel caso di Kush. Le città del vicereame erano amministrate da degli “hati-a”, sindaci, le fortezze da degli “chesu”, governatori, o da degli “hery pedet”, capi degli arcieri. L’organizzazione militare del vicereame era posta sotto il controllo di un “comandante del battaglione di Kush”.

Fin dal regno di Thutmosis I dei principi nubiani entrarono a far parte dell’amministrazione egiziana. I figli dei principi nubiani erano infatti educati presso la corte faraonica e poi, tornati in patria, assumevano responsabilità amministrative, mantenendo il titolo di “ur”, “grandi” o “principi”. Delle famiglie di principi nubiani dovevano risiedere a Aniba, Faras e forse Kubban in Bassa Nubia e altri cinque distretti governati da famiglie di principi locali erano attestati in Alta Nubia nella tarda XVIII dinastia. Secondo l’ipotesi avanzata da Robert Morkot, forse questi distretti più meridionali godevano di più larghe autonomie rispetto alla Bassa Nubia e erano meno profondamente egizianizzati. A conferma di questa ipotesi a Tombos, presso la terza cataratta, in una necropoli caratterizzata da alcune tombe con soprastruttura a piramide simile a quella adottata dagli aristocratici nubiani in Bassa Nubia si sono rinvenute anche delle sepolture coeve con tumulo e con corpi deposti su letti funerari che restano dunque fedeli alle tradizioni nubiane.

Peraltro all’inizio del Nuovo Regno le regioni già comprese nel regno di Kush continuarono ad essere inquiete e soggette a periodiche ribellioni. All’ascesa al trono di Thutmosis II scoppiò nuovamente una rivolta la cui fine è ricordata da un’iscrizione sulla pista tra Assuan e File. La resistenza nubiana doveva allora essere ancora ben organizzata: nell’iscrizione si menziona infatti la cattura dei figli del sovrano di Kush. L’insicurezza in Alta Nubia sembra però essersi

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protratta anche dopo la campagna di Thutmosis II e fino al regno di Thutmosis III. Nel corso del regno di Hatshepsut anzi pare che il tempio e l’insediamento egiziano di Kerma siano stati distrutti e su di essi si imposti una fase caratterizzata da cultura materiale nubiana. A questa fase va probabilmente ascritta una tomba di tipo nubiano rinvenuta a circa 1 km a sud-ovest della città nubiana e che consiste in una specie di pozzo troncoconico di diametro di circa 9 metri al fondo e 17 in superficie, rivestito di pietra e impermeabilizzato con argilla, cui si accedeva tramite una scala (Fig. 30).

Figura 30: tomba di un principe di Kerma. Localizzata a sud-ovest dell’abitato, fuori dalla grande necropoli, rappresenta forse la tomba di uno degli ultimo sovrani alto-nubiani che si opponevano all’espansione egiziana agli inizi del Nuovo Regno. Fu sistematicamente distrutta e saccheggiata in antico, forse proprio dai soldati egiziani (da Bonnet, Edifices et rites funéraires à Kerma, Parigi 2000).

Sul fondo si può immaginare fosse costruita una camera funeraria

coperta da una volta. All’esterno, addossata alla struttura che doveva avere un alzato cilindrico di 2-3 m, vi era una piccola cappella anch’essa in pietra, forse intonacata di argilla e decorata con applicazioni in faience. La monumentalità della struttura e i pochi resti del corredo recuperati, visto il saccheggio distruttivo e sistematico cui la struttura fu sottoposta già in antico, suggeriscono che possa trattarsi

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della tomba di uno dei principi nubiani che ancora si opponevano con qualche successo al dominio egiziano. Nel corso del nono anno del regno di Hatshepsut, forse a causa di questa situazione di insicurezza, per ottenere i prodotti di Punt si ricorse come già fatto numerose volte nel corso del Medio Regno a una spedizione marittima.

Lo sforzo di stabilizzare i nuovi territori meridionali acquisiti al controllo egiziano continuò perciò nel corso del regno di Thutmosis III che, ancora sotto la tutela di Hatshepsut, aveva represso una ribellione a Miu. L’iscrizione in cui l’evento è commemorato ci informa della definizione della frontiera, forse quella marcata dall’iscrizione rupestre di Hagar el Merwa, e della cattura di un rinoceronte, maldestramente riprodotto sulla stele di Armant. La regione della frontiera meridionale, tra quarta e quinta cataratta, era nota come Karoy e Thutmosis III vi fondò probabilmente una fortezza. Pare che l’area non fosse densamente popolata e era evidentemente presidiata per motivi strategici, in quanto punto di contatto con i potentati indipendenti più meridionali, tra cui, come vedremo, forse Irem, e per le sue risorse aurifere. Questi avvenimenti potrebbero coincidere anche con la campagna contro Kush di cui parla un testo della tomba di Ineni.

Il legame spesso affermato da Thutmosis III con il suo celebre predecessore Sesostri III è anch’esso indicativo della volontà reale di voler ribadire e legittimare il controllo delle regioni meridionali. Thutmosis restaurò il tempio di Dedun, “protettore di Ta-pedet” a Semna che era stato costruito da Sesostri III e, nel corso della campagna del cinquantesimo anno di regno, rese navigabile la prima cataratta restaurando il canale scavato da Sesostri III nel suo ottavo anno di regno.

La pace che era stata stabilita infine a Kush è documentata anche dall’afflusso di prodotti ricordati negli “Annali” di Thutmosis III sulle pareti del tempio di Karnak. Il tributo di Uauat comprendeva in genere del bestiame, delle messi, dell’oro, dei battelli, dell’avorio, quello di Kush anche dell’ebano. Gli schiavi che vi sono di tanto in tanto menzionati sono evidentemente dei prigionieri catturati nel corso di rivolte locali o di scaramucce di confine. La quantità variabile di schiavi potrebbe essere dunque legata ai mutamenti delle situazioni politiche interne e esterne al vicereame, mentre non vi sono elementi

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per ipotizzare una tratta organizzata e regolare. La quantità dell’oro di Uauat è in genere maggiore rispetto all’oro di Kush poiché, probabilmente, Uauat inglobava almeno parte del corso dello Wadi Allaqi e dello Wadi Gabgaba e senz’altro ne controllava lo sbocco sul Nilo. Al contrario, Kush forniva più frequentemente ebano e avorio, materiali alle cui regioni di produzione era più prossima.

Al regno di Thutmosis III risalgono anche le liste di nomi geografici più complete che ci siano arrivate, quelle fatte incidere dal sovrano sul sesto e settimo pilone di Karnak. Questo tipo di documenti, che ci è noto anche da redazioni più antiche risalenti ai regni di Thutmosis I e di Hatshepsut, permette di apprezzare il dettaglio e la profondità della conoscenza egiziana delle regioni meridionali. Dato che è difficile pensare che una conoscenza così dettagliata si sia formata nel corso di pochi anni all’inizio della XVIII dinastia, è più verosimile che solo in quel momento tali liste siano state fissate su materiale non deperibile in relazione alle nuove esigenze ideologiche dei sovrani. Per quel che riguarda le fonti delle liste, è probabile che si siano usate delle liste o delle vere e proprie carte geografiche provenienti dagli archivi della corte o dell’amministrazione del “figlio del re di Kush”.

Tra i nomi che si leggono nelle liste ve ne sono alcuni che abbiamo già incontrato: Kush, Uauat, Punt, Medja e altri che incontreremo, come Irem. È in genere accettato che, secondo un sistema di lettura inaugurato da Brugsh, questi nomi rappresentino delle regioni più ampie e che aprano specie di paragrafi nella lista. Come vedremo, talora i testi usano espressioni come “i paesi di Punt”, che possono sottintendere proprio delle partizioni interne delle regioni più grandi. Non esiste altro mezzo per riconoscere i titoli dei paragrafi salvo la presenza dei nomi delle regioni più grandi nelle altre iscrizioni, ma il sistema non evita ambiguità. Non si può ad esempio precisare il motivo per cui le regioni maggiori siano state disposte nell’ordine sopra ricordato. Infine, per quel che riguarda il significato da attribuire ai singoli nomi delle varie sezioni, è molto difficile accettare l’ipotesi che essi abbiano un significato etnico o che rappresentino dei potentati politici: solo alcuni di essi sono menzionati in altre iscrizioni come nomi di potentati avversari degli egiziani. Mi sembra dunque più verosimile che si tratti di toponimi, come proposto da Zyhlarz. La

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definizione di “popolazioni vinte” di Schiaparelli non è quindi appropriata: l’iscrizione dei nomi geografici sul petto di figurine di prigionieri è solamente legata a motivi ideologici e, forse, alla volontà di creare un parallelismo con la sezione asiatica in cui i toponimi corrispondevano a delle città, a degli stati o dei potentati.

Anche nel corso del regno di Amenhotep II le liste conservarono questa struttura e probabilmente dipendevano dallo stesso prototipo di quelle di Thutmosis III. Nel corso di questo regno non sembra si siano verificati sforzi di espansione verso sud. Amenhotep II mantenne le frontiere del padre e eresse una stele a Karay, come indicato nell’iscrizione di Minhotep a Tura e confermato dalle tracce lasciate da alcuni suoi funzionari al Gebel Barkal. Era forse la stessa fortezza di confine fondata da Thutmosis III a essere nota all’epoca di Amenhotep II come N-p-t, Napata, di cui ricorrerebbe quindi la prima attestazione in una stele da Amada in cui si narra dell’invio del corpo di un ribelle asiatico destinato ad essere esibito sulle mura di Napata come monito per chi si opponesse al potere egiziano.

La successiva iniziativa militare egiziana di cui si abbia notizia ci è nota da un’iscrizione rupestre a Konosso e avvenne ad opera di Thutmosis IV che condusse una campagna a Uauat e Ta-pedet, in Bassa Nubia. La reale portata dell’operazione non è nota, ma è possibile che si sia svolta nel Deserto Orientale piuttosto che nella valle del Nilo ormai egizianizzata.

Nel corso del regno di Amenhotep III, le regioni del Deserto Orientale erano al centro dell’interesse egiziano non solo in relazione alle piste che conducevano alla costa del Mar Rosso, ma anche in relazione alle risorse aurifere dell’area. È probabile che diverse operazioni militari condotte sotto questo sovrano volessero assicurare proprio la stabilità e il controllo di queste risorse, come forse aveva già fatto Thutmosis IV nella sua campagna contro Uauat. L’iscrizione di Bubastis indica che la campagna di Amenhotep III si rivolse verso luoghi noti come Huat e Chasechet, che erano nella sezione Medja delle liste geografiche di Thutmosis III, e verso Unesek, forse ancora più a sud-est e che poteva essere una regione ancora sconosciuta ai tempi di Thutmosis III. Anche Kush fu oggetto di una spedizione militare: un’inscrizione riutilizzata nel tempio funerario di Merenptah a Tebe celebra in tale occasione l’arrivo dell’oro di Karay, il luogo

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dove Amenhotep II aveva eretto una stele di frontiera. Significativamente, in occasione della stessa campagna si poté anche disporre dei prodotti di Punt.

Le liste geografiche del regno di Amenhotep III sono caratterizzate da una certa originalità, forse legata proprio alla conoscenza di nuove regioni in seguito a queste iniziative militari. Tra i nuovi toponimi, tutti da localizzarsi nel Deserto Orientale, spiccano Ikayta e Ibhet, quest’ultimo ricordato anche in una stele di Semna del “figlio del re di Kush” Merimose. Anche Irem, regione il cui nome spesso ricorre in relazione ai nuovi toponimi, è presente nelle liste di Amenhotep III. Quindi, forse anche questa regione, della cui localizzazione ci si occuperà nel paragrafo seguente, fu coinvolta nelle iniziative militari volte al controllo di più ampie aree del Deserto Orientale.

Il regno di Amenhotep III e quello del suo successore Amenhotep IV-Akhenaton non si discostarono molto tra loro per quel che riguarda l’attitudine verso le regioni meridionali. I rilievi della tomba di Huy a Amarna e a Tebe comprendono, come al solito, scene di tributo e danno informazioni sulla complessità e l’efficienza dell’amministrazione egiziana in Nubia. Tra l’altro, in tale periodo fu eretto un tempio amarniano a Kerma e fu fondata a Kawa una città chiamata “Gem pa Aten”, che ricorda nel suo stesso nome il dio di Amenhotep IV-Akhenaton. Un’iscrizione di Buhen riferisce per tale periodo di operazioni a Ikayta, dove dei rifornimenti alimentari erano stati sottratti dalle popolazioni locali.

Altre operazioni militari in regioni meridionali non meglio identificate sono rappresentate anche sulle pareti della tomba di Horemheb che risalgono all’epoca di Tutankhamon. Delle scene convenzionali di vittoria su Kush decorano il tempio di Gebel Silsila del regno di Horemheb cui risalgono anche dei testi sulle pareti del tempio di Karnak in cui il sovrano si vanta delle sue capacità di mantenere aperte le piste verso le regioni meridionali e, in particolare, Punt, volendosi forse accostare così ai primi re della XVIII dinastia. Tutto ciò non significa però necessariamente che tali relazioni fossero state interrotte in epoca amarniana. D’altro canto, anche le iscrizioni risalenti ai sovrani della XIX dinastia riprendono i temi già presenti in quelle della fine della XVIII dinastia, all’insegna di una grande continuità. Accanto alle campagne contro Irem, di cui si dirà in

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seguito, continua l’interesse per le regioni aurifere del Deserto Orientale. Sethi I fece stabilire e/o rioccupare delle posizioni nel Deserto Orientale, come sottolineato da un’iscrizione a Redesiyeh che menziona un ufficiale di marina incaricato dell’amministrazione di un posto di sosta e rifornimento. Tali istallazioni erano necessarie innanzitutto per lo sfruttamento minerario. Anche le liste geografiche di Sesebi che risalgono allo stesso regno danno grande importanza al Deserto Orientale ripetendo abbastanza fedelmente le liste di Amenhotep III a Soleb.

Le liste di nomi geografici di Ramses II ad Abido riuniscono toponimi di Kush, Irem, Ikayta, Uauat, mentre a Karnak si compongono di toponimi di Irem, Kush e Punt, accostata ai toponimi asiatici insieme a Chemehu, ovvero ai nomi di popoli libici che divengono in questa fase assai numerosi e importanti in ragione dei movimenti che avevano luogo lungo le frontiere occidentali dell’Egitto, come provato anche da una campagna condotta in quell’area dal vicerè di Nubia Setau. Lo stesso vicerè di Nubia Setau, attivo nel corso del regno di Ramses II ci informa del fatto che il capo di Ikayta accompagnato dalla moglie e dal figlio rese omaggio al faraone, forse in seguito a un conflitto armato. Ikayta doveva essere una regione del Deserto Orientale: in una stele da Kubban, insediamento egiziano posto presso la confluenza dello Wadi Allaqi nel Nilo, Ramses II ricorda l’approfondimento di un pozzo sulla via di Ikayta già scavato da Sethi I e ora secco, forse a causa dell’abbassamento della falda idrica legato all’ulteriore inaridimento in corso alla fine del II millennio a.C. La possibilità di accedere a Ikayta pare nel testo direttamente collegata alla possibilità di disporre di metallo prezioso verosimilmente proveniente da quella regione. Ikayta sarebbe quindi da localizzare nell’alto corso dello Wadi Allaqi o, forse, nello Wadi Gabgaba, cioè nelle aree oggetto dell’interesse egiziano già nel corso del regno di Amenhotep III, quando i toponimi Ikayta e Ibhet apparvero nei testi geroglifici, verosimilmente in relazione a una più decisa penetrazione nel Deserto Orientale motivata forse anche dall’esaurimento delle miniere più prossime alla valle del Nilo. Il pozzo di cui parla l’iscrizione di Kubban è forse quello scoperto da una missione archeologica sovietica a 55 km dalla foce dello Wadi Allaqi.

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La diminuzione dei documenti relativi alla Nubia dopo la morte di Ramses II va più messa in relazione alla situazione interna egiziana che a una diminuzione di rapporti con le regioni nubiane. Sappiamo comunque che una ribellione a Uauat fu domata nel corso del regno di Merenptha.

Altre tracce dell’attività della XX dinastia si possono riconoscere nei testi relativi alle spedizioni minerarie nel Deserto Orientale. Nello Wadi Allaqi ci sono numerosi graffiti di commiato e funerari databili al regno di Ramses IV. Il controllo delle regioni meridionali non fu indebolito dalla rivolta di Ikayta che si verificò nel corso del regno di Ramses VI, al contrario questa rivolta dimostra il grado di fedeltà delle popolazioni della Bassa Nubia poiché i loro capi, come Penno principe di Miam, aiutarono gli egiziani a domarla.

Proprio la penetrazione della cultura egiziana in alcuni settori della società nubiana è probabilmente la conseguenza più importante dei cinquecento anni di dominio diretto egiziano sull’Alta e la Bassa Nubia nel corso del Nuovo Regno. Questa efficace opera di acculturazione fu in gran parte svolta attraverso centri urbani egiziani in Nubia di nuova fondazione e, soprattutto, attraverso l’azione della religione e dei templi, in cui venivano venerati dei egiziani e spesso gli stessi faraoni anche se ancora in vita. In alcuni casi specificità nubiane erano mantenute nei templi, come l’adozione di iconografie quale quella della sfinge e dell’Amon criocefali, forse di derivazione nubiana. Essi divennero infatti assai più popolari in Nubia che in Egitto, forse a causa del retaggio della cultura Kerma, in cui, come si è visto, caprovini con acconciature simili a quelle delle sfingi criocefale sono attestati dalla fine del III millennio a.C. e sono riconducibili alle manifestazioni e simbologie connesse agli dei locali. La localizzazione di alcuni templi egiziani costruiti nel corso del Nuovo Regno in prossimità di montagne, come a Gebel Barkal, o la loro natura rupestre, come nei ben noti casi di Abu Simbel ma anche di Ellesya, era forse legata alla sacralità associata ai rilievi rocciosi anche dalle popolazioni locali. I templi egiziani in Nubia accanto alla funzione ideologica e culturale svolsero anche un non meno importante ruolo economico e è verosimile che molte delle terre nubiane fossero state sotto il loro controllo diretto. Tale controllo venne meno alla fine del Nuovo Regno.

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Il vicereame egiziano in Nubia 129

Il periodo relativo alla XX dinastia in Bassa Nubia è in genere considerato una fase di declino economico e sociale, con un progressivo spopolamento dei centri abitati testimoniato dalle poche sepolture ascrivibili alla fine del Nuovo Regno. Tale fenomeno può essere stato favorito anche dai bassi livelli del Nilo che avrebbero potuto rendere l’occupazione della Bassa Nubia da parte di una popolazione numerosa assai difficile in questa fase. I grandi templi costruiti da Ramses II ad Abu Simbel sarebbero quindi divenuti allora specie di cattedrali nel deserto. La mancanza di consistenti testimonianze di occupazione può però anche essere spiegata con il mutare delle pratiche funerarie. Nel corso della XIX e XX dinastia i defunti sono sempre più accompagnati da pochi amuleti di non facile datazione, mentre in precedenza il corredo era assai ricco e comprendeva strumenti, ornamenti personali e vasi. Da notare comunque che in generale molte delle tombe risalenti al Nuovo Regno, seppur caratterizzate da un cultura materiale egiziana, mancano spesso di una caratteristica irrinunciabile in una tomba egiziana, ovvero il ricordo scritto del nome del defunto, denunciando così anche i limiti di un’acculturazione che pure dovette essere abbastanza diffusa.

La fine del dominio egiziano in Nubia è marcato dall’intervento del vicerè di Nubia Panehesy in Alto Egitto su invito del re Ramses XI della XX dinastia per ripristinare una situazione di sicurezza nella tebaide. Sorsero in seguito contrasti tra il clero tebano e lo stesso Panehesy. Infine, con l’ascesa di Herior, che assunse tra l’altro anche il titolo di “figlio del re di Kush”, Panehesy fu costretto a ritirarsi a sud della seconda cataratta, mentre il territorio tra prima e seconda cataratta restò per il momento sotto il controllo del sommo sacerdote di Amon di Tebe. Pare che scoppiò anche un contrasto armato tra Panehesy e Piankh, alleato e successore di Herior. È possibile che anche questa situazione politica e militare contribuì insieme alle condizioni di maggiore aridità della fine del II millennio a.C. al parziale spopolamento della Bassa Nubia. Titoli tradizionalmente legati all’amministrazione civile e militare della Nubia continuarono ad essere utilizzati in Egitto fino alla metà dell’VIII sec. a.C., ma è difficile pensare che riflettessero reali ruoli amministrativi e vanno piuttosto considerati poco più che onorifici, visto che difficilmente i

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Capitolo 15 130

personaggi che li portavano controllarono mai aree più a sud di Kubban.

Se il dominio egiziano del Nuovo Regno venne meno, il retaggio culturale egiziano invece continuò, come vedremo, a essere presente nella storia della Nubia anche nei secoli seguenti.

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16. Le regioni a sud del vicereame nelle fonti egiziane La rinnovata coesione, la potenza dello stato faraonico del Nuovo

Regno e il controllo dell’Alta Nubia diedero agli egiziani la possibilità di istaurare rapporti diretti e continuativi con regioni più interne dell’Africa. Aumentarono quindi i riferimenti a queste ultime nei documenti testuali e iconografici egiziani, che spesso forniscono le sole informazioni disponibili su di esse. Come vedremo, anche per le fonti testuali egiziane risalenti al Nuovo Regno cruciale resta il problema della localizzazione delle regioni menzionate.

Tra le regioni a sud della frontiera egiziana su cui le fonti testuali e iconografiche egiziane forniscono importanti informazioni va senz’altro ricordata la terra di Punt. In particolare, fondamentali per lo studio di Punt sono i rilievi e i testi commemoranti una spedizione inviatavi dalla regina Hatshepsut, agli inizi della XVIII dinastia. Questi rilievi, nella metà settentrionale del portico della piattaforma mediana del tempio della regina a Deir el-Bahri, sono infatti il documento più importante su Punt che ci sia pervenuto. La localizzazione dei rilievi e le parole del dio Amon a proposito della spedizione ci indicano l’importanza ideologica che questa assunse, confermata dalla sua centralità anche nei testi dello Speos Artemidos della stessa Hatshepsut, in cui si ricorda il controllo delle terrazze dell’incenso e l’apertura delle due vie per Punt “per mare e per terra”, secondo l’espressione usata nei testi. Sono inoltre frequenti i riferimenti a Punt nelle tombe dei funzionari della regina. Scene di pesatura dei prodotti di Punt, Ta-pedet, ovvero la terra dell’arco, la Nubia, e di Amau, un’altra regione il cui nome ricorre in associazione a Punt anche a Deir el-Bahari, decoravano infatti le tombe di dignitari come Puemre e Thutiy, mentre la presenza di una scena ambientata a Punt nella tomba di Hepusoneb suggerisce la partecipazione di quest’ultimo alla spedizione voluta da Hatshepsut.

A Deir el-Bahari, nel discorso del dio Amon, la necessità di evitare intermediari e l’accesso diretto ai prodotti di Punt, come avveniva nei tempi mitici, sono contrapposti alla situazione ereditata dalla regina. Non vanno però prese alla lettera le affermazioni circa l’unicità dell’impresa organizzata dalla sovrana. L’ipotesi per cui la sua

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spedizione sarebbe stata importante e unica a causa del tentativo di acclimatare gli alberi dell’incenso o della mirra in Egitto è tutt’altro che sicura: tentativi simili ebbero luogo in seguito sotto Ramses III e, forse, Ramses II e possono essere avvenuti anche in precedenza.

Sono i rilievi che accompagnano il testo ad offrire numerose informazioni su Punt. In una prima sezione si descrive la navigazione, l’arrivo degli egiziani e l’accoglienza da parte degli abitanti di Punt (Fig. 31), in una seconda sezione si descrivono le attività condotte a Punt dagli egiziani e i preparativi per la loro partenza. Ai piedi della parete e tra le due sezioni due registri rappresentano la fauna acquatica incontrata nel corso del viaggio.

Figura 31: particolare dei rilievi di Hatshepsut a Deir el-Bahari. È raffigurato l’arrivo degli egiziani a Punt. Si noti la rappresentazione della fauna marina nel registro più basso. Il capo di Punt, sulla destra con le braccia levate è rappresentato dinnanzi a merci destinate agli egiziani

Nel primo registro la spedizione, composta anche da soldati è accolta dallo “ur”, “grande – principe”, di Punt Parehu e da sua moglie Iti, seguiti da due figli e una figlia. Nel secondo registro

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Parehu e sua moglie offrono dei doni di benvenuto tra cui oro e aromi al capo della spedizione dinnanzi alla sua tenda. La famiglia del capo di Punt è seguita da altri personaggi con doni. In ambedue i registri lo spazio restante è occupato dalla raffigurazione del villaggio di Punt con strutture a due piani, alberi, palme e bovini a corna corte.

Nella seconda sezione, più frammentaria, i due registri inferiori terminano a destra con gli egiziani e gli indigeni che trasportano sulle navi degli alberi di incenso o mirra, “antyu” in egiziano, mentre nei due registri superiori dei capi “uru” di Nemy, Irem e Punt rendono omaggio ai nomi reali della regina. La parte centrale dei registri era occupata dalle attività di raccolta degli aromi e dell’ebano con l’apparente eccezione del registro superiore, dove erano rappresentati delle strutture abitative del villaggio e Parehu nell’atto di offrire un cono di incenso presso un piccolo tempio dove forse delle statue portate a Punt dalla spedizione egiziana erano state poste. Una grande figura della regina separa questa parte da quella che descrive il ritorno in Egitto, le fasi della pesatura dell’oro e dell’“antyu”, della presentazione del tributo di Punt e di altre regioni, forse Irem e Nemy.

Sulla base di questi rilievi si è cercato a più riprese di proporre una localizzazione della regione di Punt. I rilievi non vanno però considerati come una rappresentazione realistica e quasi etnografica ma rispondono probabilmente a un’idea di esotismo e meraviglioso tipica dell’inizio del Nuovo Regno piuttosto che a qualche situazione reale. Se si possono quindi avanzare dubbi sulla coerenza del quadro complessivo, il gusto per il meraviglioso e l’esotico che lo permeano si incarnano però in manifestazioni e elementi che, presi singolarmente, sono veri e reali e che dovevano derivare dalla conoscenza che gli egiziani avevano delle regioni meridionali. Ciò può giustificare un esame dettagliato dei singoli elementi contenuti nei rilievi anche al fine della localizzazione della regione di Punt.

Finora elementi utili alla localizzazione di Punt sono derivati dall’esame della distribuzione della flora, della fauna, delle risorse minerarie associate a Punt a Deir el-Bahri e negli altri documenti egiziani, dalle caratteristiche con cui sono rappresentati gli abitanti di Punt.

Gli alberi da cui si ricavano gli aromi che erano importati da Punt sono presenti in determinate zone del Corno d’Africa e dell’Arabia

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meridionale. Nei rilievi di Deir el-Bahri sono anche rappresentate delle palme dum, una specie di origine africana che è stata però importata e coltivata in Arabia. La loro associazione con i babbuini sembra peraltro suggerire una localizzazione africana per la scena. Anche l’ebano, usato dagli egiziani e che era un altro prodotto che caratterizzava Punt, sembra derivare da specie africane.

La fauna acquatica è stata studiata per identificare lo “uadj-ur”, il “grande verde” su cui si svolgeva la navigazione verso Punt. A tale proposito va notato come l’argomentazione secondo cui la navigazione sarebbe avvenuta sul Nilo, vista la mancanza nei rilievi di Deir el-Bahri di un riferimento al tratto via terra dal Nilo al Mar Rosso, non può essere accettata in ragione della natura simbolica delle raffigurazioni. Inoltre, le navi di Hatshepsut avrebbero incontrato enormi difficoltà a superare la cataratte. I rinvenimenti di Mersa Gawasis, di cui si è detto in precedenza dimostrano inoltre che nelle epoche precedenti e fino all’inizio del Nuovo Regno le spedizioni verso Punt ebbero come teatro il Mar Rosso. I pesci rappresentati nei rilievi di Hatshepsut sono sia di specie marine sia di specie fluviali, forse in relazione alla navigazione fluviale effettuata da Tebe al punto dove la spedizione abbandonò la valle del Nilo e si inoltrò nel Deserto Orientale per raggiungere il Mar Rosso. Questa considerazione potrebbe spiegare anche l’espressione ripetuta spesso nel testo che accompagna i rilievi secondo cui la spedizione si svolse “sulle acque e sulla terra”.

Nei rilievi sono rappresentate anche altre specie animali terrestri, come il babbuino e il leopardo, presenti sia in Africa sia in Arabia e delle specie tipicamente africane, come la giraffa e il rinoceronte. Si è sottolineato come il rinoceronte di Deir el-Bahri sembri avere un solo corno e che ciò lo farebbe accostare alla specie asiatica di India, Java e Sumatra piuttosto che a quella africana. Questa interpretazione è però poco verosimile poiché la mancanza del secondo corno può essere spiegata da un lato con la giovane età dell’esemplare rappresentato, dall’altro con la scarsa dimestichezza degli artisti egiziani con questo genere di animale, dimostrata anche dalla maldestra rappresentazione del rinoceronte nella stele di Thutmosis III citata in precedenza e in un determinativo della stele C 14 del Louvre. Anche più a sud dell’Egitto

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peraltro la rappresentazione di questo animale era molto approssimativa, come dimostrato da una figurina scoperta a Kerma.

Infine, per quel che riguarda le specie domestiche, i bovini a corna corte appaiono nei rilievi di tombe egiziane della V dinastia e dei resti scheletrici ne attestano la presenza nel Sahara tra il V e il IV millennio a.C. Delle rappresentazioni nell’arte rupestre di bovini a corna corte sono poi attestate vicino a Karora in Eritrea settentrionale, nel Khor Nubt nel Deserto Orientale nubiano, e lungo il corso del Mareb-Gash.

I filoni auriferi hanno una grande diffusione nei monti del Mar Rosso e nelle regioni più meridionali, la loro presenza è quindi poco indicativa per il problema della localizzazione di Punt. Al contrario, le fonti di elettro, ovvero di una lega naturale di oro e argento, sono localizzate per quanto ci è noto solo nell’Etiopia occidentale. Nei testi che affiancano i rilievi di Deir el-Bahri si dice che l’elettro arrivava dalla regione chiamata Amau, come d’altro canto detto anche nei testi dello Speos Artemidos, sempre datati al regno di Hatshepsut. È dunque verosimile che questo materiale, chiamato dagli egiziani “oro verde” per il suo particolare colore, provenisse da regioni in prossimità o all’interno di Punt.

Riguardo infine gli abitanti di Punt, stando a quanto si può desumere dai rilievi, sembra siano stati un gruppo piuttosto composito. Nei settori dei rilievi con scene di raccolta e trapianto dell’“antyu” sono rappresentati degli indigeni dai tratti negroidi assimilabili a quelli del “tipo nubiano”, mentre altri indigeni in questa stessa parte e in altri settori dei rilievi non paiono ascrivibili a tale tipo. Gli artisti egiziani non volevano certo fornirci una rappresentazione realistica e etnografica della realtà di Punt ma senz’altro alcuni degli abitanti di quella regione erano sentiti come diversi da quelli di Uauat e Kush. Nella scena dell’offerta dei doni agli egiziani, gli abitanti di Punt hanno dei lunghi capelli che scendono sulle spalle e sono talora trattenuti da una fascia, talora portano una barba posticcia che ricorda quella del faraone. L’abbigliamento consiste semplicemente in un gonnellino e talora sono anche rappresentati degli ornamenti personali.

Questa caratterizzazione non si discosta molto da certe rappresentazioni di asiatici e ha suggerito che almeno una parte degli abitanti di Punt avesse un’origine semitica e forse sudarabica. In

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effetti, gli abitanti di Punt assomigliavano in un certo modo anche agli stessi egiziani. Non può quindi essere escluso a priori che una componente della popolazione di Punt provenisse dalla sponda asiatica del Mar Rosso.

Un argomento a favore dell’ipotesi di una popolazione mista può derivare anche dai numerosi riferimenti a dualismi presenti nel testo che accompagna i rilievi e che non possono essere spiegati da semplici ragioni stilistiche. Più volte si incontra infatti l’espressione al duale “sulle due rive”, mentre gli abitanti della “Ta-necher”, la “Terra del Dio” nel testo sono poi detti Puntyu e Chebestyu. Questi ultimi sono stati accostati agli Habashat d’Etiopia, ma purtroppo questa suggestiva ipotesi di identificazione non può essere per il momento avvalorata, visto che la popolazione in questione ricorre nei testi egiziani solo in questo caso. Si è anche proposto che almeno in questo caso il nome “Ta-necher” sia da riferire all’Arabia meridionale, ma, visto il già evidenziato valore ideologico-religioso di questo toponimo, potrebbe altrettanto bene riferirsi semplicemente alla stessa Punt.

L’aspetto del capo di Punt si discosta in parte da quello finora descritto per gli altri Puntiti: i capelli aderiscono al cranio a mo’ di calotta, porta braccialetti alle caviglie, un pugnale alla cintura, come peraltro anche il primo offerente nel registro superiore della scena di benvenuto. La barba pare posticcia e potrebbe non essere una vera barba quanto piuttosto un’insegna di rango, come pure anche il pugnale che il capo reca alla cintura. Quest’ultimo è stato accostato al pugnale etnograficamente portato dai maschi adulti nello Yemen, ma si tratta solo di uno dei numerosi altri possibili accostamenti con diverse realtà etnografiche più o meno recenti e vicine geograficamente. Nel registro con scene di benvenuto, il capo di Punt reca un bastone di comando. Il suo ruolo doveva avere tratti sacrali giacché è anche rappresentato nell’atto di sacrificare presso un piccolo tempio.

Anche gli ornamenti visibili al collo di numerosi personaggi raffigurati nei rilievi potrebbero essere insegne di rango: i gioielli del capo di Punt e della moglie sono i più elaborati tra quelli rappresentati insieme a quelli dell’altro personaggio maschile con coltello. Si tratta di collane costituite da elementi circolari o sferici di grandi

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dimensioni. Anche l’attitudine di offerente del secondo personaggio con coltello nella scena di benvenuto agli egiziani suggerisce per lui un ruolo particolare. Non esistono però riferimenti testuali che esplicitino tale ruolo e i suoi eventuali legami con il capo di Punt.

Iti, la moglie del capo di Punt, è rappresentata come una donna piuttosto corpulenta (Fig. 32).

Figura 32: il capo di Punt e sua moglie nei rilievi di Hatshepsut a Deir el-Bahari. Si noti l’aspetto corpulento di lei, probabilmente spiegabile con la manifestazione del rango economico e politico suo e del marito.

Ciò è stato spiegato con una sua presunta patologia, forse la

distrofia muscolare. È però più probabile che si tratti di una massa di grasso simile a quella tipica delle popolazioni khoishanidi dell’Africa meridionale. La steatopigia di queste popolazioni è potenziale ma in questa manifestazione così accentuata e ostentata potrebbe spiegarsi anche in relazione a fattori socio-culturali, analogamente a quanto avviene presso alcune popolazioni di allevatori di bovini (e

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l’importanza dell’allevamento dei bovini a Punt è evidente nei rilievi di Deir el-Bahari). In alcune culture di allevatori di bovini, infatti, le mogli del capo e dei personaggi più importanti che possedevano numerosi bovini erano artificialmente ingrassate grazie a una dieta ricca di latte, diventando così la manifestazione più evidente della ricchezza in termini di capi di bestiame del coniuge. La moglie del capo di Punt ha in ogni caso nei rilievi di Deir el-Bahari una certa importanza evidenziata dal fatto che ne viene indicato il nome e che è rappresentata per ben due volte. Anche l’asino della moglie del capo di Punt potrebbe essere interpretato come un’ulteriore manifestazione del suo rango. L’importanza dei personaggi femminili a Punt è infine sottolineata dalla rappresentazione della figlia del capo di Punt a fianco dei suoi fratelli.

Quelle desumibili dai rilievi di Deir el-Bahari non sono le sole notazioni di cui disponiamo a proposito della popolazione di Punt. A Punt, come evidenziato a proposito della più antica spedizione del “tesoriere del dio” Baurded nel corso del regno di Gedkare-Isesi e menzionata nell’iscrizione di Harkhuf, era anche possibile reperire dei pigmei, utilizzati poi anche come danzatori. In effetti, sembra che la parola egiziana “deneg” si riferisca proprio ai pigmei piuttosto che a individui affetti dalla patologia del nanismo. Fino al 1930 delle popolazioni di pigmei erano presenti nel Bahr el Ghazal, in Sudan, e non è possibile escludere una loro diffusione anche in aree più settentrionali nelle fasi più antiche. D’altro canto, i pigmei catturati potevano essere condotti in zone anche distanti da quelle di origine attraverso scambi successivi. Il ricordo della parola egiziana “deneg” potrebbe sopravvivere bei termini amarico “denk” e tigrino “denkit” che significano “nano”.

Riguardo infine la tipologia delle strutture abitative raffigurate nel villaggio dei Puntiti, pare si tratti di strutture a due piani, forse con stalle o ripari per il bestiame al piano inferiore. Si può peraltro anche immaginare che il piano superiore fosse destinato a granaio, come accadeva fino al secolo passato nel caso di strutture simili presso gli Azande.

Come via via evidenziato, quindi, alcuni degli elementi presenti nei rilievi di Deir el-Bahari insieme a elementi desumibili da fonti precedentemente esaminate possono essere utili per proporre una

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localizzazione di Punt e avvalorare una delle due teorie proposte dagli studiosi, ovvero di una localizzazione africana, in un’area variabile tra la confluenza tra Nilo Bianco e Nilo Azzurro e la Somalia, o di una localizzazione in Arabia, nello Yemen o nell’Hadramaut attuali. L’ipotesi di una localizzazione sulla costa africana sembra alla luce di quanto detto la più probabile e la distribuzione delle risorse importate da Punt ci fa propendere per una localizzazione a sud di Port Sudan. Non si può peraltro escludere che gli egiziani fossero al corrente che Punt o, almeno, Ta-necher si estendessero anche nell’entroterra e sulla costa orientale del Mar Rosso. La presenza di reti di scambio locali tra le due coste e tra le aree costiere e le regioni dell’entroterra poteva infatti rendere disponibili in approdi frequentati dagli egiziani anche merci provenienti da regioni assai remote.

Gli egiziani dovevano trattenersi a Punt alcuni mesi nel corso dei quali avevano la possibilità di inoltrarsi nell’entroterra e alla ricerca di determinati prodotti mentre altri potevano essere portati verso gli approdi dalle popolazioni della regione, almeno in parte costituite da allevatori di bestiame e che verosimilmente praticavano spostamenti stagionali. Punt o, almeno, una sua parte doveva essere una società gerarchizzata, forse anche in relazione alla natura etnicamente composita della sua popolazione.

L’allevamento riguardava bovini a corna corte e bovini a corna lunghe, forse i primi diffusi nella regione costiera e i secondi nell’entroterra. La differenza delle specie pare corrispondere nei rilievi alla già menzionata differenza etnica tra gli allevatori. Si noti che tale tipo di economia pare anche accordarsi con il ruolo preminente della moglie e della figlia del capo di Punt, che concorda con l’importanza della donna presso alcuni gruppi africani di allevatori.

La rappresentazione dei figli e della figlia del capo di Punt ci indica la loro prominenza sociale benché non si possa dire se e come il rango dei genitori fosse trasmesso alla prole.

Parehu non è il solo capo di Punt rappresentato a Deir el-Bahri: altri “uru”, “grandi-principi”, di Punt sono rappresentati nell’atto dell’adorazione dei nomi reali. L’espressione “Chasut en Punt”, “i paesi di Punt”, al plurale può nascondere una realtà frammentaria costituita da gruppi diversi che abitavano forse regioni diverse anche ecologicamente. L’etnografia potrebbe suggerire che tali popolazioni

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avessero dei luoghi sacri comuni dove si potevano svolgere scambi e contatti tra i diversi gruppi.

Insieme ai capi di Punt a Deir el-Bahari rendono omaggio ai nomi reali anche dei capi di Irem e di Nemy. Ciò suggerisce che queste regioni non fossero distanti da Punt. Il problema della localizzazione di Irem sarà comunque ripreso in seguito.

Anche gli Annali di Thutmosis III, correggente e poi successore di Hatshepsut, menzionano Punt. Per due volte si ricorda infatti l’arrivo di prodotti di Punt, mai indicati però con la parola “baku”, cioè “tributi”, usata per quanto giungeva da Uauat e de Kush, ma piuttosto con il termine “byaut inyt”, ovvero “meraviglie portate”, a indicare forse che tale regione non era sottoposta a un diretto controllo egiziano. Nel caso della prima menzione di Punt, si tratta dell’arrivo di un prodotto già menzionato a Deir el-Bahari, l’oro di Amau e di altri prodotti tra cui del bestiame, nel secondo caso solo di incenso. La presenza del bestiame suggerisce che, allora, dopo la definitiva sottomissione dell’Alta Nubia, le relazioni tra Egitto e Punt si potessero svolgere per vie terrestri.

L’incenso è menzionato negli stessi Annali insieme all’avorio anche nell’anno trentunesimo di regno di Thutmosis III come tributo di Genebtyu. Secondo Saleh, si tratterebbe della prima e, malauguratamente, anche dell’ultima prova di una relazione diretta tra Egitto e Arabia meridionale: i Genebtyu sarebbero infatti da identificarsi con i Gebbenitae degli autori greci e latini, ovvero i Qatabaniti. Purtroppo, vista proprio l’unicità dell’episodio, è difficile per il momento dire qualcosa di più in proposito. Se un rapporto diretto ci fu, si trattò in ogni caso di un episodio limitato e circoscritto. Anche se si ammette che i Genebtyu fossero i Qatabaniti, poi, non si può dire se allora occupassero già alcune aree dell’Arabia meridionale.

Al regno di Amenhotep II è presumibilmente datata la decorazione della tomba 143 a Tebe, su cui è rappresentato l’arrivo di una delegazione di Punt in un punto imprecisato sotto il controllo egiziano su delle imbarcazioni assai semplici dalle fiancate basse, simili ai kelek in uso fino a tempi recenti nel Golfo Persico. Questo episodio potrebbe essersi verificato in Alta Nubia e la navigazione essere stata fluviale ma la navigazione costiera di piccolo cabotaggio fu sempre

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molto attiva nel Mar Rosso, come ricordato anche nel Periplo del Mare Eritreo, specie di portolano e guida commerciale di epoca alto-imperiale romana. Per quel che riguarda la provenienza di tali imbarcazioni, e la localizzazione di questo episodio, Saleh ha proposto che venissero dalla costa arabica del Mar Rosso e che siano giunte in un qualche luogo della costa del Deserto Orientale egiziano. Se gli egiziani avessero avuto la consapevolezza di poter ottenere i prodotti di Punt semplicemente attraversando il Mar Rosso a questa latitudine, ci saremmo però potuti aspettare da parte loro un maggior interesse per la costa arabica del Mar Rosso prospiciente l’Egitto. Pare inoltre improbabile che questo tipo di imbarcazioni fosse utilizzato per attraversare il Mar Rosso a latitudini così settentrionali, dove le due coste sono molto distanti e i venti e le correnti violenti. Le imbarcazioni della tomba 143 sembrano invece avere un fondo piatto e ciò le rende più indicate per la navigazione costiera in presenza della barriera corallina che caratterizza le coste del Mar Rosso e che rende le correnti sotto costa meno violente. L’utilizzazione di simili imbarcazioni per attraversare il Mar Rosso era verosimile solo più a sud, nella zona tra il Golfo di Aden e il Mar Rosso, dove si riproducono anche in alto mare condizioni simili a quelle costiere. I Puntiti dovevano essere quindi giunti in un punto controllato dagli egiziani grazie a una navigazione costiera nel Mar Rosso. La semplicità delle imbarcazioni suggerisce che non potessero coprire grandi distanze, ma il viaggio si sarebbe anche potuto svolgere con numerose tappe e non è escluso che la stessa rappresentazione delle imbarcazioni non sia in parte semplificata visto che, dopo tutto, erano capaci di trasportare merci ingombranti come anche un albero di incenso. Qui, come a Deir el-Bahri, i Puntiti mostrano una certa varietà di acconciature, che è forse legata al loro differente rango. La barba, forse posticcia, è tipica dei “capi di Punt” rappresentati nell’atto di offrire i prodotti al funzionario egiziano. In questa fase, non si può certo spiegare l’utilizzazione della via marittima con la mancanza di sicurezza in Alta o Bassa Nubia, visto che allora gli insediamenti egiziani in quelle regioni dimostrano scarse preoccupazioni riguardo fortificazioni e difese. Situazioni di insicurezza si potevano però produrre in regioni al di fuori del controllo egiziano.

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Capitolo 16 142

Alla fine del regno di Thutmosis IV o all’inizio di quello di Amenhotep III risale la decorazione della tomba di Amenmose (n. 89 a Tebe) in cui, dopo l’usuale scena di tributo, è riprodotto un altro episodio di rapporto con i Puntiti. Come per l’episodio della tomba 143, non possiamo sapere se i Puntiti avessero raggiunto la costa o la riva del Nilo controllata dagli egiziani o se il luogo del contatto fosse questa volta terrestre. Non si può nemmeno escludere che siano stati gli egiziani a cercare questa volta il contatto. Si potrebbe comunque trattare del primo documento giuntoci relativo a una carovana di asini arrivata a Punt o da Punt attraverso le piste terrestri.

L’iscrizione di Panehesi, funzionario di Amenhotep III incaricato dello sfruttamento minerario del Sinai, si riferisce forse a un contatto marittimo con Punt. L’iscrizione proviene dal Sinai, ma ciò non vuol dire automaticamente che i contatti con i Puntiti si svolgessero sempre in quella regione. Più probabilmente lo sfruttamento minerario del Sinai e i rapporti con Punt erano connessi in quanto in ambedue i casi si utilizzavano gli stessi approdi lungo la costa del Mar Rosso.

Altra regione probabilmente a sud della provincia egiziana di Alta Nubia è Irem. Dopo la menzione di Irem nei testi relativi alla spedizione a Punt di Hatshepsut, uno dei primi documenti che ci forniscono indicazioni circa questa regione sono gli Annali di Thutmosis III. Nell’anno trentaquattresimo di regno di Thutmosis III nel tributo di Kush sono infatti presenti, caso unico, i quattro figli del capo di Irem. Si può suggerire che essi siano stati catturati nel corso di un’operazione militare o che fossero ostaggi che dovevano garantire il faraone della condotta dei loro parenti. In ogni caso, questa presenza ci indica rapporti di ostilità e sospetto con Irem. Non credo accettabile l’ipotesi secondo cui i figli del capo di Irem fossero in realtà inviati volontariamente alla corte d’Egitto per esservi educati, come avveniva spesso per i figli di altri capi nubiani, che non sono comunque mai menzionati nei tributi dei paesi meridionali. La menzione di Irem negli “Annali” non fornisce di fatto alcun elemento per la localizzazione di questa regione che avrebbe potuto essere sia in Alta Nubia sia ai margini di essa.

Analogamente, anche nelle liste geografiche di Thutmosis III, Irem potrebbe essere sia una parte di Kush che dare inizio a una sezione autonoma delle liste. Irem è presente anche nelle liste di Amenhotep

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Le regioni a sud del vicereame nelle fonti egiziane 143

III, spesso in relazione ai nuovi toponimi attestati sotto questo sovrano e che, come sottolineato, si riferiscono a regioni del Deserto Orientale. Ciò potrebbe quindi indicare che anche questa regione fosse coinvolta nelle iniziative militari che nel corso del regno di Amenhotep III sembrano aver avuto la finalità di guadagnare il controllo di più ampie aree del Deserto Orientale.

Irem fu uno dei bersagli delle campagne militari che ricominciarono con slancio all’inizio della XIX dinastia. Una prima spedizione fu probabilmente condotta nel corso della coreggenza di Ramses I e Sethi I. Nel corso del regno di Sethi I ebbe luogo una spedizione verso Irem e in alcune delle liste di toponimi risalenti al suo regno grande spazio è dato a quelli di Irem. L’azione di Ramses II verso questa regione fu ugualmente importante: una prima campagna, il cui scopo resta oscuro fu condotta nell’anno 2, una campagna contro Irem si svolse poi tra l’anno 5 e l’anno 20 con l’ausilio di carri da guerra e condusse alla cattura di 7000 prigionieri. La stele di Setau, governatore di Nubia, datata all’anno 44 di Ramses II e che si riferisce a fatti successivi all’anno 34 o 38, menziona un’operazione militare contro Irem che fruttò il tributo di tale regione.

Utilizzando le indicazioni desumibili da questi documenti si può proporre una localizzazione anche per Irem. Difficilmente la bellicosa e tumultuosa Irem poteva essere nella regione di Dongola o in altre zone dell’Alta Nubia, dove le istallazioni egiziane non mostrano alcuna preoccupazione difensiva. D’altra parte, le considerazioni di Priese basate su un testo napateo che ricorda la donazione da parte di Irike-Amanote al tempio di Kawa di terre e popolazione di Irem non indicano automaticamente una localizzazione in Alta Nubia per questa regione. Irem non poteva poi essere localizzata nel Deserto Orientale, dove carri da guerra come quelli usati da Ramses II avrebbero potuto difficilmente essere utilizzati, vista l’irregolarità del terreno. Inoltre, benché il numero di 7000 prigionieri sia stato senza dubbio esagerato, il Deserto Orientale non poteva offrire risorse adeguate a sostenere una popolazione numerosa sottintesa dalla stele di Ramses II. Le stesse considerazioni demografiche sono valide anche se si propone una localizzazione nel Deserto Occidentale. Inoltre, se si accetta per ipotesi una localizzazione di Irem in questa regione, non si potrebbero spiegare i suoi legami con Punt e Nemy evidenti nei rilievi di

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Hatshspsut a Deir el-Bahri. La stessa Irem non è poi mai associata a toponimi o etnonimi del Deserto Occidentale che sono sempre più numerosi nel corso della XIX dinastia. È dunque probabile che Irem fosse localizzata, come vuole O’Connor, nella zona di confluenza tra Atbara e Nilo e che comprendesse forse anche delle aree rivierasche del Sudan centrale e le steppe del Deserto del Bayuda. Purtroppo però, come evidente da quanto detto nei precedenti paragrafi, manca ancora una conferma archeologica di questa ipotesi. Stando alle informazioni desumibili dalle iscrizioni di Sethi I, l’economia di Irem doveva essere basata sull’allevamento di bestiame ma è possibile che in prossimità delle sue regioni rivierasche si praticasse anche l’agricoltura. Le piste verso le regioni di produzione, come Nemy e Punt passavano verosimilmente per la steppa in cui le popolazioni di Irem avevano i loro pascoli. Non si può escludere che le campagne egiziane si siano svolte proprio nel Deserto del Bayuda e nell’area dello Wadi el Qaab, lungo le piste che attraversavano queste regioni. Lo scopo delle campagne egiziane sembra essere stato quello di mantenere aperte queste piste e non pare si sia mai trattato di tentativi di conquista veri e propri.

Le stesse fonti testuali indicano per Irem una situazione socialmente gerarchizzata e articolata, già manifestata dall’espressione plurale “uru”, “capi-principi”, usata per i capi di Irem nei testi di Deir el-Bahri. Questa regione si era però avviata forse da una situazione di frammentazione iniziale a una più grande coesione e già negli annali di Thutmosis III si ricorda un solo principe di Irem. Questo fenomeno di progressiva unificazione, se confermato, potrebbe spiegare la preoccupazione egiziana per un vicino meridionale sempre più potente e influente commercialmente e politicamente.

Sia nel caso di Irem sia in quello di Punt, quindi, i testi egiziani del Nuovo Regno fanno intravedere per delle regioni da collocarsi presumibilmente a sud dell’Alta Nubia un quadro articolato in vari potentati che avevano stabilito rapporti di volta in volta ostili o di collaborazione con gli egiziani. Questi potentati svolsero presumibilmente un ruolo importante nei nuovi equilibri politici che si definirono in Nubia e nel Sudan dopo la fine del vicereame egiziano.

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17. Le origini del regno di Kush

Con la fine del dominio egiziano in Nubia, si apre una fase assai poco documentata sia dal punto di vista testuale sia da quello archeologico alla fine della quale emerse un nuovo potentato che unificò la Nubia e il Sudan centrale detto regno di Kush, riprendendo il nome che, come abbiamo visto, aveva indicato una regione e uno stato dell’Alta Nubia a partire del 2000 a.C. circa e che fu poi il nome del vicereame egiziano che dal 1500 al 1060 a.C. controllò l’Alta e la Bassa Nubia. Questo era infatti il nome che i sovrani della dinastia sudanese che diede origine al regno di Kush usarono a più riprese riferendosi a loro stessi: il nome di uno di essi, Kashta, significa proprio “il Kushita”, mentre Kush è il nome dato al regno nubiano nella stele di Piye, un altro re della dinastia. Anche in seguito, agli inizi del VI sec. a.C., il re Aspelta si riferiva ai suoi predecessori come “re di Kush”. Il termine è poi attestato anche in più tardi documenti della fase meroitica.

I due secoli tra la fine del dominio egiziano e il regno del primo sovrano della dinastia che diede origine al regno di Kush a noi noto, Alara, sono documentati dai resti archeologici scoperti a el Kurru, non lontano da Gebel Barkal, in Alta Nubia, che fu poi luogo di sepoltura della dinastia che governò della metà dell’VIII secolo a.C. un ampio territorio esteso dal Sudan centrale al Basso Egitto, e a Hillat el Arab, un altro cimitero principesco non lontano da Napata.

Nella parte centrale del cimitero di el Kurru, G.A. Reisner ha scavato sei tumuli funerari, un tumulo ricoperto successivamente con una struttura in pietra squadrata, otto tombe coperte da sovrastrutture in pietra squadrate, piramidi o mastabe, e undici tombe coperte da piramidi. Le tombe coperte dalle piramidi sono identificate con le tombe di Piye (il cui nome è letto da alcuni Piankhy), Shabako, Shebitko e Tanutamani, ovvero dei sovrani che governarono sia sul Sudan sia sull’Egitto e che furono inseriti nelle liste reali egiziane come XXV dinastia “Etiopica”, e delle loro regine. Le altre sepolture sono state considerate da Reisner come risalenti a una fase ancestrale, ovvero alle origini della dinastia, e distinte su base tipologica in cinque gruppi ascritti ciascuno a una generazione dalla durata media

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di circa venti anni. La prima generazione, calcolando a ritroso a partire dal regno di Piye, collocabile tra 747 e 716 a.C. in virtù del suo inserimento nella cronologia dinastica egiziana, sarebbe quindi databile alla metà del IX secolo a.C. Alcuni oggetti rinvenuti nelle sepolture più antiche di el Kurru corrispondenti alla prima generazione di Reisner sembrano però risalire alla fine del Nuovo Regno egiziano, il che porterebbe a datare le prime tombe del cimitero addirittura nel periodo del vicereame egiziano di Kush, ovvero un secolo prima della stima di Reisner. Una revisione in questo senso dell’evidenza scoperta da Reisner sembra essere accettata oggi da numerosi studiosi che si sono occupati di questa fase della storia nubiana, come Morkot e Török, anche se altri, come Kendall, preferiscono mantenere una più prudente datazione delle più antiche di queste tombe all’inizio del IX secolo a.C.

Anche altri aspetti dell’interpretazione dei tumuli più antichi a suo tempo proposta da Reisner sono stati recentemente messi in discussione. Reisner ritenne infatti che le tombe ancestrali di el Kurru fossero di capi libici penetrati e insediatisi in Nubia, proprio come accadde nell’Egitto contemporaneo, in relazione al rinvenimento nei corredi di punte di freccia in pietra di un tipo che si presumeva fosse libico. Peraltro già Brugsh aveva avanzato un’interpretazione alternativa, suggerendo che le origini della dinastia i cui sovrani furono sepolti a el Kurru andassero ricercate in una famiglia collegata al clero di Amon che fosse stata insignita di cariche connesse all’amministrazione della Nubia. Ambedue queste interpretazioni come pure l’ipotesi che vorrebbe collegare l’origine di questa dinastia con sacerdoti egiziani magari legati del tempio di Gebel Barkal paiono però incompatibili con la chiara caratterizzazione locale delle tombe più antiche. Forse la famiglia da cui discesero i faraoni della XXV dinastia fu uno di quei lignaggi di principi nubiani che continuarono a mantenere la loro preminenza anche nel periodo dell’occupazione egiziana, magari essendo divenuti clienti dello stato egiziano e che operavano nell’ambito dell’amministrazione vicereale egiziana, tramandandosi su base ereditaria le funzioni. In particolare, si può ipotizzare che si trattasse di una di quelle dinastie che avevano continuato a governare le regioni più meridionali dell’Alta Nubia con una certa autonomia, come suggerito da Morkot. Con il venir meno

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dell’amministrazione egiziana alla fine del Nuovo Regno, queste dinastie locali si appropriarono verosimilmente del controllo dei centri urbani, che mantennero così la loro centralità all’interno del sistema economico e amministrativo. Pur nella limitatezza dell’evidenza archeologica disponibile, infatti, la continuità del ruolo dei centri urbani può essere intravista nel fatto che molti degli insediamenti egiziani del Nuovo Regno furono anche importanti centri della XXV dinastia e, poi, napatei.

Forse le tombe di Hillat el Arab sono attribuibili a un’altra di queste famiglie aristocratiche alto-nubiane. Queste tombe sono delle sepolture multiple, con diverse camere alcune delle quali aggiunte in fasi successive. La decorazione dipinta ove sia sopravvissuta è composta da motivi, come quello della barca, che trova riscontro anche iconografico nelle analoghe figurazioni dell’arte rupestre. Il corredo comprende anche ceramica importata dal Vicino Oriente confermando l’inserimento delle aristocrazie alto-nubiane nei circuiti di contatti a lungo raggio (Fig. 33).

Figura 33: recipienti ceramici dalle tombe di Hillat el Arab. Si notino in basso a destra un contenitore di origine vicino-orientale, che attesta l’inserimento di questi aristocratici alto-nubiani in ampie reti di relazioni e in basso a sinistra dei recipienti a bocca nera, traccia di continuità con le tradizioni protostoriche (da Vincentelli in Sudan & Nubia, 3, 1999).

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Tra i vasi di produzione locale presenti nei corredi spiccano quelli a bocca nera, che costituiscono un elemento di continuità con le tradizioni protostoriche.

Significativamente, le tombe di Hillat el Arab e di el Kurru sono diverse per struttura e ciò potrebbe riflettere una pluralità di tradizioni esistenti in Alta Nubia da cui emerse la dinastia kushita. D’altra parte, le tombe aristocratiche di Hillat el Arab e el Kurru potrebbero non essere le sole evidenze dell’esistenza in Alta Nubia di diversi potentati cantonali alla fine del II-inizio del I millennio a.C. Un sovrano di nome Menmaatre, che governò secondo Morkot uno di questi potentati, è noto da una lastra di pietra decorata scoperta al Gebel Barkal, mentre un altro sovrano di nome Ary costruì un tempio in mattoni crudi a Kawa, dove forse, sempre secondo Morkot, poteva avere sede un altro di questi potentati. La datazione di questi due documenti resta però controversa e i due sovrani potrebbero anche essere attribuiti alla successiva epoca napatea, quando si usavano ancora i canoni artistici e i formulari di ramessidi che li caratterizzano.

L’affermarsi della dinastia di el Kurru rispetto a tutte le altre che possiamo ipotizzare avessero sostituito l’autorità egiziana in altre porzioni del territorio del vicereame così come l’egemonia dello stato faraonico nel Sudan centrale sono spiegabili tra l’altro con la localizzazione favorevole della regione destinata a divenire il fulcro del suo potere, l’area di el-Kurru-Napata: il centro urbano di Sanam, infatti, si trovava sulla sponda meridionale del fiume, in un punto nodale per il controllo delle carovaniere verso il Sudan centrale. L’iscrizione di Nastasen, della fine del IV sec. a.C., ricorda la sosta del sovrano neo-eletto nel suo viaggio da Meroe e Napata alla “Casa del Grande Leone”, dove era cresciuto il re Alara, allora considerato il fondatore della dinastia. Ciò sembrerebbe confermare come zona di origine della dinastia un punto imprecisato ai margini del deserto del Bayuda, probabilmente in prossimità di pozzi e, quindi, lungo le carovaniere. D’altro canto, anche materiali come l’avorio, l’ossidiana forse etiopica, il lapislazzuli afghano, le conchiglie del Mar Rosso, l’oro grezzo e lavorato, probabilmente proveniente dal Deserto Orientale, la ceramica importata dall’Egitto e dal Vicino Oriente, i vasi in calcite e alabastro, gli amuleti e gli oggetti smaltati egiziani rinvenuti nelle tombe di el Kurru fin dalle fasi più antiche attestano

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l’inserimento della dinastia in una vasta rete di contatti esterni che spaziavano dal Mediterraneo all’entroterra africano. La presenza di alcuni di questi prodotti a Hillat el Arab suggerisce che il controllo dei traffici a lunga distanza potrebbe aver costituito uno dei motivi di potenziale contrasto tra i potentati alto-nubiani e, al contempo, un catalizzatore per la riunificazione della regione.

Lo studio della tipologia e dello sviluppo delle sepolture di el Kurru offre elementi per la ricostruzione dell’emergere del nuovo regno di Kush. Le sepolture coperte da tumuli in pozzi scavati nella roccia con o senza camera laterale, la deposizione di defunti in posizione contratta, da un certo momento in poi l’uso di letti su cui deporre il defunto sono infatti nella tradizione delle culture nubiane del III-II millennio a.C. (Fig. 34).

Figura 34: una delle tombe più antiche di el Kurru. Il tumulo rappresenta un’evidente analogia con le tradizioni protostoriche nubiane (da Dunham, The Royal Cemeteries of Kush, vol. 1, El Kurru, Cambridge Mass. 1950).

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A partire dal tumulo 6 di el Kurru, quando una cappella per il culto funerario è addossata al tumulo e tutta la soprastruttura viene circondata da un recinto a ferro di cavallo, è attestata in prossimità della stessa soprastruttura l’effettuazione di riti con l’uso di ingenti quantità di ceramica che reca talora dipinte in bianco figure mummiformi, prefiche o donne inginocchiate dinnanzi ad altari. Le decorazioni dipinte di questi vasi dimostrano che gli artigiani che li produssero avevano una certa familiarità con le iconografie legate al culto funerario egiziano. Questi vasi venivano ritualmente rotti presumibilmente dopo essere stati usati nel corso del banchetto funerario che era di tradizione nubiana ma anche egiziana. In Egitto la “uccisione dei vasi rossi” era praticata nel corso del Nuovo Regno e richiedeva la presenza di sacerdoti capaci di compiere i riti recitando le relative formule in egiziano. La cappella che da questo momento in poi è parte integrante della soprastruttura, attesta l’affermarsi di un culto funerario istituzionalizzato finalizzato a affermare attraverso il legame con le generazioni passate la legittimità dell’esercizio del potere da parte della dinastia. La presenza nel tumulo 19 a el Kurru di ceramica alto-egiziana potrebbe suggerire che la fonte ultima dei concetti religiosi adottati dai principi sepolti in questo cimitero poteva essere fin da allora l’area tebana. In seguito, la soprastruttura diviene a mastaba o, più probabilmente, a piramide, seguendo schemi già attestati in Bassa Nubia e anche nell’area della terza cataratta nel corso del Nuovo Regno. La prima stele di tipo egiziano nota nella nicchia della cappella è quella della piramide funeraria 9 di el-Kurru e va forse ascritta ad Alara, un principe che fu in seguito considerato il fondatore della dinastia. Le modalità di deposizione del corpo, in posizione contratta e, da un certo momento in poi, su un letto, restano però locali e solo più tardi sono attestati resti di possibili sarcofagi e della pratica della mummificazione.

L’arricchirsi dei costumi funerari di nuovi elementi non testimonia solo il progressivo articolarsi dell’ideologia connessa al rafforzamento del potere dei principi di el Kurru, ma anche l’ampliarsi della loro sfera d’azione, con l’adozione prima di pratiche funerarie tipiche delle aristocrazie alto-nubiane, come la deposizione del defunto sul letto, attestata dagli inizi del II millennio a.C., e poi anche basso-nubiane e egiziane.

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La relazione culturale con l’Egitto non fu particolarmente forte solo nell’ambito dell’ideologia funeraria. I principi di el Kurru si erano messi sotto la protezione del dio Amon, venerato nei santuari del Gebel Barkal fin dal periodo del vicereame egiziano. Verosimilmente tale legame con Amon trae origine dai fenomeni di acculturazione delle aristocrazie nubiane documentati nel corso del Nuovo Regno. In particolare, il tempio di Gebel Barkal sorgeva presso un massiccio in arenaria che forse era già considerato sacro in una fase antecedente alla costruzione dei primi templi da parte dei sovrani egiziani del Nuovo Regno. Fin da allora, come evidenziato da T. Kendall, doveva essere diffusa la credenza che la montagna sacra fosse abitata da una divinità. Questo dio nubiano venne poi identificato con Amon dagli egiziani. In particolare, fin dal Nuovo Regno, come evidenziato da alcuni rilievi, il pinnacolo di roccia che si distacca del massiccio di arenaria e sotto cui sorsero tutti i templi, era interpretato come un ureo coronato da una corona bianca dell’Alto Egitto che proteggeva, appunto, la sede di Amon. La sopravvivenza di questa interpretazione della particolare conformazione della montagna fino all’epoca della XXV dinastia e napatea è confermata dai lavori fatti eseguire da Taharka e da Nastasen, rispettivamente nella prima metà del VII sec. a.C. e alla fine del IV sec. a.C., per apporre delle iscrizioni proprio in prossimità della sommità del pinnacolo.

I legami con l’Egitto e, in particolare, con il dio Amon si rafforzarono a partire dal regno di Piye, ma dovevano essere presenti e forti fin dall’epoca di Alara. Quest’ultimo sovrano, noto solo da iscrizioni di epoca successiva, doveva essere considerato come il fondatore della dinastia e fu proprio lui, se si presta fede all’iscrizione di Taharka a Kawa, ad instaurare il rapporto privilegiato tra la dinastia e il dio Amon. Nell’iscrizione funeraria della figlia, che fu poi moglie di Piye, il nome di Alara era scritto in un cartiglio ma non recava la titolatura reale e in alcune iscrizioni di Taharka a Kawa egli porta semplicemente il titolo di “ur”, “grande”, “principe”. Queste iscrizioni lasciano intravedere il riconoscimento della dinastia in ascesa da parte del clero di Amon probabilmente contraccambiato con l’adozione del culto di Amon come divinità di stato del nascente potentato nubiano. Va rilevato come il culto di Amon presentasse l’indubbio vantaggio di essere un’ideologia unificante per un’area geograficamente assai vasta

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e diversificata, con in comune però il retaggio culturale e religioso egiziano. Il potentato governato da tali sovrani comprendeva infatti probabilmente l’Alta Nubia e verosimilmente anche territori del Sudan centrale, che corrispondevano forse alla regione nota agli egiziani del Nuovo Regno come Irem.

L’inserimento della regione del Sudan centrale nel regno di Kush fin dalle sue prime fasi è dimostrato proprio dalle più antiche inumazioni principesche a Meroe nei cimiteri di Begarawiya Ovest e Sud, databili alla prima metà dell’VIII sec. a.C. Forse l’annessione di tali aree meridionali fu attuata più che con le armi con un’abile politica matrimoniale con le famiglie aristocratiche locali di un’area dove si doveva già parlare il Meroitico. L’iscrizione di Semna Ovest apposta sulla facciata del tempio di Dedun e Sesostri III dalla regina Kadimalo (o, secondo una lettura alternativa, Katimala), rappresenta forse la più antica iscrizione reale della dinastia kushita, e sarebbe allo stesso tempo sia un evidente indizio dell’espansione a nord della sua influenza politica sia del processo di inserimento del Sudan centrale nel regno, visto che il nome della regina è meroitico e deriva dalle parole “kdi” e “mlo”, che significano “donna buona”. Non si può però escludere che in tale fase popolazioni parlanti il Meroitico fossero presenti in Alta Nubia, come recentemente proposto da C. Rilly.

Tutti questi pur labili elementi ci restituiscono quindi un’immagine del regno di Kush come di una realtà composita e variegata, non solo perché verosimilmente traeva origine dall’unificazione di diversi potentati, ma anche perché comprendeva gruppi umani diversificati linguisticamente e forse anche culturalmente e economicamente, viste anche le diverse condizioni ambientali delle aree da essi abitate, che comprendevano regioni lungo la valle del Nilo, aree steppose del Butana soggette a piogge stagionali e aree desertiche ai margini della valle e nel deserto del Bayuda.

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18. I sovrani di Kush in Egitto e il periodo napateo

Rafforzato il proprio potere dal Sudan centrale alla prima cataratta, i principi di Kush si rivolsero verso l’Alto Egitto: forse già Kashta si recò a Tebe per cingere la corona dell’Alto e del Basso Egitto, come potrebbe testimoniare una stele frammentaria rinvenuta a Elefantina. È probabilmente allora che la divina adoratrice di Amon Shepenuepet I, figlia di Osorkon III, sovrano della XXIII dinastia egiziana, adottò quale sua erede Amenirdis I, figlia di Kashta. Solo il figlio di Kashta, Piye pare però essersi effettivamente spinto fino al Basso Egitto, come narrato nella sua stele trionfale scoperta al Gebel Barkal. Nel 727 a.C. Piye condusse una campagna contro i principi libici del Medio e Basso Egitto ergendosi a campione del clero tebano e presentandosi come restauratore della tradizione faraonica in contrapposizione con i libici degeneri. Si noti che la stele di Piye, se da un lato enfatizza il rapporto privilegiato tra il sovrano e Amon, dall’altro si discosta dalla concezione propria del periodo egiziano tardo, secondo cui il dio agiva concretamente garantendo e esercitando la regalità, ma aderisce piuttosto al concetto del Nuovo Regno, in base al quale l’azione concreta è del sovrano e attraverso questa azione è garantita la Maat, l’ordine cosmico. Ciò dimostra quindi come l’adozione dall’Egitto di concetti legati alla fondazione e espressione della regalità da parte dei sovrani nubiani avvenisse in maniera tutt’altro che acritica e automatica. Come già detto, Piye fu sepolto a el Kurru in una sepoltura a forma di piramide. Accanto ad essa una fossa apposita conteneva la sepoltura dei suoi cavalli, a conferma dell’amore per i cavalli desumibile anche dai rimproveri mossi nella sua stele di vittoria ai suoi avversari libici proprio per la loro trascuratezza verso i loro cavalli ma forse anche in ossequio a aspetti dell’ideologia delle aristocrazie egiziana e vicino-orientali del tempo. A Piye successero il fratello Shabako, che dovette intervenire ancora in Egitto a causa di una rivolta ricordata in uno scarabeo commemorativo, e poi il figlio di Shabako, Shebitko.

Benché continuassero a essere sepolti a el Kurru, questi ultimi due sovrani vissero probabilmente soprattutto a Memfi, in Egitto, e è possibile che il dominio sull’Egitto sia divenuto allora più diretto e

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meno tollerante delle autonomie dei vari potentati regionali egiziani. A Tebe costruirono numerosi edifici, come pure fece Taharka, nipote di Shabako, che costruì tra l’altro un colonnato nella prima corte del tempio di Karnak e ha lasciato tracce della sua attività edilizia anche in Bassa Nubia a Qasr Ibrim, Buhen e Semna e in Alta Nubia, dove costruì o ricostruì i templi di Amon di Sanam, Napata, Kawa, Tabo e Kerma. In particolare, il tempio di Amon a Kawa rappresenta certamente la realizzazione più famosa di questo sovrano (Fig. 35). Taharka fece anche costruire scavandolo nella roccia del pinnacolo del Gebel Barkal un piccolo naos.

Figura 35: pianta del tempio di Kawa fatto costruire da Taharka. Si noti a sud della cella una sala con un podio destinato ad accogliere il trono del sovrano nel corso delle cerimonie di intronizzazione che si svolgevano a Kawa e in altri santuari del regno di Kush (da Macadam, The Temples of Kawa, vol. I, Londra 1949).

Gli interventi di Taharka in Bassa Nubia possono essere stati legati alla necessità di disporre di presidi, punti di sosta e controllo, forse guarnigioni, in una regione strategica per il mantenimento delle comunicazioni tra le due parti del regno, Egitto e Kush, quelli in Alta Nubia sono probabilmente legati al rafforzamento della presenza reale in determinate aree attraverso l’istituzione di centri amministrativi con associato un tempio. Forse i templi alto-nubiani di Taharka sorsero in

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quelli che erano stati i capoluoghi dei diversi potentati poi uniti in un unico regno dalla dinastia di Kush.

Nelle opere architettoniche della XXV dinastia, come pure nella scultura e negli stessi testi vengono recuperati stilemi e iconografie dell’Antico, del Medio e del Nuovo Regno egiziano con un gusto quasi filologico. Oggi si tende ad evidenziare come tali tendenze arcaicizzanti fossero già iniziate in Egitto nel corso dell’VIII secolo a.C., ancora prima dell’intervento dei kushiti. Appare però fuori di dubbio che, anche se così fosse, accettando questa tendenza dell’arte egiziana contemporanea, i kushiti tendessero a presentarsi come continuatori della gloriosa tradizione faraonica, con una chiara finalità di legittimazione del loro potere. Non è nemmeno escluso che anche nella percezione di loro stessi e dei loro sudditi egiziani almeno da un certo momento in poi abbiano perso ogni connotazione di estraneità alla tradizione culturale egiziana. Non mancano peraltro delle specificità che caratterizzano questa fase rispetto a quelle precedenti e successive anche nell’arte figurativa e, in particolare, nell’iconografia reale. Tra queste va senza dubbio annoverato l’uso di una corona “a cuffia”, strettamente aderente alla calotta cranica, sulla cui parte anteriore erano presenti due urei invece di quello unico usuale per i sovrani egizi, e la collana con pendente a forma di testa di ariete, simbolo quest’ultimo legato ad Amon.

L’Egitto riprese in tale fase sotto la guida dei sovrani kushiti anche una politica di espansione nel Vicino Oriente che però lo portò allo scontro con l’Assiria. Proprio all’attiva politica di sostegno offerto ai ribelli vicino-orientali dei sovrani assiri si deve probabilmente la menzione di cedro del Libano e rame asiatico tra le dotazioni del tempio di Kawa. Con la stessa Assiria esistevano rapporti economici, legati in particolare al commercio dell’avorio e, forse, dei pregiati cavalli di Kush. È del tutto probabile che questi beni fossero scambiati all’interno di relazioni di tipo diplomatico tra le corti di Assiria e quella di Egitto e Kush, come d’altro canto già avveniva da secoli, quando i prodotti dell’entroterra africano giungevano nel Vicino Oriente per il tramite egiziano. L’intervento politico egiziano nel Vicino Oriente iniziò probabilmente già nel corso del regno di Shabako, anche in relazione a un momento di debolezza assira legato a difficoltà interne. Dopo alterne vicende tra cui almeno un tentativo

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fallito di invasione assira dell’Egitto, cui fa eco anche il Vecchio Testamento, nel 671 a.C. Taharka fu sconfitto e dovette abbandonare precipitosamente Memfi lasciando al vincitore Esarhaddon anche una sua regina e un figlio. Taharka rioccupò il Basso Egitto, approfittando di un altro episodio di debolezza interna assira, ma ne fu ricacciato da Ashurbanipal, che giunse fino a Tebe nel 666 a.C. Il successore di Taharka, Tanutamani, cercò di rimediare a questa sconfitta approfittando ancora dei problemi interni degli Assiri. Solo nel 663 a.C. le forze assire riuscirono a piegare le ultime resistenze kushite e a spingersi nuovamente fino alla regione di Tebe. Anche dopo la sconfitta definitiva, i sovrani di Kush mantennero nella loro titolatura il titolo di re dell’Alto e del Basso Egitto.

Taharka inaugurò anche un nuovo cimitero reale a Nuri, dove furono sepolti i sovrani che si succedettero sul trono di Kush tra il 650 e il 290 a.C., con la sola eccezione di Tanutamani e di un sovrano forse del IV sec. a.C. che preferirono essere sepolti nel cimitero dei fondatori della dinastia, a el Kurru. I nomi di questi sovrani, che chiamiamo napatei per l’importanza allora rivestita da Napata e dal vicino tempio di Gebel Barkal, sono noti da oggetti e ushabti trovati nelle sepolture e solo in alcuni rari casi da iscrizioni geroglifiche. Solo del regno di alcuni di essi abbiamo qualche ulteriore dettaglio. Tra questi va ricordato Anlamani, di cui è nota una visita al tempio di Kawa, Atlansersa che iniziò la costruzione di un tempio presso il grande tempio di Amon a Gebel Barkal, poi finito da Senkamanisken, Aspelta, che ricorda le circostanze dalla sua ascesa al trono in due stele dal Gebel Barkal. Fu nel corso del suo regno che Psammetico II nel 591 a.C. condusse una campagna in Nubia giungendo fino a Napata, come è suggerito dalla distruzione nel tempio di Gebel Barkal dei nomi e dei monumenti di Aspelta e dei suoi predecessori. È indicativo che eguale distruzione sia stata praticata nel tempio di Amon di Pnubs a Kerma (Fig. 36). Non sappiamo nulla delle motivazioni dell’azione militare di Psammetico II che, certo, non può essere spiegata con l’episodio narrato da Erodoto dell’ammutinamento della guarnigione egiziana di Elefantina, che avrebbe trovato asilo presso i sovrani di Kush. L’esercito di Psammetico II era almeno in parte composto da mercenari greci, carii e fenici, che hanno lascito dei graffiti sulla gambe di uno dei colossi di Ramses II ad Abu Simbel.

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Figura 36: cachette rinvenuta nel tempio di Amon di Pnubs a Kerma. Si tratta di statue in parte danneggiate deposte nella fossa in occasione di un importante restauro del tempio probabilmente successivo alla campagna contro Kush di Psammetico II (da Bonnet in Genava, n.s., 51, 2003).

Nella sua iscrizione trionfale Psammetico chiama il sovrano di

Kush “kur”, probabilmente usando un termine tipicamente nubiano per designare il re, il principe, già noto da iscrizioni del Nuovo Regno datate al regno di Amenhotep II, e poi usato anche in epoca meroitica, quando il sovrano regnante sarà detto “qore”. Forse fu in occasione di

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questo episodio di confronto militare che sui monumenti reali in Egitto si procedette alla cancellazione dei nomi dei sovrani kushiti, in genere sostituiti da quelli di Psammetico II.

Anche questo episodio di ostilità militare non determinò però il venir meno dei rapporti commerciali e, probabilmente, politico-diplomatici, come attestato dalla presenza di oggetti importati dall’Egitto nella necropoli reale di Nuri.

La spedizione di Psammetico II fu seguita, se si presta fede a Erodoto e Strabone, da un tentativo di invasione di Kush da parte di Cambise, re persiano che nel 525 a.C. aveva conquistato l’Egitto. L’esercito persiano però sarebbe stato in gran parte sterminato dalle durissime condizioni ambientali che lo costrinsero alla ritirata. Non è escluso comunque che i Persiani instaurassero una forma di controllo sulla Bassa Nubia, mentre leggendarie sarebbero le tradizioni riportate dagli autori greci secondo cui Meroe sarebbe stata fondata da Cambise e legata alla propaganda persiana è la presenza di Kush nella lista delle province dell’impero di Dario e Serse nelle iscrizioni di quei sovrani.

La presenza di soldati etiopici, ovvero dalla pelle scura, tra le truppe di Serse, la rappresentazione di africani presumibilmente nubiani tra le delegazioni raffigurate a Persepoli, la notizia di Erodoto secondo cui gli etiopi inviavano con cadenza triennale in dono ai persiani avorio, ebano, oro e cinque fanciulli, e la notizia contenuta in un’iscrizione di Dario secondo cui l’avorio usato nella costruzione del suo palazzo di Susa veniva da Kush sono forse tutti episodi riconducibili ai rapporti diplomatici tra i due regni, nonostante si siano verificati ulteriori episodi di ostilità, legati tra l’altro all’asilo dato dai kushiti all’ultimo re della XXX dinastia, Nectanebo II, in fuga dinnanzi ai Persiani nel 342 a.C.

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19. Il territorio di Kush: ideologia, economia e amministrazione

Le iscrizioni di Harsiyotef e Nastasen (tardo IV sec. a.C.), insieme

a una stele di Aspelta e a testi analoghi di Taharka, Tanutamani e Irike-Amanote (seconda metà del V sec. a.C.) descrivono le modalità di ascesa al trono di un sovrano napateo (Fig. 37).

Figura 37: iscrizione di Nastasen da Gebel Barkal. Il re è rappresentato affiancato da membri femminili della famiglia reale mentre offre doni all’Amon di Tebe, a sinistra, e a quello di Napata a destra (da Schäfer, Die äthiopische Königischrift des Berliner Museums, Leipzig 1901).

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Capitolo 19 160

Si trattava di una elezione per mezzo di un oracolo da parte del dio

Amon che operava, alla presenza dell’intero esercito, una scelta nella schiera dei rampolli reali. Di fatto, quindi, le preferenze dei sacerdoti e dell’esercito sembrano essere state dei fattori importanti nel determinare le condizioni dell’ascesa al trono di un pretendente piuttosto che di un altro. Si noti inoltre che un principe era legittimato alla successione non solo in relazione ai suoi ascendenti maschili, ma anche alle regine sue antenate. In particolare, nella stele di Aspelta vengono elencate addirittura sei antenate reali del sovrano, ognuna delle quali è figlia della precedente. Sulla base di questi testi che descrivono il processo di intronizzazione possiamo ipotizzare che la legittimazione del sovrano nella sfera umana avvenisse prima di quella nella sfera divina e fosse sancita da un oracolo di Amon solo per rafforzare la posizione del prescelto e anche in relazione alle incertezze che poteva generare il sistema di successione adottato. Si trattava infatti di un ibrido tra la patrilinearità egiziana e la possibilità di un collateralismo forse di ascendenza nubiana, col passaggio del potere da zio a nipote o tra fratelli.

In seguito alla legittimazione nella sfera umana iniziava un viaggio di incoronazione che poteva partire da Napata, come nel caso di Aspelta e Harsiyotef, o da Meroe come nel caso di Irike-Amanote e Nastasen. In particolare, l’iscrizione d’incoronazione di Irike-Amanote, della fine del V sec. a.C., eretta nel tempio di Taharka a Kawa, riparato e ripulito in occasione della visita del nuovo sovrano, è degna di nota proprio perché contiene la prima menzione della città di Meroe. Nel caso di Nastasen, si deve pensare che la legittimazione nella sfera umana fosse avvenuta proprio a Meroe e che il re si sia recato a Napata solo per ricevere un’analoga legittimazione nella sfera divina. Il viaggio intrapreso dal re in occasione della sua incoronazione prevedeva la visita di tre o quattro templi in diverse regioni del regno: i santuari di Amon a Napata, Kawa e Pnubs e, dal IV sec. a.C., il santuario di Bastet a Tare. Quest’ultima tappa in un santuario dedicato a una divinità femminile potrebbe essere collegata al rituale dell’allattamento del sovrano da parte di una divinità, che assunse una certa importanza per la legittimazione del re in Egitto nel corso del Terzo Periodo Intermedio.

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Il territorio di Kush: ideologia, economia e amministrazione 161

Il viaggio di incoronazione ripeteva senza dubbio il viaggio simbolico nel suo regno del sovrano egiziano, che avveniva in barca e che, con evidente analogia col movimento solare, doveva riportare l’ordine e ripristinare la Maat. La scelta delle varie tappe toccate non era però casuale: si trattava probabilmente di quelle che erano state le capitali dei principati dalla cui unione era nato il regno di Kush. Il viaggio di incoronazione poteva rispondere quindi anche alla necessità di assumere ritualmente il potere in ciascuno di questi principati attraverso la reiterazione dell’intronizzazione.

Al di là di quanto rinvenuto nei cimiteri reali e nei templi, i resti archeologici risalenti a queste fasi iniziali del regno di Kush sono molto scarsi. I cimiteri di Sedeinga, di Sanam, di Meroe e quello recentemente scavato a Kerma hanno restituito sepolture sia in posizione contratta, spesso associate a ceramiche di tradizione nubiana, sia in sarcofago con il corpo mummificato o con il corpo semplicemente disteso sulla schiena e senza sarcofago, spesso associate a ceramiche di tipo egiziano. La varietà delle usanze funerarie testimonia di una situazione culturalmente se non etnicamente composita e articolata. Riguardo la soprastruttura, pare diffusa anche per le sepolture aristocratiche provinciali analogamente a quanto attestato per quelle reali la piramide con cappella per le offerte. L’ampiezza e la ricchezza dei cimiteri di Sedeinga, Kerma, Sanam e Meroe evidenziano inoltre il rilievo politico e amministrativo che questi quattro centri assunsero.

L’Alta Nubia doveva essere in tale fase abitata densamente, con grandi comunità in prossimità dei templi principali che, oltre a Gebel Barkal e Kawa, dovevano essere, appunto, Sanam, Tabo, Napata e la stessa Kerma. La distribuzione dei santuari principali integrata con quella dei cimiteri più ampi e con tombe aristocratiche menzionati in precedenza potrebbe dare un’idea dell’articolazione amministrativa e sociale della regione alto-nubiana. Le evidenze archeologiche provenienti da contesti non monumentali di questa fase restano purtroppo scarse: a Kerma in effetti si sono messi in luce una dimora signorile (Fig. 38) e delle botteghe di vasai, a Kawa alcune aree dell’abitato con strutture in mattoni crudi, mentre di Gebel Barkal oltre ai santuari sono noti solo resti di istallazioni palatine. Appare comunque verosimile che l’importanza della regione nel regno

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Capitolo 19 162

napateo fosse in gran parte legata alla sua ricchezza agricola, anche se i pochi dati archeozoologici disponibili confermano che si praticava anche lo sfruttamento della pesca.

Figura 38: dimora aristocratica napatea a Kerma. Sono riportate le varie fasi costruttive. Da notare la presenza di grandi granai circolari (da Salah el-Din Mohammed Ahmed, L’agglomération napatéenne de Kerma. Enquête archéologique et éthnographque en milieu urbain, Paris 1992).

In Bassa Nubia insediamenti della XXV dinastia e/o napatei

esistevano a Missinissa, Qasr Ibrim, Semna e Buhen, altri resti di

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Il territorio di Kush: ideologia, economia e amministrazione 163

questa fase sono stati scoperti nell’area di Faras-Qustul, mentre tracce forse associabili all’attività persiana nella regione sono state rinvenute nella fortezza di Dorginarti. Il popolamento della Bassa Nubia pare essere stato nel complesso piuttosto scarso rispetto a quello dell’Alta Nubia. Una spiegazione di questo fatto è forse legata ai bassi livelli del Nilo registrati in questa fase, che riducevano notevolmente l’area coltivabile in una regione già poco sfruttabile da un punto di vista agricolo. Non è poi escluso che un popolamento così rado sia anche spiegabile con il ruolo di area di frontiera che la regione assunse dopo la fine del dominio sull’Egitto dei principi di Kush, quando evidentemente si decise di mantenervi solo alcuni presidi amministrativi e militari. Il fatto che, anche in virtù della posizione strategica della regione, l’interesse reale per la Bassa Nubia non sia mai venuto meno è comunque confermato dalle stele di Harsiyotef e Nastasen che ci informano di campagne militari condotte nella regione da quei due sovrani. Le campagne erano dirette sia contro ribelli locali, il che sembra comunque implicare che quell’area fosse considerata parte del territorio di Kush, sia contro Khababash, che, nell’ultima fase del dominio persiano sull’Egitto, tentò di instaurare un regno autonomo nella parte meridionale del paese.

Il solo centro abitato di cui si abbia qualche notizia più articolata nel Sudan centrale per questa fase è Meroe. La città doveva essere stata frequentato e, anzi, aver rappresentato uno dei centri principali del regno almeno fin dal VII-VI sec. a.C. Gli scavi condotti da P. Shinnie attesterebbero addirittura una frequentazione a partire dal X sec. a.C. Purtroppo ben poco è stato recuperato di questi livelli arcaici, ma, stando anche all’evidenza epigrafica, a Meroe dovevano già sorgere almeno un palazzo e un tempio di Amon. Anche il “Tempio del Sole”, benché per questa fase non ce ne sia nota la struttura, risale probabilmente ad epoca napatea, forse al regno di Aspelta (inizio del VI sec. a.C.). Alcune piramidi nei cimiteri di Begarawiya Sud e Ovest a Meroe attestano la presenza di una aristocrazia locale se non addirittura di una ramo della famiglia reale che, anche secondo quanto evidenziato dalle iscrizioni di Irike-Amanote e Nastasen, vi risiedeva stabilmente. Delle strutture monumentali non meglio specificabili sono infine attestate almeno dal VI sec. a.C. a Musawwarat es Sufra, nel Butana, a conferma che anche questa regione doveva già essere

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Capitolo 19 164

parte integrante del regno. Purtroppo, non ci sono però elementi concreti per ricostruire l’economia della regione meridionale del regno di Kush in questa fase.

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20. Alla periferia del regno: i vicini di Kush

La traccia monumentale più meridionale ascrivibile a un sovrano di Kush è una sfinge di Aspelta rinvenuta presso Khartoum. Non è certo però se fosse nella sua collocazione originaria e, in mancanza di ulteriori evidenze non può automaticamente essere interpretata come una evidenza della presenza di un tempio e, quindi, dell’inclusione di questa regione nel territorio di Kush. In effetti, il problema del limite meridionale del regno di Kush resta ancora aperto. Certamente, il cimitero di Gebel Moya, nella Gezira, la regione compresa tra Nilo Bianco e Nilo Azzurro, è costituito da un certo numero di tombe con corredi caratterizzati dalla presenza di oggetti di tipo napateo. Peraltro, questa evidenza se da un lato testimonia di intensi rapporti con il regno di Kush, dall’altro non prova l’inclusione nel regno stesso di regioni così meridionali. Certamente il cimitero di Gebel Moya evidenzia la presenza nella regione di popolazioni caratterizzate da un certo grado di gerarchizzazione sociale e le cui tradizioni culturali si innestano probabilmente su quelle protostoriche locali della Jebel Moya Tradition. In epoca ormai pienamente meroitica lo scrittore latino Seneca narra del viaggio intrapreso alla ricerca delle sorgenti del Nilo da due centurioni dei pretoriani di Nerone e del fatto che il re di Kush li avrebbe muniti di credenziali da presentare ai sovrani che avrebbero incontrato più a sud, probabilmente proprio nella regione della Gezira. Si tratta di una conferma indiretta sia della presenza nella regione di potentati autonomi da Kush sia del fatto che essi mantenevano comunque delle relazioni diplomatiche con Kush.

Diverso è il discorso per la struttura fortificata recentemente rinvenuta nello Wadi Howar che ha restituito materiali napatei e egiziani tardi e che senza dubbio era un’installazione voluta e controllata dai sovrani di Kush. Certamente un presidio in una regione tanto remota e all’epoca frequentata solo da sparuti gruppi di pastori nomadi non si giustifica se non con finalità commerciali e di controllo delle piste carovaniere che l’attraversavano. Va rilevato comunque che una struttura del genere poteva avere contemporaneamente anche finalità militari di difesa, visto che le scorrerie delle popolazioni nomadi delle aree desertiche potevano rappresentare un serio

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166 Capitolo 20

problema per Kush. Queste scorrerie non solo razziavano le aree più prossime alla valle del Nilo ma mettevano anche a repentaglio il mantenimento delle comunicazioni tra Alta Nubia e Butana che si svolgevano attraverso le piste del Deserto del Bayuda.

Non è escluso che istallazioni simili a quella dello Wadi Howar fossero state approntate anche ai margini orientali dell’area controllata dai sovrani di Kush, ma non se ne è rinvenuta per il momento traccia. Vittorie sui blemmi, una popolazione del Deserto Orientale, sono però registrate nel corso del regno di Anlamani, intorno al 600 a.C., e poi ancora durante i regni di Irike-Amanote e Harsiyotef. Non è escluso che anche dietro etnonimi come Meded, che ritroviamo tra i popoli vinti nelle iscrizioni napatee, si celino popolazioni del Deserto Orientale e che questi stessi etnonimi non siano ricollegabili all’egiziano medjau. Purtroppo l’esplorazione archeologica del Deserto Orientale non ha ancora fornito evidenze consistenti per questa fase. Va però rilevata la presenza in una tomba a tumulo depredata in antico di alcuni amuleti e ornamenti in oro di tipo certamente riconducibile a manifattura napatea e simili anzi agli ornamenti delle vesti dei sovrani di Kush. Questi oggetti non solo attestano i contatti tra le popolazioni del Deserto Orientale e il regno di Kush ma per il loro pregio suggeriscono che si sia trattato di contatti che coinvolgevano forse gli stessi sovrani di Kush. D’altro canto non è certo sorprendente che gli interessi dei sovrani di Kush si siano indirizzati anche verso il Deserto Orientale, vista l’importanza che continuavano a rivestire i giacimenti d’oro della regione.

Oggetti provenienti dal regno di Kush sono stati rinvenuti fino sull’altopiano etiopico. A Matara, nell’attuale Eritrea, si è rinvenuto un amuleto rappresentante un Horo fanciullo con sulla fronte il doppio ureo tipico dell’iconografia reale kushita (Fig. 39) e forse di origine kushita sono anche due amuleti rappresentanti Ptah e Hator scoperti a Haulti. A Yeha un vaso in alabastro faceva parte del corredo di una tomba di un principe locale databile intorno al 700 a.C.: visto il tipo di oggetto, probabilmente prodotto in una bottega palatina, e il contesto di rinvenimento, la sua presenza potrebbe essere spiegata con uno scambio di doni in occasione di un contatto diplomatico. Significativamente, delle possibili influenze della cultura kushita sono state anche notate nell’iconografia di alcune statue di personaggi

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femminili e di alcune sfingi rinvenute sempre in siti dell’altopiano etiopico databili tra l’800 e il 400 a.C.

Figura 39: amuleto in corniola rinvenuto a Matara, sull’altopiano etiopico, nell’attuale Eritrea. Si noti il doppio ureo, caratteristica tipica delle corone e dei diademi dei sovrani di Kush (da Leclant in Annales d’Ethiopie, 6, 1965).

Analogamente agli oggetti scoperti nelle tombe di Gebel Moya e

nel Deserto Orientale, anche queste evidenze non possono essere interpretate come prove dell’estendersi del controllo politico del regno di Kush in regioni tanto meridionali. Certamente però lasciano scorgere l’intensità dei contatti tra Kush e l’entroterra africano, probabilmente spiegabili con il ruolo commerciale di intermediario tra Africa e Mediterraneo che Kush continuò a avere in epoca napatea. Un edificio di Sanam dalla pianta allungata e al cui interno si sono rinvenute delle zanne di avorio doveva essere un’istallazione commerciale, forse un magazzino che, per le grandi dimensioni, evoca immediatamente una committenza regale.

In base a quanto detto finora, abbiamo dunque traccia archeologica oltre che epigrafica dell’estendersi, se non dell’influenza politica,

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168 Capitolo 20

degli interessi economici del regno di Kush nelle regioni circostanti il suo territorio, dove, almeno nel caso della Gezira, dell’altopiano etiopico settentrionale e, forse, del Deserto Orientale sono attestate delle forme di gerarchizzazione sociale.

Diversa pare essere la situazione che l’archeologia permette di delineare per il Sudan sudorientale, dove con il Gruppo di Hagiz si accentua quel processo di progressiva pastoralizzazione già iniziato con il precedente Gruppo di Jebel Mokram, e caratterizzato dall’abbandono delle aree sfruttabili da un punto di vista agricolo più prossime al fiume Gash e al suo delta endoreico e da un’occupazione molto intensa delle steppe con piccolissimi campi temporanei (Fig. 40).

Figura 40: sistema d’insediamento del Gruppo di Hagiz, nel Sudan sudorientale. I siti sono di dimensioni molto piccole e si dispongono nelle aree di steppa, lontano dalla rive e dal delta endoreico del Gash, dove sono i terreni migliori per l’agricoltura, suggerendo così l’adozione di uno sistema di adattamento basato sulla pastorizia nomade (da Sadr, The Development of Nomadism, Dallas 1991).

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Ciò è in qualche modo sorprendente se si considera il ruolo che la regione aveva avuto nel corso del III e II millennio a.C., il fatto che fosse ricca di materie prime come avorio, ebano africano e resine e posta strategicamente tra il territorio di Kush, il Mar Rosso e l’altopiano etiopico. Benché delle condizioni climatiche più aride possano certamente aver favorito l’adattamento pastorale piuttosto che quello agricolo, l’abbandono delle terre più prossime al fiume Gash va comunque spiegato altrimenti, perché sarebbero state appetibili anche come pascoli. In realtà, proprio il controllo delle risorse della regione potrebbe aver attirato l’attenzione dei due stati, il regno di Kush e il regno etiopico-sabeo etiopico, che si erano sviluppati a ovest e a sud di essa. Il loro intervento nell’area e la loro competizione potrebbero infatti aver favorito l’instaurarsi di condizioni di insicurezza cui spesso le popolazioni sudanesi hanno reagito adottando sistemi di vita caratterizzati da un spiccata mobilità.

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170 Capitolo 20

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21. Il periodo meroitico tra continuità e innovazione

L’ultimo sovrano a essere sepolto a Nuri in Alta Nubia fu Nastasen, alla fine del IV secolo a.C. In seguito il cimitero regale di Kush fu spostato a Meroe. Il trasferimento del luogo della sepoltura dei sovrani di Kush avvenne a cavallo dell’inizio del III sec. a.C. e marca la fine della fase detta napatea e l’inizio di quella meroitica. La reale motivazione del trasferimento del cimitero reale non è nota: potrebbe essere connessa a un cambiamento dinastico o, come tradizionalmente ritenuto, al trasferimento della capitale da Napata a Meroe. In realtà, alcuni studiosi dubitano che il trasferimento di capitale sia mai avvenuto e ritengono che Meroe sia sempre stata la capitale o, almeno, una delle capitali di un regno in cui, come forse suggerito anche dalle modalità di incoronazione dei sovrani napatei, le capitali potevano essere molteplici. Secondo alcuni studiosi, poi, il trasferimento della capitale a Meroe potrebbe essere addirittura avvenuto agli inizi del VI sec. a.C. in conseguenza della campagna contro Kush condotta da Psammetico II, che, come visto, penetrò profondamente in Alta Nubia. Certamente, pur se Meroe fu un centro importante del regno di Kush fin dall’epoca napatea se non dall’epoca della sua formazione, il trasferimento del luogo della sepoltura reale non va sottovalutato, anche perché si accompagnò a altri indizi di uno spostamento dall’Alta Nubia al Sudan centrale dell’asse del regno.

Tra le innovazioni maggiormente degne di nota rispetto al periodo napateo vi è l’uso di una lingua diversa dall’egiziano e di un sistema di scrittura diverso dal geroglifico per la redazione delle iscrizioni ufficiali del regno. Il sistema di scrittura è il geroglifico meroitico, i cui segni sono evidentemente una derivazione dal geroglifico egiziano. Ben presto si sviluppò anche una forma corsiva di questa scrittura. La lingua è il meroitico, che sfugge ancora largamente alla nostra comprensione. Il valore fonetico dei segni del geroglifico meroitico, ovvero il suono corrispondente a ogni segno è stato determinato da F.L. Griffith grazie a un arredo templare scoperto a Wad Ben Naga, un supporto per la barca sacra, dedicato dal re Natakamani e dalla regina Amanitore sua consorte intorno alla metà del I sec. d.C. (Fig. 41).

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Figura 41: il supporto per barca sacra di Wad Ben Naga che reca il nome del re Natakamani e dalla regina Amanitore in geroglifico egiziano e in geroglifico meroitico. Questo oggetto ha permesso a Griffith di stabilire il valore fonetico di alcuni segni del geroglifico meroitico (da Lepsius 1849-1859).

Tale monumento reca infatti i nomi dei sovrani scritti

alternativamente nelle diverse parti del testo in geroglifici egiziani e in geroglifici meroitici. Purtroppo, la mancanza di più articolati testi bilingui e di lingue note imparentate con il meroitico non ha fatto fare in seguito molti passi avanti sulla via della decifrazione di questa lingua e solo alcune formule di offerta delle iscrizioni funerarie e alcune titolature sono per noi comprensibili poiché riprendono formule e espressioni egiziane. Solo negli ultimi anni uno studioso francese, C. Rilly, ha proposto dei confronti convincenti tra il meroitico, il nubiano e alcune lingue del Sudan sudorientale e dell’Eritrea settentrionale che sembrano poter aprire interessanti prospettive non solo sul fronte della sua classificazione ma anche su quello di una sua più ampia comprensione. La scarsa comprensione del meroitico ci priva comunque ancora della possibilità di leggere alcuni dei testi pervenutici di contenuto probabilmente storico. La nostra possibilità di stabilire la stessa cronologia dei sovrani di questa

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fase resta dunque affidata allo studio archeologico dei corredi contenuti nelle piramidi reali e dello sviluppo della loro tipologia architettonica.

Dei cambiamenti si verificarono anche nell’ambito del sistema ideologico-religioso relativo alla regalità. Diodoro Siculo narra che un re di Kush, di nome Ergamenes, contemporaneo di Tolomeo II (285-246 a.C.), reagì al potere di vita e di morte che i sacerdoti di Amon avrebbero avuto fino ad allora sul sovrano, affrancandosi, anche in virtù della sua educazione greca, dalla loro ingombrante tutela. Questa narrazione non trova riscontro diretto nell’evidenza archeologica, però è indubbio che contenga qualche elemento di verità e potrebbe essere connessa proprio con i cambiamenti del sistema ideologico-religioso avvenuti a cavallo del passaggio dalla fase napatea a quella meroitica. Lo stesso Ergamenes potrebbe infatti essere identificato con il re meroitico Arkamaniqo, che è forse stato il primo sovrano ad essere sepolto a Meroe piuttosto che a Napata. L. Török ritiene che la sepoltura di questo sovrano nel cimitero di Begarawiya Sud a Meroe, usato già da secoli per la sepoltura di principi e aristocratici, potrebbe giustificarsi con il fatto che Arkamaniqo voleva così sottolineare la sua relazione proprio con alcuni di costoro, forse suoi antenati. Si avvalorerebbe così l’ipotesi che allora sia avvenuto un cambio di dinastia. La narrazione di Diodoro sottende poi un mutamento del rapporto tra sovrano e divinità, o, almeno, i sacerdoti.

A tale proposito, va notato che al passaggio tra fase napatea e fase meroitica anche dal punto di vista religioso si riscontrano delle innovazioni. Amon fu infatti affiancato come protettore del sovrano da Apedemak, una divinità a testa leonina il cui culto pare essere stato particolarmente diffuso proprio nella regione del Sudan centrale e del Butana. Benché talune sue connotazioni siano probabilmente il frutto di fenomeni di assimilazione e sincretismo con la divinità leontocefala egiziana Mahes, Apedemak reca un nome meroitico. Accanto ad Apedemak anche Arensnuphis e Sebiumeker, due divinità maschili caratterizzate come guerrieri e cacciatori, acquisirono una certa preminenza nel pantheon di Kush, confermando la nuova centralità accordata a questo tipo di divinità caratteristiche della parte meridionale del regno di Kush. D’altro canto anche Amon acquisì in questa fase caratterizzazioni analoghe. Va comunque sottolineato che,

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benché affiancato da Apedemak, Amon continuò ad essere patrono e protettore del sovrano. Non a caso, molti nomi di sovrani anche dopo il III sec. a.C. continuarono ad essere nomi teofori composti proprio con il nome di Amon e ancora intorno al 50 d.C. Natakamani costruì un palazzo al Gebel Barkal, non lontano dal principale tempio di Amon nel regno di Kush.

Significativamente, il culto di Apedemak fu praticato in edifici caratterizzati da una tipologia architettonica bel distinta e diffusa nella parte meridionale del regno di Kush. Si tratta infatti di templi costituiti da un’unica stanza, talora preceduta da uno o due ambienti, che si distinguono nettamente rispetto ai templi ove era praticato il culto di Amon, caratterizzati dalla successione di corte colonnata, sala ipostila e cella, tipica della tradizione egiziana del Nuovo Regno. I templi di Apedemak erano evidentemente destinati a pratiche cultuali diverse rispetto a quelle che si svolgevano nei santuari di Amon e forse anch’esse caratteristiche della parte centro-meridionale del regno.

Un’altra struttura architettonica diffusa nella parte meridionale del regno e caratteristica della fase meroitica rispetto quella napatea è lo hafir, ovvero il bacino circolare per la raccolta delle acque che si riversavano nella steppa del Butana nel corso delle piogge stagionali. Spesso i siti dove sorgevano i bacini di raccolta delle acque che sono in genere affiancati da edifici templari presentano limitati resti addebitabili a un vero abitato permanente e ciò potrebbe suggerire che vicino a essi sorgessero degli insediamenti in gran parte costituiti da strutture in materiali leggeri e deperibili. Secondo una verosimile interpretazione, questi siti dovevano essere frequentati nel corso della stagione secca dalla componente pastorale e transumante della popolazione meroitica che nel corso della stagione umida, durante e subito dopo le piogge stagionali, viveva dispersa nelle steppe. Gli hafir erano quindi destinati a fornire dei punti di approvvigionamento d’acqua nella stagione secca a una parte forse non trascurabile della popolazione del regno di Kush. Il fatto poi che gli hafir fossero spesso associati a templi dedicati ad Apedemak, coerentemente con la connotazione di propiziatore della fertilità di questo dio, suggerisce che attraverso i complessi tempio-hafir lo stato meroitico esercitasse il suo controllo sulla parte nomade e transumante della popolazione.

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L’importanza degli allevatori di bovini nell’economia meroitica e la stessa consistenza di questi gruppi è dibattuta, nondimeno è innegabile che all’interno della popolazione meroitica esistesse una componente pastorale dedita all’allevamento che viveva probabilmente in simbiosi con gli agricoltori della valle. Non è inoltre escluso che il sistema di adattamento adottato dagli abitanti del Butana affiancasse all’allevamento anche la coltivazione del sorgo, un cereale più adatto alle condizioni di aridità della regione rispetto all’orzo e al grano probabilmente coltivati nella valle del Nilo.

La rilevanza dell’allevamento di bovini nell’economia e nell’ideologia del regno di Kush nella fase meroitica è confermata anche dall’evidenza iconografica. Una coppa bronzea databile al III sec. d.C. da Karanog, in Bassa Nubia, raffigura proprio una scena di economia pastorale, con un gruppo di bovini e un pastore che versa del latte dinnanzi a una donna accovacciata e a un uomo. La donna è caratterizzata da una certa pinguedine e probabilmente era la moglie del padrone degli animali che, come si è detto a proposito della regina di Punt nei rilievi di Hatshepsut a Deir el Bahari, doveva dimostrare con le sue caratteristiche fisiche il rango sociale del marito e la floridezza della sua condizione economica. Significativamente, anche le regine meroitiche sono rappresentate sottolineandone la pinguedine, secondo un parametro sociale e estetico forse collegabile proprio a concetti dell’area del Butana e del Sudan centrale, dove, come si è detto, si era spostato l’asse del regno nel III sec. a.C.

Interessante inoltre notare come le regine meroitiche, che portavano il titolo di “kadake”, riferito nelle fonti greche come Candace e da esse frainteso trasformandolo in un nome proprio, avessero un ruolo centrale all’interno dello stato. Come si è detto, le regine avevano grande importanza già durante la fase napatea, ma allora non abbiamo notizia di regine regnanti, cosa che, come vedremo anche in seguito, si verificò invece con una certa frequenza nella fase meroitica e probabilmente fin dal III sec. a.C. Un grafitto demotico rinvenuto in Bassa Nubia menziona infatti come sovrani meroitici attivi nell’area nel corso della rivolta del 207-186 a.C. dell’Alto Egitto contro i Tolomei, di cui i kushiti cercarono di approfittare per affermare il proprio controllo sulla regione, il “Faraone Arqamani e il faraone donna Nayatal, sua madre”. Altre regine, come

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Capitolo 21 176

Amanishakheto e Amanitore, esercitarono da sole o con il coniuge il potere regale e furono rappresentate nell’atto di massacrare i nemici, secondo un’iconografia che risale alle più antiche manifestazioni della regalità nella valle del Nilo (Fig. 42).

Figura 42: in alto, l’ingresso della cappella funeraria della piramide della regina Amanishaketo, in basso il pilone del tempio di Naga con, a destra, la rappresentazione della regina Amanitore. In ambedue i casi le sovrane sono rappresentate nell’atto di massacrare i nemici (da Lepsius 1849-1859).

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Va rilevato che anche la centralità della figura femminile

nell’ambito istituzionale del regno potrebbe rientrare tra gli elementi riconducibili allo spostamento verso sud dell’asse del regno. Infatti, mentre per la Bassa e l’Alta Nubia non abbiamo notizia di personaggi femminili direttamente investiti di potere regale nelle epoche precedenti, le fonti egiziane suggeriscono che la situazione fosse diversa più a sud. Un testo di esacrazione dell’inizio del Medio Regno ci informa che Iam, la cui localizzazione resta però incerta, era governata da una principessa. Nei rilievi della regina Hatshepsut a Deir el-Bahri spicca poi la centralità della figura della regina di Punt e della figlia nelle scene relative all’accoglienza della spedizione egiziana. Per epoche più prossime a quella meroitica, va ricordata infine la descrizione del prestigio di cui godevano le donne anziane nella società dei Trogoditi, popolazione del Deserto Orientale descritta nell’opera del geografo ellenistico Agatarchide di Cnido.

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22. La fioritura del Sud meroitico

Lo spostamento a sud del baricentro del regno di Kush in epoca meroitica è ben rappresentato al fiorire di siti caratterizzati dalla presenza di monumenti reali lungo la riva orientale del Nilo, a monte della sua confluenza con l’Atbara, e nel Butana. Musawwarat es Sufra e Meroe divennero allora due tra i centri principali del regno. Un più dettagliato esame delle loro caratteristiche può quindi rivelare particolari significativi di questa fase di sviluppo del regno di Kush e della sua cultura.

A Musawwarat es Sufra, un sito localizzato a una trentina di chilometri a sudest del Nilo nel Butana settentrionale e indagato da una missione tedesca inizialmente guidata dal grande meroitologo F. Hintze, sorge il più antico tempio dedicato ad Apedemak finora noto, costruito nel corso di un importante programma di riorganizzazione architettonica alla metà del III sec. a.C., voluto dal re Arnekhamani. Il sito di Musawwarat es Sufra fu però frequentato almeno a partire dal VI sec. a.C., ma poco sappiamo del suo aspetto in tale epoca. Il tempio di Apedemak era costituito da una sola stanza con pilastri e con l’ingresso coronato da pilone. Due statue colossali di Arensnuphis e Sebiumeker erano poste all’ingresso del tempio, confermando la preminenza accordata nell’intero complesso agli dei guerrieri e cacciatori tipici della parte meridionale del regno di Kush. Il tempio era decorato con scene di consegna al sovrano di insegne e regalie da parte di Amon, Apedemak, Arensnuphis e Sebiumeker (Fig. 43).

Musawwarat es Sufra ospita anche un complesso monumentale le cui varie parti sorgono a diverse elevazioni su dei podi collegati tra loro da ampie rampe. Il complesso è caratterizzato dalla presenza di un cortile delimitato da un muro, detto Grande Recinto, nella cui decorazione la posizione di prominenza è ancora una volta riservata agli dei guerrieri e cacciatori Apedemak, Arensnuphis e Sebiumeker accanto a Amon, di cui è però pure enfatizzato l’aspetto di cacciatore e guerriero. Il rilievo rituale e ideologico di Musawwarat es Sufra è anche confermato dall’esistenza, confortata dall’evidenza epigrafica, di un tempio di Iside databile almeno dalla fine del III sec. a.C.,

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mentre un’altra struttura è forse identificabile con un santuario di Sebiumeker.

Figura 43: rilievi su una colonna nel tempio di Apedemak a Musawwarat es Sufra. Il tema è la legittimazione del potere regale da parte delle divinità, di cui sono sottolineati gli aspetti legati alla caccia e alla guerra (da Lepsius 1849-1859).

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La parte centrale del complesso monumentale è occupata da due

grandi sale da cui un lungo corridoio conduce a una stanza con un’ampia finestra che si apre su un largo cortile, forse destinata all’epifania del sovrano. Come recentemente appurato, almeno alcuni dei numerosi cortili del complesso dovevano essere giardini. Piante e alberi erano portati dentro grandi vasi di terracotta dalla valle del Nilo e trapiantati nei giardini di Musawwarat es Sufra. La loro irrigazione era garantita da una lunga condotta che attingeva a un hafir. In un cortile è stato rinvenuto un laboratorio per la produzione di ceramica dipinta di alta qualità. Un altro cortile ospita infine delle stanze di cui una era destinata ai bagni di vapore, una pratica ancora oggi diffusa tra le donne sudanesi.

Riguardo l’interpretazione della funzione del complesso monumentale, benché l’evidenza disponibile non permetta ancora di definire la questione con certezza e il sito sia stato di volta in volta identificato con un luogo di pellegrinaggio o, addirittura, vista l’insistenza nella rappresentazione dell’elefante nelle sue decorazioni architettoniche, con un centro di addestramento di pachidermi, pare probabile che si sia trattato di una residenza reale occupata saltuariamente. Forse il suo uso era collegato alla pratica da parte del sovrano della caccia nella regione circostante, attività che poteva anche avere significati rituali, e probabilmente anche a riti e attività connessi con il concepimento, la nascita e la legittimazione regale. Particolarmente interessanti da questo punto di vista sono le decorazioni delle colonne dinnanzi alla sala centrale del complesso, che consistono principalmente in scene di intronizzazione e di elezione del sovrano da parte dell’Amon di Kawa, Iside, Thot, Horo, Amon di Tebe e Sebiumeker. Il sovrano è poi rappresentato mentre riceve il potere sui nemici da Apedemak e è protetto da Arensnuphis. Nelle scene seguenti il sovrano accompagnato dall’erede al trono si presenta a Apedemak e offre un pettorale all’Amon criocefalo di Napata accompagnato dalla consorte Mut.

L’insistenza nella parte centrale del complesso e nel tempio di Apedemak sul motivo della legittimazione divina del sovrano potrebbe anche essere collegata alle contingenze politiche connesse allo spostamento a sud dell’asse del regno di Kush, forse anche

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all’ascesa al trono di una nuova dinastia o, almeno, di un nuovo ramo della dinastia che sembrano essere stati concomitanti con l’importante programma di riorganizzazione architettonica del sito da parte di Arnekhamani. L’importanza riservata in queste scene a divinità come l’Amon di Kawa e quello di Napata indica che questo spostamento dell’asse del regno non alterò gli aspetti principali del rapporto legittimante tra sovrano e mondo divino, arricchendolo semplicemente di nuove relazioni con le divinità cacciatrici Apedemak, Arensnuphis e Sebiumeker.

A Musawwarat es Sufra vi è anche traccia di frequenti contatti con l’Egitto, che contiunuarono in epoca meroitica nonostante lo spostamento a sud dell’asse del regno di Kush. Alla luce dalle somiglianze stilistiche di molti rilievi del tempio di Apedemak con opere coeve dell’Egitto tolemaico, pare infatti accertato un intervento di artisti e manovalanze egiziane nella decorazione del santuario. Seppure in generale i soggetti rappresentati siano puramente kushitici, non mancano però delle corrispondenze iconografiche puntuali tra il costume reale di Arnekhamani raffigurato nel tempio di Apedemak e i coevi rilievi egiziani che rappresentano sovrani tolemaici. Anche i vari esempi di sincretismi kushitico-egiziani notati nella caratterizzazione delle figure divine e le consonanze tra dei testi rinvenuti a Musawwarat es Sufra e quelli di alcune iscrizioni coeve di File attestano l’intensità dei rapporti tra Egitto e Kush in questa fase.

Se le parti centrali del complesso di Musawwarat es Sufra sono di fondamentale importanza per il loro carattere innovativo e perché mantennero a lungo un valore paradigmatico nell’ambito dell’arte ufficiale meroitica, il Grande Recinto è decorato da centinaia di graffiti che testimoniano un’arte non ufficiale, meno rigida nei temi e nello stile della rappresentazione, probabilmente connessa anche alla letteratura orale. Le iscrizioni incise in meroitico in associazione con questi graffiti, insieme a alcuni prestiti dall’arte ufficiale dimostrano comunque che sarebbe sbagliato parlare a tale proposito di arte popolare: si tratta comunque di espressioni che scaturirono dal segmento letterato e dotto della popolazione.

A Musawwarat es Sufra, accanto a questi edifici monumentali, esisteva un grande hafir. Tale struttura, secondo i calcoli effettuati, doveva contenere tra i 135.000 e i 170.000 metri cubi di acqua. Il sito

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di Musawwarat es Sufra è paradigmatico di quella tipologia di siti meroitici caratterizzati proprio dalla presenza di questi bacini di raccolta delle acque e di edifici templari senza consistenti resti addebitabili ad un vero abitato permanente nei dintorni. Probabilmente dei gruppi transumanti vi si radunavano nel corso della stagione secca, quando possiamo immaginare che si svolgessero anche delle cerimonie nel complesso monumentale che poteva quindi svolgere un importante ruolo nella trasmissione di messaggi relativi all’ideologia dello stato a questa componente della popolazione.

Un altro sito fondamentale per la comprensione delle caratteristiche della fase che si apre con lo spostamento dell’asse del regno a sud è certamente Meroe, dove si spostò il cimitero reale. Proprio la tipologia architettonica delle strutture nel cimitero reale si pone in un rapporto di continuità con la tradizione napatea. Seguendo i canoni napatei, anche a Meroe le piramidi continuano infatti ad avere una inclinazione molto accentuata e una cappella per il culto funerario, le cui figurazioni, con il defunto intronizzato dinnanzi a cui si svolgono dei riti di offerta funeraria, si pongono anch’esse in un rapporto di continuità con le tradizioni precedenti. Le prime tombe reali note a Meroe sono localizzate nel cimiero di Begarawiya Sud, peraltro già usato fin da epoca napatea per sepolture di personaggi di rango molto elevato. Un vero e proprio cimitero reale separato, Begarawiya Nord iniziò poi a svilupparsi su un’altura precedentemente non utilizzata, mentre continuò anche l’utilizzazione per tombe non reali ma comunque aristocratiche dei cimiteri più antichi della città. La città di epoca meroitica era costituita da un recinto quadrangolare, al cui interno si trovano dei palazzi e alcuni templi, detto la “Città Reale”, e da un vicino tempio di Amon. Altre strutture, tra cui il cosiddetto “Tempio del Sole”, sono più distanti. Le ricerche archeologiche sul sito di Meroe, se si escludono gli scavi delle necropoli di Begarawiya condotti da Reisner, si sono finora concentrate proprio nella “Città Reale”, sul tempio di Amon e sul “Tempio del Sole”. Poco note sono le altre zone di abitato con strutture meno imponenti al di fuori del recinto della “Città Reale”. Probabilmente queste aree erano usate da settori più umili ella popolazione. Non si può escludere che alcune aree avessero anche una destinazione artigianale, come suggerito dai rinvenimenti di oggetti semilavorati, di scarti di lavorazione e di

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stampi usati per la produzione in serie di amuleti. Una certa importanza nell’economia della città potrebbe aver avuto l’estrazione e la lavorazione del ferro, testimoniata da cumuli di scorie e resti di fornaci, benché l’immagine che si è per un certo periodo accreditata di Meroe come una “Birmingham dell’Africa” sia certamente esagerata.

Il tempio di Amon riproduce la tipologia caratteristica dei santuari egiziani del Nuovo Regno, con un cortile colonnato, una sala ipostila, un’antecella e una cella. La sua utilizzazione in epoca meroitica e la sua prossimità alla “Città Reale” attestano la centralità che il dio Amon mantenne nell’ambito dell’ideologia reale della fase meroitica. Il “Tempio del Sole”, invece nella forma oggi visibile è riconducibile alla tipologia del santuario formato da una sola stanza. In questo caso, la struttura è resa più complessa da una serie di recinti che circondano il santuario vero e proprio e monumentalizzata dal fatto di sorgere su un podio. Significativamente, anche nel caso del “Tempio del Sole” di Meroe, questa tipologia templare è affiancata da un grande hafir. Non sappiamo purtroppo a quale divinità il tempio il “Tempio del Sole” fosse dedicato e il suo nome è legato all’ipotetica identificazione della struttura con un tempio di Meroe dove, nella narrazione erodotea, venivano effettuate offerte al dio Sole. A Meroe, quindi, troviamo attestate a poca distanza sia la tipologia del tempio di tradizione egiziano-napatea sia quella con una sola stanza caratteristica del Butana e del Sudan centrale.

All’interno della “Città Reale” si sono indagate delle strutture palatine di cui sono conservate solo le fondazioni e il piano terra. Erano costituite in genere da stanze allungate, forse magazzini, e altri ambienti disposti intorno a un cortile, che può talora essere in posizione asimmetrica rispetto al centro dell’edificio. Nulla resta degli ambienti di rappresentanza che in questi casi, come pure nel caso degli altri due palazzi meroitici noti, quello di Natakamani al Gebel Barkal e quello di Amanishakheto ad Wad ben Naga, ambedue del I sec. d.C., dovevano occupare i piani superiori. All’interno della “Città Reale” si è anche rinvenuta una struttura assolutamente unica. Si tratte di un complesso con degli ambienti di cui uno a esedra con nicchie riccamente ornate da statue e piastrelle in faience, tutte facenti parte di un coerente programma decorativo. La presenza di una vasca e di una condotta che vi permetteva l’afflusso delle acque del Nilo sono

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all’origine dell’interpretazione dello scopritore, l’archeologo inglese J. Garstang, che considerò l’edificio come un complesso termale di tipo romano costruito nel cuore dell’Africa. In realtà, si è oggi verificato che le acque del Nilo sarebbero affluite nella vasca solo quando il fiume avesse superato un certo livello, cosa che poteva avvenire esclusivamente in concomitanza con la piena del fiume. Il complesso è stato quindi reinterpretato come un santuario delle acque, dove veniva celebrato e forse propiziato l’inizio dell’inondazione, evento dalla cui consistenza doveva dipendere anche gran parte della prosperità del regno. Il programma decorativo di questo complesso è coerente con la sua funzione di santuario delle acque o della fertilità: tutte le statue e le altre decorazioni figurative sono infatti riconducibili al culto dionisiaco - e Dioniso nell’ambito mediterraneo è soprattutto una divinità della fertilità - e al culto di Apedemak, che pure doveva essere propiziatore di fertilità e del rinnovarsi stagionale della vita (Fig. 44).

Figura 44: testa di Dioniso dal complesso del santuario delle acque a Meroe. Dioniso e Apedemak sono le due divinità sotto la cui protezione era posto il rinnovarsi dei cicli naturali rappresentato dall’affluire nella vasca del tempio dell’acqua del Nilo in occasione della piena (da Török, Meroe City. An Ancient African Capital. John Garstang’s Excavations in the Sudan, Londra 1997).

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Ma Apedemak era anche un patrono del re e della dinastia e, d’altra parte, il santuario delle acque sorgeva nella “Città Reale”, in prossimità dei palazzi dei sovrani e dei principi di Kush. Appare probabile quindi che i riti vi fossero officiati o, almeno, presenziati dal re in persona, che forse era, come prima di lui i faraoni d’Egitto, garante dell’ordine cosmico di cui la piena del Nilo e, forse, a Meroe, anche le piogge stagionali che riempivano gli hafir, erano parte integrante. Questo tipo di struttura è stata accostata da L. Török a un edificio simile, fatto costruire dai Tolomei a Memfi, in cui il culto reale e quello della fertilità propiziata dal Nilo erano egualmente associati. D’altro canto, l’influenza ellenistica è evidente non solo nella tipologia architettonica, ma anche nell’iconografia e nello stile di molte delle decorazioni del santuario delle acque di Meroe.

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23. Kush punto d’incontro tra Africa e Mediterraneo

Il contatto con il mondo mediterraneo, l’adozione selettiva e la rielaborazione di elementi iconografici e stilistici da esso provenienti, sono tra le caratteristiche più evidenti dell’arte e della cultura materiale meroitica. Si è già detto del santuario delle acque a Meroe. Un’analoga commistione e rielaborazione organica e originale di motivi della tradizione egiziano-napatea e di quella ellenistica è evidente anche nella decorazione della ceramica dipinta meroitica, una classe di recipienti molto raffinata che fu prodotta forse anche per influenza delle ceramiche dipinte ellenistiche, proprio a partire dal III sec. a.C. I motivi decorativi che caratterizzano la ceramica dipinta meroitica, benché, come sottolineato, di diversa origine, non sembrano comunque derivare da intenti estetici, sono infatti tutti riconducibili alla sfera religiosa e della regalità, tra loro peraltro intimamente connesse. La stessa produzione della ceramica dipinta meroitica richiedeva peraltro una tecnologia di modellazione, decorazione e cottura nettamente più complessa delle ceramiche modellate a mano e con decorazioni incise o impresse probabilmente in gran parte prodotte in ambito domestico. Il rinvenimento di un atelier per la produzione di ceramica dipinta nel complesso monumentale di Musawwarat es Sufra conferma che la sua produzione era collegata alle istituzioni templari e regali e, quindi, ai segmenti sociali più esposti e recettivi degli stimoli esterni.

Accanto ai tratti stilistici potevano viaggiare anche le tecnologie, come forse avvenne per quella del vetro: alcuni recipienti in vetro, decorati con iconografie squisitamente meroitiche o di tipologie sconosciute in ambito mediterraneo erano probabilmente prodotti nel territorio di Kush anche se, in mancanza dell’individuazione di laboratori di produzione locali, non si può nemmeno escludere che fossero prodotti in Egitto appositamente per essere esportati verso Kush.

Si è già sottolineato a proposito del tempio di Musawwarat es Sufra come in alcuni dei rilievi che lo ornano si possa riconoscere la mano di artigiani provenienti dall’Egitto tolemaico evidentemente al servizio dei sovrani di Kush. Probabilmente le iconografie e gli stili

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artistici dovevano viaggiare in questo modo tra l’Egitto e Kush. Un ruolo nella trasmissione di stili e iconografie ebbe certamente anche la reinterpretazione da parte di artigiani meroitici di motivi osservati su oggetti importati. Un notevole gruppo di oggetti di alto artigianato ellenistico-romano importati è stato infatti rinvenuto nelle piramidi reali di Meroe. Tra essi spiccano statue, statuette, vasi in bronzo e argento talvolta decorati. Un vaso in argento di epoca augustea o tiberiana, in particolare, è decorato con una scena della propaganda imperiale romana: l’imperatore vi è infatti rappresentato come giudice giusto. Un oggetto di questo tipo non era certo prodotto per essere venduto, ma era fabbricato dalle manifatture della corte imperiale romana e inviato come dono ai sovrani amici o che, comunque, avessero delle relazioni diplomatiche con Roma. È quindi verosimile che una certa parte degli scambi commerciali tra Kush e il Mediterraneo continuassero anche in questa fase a svolgersi all’interno dei meccanismi dello scambio di doni tra sovrani.

Accanto agli oggetti di pregio, nelle tombe principesche meroitiche si sono rinvenute anche numerose anfore, molte delle quali certamente vinarie. Questa presenza attesta l’adozione di alcuni tratti dello stile di vita mediterraneo di cui il consumo del vino era parte integrante da parte degli aristocratici meroitici (Fig. 45). D’altro canto, anche molti dei vasi in metallo (Fig. 45) e in vetro rinvenuti nelle stesse tombe aristocratiche erano verosimilmente parte di servizi da simposio, utilizzati per consumare il vino. La diffusione del consumo del vino, che portò anche allo sviluppo di una produzione vinaria locale in Bassa Nubia e forse anche più a sud, va indubbiamente inserita in un fenomeno di più ampia adozione di tratti della cultura greca nel regno di Kush che potrebbe essere iniziata piuttosto precocemente. Come già sottolineato, lo stesso Ergamenes, il sovrano il cui regno si pone all’inizio della fase meroitica e che si sarebbe liberato dalla tutela dei sacerdoti di Amon nel III sec. a.C., aveva ricevuto, secondo Diodoro, un’educazione greca.

I contatti con il mondo mediterraneo e l’adozione di stili di vita ellenistico-romani da parte dell’aristocrazia meroitica condussero anche ad interessanti fenomeni di assimilazione e sincretismo religioso. A Gebel Qeili, nel Butana, su un massiccio granitico, in prossimità forse del limite meridionale del regno e probabilmente

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proprio con funzione di marcarne il confine, un rilievo rupestre riproduce una scena di vittoria del sovrano meroitico Shorakaror, di poco successivo al 50 d.C., che trionfa su non meglio specificati nemici.

Figura 45: alcuni esempi di anforacei e di vasi in metallo importati dal Mediterraneo rinvenuti nelle piramidi reali e principesche di Kush. La loro presenza attesta come il vino e il suo consumo fossero parte dello stile di vita o, quanto meno, dell’immagine di sé che l’aristocrazia meroitica voleva dare (da Török in Meroitica, 10, 1988).

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Il sovrano e i nemici prigionieri sono rappresentati secondo stilemi dell’arte meroitica di ascendenza napateo-egiziana, ma i nemici abbattuti e la divinità che concede al re la vittoria sono raffigurati secondo iconografie ellenistiche. In particolare, la divinità è rappresentata frontalmente e ha il capo circondato da un nimbus, un disco con dei raggi, iconografia chiaramente riconducibile a una simbologia solare e diffusa nel bacino orientale del Mediterraneo ellenistico-romano. Il dio offre al re quale simbolo di prosperità, quelle che sembrano essere delle spighe di sorgo, come già detto un cereale molto importante in questa fase specie per le popolazioni del Butana. D’altro canto, una divinità con nimbus e il viso rappresentato frontalmente era stata raffigurata poco tempo prima in un rilievo del tempio di Apedemak a Naga, voluto dai predecessori di Shorakaror, Natakamani e Amanitore, insieme anche a una divinità barbuta la cui iconografia richiama quella di Serapide, il dio concepito dai Tolomei per rappresentare un punto di riferimento ideologico-religioso sia per i loro sudditi di origine egiziana sia per quelli di origine greca. Un altro principe della stessa epoca, Arikankharor, si fece rappresentare con il braccio sollevato per colpire i nemici secondo un’iconografia egiziana antichissima risalente addirittura a 3100 anni prima e fino ad allora largamente usata in Egitto e in Nubia, ma affiancato da una divinità femminile alata che gli porge una palma della vittoria, proprio come la Vittoria-Nike ellenistico-romana.

Forse anche il dio meroitico per eccellenza, Apedemak fu oggetto di sincretismo con divinità straniere o, almeno, arricchì alcune delle sue caratterizzazioni con elementi iconografici esogeni: il dio solare di Gebel Qeili, associando connotazioni guerriere, di patrono del sovrano e di propiziatore della fertilità, potrebbe infatti anche essere una manifestazione di Apedemak. Inoltre, l’associazione tra Apedemak e Dioniso nel programma decorativo del santuario delle acque a Meroe potrebbe indicare un suo accostamento al dio greco del vino e della fertilità. A tale proposito, è interessante notare come talora Apedemak sostituisca Osiride nella triade divina di tradizione egiziana composta da Osiride, Iside e Horo e che Osiride, proprio perché simbolo di rinascita e fertilità, sia stato anch’esso assimilato in Egitto al greco Dioniso.

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Il contatto con il mondo greco-romano non fu sempre pacifico. Sappiamo di contrasti che probabilmente sfociarono in un conflitto tra Kush e l’Egitto tolemaico tra il 207 e il 186 a.C., quando forse i sovrani meroitici sostennero o addirittura fomentarono delle agitazioni e rivolte anti-tolemaiche in Alto Egitto e assunsero un ruolo politicamente più attivo in Bassa Nubia. Questa rivolta probabilmente rappresentò un tentativo meroitico di riguadagnare il controllo di almeno una parte della Bassa Nubia, ma si concluse invece con l’affermazione del dominio tolemaico fino alla seconda cataratta, che garantiva ai sovrani greco-egiziani anche il controllo dell’imboccatura dello Wadi Allaqi e, quindi, delle piste che attraverso di esso conducevano alle regioni aurifere del Deserto Orientale. Grazie a Strabone, siamo più informati sulle vicende verificatesi nel 23 a.C., dieci anni dopo l’occupazione romana dell’Egitto. Approfittando infatti dell’assenza di Elio Gallo, secondo prefetto d’Egitto, e di una certa parte delle truppe romane stanziate nella nuova provincia, impegnati in una campagna in Arabia meridionale, scoppiò una rivolta in Bassa Nubia, regione che i romani avevano in gran parte annesso. Tale rivolta trovò un attivo sostegno nei sovrani di Kush. La reazione romana fu affidata al nuovo prefetto dell’Egitto, Caio Petronio che guidò una spedizione militare fino in Alta Nubia, forse addirittura fino a Napata. Strabone narra che allora Meroe era governata da una candace con un occhio solo: doveva trattarsi di Amaniarenas, che regnava coadiuvata dal principe Arkhatani. Dopo la controffensiva romana, gli ambasciatori del sovrano di Kush incontrarono Augusto a Samo nel 21 a.C. e stipularono con l’imperatore un trattato di pace che restituì al controllo meroitico gran parte della Bassa Nubia e garantì la pace alla frontiera meridionale dell’impero.

Con queste vicende narrate da Strabone è collegato forse il rifacimento o la costruzione del santuario M 292 nella Città Reale a Meroe, decorato con pitture raffiguranti il sovrano di Kush e schiere di nemici stranieri prigionieri, tra cui alcuni con barba e elmetto identificabili con soldati romani (Fig. 46). Presso l’ingresso di questo santuario, inoltre, era ritualmente sepolta dentro un buca poi colmata di sabbia depurata una testa in bronzo dell’imperatore Augusto, in modo che chiunque entrasse la calpestasse simbolicamente. Questa testa di Augusto dovette giungere a Meroe come preda bellica proprio

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in occasione degli attacchi meroitici contro centri romani in Bassa Nubia o in Alto Egitto. Non è però escluso che la testa di Augusto sia arrivata a Meroe in seguito a altri e successivi episodi di ostilità militare lungo il confine tra Meroe e Roma, di cui però la storiografia romana non ci informa.

Figura 46: rappresentazione di prigionieri nel tempio 292 a Meroe. Si notino i tratti mediterranei e l’elmetto del primo prigioniero da sinistra, che potrebbe essere identificato con un soldato romano (da Shinnie e Bradley in W.K. Simpson e W.M. Davies (ed.), Studies in Ancient Egypt, the Aegean, and the Sudan. Essays in honor of Dows Dunham on the occasion of his 90th birthday, Boston 1981).

Nonostante questi episodi, Kush restò un importante interlocutore

diplomatico e commerciale dei Tolomei prima e di Roma poi e da questi scambi lo stato meroitico trasse una parte importante della sua floridezza. Il commercio che si dipanava tra Kush e il mondo mediterraneo si giustifica come nelle fasi precedenti della storia nubiana e sudanese con la presenza in regioni controllate direttamente o il cui accesso era controllato dai sovrani di Kush di materie prime assai apprezzate per la produzione di oggetti di lusso, come l’avorio, l’oro, gli aromi, l’ebano. I meccanismi attraverso cui il commercio si svolgeva sono poco noti. Nondimeno, la presenza di concentrazioni maggiori di oggetti importati nelle tombe dei cimiteri reali rispetto a quelle riscontrate in altri contesti riferibili alle aristocrazie provinciali

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o a rami collaterali della stessa famiglia reale sembra indicare una maggiore possibilità di accedere a tali beni da parte dei sovrani di Kush. Forse, proprio come facevano anche i Tolomei, i sovrani di Kush controllarono direttamente il commercio di determinati beni attraverso dei monopoli reali. Questa ipotesi potrebbe essere avvalorata dal rinvenimento di zanne d’avorio nei magazzini del palazzo di Amanishakheto a Wad Ben Naga, databile a poco prima della metà del I sec. d.C. Strutture fortificate meroitiche sorgevano poi in prossimità dei pozzi lungo le piste che collegavano la regione di Napata con quella di Meroe e questo fatto indica almeno una protezione se non una gestione del commercio da parte dello stato lungo una direttrice che restava peraltro fondamentale anche per il mantenimento della coesione interna del regno di Kush. La stessa presenza di un funzionario particolare preposto all’amministrazione della Bassa Nubia, carica che da un certo momento in poi divenne ereditaria, potrebbe indicare lo status particolare di quella provincia legato forse proprio al suo ruolo commerciale, posta com’era al confine con l’Egitto. Ancora meno chiari sono i meccanismi attraverso i quali i beni destinati a essere esportati verso il Mediterraneo fossero reperiti. Probabilmente una certa parte di questi prodotti, tra cui l’avorio, provenivano da aree all’interno dei confini del regno. Altri potevano essere raccolti attraverso scambi con regioni non controllate direttamente, come forse la Gezira, ma con le cui aristocrazie i sovrani di Kush dovevano mantenere stretti rapporti. Forse i vasi in bronzo romani rinvenuti a Sennar, sul Nilo Azzurro, e presumibilmente provenienti da sepolture, sono proprio traccia di questo tipo di rapporti che dovevano collegare alla corte di Kush anche potentati ai margini meridionali del regno. Non si può nemmeno escludere che quelle regioni fossero anche soggette a periodiche scorrerie da parte dei kushiti finalizzate al reperimento di alcuni dei prodotti interessanti per il commercio meroitico.

Se quindi il commercio con il Mediterraneo doveva contribuire alla floridezza della dinastia di Kush, è evidente che il controllo su di esso rafforzava anche la coesione dello stato attraverso la redistribuzione al suo interno e, probabilmente, in particolare alle aristocrazie locali di oggetti di lusso importati. Non a caso, come detto, tali oggetti sono

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stati rinvenuti, pur se in misura minore rispetto al cimitero reale, anche nei cimiteri provinciali del regno di Kush.

Da notare che lo stesso spostamento a sud dell’asse del regno nel III sec. a.C. potrebbe venire riletto proprio alla luce dell’importanza rivestita dal commercio per lo stato meroitico e delle dinamiche innestate dal controllo tolemaico dell’Egitto e dalla rivitalizzazione ad opera dei primi Tolomei della navigazione nel Mar Rosso. Tale navigazione, infatti, era finalizzata a ottenere gli stessi prodotti tradizionalmente importati con l’intermediazione di Kush attraverso la Bassa Nubia raggiungendo direttamente le aree di produzione del Mar Rosso meridionale. Lo spostamento dell’asse del regno meroitico a sud potrebbe dunque essere legato anche alla necessità di controllare più da vicino le regioni di produzione delle materie prime africane, magari limitandone l’afflusso verso le coste. In tale prospettiva va considerato che nel IV-III sec. a.C. muoveva i suoi primi passi anche il regno di Aksum, la cui capitale sorgeva sull’altopiano etiopico. Proprio il regno di Aksum, che da un certo momento in poi estese la sua influenza fino alla costa, era destinato a divenire l’interlocutore privilegiato del commercio mediterraneo lungo le rotte del Mar Rosso.

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24. La crisi del regno di Kush

Nonostante la crisi del regno di Kush rappresenti un evento che modificò profondamente il quadro politico e culturale consolidato che aveva caratterizzato la Nubia e il Sudan centrale a partire dal VII sec. a.C. e per questo abbia attirato da sempre l’attenzione degli studiosi, le sue ragioni e la stessa data in cui il regno di Kush venne meno sono ancora dibattute.

Tra le cause che determinarono la fine del regno di Kush gli studiosi hanno per lungo tempo considerato come determinanti le invasioni da parte di popolazioni delle aree esterne o marginali al regno e il rafforzarsi progressivo nei primi secoli d.C. del regno di Aksum, nell’Etiopia settentrionale e Eritrea, che compromise il ruolo commerciale del regno di Kush lungo le direttrici che portavano verso l’Egitto le materie prime dell’entroterra africano.

In particolare, tra le popolazioni le cui pressioni avrebbero determinato la crisi del regno di Kush, vanno ricordati i noba e i nubadae, localizzati dalle fonti geografiche e storiche greche e romane nel Deserto Occidentale. Noba e nubadae si sarebbero stabiliti rispettivamente nei territori meridionali e settentrionali del regno di Kush. Secondo Procopio di Cesarea, storico del VI d.C., alla fine del III sec. d.C. le guarnigioni romane avrebbero abbandonato la Bassa Nubia per decisione dell’imperatore Diocleziano, lasciandola proprio ai nubadae. L’episodio narrato da Procopio potrebbe inserirsi nella pratica comune della politica estera tardo-imperiale romana di consentire lo stanziamento di popolazioni barbare sul territorio dell’impero in cambio di un loro impegno nella difesa delle frontiere romane. Nel caso specifico, il pericolo cui si sarebbe voluto porre rimedio poteva essere costituto dai blemmi, popolazione del Deserto Orientale ben nota per le sue scorrerie nella valle egiziana e nubiana del Nilo, che erano stati affrontati in passato più volte sia dai romani sia dai kushiti e erano stati a più riprese sconfitti. Riguardo la presenza dei nubadae in Bassa Nubia, oggi si tende a ritenere che la narrazione di Procopio rifletta la situazione a lui contemporanea piuttosto che quella della fine del III sec. d.C. L’evidenza archeologica e testuale indica infatti che anche la parte di Bassa Nubia fino ad allora

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controllata dai romani fosse dopo il loro ritiro occupata dai kushiti. Più che un regno in decadenza, quindi, alla fine del III sec. d.C. Kush sarebbe un regno in espansione.

Riguardo la presenza dei noba nel Sudan centrale e in Alta Nubia, ne siamo informati innanzitutto dalle iscrizioni del re aksumita Ezana, che intervenne militarmente contro gli stessi noba intorno alla metà del IV sec. d.C. Tali iscrizioni descrivono i noba come già insediati nell’area e nella condizione di esercitare potere su alcuni tratti della stessa valle del Nilo. Il fatto che la potenza ostile nel Sudan centrale fosse identificata dal sovrano aksumita con i noba piuttosto che con il regno di Kush, la presenza del titolo di re di Kasu nella titolatura di Ezana stesso e la mancata menzione di Meroe nel testo dell’iscrizione che pure è prodigo di toponimi riferibili alla media valle del Nilo sono stati ritenuti prove che all’epoca di Ezana il regno di Kush non esistesse più. D’altro canto un più antico documento epigrafico, il Momumentum Adulitanum, iscrizione in greco di un anonimo sovrano aksumita della fine del III-inizio del IV sec. d.C. non pervenutaci direttamente ma copiata agli inizi del VI sec. d.C. da Cosma Indicopleuste nel porto eritreo di Adulis, menziona una campagna dell’anonimo re contro le popolazioni del Deserto Orientale sudanese senza fare cenno al regno di Kush e questo silenzio ha spinto a credere che già allora l’importanza politica di Kush fosse molto ridimensionata. Se non dai noba, il regno di Kush potrebbe forse essere stato abbattuto dagli stessi Aksumiti nella prima metà del IV secolo, quando si datano due iscrizioni in greco di sovrani etiopici rinvenute proprio a Meroe (Fig. 47). Queste iscrizioni, benché molto frammentarie, attestano infatti certamente delle attività verosimilmente belliche dei re aksumiti proprio nella capitale di Kush. Le ragioni dell’intervento aksumita nel Sudan centrale restano però misteriose. Si è ipotizzato che la ragione principale risiedesse nell’ostilità tra i due regni motivata da ragioni di concorrenza commerciale. Sia Aksum sia Kush infatti rifornivano il Mediterraneo di prodotti dell’entroterra africano, primo tra tutti l’avorio, attraverso due direttrici alternative, il Nilo e il Mar Rosso. In realtà, recenti indagini quantitative condotte sulla presenza di oggetti importati in contesti aksumiti e meroitici sembrano suggerire che l’ascesa del ruolo commerciale di Aksum a partire dal I sec. a.C. non abbia

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modificato le capacità di accesso ai beni importati dell’aristocrazia di Kush e, quindi, verosimilmente anche il suo ruolo commerciale.

Figura 47: frammento di iscrizione reale aksumita in greco rinvenuta a Meroe. Questo frammento e un altro riferibile a un secondo documento attestano l’inclusione della capitale di Kush nella sfera d’influenza aksumita alla fine del III-inizi del IV sec. d.C. (da Shinnie e Anderson, The Capital of Kush 2: Meroe excavations 1973-1984, Meroitica, 20, 2004).

L’evidenza archeologica dalla stessa Meroe non pare però accordarsi con l’ipotesi di una fine precoce del regno di Kush tra la fine del III e la prima metà del IV sec. d.C. Se l’ultimo sovrano di Kush il cui nome sia noto è infatti Teqorideamani, che dovette regnare intorno al 253 d.C. e che è ricordato in un grafitto di File presumibilmente lasciato in occasione dell’arrivo di una sua ambasciata al tempio di Iside, non è però verosimile che Teqorideamani sia stato l’ultimo sovrano di Kush. Infatti, nelle necropoli di Meroe almeno sette tombe reali sembrano essere più tarde

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della metà del III sec. d.C., mentre dei materiali importati dall’Egitto tardo-antico rinvenuti in alcune piramidi della necropoli principesca di Begarawiya Ovest a Meroe suggeriscono una loro datazione addirittura alla fine del IV secolo d.C. Un prolungarsi dell’esistenza del regno d’altro canto sembra confermata anche dalla già menzionata espansione di Kush in Bassa Nubia alla fine del III sec. d.C.

Se si ammette che il regno di Kush sia esistito almeno fino al la fine del IV sec. d.C. si deve però spiegare sia la presenza delle epigrafi reali aksumite della prima metà del IV sec. a Meroe, sia il fatto che tra i titoli di Ezana vi sia anche quello di re di Kush. In effetti si può ipotizzare che, benché ancora in espansione in Bassa Nubia, il regno di Kush abbia incominciato a indebolirsi tra la fine del III sec. e gli inizi del IV sec. d.C. e potrebbe essere allora divenuto un regno vassallo di quello aksumita. Va rilevato infatti che l’iscrizione di Ezana che celebra la campagna nel Sudan centrale, pur non menzionando Meroe, ricorda i Kasu, i kushiti, che sono detti controllare alcuni centri abitati della regione. È difficile specificare con che modalità il rapporto di dipendenza di Kush da Aksum si sia generato. Come precedentemente detto, non sembra che il commercio aksumita abbia avuto un effetto immediato e negativo su quello di Kush. Un passo del Periplo del Mare Eritreo, una guida ai porti e alle merci del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano scritto da un greco-egiziano intorno al 40 d.C. sembrerebbe addirittura lasciar intendere che delle merci affluissero dal territorio meroitico vero il porto aksumita di Adulis e ciò sarebbe avvenuto in una fase in cui, come dimostrato dalle realizzazioni del regno di Natakamani e Amanitore, il regno di Kush era ancora uno stato potente.

Se la concorrenza commerciale di Aksum non sembra essere stata decisiva, dunque, il problema del declino di Kush resta irrisolto. Forse un indizio può fornirlo il Momumentum Adulitanum. La spedizione militare dell’anonimo sovrano aksumita nel Deserto Orientale sudanese è motivata dalla necessità di mantenere aperta una carovaniera che collegava Aksum con l’Egitto. Evidentemente, la praticabilità di questa carovaniera era minacciata ad opera delle popolazioni del Deserto Orientale, i blemmi e i bega in primo luogo. Questo quadro generale sembra corroborato anche da quanto detto in precedenza circa le motivazioni che spinsero i romani a ritirarsi dalla

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Bassa Nubia lasciandola ai kushiti, appunto le frequenti scorrerie dei blemmi e forse anche la speranza di poter così difendere meglio l’Alto Egitto.

Come evidente anche dalle fonti romane tardo-antiche, i blemmi conobbero fasi di particolare irrequietezza a partire dal III sec. d.C., forse anche a causa del generalizzarsi della diffusione presso di loro del dromedario, che aveva incrementato la loro mobilità e efficacia militare. In effetti, il dromedario era già stato utilizzato nel Deserto Orientale dai romani, che vi avevano schierato dei reparti cammellati, e era noto agli stessi kushiti fin da epoca napatea, ma solo in questa fase conobbe grande diffusione presso le popolazioni del Deserto Orientale sostituendo progressivamente i bovini come principale animale allevato. L’incrementata mobilità delle popolazioni del Deserto Orientale è evidente tra l’altro della comparsa nel Sudan sudorientale, dunque presso i primi contrafforti dell’altopiano etiopico, di un particolare tipo di ceramiche rinvenute in vari siti del Deserto Orientale sudanese e egiziano a sud di Qosseir noto come “Eastern Desert Ware” (Fig. 48).

Figura 48: alcuni esempi di tipi ceramici riferibili alla Eastern Desert Ware, la cui ampia diffusione è forse collegabile all’incrementata mobilità delle popolazioni del Deserto Orientale in seguito all’introduzione del dromedario (da Barnard in Sudan & Nubia, 6, 2002).

Nell’area di Kassala e del delta del Gash questa componente correlata al Deserto Orientale si sovrappone come un momento di discontinuità alle tradizioni culturali locali intorno al III sec. d.C. e è nota come Gruppo della Kahatmya. Significativamente tale tipo di

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ceramica compare in queste fasi anche in Bassa Nubia, a Kalabsha e a Wadi Qitna e persino sulla quarta cataratta.

Conseguenza principale per gli stati della valle del Nilo e dell’altopiano etiopico di questa situazione di mobilità e irrequietezza delle popolazioni del Deserto Orientale doveva essere, oltre al pericolo di scorrerie, un prolungata situazione di insicurezza delle piste almeno a est del Nilo. Quanto l’intervento dell’anonimo sovrano aksumite autore del Monumentum Adulitanum sia stato aleatorio è evidente infatti dal fatto che lo stesso Ezana fu costretto a intervenire nuovamente contro i bega, popolazione del Deserto Orientale probabilmente correlata ai blemmi, intorno alla metà del IV sec. d.C.

Nel caso di Meroe, al problema dei blemmi del Deserto Orientale doveva affiancarsi anche quello dei noba sulla riva occidentale del Nilo. Con queste popolazioni il regno di Kush si doveva essere già confrontato anche militarmente, come suggerito da due figurine bronzee di prigionieri rinvenute a Meroe che recano iscritto l’etnonimo “nobo”, ma ora anche su questo versante la situazione poteva essere resa più critica dalle conseguenze dell’adozione del dromedario. La minaccia delle popolazioni del Deserto Occidentale era tanto più grave in quanto esse potevano rendere insicure le piste del Deserto del Bayuda, la cui praticabilità era essenziale per mantenere le comunicazioni tra la Nubia e il Butana, tra le due parti del regno di Kush.

Allo stato attuale delle nostre conoscenze, quindi, si può ipotizzare che il ruolo commerciale e la stessa coesione del regno di Kush siano stati compromessi non tanto dall’intervento aksumita, quanto dall’insicurezza delle comunicazioni tra le varie regioni del regno. L’indebolirsi dei rapporti tra la capitale e le province avrebbe potuto favorire la progressiva autonomia dei funzionari e delle aristocrazie locali. Probabilmente l’intervento aksumita nel Sudan centrale maturò in un quadro di questo tipo, in cui i sovrani di Kush avevano perso il controllo sulla Nubia e non potevano più assicurare la praticabilità e la sicurezza delle piste. Gli Aksumiti cercarono forse di occupare un posto che era già vuoto e i sovrani di Kush dal canto loro cercarono di garantire la sopravvivenza del regno mettendosi sotto la tutela aksumita. Ma ormai, con le province resesi autonome e il sorgere forse di altri potentati per opera delle popolazioni dei deserti

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insediatesi sul suo territorio, il regno di Kush non era che dei tanti stati del Sudan centrale. L’atto finale della sua storia rimane oscuro e è forse marcato dall’abbandono delle necropoli principesche della capitale, alla fine del IV sec. d.C.

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25. La formazione dei potentati post-meroitici La pressione delle popolazioni dei deserti sulle regioni più

prossime alla valle doveva essere un fatto endemico ben prima del III sec. d.C. È verosimile e probabile che il regno di Kush avesse assistito alla progressiva e capillare infiltrazione e all’insediamento sul suo territorio di gruppi di noba e di nubadae provenienti dal Deserto Occidentale fin da tempi assai antichi. Nel IV secolo, quando l’autorità statale sembra indebolirsi, gruppi di nubadae e noba potevano in effetti essere presenti in Bassa Nubia e forse anche nella parte centro-meridionale del regno già da molto tempo. Da questo punto di vista la narrazione di Procopio potrebbe non essere del tutto scorretta: i nubadae avrebbero potuto essere presenti in Bassa Nubia fin dal III sec. d.C., ma come sudditi del sovrano di Kush. Non è poi escluso che alcuni di questi gruppi si fossero culturalmente meroiticizzati e che avessero anche stabilito dei rapporti matrimoniali con le popolazioni che già risiedevano all’interno dei confini del regno di Kush. Probabilmente nella fase del declino del potere centrale, nel IV sec. d.C., con l’accentuarsi dell’autonomia delle province, i noba e i nubadae, forse non in contrasto ma insieme alle aristocrazie meroitiche provinciali e anche in virtù dell’arrivo di nuovi gruppi dal Deserto Occidentale, come plausibile in una fase di minore efficienza delle difese, acquisirono il controllo di larghi tratti del territorio di Kush dando vita a dei principati autonomi. Contro l’aggressività di questi nuovi principati e contro la situazione d’insicurezza da essi creata nel Sudan centrale e non certo contro l’ormai secondario regno di Kush si rivolse Ezana.

Il problema dell’insediamento dei noba nel territorio precedentemente controllato dal regno di Kush e dei rapporti tra la nuova cultura materiale che caratterizza la regione del Sudan centrale, del Butana e dell’Alta Nubia a partire dal IV secolo d.C. e quella meroitica è stato recentemente al centro di un acceso dibattito tra gli studiosi. Archeologicamente, la presenza dei noba in Alta Nubia e nel Sudan centrale è stata infatti tradizionalmente correlata con il diffondersi delle necropoli con tumuli connessi a sepolture individuali in pozzi verticali, talora con camere laterali. Nei corredi di tali

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sepolture spiccano le punte di freccia per arco peduncolate, gli anelli d’arciere e un caratteristico tipo ceramico di forma globulare con alto collo cilindrico o troncoconico e labbro estroflesso, detto convenzionalmente “beer-jar” o “bonbonne”. Secondo l’opinione tradizionalmente accettata, tali tumuli e i loro corredi, chiamati, appunto, post-meroitici o, in Alta Nubia, Tanqasi, dal nome di uno dei siti dove questi elementi sono stati individuati per la prima volta, attesterebbero il diffondersi di pratiche funerarie diverse da quelle meroitiche e riconducibili ai nuovi venuti. In Bassa Nubia, regione che sarebbe stata occupata dai nubadae, la discontinuità rispetto alla fase meroitica è meno evidente: se compaiono anche in questa regione sepolture con sovrastrutture a tumulo, la ceramica del Gruppo X, come è stata chiamata da Reisner la cultura archeologica basso-nubiana di questa fase, mostra numerosi elementi di continuità rispetto a quella meroitica.

In realtà P. Lenoble ha sottolineato come anche nei costumi funerari evidenziati dalle sepolture post-meroitiche nel Sudan centrale e in Alta Nubia e quelle del coevo Gruppo X in Bassa Nubia siano identificabili numerosi di elementi che suggerirebbero un certo grado di continuità con la fase precedente. Le armi, rappresentate principalmente da panoplie da arcieri e da punte di lance da parata (Fig. 49), accomunano le tombe tardo-meroitiche e post-merotiche e sono tipologicamente accostabili alle armi rappresentate sui rilievi a carattere trionfale dei sovrani meroitici. Le stesse sepolture di cavalli, cani e cammelli rinvenute in alcune tombe post-meroitiche sono riconducibili alla medesima simbologia trionfale, in quanto tutti questi erano animali utilizzati in battaglia. Al di là dell’evidenza iconografica, come un rilievo del principe di Kush Arikankharor, della metà del I sec. d.C., che lo rappresenta in battaglia affiancato da un cane, va ricordata la presenza di cavalli nella necropoli di el Kurru, presso le tombe dei fondatori della dinastia di Kush. Non è inoltre escluso che analoghe sepolture siano esistite anche nelle più tarde necropoli reali e principesche di Kush e che non siano purtroppo state adeguatamente indagate. Anche il sacrificio umano in ambito funerario, già incontrato in contesti protostorici nubiani, ricompare in alcuni cimiteri post-meroitici, ma anche qui la discontinuità rispetto alla fase meroitica potrebbe essere più apparente che sostanziale, in

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quanto il massacro dei prigionieri era comunque parte della simbologia legata alla manifestazione del potere regale dei sovrani di Kush. Si noti inoltre che alcuni tipi di vasi e le sepolture di giovenche in cimiteri post-meroitici potrebbero essere connessi alla libagione isiaca, a base di latte e collegata alla simbologia dell’allattamento di Horo da parte della dea Iside già presente anche nel regno di Kush a partire dalla fase napatea.

Figura 49: armi dalle tombe reali di Qustul e Ballana. La grande profusione di punte di lancia molto allungate e probabilmente da parata e di punte di freccia è legata alla manifestazione degli aspetti trionfali dell’ideologia del potere in epoca post-meroitica (da Emery e Kirwan, The Royal Tombs of Ballana and Qustul, Cairo 1938).

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La stessa presenza del vino nei corredi e tra gli alimenti utilizzati nelle libagioni funerarie nei cimiteri post-meroitici ha precisi riscontri in ambito meroitico anche in connessione a simbologie religiose osiriache. Inoltre, a El Hobagi, in un tumulo che per dimensioni e caratteristiche del corredo può essere definito principesco, Lenoble ha rinvenuto molte coppe emisferiche in bronzo, recanti decorazioni ancora pienamente inseribili nelle tradizioni iconografiche meroitiche e una addirittura con un’iscrizione in geroglifico meroitico che potrebbe suggerire una continuità anche nell’uso della lingua e della scrittura (Fig. 50).

Figura 50: coppe in bronzo dal tumulo principesco di El Hobagi. Si notino le decorazioni di tipo meroitico e, in alto a sinistra, una coppa recante un’iscrizione in geroglifico meroitico (da Lenoble in D.A. Welsby (ed.), Recent Research in Kushite History and Archaeology. Proceedings of the 8th International Conference for Meroitic Studies, Londra 1999).

Una certa continuità rispetto il periodo meroitico può d’altro canto essere notata anche nella tipologia delle corone rinvenute nelle sepolture connesse ai tumuli di Qustul e Ballana, in Bassa Nubia, e

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nella stessa corona con cui è rappresentato nel tempio di Mandulis a Kalabsha Silko, re dei nubadae. Secondo Lenoble, alla luce di tutti questi elementi di continuità, più che di un periodo e di culture post-meroitiche bisognerebbe parlare di un meroitico post-piramidale, visto che l’unico elemento di reale discontinuità sarebbe proprio la fine dell’erezione delle piramidi reali.

Probabilmente però gli elementi di continuità nell’ambito delle manifestazioni del potere e, in particolare, nei suoi aspetti trionfali rispetto alla fase meroitica tarda sono facilmente spiegabili e quasi naturali nell’ambito di una classe dirigente composita, formata dalle aristocrazie dei Nuba e dei nubadae e da quella meroitica provinciale, che si affermava nel IV sec. d.C. nella valle sudanese e nubiana del Nilo. I vasi bronzei di tipo meroitico di El Hobagi non sono poi un’evidenza univoca: la loro presenza si spiega altrettanto bene con una continuità rispetto alla fase precedente che con una loro utilizzazione proprio per manifestare le virtù guerriere dei nuovi principi. Infatti, essi potrebbero essere oggetti presi come bottino nel corso del saccheggio di centri o sepolture meroitiche e, quindi, il loro uso in ambito funerario avrebbe potuto voler sottolineare proprio la discontinuità con gli assetti precedenti. Analoghe considerazioni potrebbero essere avanzate circa l’adozione da parte delle nuove aristocrazie di corone che a tratti riecheggiano quelle meroitiche. Inoltre, la continuità in pratiche connesse al culto osiriaco e isiaco non sono sorprendenti essendo questi culti diffusi molto ampiamente presso numerose popolazioni. È peraltro innegabile che la cultura materiale cambi abbastanza radicalmente nel corso del IV sec. d.C., e la stessa scelta dei tumuli al posto delle piramidi marca volontariamente una discontinuità che non va trascurata. Benché il tumulo sia una sovrastruttura funeraria ampiamente nota in Nubia e Sudan e più che un’innovazione potrebbe rappresentare un riemergere di tradizioni locali molto antiche, magari sopravvissute fino ad allora nelle necropoli meroitiche provinciali del Sudan centrale, l’abbandono delle piramidi rappresenta indubbiamente una volontaria rottura rispetto un’importante modalità di manifestazione del rango della fase meroitica. L’utilizzazione del tumulo come pure l’inumazione su letto, già tipica della cultura Kerma in Alta Nubia più di 1800 anni prima, che ricompare a Qustul e Ballana, in una necropoli principesca del

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Gruppo X ben si accorderebbero quindi con i legami molto stretti che la nuova aristocrazia post-meroitica avrebbe potuto avere con le antiche aristocrazie di alcune province del regno di Kush.

Una discontinuità notevole tra fase meroitica e fase post-meroitica potrebbe essersi verificata in alcune aree anche da un punto di vista insediamentale, in quanto le nuove necropoli principesche, come quelle di El Hobagi nel Sudan centrale e Tanqasi in Alta Nubia, sembrano disporsi in località che non avevano conosciuto importanti frequentazioni in epoca meroitica e lo stesso si può dire degli abitati di Soba e Dongola, che in seguito divennero capitali dei regni che si formarono in quelle regioni. Probabilmente proprio i siti di abitato in alcuni casi segnalati in prossimità delle principali necropoli post-merotiche potrebbero fornire importanti elementi per una più completa comprensione del periodo, ma restano purtroppo inesplorati. Per contro, centri meroitici rilevanti come la stessa Meroe, Musawwarat es Sufra o Gebel Barkal, al di là di rioccupazioni parziali e utilitaristiche di alcune strutture, sembrano perdere complessivamente d’importanza. Per la Bassa Nubia invece pare che un ruolo prominente fosse svolto da Faras e Qasr Ibrim, mentre le necropoli reali erano a Qustul e Ballana, tutti siti già utilizzati e importanti in epoca meroitica. In Bassa Nubia la discontinuità insediamentale è dunque meno percepibile, probabilmente in quanto le aree ecologicamente più ricche della regione sono molto poco estese e ciò spiega che la popolazione continuasse a concentrarvisi. Comunque, il popolamento della Bassa Nubia conobbe allora un grande sviluppo e si estese in relazione all’adozione della saqia, un congegno meccanico che, attraverso un sistema di ruote dentate, poteva sollevare l’acqua permettendo l’irrigazione di aree marginali precedentemente poco sfruttabili.

La progressiva dissoluzione del regno di Kush diede vita a dei principati provinciali che si aggregarono infine in tre potentati, Nobadia in Bassa Nubia, con capitale Faras, Makuria in Alta Nubia, con capitale Dongola, e Alodia nel Sudan centrale, con capitale Soba, sul Nilo Azzurro, a sud della confluenza con il Nilo Bianco.

L’iscrizione in greco di Silko a Kalabsha e alcune missive da Qasr Ibrim ci informano del nome di alcuni sovrani e di alcune vicende storiche che interessarono il potentato basso-nubiano, il regno dei

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nubadae. In particolare, sappiamo del contrasto con i blemmi del Deserto Orientale che avevano occupato un tratto della valle del Nilo in Bassa Nubia. Traccia archeologica di questa presenza potrebbe essere la ceramica Eastern Desert Ware rinvenuta in alcuni siti basso-nubiani e, in particolare, nel cimitero di Wadi Qitna, che si caratterizza anche per il tipo di tumulo a piattaforma cilindrica e per la presenza di stele, elmenti che restano isolati nel coevo panorama basso-nubiano. La guerra tra nubadae e blemmi, iniziata nel corso del regno di Silko, nel V sec. d.C., e forse proseguita sotto il suo successore Aburni ebbe come esito finale l’espulsione dei blemmi dalla Bassa Nubia, evento peraltro già celebrato proprio da Silko, che si fece rappresentare a cavallo, con una panoplia di tipo romano e una corona simile a quelle meroitiche, mentre trafigge un nemico blemmo a Kalabsha, nel cortile del tempio di Mandulis.

Il contrasto tra blemmi e nubadae per il controllo della Bassa Nubia, pur inseribile nelle dinamiche di interazione tra le popolazioni della valle e quelle dei deserti, va anche collegato all’importanza strategica della Bassa Nubia nell’ambito delle reti commerciali. In effetti la grande profusione di materiali importati dal Mediterraneo e dall’Egitto nei contesti basso-nubiani contrasta con la scarsità di oggetti importati nei coevi contesti alto-nubiani e del Sudan centrale. Ciò sembra indicare che i nubadae, controllando la Bassa Nubia, potessero svolgere un ruolo di intermediazione quasi esclusivo nel commercio delle materie prime africane. Questo potrebbe certamente spiegare il tentativo dei blemmi di controllare almeno una parte della valle basso-nubiana del Nilo. D’altro canto, i blemmi controllavano già i giacimenti auriferi del Deserto Orientale e le carovaniere che, stando anche a quanto detto nel Monumentum Adulitanum, grazie alla disponibilità del dromedario, mettevano in comunicazione Egitto e Etiopia attraversando lo stesso Deserto Orientale. Proprio alla presenza di queste direttrici va addebitato il rinvenimento di materiali importati dal Mediterraneo in siti del Deserto Orientale e dei bassopiani di confine eritreo-sudanesi, mentre, come già rilevato, questi sono assenti nei siti coevi posizionati alla medesima latitudine in Alta Nubia nel Sudan centrale.

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26. Epilogo

I tre regni formatisi lungo la valle del Nilo nubiano-sudanese dopo la dissoluzione del regno di Kush si convertirono ufficialmente al cristianesimo tra la metà e la fine del VI sec. d.C. Va rilevato il fatto che, nonostante i contatti con il cristianesimo siano stati probabilmente piuttosto precoci, la sua adozione come religione ufficiale avvenne in ritardo di circa due secoli sia rispetto all’Egitto sia rispetto al più meridionale regno di Aksum. Forse l’attardamento del paganesimo può essere spiegato anche con la necessità da parte dei potentati nubiani di mantenere una propria marcata peculiarità nell’ambito di una manifestazione identitaria qualificante quale quella religiosa, come certamente più tardi avvenne con il persistere del cristianesimo in antitesi ai tentativi islamici di penetrazione attraverso l’Egitto e il Deserto Orientale. Anche l’adozione del cristianesimo nella sua forma calcedonese, che riconosceva le due nature di Cristo, da parte del regno di Makuria in Alta Nubia e del cristianesimo monofisita da parte dei suoi vicini settentrionale e meridionale, Nobadia e Alodia, potrebbe non essere collegata solo agli sforzi delle diverse fazioni della corte imperiale di Costantinopoli di imporre il proprio credo, ma anche alla volontà dei potentati nubiani di voler marcare delle distinzioni nell’ambito religioso, da sempre centrale per la formulazione identitaria.

Con l’adozione del cristianesimo la discontinuità rispetto alle fasi precedenti che si era manifestata già con il declino del regno di Kush si accentua: la rottura si fa evidente anche in quegli aspetti dell’ideologia connessa all’esercizio e alla manifestazione del potere delle culture post-merotiche che Lenoble aveva considerato intimamente connessi all’ideologia meroitica. Per la prima volta in quest’ambito è innegabile il ripudio esplicito della tradizione e la ricerca di nuove soluzioni, inserite nel più ampio panorama culturale del cristianesimo orientale, da qui la decisione di porre la cristianizzazione come limite cronologico di questo manuale. Ma è un limite discutibile e certamente contestabile se si considera che nella vita quotidiana, negli ambiti sociali meno collegati all’ufficialità e, forse, in aree geograficamente più decentrate della Nubia e del Sudan

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la discontinuità rappresentata dalla cristianizzazione è stata certo minore se mai si è veramente verificata. Da questo punto di vista è indicativa la presenza di consuetudini risalenti a varie epoche, anche molto remote, evidente in alcuni comportamenti e atteggiamenti dei Nubiani di oggi segnalata da G. Vantini, come pure la continuità nell’utilizzazione di pratiche funerarie pagane in fasi che ci si aspetterebbe ormai essere pienamente cristiane se non addirittura islamiche recentemente evidenziata da D.N. Edwards. D’altro canto, anche alcune dinamiche più generali sempre sottese alla storia nubiana, come la tendenza all’interazione con realtà anche molto distanti collegata alla presenza del Nilo e, specie nelle regioni a sud dell’Alta Nubia, di molte materie prime interessanti per il commercio, il contrasto e, al contempo, la complementarietà tra gruppi umani della valle e delle regioni circostanti, tra modelli di adattamento stanziali e mobili, continuano ad essere pienamente operative anche nel presente. Proprio questi legami profondi con il passato, in un ambito quotidiano in cui tutto sembra essersi stratificato senza mai cancellare quel che era stato prima e anche in un ambito più generale, collegato alle stesse caratteristiche geografiche e ambientali della regione, rendono in qualche modo più attuale lo studio del passato nubiano che può così offrire qualche contributo anche alla lettura del presente.

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Bibliografia Ragionata Manuali e opere di riferimento Numerosi manuali e testi generali dedicati all’archeologia e alla storia della Nubia e del Sudan sono apparsi a partire dagli anni Sessanta. Se il libro di W. Emery, Egypt in Nubia, Londra 1965, è oggi un documento utile solo alla ricostruzione dello sviluppo della disciplina e lo stesso si può dire anche dei capitoli relativi alla Nubia nel vol. II della General History of Africa, dell’UNESCO, curata da Gamal Mokhtar, i contributi di B. Trigger, Nubia under the Pharaos, Londra 1977 e W.Y. Adams, Nubia Corridor to Africa, Londra 1978, possono essere ancora letti con profitto. Il testo di P.L. Shinnie, Ancient Nubia, Philadelphia 1996 si caratterizza per un approccio tradizionale finalizzato alla ricostruzione storica attraverso l’uso del dato storico e di quello archeologico, mentre quello di D. O’Connor, Ancient Nubia. Egypt’s Rival in Africa, Philadelphia 1993, si focalizza principalmente sulle dinamiche di sviluppo della gerarchizzazione sociale. Il più recente manuale apparso è The Nubian Past. Archaeology of the Sudan, Londra-New York 2004, di D.N. Edwards, basato essenzialmente su dati archeologici, che si caratterizza per l’approccio critico e problematico al dato. Infine, un aggiornato testo di sintesi con schede di approfondimento dedicate ai siti indagati da archeologi francesi è quello di J. Reinold, Archéologie au Soudan. Les civilizations de la Nubie, Parigi 2000. Importanti e utili sono anche i cataloghi di mostre, come Africa in Antiquity, New York 1978, curato da S. Wenig, quello curato da D. Wildung, Sudan. Ancient Kingdoms on the Nile, Parigi e New York 1997, Napata e Meroe. Templi d’oro sul Nilo, Milano 1999, curato da A. Roccati, e, da ultimo, quello curato da D. A. Welsby e J. R. Anderson, Sudan: Ancient Treasures, Londra 2004. Riviste e serie Viste le strette relazioni della disciplina con l’egittologia, articoli su argomenti inerenti la storia e l’archeologia della Nubia e del Sudan sono presenti in molte riviste egittologiche e, più frequentemente, nel Journal of Egyptian Archaeology, Bulletin de l’Institut Français

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d’Archéologie Orientale, Chaier de Recherches de l’Institut d’Egyptologie et de Papyrologie del Lille, Revue d’Egyptologie, Göttinger Miszellen, Journal of the American Research Center in Egypt. Esistono poi riviste specializzate come Kush, organo ufficiale del Servizio delle Antichità del Sudan, Nubica, Archéologie du Nil Moyen e Sudan & Nubia. I rapporti della Missione Svizzera a Kerma appaiono in Genava. Quelli della Missione a Meroe dell’Università di Liverpool di J. Garstang e di quella di Oxford a Sanam e Faras diretta da F.Ll. Griffith sono apparsi in Liverpool Annals of Archaeology and Anthropology. Il rapporto della spedizione prussiana di C.R. Lepsius, ancora utilissimo anche per le informazioni su siti di Nubia e Sudan oggi completamente distrutti, Denkmaeler aus Aegypten und Aethiopien nach den Zeichnungen der von Seiner Majestät dem Koenige von Preussen Friedrich Wilhelm IV nach diesen Ländern gesendeten und in der Jahren 1842-1845, è stato pubblicato in una monumentale e bellissima serie a Berlino tra 1849 e 1859. I rapporti delle prime campagne nubiane sono apparsi sotto gli auspici del Servizio delle Antichità dell’Egitto. Vanno poi ricordate le collane di monografie dedicate alla pubblicazione delle ricerche di determinate spedizioni, come Royal Cemeteries of Kush e Harvard African Studies, pubblicate a Boston e inerenti le ricerche condotte da G.A. Reisner a Meroe, Nuri, el-Kurru, Kerma e in altri importanti siti della Nubia (da notare che molti volumi sono stati pubblicati dopo la morte di Reisner e a cura di D. Dunham), o le serie che raccolgono i risultati delle ricerche condotte da importanti spedizioni nel corso dell’ultima campagna per il salvataggio dei monumenti nubiani, come la Scandinavian Joint Expedition e l’Oriental Insitute of Chicago Nubian Expedition o la Missione Austriaca guidata da M. Bietak i cui risultati sono apparsi nei Denkschrift dell’Akademie der Wissenschaften in Wien, Phil.-Hist. Klasse alla fine degli anni Sessanta. Meroitica è una serie di monografie e miscellanee dedicate all’archeologia della Nubia e del Sudan pubblicata a Berlino e in cui sono apparsi anche molti degli atti dei congressi internazionali di studi meroitici. Una serie di monografie a carattere eminentemente archeologico è stata pubblicata dalla Sudan Archaeological Research Society di Londra. Infine, articoli di argomenti inerenti la storia e archeologia di Nubia e Sudan

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e indicazioni bibliografiche possono essere scaricati dal sito web www.arkamani.org. Le notazioni bibliografiche che seguono, organizzate seguendo lo schema dei capitoli del testo, non hanno alcuna pretesa di esaustività, vogliono fornire al lettore solo un punto di partenza per ulteriori approfondimenti. 1. Introduzione Per la storia degli studi si veda Salah Mohammed Ahmed, “More than a century of Archaeological Research in the Sudan”, in D. Wildung (ed.), Sudan, Parigi e New York 1997, pp. 1-5; per i mutamenti di impostazione si veda B.G. Trigger, “Reisner to Adams: Paradigms of Nubian Cultural History”, in J.M. Plumley (ed.), Nubian Studies. Proceedings of the Symposium for Nubian Studies Cambridge 1970, Warminster 1982, pp. 223-226, Idem, “Land and Trade as Patterns in Sudanese History”, in M. Liverani, A. Palmieri e R. Peroni (ed.), Studi di Paletnologia in onore di S.M. Puglisi, Roma 1985, 465-475. Si veda inoltre P.L. Shinnie, Ancient Nubia, Philadelphia 1996, pp. 1-16. Per l’ultima campagna di Nubia si veda T. Säve-Söderbergh, Temples and Tombs of Ancient Nubia: The International Rescue Campaign at Abu Simbel, Philae and other sites, Londra e Parigi 1987. Per il quadro geografico e ambientale dell’area studiata si veda K.M. Barbour, The Republic of the Sudan, Londra 1961. 2. Le origini delle culture nubiane Per il paleolitico e il mesolitico restano di riferimento A.J. Arkell, The Old Stone Age in the Anglo-Egyptian Sudan, Khartoum 1949, F. Wendorf (ed.), The Prehistory of Nubia, Fort Burgwin 1968, e K.S. Sandford e W.J. Arkell, Prehistoric Survey of Egypt and Western Asia, Paleolithic Man and the Nile Valley in Nubia and Upper Egypt, Chicago 1933. Per l’inserimento della Nubia e del Sudan nel contesto regionale più ampio si vedano D.W. Phillipson, African Archaeology, Cambridge 1985, pp. 94-96, 99-102 e P.L. Shinnie, Ancient Nubia, Philadelphia 1996, pp. 17-26. Per i mutamenti ambientali si veda K.W. Butzer, “Pleistocene History of the Nile Valley in Egypt and Lower Nubia”, in M.A.J. Williams e H. Faure (ed.), The Sahara and

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the Nile, Rotterdam 1980, pp. 253-280, K.W. Butzer e C.L. Hansen, Desert and River in Nubia: Geomorphology and Prehistoric Environments at the Aswan Reservoir, Madison 1968. 3. L’origine della produzione del cibo Fondamentali restano i rapporti di scavo di A.J. Arkell, Early Khartoum, Oxford 1949 e Shaheinab, Oxford 1953. Per l’inserimento nel più ampio panorama africano si veda D.W. Phillipson, African Archaeology, Cambridge 1985, pp. 94-96, 102-103, D. Usai, “Early Khartoum and Related Sites”, in T. Kendall (ed.), Nubian Studies 1998. Proceedings of the Ninth International Conference of Nubian Studies, Boston 2004, pp. 419-435, E.A.A. Garcea, Cultural Dynamics in the Saharo-Sudanese Prehistory, Roma 1993, pp. 198-202 e L. Krzyzaniak, “Late Prehistory of the Central Sudan. A summary of the results of the last thirty years”, Actes de la VIIIe Conférence Internationale des Etudes Nubiennes, vol. I, Cahier de Recherches de l’Institut de Papirologie et d’Egyptologie de Lille, 17/1, 1996, pp. 117-122. Sulle tracce mesolitiche nella regione di Kerma si veda M. Honegger, “Peuplement préhistorique dans la région de Kerma”, Genava, 51, 2003, pp. 281-290. Per il passaggio all’economia di produzione nelle vari regioni si veda J. D. Clark, “Prehistoric Cultural Continuity and Economic Change in the Central Sudan in the Early Holocene”, in J.D. Clark e S.A. Brandt (ed.), From Hunters to Farmers. The Causes and Consequences of Food Production in Africa, Londra 1984, pp. 113-126, R. Haaland, “Specialized pastoralism and the Use of Secondary Products in Prehistoric Central Sudan”, Archéologie du Nil Moyen, 5, 1991, pp. 149-154, L. Krzyzaniak, “Early Farming in the Middle Nile Basin: recent discoveries at Kadero (Central Sudan)” Antiquity, 65, 1991, pp. 515-532, I. Caneva (ed.), El Geili. The History of a Middle Nile Environment 7000 BC – AD 1500, Oxford 1988, A.E. Marks e Abbas Mohammed-Ali (ed.), The Late Prehistory of the Eastern Sahel, Dallas 1991, R. Fattovich, “Ricerche archeologiche italiane nel delta del Gash (Kassala), 1980-1989: un bilancio preliminare”, Rassegna di Studi Etiopici, 33, 1989, pp. 89-130, K. Sadr, The Development of Nomadism, Dallas 1991, R. Kuper, “Routes and Roots in Egypt’s Western desert: The Early Holocene Resettlement of the Eastern

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Sahara”, in R. Friedman (ed.), Egypt and Nubia. Gifts of the Desert, Londra 2002, pp. 1-12 e, dello stesso autore, “Prehistoric Research in the Southern Libyan Desert. A brief account and some conclusions of the B.O.S. Project”, Actes de la VIIIe Conférence Internationale des Etudes Nubiennes, vol. I, Cahier de Recherches de l’Institut de Papirologie et d’Egyptologie de Lille, 17/1, 1996, pp. 123-140, B. Keding, “Leiterband sites in the Wadi Howar, North Sudan”, in L. Krzyzaniak, M. Kobusiewicz e J. Alexander (ed.), Environmental Change and Human Culture in the Nile Basin and Northern Africa until the Second Millennium B.C., Poznan, 1993, pp. 371-380, “The Yellow Nile: new data on the settlement in the Sudanese Eastern Sahara”, Sudan & Nubia, 2, 1998, pp. 2-12. Un quadro generale è in J. Reinold e L. Krzyzaniak, “6,000 years ago. Remarks on the Prehistory of the Sudan”, in D. Wildung (ed.), Sudan. Ancient Kingdoms of the Nile, Parigi – New York 1997, pp. 9-15. Sul problema dei rapporti tra Butana, valle del Nilo e Sahara si veda I. Caneva e A.E. Marks, “More on the Shaqadud Pottery: evidence for Saharo-Nilotic connections during the 6th-4th millennium B.C.”, Archéologie du Nil Moyen, 4, 1990, pp. 11-36, sul possibile collegamento con gruppi linguistici si veda R. Haaland, “Specialized pastoralism and the use of secondary products in prehistoric Central Sudan”, Archéologie du Nil Moyen, 5, 1991, pp. 149-155. Circa nuove evidenze che sembrano rimettere in discussione le modalità dei contatti tra Sahara e valle del Nilo, si veda F. Jesse, “No link between the central Sahara and the Nile Valley? (Dotted) Wavy Line ceramics in the Wadi Howar, Sudan”, in T. Kendall (ed.), Nubian Studies 1998. Proceedings of the Ninth International Conference of Nubian Studies, Boston 2004, pp. 296-308. 4. L’emergere della gerarchizzazione sociale Sulle necropoli di Kadero si veda L. Krzyzaniak, “Early Farming in the Middle Nile Basin: recent discoveries at Kadero (Central Sudan)”, Antiquity, 65, 1991, pp. 515-532; per Kadada vanno considerati gli articoli di F. Geus, “Excavations at El Kadada and the Neolithic of the Central Sudan”, in L. Krzyzaniak e M. Kobusiewicz (ed.), Origin and Early Development of food-producing cultures in North-eastern Africa, Poznan 1984, pp. 361-372 e “Le Néolithique de Khartoum à la

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lumière de quelques découvertes récentes”, in M. Liverani, A. Palmieri e R. Peroni (ed.), Studi di Paletnologia in onore di Salvatore Maria Puglisi, Roma 1985, pp. 443-449. Un quadro generale dei costumi funerari in relazione al problema della gerarchizzaizone sociale è in J. Reinold, Archéologie au Soudan. Les civilizations de la Nubie, Parigi 2000, pp. 61-74, J. Reinold, “Néolithique soudanais: les coutumes funéraires”, in W.V. Davies (ed.), Egypt and Africa, Londra 1991, 16-29, e J. Reinolds e L. Krzyzaniak, “6,000 years ago. Remarks on the Prehistory of the Sudan”, in D. Wildung (ed.), Sudan. Ancient Kingdoms of the Nile, Parigi – New York 1997, 9-15. 5. Il Neolitico Tardo in Alta Nubia: Kadruka e il Pre-Kerma Importanti sono le parti relative ai cimiteri dell’area di Kadruka e all’inserimento dell’Alta Nubia nel panorama regionale più generale in J. Reinold, Archéologie au Soudan. Les civilizations de la Nubie, Parigi 2000, 75-85, J. Reinold, “Néolithique soudanais: les coutumes funéraires”, in W.V. Davies (ed.), Egypt and Africa, Londra 1991, pp. 16-29 e J. Reinolds e L. Krzyzaniak, “6,000 years ago. Remarks on the Prehistory of the Sudan”, in D. Wildung (ed.), Sudan. Ancient Kingdoms of the Nile, Parigi – New York 1997, pp. 9-15. Su Kadruka si veda inoltre J. Reinold, “Kadruka and the Neolithic in the Northern Dongola Reach”, Sudan & Nubia, 5, 2001, pp. 2-10. Sui cimiteri tardo-neolitici recentemente messi in luce nella regione di Dongola si veda S. Salvatori e D. Usai, “Cemetery R12 and a Possible Periodisation of the Nubian Neolithic”, Sudan & Nubia, 8, 2004, pp. 33-37. Sugli importantissimi dati recenti relativi a questo periodo rinvenuti in siti dell’area di Kerma si veda M. Honegger, "Kerma: l'agglomération pré-Kerma", Genava, 45, 1997, pp. 113-118, “The Pre-Kerma Settlement: New Elements Throw Light on the Rise of the First Nubian Kingdom”, in T. Kendall (ed.), Nubian Studies 1998. Proceedings of the Ninth International Conference of Nubian Studies, Boston 2004, pp. 83-94, e “Kerma: l’agglomération Pré-Kerma”, Genava, 45, 1997, pp. 113-118. Dati coevi da Sai sono stati presentati da F. Geus, “Pre-Kerma Storage Pits on Sai Island”, in T. Kendall (ed.), Nubian Studies 1998. Proceedings of the Ninth International Conference of Nubian Studies, Boston 2004, pp. 46-51. Per la ceramica Pre-Kerma resta di riferimento B. Privati “La céramique de

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l’établissement pré-Kerma”, Genava, n.s., 36, 1988, pp. 21-24, per la sua contestualizzazione in un panorama regionale più ampio M. Honegger, “The Pre-Kerma: a cultural group from Upper Nubia prior to the Kerma civilisation”, Sudan & Nubia, 8, 2004, pp. 38-46. Per le regione di Napata nel corso del neolitico tardo si veda E.A.A. Garcea, “Beyond Napata: the Late Prehistoric Evidence in the Napatan Region”, in T. Kendall (ed.), Nubian Studies 1998. Proceedings of the Ninth International Conference of Nubian Studies, Boston 2004, pp. 34-45. 6. Khartoum Variant e Gruppo A in Bassa Nubia Fondamentali restano le pubblicazioni delle indagini condotte nel corso dell’ultima campagna di salvataggio dei monumenti nubiani: H.A. Nordström, Neolithic and A-Group Sites, Copenhagen, Oslo e Stockholm 1972; B.B. Williams, The A-Group Royal Cemetery at Qustul: Cemetery L, Chicago 1986. Per un quadro di sintesi si veda inoltre H.S. Smith, “The Development of the "A-Group" Culture in Northern Lower Nubia”, in V.W. Davies (ed.), Egypt and Africa, Londra 1991, pp. 92-111. Ulteriori contributi specie sul fronte dello studio della distribuzione di beni locali e importati e del suo significato in termini sociali sono quelli di M.C. Gatto, “A Preliminary Review of the A-Group Ceramic Material”, in Actes de la VIIIe Conférence Internationale des Etudes Nubiennes, vol. III, Cahier de Recherches de l’Institut de Papirologie et d’Egyptologie de Lille, 17/3, 1998, pp. 105-109, e H.A. Nordström, “The Nubian A-Group: Perceiving Social Landscape”, in T. Kendall (ed.), Nubian Studies 1998. Proceedings of the Ninth International Conference of Nubian Studies, Boston 2004, pp. 134-144, I.H. Takamiya, “Egyptian Pottery Distribution in A-Group Cemeteries, Lower Nubia: towards an Understanding of Exchange Systems between the Naqada Culture and the A-Group Culture”, Journal of Egyptian Archaeology, 90, 2004, pp. 35-62. Sulle sepulture con materiale relazionabile al Gruppo A nel Deserto Orientale si veda K. Sadr, “The Wadi Elei Finds: Nubian Desert Gold Mining in the 5th and 4th millennia BC? ”, Cahier de Recherches de l’Institut de Papyrologie et d’Egyptologie de Lille, 17/2, pp. 67-76. Per l’inserimento del Gruppo A nel contesto regionale

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si veda M.C. Gatto, “Ceramic Traditions and Cultural Territories: the “Nubian Group” in Prehistory”, Sudan & Nubia, 6, 2002, pp. 8-19. 7. Dal IV al III millennio tra continuità e discontinuità Sulla datazione della scomparsa del Gruppo A si veda H.S. Smith, “The Nubian B-Group”, Kush, 14, 1966, pp. 69-124, B.B. Williams, The A-Group Royal Cemetery at Qustul: Cemetery L, Chicago 1986, pp. 183-185. Sulle evidenze di presenza nubiana in Bassa Nubia nel corso dell’Antico Regno Egiziano si veda B.B. Williams, Excavations between Abu Simbel and the Sudan Frontier. Neolithic, A-Group, and Post-A-Group Remains from Cemeteries W, V, S, Q, T, and a Cave East of Cemetery K, Chicago 1989, pp. 122-133, B. Gratien, “La Basse Nubie à l’Ancien Empire: Egyptiens et autochtones”, Journal of Egyptian Archaeology, 81, 1995, pp. 43-56, e D. O’Connor, Ancient Nubia. Egypt’s Rival in Africa, Philadelphia 1993, p. 23. Sull’espansione egiziana in Bassa Nubia in queste fasi si veda J. Leclant, “Egypt in Sudan. The Old and Middle Kingdoms”, in D. Wildung (ed.), Sudan. Ancient Kingdoms of the Nile, Parigi – New York 1997, pp. 73-77, per l’insediamento egiziano di Buhen si veda W.B. Emery, “Egypt Exploration Society: Preliminary Report on the Excavations at Buhen”, Kush, 11, 1963, pp. 116-120. Sullo iato di occupazione nel Sudan centrale e sulle evidenze post-neolitiche da quella regione si veda ancora I. Caneva (ed.), El Geili. The History of a Middle Nile Environment 7000 BC – AD 1500, Oxford 1988, p. 361, della stessa studiosa, “Post-Shaheinab Neolithic remains at Geili”, in L. Krzyzaniak, K. Kroeper e M. Kobusiewicz (ed.), Interregional Contacts in the Later Prehistory of Northeastern Africa, Poznan 1996, pp. 315-320; F. Geus, Rescuing Sudan Ancient Cultures, Khartoum 1984, pp. 47, 70-71, e F. Geus, “Le Néolithique de Khartoum à la lumière de quelques découvertes récentes”, in M. Liverani, A. Palmieri, R. Peroni (ed.), Studi di Paletnologia in onore di Salvatore Maria Puglisi, Roma, 1985, pp. 443-449, P. Lenoble, “Quatre tumulus sur mille du Djebel Makbor”, Archéologie du Nil Moyen, 2, 1987, pp. 207-247. Sulla sequenza ininterrotta di Shaqadud si veda A.E. Marks e Abbas Mohammed-Ali (ed.), The Late Prehistory of the Eastern Sahel, Dallas 1991. Sulla Gezira resta di riferimento R. Haaland, “The Late Neolithic culture-historical sequence in central Sudan”, in L.

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Krzyzaniak e M. Kobusiewicz (ed.), Late Prehistory of the Nile Basin and the Sahara, Poznan 1989, pp. 359-367. Circa le culture delle aree del Deserto Occidentale sudanese si veda R. Kuper, “Prehistoric Research in the Southern Libyan Desert. A brief account and some conclusions of the B.O.S. Project”, Actes de la VIIIe Conférence Internationale des Etudes Nubiennes, vol. I, Cahier de Recherches de l’Institut de Papirologie et d’Egyptologie de Lille, 17/1, 1996, pp. 123-140, M. Lange, “Wadi Shaw 82/52: A Peridynastic Settlement Site in the Western Desert and its Relations to the Nile Valley”, in T. Kendall (ed.), Nubian Studies 1998. Proceedings of the Ninth International Conference of Nubian Studies, Boston 2004, pp. 315-324, B. Keding, "Leiterband sites in the Wadi Howar, North Sudan", in L. Krzyzaniak, M. Kobusiewicz e J. Alexander (ed.), Environmental Change and Human Culture in the Nile Basin and Northern Africa until the Second Millennium B.C., Poznan, 1993, pp. 371-380, “The Yellow Nile: new data on the settlement in the Sudanese Eastern Sahara”, Sudan & Nubia, 2, 1998, pp. 2-12. Sul Deserto Orientate si veda K.A. Sadr, A. Castiglioni e A. Castiglioni, “Nubian Desert Archaeology: A preliminary view”, Archéologie du Nil Moyen, 7, 1995, pp. 203-229. Sul Sudan sudorientale K. Sadr, The Development of Nomadism, Dallas 1991, R. Fattovich, “Ricerche archeologiche italiane nel delta del Gash (Kassala), 1980-1989: un bilancio preliminare”, Rassegna di Studi Etiopici, 33, 1989, pp. 89-130, e, dello stesso autore, “The Peopling of the Northern Ethiopian-Sudanese Borderland between 7000 and 1000 BP: A Preliminary Model”, Nubica, 1-2, 1990, pp. 3-45. 8. La Nubia e l’Egitto dell’Antico Regno Di riferimento restano K. Zibelius Chen, Die ägyptische Expansion nach Nubien, Wiesbaden 1988, e K. Zibelius, Afrikanische Orts- und Völkernamen in hieroglyphischen und hieratischen Texten, Wiesbaden 1972, si veda inoltre T. Säve-Söderbergh, Ägypten und Nubien: ein Beitrag zur Geschichte altägyptischer Aussenpolitik, Lund 1941. Molti testi geroglifici utili alla ricostruzione della storia della Nubia in questa fase sono raccolti in Urkunden des alten Reiches. Si veda inolte G.E. Kadish, “Old Kingdom Egyptian Activity in Nubia: some reconsiderations”, Journal of Egyptian Archaology, 52, 1966, pp. 23-

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33 e P.C. Smither, “An Old Kingdom letter concerning the Count Sabni”, Journal of Egyptian Archaeology, 28, 1942, pp. 16-19. Sui toponimi, sulla spedizione di Harkhuf e sulla relazione tra testi e evidenze archeologiche si vedano i numerosi contributi di E. Edel, “Inschriften des alten Reiches V. Die Reiseberschreibungen des Herw-hwjf (Herchuf)”, in O. Firchow (ed.), Ägyptologische Studien H. Grapow zum 70. Geburtstag gewidmet, Berlino 1955, pp. 51-75, “Inschriften des alten Reiches XI. Nachträge zu den Reiseberichte des Hrw-hwjf”, Zeitschrift für Ägyptische Sprache und Altertumskunde, 85, 1960, pp. 18-23, “Die Ländernamen Unternubiens und die Ausbreitung der C-Gruppe nach den Reiseberichten des Hrw-hwjf”, Orientalia, 36, 1967, pp. 133-158, “Beträge zu den afrikanischen Ländernamen”, Studia in honorem Fritz Hintze, Meroitica, 12, Berlino 1996, pp. 79-95. Sempre sui viaggi di Harkhuf e la localizzazione di Iam si veda H. Goedike, “Harkhuf's travels”, Journal of Near Eastern Studies, 40, 1, 1981, pp. 1-20, e “Yam – More”, Göttinger Miszellen, 101, 1988, pp. 35-42. Sui testi di esacrazione si veda O.A.M. Abu Bakr e J. Osing, “Ächtungstexte aus dem alten Reich”, Mitteilungen der Deutschen Archäologischen Instituts. Abteilung Kairo, 29, 1973, pp. 97-130, J. Osing, “Ächtungstexte aus dem alten Reich”, Mitteilungen der Deutschen Archäologischen Instituts. Abteilung Kairo, 32, 1976, pp. 133-185. Sui funzionari egiziani attivi in Nubia in questo periodo D. Camus, “Deux classes particulières de imy-r ic3w sous la Ve dynastie d'après les inscriptions égyptiennes de Nubie”, Cahier de Recherches de l’Institut de Papyrologie et d’Egyptologie de Lille, 12, 1990, pp. 13-15, H. Goedike, “The title in the Old Kingdom”, Journal of Egyptian Archaeology, 46, 1960, pp. 60-64. Sull’attività egiziana nelle oasi del Deserto Occidentale si veda LL. Giddy, “A note on the word ”, Bulletin de l’Institut Français d’Archéologie Orientale, suppl., 1981, pp. 19-28, della stessa autrice Egyptian Oases, Warminster 1987, e J. Vercoutter, “Le Sahara et l'Egypte pharaonique”, Sahara, 1, 1988, pp. 9-20. Sul paese di Iam si veda D.M. Dixon, “The Land of Yam”, Journal of Egyptian Archaeology, 44, 1952, pp. 40-55, D. O’Connor, “The Locations of Yam and Kush and their Historical Implications”, Journal of the American Research Center in Egypt, 23, 1986, pp. 27-50, e J. Yoyotte,

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“Pour une localisation du pays de Yam”, Bulletin de l’Institut Français d’Archéologie Oreintale, 52, 1953, pp. 173-178. Sulle spedizioni verso Punt in questa fase si veda P.E. Newberry, “Three Old-Kingdom Travellers to Byblos and Pwenet”, Journal of Egyptian Archaeology, 24, 1938, pp. 182-184. 9. Il Gruppo C e il ripopolamento della Bassa Nubia Restano di riferimento T. Säve-Söderbergh (ed.), Middle Nubian Sites, Partille 1989, M. Bietak, Studien zur Chronologie der Nubischen C-Gruppe Kultur, Akademie der Wissenschaften in Wien, Phil.-Hist. Klasse, Denkschrift, 97, Vienna 1968, G. Steindorff, Aniba I-II, Gluckstadt e Amburgo 1934-1937, B.B. Williams, C-Group, Pan Grave, and Kerma Remains at Adindan Cemeteries T, K, U, and J, Oriental Institute Nubian Expedition, vol. V, Chicago 1983. Sulle relazioni tra Gruppo A e Gruppo C si veda H.A. Nordström, “A-Group and C-Group in Upper Nubia”, Kush, 14, 1966, pp. 63-68. Per l’abitato di Wadi es Seboua si veda S. Sauneron, “Un village nubien fortifié sur la rive orientale de Ouadi es-Sebouc”, Bulletin de l’Institut Français d’Archéologie Orientale, 63, 1965, pp. 161-167, e la pubblicazione dei materiali ceramici di B. Gratien, “Le village fortifié du Groupe C à Ouadi es-Séboua Est, typologie de la céramique”, Cahier de Recherches de l’Institut de Papyrologie et d’Egyptologie de Lille, 7, 1985, pp. 39-56. Per una sintesi più recente si veda Ch. Bonnet, “C-Group”, in D. Wildung (ed.), Sudan. Ancient Kingdoms of the Nile, Parigi – New York 1997, 51-52. D. O’Connor, Ancient Nubia. Egypt’s Rival in Africa, Philadelphia 1993, pp. 27-37, 46-50, si focalizza principalmente sul problema dello sviluppo della complessità sociale nel Gruppo C. 10. La Nubia e l’Egitto del Medio Regno Oltre ai testi di riferimento di K. Zibelius Chen, Die ägyptische Expansion nach Nubien, Wiesbaden 1988, e K. Zibelius, Afrikanische Orts- und Völkernamen in hieroglyphischen und hieratischen Texten, Wiesbaden 1972, si veda inoltre T. Säve-Söderbergh, Ägypten und Nubien: ein Beitrag zur Geschichte altägyptischer Aussenpolitik, Lund 1941. Si vedano poi H.S. Smith, The fortress of Buhen: the

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inscriptions, Londra 1976 e S. Bosticco, Le stele egiziane dall'Antico al Nuovo Regno, Museo Archeologico di Firenze, Firenze-Roma 1959 per l’iscrizione di Mentuhotep a Buhen e J.C. Darnell, “The Rock Inscriptions of Tjehemau at Abisko”, Zeitschrift für Ägyptische Sprache und Altertumskunde, 130, 2003, pp. 31-48 per l’iscrizione di Tjehemau. Per la localizzazione di Kush si veda G. Posener, “Pour une localisation du pays Koush au Moyen Empire”, Kush, 6, 1958, pp. 39-65. Sull’intensificarsi dello sfruttamento minerario in queste fasi si veda J. Vercoutter, “The gold of Kush”, Kush, 7, 1959, pp. 120-153. Per le caratteristiche delle fortezze della seconda cataratta si veda W.B. Emery, H.S. Smith e A. Millard, The Fortress of Buhen: the Archaeological Report, Londra 1979, G.A. Resiner, N.F. Wheeler e D. Dunham, Second Caract Forts, Vols. I-II, Boston 1960 e 1967. Sulla funzione delle fortezze si veda la dettagliata disanima in S. Tyson Smith, Askut in Nubia. The Economics and Ideology of Egyptian Imperialism in the Second Millennium BC, Londra 1995. Per i rapporti tra nubiani e residenti egiziani si veda S. Tyson Smith, Wretched Kush: ethnic identities and boundaries in Egypt's Nubian empire, Londra 2003. Per i dispacci di Semna si veda P.C. Smither, “The Semnah Despatches”, Journal of Egyptian Archaeology, 31, 1945, pp. 3-10. Per i testi di esacrazione di questa fase si veda Y. Koenig, “Les textes d'envoûtement de Mirgissa”, Revue d’Egyptologie, 41, 1990, pp. 101-125, G. Posener, Princes et Pays d'Asie et de Nubie, Bruxelles 1940, e, dello stesso autore, Cinq figurines d'envoûtement, Cairo 1987. Per l’iscrizione di Henenu nello Wadi Hammamat, si veda W.C. Hayes, “Career of the great steward Henenu under Nebhepetrec Mentuhotpe”, Journal of Egyptian Archaology, 35, 1949, pp. 43-49 e C. Vandersleyen, “Les inscriptions 114 et 1 du Ouadi Hammamât (11e dynastye)”, Chronique d’Egypte, 64, 1989, pp. 148-158, che propone peraltro che la navigazione per Punt si sia svolta lungo il Nilo, ipotesi per ci si veda anche C. Vandersleyen, “Pount sur le Nil”, Discussion in Egyptology, 12, 1988, pp. 75-80, e, dello stesso autore, “Le sens de ouadj-ourr (w3d-wr)”, in S. Schoske (ed.), Akten des Vierten Internationalen Ägyptologen Kongresses, München, 1985, vol. 4, Amburgo 1991, pp. 345-352. Per il porto di Wadi Gawasis si veda Abdel Monem Sayed, “Discovery of

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the Site of the 12th Dynasty Port at Wadi Gawasis on the Red Sea Shore”, Revue d’Egyptologie, 29, 1977, pp. 140-178, e, dello stesso autore, “The Recently Discovered Port on the Red Sea Shore”, Journal of Egyptian Archaeology, 64, 1978, pp. 69-71, “New Light on the Recently Discovered Port on the Red Sea Shore”, Chronique d’Egypte, 58, 1983, pp. 23-37. Le indagini archeologiche a Wadi Gawasis sono riprese nel 2001 ad opera di una missione italo-americana, i rapporti di scavo compaiono annualmente su www.archaeogate.org. In generale sulle modalità della navigazione verso Punt nel Medio Regno si veda L. Bradbury, “Reflections on Traveling to “God’s Land” and Punt in the Middle Kingdom”, Journal of the American Research Centre in Egypt, 25, 1988, pp. 127-156. Sul Racconto del Naufrago si veda W. Vycichl, “Notes on the Story of the Shipwrecked Sailor”, Kush, 5, 1957, pp. 70-72, G.A. Wainwright, “Zeberged: the Shipwrecked Sailor's Island”, Journal of Egyptian Archaeology, 1946, 32, pp. 31-38, C. Cannuyer, “Encore sur le naufrage du Naufragé”, Bulletin de la Société d'Egyptologie de Genève, 14, 1990, pp. 15-21, e C. Vandersleyen, “En relisant le Naufragé”, in S.J. Groll (ed.), Studies in Egyptology presented to Miriam Lichteim, vol. 2, Gerusalemme 1990, pp. 1020-1023. 11. Kerma: la più antica città nubiana Sullo sviluppo della città e della gerarchizzazione sociale, anche considerando i dati funerari si veda Ch. Bonnet, “Upper Nubia from 3000 to 1000 BC”, in V.W. Davies (ed.), Egypt and Africa, Londra 1991, pp. 112-117, “Des premières différences sociales à l'émergence d'un Etat. La Moyenne Nubie (IVe-IIe millénaire avant J.-C.)”, dans Actes de la VIIIe Conférence Internationale des Etudes Nubiennes, vol. I, Cahier de Recherches de l’Institut de Papyrologie et d’Egyptologie de Lille, 17/1, 1995, pp. 143-148, “The Kingdom of Kerma”, in D. Wildung (ed.), Sudan. Ancient Kingdoms of the Nile, Parigi-New York 1997, pp. 88-95 e, in generale, il catalogo curato dallo stesso Bonnet, Kerma, royaume de Nubie, Ginevra 1990. Sui rapporti con l’Egitto si veda D. O’Connor, “Kerma and Egypt: The Significance of the Monumental Buildings Kerma I, II, and XI”, Journal of the American Research Center in Egypt, 21, 1984, pp. 65-108. Più recentemente sul quartiere religioso intorno alla Deffufa

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occidentale è apparso il volume curato da Ch. Bonnet, Le temple principal de la ville de Kerma et son quartier religieux, Parigi 2004. Ancora utile per le indagini pregresse nella stessa area della città G.A. Reisner, Excavations at Kerma, Boston 1923. Per le abitazioni si veda Ch. Bonnet, “Aperçu sur l'architecture civile de Kerma”, Cahier de Recherches de l’Institut de Papyrologie et d’Egyptologie de Lille, 7, 1985, pp. 11-22, come pure Ch. Bonnet, Kerma. Territoire et métropole, Cairo 1986. Sul quartiere religioso a sud-ovest della città, si veda Ch. Bonnet e B. Privati, “Un nouvel ensemble religieux à Kerma. Note préliminaire”, Cahier de Recherches de l’Institut de Papyrologie et d’Egyptologie de Lille, 15, 1993, pp. 13-17. 12. La necropoli reale di Kush Sulla ceramica Kerma si vedano B. Gratien, Les cultures Kerma, Lille 1978, e i contributi di B. Privati nelle monografie e nei rapporti curati da Ch. Bonnet. Sullo sviluppo della necropoli si vedano ancora i rapporti di scavo in Ch. Bonnet et alii, “Kerma 1984-1985-1985-1986”, Genava, n.s., 34, 1986, pp. 5-45; Ch. Bonnet et alii, “Kerma 1986-1987-1987-1988”, Genava, n.s., 36, 1988, pp. 5-35; Ch. Bonnet et alii, “Kerma 1988-1989-1989-1990-1990-1991”, Genava, n.s., 39, 1988, pp. 5-41; Ch. Bonnet et alii, “Kerma 1991-1992-1992-1993”, Genava, 1993, pp. 1-33; Ch. Bonnet, Kerma. Territoire et métropole, Cairo 1986, “The Archaeological Excavations at Kerma (Northern State, Sudan), Recent Discoveries, 1996-1998”, in T. Kendall (ed.), Nubian Studies 1998. Proceedings of the Ninth International Conference of Nubian Studies, Boston 2004, pp. 237-241. Più recentemente è apparsa la monografia curata da Ch. Bonnet, Edifices et rites funéraires à Kerma, Parigi 2000. Ancora utile per i grandi tumuli del Kerma classico e nonostante i travisamenti cronologici può risultare la consultazione di G.A. Reisner, Excavations at Kerma, Boston 1923. 13. Il retroterra della capitale: il territorio di Kush Per la necropoli di Sai, uno dei principali siti Kerma noti, si veda B. Gratien, Saï I. La nécropole Kerma, Parigi 1985. Per un’altra necropoli provinciale si veda A. Vila, Le cimetière kermaïque d'Ukma Ouest, Parigi 1987. Per la struttura amministrativa Kerma interessanti

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sono le indicazioni della glittica, per cui si veda B. Gratien, “Empreintes de sceaux et administration à Kerma (Kerma Classique)”, Genava, 39, 1991, pp. 21-24, e “Nouvelles empreintes de sceaux à Kerma: Aperçus sur l'administration de Kouch au milieu du 2e millénaire av. J.-C.”, Genava, 41, 1993, pp. 27-32. Per Gism el-Arba, un sito rurale alto-nubiano si veda B. Gratien, “Gism El-Arba, un habitat Kerma. les niveaux tardifs”, dans Actes de la VIIIe Conférence Internationale des Etudes Nubiennes, vol. II, Cahier de Recherches de l’Institut de Papyrologie et d’Egyptologie de Lille, 17/2, 1997, pp. 55-65, “Some Rural Settlements at Gism el-Arba in the Northern Dongola Reach”, Sudan & Nubia, 3, 1999, pp. 10-12. Sulla distribuzione dei siti Kerma in relazione al corso antico del Nilo si veda B. Marcolongo e N. Surian, “Kerma: les sites archéologiques de Kerma et de Kadruka dans leur contexte géomorphologique”, Genava n.s., 45, 1997, pp. 119-123, B. Marcolongo e N. Surian, “Observations préliminaires du contexte géomorphologique de la plaine alluviale du Nil en amont de la IIIe cataracte en rapport avec les sites archéologiques”, Genava n.s., 41, 1993, p. 33; D.A. Welsby, M.G. Macklin e J.C. Woodward, “Human Responses to Holocene Environmental Changes in the Northern Dongola Reach of the Nile, Sudan”, in R. Friedman (ed.), Egypt and Nubia. Gifts of the Desert, Londra 2002, pp. 28-38. Sulle tracce archeologiche dell’estensione del regno di Kush verso il Deserto Orientale si veda Ch. Bonnet e J. Reinold, “Deux rapports de prospection dans le désert oriental”, Genava n.s., 41, 1993, pp. 19-26. Sulla presenza Kerma in Bassa Nubia si veda ad es. T. Säve-Söderbergh (ed.), Middle Nubian Sites, Partille 1989, pp. 20-24 e M. Bietak, Studien zur Chronologie der Nubischen C-Gruppe Kultur, Akademie der Wissenschaften in Wien, Phil.-Hist. Klasse, Denkschrift, 97, Vienna 1968. In generale sulla distribuzione dei siti Kerma si veda B. Gratien, Les cultures Kerma, Lille 1978, da integrare però con le nuove risultanze degli scavi nell’area della quarta cataratta per cui si veda E. Kołosowska, Mahmoud el-Tayeb e H. Paner, “Old Kush in the Fourth Cataract Region”, Sudan & Nubia, 7, 2003, pp. 21-25. Sulla penetrazione anche militare in Egitto, recentemente attestata da un documento epigrafico da El Kab, si veda V.W. Davies, “Kush in Egypt: a New

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Historical Inscription”, Sudan & Nubia, 7, 2003, pp. 52-54, per le attestazioni archeologiche del rapporto con l’Egitto in tale fase si veda J. Bourriau, “Relations between Egypt and Kerma during the Middle and New Kingdoms”, in W.V. Davies (ed.), Egypt and Africa, Londra 1991, pp. 129-144. 14. I deserti e la valle tra 2500 e 1500 a.C. Per la Pangrave in Bassa Nubia, Egitto e nel Sudan sudorientale, oltre a M. Bietak, Ausgrabungen in Sayala-Nubien 1961-1965; Denkmaler der C-Gruppe und der Pan-Graber Kultur, Vienna 1966, che resta un insostituibile riferimento, e a B.B. Williams, C-Group, Pan Grave, and Kerma Remains at Adindan Cemeteries T, K, U, and J, Oriental Institute of Chicago Nubian Expedition, vol. V, Chicago 1983, si veda K. Sadr, “The Territorial Expanse of the Pan-grave Culture”, Archéologie du Nil Moyen, 2, 1987, pp. 265-292, “The Medjai in Southern Atbai”, Archéologie du Nil Moyen, 4, 1990, pp. 63-84. Per il problema della presenza di Nubiani in Egitto si veda in generale J. Bourriau, “Nubians in Egypt during the Second Intermediate Period”, Studien zur altägyptischen Keramik, Mainz am Rhein 1981, pp. 241-255. Sul Deserto Orientate si veda K.A. Sadr, A. Castiglioni e A. Castiglioni, “Nubian Desert Archaeology: A preliminary view”, Archéologie du Nil Moyen, 7, 1995, pp. 203-229. Su Shaqadud nel Butana si veda A.E. Marks e Abbas Mohammed-Ali (ed.), The Late Prehistory of the Eastern Sahel, Dallas 1991. Sul Sudan sudorientale si veda R. Fattovich, “Ricerche archeologiche italiane nel delta del Gash (Kassala), 1980-1989: un bilancio preliminare”, Rassegna di Studi Etiopici, 33, 1989, pp. 89-130, e, dello stesso autore, “The Peopling of the Northern Ethiopian-Sudanese Borderland between 7000 and 1000 BP: A Preliminary Model”, Nubica, 1-2, 1990, pp. 3-45, “The Gash Group. A complex society in the lowlands to the east of the Nile”, Cahier de Recherches de l’Institut de Papyrologie et d’Egyptologie de Lille, 17/1, 1995, pp. 191-200, A. Manzo, “Les tessons "exotiques" du Groupe du Gash: un essai d'examen statistique”, Cahier de Recherches de l'Institut de Papyrologie et d'Egyptologie de Lille, 17/2, 1997, pp. 77-87, e K. Sadr, The Development of Nomadism, Dallas 1991. Per il Deserto Occidentale si veda ancora R. Kuper, “Prehistoric Research in the Southern Libyan

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Desert. A brief account and some conclusions of the B.O.S. Project”, Actes de la VIIIe Conférence Internationale des Etudes Nubiennes, vol. I, Cahier de Recherches de l’Institut de Papirologie e t d’Egyptologie de Lille, 17/1, 1996, pp. 123-140, B. Keding, “The Yellow Nile: new data on the settlement in the Sudanese Eastern Sahara”, Sudan & Nubia, 2, 1998, pp. 2-12. Per le oasi egiziane si veda C. Hope, “Early and Mid-Holocene Ceramics from the Dakhleh Oasis: Traditions and Influences”, in R. Friedman (ed.), Egypt and Nubia. Gifts of the Desert, Londra 2002, pp. 62-73, e LL. Giddy, Egyptian Oases, Warminster 1987. 15. Il vicereame egiziano in Nubia Si veda K. Zibelius Chen, Die ägyptische Expansion nach Nubien, Wiesbaden 1988, e, per i toponimi, K. Zibelius, Afrikanische Orts- und Völkernamen in hieroglyphischen und hieratischen Texten, Wiesbaden 1972, e, inoltre, T. Säve-Söderbergh, Ägypten und Nubien: ein Beitrag zur Geschichte altägyptischer Aussenpolitik, Lund 1941. Molti testi geroglifici utili alla ricostruzione della storia della Nubia in questa fase sono raccolti in Urkunden der 18. Dynastie, a cura di K. Sethe e W. Helck, e in Ramesside Inscriptions, Historical and Biographical, opera pubblicata a cura di K.A. Kitchen. Per altri testi relativi all’inizio dell’espansione egiziana verso la Nubia si veda T. Säve-Söderbergh, “A Buhen Stela from the Second Intermediate Period (Khartum no. 18)”, Journal of Egyptian Archaeology, 35, 1949, pp. 50-58, H.S. Smith e A. Smith, “A Reconsideration of the Kamose Texts”, Zeitschrift für Ägyptische Sprache und Altertumskunde, 103, 1976, pp. 48-76, Labib Habachi, The Second Stela of Kamose and His Struggle against the Hyksos Ruler and his Capital, Abhandlungen des Deutschen Archäologischen Instituts Kairo, Ägyptologische Reihe, 8, Glückstadt 1972, J. Vercoutter, “La XVIIIe dynastie à Saï et en Haute Nubie”, Cahier de Recherches de l’Institute of Papyrologie et Egyptologie de Lille, 1, 1973, pp. 9-38, e, ancora, H. Goedike, “The Location of Hnt-hn-nfr”, Kush, 13, 1965, pp. 102-111, e Z. Topozada, “Les deux campagnes d'Amenhotep III en Nubie”, Bulletin de l’Institut Français d’Archéologie Orientale, 88, 1988, pp. 153-164. Sulle iscrizioni di confine di Kurgus si veda V.W. Davies, “Kurgus 2000: The Egyptian Inscriptions”, Sudan & Nubia, 5,

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2001, pp. 46-58. Sul tempio e l’insediamento del Nuovo Regno recentemente messi in luce a Kerma si veda Ch. Bonnet, “Kerma – Rapport préliminaire sur les campagnes de 2001-2002 et 2002-2003”, Genava, 51, 2003, pp. 257-280. Sull’organizzaizone dell’amministrazione egiziana in Nubia, si veda Labib Habachi, “The First Two Viceroys of Kush and their Family”, Kush, 7, 1959, pp. 45-62. Sullo sfruttamento economico e l’organizzaizone amministrativa della regione si veda G. Morkot, “Nubia in the New Kingdom: the limits of Egyptian control”, in V.W. Davies (ed.), Egypt and Africa, Londra 1991, pp. 294-301, e, “The economy of Nubia in the New Kingdom”, Actes de la VIIIe Conférence Internationale des Etudes Nubiennes, vol. I, Cahier de Recherches de l’Institut de Papyrlogie et d’Egyptologie de Lille, 17/1, 1996, pp. 175-189. Sulle problematiche relative all’acculturazione delle aristocrazie nubiane si veda T. Säve-Söderbergh, “Te-khet, the Cultural and Sociopolitical Structure of a Nubian Princedom in Thutmoside Times”, in W.V.Davies (ed.), Egypt and Africa, Londra 1991, pp. 186-194, e S. Tyson Smith, Wretched Kush: ethnic identities and boundaries in Egypt's Nubian empire, Londra 2003. Per le fasi finali del vicereame egiziano si veda invece K.A. Kitchen, “The great biographical stela of Setau, viceroy of Nubia”, Orientalia Lovaniensia Periodica, 6/7, 1975-1976, pp. 295-302, dello stesso studioso “Historical Observations on Ramesside Nubia”, in E. Endesfelder (ed.), Ägypten und Kush, 13, Berlino, 1977, pp. 213-226, P. Tresson, La stèle de Kouban, Cairo 1922, e la buona sintesi di L. Török, The Kingdom of Kush. Handbook of the Napatan-Meroitic Civilization, Leida, New York, Köln 1997, pp. 82-107. Sugli aspetti indagabili archeologicamente della presenza egiziana si vedano i due volumi dedicati rispettivamente ai siti e alle ceramiche del Nuovo Regno in Nubia della Scandinavian Joint Expedition, e la discussione delle caratteristiche degli insediamenti egiziani di questa fase da parte di B.J. Kemp, “Fortified towns in Nubia”, in P.J. Ucko, R. Trimingham e G.W. Dambleby (ed.), Man, Settlement and Urbanism, Londra 1972, pp. 651-656. Sulle liste dei toponimi si veda E. Schiaparelli, La geografia dell'Africa Orientale secondo i monumenti egiziani, Roma 1916, E. Zyhlarz, “The Countries of the Ethiopian Empire of Kash (Kush) and Egyptian Old Ethiopia in the New Kingdom”, Kush, 6, 1958, pp. 7-39, D. O’Connor, "The

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toponyms of Nubia and contiguous regions in the New Kingdom", in J.D. Clark (ed.), Cambridge History of Africa, vol. 1, Cambridge 1982, pp. 925-940, e K.A. Kitchen, “Theban Topographical Lists, Old and New”, Orientalia, 34, 1965, pp. 1-9. 16. Le regioni a sud del vicereame nelle fonti egiziane Sulla localizzazione di Punt il testo più completo è probabilmente R. Herzog, Punt, Abhandlungen des Deutschen Archäologischen Instituts Kairo, Ägyptologische Reihe, 6, Glückstadt 1968. da tenere in considerazione anche M. Hilzheimer, “Zur geographischen Lokalisierung von Punt”, Zeitschrift für Ägyptische Sprache und Altertumskunde, 68, 1932, pp. 112-114, K.A. Kitchen, “Punt and How to get There”, Orientalia, 40, 1971, pp. 184-208 e, dello stesso autore, “The Land of Punt”, in T. Shaw, P. Sinclair, B. Andah e A. Okpoko (ed.), The Archaeology of Africa. Food, Metals and Towns, Londra 1993, pp. 587-608. Sempre riguardo le relazioni con Punt nel Nuovo Regno si veda E. Naville, The Temple of Deir el-Bahari, III. End of Northern Half and Southern Half of the Middle Platform, Londra 1898, K. Sethe, “Eine bisher unbeachtet gebliebene Episode der Puntexpedition der Königin Hatshepsowet”, Zeitschrift für Ägyptische Sprache und Altertumskunde, 42, 1905, pp. 91-130, W. Stevenson Smith, “The Land of Punt”, Journal of the American Research Center in Egypt, 1, 1962, pp. 59-62, e A.A. Saleh, “Some Problems Relating to the Pwenet reliefs at Deir el-Bahari”, Journal of Egyptian Archaeology, 58, 1972, pp. 140-150, per le figurazioni relative alla spedizione di Hatshepsut, P. Grandet, Le Papyrus Harris I, Cairo 1994, per i passi relativi alla spedizione di Ramses III, per cui si veda anche L. Bongrani, “The Punt Expedition of Ramses IIIrd: Considerations on the Report from the Papyrus Harris I”, Vicino Oriente Quaderni, 1, 1997, pp. 45-59. In generale sulle modalità dei contatti con Punt, per via di terra e via di mare, si veda anche L. Bradbury, “Kpn-boats, Punt Trade, and a Lost Emporium”, Journal of the American Research Centre in Egypt, 33, 1996, pp. 37-60. Su altri episodi di commercio con Punt rappresentati in tombe di privati si vedano N. de G. Davies, “Trading with the Land of Punt”, Bulletin of the Metropolitan Museum of Arts, 1934-1935, section 2, pp. 46-48, e N.M. Davies e N. de G. Davies, “The tomb of Amenmose (No. 89)”,

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Journal of Egyptian Archaeology, 26, 1941, pp. 131-136. Interessante sintesi tra l’evidenza testuale e quella archeologica relativa al Sudan sudorientale è in R. Fattovich, “The problem of Punt in light of recent field work in the Eastern Sudan”, in S. Schoske (ed.), Akten des Vierten Internationalen Ägyptologen Kongresses, München, 1985, vol. 4, Hamburg 1991, pp. 257-272, e, dello stesso autore, “Punt: the archaeological perspective”, VI Congresso Internazionale di Egittologia, Atti, vol. II, Torino 1993, pp. 399-405. Su Irem si vedano le varie ipotesi di localizzazione di K.H. Priese, “'rm und '3m, das Land Irame. Ein Beitrag zur Topographie des Sudan in Altertum”, Altorientalische Forschungen, 1, Berlino, 1974, pp. 7-41, J. Vercoutter, “Le pays Irem et la pénétration égyptienne en Afrique (Stèle de Saï S. 579)”, dans Livre du Centenaire, Mémoires publiés par les membres de l'Institut Français d'Archéologie Orientale, 104, Cairo 1980, pp. 157-178, e D. O’Connor, “The Location of Irem”, Journal of Egyptian Archaeology, 73, 1987, pp. 99-136. Sui Genebtyu menzionati negli annali di Thutmosis III si veda A.A. Saleh, “The Gnbtyw of Thutmosis III's Annals and the Geb(b)anitae of the Classical Writers”, Bulletin de l’Institut Français d’Archéologie Orientale, 72, 1972, pp. 245-262. 17. Le origini del regno di Kush Testo di riferimento è L. Török, The Kingdom of Kush. Handbook of the Napatan-Meroitic Civilization, Leida, New York, Köln 1997. Si veda inoltre D.A. Welsby, The Kingdom of Kush, Londra 1996. Per l’evidenza testuale si veda T. Eide, T. Hägg, R. Holton Pierce, e L. Török, Fontes Historiae Nubiorum. Textual sources for the history of the Middle Nile region between the eighth century BC and the sixth century AD. Vol. I. From the Eight to the mid-Fifth Century BC, Bergen 1994. Si veda inoltre T. Kendall, “Kings of the Sacred Mountain: Napata and the Kushite Twenty-fifth Dynasty of Egypt”, in D. Wildung (ed.), Sudan. Ancient Kingdoms of the Nile, Parigi – New York 1997, pp. 160-171. Per el Kurru si veda D. Dunham, The Royal Cemeteries of Kush, vol. 1, El Kurru, Cambridge, Mass., 1950, per Hillat el Arab si veda I. Vincentelli, “Some Remarks on Burial Customs at Hillat el Arab”, in D.A. Welsby (ed.), Recent Research in Kushite History and Archaeology. Proceedings of the 8th International

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Conference for Meroitic Studies, Londra 1999, pp. 45-53, I. Vincentelli, “Two New Kingdom Tombs at Napata”, Sudan & Nubia, 3, 1999, pp. 30-38. Sulle modalità anche ideologiche della formazione del regno di Kush si veda L. Török, “The Emergence of the Kingdom of Kush and her Myth of the State in the First Millennium BC”, Chaier de Recherches de l’Institut de Papyrologie et d’Egyptologie de Lille, 17/1, 1995, pp. 203-228, R. Morkot, “The Foundations of the Kushite State. A Response to the Paper of László Török”, Chaier de Recherches de l’Institut de Papyrologie et d’Egyptologie de Lille, 17/1, 1995, pp. 229-242, e J.W. Yellin, “Egyptian religion and its ongoing Impact on the Formation of the Napatan State ”, Chaier de Recherches de l’Institut de Papyrologie et d’Egyptologie de Lille, 17/1, 1995, pp. 243-263. 18. I sovrani di Kush in Egitto e il periodo napateo Oltre a L. Török, The Kingdom of Kush. Handbook of the Napatan-Meroitic Civilization, Leida, New York, Köln 1997, e D.A. Welsby, The Kingdom of Kush, Londra 1996, per i testi si veda T. Eide, T. Hägg, R. Holton Pierce, e L. Török, Fontes Historiae Nubiorum. Textual sources for the history of the Middle Nile region between the eighth century BC and the sixth century AD. Vol. I. From the Eight to the mid-Fifth Century BC, Bergen 1994 e Fontes Historiae Nubiorum. Textual sources for the history of the Middle Nile region between the eighth century BC and the sixth century AD. Vol. II. From the mid-Fifth to the First Century BC, Bergen 1996. Sull’ideologia del regno e le sue modalità di espressione si veda L. Török, The Image of the Ordered World in Anceint Nubian Art, Leida, New York, Köln 2002. Si veda inoltre R. Morkot, The Black Pharaohs. Egypt’s Nubian Rulers, Londra 2000, e K.-H. Priese, “The Kingdom of Napata and Meroe”, in D. Wildung (ed.), Sudan. Ancient Kingdoms of the Nile, Parigi – New York 1997, pp. 206-217. Sui monumenti dei sovrani della XXV dinastia in Egitto si veda J. Leclant, Recherches sur les monuments thébains de la XXVe dinastie dite éthiopienne, Cairo 1965. Per il deposito di statue rinvenuto a Kerma si veda Ch. Bonnet, “Kerma – Rapport préliminaire sur les campagnes de 2001-2002 et 2002-2003”, Genava, 51, 2003, pp. 257-280, D. Valbelle, “Kerma – les inscriptions et la statuaire”, Genava, 51, 2003, pp. 291-300, su

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quello di Gebel Barkal, G.A. Reisner e D. Dunham, The Barkal Temples Excavaed by George A. Reisner, Boston 1970. Sui rapporti tra Kush e le potenze vicino-orientali e le evidenze archeologiche e testuali relative si veda L. Török, “Kush and the external world”, in S. Donadoni e S. Wenig (ed.), Studia Meroitica 1984, Meroitica, 10, 1988, pp. 49-215. 19. Il territorio di Kush: ideologia, economia e amministrazione Oltre al già citato testo di L. Török, The Kingdom of Kush. Handbook of the Napatan-Meroitic Civilization, Leida, New York, Köln 1997, si veda anche D.A. Welsby, The Kingdom of Kush, Londra 1996. Per le stele dei sovrani napatei si veda T. Eide, T. Hägg, R. Holton Pierce, e L. Török, Fontes Historiae Nubiorum. Textual sources for the history of the Middle Nile region between the eighth century BC and the sixth century AD. Vol. I. From the Eight to the mid-Fifth Century BC, Bergen 1994, e Fontes Historiae Nubiorum. Textual sources for the history of the Middle Nile region between the eighth century BC and the sixth century AD. Vol. II. From the mid-Fifth to the First Century BC, Bergen 1996. Per l’ideologia si veda ancora L. Török, The Image of the Ordered World in Anceint Nubian Art, Leida, New York, Köln 2002. Per la recente identificazione con il tempio napateo di Kerma del santuario di Amon di Pnubs si veda Ch. Bonnet e D. Valbelle, “Les sanctuaries de Kerma du Nouvel Empire à l’époque méroïtique”, Comptes Rendus de l’Académie des Inscriptions & Belles Lettres, 2000, pp. 1099-1120, D. Valbelle, “L’Amon de Pnoubs”, Revue d’Egyptologie, 54, 2003, pp. 191-211. Per il cimitero di questa fase a Kerma si veda Ch. Bonnet, “The funerary traditions of Middle Nubia”, in D.A. Welsby (ed.), Recent Research in Kushite History and Archaeology. Proceedings of the 8th International Conference for Meroitic Studies, Londra 1999, pp. 1-9. Sulle altre strutture rinvenute a Kerma si veda Salah el-Din Mohammed Ahmed, L’agglomération napatéenne de Kerma. Enquête archéologique et éthnographque en milieu urbain, Paris 1992. Per Kawa si vedano i rapporti della Missione Inglese su Sudan & Nubia e, per il tempio, M.F.L. Macadam, The Temples of Kawa, vol. I-II, Londra 1949 e 1955 rispettivamente. Su Sedeinga si veda M. Schiff Giorgini, “Sedeinga, 1964-65”, Kush, 14, 1966, pp. 244-258, sul cimitero di Sanam F.Ll.

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Griffith, “Oxford Excavations in Nubia. The Cemetery of Sanam”, Liverpool Annals of Archaeology and Anthropology, 10, 1923, pp. 73-171. Sulle fasi più antiche rinvenute a Meroe si veda P.L. Shinnie e R.J. Bradley, The Capital of Kush 1, Meroitica, 4, Berlino 1980, per quelle di Musawwarat es Sufra F. Hintze, “Preliminary report of the Butana Expedition 1958 made by the Institute for Egyptology of the Humboldt-University, Berlin“, Kush, 7, 1959, pp. 171-196. 20. Alla periferia del regno: i vicini di Kush Sugli oggetti napatei in Etiopia e Eritrea si veda J. Phillips, “Egyptian and Nubian Material from Ethiopia and Eritrea”, Sudan Archaeological Research Society Newsletter, 9, 1995, pp. 2-10. Sul Deserto Orientate si veda K.A. Sadr, A. Castiglioni e A. Castiglioni, “Nubian Desert Archaeology: A preliminary view”, Archéologie du Nil Moyen, 7, 1995, pp. 203-229. Su Jebel Moya si veda F. Addison, Jebel Moya, Londra 1949 e R. Gerharz, Jebel Moya, Meroitica, 14, Berlino 1994. Sulla spedizione neroniana si veda M. De Nardis, “Seneca, Plinio e la spedizione neroniana in Etiopia”, Aegyptus, 69, 1989, pp. 123-152, e J. Desanges, “Les relations de l’Empire romain avec l’Afrique nilotique et érythréenne, d’Auguste à Probus, in H. Temporini (ed.), Aufstieg und Niedergang der römischen Welt (ANRW). Teil II: Principat, 10, 1, Berlino e New York 1988, pp. 3-43. Sul Sudan sudorientale si veda R. Fattovich, “Ricerche archeologiche italiane nel delta del Gash (Kassala), 1980-1989: un bilancio preliminare”, Rassegna di Studi Etiopici, 33, 1989, pp. 89-130, “The Peopling of the Northern Ethiopian-Sudanese Borderland between 7000 and 1000 BP: A Preliminary Model”, Nubica, 1-2, 1990, pp. 3-45 e K. Sadr, The Development of Nomadism, Dallas 1991. Sui materiali napatei da siti etiopici e eritrei si veda J. Phillips, “Egyptian and Nubian Material from Ethiopia and Eritrea”, Newsletter of the Sudan Archaeological Research Society, 9, 1995, pp. 2-10. 21. Il periodo meroitico tra continuità e innovazione Restano di riferimento anche per questa fase L. Török, The Kingdom of Kush. Handbook of the Napatan-Meroitic Civilization, Leida, New York, Köln 1997 e D.A. Welsby, The Kingdom of Kush, Londra 1996. Si veda inoltre K.-H. Priese, “The Kingdom of Napata and Meroe”, in

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D. Wildung (ed.), Sudan. Ancient Kingdoms of the Nile, Parigi – New York 1997, pp. 206-217. Ormai datato P.L. Shinnie, Meroe, Londra 1967. Anche per i testi relativi a questa fase di sviluppo del regno di Kush si veda T. Eide, T. Hägg, R. Holton Pierce, e L. Török, Fontes Historiae Nubiorum. Textual sources for the history of the Middle Nile region between the eighth century BC and the sixth century AD. Vol. II. From the mid-Fifth to the First Century BC, Bergen 1996, e Fontes Historiae Nubiorum. Textual sources for the history of the Middle Nile region between the eighth century BC and the sixth century AD. Vol. III. From the First to the Sixth Century AD, Bergen 1998. Sull’ideologia del regno e le sue modalità di espressione si veda L. Török, The Image of the Ordered World in Anceint Nubian Art, Leida, New York, Köln 2002. Sull’architettura si veda F.W. Hinkel, “Meroitic Architecture”, in D. Wildung (ed.), Sudan. Ancient Kingdoms of the Nile, Parigi – New York 1997, pp. 392-416, S. Wenig, Documenti di architettura meroitica, Roma 1984, S. Demichelis, “L’architettura meroitica”, in A. Roccati (ed.), Napata e Meroe. Templi d’oro sul Nilo, Milano 1999, pp. 116-121. Sulla religione meroitica si veda I. Hofmann, “Die meroitische Religion. Staatskult und Volksfrömmigkeit”, in W. Haase (ed.), Aufstieg und Niedergang der römischen Welt (ANRW). Teil II: Principat, 18, 5, Berlino e New York 1995, pp. 2801-2868, J. Leclant, “Aspects du syncrétisme Méroïtique”, Les Syncrétismes dans les religions Grecque et Romaine, Parigi 1973, pp. 135-145, dello stesso Leclant, “Méroïtique (religion)”, in Y. Bonnefoy (ed.), Dictionnaire des Mythologies, vol. II, Parigi 1981, pp. 84-89, N.B. Millet, “Meroitic Religion”, in F. Hintze (ed.), Meroitisische Forschungen 1980, Meroitica, 7, Berlino 1984, pp. 111-121, C. Onasch, “Zur Struktur der meroitischen Religion”, in F. Hintze (ed.), Meroitische Forschungen 1980, Meroitica, 7, Berlino 1984, pp. 135-142, K.-H. Priese, “The Meroitic Pantheon”, in D. Wildung (ed.), Sudan. Ancient Kingdoms of the Nile, Parigi – New York 1997, pp. 267-269, J.W. Yellin, “Meroitic Funerary Religion”, in W. Haase (ed.), Aufstieg und Niedergang der römischen Welt (ANRW). Teil II: Principat, 18, 5, Berlino e New York 1995, pp. 2869-2892. In particolare su Apedemak si veda L. V. Žabkar, Apedemak lion God of Meroe. A Study in Egyptian-Meroitic Syncretism, Warminster 1975. Riguardo il palazzo di Natakamani a

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Gebel Barkal si veda S. Donadoni, “Excavations of the University of Rome at Natakamani Palace (Jebel Barkal)“, Kush 16, 1993, pp. 101-115, e A. Roccati, “Il palazzo dei leoni a Napata”, Atti del II Convegno Nazionale di Egittologia e Papirologia, Siracusa, pp. 173-178. Per la scrittura e a lingua meroitica si veda in generale K.-H. Priese, “Meroitic Writing and Language”, in D. Wildung (ed.), Sudan. Ancient Kingdoms of the Nile, Parigi – New York 1997, pp. 252-255, per le prospettive offerte da recenti studi di C. Rilly si veda il suo articolo “Les inscriptions d’offrandes funéraires: une première clé vers la comprehension du méroïtique”, Revue d’Egyptologie, 54, 2003, pp. 167-175, e una monografia del medesimo autore in corso di pubblicazione. Per l’importanza e il modo di vita della componente pastorale e mobile della popolazione meroitica si veda R.J. Bradley, Nomads in the Archaeological Record, Meroitica, 13, Berlino 1992. 22. La fioritura del Sud meroitico Su Musawwarat es Sufra si veda la pubblicazione del tempio di Apedemak, F. Hintze F., K.-H. Priese, S. Wenig, C. Onasch, G. Buschendorf-Otto e U. Hintze, Musawwarat Es Sufra. Der Löwentempel, Berlino 1993 e per le indagini di Hintze il suo articolo “Preliminary report of the Butana Expedition 1958 made by the Institute for Egyptology of the Humboldt-University, Berlin“, Kush, 7, 1959, pp. 171-196. Sulle più recenti ricerche nei vari cortili che circondano il complesso si veda P. Wolf, “Toward an Interpretation of the Great Enclosure of Musawwarat es-Sufra, Sudan”, in T. Kendall (ed.), Nubian Studies 1998. Proceedings of the Ninth International Conference of Nubian Studies, Boston 2004, pp. 436-445, S. Wenig, “Musawwarat es-Sufra. Interpreting the Great Enclosure”, Sudan & Nubia, 5, 2002, pp. 71-88. Sulla storia del sito di Meroe basata sui dati archeologici si veda, oltre ai rapprti di scavo di J. Garstang, l’esaustiva pubblicazione dei materiali relativi agli scavi dell’Univeristà di Liverpool: L. Török, Meroe City. An Ancient African Capital. John Garstang’s Excavations in the Sudan, Londra 1997. Sulle indagini di Resiner nelle necropoli di Meroe si veda D. Dunham, The Royal Tombs at Barkal and Meroe, Royal Cemeteries of Kush IV, Boston 1957, The West and South Cemeteries at Meroe, Royal Cemeteries of Kush V, Boston 1963. Sugli scavi più recenti dell’abitato si veda P.L.

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Shinnie e R.J. Bradley, The Capital of Kush 1, Meroitica, 4, Berlino 1980, P.L. Shinnie e J.R. Anderson, The Capital of Kush 2: Meroe excavations 1973-1984, Meroitica, 20, 2004 e R. J. Bradley, “Meroitic Chronology”, Meroitische Forschungen 1980, Meroitica, 7, Berlino 1984, pp. 195-211. 23. Kush punto d’incontro tra Africa e Mediterraneo Sulla ceramica meroitica si vedano i contributi di W.Y. Adams, “Pottery, Society, and History in Meroitic Nubia”, in F. Hintze (ed.), Sudan im Altertum. 1. Internationale Tagung für meroitische Forschungen, Meroitica, 1, 1973, pp. 177-219 e Ceramic Industries of Medieval Nubia, Lexington 1986, che, essendo basati essenzialmente su dati basso-nubiani e tardo-meroitici vanno integrati con D.N. Edwards, A Meroitic Pottery Workshop at Musawwarat es Sufra. Report on the excavations, 1997, Meroitica, 17, 1999. Sul ruolo commerciale di Kush si veda dello stesso W.Y. Adams, “The Nile Trade in Post-Pharaonic Times”, Sahara, 1, 1988, pp. 21-36 e le illuminanti pagine su questo argomento di L. Török, “Economy in the Empire of Kush: A Review of the Written Evidence”, Zeitschrift für Ägyptische Sprache und Altertumskunde, 111, 1984, pp. 45-69, e D.N. Edwards, The Archaeology of the Meroitic State. New perspectives on its social and political organization, BAR International Series, 640, Oxford 1996. Sulle evidenze archaeologiche di questi contatti si veda L. Török, “Kush and the external world”, in S. Donadoni e S. Wenig (ed.), Studia Meroitica 1984, Meroitica, 10, 1988, pp. 49-215. Sugli sviluppi politici e militari del rapporto con Roma si veda S.M. Burstein, “Rome and Kush: A New Interpretation”, in T. Kendall (ed.), Nubian Studies 1998. Proceedings of the Ninth International Conference of Nubian Studies, Boston 2004, pp. 14-23. I testi relativi sono raccolti in T. Eide, T. Hägg, R. Holton Pierce, e L. Török, Fontes Historiae Nubiorum. Textual sources for the history of the Middle Nile region between the eighth century BC and the sixth century AD. Vol. II. From the mid-Fifth to the First Century BC, Bergen 1996, e Fontes Historiae Nubiorum. Textual sources for the history of the Middle Nile region between the eighth century BC and the sixth century AD. Vol. III. From the First to the Sixth Century AD, Bergen 1998. Sull’organizzazione amministrativa della Bassa Nubia, regione di

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confine tra Roma e Kush, si veda L. Török, Economic Offices and Officials in Meroitic Nubia. A Study in Territorial Administration of the Late Meroitic Kingdom, Budapest 1979. Sull’adozione in ambito meroitico di iconografie, idee e sul rapporto con il mondo ellenistico-romano in generale si veda D. Wildung, “Meroe and Hellenism”, in D. Wildung (ed.), Sudan. Ancient Kingdoms of the Nile, Parigi – New York 1997, p. 370, L. Sist, “Meroe e Roma”, in A. Roccati (ed.), Napata e Meroe. Templi d’oro sul Nilo, Milano 1999, pp. 138-141, e “Natakamani e l’Ellenismo: alcune considerazioni sul palazzo B 1500 a Gebel Barkal”, in S. Russo (ed.), Atti del V Convegno Nazionale di Egittologia e Papirologia, Firenze 2000, pp. 253-257. Sul programma decorativo del tempio di Apedemak a Naga si veda I. Gamer-Wallert, Der Löwentempel von Naqca in der Butana (Sudan) III. Die Wandreliefs. Wiesbaden 1983. Sulla produzione del vino in Nubia resta di riferimento W.Y. Adams, “The Vintage of Nubia”, Kush, 14, 1966, pp. 262-283, sulla sua importazione come pure su quella dell’olio si veda I. Hofmann, “Der Wein- und Ölimport im meroitischen Reich”, in W.V. Davies (ed.), Egypt and Africa. Nubia from Prehistory to Islam, Londra 1991, pp. 234-245, e, della stessa autrice, “Die ägyptischen Weinamphoren im Sudan”, in C. Berger, G. Clerc e N. Grimal (ed.), Hommages à Jean Leclant Vol. 2 (Nubie, Soudan, Ethiopie), Cairo 1993, pp. 221-234. Sulla penetrazione in ambito meroitico di elementi dionisiaci veda A. Manzo, “Apedemak and Dionysos. Further remarks on the “cult of wine” in Kush”, Sudan & Nubia, 10, 2006, pp. 82-94. Sull’importanza anche cronologica degli oggetti importati dal Mediterraneo si veda I. Hofmann, “Meroitische Chronologie im Lichte von Kunstgegenständen”, Meroitica, 5, Berlino 1979, pp. 71-84. Su Wad Ben Naga si veda J. Vercoutter, “Un palais des “Candaces” contemporain d’Auguste (Fouilles à Wad-Ban-Naga)”, Syria, 39, 1962, pp. 263-299. Sui rapporti tra il regno di Kush e Aksum si veda Abdelgadir M. Abballa, “Meroitic Kush, Abyssinia and Arabia. A contribution to the Hauptreferat: L. Török , Kush and the external world”, in S. Donadoni e S. Wenig (ed.), Studia Meroitica 1984, Meroitica, 10, 1988, pp. 383-387, e, ancora, H.N. Chittick, "Ethiopia and the Nile Valley", Meroitica, 6, Berlino 1982, pp. 50-54. Sugli oggetti di origine mediterranea rinvenuti sul Nilo Azzurro si veda D.M. Dixon, “A

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Meroitic Cemetery at Sennar (Makwar)”, Kush, 11, 1963, pp. 227-234. 24. La crisi del regno di Kush Sulla situazione generale del regno, benché ormai per alcuni aspetti superato, si veda lo stimolante contributo di B.G. Haycock, “The Later Phases of Meroïtic Civilization”, Journal of Egyptian Archaeology, 53, 1967, pp. 107-120, e inoltre L.P. Kirwan, “The Decline and Fall of Meroe”, Kush, 8, 1968, pp. 163-173, e P.L. Shinnie, “The Fall of Meroe”, Kush, 3, 1955, pp. 82-85. Fondamentali i contributi di L. Török, Late Antique Nubia, Antaeus, 16, 1988, “The End of Meroe”, in D.A. Welsby (ed.), Recent Research in Kushite History and Archaeology. Proceedings of the 8th International Conference for Meroitic Studies, Londra 1999, pp. 133-156, e quelli di P. Lenoble, “The Division of the Meroitic Empire and the End of Pyramid Building in the 4th Century AD: an Introduction to further Excavations of Imperial Mounds in the Sudan”, in D.A. Welsby (ed.), Recent Research in Kushite History and Archaeology. Proceedings of the 8th International Conference for Meroitic Studies, Londra 1999, pp. 157-197. Per la datazione delle più tarde sepolture principesche a Meroe si veda L. Török, “An Archaeological Note on the Connections between the Meroitic and Ballana Cultures”, Studia Aegyptiaca I. Recueil d’études dédiées à Vilmos Wessetzky à l’occasion de son 65e anniversaire, Budapest 1974, pp. 361-378, e, dello stesso autore, "The Art of the Ballana Culture and its Relation to Late Antique Art", Meroitica, 5, Berlino 1979, pp. 85-100. Sul ruolo di Aksum nella crisi di Meroe e sulla relativa documentazione epigrafica si veda L.P. Kirwan, “Aksum, Meroe, and the Ballana Civilization”, in W.K. Simpson e W.M. Davis (ed.), Studies in Ancient Egypt, the Aegean, and the Sudan. Essays in honor of Dows Dunham on the occasion of his 90th birthday, Boston 1981, pp. 115-119, dello stesso autore, “Meroe, Soba and the kingdom of Kush”, in S. Donadoni e S. Wenig (ed.), Studia Meroitica 1984, Meroitica, 10, 1988, pp. 299-304, S.M. Burstein, “Axum and the Fall of Meroe”, Journal of the American Research Center in Egypt, 18, 1981, pp. 47-50, e, dello stesso autore, “The Axumite Inscription from Meroe and the Meroitic Chronology”, Meroitische Forschungen 1980, Meroitica, 7, Berlino 1984, pp. 220-

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221. Sempre per la documentazione epigrafica si veda T. Eide, T. Hägg, R. Holton Pierce, e L. Török, Fontes Historiae Nubiorum. Textual sources for the history of the Middle Nile region between the eighth century BC and the sixth century AD. Vol. III. From the First to the Sixth Century AD, Bergen 1998. Sulla Eastern Desert Ware e la sua diffusione si veda H. Barnard, “Eastern Desert Ware, a first introduction”, Sudan & Nubia, 6, 2002, pp. 53-57, e A. Manzo, “Late Antique Evidence in Eastern Sudan”, Sudan & Nubia, 8, 2004, pp. 75-83. 25. La formazione dei potentati post-meroitici Per i testi resta di riferimento T. Eide, T. Hägg, R. Holton Pierce, e L. Török, Fontes Historiae Nubiorum. Textual sources for the history of the Middle Nile region between the eighth century BC and the sixth century AD. Vol. III. From the First to the Sixth Century AD, Bergen 1998. Importante la sintesti di L. Török, Late Antique Nubia, Antaeus, 16, 1988. Ha contribuito grandemente al dibattito su questa fase P. Lenoble, di cui si vedano “A New Type of Mound-Grave” (continued): le tumulus à enceinte d’Umm Makharoqa, près d’El Hobagi (A.M.S. NE-36-O/7-3)”, Archéologie du Nil Moyen, 3, 1989, pp. 93-120, “Le rang des inhumées sous tertre à enceninte à El Hobagi”, Meroitic Newsletter – Bullettin d’Informations Méroïtiques, 25, 1994, pp. 89-124, “Satyres Extravagants”, in T. Kendall (ed.), Nubian Studies 1998. Proceedings of the Ninth International Conference of Nubian Studies, Boston 2005, pp. 332-340. Sul post-meroitico in Alta Nubia si veda P.L. Shinnie, “Excavations at Tanqasi”, Kush, 2, 1954, pp. 66-85 e D.N. Edwards, “Post- Meroitic (“X-Group”) and Christian Burials at Sesibi, Sudanese Nubia. The Excavations of 1937”, Journal of Egyptian Archaeology, 80, 1994, pp. 159-178. Sulle evidenze basso-nubiane si veda W.B. Emery e L.P. Kirwan, The Royal Tombs of Ballana and Qustul, Cairo 1938, E. Strouhal, Wadi Qitna and Kalabsha South, Praga 1984, oltre ai rapporti di scavo di siti di questa fase indagati dalla Scandinavian Joint Expedition e dall’Oriental Institute of Chicago Nubian Expedition nel corso dell’ultima campagna di salvataggio dei monumenti della Nubia. Sulla Eastern Desert Ware e sulla rilettura degli stessi cimiteri di Wadi Qitna e Kalabsha Sud si veda H. Barnard,

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“Eastern Desert Ware, a first introduction”, Sudan & Nubia, 6, 2002, pp. 53-57 e H. Barnard e E. Strouhal, “Wadi Qitna revisited”, Annals of the Náprstek Museum, 25, 2004, pp. 29-55. Sulle tracce archeologiche dei blemmi nelle regioni più interne del Deserto Orientale si veda A. Castiglioni, A. Castiglioni e K. Sadr, “Sur les traces des Blemmis: les tombes Bejas au premier millénaire après J.-C. dans les collines de la Mer Rouge”, Cahier de Recherches de l’Institut de Papyrologie et d’Egyptologie de Lille, 17/2, 1997, pp. 163-167. 26. Epilogo Per la conversione al cristianesimo dei regni nubiani e le problematiche ad essa connesse si veda, oltre ai sempre validi U. Monneret de Villard, Storia della Nubia cristiana, Roma 1938, e La Nubia Medioevale, Vol. 1-4, Cairo 1935-1957, G. Vantini, Il Cristianesimo nella Nubia antica, Verona 1985. Una valida sintesi che integra l’evidenza tesuale con quella archeologica è quella di D. Welsby, The Medieval Kingdoms of Nubia, Londra 2002. Sul fenomeno dell’attardamento di costumi ancora pagani in fasi formalmente già pienamente cristiane è stato recentemente sottolineato da D.N. Edwards, “The Christianisation of Nubia: some archaeological pointers”, Sudan & Nubia, 5, 2001, pp. 89-96.